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PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
JACQUES LE GOFF
MEMORIA
Piccola Biblioteca on line Tratto da Storia e memoria
© 1977, 1978, 1979, 1980, 1981 e 1982 Giulio Einaudi editore
s.p.a., Torino
INDICE
2. Lo svolgimento della
memoria: dall’oralità alla scrittura, dalla preistoria
all’antichità7
3. La memoria medievale in
Occidente.15
4. I progressi della memoria
scritta e figurata dal Rinascimento ai giorni nostri.. 26
5. I rivolgimenti attuali
della memoria.34
6. Conclusione: il valore della
memoria.40
Il concetto di memoria a un concetto cruciale. Sebbene questo articolo sia dedicato
esclusivamente alla memoria quale compare nelle scienze umane (e
sostanzialmente nella storia e nell’antropologia) – prendendo perciò in
considerazione soprattutto la memoria collettiva più che la memoria individuale – mette conto descrivere sommariamente
la nebulosa memoria entro la sfera scientifica nel suo insieme. La memoria, come capacità di
conservare determinate informazioni, rimanda anzitutto a un complesso di
funzioni psichiche, con l’ausilio delle quali l’uomo a in
grado di attualizzare impressioni o informazioni passate, ch’egli si
rappresenta come passate.
Sotto questo rispetto, lo studio
della memoria rientra nella psicologia, nella parapsicologia, nella
neurofisiologia, nella biologia e, per le turbe della memoria, principale delle
quali a l’amnesia, nella psichiatria [cfr. Meudlers,
Brion e Lieurà 1971; Flores 1972].
Taluni aspetti dello studio della
memoria, all’interno dell’una o dell’altra di tali scienze, possono richiamare,
sia in modo metaforico sia in modo concreto, tratti e
problemi della memoria storica e della memoria sociale [cfr. Morin e Piattelli
Palmarini 1974].
Il concetto di apprendimento,
importante per il periodo di acquisizione della memoria, porta ad interessarsi
ai vari sistemi di educazione della memoria esistiti nelle varie società
e in epoche diverse: le mnemotecniche.
Tutte le teorie che, quale più
quale meno, fanno capo all’idea di un’attualizzazione più o meno
meccanica delle tracce mnemoniche, sono state abbandonate a vantaggio di
concezioni più complesse dell’attività mnemonica del cervello e
del sistema nervoso: «Il processo della memoria nell’uomo fa intervenire non
soltanto l’approntamento di percorsi, ma altresì la rilettura di tali
percorsi», e «i processi di rilettura possono far intervenire centri nervosi
complicatissimi e gran parte della corteccia cerebrale», a patto che esista «un
certo numero di centri cerebrali specializzati nel fissare il percorso mnesico»
[Changeux 1972, p. 356]. In particolare,
lo studio dell’acquisizione della memoria nel fanciullo ha dato modo di
constatare la grande funzione che vi ha l’intelligenza [cfr. Piaget e Inhelder
1968]. Nella linea di questa tesi, Scandia de Schonen afferma: «La
caratteristica dei comportamenti percettivo-conoscitivi che a noi pare
fondamentale a l’aspetto attivo, costruttivo di tali
comportamenti» [1974, p. 2941; e aggiunge: «Ecco perché possiamo concludere auspicando che
abbiano luogo ulteriori ricerche aventi per oggetto il problema delle
attività mnesiche, che esse si indirizzino verso il problema delle
attività percettivo-conoscitive, nell’ambito delle attività
dirette sia ad organizzarsi in modo nuovo entro una stessa situazione, sia ad
adattarsi a situazioni nuove. Forse solo pagando questo tributo noi riusciremo
un giorno a capire la natura del ricordo umano, che tanto mirabilmente mette in
imbarazzo le nostre problematiche» [ibid., p. 302].
Da qui discendono varie concezioni
recenti della memoria, che pongono l’accento sugli aspetti di strutturazione,
sulle attività di autorganizzazione. I fenomeni della memoria, sia nei
loro aspetti biologici sia in quelli psicologici, altro non sono che i
risultati di sistemi dinamici di organizzazione, ed esistono soltanto in quanto
l’organizzazione li conserva o li ricostituisce.
Così alcuni studiosi sono
stati indotti ad accostare la memoria a fenomeni rientranti direttamente nella
sfera delle scienze umane e sociali.
Pierre Janet, ad esempio, «ritiene
che l’atto mnemonico fondamentale sia il “comportamento narrativo”, ch’egli
caratterizza anzitutto in base alla sua funzione sociale poiché esso a una
comunicazione di un’informazione, fatta ad altri in mancanza dell’evento o
dell’oggetto che ne costituisce il motivo» [Flores 1972, p. 12]. Qui interviene
il linguaggio, prodotto della società esso pure» [ibid.]. Così
Atlan, studiando i sistemi autorganizzatori, avvicina «linguaggi e memorie»:
«L’impiego di un linguaggio parlato, e poi scritto, rappresenta in effetti un’estensione formidabile delle
possibilità di stoccaggio della nostra memoria, la quale, grazie a
ciò , a in condizione di uscir fuori dai limiti fisici del nostro corpo
per depositarsi sia in altre memorie, sia nelle biblioteche. Questo significa
che, prima di essere parlato o scritto, un dato linguaggio esiste sotto forma
di stoccaggio dell’informazione nella nostra memoria» [1972, p. 461].
Ancor più evidente a poi che
le turbe della memoria che, accanto all’amnesia, possono manifestarsi anche a
livello del linguaggio con l’afasia, debbono in molti casi spiegarsi anche alla
luce delle scienze sociali. D’altro canto, a livello metaforico ma
significativo, l’amnesia a non soltanto una turba nell’individuo ma determina
perturbazioni più o meno gravi della personalità e allo stesso
modo l’assenza o la perdita, volontaria o involontaria, di memoria collettiva
nei popoli e nelle nazioni può determinare turbe gravi
dell’identità collettiva.
I legami fra le diverse forme di
memoria possono del resto presentare caratteri non metaforici,
ma reali. Goody, per esempio, osserva: «In tutte le società, gli
individui detengono un gran numero di informazioni nel loro patrimonio
genetico, nella memoria a lungo termine e, temporaneamente, nella memoria
attiva» [1977° p.35].
LeroiGourhan
considera la memoria in senso assai lato, distinguendone tre tipi: memoria
specifica, memoria etnica e memoria artificiale: «La memoria, in quest’opera, a
intesa in un senso molto largo. Non e una proprietà
dell’intelligenza, ma la base, qualunque essa sia, su cui si registrano le 5
concatenazioni di atti. Possiamo a questo titolo parlare di una “memoria
specifica” per definire la fissazione dei comportamenti delle specie animali,
di una memoria “etnica”, che assicura la riproduzione dei comportamenti nelle
società umane, e, parimenti, di una memoria “artificiale”, elettronica
nella sua forma più recente, che procura, senza dover ricorrere
all’istinto o alla riflessione, la riproduzione di atti meccanici concatenati»
[19641965, trad. it. p. 26°, nota 1]. In epoca assai recente, gli sviluppi della
cibernetica e della biologia hanno considerevolmente arricchito, soprattutto
metaforicamente, in rapporto alla memoria umana cosciente, il concetto di memoria. Si parla di memoria centrale dei calcolatori, e il
codice genetico viene presentato come una memoria
dell’eredità biologica [cfr. Jacob 1970]. Ma codesta estensione della
memoria alla macchina e alla vita, e paradossalmente all’una e all’altra
insieme, ha avuto una ripercussione diretta sulle ricerche condotte dagli
psicologi intorno alla memoria, facendole passare da uno stadio eminentemente
empirico ad uno stadio più teorico: «A partire
dal 1950, gli interessi mutarono radicalmente, in parte per l’influenza di
scienze nuove quali la cibernetica e la linguistica, per imboccare una via
più decisamente teorica» [Lieury, in Meudlers, Brion e Lieury 1971, p.
789]. Da ultimo, gli psicologi e gli
psicanalisti hanno insistito, sia a proposito del ricordo, sia a proposito dell’oblio (in particolare sulla scorta degli
studi di Ebbinghaus), sulle manipolazioni, conscie o inconscie, esercitate
sulla memoria individuale dall’interesse, dall’affettività,
dall’inibizione, dalla censura. Analogamente, la memoria collettiva ha
costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta
dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblio e una delle
massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degl’individui che hanno
dominato e dominano le società storiche. Gli
oblii, i silenzi della storia sono rivelatori di questi meccanismi di
manipolazione della memoria collettiva. Lo studio della memoria sociale 6 uno dei
modi fondamentali di affrontare i problemi del tempo e della storia, in
rapporto a cui la memoria si trova ora indietro ed ora
più innanzi.
Nello studio storico della memoria
storica bisogna attribuire un’importanza particolare alle differenze tra
società e memoria essenzialmente orale e società a memoria
essenzialmente scritta, e ai periodi di transizione dall’oralità alla
scrittura, ciò che
Jack Goodà chiama «l’addomesticamento del pensiero selvaggio».
Saranno
studiati pertanto nell’ordine: 1) la memoria etnica nelle società senza
scrittura, denominate «selvagge»; 2) lo svolgimento della memoria
dall’oralità alla scrittura, dalla preistoria all’antichità; 3)
la memoria medievale, in equilibrio fra l’orale e lo scritto; 4) i progressi
della memoria scritta, dal xvi secolo ai giorni nostri; 5) i rivolgimenti
attuali della memoria.
Questa impostazione s’ispira a quella
di Andre LeroiGourhan: «La storia della memoria collettiva si può dividere in cinque
periodi: quello della trasmissione orale, quello della trasmissione scritta
mediante tavole o indici, quello delle semplici schede, quello della
meccanografia e quello della classificazione elettronica per serie» [196465,
trad. it. pp.
3034].
E parso
preferibile, onde metter meglio in risalto i rapporti fra storia e
memoria che costituiscono l’orizzonte principale del presente articolo,
menzionare a parte la memoria nelle società senza scrittura antiche o
moderne, distinguendo nella storia della memoria, in quelle società che
dispongono al contempo della memoria orale e della scritta, la fase antica di
predominio della memoria orale in cui la memoria scritta o figurata ha funzioni
particolari, la fase medievale di equilibrio fra le due memorie in cui si
verificano trasformazioni importanti nelle funzioni di entrambe, la fase
moderna di progressi decisivi della memoria scritta legata alla stampa e
all’alfabetizzazione, raggruppando in compenso i rivolgimenti, avvenuti
nell’ultimo secolo, di ciò che
LeroiGourhan chiama la memoria in espansione».
A differenza
di Leroi Gourhan, che applica questo termine a tutte le società umane,
si preferisce qui restringerne l’uso a designare la memoria collettiva presso i
popoli senza scrittura. Si osservi, pur senza insistervi, ma senza neppur
dimenticare l’importanza del fenomeno, che l’attività mnesica al di
fuori della scrittura a un’attività costante non solo nelle società
senza scrittura, ma anche in quelle che della scrittura dispongono.
Goodà lo ha ricordato di recente molto a proposito: «Nella maggior parte
delle culture senza scrittura, e in numerosi settori della nostra,
l’accumulazione di elementi entro la memoria fa parte della vita quotidiana»
[1977°, p.35].
Questa distinzione fra culture orali
e culture scritte, relativamente ai compiti affidati alla memoria, pare
fondarsi sul fatto che le relazioni fra queste culture si collocano a mezza
strada fra due correnti che sbagliano entrambe nel loro radicalismo, «l’una ad
affermare che tutti gli uomini hanno le stesse possibilità, l’altra a
porre, implicitamente o esplicitamente, una maggiore distinzione fra “loro” e
“noi”» [ibid., p. 45]. E vero sf che la cultura degli
uomini senza scrittura presenta differenze, ma non per questo essa a
diversa. La sfera principale in cui si
cristallizza la memoria collettiva dei popoli senza scrittura a quella che da
un fondamento – apparentemente storico – all’esistenza di etnie o di famiglie,
ciò è i
miti d’origine.
Balandier, menzionando la memoria
storica degli abitanti del Kongo, osserva: «Gli inizi appaiono tanto più
esaltanti quanto meno precisi sopravvivono nel ricordo. Kongo non e mai stato
così vasto come al tempo della sua storia oscura» [1965, p. 15].
Nadel distingue, a proposito dei Nupe
della Nigeria, due tipi di storia: da un lato la storia ch’egli chiama
«oggettiva», e che a «la serie dei fatti che noi ricerchiamo, descriviamo e
stabiliamo in base a certi criteri “oggettivi” universali riguardanti i loro
rapporti e la loro successione» [1942, ed. 1969 p. 72], e dall’altro la storia
ch’egli denomina «ideologica» e che «descrive ed ordina tali fatti in base a
certe tradizioni consolidate» [ibid.]. Questa seconda storia a la memoria collettiva,
che tende a confondere la storia col mito.
E tale «storia ideologica» si rivolge di preferenza agli «esordi del
regno», al «personaggio di Tsoede o Edegi, eroe culturale e mitico fondatore
del regno Nupe» [ibid.]. La storia degli inizi diventa cosi, per riprendere
un’espressione di Malinowski, un «cantare mitico» della tradizione.
Questa memoria collettiva delle
società «selvagge» s’interessa in modo altrettanto particolare delle
conoscenze pratiche, tecniche, e del sapere professionale. Per l’apprendimento
di codesta «memoria tecnica», come osserva LeroiGourhan «nelle società
agricole e nell’artigianato l’organizzazione sociale dei mestieri riveste una
funzione importante, si tratti dei fabbri dell’Africa o dell’Asia, o delle
nostre corporazioni fino al secolo xvii. L’apprendistato e la conservazione dei
segreti del mestiere hanno luogo in ciascuna cellula sociale dell’etnia»
[196465, trad. it. p. 304]. Condominas [1965] ha trovato presso i Moi del
Vietnam centrale la stessa polarizzazione della memoria collettiva attorno ai
tempi delle origini e agli eroi mitici. Questa attrazione del passato
ancestrale sulla «memoria selvaggia» si verifica altresì per i nomi
propri. In Kongo, osserva Balandier, dopo che il clan ha imposto al neonato un
primo nome, detto «di nascita», gliene vien dato un secondo, più
ufficiale, che soppianta il primo. Questo secondo nome «perpetua la memoria di
un antenato – il cui nome viene in tal modo “riesumato” – scelto in ragione
della venerazione di cui a oggetto» [1965, p. 227].
In queste società senza
scrittura vi sono degli specialisti della memoria, degli uominimemoria:
«genealogisti», custodi dei codici reali, storici di corte, «tradizionalisti»,
dei quali Balandier [1974, p. 207] dice che sono «la memoria della societa» e
che sono al contempo i depositari della storia «oggettiva» e della storia «ideologica», per riprendere il vocabolario di Nadel.
Ma altresì «capi di famiglia, bardi, sacerdoti», secondo l’enumerazione
di LeroiGourhan, che riconosce a codesti personaggi, «nella umanità
tradizionale, il compito assai importante di mantenere la coesione del gruppo»
[196465, trad. it. p. 304].
Ma occorre sottolineare che,
contrariamente a quanto generalmente si crede, la memoria trasmessa per
apprendimento nelle societa senza scrittura non a una memoria «parola per parola». Goodà lo ha dimostrato studiando il mito di
Bagre, raccolto presso i LoDagaa del Ghana settentrionale. Egli ha notato le
numerose varianti nelle diverse versioni del mito, perfino nei frammenti
più stereotipati. Gli uomini-memoria, all’occorrenza narratori, non
svolgono la stessa funzione dei maestri di scuola (e la scuola
non compare se non con la scrittura). Attorno ad essi
non si sviluppa un apprendimento meccanico automatico. Ma, secondo
Goodà, nelle societa senza scrittura si danno solamente delle difficoltà
oggettive alla memorizzazione integrale, parola per parola, ma a presente
altresì la circostanza che «tale genere di attività viene di rado
avvertita come necessaria», «il prodotto di una rimemorizzazione esatta» appare
a codeste società «meno utile, meno apprezzabile
di quanto non sia l’esito di un’evocazione inesatta» [1977°, p.38]. Quindi si
trova di rado in queste societa l’esistenza di procedimenti mnemotecnici (uno
di questi rari casi e quello, classico nella letteratura etnologica, del quipo
peruviano). La memoria collettiva pare dunque funzionare, in queste società,
in base ad una «ricostruzione generativa» e non ad una memorizzazione
meccanica. Così, secondo Goodà, «il supporto della rimemorizzazione
non si colloca ne al livello superficiale al quale
opera la memoria del “parola per parola”, ne al livello delle strutture
“profonde” scoperte da numerosi mitologi... Pare invece che la funzione
importante sia svolta dalla dimensione narrativa e da altre strutture che
ineriscono agli avvenimenti» [ibid., p. 34].
Così, mentre la riproduzione
mnemonica parola per parola sarebbe legata alla scrittura, le società
senza scrittura, tranne alcune pratiche di memorizzazione ne
varietur, delle quali la principale a il canto, concedono maggior
libertà e più possibilità creative alla memoria.
Tale ipotesi potrebbe forse spiegare
una stupefacente osservazione di Cesare che, a proposito dei druidi galli, ai
quali molti giovani si rivolgono per istruirsi, scrive: «Si dice che in quella
scuola imparino un gran numero di versi. Perciò alcuni vi rimangono
venti anni per questo apprendimento. Non
credono pero lecito di trascrivere i dogmi della loro scienza, mentre per quasi
tutte le altre faccende e per le norme pubbliche
Nelle società senza scrittura
la memoria collettiva sembra organizzarsi attorno a tre grandi poli
d’interesse: l’identità collettiva del gruppo, che si fonda su certi
miti, e più precisamente su certi miti d’origine; il prestigio della
famiglia dominante, che si esprime nelle genealogie; e il sapere tecnico, che
si trasmette attraverso formule pratiche fortemente
intrise di magia religiosa.
La comparsa della scrittura a legata
a una trasformazione profonda della memoria collettiva. A cominciare dal
«medioevo paleolitico» compaiono delle figure, nelle quali si
son voluti vedere dei «mitogrammi», paralleli alla «mitologia» che si sviluppa
invece nell’ordine verbale. La scrittura consente alla memoria collettiva un
duplice progresso, lo svolgersi di due forme di memoria. La prima e la
commemorazione, la celebrazione di un evento memorabile per opera di un
monumento celebrativo. La memoria assume allora la forma dell’iscrizione, e ha
condotto, in epoca moderna, alla nascita di una scienza ausiliaria della
storia, l’epigrafia. Il mondo delle iscrizioni a comunque assai vario; Robert
ne ha posto in evidenza l’eterogeneità: «Le rune, l’epigrafia turca dell’Orkhon, le epigrafie fenicia o neopunica o ebraica o
sabea o iraniana, o l’epigrafia araba o le iscrizioni khmer sono cose
diversissime tra loro» [1961, p. 453]. Nell’antico Oriente, ad esempio, le
iscrizioni commemorative hanno portato al moltiplicarsi di monumenti quali le stele e gli obelischi. In Mesopotamia hanno dominato le stele, su cui i re vollero immortalare le proprie imprese
per mezzo di rappresentazioni figurate accompagnate da un’iscrizione, fin dal
iii millennio, come attesta la stele degli Avvoltoi (Parigi, Museo del Louvre),
ove il re Eannatum di Lagash, intorno al 2470, fece custodire, grazie ad immagini
ed iscrizioni, il ricordo di una vittoria. I re accadi fecero più di tutti ricorso a codesta forma commemorativa, e la loro
stele più celebre a quella di NardmSin, a Susa: in essa il re volle
fosse perpetuata l’immagine di un trionfo conseguito sui popoli dello Zagros
(Parigi, Museo del Louvre). In epoca assira la stele assunse forma di obelisco,
come quello di Assurbelkala (fine del ii millennio) a Ninive (Londra, British
Museum) e l’obelisco nero di Salmanassar III, proveniente da Nimrud, che immortala una vittoria di quel re sugli Ebrei (
In questo tipo di documento la
scrittura ha due funzioni principali: «Una a lo
stoccaggio dell’informazione, che consente di comunicare attraverso il tempo e
lo spazio, e che procura all’uomo un sistema di marcatura, di memorizzazione e
di registrazione»; mentre l’altra, «assicurando il passaggio dalla sfera
uditiva a quella visiva», consiste nel permettere «di riesaminare, di disporre
altrimenti, di rettificare delle frasi e finanche delle parole isolate»
[Goodà 1977b, p. 78].
Per LeroiGourhan, l’evoluzione della
memoria, legata alla comparsa e alla diffusione della scrittura, dipende
essenzialmente dall’evoluzione sociale e particolarmente dallo sviluppo urbano:
«La memoria collettiva, al nascere della scrittura, non deve rompere il suo
movimento tradizionale se non per ciò che si ha interesse a fissare in modo
eccezionale in un sistema sociale agli esordi. Non e dunque pura coincidenza se
la scrittura annota quello che non si fabbrica e non si vive quotidianamente
ma ciò che costituisce
l’ossatura di una società urbanizzata, per la quale il nocciolo del
sistema vegetativo a costituito da una economia di circolazione fra produttori,
celesti o umani, e dirigenti. L’innovazione riguarda il vertice del sistema e
include selettivamente gli atti finanziari e religiosi, le consacrazioni, le
genealogie, il calendario, tutto quello che, nelle nuove strutture delle
città, non si può fissare nella memoria in modo completo
ne in concatenazioni di gesti, ne in prodotti» [1964 1965, trad. it. pp. 3056]. Le grandi
civiltà, in Mesopotamia, Egitto, Cina o nell’America precolombiana,
civilizzarono dapprima la memoria scritta per il calendario e le distanze. «Il
complesso dei fatti destinati ad oltrepassare le generazioni seguenti» [ibid., p. 3°6] si restringe alla religione, alla storia e alla
geografia. «Il triplice problema del
tempo, dello spazio e dell’uomo costituisce la materia della memorizzazione»
[ibid.]. Memoria
urbana, memoria regia altresì. Non solo «la città capitale
diventa il perno del mondo celeste e della superficie umanizzata» [ibid.] (e il punto focale di una
politica della memoria), ma il re in persona spiega su tutta l’estensione sulla
quale ha autorità un programma di memorizzazione di cui egli a il
centro.
I re si creano delle istituzioni memoria:
archivi, biblioteche, musei. ZimriLim (
Nell’antico Oriente, avanti la
metà del ii millennio, non si trovano che liste
dinastiche e racconti leggendari di eroi regi, come Sargon o NaramSin.
Più tardi i sovrani fanno redigere dai loro scribi racconti più
dettagliati dei loro regni, nei quali fanno spicco
vittorie militari, benefici della loro giustizia e progresso del diritto: i tre
domini degni di offrire esempi memorabili agli uomini del futuro. Sembra che in
Egitto, dopo l’invenzione della scrittura, poco prima dell’inizio del iii
millennio e fino alla fine della sovranità indigena, in epoca romana,
siano stati redatti con continuità degli annali regi. Ma l’esemplare
senza dubbio unico, conservato sul fragile papiro, a scomparso. Non ne
rimangono che pochi brani incisi sulla pietra [cfr. Daumas 1965, p. 579]. In Cina gli antichi annali regi su
bambù datano senza dubbio dal ix secolo a. C.: essi contenevano
soprattutto le domande e le risposte degli oracoli, che formarono «un ampio
repertorio di ricette di governo», e la funzione di archivista spetto a poco a
poco agl’indovini: essi erano i custodi degli eventi memorabili di ciascun
regno» [Elisseeff 1979, p. 50]. Memoria
funeraria, infine, come ne fanno testimonianza, tra l’altro,
le stele greche e i sarcofaghi romani, memoria che ha avuto un ruolo
capitale nell’evoluzione del ritratto.
Col passaggio dall’orale allo scritto, la memoria collettiva, e
più in particolare la «memoria artificiale», subisce una profonda
trasformazione. Come si a visto, Goodà ritiene
che la comparsa di procedimenti mnemotecnici che consentivano la memorizzazione
«parola per parola» sia legata alla scrittura. Egli a pero dell’avviso che
l’esistenza della scrittura «comporti altresì delle modificazioni entro
lo psichismo stesso», e «che non si tratti semplicemente d’una nuova abilita
tecnica, di qualcosa di paragonabile, per esempio, ad un procedimento
mnemotecnico, ma di una nuova attitudine intellettuale» [1977b,
pp.1089]. Nell’intimo di questa nuova attività dello spirito
Goodà colloca la lista, la successione di parole, di concetti, gesti,
operazioni da effettuarsi in un certo ordine, e che permette di
«decontestualizzare» e di «ricontestualizzare» un dato verbale, sull’immagine
di una «ricodificazione linguistica». A sostegno di tale tesi, Goodà
rammenta l’importanza che nelle civiltà antiche ebbero liste lessicali,
glossari, trattati di onomastica, fondati sull’idea che denominare a conoscere.
Egli sottolinea l’importanza delle liste sumere dette Protolzi, nelle quali
individua uno degli strumenti dell’irradiamento mesopotamico: «Questo genere di
metodo educativo fondato sulla memorizzazione di liste lessicali ebbe un’area
di estensione che oltrepassava ampiamente la Mesopotamia, ed ebbe un ruolo
importante nella diffusione della cultura mesopotamica e nell’influenza da essa esercitata sulle zone limitrofe: Iran, Armenia, Asia
minore, Siria, Palestina e finanche l’Egitto, all’epoca del Nuovo Regno»
[ibid., p. 99].
Bisogna aggiungere, pero, che questo
modello dev’essere sfumato a seconda del tipo di
società e del momento storico nei quali avviene il passaggio dall’uno
all’altro tipo di memoria. Non e possibile applicarlo senza diversificazioni
alla transizione dall’orale allo scritto nelle società antiche, nelle società «selvagge» moderne o contemporanee, nelle
società europee medievali, o nelle società musulmane. Eickelmann
[1978] ha mostrato che nel mondo musulmano un tipo di memoria fondato sulla
memorizzazione di una cultura orale e scritta insieme
dura fin verso il 1430, poi muta e fa pensare ai legami fondamentali tra scuola
e memoria in tutte le società.
I più antichi trattati
egiziani di onomastica, ispirati forse a modelli sumeri, non risalgono a prima
del
In effetti occorre
chiedersi a che cosa sia legata, a sua volta, questa trasformazione
dell’attività intellettuale rivelata dalla «memoria artificiale»
scritta. Si a pensato al bisogno di memorizzazione dei
valori numerici (tacche regolari, corde con nodi, ecc.) e a un legame con lo
sviluppo del commerciò . Bisogna
andare oltre e ricollocare questa espansione delle liste nell’ambito
dell’instaurarsi del potere monarchico. La
memorizzazione a mezzo dell’inventario, la lista
gerarchizzata non a solamente un’attività diretta ad una nuova
organizzazione del sapere, ma un aspetto dell’organizzazione di un potere
nuovo.
E altresì al periodo regio
che, nella Grecia antica, bisogna far risalire quelle liste di cui s’incontra
un’eco nei poemi omerici. Nel canto II dell’Iliade si trovano, uno dopo
l’altro, l’elenco delle navi, poi quello dei guerrieri
più valorosi e dei migliori cavalli achei, e subito dopo l’elenco
dell’esercito troiano. «L’insieme forma circa la metà del canto II, in
tutto quasi 400 versi, composti quasi esclusivamente di un seguito di nomi
propri, il che presuppone un vero allenamento della memoria» [Vernant 1965,
trad. it. p. 45].
Con i Greci si scorge in modo chiarissimo l’evoluzione verso una storia
della memoria collettiva. Trasponendo uno studio di Ignace Meaerson dalla
memoria individuale alla memoria collettiva quale compare nell’antica Grecia,
Vernant osserva che «la memoria, nella misura in cui si distingue
dall’abitudine, rappresenta una difficile invenzione, la progressiva conquista,
da parte dell’uomo, del suo passato individuale, così come la storia
costituisce per il gruppo sociale la conquista del suo passato collettivo»
[ibid., p. 41] .
Ma presso i Greci, come la memoria scritta viene ad aggiungersi,
trasformandola, alla memoria orale, così
analogamente la storia viene ad ampliare, modificandola senza pero
distruggerla, la memoria collettiva. Non si può che meglio studiare le funzioni e
l’evoluzione di quest’ultima. Divinizzazione, poi laicizzazione della memoria,
nascita della [twj[tOT6XVTj tale a il ricco panorama
offerto dalla memoria collettiva greca fra Esiodo e Aristotele, fra l’viii e il
iv secolo. Il passaggio dalla memoria
orale alla memoria scritta e certo difficile a
cogliersi. Ma un’istituzione e un testo possono forse aiutarci a ricostruire
quanto dev’essere accaduto nella Grecia arcaica.
L’istituzione a quella del µvr [uov,
che «consente di osservare l’avvento, nel diritto, di una funzione sociale
della memoria» [Gernet 1968, p. 285]. Il µvr [uov e un individuo che custodisce
il ricordo del passato in vista di una decisione di
giustizia. Può trattarsi
di un individuo il cui ruolo di «memoria» a limitato a un’operazione
occasionale. Teofrasto, per esempio, riferisce che nella legge di Turi i tre
vicini più prossimi del podere venduto ricevono una moneta «affinché
ricordino e rendano testimonianza». Ma può trattarsi anche di una funzione
duratura. La comparsa di questi funzionari della memoria richiama fenomeni già
menzionati sopra: il legame col mito, con l’urbanizzazione. Nella mitologia e
nella leggenda, il µvr [uov 6 il servitore di un eroe ch’egli accompagna sempre
per rammentargli un ordine divino, il cui oblio avrebbe per conseguenza
D’altronde, Platone nel Fedro [274c 275b] mette in bocca a Socrate la leggenda del dio egizio
Thot, patrono degli scribi e dei funzionari letterati, inventore dei numeri,
del calcolo, della geometria e dell’astronomia, del gioco del tavoliere e dei
dadi e delle lettere dell’alfabeto. Nella circostanza Socrate osserva che,
ciò facendo,
il dio ha trasformato la memoria, contribuendo pero senza alcun dubbio
piuttosto a indebolirla che a svilupparla: l’alfabeto «ingenererà oblio
nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la
memoria perché fidandosi dello scritto
richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma
dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non a una ricetta per la
memoria ma per richiamare alla mente» [ibid. 275a]. Si
a pensato che questo passo rievochi una sopravvivenza delle tradizioni di
memoria orale [cfr. Notopoulos 1938, p. 476].
La cosa più notevole a
indubbiamente «la divinizzazione della memoria e l’elaborazione di un’ampia
mitologia della reminiscenza nella Grecia arcaica», come ben dice Vernant
[1965, trad. it. p. 41], che generalizza la sua
osservazione:
«Nelle diverse epoche e nelle diverse
culture c’e solidarietà tra le tecniche di rimemorazione praticate,
l’organizzazione interna della funzione, il suo posto nel sistema dell’io e
l’immagine che gli uomini si fanno della memoria» [ibid.]. I Greci dell’eta arcaica fecero della
memoria una dea, Mnemosine. E la madre delle nove muse, da essa
generate in nove notti trascorse in compagnia di Zeus. Ella richiama alla mente
degli uomini il ricordo degli eroi e delle loro grandi gesta, presiede alla
poesia lirica. Il poeta 6 pertanto un uomo posseduto dalla memoria, l’aedo a un
indovino del passato, così come l’indovino lo a del futuro. Egli a il testimone ispirato dei «tempi antichi», dell’eta eroica
e, ancor oltre, dell’eta delle origini.
La poesia, identificata con la
memoria, fa di questa un sapere e finanche una sapienza, una ooqpia.
Il poeta ha il suo posto fra i «maestri di verita» [cfr. Detienne 1967], e alle
origini della poetica greca la parola poetica a un’iscrizione vivente che
s’imprime nella memoria come nel marmo [cfr. Svenbro 1976]. Per Omero – si è
detto – verseggiare era ricordare.
Mnemosine, rivelando al poeta i segreti del passato, lo introduce ai
misteri dell’aldil. La memoria appare allora un dono per iniziati, e l’avaµv9”jQLS, la reminiscenza, al pari di una tecnica ascetica e
mistica. La memoria ha perciò una funzione di primo piano nelle dottrine
orfiche e pitagoriche: essa a l’antidoto dell’oblio.
Nell’inferno orfico il morto deve evitare la fonte dell’oblio, non bere al Lete
ma dissetarsi invece alla fontana di Memoria, che a fonte d’immortalità. Presso i pitagorici tali
credenze si combinano con una dottrina della reincarnazione delle anime
e la via della perfezione a quella che conduce a ricordarsi di tutte le vite
antecedenti. Ciò
che, agli occhi degli adepti di codeste sette, faceva di Pitagora
un intermediario fra l’uomo e Dio a il fatto ch’egli aveva conservato il
ricordo delle sue successive reincarnazioni, in particolare della sua esistenza
durante la guerra di Troia sotto le spoglie di Euforbo, che era stato ucciso da
Menelao. Anche Empedocle ricordava: «Anch’io sono uno di questi, esule dal dio
e vagante... Un tempo io fui già fanciullo e
fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare» [in
Diels e Kranz 1951, 31, B.115 e 117].
Pertanto nell’apprendimento pitagorico gli «esercizi di memoria»
occupavano ampio spazio. Epimenide, secondo Aristotele [Retorica, 1418°, 27],
giungeva in tal modo ad un’estasi che gli schiudeva il ricordo del
passato. Ma, come osserva acutamente
Vernant, «la trasposizione di Mnemosine dal piano della cosmologia a quello dell’escatologia modifica tutto l’equilibrio dei miti di
memoria» [1965, trad. it. p. 49].
Questa estromissione della memoria
dal tempo separa radicalmente la memoria dalla storia.
«Lo sforzo di rimemorazione predicato ed esaltato nel mito non manifesta il
risveglio di un interesse per il passato, ne un
tentativo di esplorazione del tempo umano» [ibid., p. 59]. Così, a seconda del suo orientamento, la memoria può condurre alla storia oppure allontanare da
essa. Quando si pone al servizio dell’escatologia, si nutre anch’essa di un
vero e proprio odio nei confronti della storia (cfr. sopra
alle pp. 262303).
La filosofia greca, nei suoi massimi
pensatori, non ha affatto riconciliato la memoria e
Nel De oratore [2, 86] Cicerone ha
narrato sotto forma di leggenda religiosa l’invenzione della mnemotecnica per
opera di Simonide. Durante un banchetto offerto da Scopa, un nobile tessalo,
Simonide canto una poesia in lode di Castore e Polluce. Scopa disse al poeta
che non gli avrebbe pagato se non la meta del prezzo convenuto: chiedesse
l’altra meta agli stessi Dioscuri. Poco più tardi Simonide venne avvisato che due giovani chiedevano di lui; egli uscì
ma non trovò nessuno. Ma, mentre era fuori, il tetto della casa crollo
seppellendo Scopa e i suoi convitati, riducendo irriconoscibili i loro
cadaveri. Simonide li identifico rammentando l’ordine nel quale essi erano seduti a tavola, cosicché si poterono restituire le
salme ai rispettivi parenti [cfr. Yates 1966, trad. it. pp. 3 e 27].
In tal modo Simonide fissava due
principi della memoria artificiale secondo gli antichi: il ricordo delle
immagini, necessario alla memoria; l’appoggio su di un’organizzazione, un
ordine, essenziale per una buona memoria. Ma Simonide aveva accelerato la desacralizzazione della memoria e accentuato il suo
carattere tecnico e professionale perfezionando l’alfabeto e facendosi, per
primo, dare un compenso per i propri componimenti poetici [cfr. Vernant 1965,
trad. it. p. 64, nota 1].
Sarebbe da attribuirsi a Simonide una
distinzione capitale nella mnemotecnica, quella tra i «luoghi di memoria», nei
quali si possono disporre, per associazione, gli oggetti della memoria (lo
zodiaco doveva presto fornire un tale quadro per la memoria, mentre la memoria
artificiale si costituiva come un edificio suddiviso in «stanze di memoria»), e
le «immagini», forme, tratti caratteristici, simboli che consentono il ricordo
mnemonico.
Dopo di lui sarebbe apparsa un’altra
grande distinzione della mnemotecnica tradizionale, quella fra «memoria per le
cose» e «memoria per le parole», che si trova ad
esempio in un testo risalente al 4oo a. C. circa, la
Dialexeis [cfr. Yates 1966, trad. it. p. 29].
Stranamente, non a giunto nessun
trattato di mnemotecnica della Grecia antica: ne
quello del sofista Ippia, il quale, secondo Platone [Ippia minore, 368d sgg.],
inculcava ai suoi discepoli un sapere enciclopedico ricorrendo a tecniche di
memoria aventi carattere meramente positivo; ne quello di Metrodoro di Scepsi,
che visse nel i secolo a. C. alla corte del re del
Ponto, Mitridate, dotato anch’egli d’una memoria prodigiosa, che elaboro una
memoria artificiale fondata sullo zodiaco.
Sulla mnemotecnica greca si hanno
informazioni soprattutto grazie ai tre testi latini che, per secoli, hanno
costituito la teoria classica della memoria artificiale (espressione coniata da
loro: memoria artificio sa): la Rhetorica ad
Herennium, redatta da un anonimo maestro di Roma fra l’86 e l’82 a. C. e che il medioevo
attribuiva a Cicerone; il De oratore di Cicerone stesso (
Ma soprattutto essi pongono la
memoria all’interno del grande sistema della retorica che doveva dominare la
cultura antica, rinascere nel medioevo (xiixiii secolo), conoscere una nuova
vita ai nostri giorni presso i semiotici e altri nuovi cultori della retorica
[cfr. Yates 1955]. La memoria 6 la quinta operazione della retorica: dopo
l’inventio (trovare cosa dire), la dispositio (mettere in un ordine quel che
s’è trovato), l’elocutio (aggiungere ad ornamento parole e immagini),
l’actio (recitare il discorso come un attore con la dizione e i gesti) e infine
la memoria (memoriae mandare ‘ricorrere alla memoria’). Barthes osserva: «Le prime tre operazioni
sono le più importanti... le ultime due (Actio e Memoria) sono state
sacrificate molto presto, fin da quando la retorica
non ha più poggiato soltanto sui discorsi parlati (declamati) di
avvocati o di uomini politici o di “conferenzieri” (genere epidittico), ma
anche, e poi quasi esclusivamente, su “opere” (scritte). Nessun dubbio pero che
queste due parti presentino un grande interesse... la seconda perché postula un livello
degli stereotipi, una intertestualità fissa, trasmessa meccanicamente»
[196465, trad. it. p. 58].
Non bisogna infine scordare che,
accanto all’emergere prodigioso della memoria all’interno della retorica,
ciò è di
un’arte della parola legata allo scritto, la memoria collettiva continua a
svolgersi attraverso l’evoluzione sociale e politica del mondo antico. Veyne
[1973] ha posto in rilievo una confisca della memoria collettiva operata
dagl’imperatori romani, che si avvalsero soprattutto
del monumento pubblico e dell’iscrizione, in quel delirio della memoria
epigrafica. Ma il
Mentre la memoria sociale «popolare»,
o piuttosto «folclorica», sfugge pressoché interamente, la memoria collettiva
formata dagli strati dirigenti della società subisce, nel corso del
medioevo, delle profonde trasformazioni.
L’essenziale proviene dalla diffusione del cristianesimo come religione
e come ideologia dominante, e dal quasi-monopolio conquistato dalla Chiesa in
campo intellettuale. Cristianizzazione
della memoria e della mnemotecnica, suddivisione della memoria collettiva in
una memoria liturgica che si muove in circolo e in una memoria laica a debole
penetrazione cronologica; sviluppo della memoria dei morti e anzitutto dei
morti santi; ruolo della memoria nell’insegnamento imperniato sull’orale e
sullo scritto al contempo; apparizione, infine, di trattati di memoria (artes
memoriae): ecco i lineamenti più caratteristici della metamorfosi subita
dalla memoria durante il medioevo.
Se la memoria antica fu fortemente
compenetrata di religione, il giudaico-cristiano arreca qualcosa di più
e di diverso nella relazione fra la memoria e la religione, fra l’uomo e Dio
[cfr. Meier 1975]. Alcuni hanno potuto definire il giudaismo e il
cristianesimo, religioni ancorate entrambe storicamente e teologicamente nella
storia, come «religioni del ricordo» [cfr. Oexle 1976, p. 8°]. E ciò per più
rispetti: perchè atti divini di salvezza situati nel passato formano il
contenuto della fede e l’oggetto del culto, ma anche perché il libro santo da un lato, la tradizione
storica dall’altro insistono, in alcuni punti essenziali, sulla
necessità del ricordo come momento religioso fondamentale.
Nell’Antico Testamento a soprattutto
il Deuteronomio che richiama al dovere del ricordo e della memoria costituente.
Memoria che a dapprima riconoscenza verso Yahweh, memoria fondatrice
dell’identità ebraica: «Guardati di non dimenticare il Signore, tuo Dio,
sf da non osservare i suoi ordini, le sue leggi e i suoi statuti, che oggi io
ti do» [8, 11]; «che non divenga altero il tuo cuore, che non dimentichi il
Signore, tuo Dio, che ti fa uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di
schiavitù» [ibid., 14]; «Ricorda il Signore,
tuo Dio, perché a
lui che ti da forza per prosperare, per mantenere il suo patto che giuro ai
tuoi padri, come quest’oggi, ma se dimenticherai il Signore, tuo Dio, e
seguirai altri dei, li servirai e ti prostrerai ad essi, vi avverto oggi che
certamente perirete» [ibid., 18 19].
Memoria della collera di Yahweh:
«Ricorda, non dimenticare, quanto hai irritato il Signore, tuo Dio, nel
deserto» [ibid., 9, 7]. «Ricorda ciò che fece il Signore,
tuo Dio, a Maria, per strada, quando usciste dall’Egitto» (Yahweh rese Maria
lebbrosa perché ella aveva parlato
contro Mose). Memoria delle ingiurie dei nemici: «Ricorda che cosa ti fece
Amalec per strada, quando uscisti dall’Egitto, quando ti capito davanti per
strada e colpì tutti i deboli che erano dietro, mentre tu eri stanco ed
esausto: non temette Dio. Ora, quando il Signore, tuo Dio, ti avrà dato
riposo da tutti i tuoi nemici, d’intorno, nella terra che il Signore, tuo Dio,
ti da in eredita perché tu ne prenda possesso, cancella la memoria di
Amalec di sotto il cielo: non te ne dimenticare» [ibid., 24, 1719]. E in Isaia
[44, 21] si trova l’invito a ricordare e la promessa della memoria fra
àahweh e Israele: «Ricordati di queste cose, o Giacobbe, e tu, Israele,
poiché sei mio
servo, io ti ho formato: tu sei mio servo, Israele, non sarai da me scordato».
Tutta una famiglia di parole, alla
base delle quali a la radice ze,kar (Zaccaria in
ebraico Ze,karydh ‘yahweh si ricorda’), fa dell’ebreo un uomo di tradizione,
legato al suo Dio dalla memoria e dalla promessa vicendevoli [cfr. Childs
1962]. Il popolo ebreo a il popolo della memoria per
eccellenza.
Nel Nuovo Testamento l’Ultima Cena
fonda la redenzione sul ricordo di Gesù: «Poi, prese il pane, rese
grazie, lo spezzo e lo diede loro dicendo: “Questo a il
mio corpo che e stato dato per voi. Fate questo in memoria di me”» [Luca, 22,
19]. Giovanni colloca il ricordo di Gesù in una prospettiva
escatologica: «Quando sarà venuto il Consolatore che da parte del Padre
io vi manderò, lo Spirito della verità, che procede dal Padre,
quegli testimonierà di me» [14, 26]. E Paolo prolunga questo intento
escatologico: «Tutte le volte infatti che mangerete di
questo pane e berrete di questo calice, voi annuncerete la morte del Signore
fino a che egli venga» [I Corinzi, 11, 26].
Così, come presso i Greci (e
Paolo a tutto intriso di ellenismo), la memoria può finire in
escatologia, negare l’esperienza temporale e
Ma più quotidianamente il
cristiano a chiamato a vivere nella memoria delle parole di Gesù :
«Bisogna aiutare i deboli e ricordarsi delle parole del Signore Gesù »
[Atti degli Apostoli, 20, 35]; «Ricordati di
Gesù Cristo
della stirpe di Davide, risuscitato dai morti» [Paolo, Lettera seconda a
Timoteo, 2, 8], memoria che non sarà abolita nella vita futura, nell’aldilà,
se si presta fede a quanto Luca fa dire da Abramo al ricco malvagio che a
all’inferno: «Figlio, ricordati che nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni» [16, 25].
Più storicamente,
l’insegnamento cristiano si presenta come la memoria di Gesù trasmessa per il
tramite degli apostoli e dei loro successori. Paolo scrive a Timoteo: «E quanto
hai udito da me alla presenza di molti testimoni, affidalo a uomini fidati e
capaci di istruire anche gli altri» [Lettera seconda, 2, 2]. L’insegnamento
cristiano a memoria, il culto cristiano a
commemorazione [cfr. Dahl 1948].
Agostino lascerà in eredita al cristianesimo medievale un approfondimento e un
adattamento cristiani della teoria della retorica antica sulla memoria. Nelle
Confessioni egli muove dalla concezione antica dei loci e delle imagines di
memoria, ma da ad essi una straordinaria
profondità e fluidità psicologiche, parlando dell’«immensa aula
della memoria» (in aula ingenti memoriae), della sua «camera vasta ed infinita»
(penetrale amplum et infinitum).
«Giungo allora ai campi e ai vasti
quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di
ogni sorta di cose introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti
i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque
alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in
disparte o che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Quando sono la
dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante,
altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano
estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e,
mentre ne cerco e desidero altre, ballano in mezzo, con l’aria di dire: “Non
siamo noi per caso?”, e io le scacciò con la mano dello spirito dal volto
del ricordo, finche quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio
sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco,
le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove
staranno, pronte ad uscire di nuovo, quando vorrò. Tutto ciò avviene quando faccio
un racconto a memoria» [citato in Yates 1966, trad. it. p. 44]. Yates ha
scritto che queste immagini cristiane della memoria si sono armonizzate con le
grandi chiese gotiche, in cui bisogna forse vedere un legame simbolico di
memoria. E dove Panofsky ha parlato di gotico e di scolastico
bisogna forse parlare pure di architettura e di memoria.
Ma Agostino, procedendo «nei campi e
negli antri, nelle caverne incalcolabili della mia memoria» [Confessioni, X,
17.26], cerca Dio nel fondo della memoria, ma non lo trova in nessuna immagine
e in nessun luogo [ibid., 25.36 26.37]. Con Agostino la memoria s’immerge profonda
nell’uomo interiore, nel cuore di quella dialettica cristiana dell’interiore e
dell’esteriore dalla quale usciranno l’esame di coscienza, l’introspezione e
fors’anche la psicanalisi.
Ma Agostino lascia in eredita al cristianesimo medievale altresì una
versione cristiana della trilogia antica delle tre facoltà dell’anima:
memoria, inteligentia, providentia [cfr. Cicerone, De inventione, II, 53, 16°].
Nel suo trattato De Trinitate, la triade diventa memoria, intelectus, voluntas,
che sono, nell’uomo, le immagini della Trinità.
Se la memoria cristiana si manifesta
essenzialmente nella commemorazione di Gesù ,
annualmente nella liturgia che lo commemora dall’Avvento alla Pentecoste,
attraverso i momenti essenziali del Natale, della Quaresima, della Pasqua e
dell’Ascensione, quotidianamente nella celebrazione eucaristica, su di un piano
più «popolare», invece, essa si cristallizzo soprattutto sui santi e sui
morti.
I martiri erano i testimoni. Dopo la
loro morte, essi cristallizzarono attorno al loro
ricordo la memoria dei cristiani. Essi compaiono nei libri memoriales, nei quali
le chiese registravano quelli di cui conservavano il ricordo e che erano
oggetto delle loro preghiere. Così nel Liber memorialis di Salisburgo,
dell’viii secolo e così in quello di Newminster, dell’xi [cfr. Oexle
1976, p. 82].
Le loro tombe costituirono il centro
di chiese, e il luogo dov’erano ubicate ebbe, oltre ai nomi di confessio o di
martyrium, quello significativo di memoria [cfr. Leclercq 1933;
WardPerkins 1965].
Agostino oppone in modo sorprendente
la tomba dell’apostolo Pietro al tempio pagano di Romolo, la gloria della
memoria Petri all’abbandono del templum Romuli [Enarrationes in psalmos, 44,
23].
Nato dall’antico culto dei morti e
dalla tradizione giudaica delle tombe dei patriarchi, questa pratica incontro
particolare favore in Africa, dove la parola divenne sinonimo di reliquia.
Talora, poi, la memoria non
comportava ne tomba ne reliquie, come nella chiesa dei
Santi Apostoli a Costantinopoli. I santi
erano d’altra parte commemorati nel giorno della loro
festa liturgica (e i maggiori potevano avere più d’una festa, come san
Pietro. Iacopo da Varazze ne spiega, nella Legenda aurea, le tre
commemorazioni: quella della cattedra di Pietro, quella di san Pietro in
vincoli e quella del suo martirio (che ricordano la sua elevazione al pontificato
di Antiochia, i suoi imprigionamenti, la sua morte), e i semplici cristiani
presero l’abitudine di festeggiare, accanto al giorno
della loro nascita, usanza ereditata dall’antichità, anche il giorno del
loro santo patrono [cfr. Didrig 1954].
La commemorazione dei santi in generale aveva luogo nel giorno noto o
presunto del loro martirio o della loro morte. L’associazione della morte con la memoria
assunse infatti rapidamente un’estensione enorme nel
cristianesimo, il quale la desunse dal culto pagano degli avi e dei morti, e la
sviluppo.
Assai presto sorse nella Chiesa
l’usanza di recitare preghiere per i morti. E pure assai presto le chiese e le
comunita cristiane, come del resto facevano le comunità ebraiche,
presero a tenere dei libri memoriales (chiamati, a partire dal xvii secolo
solamente, necrologi od obituarii [cfr. Huyhebaert 1972]), nei quali erano
registrate le persone, le vive e soprattutto le morte, e il più delle volte benefattori della comunità dei quali
questa intendeva serbar memoria e per i quali s’impegnava a pregare.
Analogamente, i dittici in avorio che, verso la fine dell’impero romano, i
consoli usavano offrire all’imperatore quando
entravano in carica, vennero cristianizzati e servirono ormai alla
commemorazione dei morti. Le formule che invocano la memoria di questi uomini,
i cui nomi sono iscritti sui dittici o nei libri memmiales, dicono tutte la stessa cosa: «Quorum quarumque recolimus memoriam» ‘di quelli e di quelle la cui memoria noi rammentiamo’;
«qui in libello memoriali... scripti memorantes» ‘quelli che sono iscritti nel
libro memoriale affinché se ne serbi il ricordo’; «quorum nomina ad memorandum
conscripsimus» ‘quelli i cui nomi noi abbiamo scritti onde ricordarci di
essi’. Alla fine del xi secolo
l’introduzione del Liber vitae del monastero di San
Benedetto di Polirone afferma, per esempio: «L’abate ha voluto questo libro,
che resterà sull’altare affinché tutti i nomi dei nostri familiari che
vi sono scritti siano sempre presenti all’occhio di
Dio e affinché la memoria di tutti sia universalmente serbata da tutto il
monastero sia nel momento della celebrazione della messa sia in tutte le altre
opere buone» [citato in Oexle 1976, p. 77].
Talvolta i libri memoriales tradiscono l’inadempienza di coloro ch’erano stati incaricati di tenerli. Una preghiera del Liber
memorialis di Reichenau dice: «I nomi che mi era stato
ordinato di registrare in questo libro, ma che io per incuria ho scordati, li
raccomando a Te, o Cristo, e a tua madre e a tutta la potenza celeste, affinché
la loro memoria sia celebrata cosi quaggiù come nella beatitudine della
vita eterna» [citato ibid., p. 85].
Oltre all’oblio, per gl’indegni vi
era talvolta la radiazione dai libri memoriales. In particolare, la scomunica
comportava questa damnatio memoriae cristiana. Il
sinodo di Reisbach, nel 798, dispone per uno scomunicato che dopo la sua morte
nulla si scriva a sua memoria; e il ventunesimo sinodo
di Elne, nel 1027, decreta a proposito di altri condannati che i loro nomi non
vengano letti sul sacro altare insieme a quelli dei fedeli morti.
Assai presto i nomi dei morti erano
stati introdotti nel Memento del canone della messa. Nell’xi secolo, sotto
l’impulso di Cluny, venne istituita una festa annuale
in memoria di tutti i fedeli morti, la commemorazione dei defunti, il 2
novembre. Il nascere, verso la fine del xii secolo, di un terzo luogo
dell’aldilà oltre all’inferno e al paradiso, il purgatorio, dal quale
era possibile, grazie a messe, preghiere, elemosine, far uscire in più o
meno breve tempo i morti che ciascuno prendeva a
cuore, rese più intensa l’azione dei viventi in favore della memoria dei
morti. In ogni caso, nel linguaggio corrente delle formule stereotipe, la
memoria entra nella definizione dei morti che vengono
rimpianti: questi sono «di buona», «di bella memoria» (bonae memoriae, egregiae
memoriae).
Con il santo, la devozione si
cristallizzava intorno al miracolo. Gli ex voto, che promettevano o
dispensavano riconoscenza in vista di un miracolo o dopo che questo era
avvenuto, e noti già nel mondo antico, avevano grandissima diffusione
nel medioevo e conservavano la memoria dei miracoli [cfr. Bautier 1975]. In
compenso, fra il iv e l’xi secolo si ha una
diminuzione delle iscrizioni funerarie [cfr. Aries 1977, pp. 201 sgg.].
Tuttavia, la memoria svolgeva un
ruolo considerevole nel mondo sociale, nel mondo
culturale, nel mondo scolastico e, non c’e bisogno di dirlo, nelle forme
rudimentali della storiografia.
Il medioevo venerava i vecchi
soprattutto perché vedeva
in essi degli uomini-memoria, prestigiosi e utili.
Interessante, fra gli altri, un
documento pubblicato da Marc Bloch [1911, ed. 1963 I, p.
478]. Intorno al 1250, quando san Luigi era alla crociata, i canonici di
NotreDame di Parigi decisero di imporre una taglia sui
loro servi del fondo di Orly. Questi rifiutarono di pagarla e la reggente,
Bianca di Castiglia, fu chiamata a fare da arbitro nella controversia. Le due
parti produssero quali testimoni degli anziani, i quali pretendevano che, a
memoria d’uomo, i servi di Orly erano, o non erano (e questo a
seconda del partito da essi sostenuto), soggetti a taglia: «Ita
usitaturn est a tempore a quo non exstat memoria» ‘così
si operò da tempo immemorabile, fuor di memoria’.
Guenee, cercando d’illustrare il
senso dell’espressione medievale «i tempi moderni» (tempora moderna), dopo aver
scrupolosamente studiato la «memoria» del conte d’Angio Folco IV il Rissoso,
che nel 1°96 scrisse una storia del suo casato, del canonico di Cambrai
Lamberto di Waltrelos, che nel 1152 scrisse una cronaca, e del
domenicano Etienne de Bourbon, autore, fra il 125° e il 126°, di una
raccolta di exempla, giunge alle conclusioni seguenti: «Nel medioevo, taluni
storici definiscono i tempi moderni il tempo della memoria, molti sanno che una
memoria fedele può
coprire pressappoco cent’anni; la modernità, i tempi
moderni sono quindi per ciascuno di essi il secolo del quale essi stanno
vivendo o hanno vissuti gli ultimi anni» [197677, p. 35]. Del resto un inglese, Gautier Map, scrive
alla fine del XII secolo: «Ciò ha avuto inizio nell’epoca nostra. Per
“epoca nostra” io intendo il periodo che per noi e moderno, ciò è la distesa di questi
cento anni dei quali vediamo adesso il termine, e dei quali tutti gli eventi
rilevanti sono ancora abbastanza freschi e presenti nelle nostre memorie,
anzitutto perché alcuni centenari sono ancora in vita, ma anche perché una quantità innumerevole di figli
hanno, trasmessi loro dalla bocca dei loro padri e dei loro nonni, racconti
certissimi di ciò che essi non han visto di persona» [citato ibid.]. Nondimeno, in questi tempi nei quali lo
scritto si viene sviluppando a fianco all’orale, e nei quali, almeno entro il
gruppo dei litterati, c’e equilibrio fra memoria orale e memoria scritta,
s’intensifica il ricorso allo scritto come supporto della memoria.
I signori raccolgono nei cartularii
le carte da produrre a sostegno dei loro diritti e che costituiscono, dalla
parte della terra, la memoria feudale, l’altra metà delle quali, dalla
parte degli uomini, a costituita dalle genealogie. L’esordio della carta
concessa nel 1174 da Guy, conte di Nevers, agli abitanti di Tonnerre, dichiara
che le lettere sono state impiegate «per conservare la memoria delle cose».
Infatti, ciò che si intende ritenere e imparare a memoria, lo si fa redigere per iscritto, cosicché, quanto non si
può ritenere in perpetuo nella memoria «fragile e labile», si conservi
grazie alle lettere «che durano per sempre».
Per lungo tempo i re non ebbero che archivi poveri e ambulanti. Filippo Augusto lasciò i propri, nel 1194,
nella disfatta inflittagli a Freteval da Riccardo Cuordileone. Gli archivi
delle regie cancellerie cominciano a costituirsi intorno al 12oo. Nel xiii
secolo si sviluppano, per esempio in Francia, gli archivi della
Nel campo letterario,
l’oralità si mantiene a lungo accanto alla scrittura, e la memoria a uno
degli elementi costitutivi della letteratura medievale. Questo a vero
particolarmente per l’xii secolo e per la Chanson de geste, che non fa appello
soltanto a procedimenti di memorizzazione da parte del trovatore (troubadour) e
del giullare come pure da parte degli uditori, ma che si integra nella memoria
collettiva, come ha ben visto Zumthor a proposito dell’«eroe» epico:
«L’“eroe”» non esiste... se non nel
canto, ma non esiste meno nella memoria collettiva della quale partecipano gli
uomini, poeta e pubblico» [1972, trad. it. p. 326].
Una uguale
funzione la memoria ha nella scuola. Per l’alto medioevo, Riche afferma: «Lo
scolaro deve registrare tutto nella propria memoria. Non si insisterà
mai troppo su questo atteggiamento intellettuale che caratterizza e a lungo
ancora caratterizzers non solo il mondo occidentale, ma l’Oriente. Come il
giovane musulmano e il giovane ebreo, lo scolaro
cristiano deve sapere a memoria i testi sacri. Dapprima il salterio, ch’egli
impara più o meno rapidamente (alcuni ci
mettono parecchi anni); poi, se a monaco, la regola benedettina [Coutumes de
Murbach, III, 8°]. In quest’epoca, sapere a memoria a sapere.
I maestri, riprendendo i consigli di Quintiliano [Inst. orat.,
XI, 2], di Marziano Capella [De nuptiis, cap. v] auspicano che i loro allievi
si esercitino a ritenere tutto ciò
che leggono [Alcuino, De Rhetorica, ed.
Halm. pp. 54548]. Essi immaginano vari metodi
mnemotecnici, compongono poesie alfabetiche (versus memotiales) che permettono
di ricordare facilmente grammatica, computo, storia» [1979, p. 218]. In questo
mondo che passa dall’oralita alla scrittura si moltiplicano, conforme alle
teorie di Goodà, i glossari, i lessici, gli elenchi di città,
montagne, fiumi, oceani, che si debbono imparare a
memoria, come indica nell’m secolo Rabano Mauro [De universo libri viginti duo,
in Migne, Patrologia latina, CXI, col. 335].
Nel sistema universitario scolastico, dalla fine del xii secolo in poi,
rimane ampio il ricorso alla memoria, fondato ancor più sull’oralità
che sulla scrittura. Nonostante l’aumento dei manoscritti scolastici, la
memorizzazione dei corsi magistrali e degli esercizi orali (dispute, quodlibet,
ecc.) rimane il nocciolo del lavoro degli studenti.
Intanto le teorie della memoria si
sviluppano nella retorica e nella teologia.
Nel De nuptiis Mercurii et
Philologiae del v secolo, il retore pagano Marziano Capella riprende, con le
parole ampollose, la distinzione classica fra i loci e le imagines, fra una «memoria
per le cose» e una «memoria per le parole». Nel
trattato di Alcuino De rhetorica si vede Carlomagno informarsi delle cinque
parti della retorica e arrivare alla memoria: «CARLO MAGNO [E ora, che cosa ti
appresti
«ALCUINO [Che altro posso fare, se
non ripetere le parole di Marco Tullio? La memoria è l’arca di tutte le
cose e qualora essa non sia fatta custode di ciò che si a pensato su cose e parole,
sappiamo che tutte le altre doti dell’oratore, per quanto eccellenti possano
essere, si riducono a nulla. «CARLO
MAGNO [Non vi sono regole che ci insegnino come essa
può essere acquistata e
accresciuta?
«ALCUINO [Non abbiamo altre regole
riguardo ad essa, tranne l’esercizio nell’apprendere a
memoria, la pratica nello scrivere, l’applicazione allo studio e l’evitare
l’ubriachezza» [citato in Yates 1966, trad. it. p.
50].
Alcuino ignorava manifestamente la
Rhetorica ad Herennium che, a partire dal xii secolo, allorché
si moltiplicano i manoscritti, fu attribuita a Cicerone (del quale il De
oratore e praticamente ignorato, così come ignorata a l’Institutio
oratoria di Quintiliano).
A partire dalla fine del xii secolo
la retorica classica assume la forma di ars dictaminis, epistolografia ad uso
amministrativo, di cui Bologna diviene il grande centro. E qui che, nel 1235, viene scritto il secondo dei trattati di questo genere,
composto da Boncompagno da Signa, la Rhetorica novissima, dove la memoria in
generale a così definita: «Che cosa a memoria. Memoria a un glorioso e
ammirevole dono di natura, per mezzo del quale rievochiamo le cose passate,
abbracciamo le presenti e contempliamo le future, grazie alla loro somiglianza
con le passate» [citato ibid., p. 54]. Dopo di che,
Boncompagno richiama la distinzione fondamentale fra memoria naturale e memoria artificiale. Per quest’ultima, Boncompagno da un
lungo elenco di «segni di memoria» ricavati dalla Bibbia, fra i quali, per
esempio, il canto del gallo a per san Pietro un «segno
mnemonico».
Boncompagno integra alla scienza
della memoria i sistemi essenziali della morale cristiana del medioevo, le virtù
e i vizi di cui egli fa dei signacula, delle «note mnemoniche» [ibid., p. 55], e forse soprattutto, al di la
della memoria artificiale, ma come «fondamentale esercizio di memoria», il
ricordo del paradiso e dell’inferno, o piuttosto la «memoria del paradiso» e la
«memoria delle regioni infernali», in un momento in cui la distinzione tra
purgatorio e inferno non e ancora interamente tracciata. Innovazione
importante, che, dopo
Nella linea di sant’Agostino,
sant’Anselmo e il cistercense Ailred di Rievaux riprendono la triade
intelectus, voluntas, memoria,di cui Anselmo fa le tre «dignità» (dignitates) dell’anima; ma
nel Monologion la triade diviene memoria, inteligentia, amor. Può darsi memoria e
intelligenza senza amore; ma non può
darsi amore senza memoria e senza intelligenza. Analogamente, Ailred di
Rievaux, nel suo De anima, e preoccupato soprattutto
di collocare la memoria tra le facoltà dell’anima.
Nel xiii secolo i due giganti
domenicani, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, danno un posto importante alla
memoria. Alla retorica antica, ad Agostino, essi aggiungono soprattutto
Aristotele e Avicenna. Alberto tratta della memoria nel De bono, nel De anima e nel suo commento al Dela memoria e della
reminiscenza di Aristotele. Egli muove dalla distinzione aristotelica di
memoria e reminiscenza. E nella linea del cristianesimo dell’«uomo interiore»,
includendo l’intenzione (intentio) nell’immagine di memoria; egli intuisce il
ruolo della memoria nell’immaginario concedendo che la favola, il meraviglioso,
le emozioni che portano alla metafora (metaphorica) aiutano la memoria, ma, giacche la memoria a un sussidio indispensabile
della prudenza, ciòl è
della sapienza (immaginata come una donna con tre occhi, capace di
vedere le cose passate, le presenti e le future), Alberto insiste
sull’importanza dell’apprendimento della memoria, sulle tecniche mnemoniche. Da
ultimo Alberto, da buon «naturalista», pone la memoria in relazione con i
temperamenti. Per lui il temperamento più favorevole ad una buona
memoria a «la malinconia secco-calda, la malinconia intellettuale» [citato ibid., p. 64]. Alberto Magno precursore della «malinconia» del
Rinascimento, nella quale si dovrebbe vedere un pensiero ed una
sensibilità del ricordo? Il «melanconico» Lorenzo de’ Medici
sospira: «E se non fussi il rimembrare ancora | consolator degli affannati
amanti, | Morte posto avrfa fine a tante pene».
Prescindendo da ogni altra
disposizione, Tommaso d’Aquino era particolarmente adatto a trattare della
memoria: la sua memoria naturale era, a quanto pare,
fenomenale, e la sua memoria artificiale era stata esercitata dall’insegnamento
di Alberto Magno a Colonia.
Tommaso d’Aquino, come Alberto Magno,
tratta nella Summa Theologiae della memoria artificiale a proposito della
virtù della prudenza [2° 2ae, q. 68: De partibus Prudentiae; q. 69: De
singulis prudentiae partibus, art. 1: Utrum memoria sit pars prudentiae] e,
come Alberto Magno, scrisse un commento al Dela memoria
e della reminiscenza di Aristotele.
Muovendo dalla dottrina classica dei loci e delle imagines, egli formulo
quattro regole mnemoniche:
1) Occorre trovare «adeguati
simulacri delle cose che desideriamo ricordare», e: «E necessario, secondo
questo metodo, inventare simulacri e immagini perché intenzioni semplici e spirituali
scivolano via facilmente dall’anima, a meno che non siano, per così
dire, incatenate a qualche simbolo corporeo, perché la conoscenza umana a più forte in
relazione ai sensibilia; per questo il potere memorativo a posto nella parte
sensitiva dell’anima» [citato ibid., p. 69]. La memoria a legata al corpo.
2) Occorre ancora disporre «in un
ordine calcolato» le cose che si desidera ricordare, in modo che da un punto
ricordato venga reso agevole il passo al punto
successivo [ibid.]. La memoria a ragione.
Occorre «aderire con interesse vivo
alle cose che si desidera ricordare» [ibid.]. La memoria a legata
all’attenzione e all’intenzione.
4) Occorre meditare «con frequenza
ciò che
si desidera ricordare». Ecco perché Aristotele dice che «meditazione
preserva memoria» poiché «l’abitudine a
come la natura» [ibid.].
L’importanza di queste regole deriva
dall’influenza da esse esercitata, per secoli,
soprattutto dal xiv al xvii, sui teorici della memoria, sui teologi, sui
pedagoghi, sugli artisti. Yates pensa
che gli affreschi, della seconda metà del xiv secolo, del Cappellone
degli Spagnoli nel convento domenicano di Santa Maria
Novella in Firenze siano l’illustrazione, fatta utilizzando «simboli corporei»
intesi a designare le arti liberali e le discipline teologicofilosofiche, delle
teorie tomiste sulla memoria.
Il domenicano Giovanni da San
Gimignano, nella Summa de exemplis ac similitudinibus rerum,trascrive,
al principio del xiv secolo, in brevi formule le regole tomiste: «Ci sono
quattro cose che aiutano l’uomo a ben ricordare. La prima e che egli disponga
le cose che desidera ricordare in un certo ordine. La seconda a che aderisca ad
esse con passione. La terza a
che le riporti a similitudini insolite. La quarta e che le
richiami con frequente meditazione» [citato ibid., p. 79]. Poco più tardi un altro domenicano del
convento di Pisa, Bartolomeo da San Concordio, riprese le regole tomiste della
memoria nei suoi Ammaestramenti degli antichi, la prima opera che abbia
trattato dell’arte della memoria in lingua volgare, in italiano, perché destinata ai laici.
Tra le molte artes memoriae del basso
medioevo, epoca della loro grande fioritura (così come di quella delle
artes moriendi), si può citare la Phoenix sive artificio sa
memoria (1491) di Pietro da Ravenna, che fu, sembra, il più diffuso di
codesti trattati. Conobbe parecchie edizioni durante il
xvi secolo e venne tradotto in varie lingue, per esempio da Robert Copland a
Londra intorno al 1548, con il titolo The Art of 3)
Memory that is Othenwise Caled the
Erasmo, nel De ratione studii (1512),
a piuttosto freddo nei confronti della scienza mnemonica: «Benché io non neghi
che la memoria possa essere aiutata da luoghi e immagini, pure la memoria
migliore si fonda su tre cose della massima importanza: studio, ordine e cura»
[citato ibid., p. 119]. Erasmo, in fondo, considera l’arte di memoria
un esempio della barbarie intellettuale medievale e scolastica, e mette
soprattutto in guardia contro le pratiche magiche di memoria. Melantone, nei suoi Rhetorica elementa (1534)
fart’ divieto agli studenti di far uso delle tecniche,
dei «trucchi» mnemotecnici. Per lui la memoria fa tutt’uno con il normale
apprendimento del sapere.
Non ci si può staccare dal
medioevo senza ricordare un teorico, originalissimo anche in questo campo della
memoria, Raimondo Lullo. Dopo aver parlato della memoria in vari trattati,
Raimondo Lullo ebbe a comporre tre trattati, De memoria, De intelectu e De
voluntate (prese dunque le mosse dalla Trinità agostiniana), senza
contare un Liber ad memoriam confirmandam.
Diversissimo dalle artes memoriae domenicane, l’ars memoriae di Raimondo Lullo
e «un metodo di ricerca e un metodo di ricerca logica» [ibid.,
p. 170] che viene lumeggiato dal Liber septem
planetarum dello stesso Lullo. I segreti dell’ars memorandi sono celati nei
sette pianeti. L’interpretazione neoplatonica del lullismo nella Firenze del
Quattrocento (Pico della Mirandola) indusse a vedere nella sua ars memoriae una
dottrina cabalistica, astrologica e magica. Che in tal modo stava per avere una
vasta influenza nel Rinascimento.
La stampa rivoluziona la memoria
occidentale, ma lentamente. Ancor più lentamente la rivoluziona in Cina,
dove, sebbene la stampa fosse stata inventata fin dal
ix secolo d. C., non furono conosciuti i caratteri mobili, la tipografia, e ci
si accontento della xilografia, un tipo di impressione mediante lastre incise a
rilievo, fino a che non s’introdussero, nel xix secolo, i procedimenti
meccanici occidentali. La stampa non poté dunque operare massicciamente in
Cina, ma i suoi effetti sulla memoria (almeno fra gli strati colti) furono
importanti, poiché si
stamparono soprattutto trattati scientifici e tecnici che accelerarono ed
estesero la memorizzazione del sapere.
Diversamente accadde in Occidente.
LeroiGourhan ha ben caratterizzato questa rivoluzione della memoria ad opera della stampa: «Fino alla comparsa della stampa... e
difficile distinguere fra trasmissione orale e
tramisssione scritta. Il grosso delle
conoscenze a sepolto nelle pratiche orali e nelle tecniche; il culmine delle
conoscenze, immutabilmente inquadrato fin dall’antichità, a fissato nel
manoscritto per essere poi imparato a memoria... Diverso a il
caso dello stampato... Il lettore non solo si trova di fronte a una memoria
collettiva enorme di cui non ha più la possibilità di fissare
integralmente la materia, ma a spesso messo in condizione di utilizzare scritti
nuovi. Si assiste allora alla sempre maggiore esteriorizzazione della memoria
individuale; il lavoro di orientamento in ciò che a scritto si fa dall’esterno»
[196465, trad. it. p. 3o6].
Ma gli effetti della stampa non si
faranno sentire pienamente se non nel xviii secolo, allorquando il progresso
della scienza e della filosofia avrà trasformato il contenuto e i
meccanismi della memoria collettiva. «Il secolo xviii segna in Europa la fine
del mondo antico sia nella stampa che nelle tecniche... Nel giro di qualche
decennio la memoria sociale inghiotte nei libri tutta
l’antichità, la storia dei grandi popoli, la geografia e l’etnografia di
un mondo diventato definitivamente sferico, la filosofia, il diritto, le
scienze, le arti, le tecniche e una letteratura tradotta da venti lingue
diverse. Il flusso si va gonfiando fino
a noi ma, fatte le debite proporzioni, nessun momento
della storia umana ha assistito a una così rapida dilatazione della
memoria collettiva. Pertanto nel Settecento incontriamo già tutte le
formule utilizzabili per dare al lettore una memoria precostituita» [ibid., pp. 3078].
Appunto in questo periodo che separa
la fine del medioevo e gl’inizi della stampa e il principio del Settecento
Yates ha individuato la lunga agonia dell’arte della memoria. Nel Cinquecento
«sembra che l’arte della memoria si stia allontanando dai grandi centri
nevralgici della tradizione europea per diventare marginale» [ 1966, trad. it. p. 119]. Sebbene
opuscoli dal titolo Come migliorare la tua memoria non abbiano
cessato di essere pubblicati (e questo continua ancora ai giorni
nostri), la teoria classica della memoria, formatasi nell’antichità
grecoromana e modificata dalla scolastica, che era stata centrale nella vita
universitaria, letteraria (si pensi una volta ancora alla Divina Commedia) e
artistica del medioevo, scomparve quasi interamente nel movimento umanistico,
ma la corrente ermetica, di cui Lullo era stato uno dei fondatori, e che
Marsilio Ficino e Pico della Mirandola avevano definitivamente lanciato, si
sviluppo considerevolmente fino al principio del Seicento.
Essa ispira dapprima un curioso
personaggio, ai suoi tempi celebre in Italia e in Francia, poi dimenticato, Giulio
Camillo Delminio, «il divino Camillo» [cfr. ibid., pp.
12159]. Questo veneziano, nato intorno
al 148° e morto
Gia il protestante francese Pietro
Ramo, nato nel 1515 e vittima nel 1572 della strage di San Bartolomeo, nelle
sue Scholae in liberales artes (1569) avanzava l’istanza di sostituire le
antiche tecniche di memorizzazione con tecniche nuove
fondate sull’«ordine dialettico», su di un «metodo». Rivendicazione dell’intelligenza
contro la memoria che non avrebbe più smesso, fino ai nostri giorni, di
ispirare una corrente «antimemoria», che reclama, per esempio nei programmi
scolastici, la scomparsa o la diminuzione delle materie cosiddette mnemoniche,
mentre gli psicopedagogisti, quali Jean Piaget, hanno dimostrato, come si a visto,
che memoria e intelligenza, lungi dal combattersi, si sostengono
vicendevolmente.
Comunque Francesco Bacone, fin dal
1620, scrive: «E stato anche elaborato e messo in pratica un metodo, che non e
in realtà un metodo legittimo, ma un metodo d’impostura: esso consiste
nel comunicare conoscenza in forma tale che, chi non abbia cultura, può rapidamente mettersi
in condizione di far mostra d’averne. Tale fu l’impegno di Raimondo Lullo...» [citato ibid., p. 348].
Nello stesso periodo, Descartes
polemizza, nelle Cogitationes privatae (16191621), con le «inutili inezie di
Schenkel (nel libro De arte memoriae)» e propone due «metodi» logici al fine di
acquistare signoria sull’immaginazione: «Si attua attraverso la riduzione delle
cose alle loro cause. E poiché tutte si possono, infine, ridurre ad una, a
evidente che non c’e bisogno della memoria per ritenere tutte le scienze»
[citato ibid., p. 347].
Forse il solo Leibniz tento, nei
manoscritti ancora inediti conservati a Hannover [cfr. ibid.,
p. 353], di riconciliare l’arte di memoria di Lullo,
da lui designata col nome di «combinatoria», con la scienza moderna. Le ruote
della memoria di Lullo, riprese da Giordano Bruno, sono mosse da segni, da
notae, da caratteri,da sigilli. E sufficiente, sembra
pensare Leibniz, fare delle notae al linguaggio matematico universale.
Matematizzazione della memoria, ancor oggi impressionante, a meta strada fra il
sistema lulliano medievale e la moderna cibernetica.
Su questo periodo della «memoria in
espansione» (come l’ha chiamato LeroiGourhan) si osserverà ora la
testimonianza del vocabolario. Lo si farà, per
la lingua francese, considerando i due campi semantici nati da mnr mh e da
memoria. Il medioevo ha dato la parola
centrale memoire, comparsa fin dai primi monumenti della lingua, nell’xi
secolo. Nel xiii secolo vi si aggiunge memorial (relativo, si
a visto,
Tuttavia il xviii secolo, come ha
fatto osservare LeroiGourhan, ha una funzione decisiva in questo ampliamento
della memoria collettiva: «I dizionari raggiungono i loro limiti nelle
enciclopedie di ogni tipo pubblicate tanto a uso delle fabbriche e degli
artigiani come degli eruditi puri. Il primo vero avvio della letteratura
tecnica si colloca nella seconda meta del secolo xviii... Il
dizionario rappresenta una forma assai evoluta di memoria esterna in cui pero
il pensiero si trova spezzettato all’infinito;
La memoria sin qui accumulatasi
esploderà nella rivoluzione del 1789. E non ne fu essa il grande
detonatore? Mentre i vivi possono
disporre di una memoria tecnica, scientifica, intellettuale sempre ricca, la
memoria sembra allontanarsi dai morti. Dalla fine del Sei alla fine del
Settecento, e comunque nella Francia di Philippe Aries
e di Michel Vovelle, la commemorazione dei morti va declinando. Le tombe, comprese quelle dei re, si fanno
semplicissime. Le sepolture sono abbandonate alla natura e i cimiteri deserti e
mal curati. Pierre Muret, nelle sue Ceremonies funebres de toutes les nations
[1675], trova particolarmente impressionante in Inghilterra l’oblio dei morti,
e lo attribuisce al protestantesimo: per gl’Inglesi, infatti, rievocare la
memoria dei defunti saprebbe troppo di papismo. Michel Vovelle [1974] crede di
scoprire che, nell’età dei lumi, si voglia
«eliminare la morte».
All’indomani della rivoluzione
francese, ha luogo un ritorno della memoria dei morti, sia in Francia sia in
altri paesi europei. Si apre la grande epoca dei cimiteri, con nuovi tipi di
monumenti e di iscrizioni funerarie, con il rito della visita al cimitero. La
tomba staccata dalla chiesa a tornata ad essere centro di ricordo. Il
romanticismo accentua l’attrazione del cimitero legato alla memoria.
Il xix secolo
vede, non più tanto nella sfera del sapere come il xviii, ma nella sfera
dei sentimenti e altresì – e vero – dell’educazione, un’esplosione di
spirito contemplativo. Fu la rivoluzione
francese a dare l’esempio? Mona Ozouf ha ben caratterizzato questa
utilizzazione della festa rivoluzionaria al servizio della memoria.
«Commemorare» fa parte del programma rivoluzionario: «Tutti i compilatori di calendari
e di feste son d’accordo sulla necessità di sostenere con la festa il
ricordo della rivoluzione» [1976, p. 199].
Fin dal suo titolo I, la Costituzione del 1791 dichiara:
«Verranno
istituite delle feste nazionali per conservare il ricordo della Rivoluzione
Francese».
Ma ben presto si fa strada la
manipolazione della memoria. Dopo il 9 termidoro si a
sensibili ai massacri e alle esecuzioni del Terrore, sicché si decide di
ritogliere alla memoria collettiva «la molteplicità delle vittime» e
«nelle feste commemorative, la censura le contenders quindi alla memoria»
[ibid., p. 202]. Del resto bisogna scegliere. Tre sole giornate rivoluzionarie
paiono ai termidoriani degne di essere commemorate: il
14 luglio, il 1° vendemmiaio, giorno dell’anno repubblicano non macchiato da
alcuna goccia di sangue, e, con più esitazione, il 10 agosto, data della
caduta della monarchia. In compenso, la commemorazione del 21 gennaio, giorno
dell’esecuzione di Luigi XVI, non riuscirà: e la «commemorazione impossibile».
Il romanticismo ritrova in modo
più letterario che dogmatico la seduzione della memoria. Nella sua
traduzione del trattato di Vico De antiquissima Italorum sapientia (1710),
Michelet può così
leggere il paragrafo Memoria et phantasia:
«I Latini chiamano la memoria memoria, quando essa custodisce le percezioni dei
sensi, e reminiscentia, quanto le restituisce. Ma nello stesso modo designavano
la facoltà grazie alla quale noi formiamo delle
immagini, che i Greci chiamano phantasia,e a noi imaginativa; perché ciò
che volgarmente si dice da noi immaginare,i i Latini dicevano
memorare... Così i Greci dicevano nella loro mitologia che le Muse, le
virtù dell’immaginativa, sono le figlie di Memoria» [1835, ed. 1971 I, pp. 41011]. Egli vi rinviene il
legame fra memoria e immaginazione, memoria e poesia.
Tuttavia la laicizzazione delle feste
e del calendario in molti paesi favorisce il moltiplicarsi delle
commemorazioni. In Francia il ricordo
della rivoluzione si lascia addomesticare nella celebrazione del 14 luglio, della
quale Rosemonde Sanson [1976] ha narrato le vicissitudini. Soppressa da
Napoleone, la festa viene poi ripristinata, su
proposta di Benjamin Raspail, il 6 luglio 188°. Il relatore della proposta di
legge aveva affermato che l’organizzazione di una serie di feste nazionali che rammentino al popolo fatti legati all’istituto politico
esistente a una necessità riconosciuta e messa in pratica da tutti i
governi. Fin dal 1872 Gambetta aveva scritto su «La
Republique frangaise» del 15 luglio: «Una nazione libera ha bisogno di feste
nazionali».
Negli Stati Uniti d’America,
all’indomani della guerra di secessione gli Stati del Nord stabiliscono un
giorno commemorativo, il 30 maggio, che viene
festeggiato a partire dal 1868. Nel
Se i rivoluzionari vogliono delle
feste che commemorino la rivoluzione, la mania della commemorazione a
soprattutto dei conservatori e, più ancora, dei nazionalisti, per i
quali la memoria a uno scopo e uno strumento di governo. Al 14
luglio repubblicano la Francia cattolica e nazionalista fa aggiungere la
celebrazione di Giovanna d’Arco. La commemorazione del passato raggiunge il suo
culmine nella Germania nazista e nell’Italia fascista.
La commemorazione si appropria di nuovi strumenti di sostegno: monete, medaglie,
francobolli si moltiplicano. A partire dalla meta dell’Ottocento circa, una
nuova ondata di statuaria, una nuova civiltà
dell’iscrizione (monumenti, targhe di vie, lapidi commemorative apposte sulle
case dei morti illustri) sommerge le nazioni europee. Vasta regione, dove la
politica, la sensibilità, il folclore si mescolano, e che attende i suoi
storici. (La Francia dell’Ottocento trova in Maurice
Agulhon, autore di studi sulla statuomania, il suo storico delle immagini e dei
simboli repubblicani. La fioritura del turismo da un impulso inaudito al
commercio dei
souvenirs). Al tempo stesso si accelera
il movimento scientifico destinato a fornire alla memoria collettiva delle
nazioni i monumenti del ricordo.
In Francia la rivoluzione crea gli
Archivi nazionali (decreto del 7 settembre 1790). Il decreto del 25 giugno
1794, che ordina la pubblicità degli Archivi, apre una fase nuova,
quella della pubblica disponibilità dei documenti delle
memorie nazionali.
Il Settecento aveva creato dei
depositi centrali d’archivio (i Savoia
Dopo la Francia,
l’Inghilterra organizza nel 1838 il Public Record Office a Londra. Nel 1881
papa Leone XIII apre al pubblico l’Archivio segreto vaticano, creato nel 1611.
Istituti specializzati vengono creati al fine di
formare degli specialisti nello studio di tali fondi: l’Ecole des Chartes a
Parigi nel 1821 (riorganizzata nel 1829), l’Institut fur Osterreichische
Geschichtsforschung, fondato
Lo stesso avviene con i musei: dopo
timidi tentativi di aprirli al pubblico (il Louvre fra il 175° e il 1773, il
Pubblico Museo di Kassel creato nel 1779 dal langravio dell’Assia) e di
installare in edifici speciali delle grandi collezioni (l’Ermitage a San Pietroburgo
sotto Caterina II nel 1764, il Museo Clementino in Vaticano nel 1773, il Prado
a Madrid nel 1785), giunse finalmente il tempo dei musei pubblici e nazionali.
La memoria collettiva nei paesi
scandinavi accoglie in se la memoria «popolare», visto che musei del folclore vengono aperti fin dal
Le biblioteche conoscono uno sviluppo
e un’apertura paralleli. Negli Stati Uniti Benjamin Franklin aveva aperto sin
dal 1731 una biblioteca associativa a Filadelfia.
Fra le manifestazioni importanti o
significative della memoria collettiva si può citare la comparsa, nel xix secolo e
all’inizio del xx, di due fenomeni. Il primo a l’erezione
di monumenti ai caduti, all’indomani della prima guerra mondiale. La
commemorazione funeraria vi conosce un nuovo impulso. In molti paesi viene innalzato un monumento al Milite Ignoto coll’intento
di ricacciare i limiti della memoria associata nell’anonimato, proclamando sul
cadavere senza nome la coesione della nazione nella memoria comune. Il secondo a la fotografia, che sconvolge la memoria moltiplicandola e
democratizzandola, dandole una precisione e una verità visiva mai
raggiunta in precedenza, permettendo così di serbare la memoria del
tempo e dell’evoluzione cronologica.
Pierre Bourdieu e il suo gruppo hanno ben messo in evidenza il
significato dell’«album di famiglia»: «La Galleria dei Ritratti si a democratizzata e ogni famiglia ha, nella persona del
suo capo, il suo ritrattista. Fotografare i propri figli a farsi storiografo
della loro infanzia e preparar loro, come un lascito, l’immagine di ciò che essi sono
stati... L’album di famiglia esprime la verità del ricordo sociale.
Nulla e più lontano dalla ricerca artistica del tempo perduto, di queste
presentazioni commentate delle fotografie di famiglia,
riti di integrazione che la famiglia impone ai suoi nuovi membri. Le immagini
del passato disposte in ordine cronologico, “ordine delle stagioni” della
memoria sociale, evocano e trasmettono il ricordo degli eventi meritevoli di
essere conservati, perché
il gruppo vede un fattore di unificazione nei monumenti della
propria units passata o, ciòl che
e lo stesso, perché dal proprio passato
esso trae la conferma della propria units presente. Ecco perché non esiste niente
che sia più dignitoso, più rassicurante e più edificante
di un album di famiglia: tutte le singole avventure che racchiudono il ricordo
individuale nella particolarità di un segreto ne sono escluse, e il
passato comune o, se si preferisce, il minimo comun denominatore del passato ha
la lucentezza quasi civettuola di un monumento funerario visitato con
assiduità» [1965, pp. 5354].
A queste righe penetranti si
aggiungeranno una correzione e una postilla. Non a sempre il padre il
ritrattista della famiglia: spesso a
Alle fotografie scattate
personalmente si aggiunge l’acquisto di cartoline. Le une e le altre compongono
i nuovi archivi familiari, l’iconoteca della memoria familiare.
LeroiGourhan, concentrando la propria
attenzione sui processi costitutivi della memoria collettiva, ha suddiviso la
sua storia in cinque periodi: «Quello della trasmissione
orale, quello della trasmissione scritta mediante tavole o indici,
quello delle semplici schede, quello della meccanografia e quello della
classificazione elettronica per serie» [196465, trad. it. pp.
3034].
Si a visto il
balzo compiuto dalla memoria collettiva nell’Ottocento, del quale la memoria su
schede non a che un prolungamento, così come la stampa era stata, in
ultima analisi, la conclusione dell’accumulazione della memoria avvenuta a
partire dall’antichità. LeroiGourhan ha d’altronde ben definito i
progressi della memoria su schede ed i suoi limiti: «La memoria collettiva ha
raggiunto nel secolo xix un volume tale che si a reso
impossibile esigere dalla memoria individuale di recepire il contenuto delle
biblioteche... Il secolo xviii e gran parte del secolo xix hanno vissuto ancora
sui taccuini e sui cataloghi, poi si a arrivati alla documentazione con schede
che si organizza effettivamente solo all’inizio del secolo xx. Nella sua forma
più rudimentale essa corrisponde già alla costituzione di una
vera e propria corteccia cerebrale esteriorizzata, in quanto un semplice
schedario bibliografico si presta, nelle mani di chi lo usa, a varie
sistemazioni... D’altronde l’immagine della corteccia cerebrale e fino a un certo
punto errata poiché , se uno schedario a una memoria
in senso stretto, a pero una memoria priva di mezzi propri di memorizzazione, e
per animarla occorre introdurla nel campo operazionale, visivo e manuale del
ricercatore» [ibid., pp. 309 10].
Ma i rivolgimenti della memoria nel
xx secolo, soprattutto dopo il 195°, rappresentano una vera e propria
rivoluzione di essa: e la memoria elettronica non ne a
che un elemento, anche se indubbiamente il più spettacolare. La comparsa, durante la seconda guerra
mondiale, delle grandi macchine calcolatrici, che va inserita nell’enorme
accelerazione della storia e più specificamente della storia della
scienza e della tecnica dal 186° in poi, può collocarsi in una lunga storia della
memoria automatica. A proposito degli ordinatori, si a
ricordata la macchina aritmetica inventata da Pascal nel xvii secolo, che,
rispetto all’abaco, aggiungeva alla «facolta di memoria» una «facoltà di
calcolo». La
funzione di memoria si colloca nel modo che segue in un calcolatore che
comprende: a) strumenti d’ingresso per i dati e per il programma; b) elementi
dotati di memoria, costituiti da dispositivi magnetici, che conservano le
informazioni introdotte nella macchina e i risultati parziali ottenuti nel
corso del lavoro; c) strumenti per un calcolo rapidissimo; d) strumenti di
controllo; e) strumenti di uscita per i risultati. Si distinguono memorie «fattori», che
registrano i dati da trattare, e memorie generali, che conservano
temporaneamente i risultati intermedi e certe costanti [cfr. Demarne e
Rouquerol 1959, p. 13]. Si ritrova nel calcolatore, in certo qual modo, la
distinzione degli psicologi fra «memoria a breve termine» e «memoria
a lungo termine».
In definitiva, la memoria a una delle
tre operazioni fondamentali compiute da un calcolatore, che può suddividersi in
«scrittura», «memoria», «lettura» [cfr. ibid., p. 26,
fig. 10]. Questa memoria può in certi casi essere
«illimitata». A
questa prima distinzione nella durata fra memoria umana e memoria elettronica,
bisogna aggiungere «che la memoria umana a particolarmente instabile e
malleabile (critica oggi classica nella psicologia della testimonianza
giudiziaria, ad esempio), mentre la memoria delle macchine s’impone per la sua
enorme stabilita, affine al tipo di memoria rappresentata dal libro, ma
congiunta ad una facoltà evocativa fino allora sconosciuta» [ibid., p.
76].
E chiaro che la fabbricazione dei
cervelli artificiali, che e solo agli inizi, porta all’esistenza di «macchine
superiori al cervello umano nelle operazioni affidate alla memoria e al
giudizio razionale» e alla constatazione che «la corteccia cerebrale, per
quanto straordinaria, a insufficiente, esattamente come la mano, o l’occhio»
[LeroiGourhan 196465, trad. it. pp. 311 e 312]. Al
termine (provvisorio) di un lungo processo, del quale si
a cercato qui di abbozzare la storia, si constata che «l’uomo a portato a poco
a poco a esteriorizzare facoltà sempre più elevate» [ibid., p.
312]. Ma bisogna constatare che la memoria elettronica non agisce se non per
ordine dell’uomo e secondo il programma da lui voluto; che la memoria umana
mantiene un ampio settore non «informatizzabile», e che, come tutte le altre
forme di memoria automatica apparse nel corso della storia, la memoria
elettronica non a che un semplice sussidio, un’ancella della memoria e dello
spirito umano.
Oltre i servigi resi nei vari campi
tecnici ed amministrativi, dove l’informatica trova le sue prime e principali
informazioni, occorre osservare, ai nostri fini, due conseguenze importanti
della comparsa della memoria elettronica.
La prima e l’impiego dei calcolatori nell’ambito delle scienze sociali
e, in particolare, di quella in cui la memoria costituisce al contempo il
materiale e l’oggetto:
La seconda conseguenza a l’effetto «metaforico» dell’estensione del concetto di
memoria e dell’importanza che ha l’influenza per analogia della memoria
elettronica su altri tipi di memoria.
Fra tutti,
l’esempio più lampante 6 quello della biologia. Si prenderà qui per guida François
Jacob. Fra i punti di partenza della scoperta della
memoria biologica, della «memoria dell’ereditarietà vi fu il
calcolatore: «Con lo sviluppo dell’elettronica e la nascita della cibernetica,
l’organizzazione diventa oggetto di studio della fisica e della tecnologia»
[1970, trad. it. p. 291]. Essa presto s’impone alla
biologia molecolare, la quale scopre che «L’ereditarietà funziona come
la memoria di un calcolatore» [ibid.,p. 299].
La ricerca della memoria biologica
risale almeno al Settecento. Maupertuis e Buffon intravedono il problema:
«Un’organizzazione costituita da un insieme di unità elementari esige,
per riprodursi, la trasmissione di una «memoria» da una generazione all’altra»
[ibid., p. 152]. Per il leibniziano Maupertuis «la
memoria che guida le particelle viventi nel processo di formazione
dell’embrione non si distingue dalla memoria psichica» [ibid.,
p. 100]. Per il materialista Buffon lo stampo interiore rappresenta dunque una
struttura nascosta, una “memoria” che organizza la materia in modo da costruire
il figlio a immagine e somiglianza dei genitori» [ibid.,
p. 101]. Il xix
secolo scopre che, «quali che siano il nome e la natura delle forze
responsabili della trasmissione dell’organizzazione parentale ai figli, a ormai
chiaro che esse debbono essere localizzate nella cellula» [ibid., p. 152]. Ma per la prima meta dell’Ottocento «non c’e
che il ‘movimento vitale’ a cui possa essere
attribuito il ruolo di memoria idonea a garantire la fedeltà della
riproduzione» [ibid.]. Come Buffon,
anche Claude Bernard localizza la memoria, non nelle particelle costitutive
dell’organismo, ma in un sistema speciale che controlla la moltiplicazione
delle cellule, la loro differenziazione e la formazione progressiva
dell’organismo» [ibid., p. 228], mentre per Haeckel «la memoria e una proprietà
delle particelle che costituiscono l’organismo» [ibid]. Mendel scopre fin dal
1865 la grande legge dell’ereditarietà. Per spiegarla «e necessario
postulare l’esistenza di una struttura di ordine più elevato, ancor
più celata nelle profondità dell’organismo, una struttura di
ordine tre dove ha sede la memoria dell’eredita»
[ibid., p. 247], ma la sua scoperta e a lungo ignorata. Bisogna attendere il xx secolo e la genetica per scoprire che questa struttura
a sepolta nel nucleo della cellula e che «in questa struttura risiede la
“memoria” dell’eredita» [ibid., p. 216]. Finalmente la biologia molecolare
trova la soluzione. «La memoria ereditaria a tutta racchiusa
nell’organizzazione di una macromolecola, nel “messaggio” costituito dalla
sequenza di un certo numero di “motivi” chimici lungo un polimero. Questa
organizzazione diventa la struttura di ordine quattro, che determina la forma
di un essere vivente, le sue proprietà, il suo funzionamento» [ibid., p. 293].
Stranamente, la memoria biologica
somiglia piuttosto alla memoria elettronica che alla
memoria nervosa, cerebrale. Da una
parte, essa pure si definisce grazie ad un programma nel quale si fondono due
nozioni, «la nozione di memoria e quella di Progetto» [ibid.,
p. 10]. D’altra parte, essa a rigida;
«per l’agilità dei suoi
meccanismi, la memoria nervosa a particolarmente adatta alla trasmissione dei
caratteri acquisiti; per la sua rigidità, la memoria ereditaria vi si
oppone» [ibid. p.
11]. Inoltre, contrariamente agli ordinatori, «il messaggio ereditario
non consente il minimo intervento consapevole dall’esterno» [ibid.]. Non
può esservi
mutamento nel programma, ne per l’azione dell’uomo ne per quella
dell’ambiente. Per tornare alla memoria
sociale, i rivolgimenti che essa conoscerà nella seconda meta del xx
secolo sono stati preparati, a quanto sembra, dall’espansione della memoria nel
campo della filosofia e della letteratura. Bergson [1896] ritrova, all’incrocio fra la memoria e la
percezione, il concetto centrale di «immagine». Dopo aver condotto una lunga
analisi delle deficienze della memoria (amnesia del linguaggio o afasia), egli
scopre, sotto una memoria superficiale, anonima, assimilabile all’abitudine,
una memoria profonda, personale, «pura», che non a analizzabile in termini di «cosa»
ma di «progresso». Questa teoria, che rintraccia i legami della memoria con lo
spirito, se non proprio con l’anima, esercita una grande influenza sulla
letteratura; impronta di se il vasto ciclo narrativo di Marcel Proust, A la recherche du temps perdu (191327). E nata una nuova
memoria romanzesca, che va ricollocata nella catena «mitostoriaromanzo». Il surrealismo, modellato dal sogno, a
portato ad interrogarsi sulla memoria. Fin dal 1922 Andre Breton si chiedeva, nei sui Carnets, se la memoria non fosse che un prodotto
dell’immaginazione. Per saperne di più sul sogno, l’uomo deve essere in
condizione di fidarsi maggiormente della memoria, solitamente tanto fragile e
ingannevole. Di qui l’importanza che ha nel Manifeste
du Surrealisme (1924) la teoria della «memoria educabile», nuova metamorfosi
delle Artes memoriae.
Indubbiamente occorre qui menzionare
come ispiratore Freud, e in particolare il Freud dell’Interpretazione dei
sogni, dove si afferma che «il comportamento della memoria durante il sogno a senza
dubbio di enorme importanza per ogni teoria della memoria» [1899, trad. it. p. 28]. Gia nel ii capitolo Freud tratta della «memoria del
sogno»: qui, riprendendo un’espressione di Scholz, crede di constatare che
«nulla di ciò che
una volta abbiamo posseduto intellettualmente può andare del tutto perduto» [ibid.]. Egli
critica pero l’idea «di ridurre a fenomeno del sogno in genere a quello del
ricordare» [ibid., p. 29], poiché c’e una scelta specifica del sogno
nella memoria, una memoria specifica del sogno. Questa memoria, anche in questo caso, a scelta. Freud pero non ha a questo punto la
tentazione di trattare la memoria come una cosa, come un gran serbatoio. Ma,
ricollegando il sogno alla memoria latente, e non alla memoria
cosciente, e insistendo sull’importanza dell’infanzia nella formazione di
codesta memoria, egli contribuisce, contemporaneamente a Bergson, ad
approfondire la conoscenza della sfera della memoria e a lumeggiare, almeno per
quanto riguarda la memoria individuale, quella censura della memoria tanto
importante nelle manifestazioni della memoria collettiva. Con la formazione delle scienze sociali, la
memoria collettiva ha subito grandi trasformazioni, e svolge un ruolo
importante nella interdisciplinarità che fra esse
tende ad instaurarsi.
La sociologia ha rappresentato uno
stimolo ad esplorare questo nuovo concetto, così come per il tempo. Per
Halbwachs [1950], la psicologia sociale, nella misura in cui questa memoria a
legata ai comportamenti, alle mentalità, oggetto nuovo della nuova storia, porge la propria collaborazione.
L’antropologia – nella misura in cui il termine ‘memoria’ le offre un concetto
più adatto alle realtà delle società «selvagge» da essa studiate di quel che non sia il termine ‘storia’ – ha
accolto il concetto e lo esamina con la storia, e precisamente entro quella
«etnostoria» o «antropologia storica» che a uno dei più interessanti fra
i recenti sviluppi della scienza storica.
Ricerca, salvataggio, esaltazione
della memoria collettiva, non più negli eventi ma nei tempi lunghi;
ricerca di questa memoria, non tanto nei testi, ma
piuttosto nelle parole, nelle immagini, nei gesti, nei rituali e nella festa: a
un convergere dell’attenzione storica. Una conversione condivisa dal grande
pubblico, ossessionato dal timore di una perdita di memoria, di un’amnesia
collettiva, che trova una goffa espressione nella cosiddetta
mode retro, o moda del passato, sfruttata spudoratamente dai mercanti di
memoria dal momento che la memoria a diventata uno degli oggetti della
società dei consumi che si vendono bene.
Pierre Nora osserva che la memoria
collettiva – intesa come «ciò che resta del passato nel vissuto dei
gruppi, oppure ciò che questi
gruppi fanno del passato» – può a
prima vista opporsi quasi parola per parola alla memoria storica, cosi come una
volta si opponevano memoria affettiva e memoria intellettuale. Fino ai nostri
giorni, «storia e memoria» erano state sostanzialmente confuse, e la storia
sembra essersi sviluppata «sul modello della rammemorazione, dell’anamnesi e della
memorizzazione». Gli storici porgevano la formula delle «grandi mitologie
collettive», si andava dalla storia alla memoria collettiva. Ma tutta
l’evoluzione del mondo contemporaneo, sotto la pressione della storia
immediata, fabbricata in gran parte a caldo dagli strumenti della comunicazione
di massa, procede verso la fabbricazione di un sempre maggior numero di memorie
collettive, e la storia si scrive, assai più che per l’innanzi, sotto la
pressione di queste memorie collettive. La storia detta «nuova», che si adopera
per creare una storia scientifica muovendo dalla memoria collettiva, può interpretarsi come
«una rivoluzione della memoria» che fa compiere alla memoria una «rotazione»
intorno ad alcuni assi fondamentali: «Una problematica apertamente
contemporanea... e un procedimento decisamente retrospettivo», «la rinunzia a
una temporalità lineare» a vantaggio di molteplici tempi vissuti, «a
quei livelli ai quali l’individuale si radica nel sociale e nel collettivo»
(linguistica, demografia, economia, biologia, cultura). Storie che si farebbero
muovendo dallo studio dei «luoghi» della memoria collettiva: «Luoghi
topografici, come gli archivi, le biblioteche e i musei; luoghi monumentali,
come i cimiteri o le architetture; luoghi simbolici, come le commemorazioni, i
pellegrinaggi, gli anniversari o gli emblemi; luoghi funzionali, come i
manuali, le autobiografie o le associazioni: questi monumenti hanno la loro
storia». Ma non si dovrebbero dimenticare i veri luoghi della storia,
quelli in cui cercare non l’elaborazione, la produzione, ma i creatori e i
dominatori della memoria collettiva: «Stati, ambienti sociali e politici, comunità di esperienze storiche o di
generazioni spinte a costituire i loro archivi in funzione dei diversi usi che
essi fanno della memoria» [1978, pp. 398401].
Certo questa
nuova memoria collettiva si costruisce in parte il proprio sapere
avvalendosi di strumenti tradizionali, concepiti pero in maniera diversa. Si
confronti l’Enciclopedia Einaudi o l’Enciclopedia Universalis con
Goà [1978] ha definito e
collocato questa storia orale, nata indubbiamente negli Stati Uniti, dove, tra
il 1952 e il 1959, vennero creati dei grandi
dipartimenti di oral historà nelle università di Columbia, di
Berkeleà, di Los Angeles, che poi ebbero sviluppi in Canada, nel Quebec,
in Inghilterra e in Francia. Il caso della Gran Bretagna a esemplare: l’università
dell’Essex crea una raccolta di «storie di vite», viene
fondata una società,
Nel Convegno internazionale di
antropologia e storia, tenutosi
Nell’ambito della storia si sviluppa,
sotto l’influenza delle nuove concezioni del tempo storico, una nuova forma di
storiografia, la «storia della storia», che a in
realtà, il più delle volte, lo studio della manipolazione di un
fenomeno storico ad opera della memoria collettiva, che fino ad ora solo la
storia tradizionale aveva studiato.
Nella recente storiografia francese
se ne trovano quattro esempi degni di nota. Il fenomeno storico sul quale si a esercitata la memoria collettiva e, in due casi, un
grande personaggio: il ricordo e la leggenda di Carlomagno nello studio di Folz
[1950], un’opera pionieristica, e il mito di Napoleone analizzato da Tulard
[1971]. Più vicino alle tendenze della nuova storia, Dubà rinnova
la storia di una battaglia: anzitutto egli vede in quell’avvenimento la punta
aguzza di un iceberg, poi considera «tale battaglia e la memoria da essa lasciata da antropologo», e segue, «in una lunga
sequela di commemorazioni, il destino di un ricordo in seno a un insieme in
movimento di rappresentazioni mentali» [1973, trad. it. pp.
8 e 9].
Infine, Joutard [1977] ritrova,
all’interno stesso di una comunità storica, avvalendosi dei documenti
scritti del passato e poi delle testimonianze orali del presente, come essa abbia vissuto e viva il suo passato, come essa abbia
costituito la sua memoria collettiva e come questa memoria le consenta di far
fronte su una stessa linea a eventi diversissimi da quelli su cui si fonda la
sua memoria, e di trovarvi ancor oggi la sua identità. I protestanti
delle Cevenne, dopo le prove delle guerre di religione del
xvi e del xviii secolo, di fronte alla rivoluzione del 1789, di fronte alla
repubblica, di fronte al caso Dreàfus, di fronte alle opzioni
ideologiche di oggi, reagiscono con la loro memoria di camisardi, fedele e
mobile come ogni memoria.
L’evoluzione delle società
nella seconda meta del xx secolo rischiara l’importanza della posta in gioco
rappresentata dalla memoria collettiva. Esorbitando dalla storia intesa come
scienza e come culto pubblico – a monte in quanto serbatoio (mobile) della
storia, ricco di archivi e di documenti/monumenti, e al contempo a valle, eco
sonora (e viva) del lavoro storico –, la memoria collettiva 6 uno degli
elementi più importanti delle società sviluppate e delle società in via di sviluppo, delle classi dominanti e
delle classi dominate, tutte in lotta per il potere o per la vita, per
sopravvivere e per avanzare.
Più che mai sono vere le
parole di LeroiGourhan: «A partire dall’homo sapiens la costituzione di un
apparato della memoria sociale domina tutti i problemi dell’evoluzione umana»
[196465, trad. it. p. 270]; inoltre, «la tradizione e
biologicamente indispensabile alla specie umana quanto il condizionamento
genetico alle società di insetti: la sopravvivenza etnica si fonda sulla
routine, il dialogo che si stabilisce crea l’equilibrio tra routine e
progresso, dove la routine a il simbolo del capitale necessario alla
sopravvivenza del gruppo e il progresso l’intervento delle innovazioni
individuali per una sopravvivenza sempre migliore» [ibid.,p. 269]. La memoria a un elemento essenziale di
ciò che
ormai si usa chiamare l’«identità», individuale o collettiva, la ricerca
della quale a una delle attività fondamentali degli individui e delle
società d’oggi, nella febbre e nell’angoscia. La memoria collettiva, pero, non a soltanto
una conquista; a uno strumento e una mira di potenza. Le società nelle
quali la memoria sociale a principalmente orale o quelle che stanno
costituendosi una memoria collettiva scritta permettono meglio di intendere
questa lotta per il dominio del ricordo e della tradizione, questa
manipolazione della memoria.
Il caso della storiografia etrusca a
forse l’illustrazione di una memoria collettiva tanto strettamente legata a una
classe sociale dominante che l’identificazione di tale classe con la nazione ha
avuto per conseguenza la scomparsa della memoria unitamente a quella della
nazione: «Noi conosciamo gli Etruschi, sul piano letterario, solamente per il
tramite dei Greci e dei Romani: anche assumendo che relazioni storiche siano
esistite, nessuna ce ne a giunta. Forse le loro
tradizioni storiche o parastoriche nazionali sono scomparse insieme con
l’aristocrazia che pare fosse depositaria del
patrimonio morale, giuridico e religioso della loro nazione. Quando quest’ultima cesso di esistere come nazione autonoma, gli
Etruschi smarrirono, sembra, la coscienza del loro passato, ciòl
è di se stessi» [Mansuelli 1967,
pp. 13940].
Veàne, studiando l’evergetismo
greco
Balandier fornisce l’esempio dei Bete
del Camerun, al fine di chiarire la manipolazione delle «genealogie», delle
quali a nota la funzione nella memoria collettiva dei popoli senza scrittura:
«In uno studio inedito dedicato ai Beti del Camerun meridionale, lo scrittore
Mongo Beti riferisce e illustra la strategia che pone gli individui ambiziosi e
intraprendenti in condizione di “adattare” le genealogie così da
legalizzare un predominio altrimenti contestabile» [1974, p. 195]. Nelle società sviluppate, i nuovi
archivi (archivi orali, archivi dell’audiovisivo) non si sono sottratti alla
vigilanza dei governanti, anche se questi non sono in grado di controllare
questa memoria tanto strettamente come invece riescono
a fare coi nuovi strumenti di produzione di tale memoria, ossia la radio e la
televisione.
Spetta infatti
ai professionisti scienziati della memoria, agli antropologi, agli storici, ai
giornalisti, ai sociòl logi, fare della lotta per la democratizzazione
della memoria sociale uno degli imperativi prioritari della loro
oggettività scientifica. Ispirandosi a Ranger [1977], il quale ha
denunziato la subordinazione dell’antropologia africana tradizionale alle fonti
elitarie e, segnatamente, alle «genealogie» manipolate dalle classi dominanti,
Triulzi ha invitato a svolgere ricerche sulla memoria dell’«uomo comune»
africano; ha auspicato che, in Africa come in Europa, si ricorra «ai ricordi
familiari, alle storie locali, di clan, di famiglie, di villaggi, ai ricordi
personali..., a tutto quel vasto complesso di
conoscenze non ufficiali, non istituzionalizzate, che non si sono ancora
cristallizzate in tradizioni formali... che rappresentano in qualche modo la
coscienza collettiva di interi gruppi (famiglie, villaggi) o di individui (ricordi
ed esperienze personali), contrapponendosi a una conoscenza privatizzata e
monopolizzata da gruppi precisi
La memoria, alla quale attinge la
storia, che a sua volta la alimenta, mira a salvare il passato soltanto per
servire al presente e al futuro. Si deve fare in modo che la memoria collettiva
serva alla liberazione, e non all’asservimento, degli uomini.
[Traduzione di Cesare de Marchi].
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