HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli            

 

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LEOPOLDO FRANCHETTI E SIDNEY SONNINO

 

 

LA SICILIA NEL 1876

 

 

VALLECCHI EDITORE FIRENZE

 

 

LIBRO PRIMO.. I

 

LIBRO SECONDO 2

 

 

 


 

LIBRO PRIMO

 


 

INDICE

 

 

 

Prefazione alla prima edizione

Prefazione alla seconda edizione

 

CAPITOLO I.

CONDIZIONI GENERALI.

I. — Palermo e i suoi dintorni.

§ 1. Primo aspetto

§ 2. Le prepotenze

§ 3. Associazioni per l’esercizio della prepotenza

§ 4. Pazienza dell’universale

§ 5. Caratteri della classe dominante

§ 6. Importanza della violenza nelle relazioni sociali

§ 7. Le fazioni e i loro mezzi di azione

§ 8. L’autorità pubblica

§ 9. Suo isolamento morale

§ 10. Prevalenza dell’autorità morale dei prepotenti sopra quella del Governo

§ 11. Impotenza dell’Autorità pubblica a reprimere gli abusi

§ 12. Inefficacia e danni del sistema degli arbitrii illegali

§ 13. Arbitrii legali. Ammonizione e domicilio coatto. Loro riuscita

§ 14. Inefficacia degli istrumenti usati dall’Autorità pubblica contro i malfattori

§ 15. Forza di polizia indigena. I militi a cavallo.

§ 16. Manca nell’Autorità pubblica unità d’indirizzo. Il personale

§ 17. Il governo centrale non sostiene i suoi funzionari

 

II. — Le provincie infestate dai malfattori.

§ 18. Aspetto generale delle campagne nell’interno dell’Isola

§ 19. Ospitalità

§ 20. Potenza dei briganti e dei malfattori in genere

§ 21. Carattere e modi di procedere dei malfattori

§ 22. Impotenza dei carabinieri e della truppa contro i malfattori

§ 23. La generale impotenza della classe abbiente contro i malfattori, non si può spiegare con la mancanza di mezzi per resistere. Nè con la generale complicità. La semplice osservazione delle relazioni fra cittadini e malfattori non fornisce gli elementi per sciogliere questo problema

§ 24. Propensione quasi generale per i mezzi di repressione arbitrari

§ 25. Manca nella generalità dei Siciliani il sentimento della Legge superiore a tutti ed uguale per tutti

§ 26. Indole esclusivamente personale delle relazioni sociali in Sicilia. Clientele

§ 27. La Mafia

§ 28. Amministrazioni locali

§ 29. Autorità pubblica. Suoi mezzi di azione

§ 30. Carabinieri

§ 31. Militi a cavallo. Loro modi di procedere

§ 32. Guardie di pubblica sicurezza. Truppa

§ 33. Funzionari di pubblica sicurezza. Difficoltà che incontrano per scuoprire i malfattori e per radunare elementi atti a farli comparire in giudizio

§ 34. Indole del personale

§ 35. Prefetti e sotto-prefetti. Loro impotenza contro gli abusi

 

III. — Le provincie tranquille.

§ 36. La pubblica sicurezza nelle provincie orientali dell’Isola

§ 37. Condizioni sociali delle provincie orientali uguali a quelle del rimanente dell’isola

 

CAPITOLO II.

CENNI STORICI.

§ 38. Il feudalismo e i Parlamenti Siciliani

§ 39. La Deputazione del Regno

§ 40. La rappresentanza del Terzo Stato negli antichi Parlamenti Siciliani era illusoria

§ 41. Tentativo di riforme del vicerè Caracciolo (1785)

§ 42. Costituzione politica del 1812. Sua mala riuscita.

§ 43. Condizioni economiche e sociali della Sicilia dopo la Costituzione del 1812

§ 44. Effetti delle sopraddette condizioni. Prevalenza dell’autorità privata

§ 45. Opera ed effetti del regime Borbonico dopo il 1815

§ 46. Effetti della sovrapposizione del sistema di governo italiano sulle condizioni della Sicilia.

 

CAPITOLO III.

LA PUBBLICA SICUREZZA.

I. — Cause e caratteri generali.

§ 47. Cagioni generali e divisione della quistione

§ 48. Perchè i violenti abbiano, in quella parte della Sicilia dove dominano, autorità non solo materiale, ma anche morale

§ 49. Cagioni dell’importanza acquistata dalla classe dei malfattori per mestiere

§ 50. Le condizioni sono specialmente favorevoli in Sicilia per l’esercizio della industria dei malfattori

§ 51. La mafia

 

II. — I malfattori a Palermo e nei suoi dintorni.

§ 52. Caratteri speciali dell’industria del delitto a Palermo e suoi dintorni. Loro cagioni

§ 53. Caratteri speciali delle relazioni fra facinorosi a Palermo e dintorni

§ 54. Facinorosi della classe media

§ 55. L’omertà

§ 56. La classe dominante è cagione prima e fondamento dello stato della pubblica sicurezza in Palermo e dintorni

§ 57. Come sia generalmente possibile in parte della Sicilia valersi dell’aiuto dei malfattori senza dar mandati per delitti

§ 58. Come il predominio della violenza rechi danno alla maggioranza, e nonostante non possa da questa venire distrutto

§ 59. Come la classe dominante sia quasi fatalmente portata a proteggere i malfattori

 

III. — I malfattori in provincia.

§ 60. Condizioni speciali dell’industria dei malfattori in provincia

§ 61. I Briganti

§ 62. I Malandrini

§ 63. Speculazioni dei briganti e malandrini

§ 64. La mafia nelle provincie

§ 65. Relazioni fra malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione

§ 66. Come il Governo non possa usare l’opera dei Siciliani per distruggere i malfattori in Sicilia

 

IV — I rimedi.

§ 67. Come si presenti in Sicilia il problema del ristabilimento della sicurezza pubblica

§ 68. La Polizia

§ 69. Dualità nell’attuale ordinamento di polizia in Italia

§ 70. I Militi a cavallo

§ 71. I sindaci ufficiali di polizia. Le guardie campestri

§ 72. Il personale addetto alla polizia in Sicilia

§ 73. Necessità di una stretta unità d’azione fra la magistratura inquirente e il personale di polizia

§ 74. L’ordinamento della polizia giudiziaria in Sicilia dovrebbe fondarsi sul pretore

§ 75. Come convenga porre in Sicilia il personale di polizia sotto una stretta dipendenza dell’autorità giudiziaria

§ 76. Come debba mantenersi più rigorosamente il segreto delle denunzie ricevute dall’autorità e quello delle istruzioni penali

§ 77. La giustizia. Il giurì

§ 78. Reticenza dei testimoni al dibattimento pubblico

§ 79. Arbitrio del giudice istruttore per l’arresto e la libertà provvisoria. Legge del 30 giugno 1876

§ 80. Invio delle cause criminali alle corti di Assise del Continente

§ 81. Carceri

§ 82. Ammonizione e domicilio coatto

§ 83. È necessario in Sicilia un personale giudiziario e di polizia con qualità eccezionali

 

CAPITOLO IV.

RELAZIONI ECONOMICHE E AMMINISTRAZIONI LOCALI.

§ 84. Scarsa influenza della legislazione posteriore al 1860 sulla distribuzione della proprietà

§ 85. Aumento negli affari. Suoi effetti

§ 86. Gli avvocati, loro influenza

§ 87. Amministrazioni locali

§ 88. Come la legislazione italiana sancisca e ribadisca nelle provincie meridionali il potere illimitato ed assoluto della classe abbiente su quella povera

§ 89. Come la legislazione e la pratica amministrativa in Italia siano impotenti ad impedire un numero ristrettissimo di persone dall’assicurarsi un predominio assoluto e durevole sulle amministrazioni locali

§ 90. Come in Sicilia sia per regola generale inefficace e dannoso il controllo o la tutela esercitati sulle amministrazioni locali da corpi composti essi stessi di elementi locali

§ 91. Come il Governo sia, coll’attuale sistema amministrativo italiano, impotente a conoscere e reprimere gli abusi nelle amministrazioni locali

§ 92. Perchè il migliorare la legislazione e la pratica di Governo sia insufficiente ad impedire i soprusi non violenti a danno delle classi inferiori, e gli abusi nelle amministrazioni locali

§ 93. Dei mezzi che si potrebbero usare colla speranza di diminuire il numero dei disordini nelle amministrazioni locali e dei soprusi non violenti a danno dei deboli

§ 94. Come la diffidenza e l’antipatia che ispirano i rappresentanti del governo a molti Siciliani, si possano vincere, e con quali mezzi

§ 95. Conviene che i funzionari siano assicurati dell’appoggio del Governo

§ 96. Le opere pubbliche

 

CAPITOLO V.

IL GOVERNO E LE INFLUENZE LOCALI IN SICILIA.

§ 97. Come, per il sistema di governo in vigore in Italia, la classe dominante sia considerata quale interprete dei bisogni dell’intera popolazione

§ 98. Come in Sicilia il fatto non risponda alla teoria di governo ricevuta in Italia

§ 99. Effetti della contradizione fra la teoria e il fatto, sui procedimenti del Governo italiano in Sicilia

§ 100. Come sia impossibile al Governo, nelle condizioni attuali, di conoscere i veri bisogni della Sicilia

§ 101. Di che cosa sia costituita l’opinione pubblica in Sicilia

§ 102. Partiti politici. Gli autonomisti

§ 103. Come l’opinione pubblica siciliana non possa in niun caso servir di guida al Governo italiano

 

CAPITOLO V.

RIMEDI.

§ 104. Riassunto degli effetti delle condizioni sociali siciliane. Doveri che da queste condizioni risultano per il Governo italiano

§ 105. Lo Stato italiano, se vuol rimediare ai mali della Sicilia, deve valersi per governarla degli elementi che gli fornisce la nazione ad esclusione dei Siciliani

§ 106. Come lo Stato in Sicilia debba, prima di qualunque altro scopo, prefiggersi quello di sostituire alla forza privata quella della Legge

§ 107. Quali effetti immediati debba prima ottenere lo Stato italiano per poter poi raggiungere il fine del predominio del Diritto moderno in Sicilia

§ 108. Del personale da adoperarsi dallo Stato in Sicilia

§ 109. Difficoltà di trovare in Italia un personale sufficientemente numeroso colle qualità necessarie per la Sicilia

§ 110. Il tentar di reprimere una sola categoria di disordini non può dare in Sicilia risultato alcuno

§ 111. Della politica parlamentare del Governo

§ 112. Come sia infondata l’asserzione che i Siciliani sieno più difficili a governare che altri popoli

§ 113. Dei provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza

§ 114. Come l’Italia sia tenuta a fare grandissimi sacrifizi pecuniari per migliorare le condizioni materiali della Sicilia

§ 115. Come il Governo abbia obbligo di studiare nelle provincie meridionali ancora più che altrove gli effetti sulla ricchezza delle sue tasse

§ 116. Come la repressione dei disordini descritti nel presente volume sia atta a render possibile e preparare un miglioramento stabile delle condizioni della Sicilia, ma non ad operarlo

Conclusione

 

APPENDICE.

Le Opere pubbliche in Sicilia: estratto della Relazione della Giunta per l’Inchiesta sulle Condizioni della Sicilia, nominata secondo il disposto dell’Articolo 2 della Legge 3 Luglio 1875


 

CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA

 

 

 

LEOPOLDO FRANCHETTI

 

 

CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA

 

 

«Non ci è altro modo a guardarsi dalle

adulazioni se non che gli uomini intendino

che non ti offendono a dirti il vero».

Machiavelli, Il Principe, cap. XXIII.

Come si debbino fuggire gli adulatori.

 

 

 

 

 


 

Era nostra intenzione, ripubblicando la famosa inchiesta di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino, di aggiornarla con delle note nel testo che in certo modo completassero la bella e interessante prefazione che il loro compagno di viaggio e di studi, Enea Cavalieri, ha voluto gentilmente scrivere per questa seconda edizione.

Ma dopo accurato esame del testo, abbiamo invece deciso di sostituire le note, che hanno sempre un carattere frammentario, con un terzo volume sulla Sicilia attuale che è stato affidato al prof. Giovanni Lorenzoni, l’autore dell’importante e documentata relazione sulla Sicilia, che fa parte dell’inchiesta governativa sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali.


PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

 

Ricevuti in Sicilia da ogni ordine di persone colla cortesia la più squisita, e con un’ospitalità di cui serberemo sempre memoria, sentiamo il debito di dichiarare fin dalle prime pagine di questo libro, quali sono i concetti che ci hanno guidati nei nostri studi sulle condizioni di quell’Isola.

Noi abbiamo inteso d’indagare le ragioni intime dei fenomeni morbosi che presenta la Sicilia, e di ritrarre un quadro succinto delle sue condizioni sociali, così diverse da quelle di alcune altre regioni del nostro paese. Esprimendo in ogni singolo caso la nostra opinione schiettamente e senza reticenze o falsi riguardi di convenienza, crediamo di dimostrare nel miglior modo possibile la nostra gratitudine verso i Siciliani, e abbiamo fede di giovare all’Isola più coll’esposizione della verità che non coll’adulazione. Non ci siamo lasciati distogliere dal timore di esser tacciati d’arroganza, perchè trattandosi di quistioni che interessano l’avvenire del paese, riteniamo che ogni cittadino abbia lo stretto dovere di dire apertamente la propria opinione.

Convinti che i fenomeni da noi descritti hanno la loro prima origine nelle leggi della Natura, noi, nell’esporli, non intendiamo giudicar nessuno, e tanto meno condannare. Non sappiamo vedere nei Siciliani che altrettanti Italiani, e i mali dell’ultima estremità della Penisola ci fanno provare dolore nel modo medesimo che quelli della nostra provincia natale.

Non pretendiamo certamente che il nostro lavoro sia scevro d’errori. Altri ci confuti o ci corregga, e dalla discussione risulterà la luce. Ma la discussione non sarà mai utile, se prima non ci liberiamo da quella stolta vergogna che spesso, a noi Italiani, ci fa celare le nostre piaghe per parere da più o altrimenti di quel che siamo. «Dalla verità, la libertà; dalla libertà, la verità».

Il nostro voto più caldo è quello d’invogliare qualcuno a rifare le stesse nostre ricerche, e a verificarne i risultati; e vorremmo specialmente indirizzarci ai giovani per incitarli a studiare da vicino nelle varie sue regioni quella terra incognita che è per gl’Italiani l’Italia tutta.

Il presente lavoro porta il nome di soli due autori. Il signor Enea Cavalieri, che fece con noi il giro in Sicilia, e si unì a noi in tutte le ricerche, fu costretto a lasciarci pochi giorni dopo il ritorno, non potendo differire più oltre la sua partenza per un viaggio in paesi lontani, al quale si era già da tempo impegnato. Speriamo che anderà a ritrovarlo al di là dei mari questa espressione del nostro dispiacere per non averlo avuto compagno anche nel dar forma definitiva ai risultati delle nostre comuni indagini.

La Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia è venuta fuori quando era già finito il secondo libro di quest’opera, e del primo erano già fissati il concetto e il piano, e molto inoltrata la redazione. Mentre nei nostri apprezzamenti sopra fatti parziali (principalmente fra quelli che sono esposti nel primo libro) abbiamo la soddisfazione di trovarci non di rado d’accordo colla Giunta, non possiamo dire lo stesso dei giudizi generali. Il lettore, dall’esame del lavoro della Giunta e del nostro, potrà riscontrare in che cosa consistano le differenze che ci dividono e formarsi un’opinione.

Firenze, 20 Dicembre 1876.

Gli Autori.

 


 

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

 

I.

 

La genesi di questi due volumi va ricercata e nelle condizioni subiettive degli autori, e in quelle oggettive della Sicilia, allora vivacemente ed aspramente discusse sia nel Parlamento sia nel Paese.

Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, ed io con loro, avevamo quasi contemporaneamente potuto portare innanzi, insieme con gli studi, l’osservazione pratica, durante parecchi viaggi nell’interno ed all’estero, delle differenti conseguenze lasciate lungo le lotte per la conquista delle libertà politiche, dai modi e dalla data di abolizione o di riforma degli ordinamenti feudali, riscontrandovi la più chiara spiegazione sia delle peculiari condizioni nelle quali venivano a trovarsi anche più regioni di un medesimo Stato, sia della contraddizione che talora correva fra il grado di prosperità delle industrie locali, e il benessere dei lavoratori che pure tanto contribuivano a farle vivere; tuttavia eravamo accesi dal desiderio di saperne di più e di spingerci a più larghe visioni almeno in riguardo all’Italia. Mentre dalle Cattedre Universitarie ci si impartivano, con ispirazione abbastanza liberale, le ultime lezioni, eravamo già preoccupati dal pensiero di quelle nostre plaghe, dove, come in alcune dell’Inghilterra, il contadino era poverissimo anche in confronto di un’agricoltura assai progredita, dove il proposito sincero di governare con giustizia e con amore, s’infrangeva più o meno davanti ad ostacoli che sapevano di misterioso, e che esigevano tuttavia una perspicua e fedele rivelazione.

Non che fossimo i soli giovani ad avere siffatte sensazioni; ma per un felice insieme di zelo studioso, di amor patrio e di carità civile, si era radicata in noi la speranza di poter così concorrere a promuovere via via il progresso economico e morale di tutte quelle provincie che il passato malgoverno aveva lasciato in condizioni ben dolorose.

Si aggiunga che nell’Università di Pisa, donde tutti tre siamo usciti, gli studenti solevano infervorarsi così delle questioni del giorno da essersi scissi, nello stesso seno dell’Associazione che avevano costituito, in quasi altrettanti partiti, e così battaglieri, quanti ne aveva la Camera; e anche allora, non senza appassionanti evocazioni retrospettive, agitavano e riagitavano la discussione, sorta già la vigilia della spedizione dei Mille, e resa più ardente dall’infelice esito di quella di Mentana, se il Governo nostro doveva sfidare audacemente ogni più aspra difficoltà internazionale per tentare ancora la conquista di Roma e il compimento dell’unità dell’Italia o se dovevasi pazientare per trarre partito da più opportune circostanze politiche dell’Europa. Le divagazioni su questo tema davano luogo a vere lotte e a pericolosi episodi per le contrastanti tendenze clericali, conservatrici, liberali e radicali; ma Leopoldo Franchetti ed io che più vi fummo coinvolti, anche nelle declamazioni più estreme eravamo indotti a riconoscere un monito salutare, e davanti a certe accuse più violente, ci chiedevamo se non potevasi governar meglio, almeno nel Mezzogiorno e nelle isole. Inoltre molti dei valorosi professori dell’Università, e della Scuola normale di Studi Superiori che le fioriva accanto, nel confabulare famigliarmente con noi degli episodi locali e sugli avvenimenti politici, ci incoraggiavano a dar saggio sollecito della nostra preparazione a servire il paese.

Già s’era giunti alla fine del 1870. Una profonda impressione avevano fatto in Italia le vittorie tedesche contro la Francia, e più ancora le nefandità e le devastazioni che vi fece tener dietro la Comune insediatasi a Parigi. Perfino il Bonghi ebbe a dire poco dopo alla Camera nel combattere alcune nuove imposte, anch’esse più dure pei meno abbienti: «È entrato ormai nella mente e nell’animo di tutti quanti gli uomini di Stato d’Europa che le classi agiate, se vogliono vivere posate e tranquille, e sperare il progresso costante della Società civile, bisogna che si persuadano di aver esse cura d’anime in favore delle classi povere». Anche le assidue letture ci avevano infervorato sempre più di spirito liberale, e affidati ad esso, abbiamo dato più animosi i nostri primi passi nel campo dell’azione. Così Sidney Sonnino pubblicò nel 1874 la sua monografia «sulla Mezzeria in Toscana», tradotta subito in tedesco nella Rivista Italia, diretta dallo Hillebrand, con lo scopo di mettere in piena luce uno dei mezzi atti a sostituire nell’agricoltura alla lotta fra capitale e lavoro, la loro conciliazione mercè un’equa compartecipazione del contadino ai lucri del proprietario. Così Leopoldo Franchetti, fattosi a percorrere successivamente gli Abruzzi, il Molise, la Calabria e la Basilicata, ne espose in alcune lettere al giornale fiorentino La Gazzetta d’Italia le infelici condizioni economiche ed amministrative, facendole risalire all’insufficienza delle provvidenze di Governo([1]). Così io stesso, dopo essermi indugiato sulla fine del 1870, in nome del Comitato per le elezioni politiche di Ferrara, in vivaci polemiche sui temi della legge sulle guarantigie, della miglior forma di Governo, e delle applicazioni da darsi alle dottrine liberali per difendersi dalle utopie socialiste e comuniste, avendo assunta nel 1872 per tre anni l’Amministrazione delle lagune da pesca di Comacchio, mi adoperai a renderla fonte di moralità e di benessere per quelle popolazioni([2]).

Nel frattempo le agitazioni e le accuse partigiane, inasprendo le già profonde divergenze sui metodi di Governo, avevano piombato sempre peggio il Paese e il Parlamento nella confusione e nell’irrequietezza; ed Ernesto Nathan, nostro caro amico personale, ma allora di pura fede mazziniana, obbedendo a concetti etici in lui profondamente radicati, pubblicava in opuscolo un appello per costituire una Lega degli onesti, la quale doveva far argine contro gli intrighi ed i fini loschi dei politicanti di mestiere. Per discutere sull’opportunità di associarsi a lui, Leopoldo Franchetti mi invitò con Sidney Sonnino ad un convegno ospitale nella sua dimora di Firenze.

Le disposizioni dei miei amici erano favorevoli: ma io obiettai subito che era progetto poco pratico, parendomi chiaro che i meno onesti sarebbero stati i più frettolosi a voler far parte della Lega, mentre poi non vedevo come si potesse riescire a respingerli. Alla dubbia influenza di siffatti organismi opposi l’opportunità di continuare quegli sforzi individuali in cui già ci eravamo provati. L’occasione parevami offerta dall’avere il Governo proposto al Parlamento per ben due volte delle leggi eccezionali, cioè più o meno lesive di libertà e di diritti già riconosciuti, ma intese a dare una maggior sicurezza alle persone ed ai loro averi in quelle Provincie dove ce n’era bisogno.

Tutti si appassionavano a discutere sull’efficacia del rimedio, e in quelle regioni dove v’era maggior ragione di temere la sua applicazione, violentissime erano le proteste contro di esso che per lo meno qualificavasi un’offesa ingiustificata e ingiustificabile. Noi dovevamo recarci successivamente sui luoghi e verificarne e studiarne i fenomeni morbosi. Poichè il contratto agrario era tanta parte di tutte le manifestazioni della vita civile ed economica, suggerivo di pigliare a pretesto lo studio dei suoi svariati tipi locali per fare nello stesso tempo, senza destare sospetto, un’indagine minuta intorno le condizioni morali, politiche e sociali della popolazione.

Non mi fu difficile vincere il partito, e, senz’altro, ci siamo chiesti quale regione dovevamo visitare per prima.

Una proposta di legge per provvedimenti eccezionali era già stata presentata nel 1871 quando nella Romagna i reati di sangue si seguivano con una frequenza impressionante, e avevano fatto numerose vittime anche fra i più alti funzionari. Se n’era poi elaborata un’altra assai di recente con l’intendimento di colpire nel vivo il brigantaggio, la camorra e la mafia.

Avevamo dunque dinanzi due indicazioni concrete. Sulle prime il nostro pensiero si rivolse alla Romagna, ma si rinunciò presto ad essa perchè il Parlamento aveva bensì concesso più severe disposizioni pei casi di detenzione, vendita e fabbricazione di armi insidiose, e anche la facoltà di trattenere i vagabondi e i facinorosi a domicilio coatto perfino per cinque anni se recidivi, ma la tranquillità, per buona sorte, era già tornata specialmente ad opera degli stessi cittadini, i quali, nella veste di guardie nazionali, ed anche senza, avevano a gara prestato man forte alle autorità ed ai loro agenti. Che se poco dopo era sopravvenuto l’allarme politico di Villa Ruffi, perchè colà vennero arrestati in massa molti capi dei partiti rivoluzionari che vi si erano dati convegno, il processo seguitone aveva escluso il reato di cospirazione, e certo ormai anche la Romagna poteva ritenersi allora una regione in condizioni normali.

Diverso era il caso della Sicilia.

Fu un giusto risveglio di energia che spinse il Governo a proporre perfino provvedimenti eccezionali pur di ristabilirvi la pubblica sicurezza, e giusto anche fu il suo scrupolo costituzionale di chiedere prima l’assenso della Camera quantunque assai alto salisse il clamore della voce pubblica sulla gravità di quelle condizioni, ma non per questo era da aspettarsi una insurrezione meno accanita da parte della sinistra che, cresciuta di forze con le ultime elezioni, e già vedendosi alla vigilia di giungere al potere, volle subito insinuare che quella era una vendetta contro l’isola per aver essa mandato alla Camera molti più deputati d’opposizione che per lo innanzi. La discussione si fece presto tempestosa ed impressionante, anche perchè da un lato il Ministro dell’interno Cantelli s’era indotto a comunicare parecchi rapporti di Prefetti dove facevansi gravi accuse alla popolazione di sistematico favoreggiamento ai ribaldi, e dall’altro vari deputati mossero rimprovero a più di un funzionario di provocare ed inscenare reati, e di mantenere rapporti coi briganti e con la mafia per servirsene come mezzo di governo. Persone e fatti erano stati in questo senso precisati dal deputato Tajani, già Procuratore del Re a Palermo, con accenni alla responsabilità dell’attuale e dei passati Ministeri; e per quanto non fossero mancate vivacissime proteste, smentite, e una domanda di inchiesta parziale da parte del Lanza per le imputazioni che si facevano risalire a lui, per quanto il Crispi, il Nicotera, il Lacava da sinistra, e il Rudinì, il Lioy e il Codronchi da destra, con altri ancora, ammonissero di non far questione di partito in questione così spinosa, la Camera a voto palese con 220 si contro 203 no approvò l’ordine del giorno puro e semplice, e a scrutinio segreto anche i provvedimenti eccezionali, che tuttavia, secondo un ordine del giorno Pisanelli, dovevano applicarsi solo ai già ammoniti e perseveranti nel mal fare; e, poichè molti deputati, presi da sdegno avevano abbandonato l’aula, il disegno di legge per un’inchiesta generale sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia e sull’andamento dei pubblici servizi raccolse appena 145 voti favorevoli, contro 48 contrari e 12 astenuti.

Se andava da sè che appunto in Sicilia conveniva dar seguito agli studi che avevamo deciso di fare, era anche naturale l’obiezione che ormai stava per provvedervi l’Inchiesta Parlamentare rendendo superflua l’opera nostra. Ma l’obiezione non ci ha trattenuto. Per sanare dei mali bisogna giungere a conoscerli bene, e nessuna superfluità poteva esserci se anche noi svolgevamo indagini in via privata indipendentemente dalle altre più solenni e di carattere pubblico. Era da presumere che la Giunta Parlamentare, coi nove membri che dovevan comporla([3]), avrebbe invitato a sè in corpo Rappresentanze e Delegazioni, fatto incetta di documenti ufficiali e di statistiche, tenuto udienze solenni col sussidio di uno o più stenografi, seguìto insomma procedimenti che lasciassero traccie sindacabili; ma proprio perciò atti a rendere timorosi e perplessi i più dei testimoni; noi invece dovevamo e potevamo cercare l’intimità di conversari riservati, per attingerne rivelazioni, giudizi e voti che giovassero a lumeggiare la psicologia della popolazione e i retroscena della vita civile e dell’interdipendenza economica e sociale delle varie sue classi. C’era da aspettarsi, ed infatti avvenne poscia, che come molti deputati e senatori dell’Isola convenivano con noi in via confidenziale su molte anormalità che pure avevano negato nella discussione parlamentare, così molti privati e molti funzionari non essendo in sospetto delle nostre finalità, si lasciassero andare, insieme con le informazioni sulle condizioni culturali, a rivelazioni incidentali meno prudenti e di ben altro carattere. Inoltre la inclusione nella Legge per l’inchiesta anche delle indagini sulle condizioni sociali si sarebbe risolta, quali erano i più dei membri della Giunta, in un prudente riserbo, poichè allora, anche molti liberali, per la nebulosità in cui la questione sociale rimaneva ancora avvolta, preferivano negarla al discuterla. Noi invece avremmo avuto la nostra coscienza meno preoccupata.

Presa la nostra decisione abbiamo subito pensato alla preparazione necessaria. Anzitutto occorreva che ciascuno raccogliesse quante più lettere di presentazione presso siciliani di diversa condizione ma sempre dimoranti nell’Isola e preferibilmente interessati nell’Agricoltura; infatti alla vigilia della partenza ne contavamo già quaranta che poi si moltiplicarono grazie alla grande cortesia con cui quei signori ci accolsero, e ce ne munirono. Fin da allora ci siamo prefissi di non prendere appunti durante i nostri colloqui, ma di affidarne alla memoria le parti più importanti e redigerne ricordo scritto alla sera aiutandoci scambievolmente. Conservo ancora il mio testo che comprende oltre cinquecento pagine e nel quale si leggono perfino gravissime accuse sulle quali, com’era doveroso, abbiamo conservato un geloso silenzio. Poichè era da prevedere che avremmo passato moltissime notti nei più umili villaggi e nei loro alloggi primitivi, abbiamo pensato ad aggiungere al nostro semplicissimo bagaglio dei letti da campo pieghevoli, ognuno munito di quattro vaschette di rame, rientranti l’una nell’altra per economia di spazio, nelle quali, riempiutele d’acqua, tuffare i piedi del letto prima di coricarci, per isolarlo dagli insetti. Abbiamo pure dovuto preoccuparci dell’eventualità di venire aggrediti dai briganti a scopo di ricatto, e quindi abbiamo deciso di provvedere per noi e per un fidato nostro servo che ci doveva accompagnare, quattro carabine «vetterli» del recentissimo modello a ripetizione, e quattro rivoltelle di grosso calibro, da portare costantemente su noi lungo il viaggio nell’interno.

 

II.

 

Questi ed altri preparativi ci fecero ritardare la partenza, sicchè fummo preceduti di qualche mese dalla Giunta parlamentare: ma ciò giovò a meglio dissimulare il nostro scopo più vero.

Ricordo che alla vigilia di lasciar Roma, mi trovavo con Leopoldo Franchetti nell’appartamento occupato da lui in via S. Sebastianello, quando egli nel maneggiare la sua rivoltella, ne lasciò partire un colpo involontariamente. Il proiettile spense la lampada ch’era già accesa sul tavolo, e andò a conficcarsi nell’opposta parete, a pochi millimetri dal petto di un suo vecchio cameriere che stava attraversando la stanza. Costui ne fu assai spaventato e traendone un triste presagio si provò a scongiurare il suo padrone di non partire. Naturalmente fu vana fatica.

Non solo il preteso presagio fu bugiardo, ma se abbiamo avuto occasione di avvertire molti pericoli perchè scoscesi i sentieri, infide le cavalcature e spesso acconcio agli agguati il solitario nostro cammino, non ci siamo mai trovati di fronte a minaccie concrete. È vero che viaggiavamo con molte precauzioni lasciando sapere il meno possibile i nostri itinerari e le nostre prossime tappe, e scegliendo mulattiere e guide solo all’ultimo momento. Eppure, ecco, secondo una relazione presentata dal Nicotera alla Camera poco dopo la nostra visita, un quadro delle condizioni della sicurezza pubblica in quell’epoca, quale la riconosceva il Governo.

«Cinque bande di audacissimi malfattori a cavallo nelle provincie occidentali commettevano assassinii, sequestri, grassazioni e rapine. Quella di Angelo Rinaldi, cui s’era unito il feroce Bottindari, infestava la provincia di Palermo, facendo qualche escursione nell’altre vicine, ed aveva trovato un sicuro rifugio nel Comune di S. Mauro Castelverde, ove protetto da numerosi manutengoli sfidava le ricerche della forza pubblica. L’altra comandata dal non meno feroce e terribile Domenico Sajeva scorrazzava nella provincia di Girgenti, e, protetta dall’alta mafia, aveva potuto sottrarsi alla giustizia. I superstiti briganti della banda Capraro avevano prescelto a loro capo il sanguinario loro compagno Merlo, per rimeritarlo dell’audacia dimostrata nell’assassinare, quasi alla presenza della forza, nell’abitato di Sambuca l’infelice milite Maggio, uccisore del Capraro, e percorrevano i circondari di Sciacca, di Corleone e di Mazzara commettendo atti di inaudita ferocia. Il bandito Nobile che per lo innanzi si era associato ora all’una ora all’altra banda, unitosi al Marino, aveva finito per costituirsene una propria e taglieggiava la parte occidentale della provincia di Palermo, mentre la parte orientale era infestata dalla comitiva del feroce Leone, la quale spesso irrompeva nel circondario di Mistretta e nella provincia di Caltanissetta. Codeste cinque bande di terribili malfattori avevano sparso lo spavento nelle quiete provincie occidentali dell’Isola ed avevano eseguito, sul cadere del 1875 e nel principio del corrente 1876 diversi sequestri e molti assassinii, tra i quali quello dell’Alberto, del Calzolari, del tenente Soldani, del milite Maggio, di Castellazzo Filippo, dei fratelli Leone ed avevano esterminato le due famiglie Pepe e Giacino in S. Mauro».

Certo ogni banda aveva un’organizzazione complessa e se pure si citavano per nome soltanto quattro o cinque dei suoi componenti, era risaputo che all’occorrenza poteva mostrarsi anche forte di venti e più; ma non per questo non dovevamo temere che qualcuna spingesse l’audacia fino ad aggredirci. Nè ciò contraddiceva al concetto che ce ne siamo andati facendo poi, e che Leopoldo Franchetti ha così bene esposto. Della loro organizzazione, sia stabile, sia periodica od eventuale, le bande solevano giovarsi non contro i forestieri, presumibilmente affatto alieni da ingerenze locali, ma nei loro rapporti coi signori del luogo, che dovevano o rassegnarsi alle loro imposizioni o vedersi combattuti ad oltranza, e anche nei loro rapporti con Ditte e gruppi industriali e commerciali cui assicuravano la loro tutela dietro corrisposta di determinati contributi. Oltre che di ricatti e di rapine, vivevano così di tasse sulla molenda o sulla fabbrica di mattoni o su altre industrie, salvo poi ad affermare sempre meglio all’occasione la pretensione di costituire un nucleo autoritario apparentemente interessato ad integrar l’azione del Governo per la tutela dell’ordine, con episodi di atroci violenze frammisti ad ostentazioni di generosità e di giustizia punitiva. Forse anche per la nostra insignificanza di oscuri viandanti abbiamo potuto affrontare impunemente le visite a Mistretta, a Bivona ed a S. Mauro alle quali la Giunta Parlamentare d’Inchiesta, a malgrado della sua scorta, finì col rinunciare.

Ma se i briganti forse non pensarono nemmeno a tentare un colpo di mano ai nostri danni, noi abbiamo avuto tuttavia ripetutamente la sensazione della loro vicinanza. Talora il nostro piccolo drappello è stato scambiato per una banda, e i carabinieri, a Mistretta ed altrove, e lo stesso Prefetto a Caltagirone, ci confessarono l’errore provocando la nostra più schietta ilarità. Viceversa fin dal nostro primo soggiorno a Palermo, ricevuti dal fratello di un antico aiutante di campo del generale Medici pel quale io avevo una lettera di presentazione, ci sentimmo dire che le loro terre nei pressi di Alia erano visitate frequentemente dai briganti, che il suo fratello ben li conosceva, e che, se ci pungeva curiosità di intervistarli ce ne avrebbe procurato il modo. Declinammo concordi l’offerta per non esporci a quel rimprovero di riconoscerli e di coltivare rapporti con essi che noi stessi facevamo a lui e ad altri siciliani, e, per la stessa ragione, rifiutammo l’offerta che ci venne fatta a Castelbuono di farci entrare furtivamente a S. Mauro nonostante il cordone che un battaglione di bersaglieri vi teneva intorno, nel disegno di sorprendere il brigante Rinaldi che si credeva dovesse far ritorno a quel suo nido naturale, dove già aveva impunemente svernato.

A S. Mauro ci siamo entrati lo stesso, e apertamente, per la scoscesa e pittoresca strada che da Castelbuono vi conduce, e in verità allora le difficoltà, più che per accedervi, erano per uscirne, giacchè i tre punti concessi al passaggio attraverso il cordone militare erano ancor più sorvegliati nel secondo caso. Forse proprio perciò era accaduto che cinque giorni prima, la banda Rinaldi avesse potuto penetrarvi con tutti i suoi cinque uomini confusa fra 50 contadini reduci dal lavoro, e, commesso l’eccidio di tutta la famiglia Pepe, vi avesse affisso uno scritto che diceva «che quella era la giusta punizione di una grande infamia». La spiegazione pare fosse che avendo il padre Pepe, un muratore, attentato all’onestà di una sua nuora, e avendo lo sposo preso seco una ganza, essa nuora, per vendicarsi, propalò che la banda era stata a lungo ricoverata in quella casa, e diede indicazioni per sorprenderla.

Del resto, in un viaggio come il nostro, che nell’interno si svolse insolitamente traverso comunicazioni spesso alpestri e sempre in pessimo stato, emozioni e pericoli non mancarono. Ho sempre vivo il ricordo di una caduta in mare, che mi incolse il 16 aprile, quando ritornati a Palermo, venni pregato dai miei compagni di visitare anche per loro il roccioso isolotto di Ustica e i suoi 212 coatti, mentre essi si fermavano a chiedere chiarimenti a persone già interpellate insieme in precedenza. Il mare si fece assai grosso, l’imbarcazione era primitiva e fragile, e nella difficoltà di accostare, essa si rovesciò e me la cavai con un brutto bagno, che avrebbe potuto essere l’ultimo se non ero discreto nuotatore. Ciò tuttavia non m’impedì di avere poco dopo tre interessanti colloqui: il primo con quel Sindaco, il secondo con un Delegato di P. S., il terzo con un bravo maestro elementare, parente del Sindaco, dal quale generosamente era aiutato a vivere non potendogli bastare le 38 lire mensili nette da ritenuta che riceveva dal Ministero.

 

III.

 

La Giunta Parlamentare d’Inchiesta ottemperò alla Legge 3 luglio 1875 della sua costituzione che le fissava il termine di un anno per presentare al Governo i documenti e la Relazione; ma se ciò fece il 3 luglio 1876, ultimo giorno utile, la pubblicazione non seguì che coi primi del settembre.

Meno solleciti fummo il Franchetti, il Sonnino ed io anzitutto perchè non ci venne dato di recarci insieme nell’isola altro che sul principio del 1876, e solo nel maggio ci siamo disposti al ritorno, pigliandosi una precedenza di qualche giorno il Sonnino, richiamato improvvisamente da circostanze di famiglia. Inoltre troppe ore ci avevano preso le gite ed i colloqui, sicchè occorse rivedere, confrontare e coordinare i nostri affrettati appunti, (nei quali si rispecchiavano moltissime contraddizioni di tendenze, di fatti e di giudizi), prima di accingerci a tracciare le grandi linee riassuntive e di fissar le conclusioni. Subito ci si affacciarono le difficoltà di una tripartizione razionale del comune lavoro, e anche di una sua redazione sociale; e un po’ per questo, ma più ancora perchè era da prevedere che esso avrebbe richiesto non poco tempo, mentre io ero assillato dall’impegno già assunto di un viaggio intorno al mondo, decisi di troncare la mia collaborazione e di partire pel Canada, lasciando ai miei amici il redigere e pubblicare i loro due volumi([4]).

Il volume del Sonnino «I contadini» che doveva figurare come secondo, uscì in luce primo con lo spuntare del dicembre; l’altro «sulle condizioni politiche e amministrative» il 23 di quel mese. Entrambi non avevano quindi potuto leggere la Relazione della Giunta se non quando liberavano le proprie bozze: ma ebbero sempre agio di dichiarare nella prefazione che trovò posto a capo del volume del Franchetti, che mentre avevano la soddisfazione di trovarsi non di rado d’accordo con la Giunta nei loro apprezzamenti sopra fatti parziali (specialmente sopra quelli esposti nel primo volume), non potevano dire lo stesso dei giudizi generali. Di più in una nota al § 131 del volume del Sonnino è anche soggiunto che la diversità di apprezzamenti per la parte agraria va riferita anzitutto all’avere escluso la Giunta l’esistenza in Sicilia di una qualunque questione sociale, mentre egli Sonnino non solo insisteva nel constatarla, ma ne faceva una concausa importantissima dello stato di insicurezza pubblica e di corruzione civile di gran parte della Sicilia. Ora, poichè dei due volumi si è avuto il buon pensiero di fare una seconda edizione, e si è voluto affidare a me l’onore di premettervi una nuova prefazione, spero che non si troverà fuor di luogo che io m’indugi ad istituire un confronto fra le constatazioni delle due Inchieste, pigliando poi in esame taluni importanti scritti successivi che se ne occuparono, e dando conto per ultimo della discussione parlamentare sollevatasi quasi a loro conclusione.

 

IV.

 

Nel leggere la Relazione della Giunta si avverte con sorpresa che essa ha palesemente evitato di parlare dei briganti. Essa riconosce bensì che in Sicilia ricorrono con grande frequenza i reati di sangue, il malandrinaggio nelle campagne e le associazioni di malfattori, ma se pure nel tener parola di quest’ultime, usa anche l’espressione bande (pag. 140), e prima, a proposito del malandrinaggio, attribuisce alle associazioni dei malfattori i ricatti delle persone quantunque eseguiti in rasa campagna, «giacchè è raro che non sieno preparati da lunga mano in conciliaboli di associati e di manutengoli nelle città» (pag. 131), ecco tutti i suoi principali commenti: «È una vera lotta d’intelligenza e di raziocinio che la barbarie sostiene contro la società». «È su questo punto che scattano più calde e più implacabili le accuse e i lamenti contro i poteri pubblici». «....Secondo le deposizioni Pellegrino, Messina e Cesarò le bande dei malfattori ricevono visite e tengono relazioni con la pubblica forza». Così scarsi e scoloriti accenni vanno connessi col proposito della Giunta di spiegare la massima parte dei fenomeni dolorosi della vita siciliana come conseguenza «di una minor preparazione dell’altre provincie italiane all’austero e difficile regime della libertà». Così sfuggono molte colpe e molte responsabilità. E anche altrove la Giunta accenna solo di sfuggita ai reati che pur sono più caratteristici («ricatti audaci come quelli eseguiti l’anno addietro sulle persone del barone Porcari, del barone Sgadari, del Camaroni sequestrato in piena città, agguati in cui cadde la forza pubblica nei poderi del barone Varisano e dei fratelli Cataldi») tutta lieta di constatare che con la sua visita ebbe a coincidere un periodo di tregua iniziatosi mesi addietro, ma costretta a confessare che i più esperti lo ritenevano una delle solite oscillazioni di intensità (pag. 116 e 117). Ma come non considerare il brigantaggio siciliano un gravissimo fenomeno morboso e peculiare dell’isola, quando se ne rintracciano le origini nella reazione contro il feudalismo ferocemente vissuto, quando abbiamo appreso di briganti cresciuti nel mestiere per atavismo, di altri che tali si fecero per isfuggire a quella leva militare la quale prima del 1860 era sconosciuta e nel 1860 venne imposta con rigore eccezionale([5]), quando sapevamo che le bande si formano e si rinnovano così di frequente e in tante plaghe diverse? Sia pure che altri ancora diventarono briganti perchè resi sempre più tristi nella loro intolleranza delle discutibili leggi sull’ammonizione e sul domicilio coatto; che parecchi ruppero con baleni di generosità la fosca sequela dei propri reati; che taluni non negarono preziosi servizi nell’urgenza di qualche movimento politico agli uomini d’ordine ed al Governo, i quali ebbero gran torto nel richiederneli senza sentire in pari tempo la responsabilità di convertirli in buoni cittadini durevolmente. Certo è che ai nostri occhi concretavano il pervertimento morale dell’ambiente, pervertimento che si faceva poi sempre peggiore per la loro triste influenza.

A Ribera abbiamo saputo di un caso che ci dà la misura di questa reciproca azione. Si erano sequestrati due dei sette fratelli che componevano la famiglia Bonifacio. Uno di loro venne rimandato presso di essa per ottenerne il danaro del riscatto; invece egli stesso, i fratelli e gli amici si unirono per dar la caccia ai briganti riuscendo ad ucciderne due e a liberare l’altro fratello. A tutti fu data la medaglia al valore civile, che avevano davvero ben meritata. Senonchè non tardarono ad accorgersi che si tramava la vendetta, e dovendo pur recarsi di frequente nelle campagne pei loro affari si decisero a pagare anch’essi un tributo alla banda per non essere molestati, e presero parte perfino ad un pranzo di riconciliazione.

Può anche darsi che la Giunta si sia lasciata vincere dall’ottimismo per un certo riguardo politico. Gli è infatti che il brigantaggio non potrebbe vivere senza il manutengolismo, e il porre questo nella sua piena luce offende l’amor proprio dei moltissimi che lo praticano e si affannano a giustificarne la vergogna con la mancata tutela del Governo. Noi invece abbiamo preferito ritrarre fedelmente la situazione nella sua crudità, convinti che se pure era raro che il manutengolismo nascesse cosciente, e fosse deliberatamente volontario, rimaneva altrettanto pernicioso allorchè, caso assai più frequente, era conseguenza ultima di una serie di rapporti, superficiali prima e via via più stretti fra briganti e cittadini.

Il Franchetti ce ne ha dato tre esempi abbastanza eloquenti qua e là nei suoi §§ 20 e 21. Io voglio aggiungerne qui un altro non già raccolto da noi nei colloqui di allora, ma che balza fuori vibrante di verità dall’interessante lettura di due volumi di memorie pubblicati a Parigi in francese nel 1830 coi tipi Delafont dal proscritto siciliano Michele Palmieri di Miccichè. L’essere l’episodio seguito tanto prima della nostra visita è una prova di più che il brigantaggio ha vecchie radici naturali nell’Isola e proprio nella sua medesima fisonomia.

«Era un pomeriggio dei primi di luglio. Mio fratello che era intento a scrivere nella sua camera mentre i domestici stavano finendo il loro pasto, si vide dinanzi all’improvviso tre uomini armati di tutto punto che gli fecero molti inchini per attenuare a loro modo l’impressione sgradevole delle loro faccie e della loro apparizione. Signor marchese, gli dissero, non abbiate paura, siamo brava gente e non vogliamo far male a nessuno, ma abbiamo bisogno di denari. Mio fratello, che intuì di non poter fare diversamente, fu loro cortese e lamentò solo di non essere stato prevenuto della visita. I domestici erano stati rinchiusi a chiave, ed altri nove briganti vigilavano fuori a cavallo. Alcuni abitanti di Villalba fecero sapere di volere accorrere a riscossa: ma mio fratello li fece pregare di rimaner tranquilli, ben sapendo che in caso di resistenza, se pure i briganti fossero stati messi in fuga, o presi, od uccisi, c’era da aspettarsi una feroce vendetta, e per lo meno il fuoco ai quattro angoli della proprietà con la distruzione delle messi e dei boschi: egli fece quindi imbandire una gran tavolata e pregò che non fossero troppo esigenti perchè egli non era l’esclusivo padrone. Mangiarono bene e bevvero meglio, poi intascate duecento oncie (circa 2550 lire italiane prebelliche) e fatte molte riverenze, presero la via del ritorno, sfilando per quattro sotto il comando del loro capo Luigi Lana, davanti a mio fratello che se ne stava ad un balcone sovrastante la porta d’ingresso per dar loro il buon viaggio, augurandosi di non più rivederli. Quand’ecco uno tra essi che doveva aver bevuto più degli altri, gli rivolge una sequela di atroci ingiurie rimproverandolo di averli canzonati con un così meschino riscatto. Luigi Lana gli puntò subito contro il fucile, e mentre tutti si tacevano terrorizzati lo freddò, e cadutone il cadavere dal cavallo, si precipitò di sella, estrasse la sciabola, gli tagliò netto il capo e gettatolo in un sacco che tolse dalla sella, lo presentò sanguinante a mio fratello, dicendogli: — Signor Marchese, egli vi aveva mancato di rispetto dopo che voi ci avete così bene accolti da dovervene essere riconoscenti. Tal sia di ognuno che vorrà offendervi come lui. — Mio fratello, in preda alla più viva emozione, pur rifiutando l’orribile presente, dovè ringraziare». Lo scrittore aggiunge che la banda da allora in poi continuò ad essere piena di riguardi pel marchese suo fratello e per gli abitanti di Villalba, ma chissà quali e quanti favori ne ottenne alla sua volta! Certo s’intuisce che lo scrittore non poteva confessarlo pubblicamente se pur ne era informato — ma siffatte subdole ed accortissime arti, meglio ancora della paura, dovevano riescire, in quel tempo come al momento della nostra visita, ad assicurare intorno alle bande brigantesche, quella rassegnazione passiva iniziale che esse sanno far presto degenerare in più o meno aperta complicità.

La Relazione della Giunta d’Inchiesta non vuole che sieno considerati manutengoli coloro che terrorizzati dalle minaccie aderiscono a ricoverare una banda nella propria masseria o s’impegnano al silenzio sui suoi atti ed andamenti o perfino, in caso di ricatto, preferiscono trattare direttamente con essa all’aiutare le ricerche dell’autorità (pag. 46). A ragione il Franchetti osserva che talvolta la paura spinge altresì a dare armi ed informazioni utili ai briganti e che le condizioni di fatto della Sicilia non consentono di trovare un criterio per distinguere il manutengolo che vi obbedisce dal volenteroso e per determinare il momento in cui al timore delle ostilità si frammischia o subentra la speranza di un vantaggio o di un lucro (§ 65). È accaduto così che poco dopo la nostra visita il feroce capobanda Sajeva fosse sorpreso dalla forza mentre in un casino poco discosto da Girgenti prendeva parte unitamente ai suoi compagni ad un lauto pranzo che gli era stato offerto da un barone e da un cavaliere.

Indipendentemente dal manutengolismo, noi abbiamo potuto accertarci, mentre la Relazione della Giunta lo ha escluso, che in Sicilia s’è formato un ambiente favorevole ai briganti, anche perchè in generale perfino i più feroci di essi, si avvantaggiano di una vaga aureola che ha suscitato qualche tratto di generosità, qualche lampo di eroismo, qualche riparazione di ingiustizie da parte di altri. Io debbo confermare, a malgrado di ogni smentita, che più d’una volta abbiamo sentito parlare di loro con simpatia ed ammirazione anche da funzionari dello Stato. Non c’è che da congratularsi dell’indignazione che questa rivelazione ha sollevato, e da augurarsi che prorompa sempre più calda, ma mi sembra eccessivo il volerla smentire; del resto anche nelle Riviste più reputate se n’è scritto con deferente interessamento, e per darne un esempio, ecco un periodo che esalta il loro valore, tolto da un articolo che fu inserito nella Nuova Antologia del febbraio 1877 da Enrico Onofrio, un siciliano molto verosimilmente anche pel nome: «Briganti si aggirano attualmente per le campagne dell’isola, lasciando fama delle loro prodezze. Il più famigerato è Antonino Leone. Furono uccisi per vendetta privata, o per invidia di mestiere, Valvo, Rinaldi, Di Pasquale, Lo Cicero, Capraro di Sciacca. Questi fu ucciso dalla pubblica forza dopo che, abbandonato dai suoi compagni, sostenne da solo due ore di combattimento contro un gran numero di soldati. Valvo fu assalito in una casa dove trovavasi con la sua amante e morì combattendo. Di Pasquale fu ucciso da Leone per odio personale. Botindari trovasi ora in prigione. Egli resistette per parecchie ore contro gli assalitori; abbandonato dai compagni continuò a combattere; ferito gravemente si diede alla fuga, corse per più di due miglia, dopo le quali cadde a terra sfinito. Uomini di tale audacia s’impongono facilmente a popolazioni di intere campagne.... Il brigante siciliano veste cacciatora e calzoni di velluto, è armato di fucili moderni e di rivoltelle delle migliori fabbriche, porta seco una grandissima quantità di munizioni ed un perfetto canocchiale per poter distinguere l’appressarsi del nemico. Il suo compito si riduce ormai al sequestro di ricchi proprietari. Il sequestrato è generalmente trattato nel modo più cortese ed è fornito a tavola di laute vivande».

Se fosse stato vero che la maggioranza dei proprietari siciliani si sottometteva riluttante ai rapporti con le bande, avrebbe dovuto accadere che anche senza dare spettacolo di eroismi individuali, come fecero sulle prime i fratelli Bonifacio a Ribera, essi ricorressero, con risvegli di dignità e di coscienza, alle difese collettive. Il Franchetti è scettico al riguardo anche quando al suo pensiero si affaccia il recente esempio della Romagna (§ 56). È scettica anche la Giunta Parlamentare d’Inchiesta, ma il Franchetti lo è perchè ritiene troppo diffusa e troppo bene organizzata la violenza delittuosa, per rimaner possibile ad un’associazione di privati il formarsi e romperla e sgominarla; invece la Giunta lo è perchè da parte dei cittadini vi è un diritto ad essere difesi dalla forza pubblica, non il dovere di dirigerla e di esporsi per essa. «Se in una data provincia, essa dice, lo Stato sociale è cosiffatto che non assicura nè la vita nè le sostanze nè la famiglia, non si possono imporre ai cittadini quelle attitudini e quelle virtù che sono il risultato di uno stato sociale affatto diverso» (pag. 144).

Ecco davvero un modo insufficiente di intendere le necessità e le responsabilità della vita civile.

 

V.

 

Nell’articolo della Nuova Antologia che ho già citato, Enrico Onofrio dice che in Sicilia comunemente per mafioso s’intende chi ha del coraggio e sa darne le prove. A ragione il Franchetti ha accettato la definizione del mafioso dataci dal Prefetto di Caltanissetta. «È mafioso colui che per un sentimento medioevale crede di poter provvedere alla sicurezza ed incolumità di sè stesso e dei propri averi, mercè il suo valore e la sua influenza personale, indipendentemente dall’azione dell’autorità e della legge». Nella Relazione della Giunta si va anche più oltre, e leggiamo: «La mafia è lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male, è una solidarietà intuitiva, brutale, interessata che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre l’esistenza e gli agi non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dalla intimidazione» (§ 42). Un volume interessante col titolo «La Mafia» venne scritto e pubblicato nel 1904, coi tipi Sandron, dall’Alongi, siciliano che fu a lungo Commissario di Pubblica Sicurezza qua o là per l’isola. Egli dice che la mafia non è una vera setta ma un modo di sentire atavico. Il reagire prontamente alle offese è di tutti in Sicilia, forma anzi la nota dominante del carattere regionale. L’onesto ricorre alla magistratura o anche al duello; il mafioso non si fa scrupolo di spingersi all’insidia o all’agguato. Questo sentimento atavico genera, per affinità morali, delle Associazioni, come suole avvenire tra coloro che hanno una medesima fede politica o tra coloro che esercitano una stessa professione: ma in dati luoghi l’elemento mafioso si organizza pure in sodalizi criminosi (pag. 127). E il prof. Mosca, citato dall’Alongi, osserva alla sua volta che quei doviziosi e quegli altolocati che coltivano questi rapporti non lo fanno già per indispensabile necessità come affermano in ogni occasione alle autorità ed ai loro conoscenti dei centri meno impregnati di mafiosità, ma piuttosto per vanità, per voglia di primeggiare. L’Alongi si pone poi il quesito come fanno i mafiosi, quando non sono legati da statuti ed in organismi, a riconoscersi, e dice che bastano i contatti dei mercati e delle fiere; del resto ben pochi non lo sono.

Base della mafia, secondo ammette la Giunta (pag. 143), «è il manutengolismo perchè essa non potrebbe altrimenti organizzare i suoi ricatti, essere informata del movimento delle forze pubbliche, depositare i prodotti che preleva sui proprietari di terre e di giardini»; viceversa essa Giunta protesta «contro la leggenda di una fitta rete di manutengolismo a disposizione delle bande, avvolgente una larga complicità dalle alte alle basse classi». Eppure si può sostenere facilmente che se molti mafiosi erano ben lungi dal doversi confondere coi briganti, o dall’esserne i manutengoli, tutti i briganti, moltissimi campieri, molti militi a cavallo, senza dire dei privati, erano pure mafiosi e così il manutengolismo agli occhi nostri allargava molto la sua cerchia e con tanta maggiore insidia.

A prima impressione l’accordo fra le due inchieste pare perfetto; senonchè dopo aver definito la mafia con così foschi colori, e in altri momenti con peggiori ancora, la Relazione della Giunta osserva che non si tratta di piaga specialissima alla Sicilia, perchè la mafia «sotto varie forme, con vari nomi, con varia o intermittente intensità si manifesta anche nelle altre parti del Regno, e vi scopre a quando a quando terribili misteri del sottosuolo sociale: le camorre di Napoli, le squadracce di Ravenna e di Bologna, i pugnalatori di Parma, la cocca di Torino, i sicari di Roma (pag. 114)». Meno male che si concede che la mafia in Sicilia abbia base più larga e più profonde radici, ma, a parte l’evidenza di una preoccupazione ottimistica l’assimilazione è tutt’altro che esatta, e corre gran differenza anche fra la camorra, che suol pattuire e ha per iscopo il lucro, e la mafia che è un sentimento congenito o una disposizione datasi che porta all’esercizio di qualsiasi prepotenza con o senza lucro, cumulando specialmente nella vendetta.

Ho detto con o senza lucro. A Palermo un consigliere di Prefettura che poi fu per vario tempo deputato, dopo aver definito più semplicemente la mafia siccome un esercizio di arbitrio individuale che non implica necessariamente l’idea ed il fatto dell’associazione, ha aggiunto che vi è mafia nel senso buono come nel senso cattivo. «Io» disse egli, «sono un mafioso». — Così si comprende subito come alcuni funzionari sieno caduti facilmente in Sicilia nell’imperdonabile peccato di voler combattere e guarire il male col male. Lo stesso Consigliere di Prefettura, mentre riconosceva per vere le imputazioni fatte dal Tajani, anche in piena Camera, al Questore di Palermo Enrico Albanese, e confermateci da lui quando l’abbiamo visitato a Napoli, sosteneva in buona fede che Albanese era un fior di galantuomo e un questore zelantissimo, e soltanto debole di fibra. Proseguendo, ci narrò di aver saputo dal generale Medici che una volta egli chiese all’Albanese se era vero che a Termini Imerese, come gliene era già pervenuta notizia confidenziale, nella notte scorsa fosse stato assassinato un perverso malfattore e bruciato il suo cadavere col petrolio. L’Albanese non negò, ma mentre lasciava supporre, speriamo scherzosamente, ch’egli al volerne bruciato il cadavere non fosse estraneo, e altrettanto faceva il Sottoprefetto di Termini Imerese intanto sopraggiunto, capitò di un sùbito una completa smentita ufficiale, sicchè il Medici, sdegnato, esclamò: «Come potete vantarvi perfino di brutte azioni non commesse?».

Del disordine di moltissime amministrazioni locali la maggior responsabilità è della mafia che si annida in tutti i partiti e vi prospera a spese dell’interesse pubblico. Così avvenne che mentre in Romagna i funzionari dello Stato, nel tempo in cui si volevano applicare provvedimenti eccezionali, si sentivano isolati, in Sicilia non si cessava mai dal circondarli riuscendo a guadagnarne l’animo. Entrambe le inchieste fanno a questo proposito rimprovero al Governo l’averli mutati troppo spesso in armonia non sempre inconsapevole alle influenze della mafia locale. La Relazione della Giunta ammette per lo meno che vi fosse un po’ di vero nell’affermazione che molti Prefetti si sieno esclusivamente occupati di interessi politici con trascuranza degli interessi amministrativi.

Un così doloroso stato di cose esige una più chiara spiegazione. Si è tanto più facilmente indotti ad abusare della autorità di cui si è investiti, quanto più coloro sui quali essa si esercita abusano della libertà a loro concessa; ed è per mantenere le giuste proporzioni fra l’una e l’altra che la Legge, come impera imparziale sui cittadini tutti, contiene anche in sè i freni per chi deve applicarla. Ciò deve intendersi anche rispetto ai rapporti privati perchè nella compagine sociale essi sono sempre un intreccio di esplicazioni dell’autorità e della libertà, ma ha maggiore significato nei rapporti dei funzionari ed agenti dello Stato e delle Amministrazioni locali coi cittadini. Guai a rompere l’equilibrio normale perchè allora la giustizia si vela ed esula, e a poco a poco l’arbitrio e la violenza dappertutto subentrano con una triste vicenda di eccessi passionali e di illegali reazioni che del pari si risolvono in danno di tutti, e ci avviano ad un regime di barbarie. Eppure troppo spesso accade che quando l’ordine è turbato e si vuole ristabilirlo, si è sedotti dal bisogno di procedere con energia e di riescire radicalmente, e quindi si esagera inconsciamente la propria azione e si oltrepassano i limiti della Legge che sono quelli della morale e della giustizia. Non senza ragione fu detto e ripetuto che è questione di combattere abusi ed eccessi, e che la salvezza dello Stato, e anche soltanto la conservazione dell’ordine pubblico, costituiscono una necessità suprema la quale giustifica tutto; ma quelle dovrebbero risultare contingenze proprio inesorabili e sempre transitorie: quindi la sospensione delle libertà e l’offesa ad esse dovrebbero concretarsi in un provvedimento particolare e passeggero nell’indole più intima: anzi, contemporaneamente all’adozione, dovrebbe essere dato pegno di un prossimo ritorno alla legalità.

La teoria è presto enunciata, e nel caso del governo della Sicilia, il marchese Di Rudinì, che pure fu tanto accusato di arbitri e di violenze quando si trovò a reprimere i moti del 1866, trovò una formola felicissima che gli udii ripetere più d’una volta: «Meglio un ricatto di più che una libertà di meno»; ma difficile ed arduo quanto mai è l’applicare la teoria, e vediamo spesso smarrirvisi nonchè le classi dirigenti, proprio il Governo, sopratutto perchè fuorviato da fini politici ed anche per la instabilità sua e dei funzionari dai quali si fa rappresentare. Così, dopo le due Inchieste, mentre nella Camera era stata la Sinistra a muovere le più severe accuse di illegalità ai Ministeri di destra, il Nicotera, Ministro dell’interno con l’avvenimento della Sinistra, persuaso che un allontanamento dall’Isola dei peggiori elementi, comunque ottenuto, dovesse portare un durevole ritorno della pubblica sicurezza, applicò largamente il domicilio coatto senza che nemmeno vi fosse una preventiva contravvenzione all’ammonizione, condizione voluta anche dalla legge per i provvedimenti eccezionali. Ancora una volta fu il Governo a dare l’esempio della violazione della Legge, nè si può dubitare che allora e poi la situazione non ne fu già risanata, ma aggravata — perchè l’esempio non poteva non avere una triste ripercussione nei rapporti fra i cittadini oltre che nell’azione dell’Autorità e della Magistratura. Certo non tutto il patriziato, non tutta la borghesia è da sospettarsi o da rimproverarsi, ma non si può altrimenti spiegare la nostra dolorosa constatazione che le classi dirigenti siciliane, in gran maggioranza, invece di proporsi esse stesse un còmpito di rigenerazione, aumentavano i guai dell’Isola con l’egoistica, subdola e falsa insinuazione presso le Autorità che i propri interessi, sia privati, sia di partito, s’identificavano coi pubblici, specialmente nel campo delle Amministrazioni locali. Qui è da compiacersi che ben altrimenti energica che quella del Relatore della Giunta, sia tuonata la voce ammonitrice del Franchetti, anche se proprio di ciò più amaramente si dolsero e coloro che erano in colpa e coloro che trovarono opportuno di dimostrarsi solidali con essi.

Un esempio scandaloso è intervenuto in quei giorni. La Società di navigazione «La Trinacria» era notoriamente in condizioni di fallimento, eppure il Governo le prodigò allora altri cinque milioni, e gli organi ministeriali giustificarono l’enormità adducendo che proprio in quei momenti la pubblica opinione esigeva dei riguardi per la Sicilia. Quella non poteva essere invece che una sua falsa apparenza, e molto opportunamente il paragrafo 301 del volume deplora che poche persone, assumendo un falso carattere ufficiale, riescissero spesso a farsi credere suoi autorevoli elementi costitutivi. La Giunta pur ammettendo l’imprudenza delle esposizioni del Banco di Sicilia con la Trinacria nota che «l’opinione pubblica di Palermo era unanime nel sostenere quella Società, che aveva assunto quasi carattere nazionale ed aveva saputo quasi identificarsi con l’amor proprio isolano» (pag. 38).

Il Franchetti ha spinto la deferenza verso la Giunta d’Inchiesta, quando ne ha conosciuta la Relazione, fino a riportare integralmente, dopo aver deplorato anche egli le deficienze dell’azione del Governo per le opere pubbliche delle quali era assetata la Sicilia, la parte dove con grande competenza erano esaminati i bisogni della viabilità terrestre e marittima. Si può per altro osservare che entrambe le Inchieste dovevano meglio studiare quali provvedimenti più efficaci, specialmente in fatto di bonifica malarica ed agraria, potevano adottarsi per assicurare una maggior salubrità e prosperità economica all’Isola. Lo stesso dicasi circa la convenienza di promuovere con mezzi essenzialmente educativi l’orientazione delle menti dell’Isola verso la necessità di una vera rigenerazione morale. Contro gli arbitrî, le violenze e le illegalità, scuole, associazioni per la coltura, conferenze, congressi, riviste tecniche e letterarie si dovevano promuovere, in bel coordinamento fra loro, e sotto la guida di un personale di sana ed elevata ispirazione, non inferiore a quello invocato per le amministrazioni locali e per i servizi dello Stato. La Relazione della Giunta lamenta opportunamente una grande negligenza nei riguardi degli Asili Infantili «che troverebbero assai maggiore sviluppo educativo se cadesse sovr’essi l’occhio intelligente e l’amorosa cura delle signore del luogo, certamente colte e gentili» (pag. 89).

Pur troppo il brigantaggio e la mafia non sono le sole rivelazioni di un profondo traviamento della mentalità di molti siciliani. Come prova del mio asserto voglio citare una confidenza che ci venne fatta dal Principe di S.... Egli, pur essendosi affrettato a riconoscere il torto che il brigantaggio faceva alla Sicilia e a deplorare sia la mancanza di coraggio civile da parte dei cittadini nel non combatterlo spontaneamente, sia l’inettitudine di aver lasciato disperdere la banda Capraro dopo l’uccisione del suo capo, si vantò tuttavia con noi di tenere nascosta nell’abitazione di un Barone del quale allora godeva l’ospitalità, una giovinetta da lui fatta scomparire dal paese senza che nessuno del luogo e nemmeno il Barone e i suoi famigliari ne sospettassero nulla.

Mentre qui si rilevano queste gravi sconcordanze, non devesi trascurare di prendere nota che vi è consenso tra la Relazione della Giunta e il volume del Franchetti non solo nell’esposizione dei precedenti storici, ma anche negli apprezzamenti su certi fenomeni ed organismi speciali della vita siciliana coi quali hanno una stretta connessione i briganti e la mafia, per esempio l’abigeato e il contrabbando, il milite a cavallo ed il campiere.

 

VI.

 

Gravi sono anche le sconcordanze della Relazione della Giunta col volume del Sonnino.

Una prima riguarda la divisione della proprietà.

La Relazione ammette di buon grado che la condanna del latifondo esce unanime dal giudizio degli uomini più competenti dell’Isola (pag. 14) e che il beneficio di 20 mila proprietari nuovi recato dalla censuazione siciliana fu turbato dal ritorno, immediato o graduale, di alcuni lotti venduti, che ricostituì nelle mani di un solo proprietario o un latifondo nuovo o l’incremento dei latifondi limitrofi; ma vanta assai gli effetti generali delle leggi di svincolo. Invece il Sonnino, ai paragrafi 84, 85, 86 deplora amaramente i metodi tenuti nella liquidazione di quell’enorme massa di beni. Pubblicatasi poi la Relazione della Giunta, a pag. 334 del volume del Franchetti venne inserita quella nota alla quale ho già accennato, dove si sostiene di nuovo che qualunque potesse essere l’importanza della coltura e della proprietà media e piccola, era caratteristica della Sicilia un grande concentramento della proprietà, tale da determinare le condizioni economiche e sociali. È dunque importantissimo approfondire questo punto.

La Relazione della Giunta potè far tesoro oltre che della Storia dell’Enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia, pubblicata nel 1871, anche di una deposizione del suo autore, il prof. Corleo, che citò perfino il caso di un lotto sminuzzato fra 300 aspiranti; ma da altro lato il Sonnino si fece forte della pubblicazione fatta nel 1875 dal prof. Basile di un volume «I Catasti d’Italia e l’Economia agricola in Sicilia», dove nelle pagine 78, 112, 113 è lamentata la cessazione di un movimento accentuato verso la censuazione della proprietà territoriale, già iniziatosi nel 1824, grazie alla Legge Borbonica del 10 febbraio di quell’anno, che dava diritto ai baroni di assegnare forzosamente ai loro creditori delle terre in pagamento dei propri debiti. Maggior luce venne fatta poco dopo le due Inchieste da una statistica pubblicata dall’ing. G. C. Bertozzi nel volume 4° degli «Annali di Statistica»([6]) che dava come esistenti 20,670 quote enfiteutiche, possedute da 8105 enfiteuti, e per una somma di canoni annui di lire 4,785,565, ma appena il 23 per cento di questa somma riferiva ad enfiteuti possessori di una sola quota per ciascuno; e calcolava che il loro gruppo, che comprendeva i due terzi del totale, abbia avuto solo 27 lotti per ogni 100 censuati mentre gli altri 73 andarono in mano dei pochi che si presero molte quote per ciascuno. Il doppio ordine di fatti, osserva il Bertozzi, prova che un numero grande di quote enfiteutiche dev’essersi concentrato in poche persone, le quali erano già ricche per altre proprietà fondiarie, prova cioè che la ripartizione dei fondi ecclesiastici effettivamente ottenuta con l’enfiteusi era ben lungi dal corrispondere agli intenti della legge; anzi i molti lotti venuti insieme nelle mani dei singoli utenti è da supporre che nella maggior parte dei casi abbiano reintegrato i fondi che i periti avevano diviso in quote, come vien confermato dal gettar l’occhio sugli elenchi nominativi degli enfiteuti con più di una quota e dei Comuni in cui le loro quote si trovano. È poi da dare rilievo al fatto che le maggiori lagnanze del Sonnino concernono l’avere congegnato ed attuato l’alienazione di quella massa di beni senza una decisa preoccupazione di farli pervenire direttamente alla popolazione rurale che li lavorava, defraudatane così mediante le camorre nelle aste, le maliziose interposizioni di nullatenenti, e le sfavorevoli interpretazioni della giurisprudenza.

Benchè qua e là nel suo contesto la Relazione della Giunta vi faccia pure vari fuggevoli accenni, è nelle sue conclusioni che più esplicitamente esclude l’esistenza in Sicilia al tempo dell’Inchiesta di una questione sociale e di una questione politica. Vi si legge che «le ossa di quella razza robusta e vivace, non erano rose, malgrado le avversità del passato, nè da una questione politica nè da una questione sociale». Ora, prescindendo dalla politica, che anche l’Inchiesta privata riduce al preconcetto autonomista di pochi ambiziosi che speravano vantaggi per sè dall’indipendenza più o meno assoluta dell’Isola, quanto alla sociale è strano che la si voglia negare pur convenendo nella presenza di molte condizioni che sogliono generarla e fomentarla. Si può anche concedere che non vi sia un nesso diretto fra i bassi salari o i durissimi patti agricoli col brigantaggio e con la mafia, perchè le loro sedi preferite sono le zone più prosperose dell’Isola e perchè molti dei mali che possono affliggere il contadino siciliano si riscontrano in altre provincie del continente, ma è chiaro che bassi salari e durissimi patti agricoli concorrono a mantenere i contadini in uno stato di pietosa miseria, e che se non il brigantaggio, la misteriosa mafia interviene con le sue violenze ai loro danni quando s’agitano individualmente o collettivamente per migliorare le proprie condizioni. Inoltre la questione sociale può esistere anche indipendentemente da tutto ciò: essa ha radice nella cattiva distribuzione della ricchezza, e negli ostacoli, quali l’oppressione tributaria e l’insufficienza dei servizi pubblici più necessari, con cui una o più classi sociali impediscono ad un’altra di acquistare più largamente, ma si concreta anche in un vago malcontento per il bisogno insoddisfatto di giustizia e di carità in ogni esplicazione della vita; si aderge quindi a valore e significazione morale. Il giudizio definitivo sul diverso apprezzamento l’avevano già dato le sanguinose sollevazioni di Pace, di Collesano, di Bronte, e di molte altre località; ma lo ribadirono anche troppo presto quei Fasci (la cui storia io pure ho già narrato nelle pagine della Nuova Antologia)([7]) i quali a taluni occhi parvero sorgere di un tratto sotto la bacchetta magica di una propaganda artificiosa, ma ebbero invece una paternità immediata nella reazione contro uno spietato sfruttamento, sicchè non si poterono frenare o sciogliere senza repressioni cruente. Nè si dica che poi, sciolti quei Fasci, l’ordine in Sicilia tornò così estesamente da poterli supporre manifestazione non già di una malattia organica e costituzionale, ma di fenomeni morbosi isolati e per sè stanti. Quei Fasci furono sciolti, ma ne sopravvive la tradizione e il senso di disciplina che li rese minacciosi; e la tranquillità che oggi si avverte è dovuta in gran parte alla maggior prosperità economica e conseguentemente al prevalere della domanda di braccia sulla loro offerta e a una certa mitigazione dei patti colonici.

E la Giunta e il Sonnino s’occupano delle Associazioni dei contadini.

La Giunta cita di sfuggita quella di Valle d’Olmo, costituitasi per introdurre migliori pratiche agrarie e per soccorrere quei borghesi che si trovavano, per gli onerosi patti agricoli, in compassionevoli strettezze, tentativo tanto rispettoso degli ordini sociali che la Presidenza ne fu affidata al Conte Tasca d’Almerita, «ricco proprietario e specchiato cittadino» e aggiungerò io, uno dei non pochi patrizi che ci si rivelarono compresi dei loro doveri sociali: poi cita l’Associazione dei borgesi di Villalba che stettero alcuni mesi senza lavorare, piuttosto che consentire ai durissimi patti imposti per gli affitti e le mezzerie da quei proprietari, ma senza usare pertanto nessuna violenza.

Invece il Sonnino include questi medesimi esempi in un apposito capitolo sui mezzi d’azione con cui i contadini possono migliorare la propria sorte; e dopo averli riassunti nell’associazione e nell’emigrazione, distingue le Associazioni in cooperative di produzione e in restrettive della mutua concorrenza. Fra le prime cita quelle di Valledolmo, di Sanfratello e di Mistretta. È noto che questa forma si è andata poi diffondendo assai, e che, mentre e socialismo e clericali le offrirono a gara il loro patronato, in generale non si è molto allontanata dal campo dell’intensificazione della produzione, salvo che nel periodo dell’agitazione dei Fasci. Ma il Sonnino va più oltre, e partendosi dal fatto che già allora, secondo il progetto di un nuovo codice penale, nulla vi era di ingiusto nell’associarsi per alzare i salari, si indusse a ragionare delle società di resistenza e degli scioperi, naturalmente riconoscendone la legittimità quando non ricorrevano a violenze, ma senza tacere che n’era sempre discussa l’opportunità e l’utilità. Quel capitolo può avere irritato assai la generalità dei proprietari siciliani e fors’anche molti di quelli del Continente, ma era più che giustificato dallo spettacolo della miseria nera dei contadini di alcune plaghe, e dopo tutto egli approvava novità già latenti, e che non tardarono ad imporsi anche colà, tanta ne era la giustizia sociale. D’altronde egli, se dimostrava pure che v’erano ragioni impellenti per estendere maggiormente nel campo agrario quelle limitazioni contrattuali il cui principio era già accolto nel nostro Codice Civile e le cui applicazioni nelle legislazioni straniere intanto illustrava, in un altro capitolo faceva appello eloquente all’azione spontanea dei proprietari. Qui mi si permetta di ricordare che anch’io incoraggiai con fervore questa parte del disegno del volume, e che quando nel 1893 il Ministero di Grazia e Giustizia d’allora, d’accordo col Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, istituì una Commissione con l’incarico di studiare e proporre le modificazioni da introdurre nel diritto vigente per quanto si riferiva ai contratti agricoli ed al contratto di lavoro, io che ebbi l’onore di farne parte([8]), alla chiusura delle laboriose discussioni ho voluto dichiarare che «pure affidandosi alla legge, come nelle deliberazioni della Commissione, la tutela del contadino, il modo più legittimo e più efficace di rimediare alle attuali enormità del patto colonico era il riconoscimento da parte dello Stato delle Associazioni di resistenza intese a permettergli di integrare da sè le proprie forze; le quali Associazioni, coi loro procedimenti segreti diventano presto e volentieri un pericolo sociale, ma legittimate e controllate dallo Stato come si è fatto in Inghilterra, possono avere e mantenere il provvido carattere di istituzioni tutrici della indipendenza contrattuale».

 

VII.

 

Se i miei amici si appagarono di dichiarare con brevi parole il loro accordo con la Giunta parlamentare negli apprezzamenti su fatti parziali, ma non nei giudizi generali, lasciando al pubblico di formarsi un’opinione sulle differenze che li dividevano, invece l’on. Bonfadini, Relatore della Giunta (poichè non vi è dubbio che egli stesso si celava sotto l’anonimo), ha voluto dare alla luce un lungo articolo di garbata polemica nei tre numeri del 20, 22 e 23 gennaio 1877 del giornale La Perseveranza di cui era assiduo collaboratore. Nel pigliarli qui in esame, mi accadrà forse di cadere in qualche ripetizione, ma spero che essa non riescirà a detrimento di chiarezza sulla interessantissima contesa.

Il Bonfadini non ha saputo spogliarsi del sentimento della sua superiorità di vecchio parlamentare, e, pure prodigando molti elogi agli autori dell’Inchiesta privata, e concedendo cattedraticamente che con pochi pentimenti di forma e di pensiero si sarebbero evitate le sue critiche, prende a partito prima il Franchetti e poi il Sonnino, ma sempre da un medesimo punto di vista di conservatore, sicchè agli occhi di chi si senta animato da uno spirito liberale quelle critiche si convertono in elogi.

Abbastanza esatto e perspicuo è il seguente riassunto ch’egli fa della sostanza del volume del Franchetti: «La Sicilia è tuttora governata nelle sue manifestazioni sociali dallo spirito medioevale, le cui caratteristiche principali sono due: un’assenza quasi totale della classe media, e la tendenza di tutti a credere l’autorità privata, qualunque ne sia la forma, e più forte e più legittima e più rispettabile che l’autorità del Governo e delle Leggi. Queste, ordinate secondo il sistema italiano di una prevalenza della classe media, non hanno trovato in Sicilia una base razionale su cui esplicarsi, e non hanno servito così altro che a sanzionare nella maggior parte dei casi, con una vernice di liberalismo le prepotenze e gli abusi degli antichi sistemi, lasciando da un lato la classe dominante che ha monopolizzato tutti gli uffici e le pubbliche funzioni a beneficio dei propri interessi e della propria supremazia, e dall’altro una classe sofferente di proprietari e di lavoratori del suolo che non trovano nella legislazione nazionale mezzi legali efficaci per migliorare il proprio stato, e che, se non ora, saranno tratti più tardi a trovare nella solita violenza i soliti scioglimenti della questione sociale».

Il Bonfadini trova giusta l’affermazione che in Sicilia il concetto delle forze e delle relazioni personali prevale sul concetto delle forze di Governo e delle relazioni pubbliche, ma trova esagerato che questo fatto produca una mancanza di sentimento degli interessi pubblici, e cita a suo sostegno sia il buon ordinamento di talune istituzioni di utilità pubblica, specialmente a Palermo ed a Catania, sia i larghi concorsi votati dai Corpi locali per opere pubbliche. Ma l’una cosa non è affatto in opposizione con l’altra: eppoi si tratta di proporzioni e sarebbe occorso analizzare e far cifre prima di concludere.

Più oltre il Bonfadini ammette pure che sia una delle più forti radici dei mali della Sicilia il difettarvi la classe media sulla quale altrove può appoggiarsi il sistema liberale della nuova Italia, ma trova esagerato l’averne tratto la conseguenza che il proletariato sia in balìa della classe abbiente, e lo argomenta dall’essere anzi non pochi i Comuni nei quali gli abbienti si lagnano di essere stati soverchiati nelle elezioni locali; ma è facile che si tratti di casi di reazione naturale, oppure di lotte di partiti amministrativi, e quindi, in quelle vittorie, i proletari se mai non rappresentano che un’etichetta, e per lo meno potrebbe dirsi che furono invocati e capitanati per ben altri interessi dei propri, allo stesso modo che da parte di altri si giungeva ad allearsi perfino con bande brigantesche avversarie fra loro, con la differenza tuttavia che l’imposizione della banda vittoriosa rimaneva per lungo tempo sul partito che l’aveva invocata, e invece i proletari non erano che alleati momentanei presto ricondotti sotto la propria sferza dal partito vincitore.

È scritto negli articoli: «Come conciliare l’asserita simpatia dei siciliani pei briganti con la storia dei ricatti, delle grassazioni, degli scrocchi a cui soprattutto è soggetta la classe dei proprietari, e che li costringe in tanti luoghi e per tanto tempo a vietarsi la soddisfazione e la vista delle loro campagne?». Certo al momento delle due Inchieste, e anche di sovente, vi erano molti signori i quali, per lo sdegno della vita di umiliazione che avrebbero dovuto condurre, si assentavano per lunghi periodi, lasciando alle prese coi briganti il loro gabellotto; ma viceversa, se non la simpatia, il manutengolismo di gabellotti e proprietari aveva proprio la sua prova, come ci venne ripetuto da più fonti autorevoli, nella sicurezza con cui quelli tra loro che non si erano rassegnati ad assentarsi, risiedevano sul luogo con moglie e figli, e giravano senza scorta anche se il territorio era infestato da una banda. Nella provincia di Palermo, e nelle altre zone in condizioni di sicurezza analoghe, ricatti, grassazioni e scrocchi erano vicende clamorose ma non frequentissime perchè verosimilmente riservate agli insofferenti delle tristi imposizioni e negoziazioni; ma non per questo potevano considerarsi per eccezionali, come avrebbe voluto il Bonfadini, specialmente quando e la Giunta Parlamentare, e noi, e la stessa Camera, insieme con le denuncie e deplorazioni della tristissima piaga, ricevevamo denuncie e deplorazioni circa i rapporti che funzionari dello Stato e personale della pubblica forza avevano avuto ed avevano con le bande, delle quali anche si servivano come loro mezzo poliziesco.

Non è vero che il Franchetti, come scrive il Bonfadini, abbia voluto escludere dagli uffici governativi della Sicilia tutti gli impiegati siciliani, e solo perchè gli è risultato che taluno fra essi fosse infido. Non v’è che da rileggere il suo § 105 per accorgersi che non solo egli ammette eccezioni, ma dichiara che gl’impiegati siciliani i quali intendono egualmente lo stato dell’Isola e quello della società moderna saranno istrumenti migliori di qualunque altro. La riserva circa la loro mentalità s’imponeva perchè da impiegati siciliani abbiamo sentito troppo spesso fare l’apologia delle repressioni violente, e, peggio ancora, della mafia ufficiale; vi fu perfino chi lamentò che non si ponessero limiti per legge o per regolamenti locali alle pretese di più alti salari. Così pure a torto si imputa al Franchetti di avere affermato che nell’Isola non v’è la possibilità di governare con l’opera combinata di quei cittadini e dello Stato. Il concetto ch’egli esprime ai paragrafi 103 e 106 corrisponde in ultima analisi a quello più felicemente espresso dal Sonnino al paragrafo 128, che la Sicilia, lasciata a sè, o con una rivoluzione, o col prudente concorso della classe agiata, avrebbe trovato il rimedio ai suoi mali e quindi al disagio dei contadini e dei lavoratori.

Il Bonfadini è costretto invece ad ammettere per giusta l’affermazione del Franchetti e del Sonnino che in Italia l’abolizione del feudalismo lasciò i contadini nelle condizioni di prima, e che nel 1860 furono sovrapposte leggi moderne a costumi medioevali, ma trova esagerata la conseguenza trattane che tutta la legislazione liberale dal 1860 in poi si risolve in polvere negli occhi, e li rimprovera di essersi lasciati soverchiare dall’amore di quella tesi la quale aveva già fatto capolino in altri loro precedenti lavori, che cioè ormai l’Italia trovavasi in presenza di una vera questione sociale già adulta e minacciosa. Questo rimprovero è ben naturale che esca dalla penna di chi nella Relazione della Giunta non trovava nemmeno da sorprendersi della miseria del contadino siciliano perchè peggio di lui vivevano i contadini delle risaie lombarde, i pastori della campagna romana, i cafoni delle balze silane, e tutto scusava con la peregrina osservazione, con la quale potè giustificarsi anche la schiavitù, che le diseguaglianze sociali sono base necessaria della società umana. Eppure attenuarle, addolcirle in ragione dei mille progressi, è anzi farle più provvide.

Comunque, il Bonfadini, nell’insieme del suo importante articolo, anche attraverso le non poche divergenze nelle idealità politiche e sociali, si è venuto sempre più accostando, quando n’ebbe avuto piena conoscenza, agli apprezzamenti di fatto e alle più importanti deduzioni dell’Inchiesta privata, tanto da chiudere l’articolo con queste parole, delle quali i miei amici non possono che essersi altamente compiaciuti: «Della Sicilia dovrà pur troppo occuparsi per un pezzo la nuova generazione politica, alla quale spetta riordinare, col sussidio dell’esperienza, quella patria che la generazione cadente ha tratto dal sepolcro secolare, rinnovandola di spiriti e di vigoria. Se quella dirittura di intenti e quella pertinacia di studi che furono consacrate alla loro recente Inchiesta privata, saranno dagli autori o da altri consacrate al resto delle Provincie italiane, la base dell’avvenire sarà ben presto posata su un terreno sodo, e chi ha fatto l’Italia, potrà con tranquillo animo rassegnarsi a vederla governata ed amministrata dai propri eredi, riservandosi il diritto di quel brontolìo che è innocua protesta dell’onesta vecchiaia contro la gioventù attiva e capace».

 

VIII.

 

Più nobilmente non avrebbero potuto chiudersi nè il casuale contraddittorio nè la voluta polemica che io ho voluto rievocare: ma ben altro tono raggiunsero le recriminazioni contro il Franchetti ed il Sonnino nella maggior parte dei giornali dell’Isola. Non solo si è protestato, ma siccome ebbe a scrivermi il Franchetti quando ero al Messico, si è gridato inferociti contro i due calunniatori, citando concetti e perfino frasi che non erano loro affatto([9]). Anche i giornali del continente trascinati dalla profonda impressione destata ovunque da così gravi rivelazioni, non furono avari di recensioni ispirate naturalmente alle diverse dottrine politiche ed economiche che professavano. La stessa stampa estera volle occuparsene. In Inghilterra, oltre i giornali quotidiani, accolsero notevolissimi articoli la Saturday Review e l’Edimburg’s Review; in Germania la National Zeitung dove l’Hillebrand in un seguito di numeri diè nuova prova della sua grande competenza nel ragionare delle cose italiane([10]). Tra le varie Riviste nostre che si pubblicavano allora, la Nuova Antologia tacque, ma il Giornale degli Economisti, autorevolissima rivista mensile edita in Padova, ospitò nel dicembre parecchie pagine del Luzzatti sul solo volume del Sonnino, perchè l’altro non era ancora uscito in luce, e nel gennaio successivo un ampio raffronto del deputato Morpurgo, appunto sulle due Inchieste, sotto il titolo «La vita siciliana secondo gli ultimi studi».

Il Luzzatti, pure nel suo esame parziale, volle accomunare nei suoi elogi i due giovani «accintisi alla grande e difficile impresa di far conoscere i dolori e le deficienze della Sicilia, che anche nei loro scritti individuali facevano sentire la stessa ispirazione superiore essenzialmente virtuosa e la promiscua nota della collaborazione». Rivelando alcune confidenze fattegli dal Corleo sugli insufficienti risultati della censuazione in Sicilia, afferma anch’egli che quei beni ecclesiastici furono sperperati e trova che valeva meglio che lo Stato li avesse tenuti per sè, perchè ne sarebbe accresciuto il valore con l’aumento naturale della popolazione e si sarebbe potuto ponderare con maggior diligenza il modo di distribuirli a prezzo equo fra la popolazione «in guisa da rialzarne veramente la dignità ed il carattere»; il qual disegno ha per altro il difetto di non tener conto dell’urgenza del problema siciliano e delle difficoltà di una gestione di Stato, anche se transitoria. Più felice egli è quando ricorda la recente inchiesta industriale, della quale aveva gran merito, e interviene nel dissenso fra la Relazione della Giunta e il Sonnino circa il danno che una riforma della Legge sul lavoro dei fanciulli poteva portare alle loro famiglie, aggiungendo che il preferire una soluzione affidata ai progressi della meccanica, non lo eliminerebbe nè lo ritarderebbe. Dice la parte in cui il Sonnino tratta dell’azione dello Stato soverchiamente disinvolta, la sua dottrina sulla proprietà fondiaria poco rispettosa dei principii economici e giuridici, ed alcune proposte sui contratti agrari troppo vincolatrici; al qual proposito promette pel prossimo numero un più disteso articolo del quale non fu saputo mai.

L’on. Morpurgo, nel suo «Quadro della vita siciliana secondo gli ultimi studi» cade in qualche contraddizione. Egli narra per esempio di aver appreso in quegli stessi giorni dalla viva voce di un siciliano che un proprietario facoltoso sequestrato dai briganti, avendo potuto sfuggire loro di mano, mostrò del danaro a un suo campiere, gli fece sentire che il proprio sequestro era uno sfregio anche per lui e così gli lasciò comprendere che voleva essere vendicato. Il campiere si eclissò per qualche tempo e quando tornò, morte violenta aveva già soppresso parecchie persone indiziate di responsabilità nel sequestro; ma riferisce anche di un colloquio con quell’eletto ingegno che fu Matteo Raeli, dal quale s’è lasciato dire senza confutarlo che il persistente travaglio della sicurezza pubblica nella vita siciliana era soltanto un episodio contro il quale era un errore e una fallace illusione il combattere con l’occupazione militare e gli espedienti di polizia: ora, se pure si tratta di un episodio, tragico com’è, prevarranno bensì in un lontano avvenire le tanto più diffuse virtù sanatrici, ma intanto come lasciarlo radicarsi e dilagare?... Ed egli plaude del pari sia alla sollecitudine inquisitrice del Parlamento, sia alla concorrente iniziativa privata così piena di carità civile, e rimane perplesso fra l’una e l’altra esposizione dei termini del problema, fra le une e l’altre proposte di soluzione: dapprima gli pare che la Relazione della Giunta pecchi di soverchio ottimismo, e più oltre si dice tratto a dichiarare che un provvido risveglio non possa essere che questione di tempo: «lasciamo acclimatare i nuovi ordini civili, sperimentare gli uomini e le leggi, agire le virtù dell’esempio, acquistar forza l’opinione nuova e i fattori ond’essa si compone, e il rivolgimento si compirà senza alcun dubbio»; più innanzi poi condanna i timori, i dubbii, i dottrinarismi tradizionali come il peggiore dei pericoli e prosegue: «Il non fare, il lasciar fare sembra già un principio di utilità molto problematica in condizioni sufficientemente normali; l’assurdità di esso non potrebb’essere controversa in mezzo ad una società che deve guadagnare con velocità accelerata il tempo perduto.... Un governo operoso e forte, ecco la formola. Non vi dev’essere in Sicilia alcun bisogno ch’esso non sia pronto a curare, non repressione necessaria che rimanga sospesa o che sia ritardata».

Dolse molto al Franchetti che non si fosse preso in esame diligente e più ampio un lavoro di tanta responsabilità e di tanto interesse per il paese e, nello scrupolo della coscienza, voleva che gliene ragionassi di nuovo. «In fondo in fondo, mi scriveva, mi pare che anche in mezzo alle nostre discussioni vi fosse accordo e che i due volumi sieno un riassunto abbastanza fedele delle nostre triplici impressioni; ma letto il libro, vorrei tu mi scrivessi che ne pensi.... Sono molto impaziente di avere il tuo giudizio». Quando poi gli ebbi inviato qualche appunto critico mi replicò senza indugio: «Convengo in moltissime delle tue osservazioni, anche laddove accenni a trascuratezze di forma e di coordinamento, e a ripetizioni; ma il tempo mi è mancato per far meglio. Era necessario che il libro uscisse prima della nuova discussione parlamentare, e fu principiato a stampare il 27 novembre, quando avevo riveduto appena i tre quarti del manoscritto del primo capitolo. Di più, giunto a discorrere della Pubblica Sicurezza, trovai talmente impaccioso distinguere fra le caratteristiche generali dell’Isola e quelle particolari della Provincia di Palermo che mi decisi a spendere tre o quattro giorni per raffazzonare il già fatto e trarne fuori quello che è adesso la Prima Parte. Nel suggerire i rimedi particolari per ristabilire la Pubblica Sicurezza non ho difatti pensato a fermarmi di più su uno principale se non unico. Può sembrare ch’io abbia divagato nell’esame dei tanti, ma il mio convincimento è (ed ho cercato ripetutamente di esprimerlo) che pochi non basterebbero. Con la proposta che per tutti i delitti aventi connessione fra loro a motivo del fine si abbiano a ricercare, arrestare, e sottoporre a giudizio tutti quanti avessero con quei delitti attinenza lontana o vicina, non mi riferisco già ai parenti, spesso innocui, degli indiziati, ma a coloro in rapporto con questi che potrebbero intimidire i testimoni o fossero sospetti per aver commesso qualche violenza. Arresti su così larga base possono essere di difficile effettuazione, ma non mi pare di avere trasgredito alle raccomandazioni fattemi da te e da Sonnino di evitare per quanto possibile ogni proposta di provvedimenti eccezionali; raccomandazioni che trovarono bensì eco anche nei miei convincimenti, ma non senza riserve come ho esposto nel mio ultimo capitolo. Così mi sono lasciato andare alla proposta di aumentare enormemente le ingerenze dei Prefetti e speravo che fosse studiata meglio e discussa, ma ahimè!, fu un’illusione la mia l’aspettarmi che il nostro lavoro potesse venire seriamente esaminato e discusso».

L’amarezza del Franchetti è da sperarsi che sia venuta mitigandosi con la lettura di successive recensioni, ma specialmente quando nella Rassegna settimanale, una lettera di Antonio Salandra aprì un’ampia discussione sulla esistenza della questione sociale in Italia e sul miglior modo di adoperarsi per la sua soluzione. Con essa portavasi senz’altro in campo aperto la lotta di scuole e di tendenze([11]).

Il futuro Presidente del Consiglio, non ancora deputato, trasse occasione della pubblicazione del volume del Villari Le lettere meridionali e di altri scritti sulla questione sociale in Italia (Firenze, success. Le Monnier), per dar saggio di quella vivace opposizione che com’egli dice egregiamente, doveva riescire gradita all’A., perchè atta a richiamare l’attenzione generale sulle questioni da lui suscitate meglio del tacito consenso che suole essere l’espressione dell’indifferenza più che dell’approvazione. E proseguiva: «Non serve prolungar la disputa sull’esistenza della questione sociale in Italia. Se per questione sociale s’intende esclusivamente la forma che la lotta fra le classi ha assunto presso i popoli nei quali l’industrialismo è più progredito, si può dire che noi non siamo fra questi popoli, non l’abbiamo; ma se per essa s’intende quella condizione di cose che deriva dall’esistenza di una classe di cittadini cui è precluso l’adito a giovarsi dei beni, anche infimi della civiltà, è innegabile che fra noi una questione sociale esiste e gravissima; non importa che il fenomeno col quale si rivela non sia lo sciopero, ma il brigantaggio e l’emigrazione.... Non è giusto rimproverare aspramente al Governo italiano di non aver curato l’adempimento del suo grande dovere di occuparsene. Raffermare l’esistenza politica ed economica dello Stato doveva essere la sua prima e massima preoccupazione.... ed è utilissimo che vi sia ora chi si sforzi a muovere una corrente di opinione che possa costringere Governo e Parlamento al nuovo còmpito».

Il Salandra riduceva a tre le sue osservazioni. 1° Convien guardarsi dal porre troppo in rilievo come nostri speciali alcuni mali che pur sono di tutte le società anche le più civili, e dall’insistere nell’attribuirli più particolarmente ad alcune parti d’Italia, perchè si potrebbe nuocere alla diffusione delle idee di riforma tra i meglio disposti localmente. 2° Se vogliamo che le classi dirigenti italiane riconoscano, come dice il Villari, il sacrosanto dovere di aiutare le classi abbandonate alla miseria ed alla fame, oppresse in mezzo alla libertà, poniamole in grado di farlo elargendo loro una coltura e un’educazione superiore, e non inaspriamole con atti di accusa nè condanniamole senza appello. 3° Il problema sociale è oggi di produzione, non ancora di distribuzione della ricchezza. Hanno diritto a provvedere ad una migliore distribuzione della ricchezza quei popoli soltanto che hanno già risolto il problema di una grande produzione. Per non cadere in un certo Gefühlsocialism (socialismo sentimentale) che pur non suscitando agitazioni pericolose, può cagionare uno spreco di forze intellettuali e morali, bisognerebbe persuadersi che i sagrifizi delle classi abbienti hanno un limite inesorabile, e, per allontanarlo, non c’è che evitare l’abbassamento della loro capacità contributiva.

Riassumo anche le risposte della Rassegna.

1° Affinchè i mali delle varie regioni d’Italia possano venire curati, è assolutamente necessario che vengano prima studiati ed analizzati e da esse e dall’Italia tutta con la maggiore pubblicità: tacendone ed attenuandoli mancherebbe ogni coscienza ed ogni guida per qualunque riforma risanatrice: nè può valer l’obiezione che anche altrove vi sieno malati gravi perchè ciò non impedisce mai al medico coscienzioso di fare il proprio dovere presso il malato al letto del quale si trova; presso altri malati accorrano altri medici. 2° È vero che delle ripetute indagini l’amor proprio locale s’irrita e soffre; ma, lasciando da parte gl’interessati, esso non deve far perdere di vista agli onesti l’interesse del Paese; nè si sa di progressi che a loro sieno stati così impediti. Eppoi perchè irritarsi ed offendersi? non si ha responsabilità dei mali che si sono trovati nascendo. 3° Il risolvere separatamente e precedentemente il problema della produzione della ricchezza da quello della distribuzione, non facilita nè avvantaggia in nulla la soluzione del secondo. In Lombardia il primo non poteva essere svolto più brillantemente; pure ciò non ha fatto avvicinare di un passo alla soluzione del secondo. Non si deve dunque limitarci a considerare ora nella Sicilia e nelle provincie meridionali il problema della produzione della ricchezza, escludendo deliberatamente tutte le ricerche, tutti i tentativi per avvicinarsi allo scioglimento di quello della distribuzione. Attualmente nell’Italia tutta e non solo nelle provincie meridionali il problema sociale va posto così: in qual modo la produzione, specialmente agricola, possa da un lato accrescersi e dall’altro distribuirsi.

Questa risposta discende in linea retta dal convincimento che appunto perchè le diseguaglianze di classe sono una necessità imprescindibile della convivenza e della civiltà umana, non si possono fondare e far sussistere gli ordinamenti sociali nè sul solo egoismo individuale nè sul solo sentimento del sagrifizio. Occorse alquanto tempo prima che il Colaianni ed altri scrittori siciliani di buona fede rendessero giustizia ai due volumi dei miei amici; ma gli è che essi non furono subito conosciuti generalmente. Ce lo spiega un aneddoto che si legge nella prefazione del già citato volume dell’Alongi. Egli narra che nel 1878, discorrendo con un Pretore di malandrinaggio e di mafia lo sentì esclamare: «È la prima volta che trovo un siciliano d’accordo con Sonnino e Franchetti, i quali anzi sono più moderati nei loro giudizi: ma Ella giovane com’è, esagera facilmente l’impressione che ne ha ricevuto». — «Scusi, caro Pretore, soggiunge l’Alongi, io parlo per mia esperienza e mi sono ben guardato dal leggere quelli che tutti chiamano due romanzi fantastici». Ma s’indusse allora a leggerli ed ecco le parole con cui prosegue: «Provai subito un’umiliazione profonda vedendo realmente come quegli egregi signori avevano studiato la Sicilia con affetto e lealtà, ed arrossii ripensando alla critica interessata, sleale, virulenta, con cui ne furono rimeritati da noi che dovevamo loro riconoscenza e stima grandi».

 

IX.

 

Alla Relazione sulla situazione della pubblica sicurezza in Sicilia che il Nicotera presentò alla Camera il 13 dicembre 1876 erano allegate le statistiche comparative della criminalità per ciascuna provincia, durante i primi nove mesi del 1875 e quelli del 1876. Da esse risultava che mentre in tutto il Regno nel primo periodo vi erano stati 1496 omicidi consumati, 1218 mancati, 5206 ferimenti gravi, 1752 grassazioni, 362 estorsioni, violenze e rapine, 21256 furti, nel secondo periodo queste cifre erano rispettivamente 1502, 1199, 5075, 1635, 472, 21078, dunque si ebbe un miglioramento sensibile per tutte le categorie, eccezion fatta per quella delle estorsioni, violenze, e rapine. Invece in Sicilia nel primo periodo si ebbero rispettivamente per le suddette categorie nel primo periodo le cifre di 310, 261, 701, 419, 44, 1898 e pel secondo 372, 319, 920, 525, 64, 2148; cioè in tutte un peggioramento compresa quella pei furti, senza dire che la sproporzione fra Regno e Sicilia era assai sensibile.

All’impressione sconsolata di queste statistiche si aggiunse presto quella di alcuni reati più clamorosi seguiti poco dopo, e nella seduta del 27 novembre se ne dolse vivacemente il deputato di Belmonte, in quella del 7 dicembre il deputato Pellegrini e ad entrambi il Nicotera rispose con asprezza che in Sicilia la pubblica sicurezza non poteva ristabilirsi pel manco di appoggio da parte dei cittadini: come sintomo della situazione si ebbe anche nella metà del gennaio la notizia che alcuni commercianti inglesi che dimoravano nell’Isola pei loro affari s’erano rivolti al proprio Governo chiedendogli di interporsi presso il Governo italiano per una maggior tutela delle loro persone e dei loro averi.

In queste circostanze il marchese Di Rudinì presentò una interrogazione al Presidente del Consiglio, che fu cominciata a svolgere il 23 gennaio, per conoscere le intenzioni del Governo riguardo alle proposte della Giunta Parlamentare d’Inchiesta sulla Sicilia. «So pur troppo, egli esordì, che alcuni vorrebbero cuoprire di un velo misterioso i mali dell’Isola; io credo invece che le stesse amarissime e tumultuose discussioni del 1875 abbiano portato il loro contingente di bene perchè produssero l’inchiesta privata del Franchetti e del Sonnino e quella ufficiale da noi ordinata. Non posso, non debbo discutere qui l’Inchiesta privata. Dirò solo che quantunque ben lontano da certi apprezzamenti, da certi giudizi e da certe sue proposte, lodo il sentimento di amorevolezza che la ispirava e mi piace che privati cittadini abbiano voluto investigare le origini dei mali che travagliano la Sicilia, e soccorrervi coi loro studi e coi loro consigli». Così l’interrogazione sua, le discussioni che vi si collegarono e le risposte del Presidente del Consiglio e di altri Ministri (non del Nicotera, assente per malattia e pel quale parlò il Depretis) non tennero conto che della più blanda Inchiesta ufficiale; in ogni modo una certa autorità anche di quella privata era già apertamente dichiarata e tacitamente consentita.

Dopo ciò la discussione potè procedere più calma e le risposte del Governo venire semplificate. Fu l’on. Morana a tenere più vivacemente la parola: non risparmiò l’Inchiesta privata che rimproverò di soverchie generalizzazioni, di superficiali osservazioni, e di deduzioni paradossali, ma senza darne nessuna dimostrazione; i mali deplorati, disse egli, non son di tutte, ma solo di alcune provincie e sono la conseguenza della storia dell’Isola: ma l’on. Colonna di Cesarò gli rimbeccò che il Franchetti ch’egli non aveva l’onore di conoscere da vicino, in quanto alla mafia non aveva detto che verità, ed anzi gli era parso che avesse scritto sulla falsariga del discorso ch’egli stesso aveva fatto alla Camera nel giugno precedente.

Il Depretis, sbrigatosi facilmente del telegramma da Messina con l’osservazione che il Governo inglese nella sua correttezza ed amicizia non vi aveva fatto seguire nessun passo, fu prodigo riguardo all’interrogazione di affidamenti e di promesse. Per la pubblica sicurezza, che assicurò esser già più tranquillante, ma che a suo avviso era il più grosso problema, avrebbe provveduto con migliori funzionari e con l’unificare l’azione delle forze impiegate a tutelarla. In fatto di viabilità egli ed il Ministro dei Lavori Pubblici presero persino l’impegno, ora per buona fortuna da tempo assolto, per una nuova linea che per Messina e le Calabrie unisse Palermo a Roma; ed in guisa di riparazione degli errori della censuazione ecclesiastica magnificò i vantaggi che i Comuni avrebbero potuto ritrarre da una migliore e più coscienziosa liquidazione della parte di quei beni che loro spettava. Ma fu a proposito della mafia che la seduta si fece più interessante.

L’on. Morana riprendendo la parola, tentò di giustificare la tolleranza dei siciliani per la mafia e di spiegare come, pur costituendo questa a parer suo una minoranza, i galantuomini, che sono gran maggioranza, se ne lasciano imporre, e ricorse all’imagine di un esercito invasore che marciando compatto mantiene sotto il suo terrore disgregato e rassegnato il paese invaso. Non per questo si tacque il Mancini, Ministro di Grazia e Giustizia: «Ho voluto studiare, egli disse, da vecchio criminalista se il fenomeno della mafia da sè solo costituisse reato e quindi potesse diventare oggetto di procedimento penale. Io non debbo e certamente non intendo imporre la mia opinione a nessuno. Spetta ai magistrati di pronunciarsi con piena indipendenza, ma io non posso nascondervi di avere acquistato il convincimento che trattandosi di un’organizzazione latente o manifesta di persone che si propongono di far prevalere la violenza, l’intimidazione e l’inganno, per costringere i cittadini a non usare dei loro diritti o per farli soggiacere a indebite coercizioni, una sana applicazione del codice penale quale oggi esiste potrebbe bastare. Attualmente di questa azione si fa appunto l’esperimento in due giudizi, ed ho disposto che si prosegua fino alla Corte Regolatrice, acciò si stabilisca una massima autorevole per tutti i tribunali. Stabilito e deciso che non si tratta solo di una grande immoralità, ma di un reato preveduto dalla Legge penale, sarà dovere del Governo e del Pubblico Ministero che ne dipende di esercitare un’azione vigorosa per l’applicazione di questa massima».

Se l’on. Di Rudinì aveva posto grande energia nel reclamare i provvedimenti che si dovevano prendere e non furono presi dopo che la Giunta Parlamentare d’Inchiesta nominata con Legge ne aveva fatto diligente enumerazione nella sua Relazione al Parlamento, dal canto suo il Depretis a nome del Governo parlò con tale abilità e acquetò tutti con una così gran dose di buona volontà che l’on. Di Rudinì dovè dichiararsi soddisfatto, e anche l’on. Morana, per disciplina di partito, dovè ritirare una sua mozione intesa a provocare un più ampio dibattito e che pure diceva appena: «La Camera, confidando che il Governo del Re saprà soddisfare alle legittime aspirazioni della Sicilia tutelando energicamente la pubblica sicurezza, continuando nei provvedimenti intesi a rendere più celere ed efficace l’amministrazione della giustizia, sviluppando il progresso economico dell’Isola e dando il maggiore impulso al compimento delle opere pubbliche, passa all’ordine del giorno».

Ahi, quanta distanza corse e corre dalle parole ai fatti!

Ci ispiri tuttavia un po’ di rassegnazione il ricordare che Leopoldo Franchetti, ritratto che ebbe con una acutissima analisi storica e psicologica le condizioni medioevali della società siciliana, e le chine fatali lungo le quali anche i migliori funzionari governativi ne subivano involontariamente la triste influenza, pure riaffermato che spettava al Governo di trasformare le condizioni della Sicilia per la pubblica sicurezza come per il resto, e ch’esso solo poteva farlo in un breve giro di tempo, nell’affacciare l’ipotesi di non essere ascoltato, non per questo volle disperare, e solo constatò mestamente che non si può chiedere alle forze isolane di operare prestamente su di sè quelle trasformazioni che nel rimanente d’Europa hanno richiesto parecchi secoli.

 

XII.

 

Fin qui il Discorso che sono stato pregato di premettere a questa nuova edizione dei due volumi per raccogliere su di essi un altro po’ della luce originaria, e per contribuire alla rivendicazione della loro alta importanza.

Mi si consenta ora di esprimere, a mo’ di epilogo, le impressioni che ho provato nel frequente raffronto che m’è accaduto di istituire nel mio interno fra le condizioni dell’Isola che ci si rivelarono allora, e quelle che corrono oggi.

Il primo posto voglio darlo alla soddisfazione con la quale ho potuto accorgermi che avevamo ben ragione di negare ogni serietà alle preoccupazioni della questione politica come allora veniva formulata, e cioè che vi fosse e si agitasse ancora minaccioso un vero partito autonomista. Già lungo tutto questo cinquantennio, attraverso pure alle più complesse vicende, il sentimento nazionalista si è andato sempre rafforzando nei Siciliani, ma alle nostre parole di fede era riservato il più glorioso trionfo nei giorni in cui essi si associarono con entusiasmo al nostro avventurarci nella terribile guerra, e perseverarono con noi nello sfidarne i paurosi pericoli, nel sopportarne i dolorosi sagrifici, nell’accettarne le parziali disillusioni, perchè al pari di noi compresero la grandezza del successo che ci attendeva. — E ad esso oh quanto eroismo, oh quanto sangue, oh quante altre virtù di Siciliani ha contribuito! Quali si sieno le peripezie che si celino nella storia, l’abbraccio fraterno è stretto per sempre, il vincolo nazionale ci ha fusi in una sacra indissolubile unità!

E di un’altra intensa soddisfazione ho sentito il conforto quando m’è occorso di constatare che se traverso il cinquantennio, il turbamento morale della vita siciliana pur troppo non può dirsi ancora sanato, da altro lato immenso è il progresso materiale dell’isola e dovrà pur avere salutari ripercussioni anche nei costumi la sua popolazione che nel censimento del 1871 era di 2,584,099 anime crebbe a 4,299,313 con quello del 1921 a malgrado della fortissima emigrazione, specialmente nella Libia. I depositi solo nella Cassa di Risparmio del Banco di Sicilia, e solo nel periodo 1909-1922 sono passati da 7 milioni a 405. La produzione agraria dev’essere certo assai aumentata se, da una ventina d’anni, come constata lo Zingali, è stata introdotta la rotazione del grano con la fava sarchiata e concimata con perfosfati, e solo su questo binomio viene ora riversato annualmente un milione di quintali di perfosfato([12]). Gli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra non impedirono che anche nel 1922 le esportazioni, che nel Regno figurano tanto al disotto, invece nell’isola superassero le importazioni di oltre 63 milioni, a malgrado della crisi dell’industria zolfifera per cui in quell’anno non si ebbe che il quarto della produzione media e a malgrado la crisi del commercio agrumario che si confida superata con la riapertura dei mercati dell’Europa Centrale e di quelli della Russia.

Io non farò qui un’esposizione dell’odierno risveglio industriale, ma non posso a meno di allietarmi per le grandi promesse insite nell’opera fervorosa della Società Generale Elettrica della Sicilia, della quale è anima l’ing. Enrico Vismara. Egli ha comunicato nel 1923 al Congresso delle Società per il progresso delle scienze ed ora ha pubblicato in un opuscolo([13]) un importantissimo studio che ben fa arguire quanto la Sicilia potrà in breve influire sul bilancio economico dell’Italia. Mercè un bacino artificiale alimentato dalle piene invernali del Simeto e del Salso quei miracoli di intensificazione culturale che nella Piana di Catania sono vanto di pochi ettari, i quali non temono inondazioni e son forniti già di acque irrigue, si potrebbero estendere a tutti i suoi 30,000 ettari, perchè il corso d’acqua estivo che ora è appena della portata di un metro cubo al minuto secondo s’ingrosserebbe a quella di 15 a 20 metri cubi. Se ne gioverebbero anche molti terreni vulcanici della falda meridionale dell’Etna. Opere simili sono progettate per la Piana di Terranuova e per la Piana dei Greci, in questa trasformando in agrumeti ed in orti feracissimi 2500 ettari tuttora di poco o nessun valore. Questi bacini artificiali creerebbero anche forza motrice e darebbero origine a linee elettriche con le quali procedere a una grande diffusione del sollevamento delle acque, non più traverso le norie già assai preziose in Sicilia, ma traverso elettropompe tanto più efficaci. Sono 350,000 gli ettari sotto la quota 100 che così potrebbero irrigarsi sia a mezzo di acque fluenti dall’alto, sia a mezzo di sollevamento dal sottosuolo; il Vismara calcola che ove si proceda a trasformarne anche solo 60,000, si creerebbe oltre un miliardo di lire di maggior valore.

Ma se il mio cuore esultava nella visione di questa nuova ricchezza, dalla quale anche tanta rigenerazione sociale può bene attendersi, era invece oppresso dalla più profonda tristezza nel sentir che purtroppo non avrei potuto ragionarne coi miei due amici. Come non rimpiangere quella reciproca fiducia, quella dolce intimità, quella cara comunanza di lavoro che ci aveva allora, e per lungo tempo ancora, avvinti insieme? Come non ricordare con Sidney Sonnino anche la parte che ebbe poi nei nuovi destini dell’Italia, con Leopoldo Franchetti tutte le generose manifestazioni del nobilissimo animo suo? Io non so se li avevo più amati od ammirati; ma il mio rimpianto si faceva ancor più doloroso quando correvo col pensiero agli efficacissimi servigi che, sopravvivendo essi, anche pel prestigio del proprio passato, avrebbero sempre potuto rendere, in queste difficilissime ore, alla nostra patria.

 

Enea Cavalieri.

 


 

CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE

 

 

 

 

Capitolo I.

CONDIZIONI GENERALI

 

 

 

I.

PALERMO E I SUOI DINTORNI

 

 

§ 1. — Primo aspetto.

La prima impressione del viaggiatore che, sbarcato a Palermo, visita la città e i suoi dintorni ed ha occasione di frequentare anche in modo superficiale la parte educata di quella popolazione, è certamente una delle più grate che si possano immaginare. Lasciando pure da parte il clima e l’aspetto della natura, già celebrati in tutte le lingue, in versi ed in prosa, buoni e cattivi, la città colla bellezza delle vie principali, l’aspetto monumentale dei palazzi, l’illuminazione notturna, una delle migliori di Europa, presenta tutte le apparenze del centro di un paese ricco e industrioso. Nell’accoglienza dei forestieri, la squisita cortesia non si limita alle forme esterne. Appena si sia manifestata l’intenzione di inoltrarsi nell’interno dell’Isola, abbondano le lettere di raccomandazione, le offerte di ospitalità che poi si sperimentano non essere semplici complimenti.

Se poi, uscendo dalla città, si girano le campagne che la circondano, s’impongono agli occhi e alla mente segni anche più caratteristici di una civiltà inoltrata. La perfezione della coltura nei giardini d’agrumi della Conca d’oro è proverbiale; ogni palmo di terreno è irrigato, il suolo è zappato e rizzappato, ogni albero è curato come potrebbe esserlo una pianta rara in un giardino di orticoltura. Dove manca il verde cupo degli alberi di agrumi, l’occhio incontra le vigne coi loro filari lunghi e regolari, gli orti piantati di alberi fruttiferi, qualche uliveto, qualche raro pezzetto di terra seminata, e dappertutto, segni del lavoro più accurato, più perseverante, più regolare. Nei primi momenti, il nuovo venuto si lascia andare a quell’incanto di uomini e di cose, e sparisce dalla sua mente la memoria delle notizie e polemiche dei giornali, delle discussioni parlamentari, di tutto il rumore fatto intorno alla questione siciliana. Certamente, s’egli in quel momento s’imbarcasse e tornasse via, riporterebbe a casa, se non la convinzione, almeno il sentimento che tale questione non esiste, e che la Sicilia è il paese del mondo dove la vita è per tutti più facile e più piacevole. Soprattutto, se girando i dintorni, non ha osservato i posti di bersaglieri acquartierati in case rustiche dove sarebbesi aspettato d’incontrare uno spettacolo più patriarcale.

 

 

§ 2. — Le prepotenze.

Ma s’egli si trattiene, se apre qualche giornale, se presta l’orecchio alle conversazioni, se interroga egli stesso, sente a poco a poco tutto mutarglisi d’intorno. I colori cambiano, l’aspetto di ogni cosa si trasforma. Egli sente raccontare che in quel tal luogo è stato ucciso con una fucilata partita di dietro a un muro, il guardiano del giardino, perchè il proprietario lo aveva preso al suo servizio invece di altro suggeritogli da certa gente che s’è presa l’incarico di distribuire gl’impieghi nei fondi altrui, e di scegliere le persone cui dovranno darsi a fitto. Un poco più in là, un proprietario che voleva affittare i suoi giardini a modo suo si è sentita passare una palla un palmo sopra il capo, in via di avvertimento benevolo, dopo di che si è sottomesso. Altrove, a un giovane che aveva avuto l’abnegazione di dedicarsi alla fondazione e alla cura di asili infantili nei dintorni di Palermo, è stata tirata una fucilata. Non era per vendetta, o per rancori; era perchè certe persone, che dominavano le plebi di quei dintorni, temevano ch’egli, beneficando le classi povere, si acquistasse sulle popolazioni un poco dell’influenza ch’esse volevano riserbata esclusivamente a sè stesse. Le violenze, gli omicidii, pigliano le forme più strane. Si narra di un ex-frate che in un paese vicino a Palermo aveva assunto la direzione delle prepotenze e dei delitti, e andava poi a portare gli ultimi conforti della religione a taluni fra coloro che aveva fatto ferire. Dopo un certo numero di tali storie, tutto quel profumo di fiori d’arancio e di limone principia a sapere di cadavere. Gli autori di questi delitti, hanno essi subìto processo e condanna? Quasi nessuno è stato scoperto, e quando si sia arrestato alcuno per sospetto, è stato nel maggior numero dei casi messo in libertà per mancanza di prove, perchè non si sono trovati testimoni a suo carico.

Quali sono le ragioni di questa inaudita potenza di alcuni? Dov’è la forza che assicura l’impunità ai loro delitti? Si chiede se sono costituiti in associazioni, se hanno statuti, pene per punire i membri traditori: tutti rispondono che lo ignorano, molti, che non lo credono. Il paese non è dominato da alcuna setta segreta di malfattori. Non v’ha nulla di misterioso in questi delitti. Molti fra i loro autori sono, è vero, persone pregiudicate, che si nascondono alle ricerche della giustizia. Ma la giustizia è sola a non sapere dove sono. Peraltro, è di notorietà pubblica che il tale o il tal altro, persona agiata, proprietario, fittaiuolo di giardini, magari consigliere nel suo Comune, ha formato ed accresce il suo patrimonio intromettendosi negli interessi dei privati, imponendovi la sua volontà, e facendo uccidere chi non vi si sottometta. Che quest’altro, il quale va passeggiando tranquillamente per le strade, ha più di un omicidio sulla coscienza. La violenza va esercitandosi apertamente, tranquillamente, regolarmente; è nell’andamento normale delle cose. Non ha bisogno di sforzo, di ordinamento, di organizzazione speciale. Fra chi dà il mandato di un delitto, o chi l’eseguisce, spesso non appare traccia di relazione continuata, regolata da norme fisse. Sono persone che avendo bisogno di commettere una prepotenza, e trovando sotto la loro mano, e, per così dire, per la strada, istrumenti adattati al loro fine, ne fanno uso.

Nè pure si può dar nomi di società alle relazioni più o meno fisse o determinate, colle quali sono uniti fra di loro e con certi impresari d’omicidii, i numerosi componenti della classe di latitanti, sospetti, e facinorosi d’ogni specie, che popolano più specialmente le campagne, i paesi e le città della provincia di Palermo([14]). Fra le persone di questa specie, le relazioni sono determinate e regolate da similitudine d’interesse e di condizione, e non abbisognano di regole prestabilite. È vero d’altra parte che coloro i quali si assumono l’accollo della perpetrazione degli omicidii seguono certe norme nella scelta delle persone dalle quali accettano commissioni, e richiedono che la posizione sociale, il carattere, i precedenti del committente sieno tali da dar garanzia. Vogliono essere assicurati che il legame, il quale dal delitto comune nascerà fra mandante e mandatario, non sarà ad esclusivo vantaggio del primo, o a danno esclusivo del secondo. Ma tali norme di condotta e tali garanzie, nascono dalla natura delle cose, non da convenzioni e da statuti.

 

 

§ 3— Associazioni per l’esercizio della prepotenza.

Peraltro non mancano anche le associazioni regolarmente costituite con statuti, regole per l’ammissione, sanzioni penali, ecc., ecc., associazioni destinate all’esercizio della prepotenza e alla ricerca di guadagni illeciti. È impossibile conoscerne il numero e gli oggetti tutti. Così, sono state recentemente scoperte sotto la prefettura Gerra due società dette, l’una dei Mulini, l’altra della Posa.

La prima fu fondata con iscopo apparentemente legale, sotto forma di consorzio fra gli esercenti mulini per la riscossione e il pagamento della tassa del macinato, allorquando questa tassa, prima che fosse introdotto il contatore meccanico, si riscuoteva col sistema degli accertamenti. Aveva realmente per iscopo principale di tenere alto il prezzo della molenda per mezzo del monopolio procurato colla violenza. I soci dichiaravano il loro guadagno medio fino al loro ingresso nella società, e questo veniva loro garantito. La società, regolandosi sugl’interessi comuni, decretava la chiusura dell’uno o dell’altro mulino, e passava agli esercenti di questi l’equivalente del loro guadagno mensile medio. Gli altri soci pagavano alla società una tassa proporzionata ai loro prodotti (un poco più di 5 lire per ogni salma di farina, un poco più di 3 lire per ogni salma di semola prodotta). Il provento di queste tasse in parte serviva a indennizzare gli esercenti i mulini chiusi per ordine della società. Il rimanente, pare venisse diviso fra i soci in proporzione dei loro guadagni. I soci renitenti a pagare la loro tassa, erano puniti prima cogli sfregi, coll’uccisione cioè di animali, coll’incendio di piantagioni, ecc.; se tali avvertimenti non bastavano, venivano ammazzati. Nel medesimo modo erano trattati coloro che la società desiderava avere fra i suoi membri e che vi si rifiutavano. Il terrore sparso da questa associazione era tale che bastava talvolta il consiglio dato a taluno di entrare nella società, per farlo rinunziare in tutta fretta alla propria industria. Un gruppo di pastai che stava trattando con un mulino a vapore per una fornitura di farina a prezzo minore di quello stabilito dalla società, desistette dalle trattative per non porsi in urto con questa.

La società della Posa, fra garzoni mugnai e carrettieri, strettamente connessa con quella dei mulini, aveva per iscopo apparente il mutuo soccorso. Ciascun socio pagava un tanto per ogni salma di farina prodotta nel mulino dov’era impiegato, o trasportata col carro, secondo le professioni. Ai soci era proibito farsi vicendevolmente concorrenza. Il capo destinava chi doveva lavorare, e chi rimanere ozioso. La tassa della Posa era per i garzoni mugnai pagata dai loro padroni; i garzoni carrettieri la pagavano essi stessi; col provento delle tasse si mandava un tarì (L. 0.42) al giorno ai membri della società arruolati nell’esercito, si soccorrevano i vecchi e gl’infermi, e si pagavano gl’impiegati che tenevano l’amministrazione; il rimanente si divideva fra i soci. Gli esercenti mulini dovevano impiegare i membri della società, e pagare la tassa, pena gli sfregi e la morte. Pare inoltre che la società della Posa esigesse una tassa di un tanto per salma di grano depositato presso i magazzini dei sensali di cereali (che a Palermo fanno anche da magazzinieri). I sensali pagavano questa tassa, e se la facevano restituire dai proprietari depositanti. Ambe le società erano in mano a un potente capo mafia che se ne valeva per l’esercizio d’ogni sorta di prepotenze, e specialmente adoperava i membri della seconda per suoi cagnotti, contro quei proprietari d’agrumeti che non accettavano i fittaiuoli e i guardiani da lui proposti, ed in genere contro quelli che pretendessero agire a modo loro in qualunque affare dove a lui piacesse intervenire. Malgrado il bell’impianto dell’amministrazione sociale, i suoi numerosi libri e registri, non sembra che tutti i proventi andassero a vantaggio dei soci; una parte finiva in mano dei faccendieri che, in Roma, sostenevano gl’interessi o l’impunità dell’associazione e dei suoi membri, nei ministeri e altrove.

 

§ 4. — Pazienza dell’universale.

Tutte queste prepotenze sanguinarie si raccontano dai più senz’ira. Spesso nei discorsi di coloro stessi che ne riportano il maggior danno, si sente trasparire una certa simpatia per quei facinorosi ai quali pur debbono l’aver le loro rendite dimezzate, e spesso il non poter tentare, pena la vita, alcuna nuova impresa per quanto ne sperino aumento di ricchezza e d’influenza. Appena, se di quando in quando s’incontra uno, impaziente del giogo, e che s’adira di sentirsi impotente a romperlo ed anche solamente a scuoterlo.

 

§ 5. — Caratteri della classe dominante.

E quella medesima classe abbiente che mostra una pazienza così mansueta di fronte ad un’accozzaglia di malfattori volgari, che riconosce in loro una forza da rispettarsi, e un interesse da tenersi in conto nelle relazioni sociali, si compone in parte della gente in Europa più gelosa dei privilegi e della potenza che dà, in Sicilia, ancora più che altrove, il nome e la ricchezza; più appassionatamente ambiziosa di prepotere; più impaziente delle ingiurie; più aspra nelle gare di potere, d’influenza ed anche di guadagno; più implacabile negli odi, più feroce nelle vendette, così di fronte ai suoi pari come di fronte a quei facinorosi, che sembrano padroni assoluti di tutto e di tutti nella provincia. Si racconta per esempio di un ricco signore siciliano il quale passando in carrozza per una strada dei dintorni di Palermo, si sentì ad un tratto tirare addosso di dietro ad un muro, un 12 o 14 schioppettate e scampò illeso per miracolo. Gli autori del tentato assassinio non furono mai scoperti; però, pochi mesi dopo, sarebbero stati tutti uccisi([15]). Gli stessi mezzi energici ed efficaci sono pronti ai bisogni di ogni interesse e di ogni passione. La storia degli odii ereditari tra famiglie, delle loro rivalità, delle loro gare nel contendersi l’onnipotenza nel loro Comune, fornirebbe argomento ad una biblioteca di tragedie. Poco tempo addietro, in un paese vicino a Palermo scoppiò una specie di guerra civile fra i partiti delle due famiglie che si contendevano il primato: l’uccisione di un membro di un partito era prontamente vendicata con un omicidio a danno del partito contrario. In un anno vi seguirono fino a 35 omicidii.

 

 

§ 6. — Importanza della violenza nelle relazioni sociali.

Sarebbe difficile esagerare l’importanza della parte che hanno gli sfregi, le schioppettate e soprattutto il timore delle schioppettate nelle relazioni d’ogni genere fra persone in Palermo e dintorni. Con questo mezzo, si rende l’ingiuria alla quale non si vuole o non si può rispondere con una sfida a duello; collo stesso si allontanano i concorrenti pericolosi dalle aste pubbliche. Con questo si proteggono e si difendono gli amici e gli aderenti. Con questo i più energici e i più abili si assicurano in tutte le cose e pubbliche e private un dominio assoluto, che non ha altro limite se non le violenze di altri prepotenti suoi pari. Certamente, il timore e la minaccia della violenza non è sempre lì presente alla mente di chi impone e di chi subisce la prepotenza. Talvolta il prepotente stesso non si dubita di esser tale, e si scandalizzerebbe forse a sentirsi dire ch’egli esige cosa contraria al diritto e l’ottiene coll’intimidazione. Anzi, la violenza non è il solo mezzo usato per prepotere. In Palermo, come in ogni altro paese, i codici sono spesso ottimo istrumento a tal uopo; come in ogni altro paese e più ancora, l’uso delle astuzie e dei raggiri non è proscritto. Ciononostante, se si va a ricercare il primo fondamento dell’influenza di chi ha un potere reale, lo si trova quasi inevitabilmente nel fatto o nella fama che quella tale persona ha possibilità, direttamente o per mezzo di terzi, di usare violenza.

Nè potrebbe essere altrimenti: una volta che esiste siffatto stato di relazioni sociali a mano armata, chi vuol godere una certa influenza o, talvolta, solamente esser rispettato nell’onore e negli averi, conviene che abbia a suo comando una forza armata di una certa importanza e faccia sapere che l’ha. Difatti, si sente raccontare che la tale o tal’altra persona influente in politica o nelle amministrazioni locali, ha a suo servizio il tale o tal altro capo mafia di Palermo o di un paese vicino, e per mezzo suo, una parte di quella popolazione di facinorosi per mestiere o per occasione, che infestano la città e i suoi dintorni; il che significa che da un lato egli potrà giovarsi del terrore ispirato da quella gente; che saranno al bisogno usati a suo vantaggio i mezzi i quali già servirono a spargere quel terrore; e che dall’altro, egli, in caso di bisogno, aiuterà e proteggerà questi suoi clienti([16]).

 

 

§ 7. — Le fazioni e i loro mezzi di azione.

In tal modo si formano potenti associazioni d’interesse che s’insinuano e si impongono in tutte le faccende private e pubbliche. Niuno oserà offrire un prezzo per un fondo che qualche loro aderente voglia comprare. Nei Comuni, nelle Opere pie, regolano in buona parte la scelta degli amministratori, dispongono a loro piacere del patrimonio e delle entrate. Insomma sono padroni assoluti e incontrollati di tutto nel campo che si sono riservato, finchè non incontrino qualche altra coalizione non meno forte, ardita o prepotente, che venga a contender loro il dominio. Allora nasce la rivalità, l’odio fra persone o famiglie; seguono le offese e le vendette, le astuzie e le intimidazioni per prevalere in questa o quella elezione. Ciascuna fazione sceglie la sua bandiera nello sterminato arsenale delle quistioni che sono use a dividere i partiti fra di loro nell’Europa civile: pigliano nome di partiti politici, amministrativi, magari religiosi, poco importa, perchè si tratta del solo nome. Ognuna delle parti contendenti cerca di rafforzarsi estendendo le sue alleanze nella riserva inesauribile dei prepotenti, dei latitanti, dei malfattori e degli assassini; e per assicurar la fede degli aderenti antichi come per attrarsene dei nuovi, cerca di crescere in opinione di forza e d’influenza, e di mostrare che i suoi clienti, in ogni loro faccenda o bisogno, sono assicurati di aiuto e protezione non mai rifiutati e sempre efficaci. E così, il capo di ciascun partito, alle prepotenze per conto proprio aggiunge quelle per conto dei clienti; risente come sue le ingiurie da loro sofferte, e fa sue le loro vendette. Il campo dei soprusi e dei rancori va allargandosi all’infinito. Cagione di odio e di guerra sono non più solamente le ambizioni, le prepotenze e le vendette di coloro che da prima diventarono nemici, ma del più infimo gregario di ciascun partito. La lotta s’inasprisce, si estende, s’accende in tutto il Comune e talvolta in quelli vicini. Principia la guerra di stratagemmi, di fucilate, di agguati, che talvolta si trasformano in vere scaramucce. Gli avversari vanno a cercarsi ovunque per l’Isola, come quella mattina in cui i buoni Palermitani furono spaventati, ma non sorpresi, di vedere in una delle piazze più frequentate della loro città, quattro o sei sicari al servizio di uno dei partiti che si dividono un paese distante da Palermo ben trenta chilometri, sparare addosso a uno del partito opposto una salva di colpi di revolver.

 

 

§ 8. — L’autorità pubblica.

Tutto questo accade nell’interno e nelle vicinanze di una gran città. Non siamo in tempo di rivoluzione, niun cataclisma sta sconvolgendo la società. La gente gira tranquillamente per le strade, va ai propri affari o ai propri piaceri; chi si guarda d’intorno vede pur lo stemma d’Italia sulle porte di Corti di Giustizia e di uffizi di polizia. Osserva che per le strade della città sono guardie di pubblica sicurezza e carabinieri; in campagna vede carabinieri e truppa, molta truppa; pattuglie in perlustrazione per tutte le vie. Sente nominare il Prefetto in ufficio, ne sente discutere i meriti e paragonarli a quelli dei suoi sedici o diciassette predecessori venuti in Palermo dal ’61 in poi. Sono gli stessi in Sicilia come nel Continente d’Italia quegli ordinamenti giudiziari ed amministrativi che devono assicurare l’applicazione delle leggi; sono le stesse le leggi, e qualificano per delitti quei fatti, che qui sono pure il fondamento della vita sociale. Ma per prevenire i delitti, per punirli, per mantenere l’ordine e l’osservanza delle leggi di ogni specie, la polizia, la magistratura, l’autorità pubblica insomma, ha bisogno di querele, di denuncie, di testimonianze, del verdetto dei giurati, ha bisogno quasi ad ogni passo della cooperazione dei cittadini.

 

 

§ 9. — Suo isolamento morale.

E qui, l’amministrazione governativa è come accampata in mezzo ad una società che ha tutti i suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esista autorità pubblica. Gl’interessi di qualunque specie atti a dominare trovano all’infuori di questa autorità i mezzi di difendersi, e di fronte a loro, l’interesse comune, da essa rappresentato, è vinto prima di combattere, e la legge è nel fatto esclusa. I poteri e le influenze, che la legge è precisamente destinata a contrastare, sono più efficaci della organizzazione intesa a farla valere. Il timore della sanzione contro chi fa una denunzia, porta una testimonianza, o presenta una querela a danno di un prepotente di qualunque grado, è più efficace che quello della sanzione penale contro chi rifiuti la sua cooperazione alla giustizia in caso di delitto, o quello del danno materiale di chi subisce un’ingiustizia senza respingerla colle difese fornite dalla legge. Naturalmente, in una società per tal modo costituita, non v’è posto per chi non ha zanne ed artigli. Difatti il maggior numero d’ogni classe e d’ogni ceto è oppresso e soffre, ma per lo più non se ne rende neppur conto.

Perchè l’opinion pubblica è informata a questo sistema sociale extra legale, la massa della popolazione ammette, riconosce e giustifica l’esistenza di quelle forze che altrove sarebbero giudicate illegittime, ed i mezzi che adoperano per farsi valere; sicchè, per chi volesse mettersi dalla parte della legge, si aggiunge al timore delle vendette quello della disopprovazione pubblica, cioè del disonore.

 

 

§ 10. — Prevalenza dell’autorità dei prepotenti sopra quella del Governo.

Ed è così che si commettono i delitti i più palesi, senza che l’autorità pervenga a conoscerne gli autori. Tutti sanno chi sono, dove sono, ciò che fanno e ciò che faranno, e nessuno denunzia, nessuno porta testimonianza; nemmen l’offeso, il quale, se è abbastanza forte od ardito, aspetta di vendicarsi, se no si rassegna e tace. Se per caso la polizia nei primi momenti dopo il reato, a furia di solerzia e di attività, è giunta a scoprir qualche traccia, a ottener qualche denunzia o qualche indizio, tutto svanisce quando s’inizia il processo, i testimoni negano quello che hanno detto, gli accusatori si ritrattano. Di fronte alla evidenza e alla convinzione generale che indicano il colpevole, la legge è impotente a punirlo. Nelle relazioni d’interessi privati, non si osa invocare la legge contro i potenti. I quali però scendono talvolta ad usarne, quando trovano modo di farla servire ai loro fini, e se ne valgono per impadronirsi delle amministrazioni pubbliche, o farne mezzi ed istrumenti della loro preponderanza.

 

 

§ 11. — Impotenza dell’Autorità pubblica a reprimere gli abusi.

L’autorità pubblica vede i disordini, spesso conosce i colpevoli, ed è impotente a reprimere gli uni e a punire gli altri. Simile a un esercito in mezzo a paese nemico, è costretta a diffidar sempre. Se qualcuno del paese le si avvicina e sembra che voglia aiutarla, spesso ha più che mai ragione di temere di essere tratta in un modo o in un altro, a tradire l’interesse pubblico. Non mancano i sottili ritrovati per farle credere vantaggio generale quello di un individuo o di una camarilla, e farle in tal modo volgere a vantaggio di questi la forza e i mezzi che trae dal suo istituto. Un funzionario che, prendendo la sua missione sul serio, cercando in buona fede, senza guardare ad altro, di far prevalere l’interesse generale, pigli un provvedimento savio, realmente utile, se, volendo o no, ha leso qualche interesse potente, si vede ad un tratto sorger contro una tempesta di pubblica opinione, nata non si sa come, venuta non si sa da dove. Da ogni parte si brandiscono sul suo capo tutti i ferri vecchi e rugginosi della fraseologia liberale, i sacri diritti del cittadino, gl’immortali principii, ecc. ecc.; al suo provvedimento sono date le interpretazioni le più assurde, attribuiti i motivi più odiosi; si sente rovesciare addosso una valanga di accuse le più ridicole, le più inverosimili; sente condannare e criticare al medesimo modo dalle medesime persone i suoi errori e i suoi provvedimenti più giusti e lodevoli.

Spersa in mezzo ad una congiura universale di silenzio e d’inganni, trovando oppositori e avversari in coloro stessi nei quali la legge gli impone di trovare alleati e cooperatori, sentendo le armi datele dalla legge spezzarglisi fra le mani e mancarle dappertutto il terreno sotto i piedi, l’autorità cerca intorno a sè qualche sostegno, e si aggrappa al primo che trova; si raccomanda agli arbitrii che le concede la legge, chiede a loro soli la sua salvezza. Così le vien fatto di estenderne l’applicazione il più possibile, di voltare e rivoltare in tutti i versi il testo della legge per scoprire qualche modo nuovo di usarla, e quando non lo trovi sufficiente, di appigliarsi talvolta agli arbitrii all’infuori di essa. Ma questo rimedio disperato non riesce ad altro che a crescere ed inasprire i mali, ed ha per ultimo effetto di attaccare al medico stesso il morbo, che cerca di guarire. Ne fu fatta la triste esperienza soprattutto dal 1860 al 1874, e più che in ogni altro momento, sotto la prefettura militare.

 

 

§ 12. — Inefficacia e danni del sistema degli arbitrii illegali.

È inviato in Palermo un rappresentante del Governo munito dei poteri più estesi sulle forze militari di tutta l’Isola e sull’amministrazione civile della provincia di Palermo, con mandato di fare ogni sforzo per ristabilire l’ordine. Giunge pieno di buona volontà e di desiderio di conseguire il fine prefissogli. Giunto, si guarda intorno, cerca chi possa dargli informazioni, aiutarlo a conoscere le cagioni dei disordini e scuoprirne gli autori, a reprimere gli uni e punire gli altri. Negli uffici governativi, trova ignoranza completa di ciò che egli ha bisogno di conoscere. Nel paese invece, trova organizzazioni potenti che fanno a gara nell’offrirgli di servirlo colla loro profonda cognizione delle condizioni locali nei loro più reconditi particolari e coi loro mezzi di azione pronti e sicuri, senza sembrar di chiedergli altro compenso che l’onore di servirlo. Trova una quantità innumerevole di gente dedita al sangue, pronta ad uccidere per chiunque la paghi. Trova esempi antichi e recenti di repressioni operate da agenti del Governo, ma più somiglianti ad assassinii che a punizioni. In siffatta condizione di cose, è portato, per così dire, fatalmente, ad appoggiarsi sulla sola forza che trovi vicino a sè; riprende le tradizioni non mai del tutto interrotte, del governo Borbonico, permette che si arruolino malandrini nella forza armata governativa, mette loro addosso la divisa, apre loro gli ufficii di pubblica sicurezza; lascia che le amministrazioni locali, e tutti gli organismi pubblici vengano in potere delle persone influenti da cui riceve appoggio.

Messasi in mano a siffatto istrumento, l’autorità governativa si trovò colla sua ignoranza delle circostanze locali, coll’impotenza che ne derivava, di fronte a quella camarilla cui essa stessa aveva fornite armi e che aveva rivestita della propria autorità. E così diventarono nemici pubblici i nemici di questa, interessi pubblici i suoi interessi, e mezzi di governo i mezzi che sono soliti adoperare in Sicilia cotali leghe di persone.

E allora si vide il malandrinaggio stipendiato dal Governo assumere, per così dire, a cottimo l’impresa di assassinare i malviventi non patentati, ed assassinarli ogniqualvolta non si alleasse con loro e non dividesse il provento dei loro delitti. Si videro uomini vestiti di divisa ufficiale commetter delitti per conto proprio, i rappresentanti del Governo costretti a non esaminare tanto da vicino i modi di procedere di istrumenti così pericolosi, e ridotti a chiudere gli occhi sui loro misfatti più orrendi, a coprirli colla autorità del Governo italiano.

Queste mostruosità finirono per essere palesate all’Italia intera, e malgrado i rancori personali, le ire e gl’interessi di partito, che da ogni lato, e da ogni parte della Camera concorsero a scemare l’efficacia della verità, l’effetto fu tale che seguì una trasformazione nell’indirizzo del sistema di governo della Sicilia.

Furono mandati nuovi uomini a regger l’Isola, si principiò a depurare il personale dipendente dal Ministero dell’interno. Si cercò di tornare il più possibile nella legalità e di usare quegli arbitrii soli che le leggi o le loro interpretazioni permettessero: l’ammonizione cioè dei sospetti e il loro invio a domicilio coatto.

 

 

§ 13. — Arbitrii legali. Ammonizione e domicilio coatto. Loro riuscita.

L’ammonizione e il domicilio coatto sono fra le armi le più potenti che un Governo possa usare contro la gente pericolosa all’ordine pubblico. Quando l’autorità di pubblica sicurezza, dietro informazioni dei suoi agenti, abbia luogo di sospettare una persona come autore o complice di prepotenze illegali o di delitti, la sorveglia. Se la sua condotta conferma i sospetti, la denuncia al pretore. Questi, prende informazioni e, se sono conformi alla denuncia, ammonisce la persona indiziata a non dar luogo ad ulteriore sospetto. Da quel momento in poi, gli agenti al servizio della pubblica sicurezza hanno obbligo di seguirne tutti i passi, di conoscere i luoghi dove va, le persone che frequenta. E se giudicano che continui a giustificare i primi sospetti, ne riferiscono ai loro superiori. Laonde nuova denunzia, che se vien giudicata fondata, provoca la condanna per contravvenzione all’ammonizione. Dopo tale sentenza l’ammonito è in piena balìa dell’autorità politica, purchè si lasci arrestare quando viene ricercato. Il prefetto può fare pronunciare contro di lui dal Ministero dell’interno l’invio a domicilio coatto per due anni, se la sentenza di contravvenzione è stata una sola, per cinque, se sono state due. Dopo di che il condannato può, nel fatto, essere eternamente esiliato dal suo paese e segregato dalla società; poichè al suo ritorno in patria può seguire prontamente una nuova ammonizione, poi una prima e una seconda sentenza di contravvenzione, poi un nuovo invio a domicilio coatto, e così di seguito.

Sembra che un Governo il quale abbia a suo arbitrio un’arme così potente, possa, secondo il modo come l’usa, o devastare una provincia, o renderle la sicurezza e la prosperità. Una volta ch’esso abbia determinato contro qual categoria di persone intende adoperarla, se è ben servito, non v’ha delitto tanto nascosto ch’egli non giunga infine a coglierne l’autore, non v’ha testa tanto alta che egli non sia in grado di colpirla.

Ma invece le liste dei numerosi ammoniti ed inviati a domicilio coatto della città di Palermo e suoi dintorni([17]), sono, come del resto anche nel rimanente della Sicilia, empite in gran parte dai nomi di ladruncoli di campagna, di delinquenti minori, di tutta quella minutaglia, che in qualunque paese è portata ad una vita irregolare dalla miseria o dalla pigrizia. Gente la quale è più di fastidio che di pericolo alla società, e che si giunge a render pericolosa con siffatte pene. Se d’altra parte non mancano nomi di assassini pericolosi di basso grado, vi sono rari quelli di quei capi mafia, organizzatori di delitti, arricchiti coll’imporsi negli affari altrui, e diventati spesso col terrore, padroni assoluti di un intero Comune. E vi mancano quasi del tutto i nomi di quei prepotenti di alta sfera che sono cagione, principio e fondamento del vasto sistema di violenze sanguinarie che opprime il paese. V’è come una forza arcana, che protegge le loro persone e regge la loro influenza contro chiunque, e soprattutto contro l’autorità pubblica.

 

 

§ 14. — Inefficacia degli istrumenti usati dall’Autorità pubblica contro i malfattori.

La quale, bendati gli occhi, turate le orecchie, va brancolando in cerca di assassini o di malfattori, che tutti, fuorchè essa, vedono e conoscono. I suoi istrumenti, o sono inefficaci, o la tradiscono. Si dà il caso che mentre carabinieri e truppa vanno perlustrando monti e valli sotto la pioggia e la neve, il capo brigante ricercato stia svernando tranquillamente a Palermo stessa, e non sempre nascosto. Fra gli uffici di pubblica sicurezza, gli stessi uffici giudiziari da un lato e il pubblico dall’altro, v’ha una corrente di relazioni continue e misteriose, contro le quali è vano il segreto più rigoroso. Persone designate per esser colpite da arresto, sono avvertite prima ancora che si firmi il relativo mandato, e la forza che viene per prenderli li trova partiti da tre o quattro giorni o più. Nelle carceri esiste una comunicazione continua fra i carcerati e quelli di fuori. Nella forza armata, dove è fedeltà al dovere è pure ignoranza dei luoghi, delle persone, della lingua. I carabinieri e la truppa, bene spesso non servono ad altro che a farsi ammazzare senza sapere da chi. Si racconta di briganti fattisi scortare dai carabinieri come pacifici viaggiatori, e di un famoso capo brigante che in Palermo passò una serata a conversare amichevolmente al caffè con un ufficiale dei carabinieri il quale non lo riconobbe, e pochi giorni dopo si vide arrivare a casa una paniera di dolci coi complimenti del capo brigante stesso.

 

 

§ 15 — Forza di polizia indigena. I militi a cavallo.

Certamente una forza di polizia indigena non sarebbe esposta a tali errori. Questa forza c’è: i militi a cavallo. Ma con essi si cade nell’inconveniente opposto: conoscono cioè troppo bene coloro che dovrebbero perseguitare ed arrestare, per esserne stati compagni o complici. Reclutati in gran parte in mezzo a quella classe di facinorosi e di malandrini che sono destinati a combattere, vivendo mescolati colla popolazione, nelle proprie case, senza caserme, senza disciplina militare, tenuti solamente a indennizzare pecuniariamente, ma non oltre all’ammontare di una somma determinata chi sia danneggiato da un delitto nel territorio sottoposto alla loro sorveglianza, nulla li sottrae all’influenza delle relazioni locali. Sono sotto la divisa quel ch’erano quando giravano le campagne per conto loro, con questa sola differenza, che l’arme che portano, è loro fornita dal Governo.

 

 

§ 16. — Manca nell’autorità pubblica unità d’indirizzo. Il personale.

È facile intendere quanta energia, quanta oculatezza, quanta unità nell’azione sarebbe necessaria alle autorità costrette ad usare siffatti istrumenti, per porle in grado di supplire all’ignoranza degli uni, e di rendere innocua la malvagità degli altri. Ed invece, tutto concorre a rendere incerta ed inefficace l’azione anche di queste. L’indirizzo del funzionario di pubblica sicurezza spesso contraddice a quello della magistratura. Il personale è talvolta impari all’ufficio. I pretori, fondamento e perno di tutto il meccanismo destinato alla scoperta e alla punizione dei delinquenti, sono in condizione tale da dover essere strumenti dei prepotenti, piuttosto che guardiani o propugnatori della legge. È recente il caso dell’arresto di un vice-pretore e del suo vice-cancelliere per falso in scrittura pubblica; di un pretore che invece di andare sul luogo del delitto, a fare le debite verificazioni sul cadavere di un assassinato, si è fatto portare il corpo fino alla sua residenza, per risparmiarsi due o tre ore di viaggio faticoso e difficile. Un altro ha comprato metà del grano proveniente da un furto commesso nel suo mandamento.

Se dai pretori si risale su su nella gerarchia giudiziaria i racconti che si sentono fare sopra taluni suoi membri, non sono meno sconfortanti. Era nota in Palermo l’intimità di un alto magistrato con tutti i tristi anche legalmente pregiudicati. Costui, per potersi dare senza pericolo alla sua passione per la caccia nei dintorni della città, comprava la protezione dei facinorosi che li infestano, proteggendoli da canto suo, intercedendo per fare loro ottenere il porto d’armi o schivare l’ammonizione, cercando, quando fossero in prigione, di ottenere per loro dalla Procura del re e dalla direzione del carcere tutti i favori possibili. Certamente un caso di questo genere è eccezionale, e sono numerosi i magistrati integerrimi e incorruttibili. Ma è cosa poco rassicurante che un tal fatto abbia potuto prodursi e soprattutto durare un certo tempo. E pur troppo sarebbe inutile negare che una parte della magistratura è troppo facilmente influenzata da pressioni le quali, per quanto possano non aver nulla che fare colla corruzione propriamente detta, non sono perciò meno nocive alla giustizia.

 

 

§ 17. — Il Governo centrale non sostiene i suoi funzionari.

Con siffatti mezzi d’azione e d’informazione, un prefetto di Palermo ha da resistere agl’inganni e alle lusinghe di chi cerca farsi di lui un istrumento, impedire i disordini e i furti nelle amministrazioni locali, le prepotenze dappertutto; ristabilire e mantenere l’ordine pubblico. E neanche può far calcolo sull’aiuto del Governo che l’ha mandato. Pure, l’Italia, annettendosi la Sicilia, ha assunto una grave responsabilità. Qualunque Governo italiano ha l’obbligo di rendere la pace a quelle popolazioni e di far loro conoscere che cosa sia la legge, di sacrificare a questo fine qualunque interesse di partito od altro. Ma invece vediamo i Ministeri italiani d’ogni partito, dare per i primi l’esempio di quelle transazioni interessate che sono la rovina di Sicilia, riconoscere nell’interesse delle elezioni politiche quelle potenze locali che dovrebbero anzi cercar di distruggere, e trattare con loro. Il prefetto stesso deve, per ubbidire ai superiori, imitarli, e così dimenticare il vero fine della sua missione; anzi, nuocergli. Una volta aperta la porta agl’intrighi, si vede a Roma l’influenza del prefetto avversata, spesso vittoriosamente, da quella delle persone che egli ha ufficio di combattere; i loro rapporti creduti talvolta più dei suoi. Gli vien tolto ogni mezzo di agire efficacemente, si vede rifiutare gl’impiegati che egli chiede. Se malgrado tutto ciò egli riesce a operare qualche miglioramento, almeno superficiale, sopraggiunge un cambiamento di Ministero, vengono al potere o vicino al potere persone le quali hanno amicizie, legami, interessi con quelle che il prefetto ha dovuto inimicarsi per fare il suo dovere. Segue la reazione. Sotto colore di politica, gl’impiegati migliori e più coscienziosi sono sacrificati a rancori personali, è distrutta l’opera incominciata, si ricade più basso che mai e, quel che è peggio, si conferma sempre più nel pubblico l’opinione della potenza infallibile e incrollabile nell’Isola e fuori, di quelle persone che la tiranneggiano e la sfruttano a loro profitto.

Per far diversione al sentimento suscitato da un quadro così lugubre, si possono ascoltare i racconti dei fatti che accadono al di là dei monti che contornano la città. Si sente parlare dell’infinita miseria dei più, della ricchezza, della prepotenza di pochi. Si sente dire di campagne e paesi padroneggiati da briganti presenti ad un tempo dappertutto, che eseguiscono le loro vendette con una rapidità ed una crudeltà spaventevole sotto gli occhi di un’intera popolazione, quasi sotto quelli della Forza pubblica, e dei quali pure la Forza non riesce a scoprire traccia in nessun luogo.

Con questa impressione e sotto questi auspici, il viaggiatore lascia Palermo, per inoltrarsi nell’interno dell’Isola.

 

 

 

II.

LE PROVINCE INFESTATE DAI MALFATTORI

 

 

§ 18. — Aspetto generale delle campagne nell’interno dell’Isola.

L’unica linea ferroviaria, che adesso faccia capo a Palermo, è quel tronco che va a perdersi nel centro della Sicilia. Si spera che sarà fra breve congiunto con quello che parte da Girgenti, e, in un tempo più lungo coll’altro che, staccandosi a Catania dalla linea littorale Messina-Siracusa, giunge adesso fino a Caltanissetta. Partendo da Palermo, la linea fino a Termini corre parallelamente al mare, attraverso una campagna incantevole e popolata, stretta per lo più tra le colline e il mare, e piena di giardini di agrumi, di orti piantati d’alberi fruttiferi, di vigne ammirabilmente ben tenute, di uliveti.

Dopo Termini, la linea si interna dentro terra, e a poco a poco vanno diradandosi gli orti, i frutteti, i vigneti, gli uliveti, lasciando posto fra di loro, a spazi sempre più vasti, coperti di grano o d’erba. Vanno diradandosi le abitazioni di campagna. S’incontra ancora di quando in quando qualche raro gruppo di ulivi nel fondo della valle, si scorge qualche casa solitaria sul pendìo di un’altura, poi il vasto deserto della campagna siciliana. A destra della via, il monte San Calogero, erto e nero; a sinistra alte colline verdi di grano e d’erba; in fondo alla valle, sotto la strada erba, grano e pantani. Non un albero, non una casa per rompere la desolata monotonìa di quella solitudine. Alle fermate del treno, si cerca la città, il borgo di cui si sente gridare il nome. Vi si mostra un mucchio di case grigie arrampicate sulla cima di un monte lontano, oppure un sentiero, raramente una strada ruotabile, che sale lungo la falda della vicina collina, sparisce dietro, poi risale serpeggiando un’altra altura, poi sparisce ancora. Quella via porta al paese in due o tre ore di marcia. Le vicinanze della stazione sono sempre deserte, non un villano lungo la barriera, non un vetturino che aspetti gli avventori. Solo la carrozzella o la cavalcatura della posta, qualche mulo o cavallo bardato venuto a cercare il padrone. Il treno riparte, ed il viaggiatore è insensibilmente invaso da quel sentimento che prova chi si trovi in mezzo a cose misteriose e sconosciute; le valli che si aprono sulla strada, poi voltano, e si nascondono dietro un’altura, pare che debbano nascondere cose strane e non mai viste. Egli prova una specie di miraggio morale. Ed intanto, se ha per compagno di viaggio qualche proprietario o qualche grosso fittaiuolo, egli può sentire spiegare come i vasti fondi che il treno va attraversando siano, o dai proprietari, o dai grossi fittuari che li tengono a gabella, dati a coltivare a colonìa, a fitto o altrimenti ad una turba di contadini, fra cui i più ricchi possiedono un asino, un mulo, e talvolta una casupola, e che, dopo aver lavorato il loro campo, giungono all’autunno, senza aver potuto serbare dal raccolto il vitto per l’inverno, devono cercare dal padrone o dall’usuraio un poco di grano per vivere fino alle mèsse ventura, e consumano in tal modo la vita in un’eterna vicenda di debiti e di fatiche. A sentir parlare di quei proprietari e di quei grossi fittaiuoli signori della terra, del bestiame, e talvolta anche degli aratri, padroni nel fatto delle vite dei contadini, poichè sta in loro il farli morir di fame o no, la mente si riporta involontariamente al tempo in cui le campagne siciliane erano coltivate da turbe di schiavi, e agli orrori delle guerre servili in Sicilia sotto la dominazione romana.

Il treno giunge al punto destinato, si scende, sempre in mezzo al deserto: il fabbricato della stazione, uno o due baracconi, poi nulla. A quella stazione fa capo una strada ruotabile importante percorsa da un servizio di vetture pubbliche. Mentre le diligenze attaccano e caricano, tre cavalleggeri e un carabiniere stanno visitando le bardature ai loro cavalli; sopraggiunge una pattuglia di bersaglieri a passo accelerato e si mette in linea. Il nuovo sbarcato si guarda dintorno, e cerca se non stia sbucando altra truppa da qualche altro lato. Egli principia a provare come un’impressione vaga di essere in mezzo a un paese in stato di guerra. Le diligenze sono pronte, i viaggiatori imbarcati, si vedono partire al trotto; dietro, la scorta a cavallo; sui fianchi della strada, i bersaglieri che prendono le scorciatoie. Coloro che, saliti a cavallo vadano seguendo il sentiero per qualche paese vicino, li vedono allontanarsi per la via maestra; sentono diminuire il rumore dei sonagli dei cavalli e degli schiocchi di frusta. Si scorgono le carrozze già fatte piccole per la distanza, salire, giungere faticosamente al culmine di una collina, poi sparire finalmente per l’opposto pendìo, e si riman soli a camminare in mezzo al silenzio della deserta campagna. Allora il nuovo viaggiatore si sente preso da un profondo senso d’isolamento, gli pare che su tutta la contrada nuda e monotona pesi come l’incubo di una potenza misteriosa e malvagia, contro la quale non ha aiuto o difesa fuori di sè stesso e dei compagni venuti secolui d’oltre mare, e si sente subitaneamente preso da una profonda tenerezza per la carabina che porta in traverso della sella.

 

 

§ 19. — Ospitalità.

Però, a questa sensazione d’isolamento spesso non risponde il fatto; chè l’ospitalità siciliana è tale da lasciare in chi l’ha sperimentata la più grata memoria. E conserveremo sempre quella della persona che, dopo averci conosciuti quasi per caso in Palermo, diresse i nostri primi passi nell’interno dell’Isola, e per giornate intere scansò da noi i disagi e i pericoli con una sollecitudine paterna, e con un raffinamento di attenzioni e cortesie commovente.

Il sentiero va su e giù quando sulla roccia quasi nuda e sparsa di sassi, quando in mezzo al grano o all’erba, traversa qualche torrente quasi asciutto, in fondo al quale corre un miserabile rigagnolo d’acqua fra enormi ciotoli. Dalla cima delle alture l’occhio gira d’intorno e sempre lo sguardo si perde fino all’orizzonte in mezzo alla infinita solitudine. Appena se di quando in quando è fermato da qualche colle con alcune vigne, ulivi e mandorli, intorno a un gran casamento contornato da altri più bassi; è il centro di qualche feudo.

Finalmente si vede sul pendìo di una collina qualche piantagione di alberi, alcune casupole sparse qua e là, e, sul culmine, le prime case del paese, basse e nere, e la punta del campanile. In cima alla salita, prima si trovano dei mucchi di letame sparsi alla rinfusa per la china, lavati e mezzo portati via dalle piogge, poi una lunga fila di catapecchie col solo pian terreno. Dagli usci aperti si scorge dentro una lurida stanza, spesso senza finestra, covile comune dell’intera famiglia di un villano e dei suoi animali quando ne ha. Poi s’entra nella parte del paese abitata dai civili.

Veramente si prova una certa curiosità di vedere e conoscere sul teatro della loro potenza quei proprietari e quei gabellotti dall’interesse e dalla volontà dei quali dipende la esistenza di tante migliaia di esseri umani. Si aspetta di vedere intorno a loro tutto l’apparato della potenza feudale, di trovare in loro tutta quella sicurezza di sè stessi, che si addice a chi possiede una forza non discussa nè combattuta. Si aspetta insomma di vedere un ordine di cose ben diverso da quello che s’è lasciato a Palermo e nelle sue vicinanze. Ma basta ben poco tempo per essere disingannati. Si ritrova in provincia la medesima distribuzione di forze che nella capitale, ed i suoi medesimi effetti. La sola differenza fra questa e quella sta nelle forme, in alcune apparenze esteriori, in quelle diversità che, per la natura delle cose, distinguono un gran centro di popolazione e d’interessi, dai paesi di provincia e dalle campagne.

 

 

§ 20. — Potenza dei briganti e dei malfattori in genere.

Se non manca ai signori residenti in provincia l’apparato esterno della forza, manifestato da un numero più o meno grande di campieri armati, addetti alla guardia dei loro fondi e delle loro persone quando vanno in campagna, si scorge quanto poco la realtà risponda alle apparenze appena si venga a discorrere con loro del brigantaggio; e ciò avviene spesso, perchè nell’interno della Sicilia, qualunque conversazione lasciata andare per la sua china dopo pochi minuti cade quasi inevitabilmente in tale soggetto. A questo fan capo tutti i discorsi che hanno relazione cogl’interessi e colle condizioni dell’Isola; l’argomento sempre presente, sempre stringente s’impone alle menti.

E intorno a questo si sentono i racconti e i giudizi più strani e più incredibili. Sarebbe difficile esprimere la sorpresa che prova una persona avvezza ad altre condizioni sociali, nell’assistere alle relazioni regolari che, nelle provincie siciliane infestate dai malfattori, corrono fra la popolazione e l’infinita varietà di facinorosi che, sotto il nome di briganti, di malandrini, di mafiosi, esercitano in vari modi l’industria del delitto. Diverse nella forma e nel fine a seconda delle circostanze, secondo che i malfattori sono più o meno temuti; amichevoli od ostili, queste relazioni sono continue. Si direbbe quasi che il brigantaggio è, in quella condizione di società, un’istituzione regolare e riconosciuta, più o meno volentieri secondo i casi, ma sempre ammessa e tenuta in conto.

Si sente soprattutto parlare di briganti. Pure il numero dei briganti propriamente detti, di fronte a quello dei facinorosi d’ogni specie, è minimo; nei momenti dove più fiorisce il brigantaggio, i capi banda sono tutt’al più cinque o sei in tutta l’Isola. Le loro comitive stabili, più o meno numerose secondo i tempi e le circostanze, non lo sono mai molto. Pure la loro azione si combina in un modo così inestricabile con quella degli altri malfattori di ogni qualità che il distinguerle è impossibile. Il piccolo numero delle bande brigantesche vere e proprie può essere cagione che sia efficace un modo di repressione, piuttosto che un altro. Per il rimanente, parlare di briganti, di malandrini, di mafiosi è tutt’uno; con questa sola distinzione, che dove i malfattori sono riuniti intorno ad un capo famoso, sono più temuti e più potenti.

Nella sterminata solitudine della campagna siciliana i veri padroni sono i malfattori. Stanno a loro discrezione i grandi armenti che vagano pascolando, l’estate su pei monti, l’inverno nelle colline basse e nei piani delle marine, le mèssi mature, le vigne, i mandorli, le case e le ville perse in mezzo al deserto. Basta uno di loro con un mazzo di fiammiferi per distruggere la ricchezza di un uliveto prodotta da secoli. Appartengono a loro la vita e le sostanze dei viandanti che si avventurano isolati per i sentieri e per le strade maestre. Montati su cavalli che non son loro, armati di schioppi e di revolver che non han comprati, giran da signori per i monti e per le valli, per i colli e per le pianure. Se si fermano a una masserìa, a un feudo, s’aprono per loro tutte le porte; il fittaiuolo, il fattore, tutti gl’impiegati si affrettano intorno a loro; la cantina, la dispensa, la scuderia sono messe a loro disposizione. Nelle parti dove sono soliti passare, conoscono tutti e sono da tutti conosciuti; non v’è proprietario il quale si occupi dei suoi fondi, che non pratichi con loro. Abbisognano di armi, di munizioni? non hanno che da chiederne. Fu trovato accanto al cadavere di un brigante ucciso un fucile di prezzo comprato pubblicamente in una delle città dell’Isola da un ricco proprietario. I più bei cavalli sono a loro disposizione. Il proprietario G.... escito in campagna a cavallo s’imbatte in un brigante, il quale gli viene incontro, lo saluta rispettosamente, poi gli chiede il cavallo che monta. Dietro l’osservazione che l’essere il proprietario costretto a tornare in paese a piedi sarebbe considerato dai suoi parenti, amici e aderenti come un insulto, ed esporrebbe il brigante al loro odio e alla loro vendetta, questo si lascia persuadere, e riman convenuto che avrà il cavallo più tardi. Poi, invita il proprietario a entrare in una vicina casa di campagna, dove questo trova i principali capi banda della contrada a tavola; è ricevuto con ogni modo di cortesia, invitato a bere; beve, si trattiene a chiacchiera, e per dimostrare che non prova diffidenza, si leva il revolver di fianco e lo regala a uno di loro. Pochi giorni dopo il cavallo fu mandato in pastura e sparì. Hanno bisogno di denari? Scrivono una lettera a qualche persona facoltosa, ed è ben difficile che s’incontri chi sia tanto ardito da rifiutare. Trovano, dove vogliono, amici, alleati, ricettatori, spie. Nessuno ambisce la gloria pericolosa di rifiutare la proficua alleanza; i malfattori quando abbiano saputo farsi temere, han libera la scelta degli amici. I proprietari, i fittaiuoli, i fattori, tutti gl’impiegati delle aziende agricole sono per la forza delle cose complici e ricettatori dei briganti. Del resto, per avere ovunque intelligenze nelle campagne i malfattori non hanno bisogno di ricorrere all’aiuto di estranei. I proprietari sanno che il miglior modo di garantire il più che sia possibile i loro fondi dai danni del brigantaggio è di affidarli alla custodia di campieri che siano stati un po’ briganti anch’essi, o che abbiano almeno qualche omicidio sulla coscienza, e facciano parte di quella gran lega che, senza regole, senza statuti, senza concerto preventivo, pure unisce al bisogno tutti i facinorosi d’ogni specie.

Il regno dei malfattori non si limita alle campagne. Senza parlare delle continue ed intime relazioni che hanno con Palermo molti fra i facinorosi delle provincie, non sono pochi quelli che abitano nei paesi, esercitano la loro industria e dentro l’abitato, e fuori. Sono in continua relazione coi briganti e i malandrini che scorazzano all’aperto, dànno loro aiuto coll’opera e colle informazioni, e ne ricevono a vicenda. Gli uni e gli altri approfittano delle informazioni e degli aiuti di quei benestanti, che nei paesi sono complici dei malfattori e soci nei loro guadagni. I malfattori della campagna trovano sicuro ricovero ed ospitalità così nei paesi dell’interno come in mezzo alla folla ed alla confusione di Palermo, ed il fatto non è nuovo di briganti, che abbiano abitato per mesi una casa in mezzo a un grosso borgo, senza che l’autorità ne sapesse nulla. In ogni paese trovano notizie sui movimenti dei proprietari contro i quali meditano un ricatto, trovano incettatori di cose e di persone. Una persona sequestrata fu una volta ritrovata in una casa nel centro di un capoluogo di circondario. Ognuno in Sicilia si rammenta ancora come nel 1865 un’accozzaglia di briganti di mestiere e d’occasione di vari paesi, capitanata dal brigante Pugliese, eccitata, informata e guidata da un benestante del paese stesso, entrò di notte sparando fucilate in San Giovanni di Cammarata, contornò una casa, ne forzò l’ingresso, la saccheggiò, ne torturò il vecchio padrone per ottener rivelazione dei denari che potesse tener nascosti, e se ne andò dopo tre ore senza essere seriamente molestata([18]).

 

 

§ 21. — Carattere e modi di procedere dei malfattori.

Tale è in Sicilia la posizione di quegli uomini di ogni carattere e di ogni specie che vivono di ricatti, di grassazioni, di furti di bestiame, di lettere di scrocco. Si sentono sopra di essi gli apprezzamenti i più disparati. Alcuni li descrivono come belve. Molti li dipingono, specialmente se sono briganti veri e propri, come una specie di eroi sul tipo di quelli di Schiller, protettori del debole e dell’oppresso. Al nuovo venuto non avvezzo a quell’ambiente e che senta raccontare i fasti briganteschi, i briganti fanno l’effetto di essere per la massima parte volgarissimi, mascalzoni assolutamente, privi di qualunque sentimento di umanità, dotati quasi tutti di grande ardire, reso del resto abbastanza facile dalla paura generale e dall’aiuto e sostegno che trovano nelle condizioni sociali. Quelli fra loro che diventano capi di comitive sono molto abili nello scegliere gli alleati e i nemici, nel misurare con cura la quantità di danni che posson fare senza provocare una reazione, e nell’assicurare a taluni certi vantaggi in cambio del danno che cagionano. Pare che di quando in quando sorga anche fra di loro qualche tipo di romanzo, qualche uomo ardito e generoso; la cosa non è impossibile in un paese dove la professione di brigante non è considerata come disonorante. Ma uomini siffatti sono piuttosto rari, e sono presto trascinati dalla forza delle circostanze a fare come gli altri, molto più che tutte le loro belle qualità non hanno nell’atto pratico molti effetti, giacchè i loro compagni fanno quel che non fanno loro.

I modi nei quali esercitano la loro industria, sono i più variati. Taluni si stabiliscono in una contrada quasi come un’autorità costituita e riconosciuta, esigono dai proprietari una specie di tassa quasi regolare per mezzo delle lettere di scrocco. Del resto assicurano l’incolumità delle persone e degli averi a coloro contro i quali non hanno ragioni di inimicizia, infliggendo pena pronta e terribile, a quel malfattore estraneo alla compagnia, che venga a far concorrenza nel loro territorio. Aumentano il proprio prestigio col far talvolta a qualche miserabile un leggero benefizio, coll’osservare (non sempre però) scrupolosamente la parola data e col regolarsi secondo norme tutte loro intorno al punto di onore. Altri fanno d’ogni cosa un poco: sequestrano il ricco proprietario e ne esigono una grossa taglia, assassinano il viandante, arrestano le diligenze, spogliano il miserabile mulattiere delle poche lire che ha indosso. Tutti più o meno esercitano il furto di bestiame (abigeato). Sono regolarmente costituiti in banda, oppure girano isolati per la campagna, e quando si tratti di fare un colpo reclutano uomini fra i colleghi dei paesi o delle campagne. Alcuni sono malfattori dichiarati, scorazzano le campagne, e se entrano nei paesi lo fanno quando sono certi di non esser riconosciuti dalla forza pubblica. Altri menano vita regolare in apparenza, hanno una professione, vivono in paese; quando sanno di poter commettere qualche grassazione escono in campagna, consumano il delitto, e la mattina si ritrovano a casa in mezzo alle consuete occupazioni.

Le relazioni fra i membri di questa vasta popolazione di malfattori sono le più varie. Si sente perfino talvolta narrare d’inimicizia fra il tale e il tale altro brigante; spesso un facinoroso ne uccide un altro per rivalità, per vendetta, o in rissa. Ma più generalmente la vasta popolazione dei malfattori siciliani d’ogni specie, forma una gran lega. I più si conoscono fra di loro, almeno di nome; ma pur senza conoscersi sono pronti, quando l’occasione si presenta, ad unirsi e combinarsi al minimo cenno. Vari d’origine e di posizione sociale, vari anche nelle specialità del mal fare, pure si conformano tutti a certe regole tradizionali nate dall’indole stessa delle circostanze e dalle necessità della loro industria.

Frutto di una lunga esperienza mantenuta dall’istinto della conservazione, quest’assieme di regole è diventato come un diritto consuetudinario in vigore nella popolazione dei malfattori siciliani, e si può compendiare in poche norme. Impedire qualunque denunzia contro di loro all’autorità per parte di chiunque, e qualunque impedimento al libero e comodo esercizio del mestiere di malfattori. La sanzione è la vendetta pronta, terribile, eccessiva anche per l’offesa più leggera, che non esita a colpire dieci innocenti per il solo sospetto che fra di loro vi sia un colpevole, pure di imporre alle menti la convinzione che niente è più forte dei malfattori, e che niuno che li ha offesi può sfuggire la pena. I modi di applicazione di quelle regole variano poi all’infinito secondo le circostanze, i luoghi, le persone. In un comune dove l’autorità di pubblica sicurezza minacciava di prendere il sopravvento, i facinorosi del luogo, nella strada principale, all’ora in cui è più frequentata, mentre il delegato stava fermo sull’uscio di una bottega, si strinsero intorno a lui gomito a gomito in un semicerchio impenetrabile appoggiato al muro, e lo uccisero con una pistolettata a bruciapelo. Naturalmente la gente ch’era per la strada non sentì nè vide nulla e nessuno. Un’altra volta, una pattuglia che tornava da una perlustrazione fu ricevuta al suo ingresso nello stesso paese con una volata di schioppettate che ne uccise e ferì alcuni. Contro un impiegato che era sul punto di scuoprire le fila di una associazione di malfattori, fu organizzata una calunnia, cercato di provocare un processo penale, e per tal modo ne fu reso necessario l’immediato trasloco. A San Mauro, il capo brigante Rinaldi, sul semplice sospetto che un proprietario lo avesse denunziato, lo uccide in campagna. Qualche tempo dopo, entra armato con un compagno nel paese dove sta la famiglia di questo, all’Ave Maria in mezzo ai villani che tornano dal lavoro, entra nella casa dove stanno la madre e la sorella dell’ucciso; uccide la madre con una schioppettata, tira la sorella giù per le scale in istrada, e la finisce a coltellate. E ciò a pochi passi dalla casina di società piena di gente, e dalla caserma dei carabinieri; poi se ne va. Il medesimo brigante, alle porte dello stesso paese, uccise con una fucilata uno, per aver detto (in termini più energici però) che si curava poco di lui. Nel medesimo paese, un membro della stessa banda ferisce a morte per rancori personali una persona amata da tutti. Mentre si portava il viatico al moribondo e la campana suonava a morto, e davanti all’uscio di casa stava una folla di gente a piangere, urlare e lamentarsi, l’assassino, uomo basso e smilzo della persona, se ne stava di faccia alla casa del morente appoggiato al muro, colle braccia incrociate e un bastone in mano; tutti lo vedevano e nessuno, in tutta quella folla, osava avvicinarlo. Il paese era occupato militarmente dai bersaglieri. Ventiquattr’ore dopo si venne a raccontare a uno degli ufficiali la presenza di quell’uomo.

I briganti sono talmente sicuri del loro prestigio, della loro autorità sopra tutte le classi della popolazione, sentono talmente di far parte integrante e riconosciuta della società, che spesso non provano il bisogno di esser brutali, e conservano talvolta nei loro atti più violenti, la massima cortesia nelle forme. Un gran proprietario viene a passar qualche giorno in una sua villa. Durante la notte si sente picchiare alla porta. Sono i briganti che protestano di non volergli fare nessun male, ma chiedono solamente di riverirlo e di baciargli la mano. Il proprietario si scusò come potè dal riceverli, e la mattina dopo se ne andò per non più tornare sulle sue terre.

Un altro ricco proprietario era stato sequestrato dai briganti. Mentre si trattava del ricatto, i briganti lo fecero per più giorni girare per monti e dirupi, usando però sempre con lui i modi più cortesi e rispettosi, cucinandogli dei pasti ricercati per quanto lo permettevano le circostanze. Pagato il ricatto, il capo brigante gli chiese dove voleva essere ricondotto. Il signore indicò un paese. Appena fattasi la notte, la banda si incammina con lui, e si ferma nell’immediata vicinanza del paese indicato. Il capo brigante prega il signore di scusarlo se per ragioni che può facilmente capire non lo accompagna fino dentro l’abitato, gli chiede scusa di ciò che gli è stato fatto, allegando le circostanze, la necessità della sua condizione, la durezza dei tempi, ecc., poi ordina ai suoi uomini di scendere da cavallo e di baciar la mano al signore. Egli stesso principia, gli altri gli vengono dietro. Poi dànno la via al proprietario. Questi era libero, e aveva pagato 130,000 lire.

 

 

§ 22. — Impotenza dei carabinieri e della truppa contro i malfattori.

E mentre briganti, malandrini e malviventi vanno signoreggiando le campagne e i paesi, e sono ovunque come a casa propria, i carabinieri e la truppa spersi in mezzo all’Isola, errano in pattuglie, scortano le diligenze e i viandanti, si fanno ammazzare dai briganti, ne uccidono raramente, e non ne arrestano quasi mai. Accade talvolta che alcuno per vendetta di un danno o di un affronto o per cupidigia della taglia, venga, raccomandando il segreto, a svelare all’autorità il nascondiglio dei briganti, ma il caso è raro. Pochi dei briganti che sono uccisi muoiono per opera della Forza pubblica; per lo più sono assassinati da colleghi o rivali. Se una pattuglia perlustrando le campagne si presenta a una masseria e chiede notizie dei briganti, nessuno li conosce, nessuno li ha visti, mentre si sta forse sparecchiando nella stanza vicina la tavola dove hanno mangiato. Ma i briganti sanno subito dove è la Forza, i luoghi dai quali è passata, dove si è fermata, cosa ha chiesto, dove si è diretta partendo, conoscono le imprese che prepara. Ogni parola, ogni gesto sfuggito a un soldato o ad un ufficiale è osservato, studiato e riferito. Esce in campagna un drappello di truppa per fare una recognizione o tentare qualche colpo; si vede passare innanzi un contadino colla zappa, o un ragazzo, un vecchiarello, un mendicante; parrebbe ridicolo arrestarli od anche interrogarli. Qualche ora dopo i soldati arrivano al nascondiglio dei briganti, il fuoco è ancora acceso, ma i briganti sono stati avvisati e sono spariti, se pure la pattuglia prima di giungere non è caduta in un’imboscata, e non ha avuto alcuno dei suoi, uccisi da palle venute non si sa da dove. Se la truppa prepara una spedizione, la prima cura dei capi deve essere che non sia sorpreso il segreto, non solo dal pubblico chè la cosa è naturale così in Sicilia, come in qualunque altro paese, ma spesso nè anche dall’autorità locale, dai militi a cavallo. Sono ben rari coloro che la Forza pubblica può prendere per complici dei suoi progetti. Pare quasi che essa sia una comitiva di malandrini, e che i briganti siano coloro cui è stata affidata la protezione delle persone e delle cose, i difensori della società.

E veramente i briganti sono l’autorità costituita e riconosciuta. Il loro servizio di spionaggio è il solo efficace, le offese fatte a loro sono quelle che portano certa pena. Può darsi che rimanga impunita la resistenza alla pubblica Forza, non quella ad un assalto dei malfattori. L’uomo tanto ardito da resistere, potrà per quella volta costringerli a ritirarsi, ma si assicura per l’avvenire un gravoso ricatto o una schioppettata che gli capiterà un giorno che starà girando le campagne solo o male scortato. Tempo addietro nella provincia di Girgenti, fu sequestrato in campagna un proprietario. Egli aveva cinque fratelli che per caso si trovavano riuniti nel paese; al giungere della notizia del sequestro, questi si armarono, escirono in cerca dei malfattori, e riuscirono a liberare il fratello sequestrato. Ma come non potevano sempre andare in campagna uniti, convenne che per schivar guai entrassero in trattative coi facinorosi del paese cui appartenevano i malandrini combattuti e vinti. Diedero loro un pranzo, pagarono una somma di denaro, si scusarono dell’operato, allegando la necessità ecc. ecc. La somma pagata non fu considerevole; ciò che premeva ai facinorosi era un attestato pubblico che coloro i quali avevan loro resistito, riconoscevano nonostante la loro autorità.

 

 

§ 23. — La generale impotenza della classe abbiente contro i malfattori, non si può spiegare con la mancanza dei mezzi per resistere. Nè con la generale complicità. La semplice osservazione delle relazioni fra cittadini e malfattori non fornisce gli elementi per sciogliere questo problema.

Come hanno potuto i malfattori acquistare un sì strano predominio sugli animi? La mente si affatica lungamente invano intorno a questo problema. Se i proprietari ricevono cortesemente i briganti, li albergano, li rivestono, li armano, non è certo per carità cristiana. Non è per uno spirito di rassegnazione e di umiltà poco verosimile; lo dimostrano gli odii e i rancori implacabili coi quali i signori ingannano i lunghi ozi della loro vita neghittosa nei paesi dell’interno. Non è perchè i Siciliani non sappiano al bisogno unirsi per un dato fine; lo prova la stretta unione fra i membri di ciascuno dei partiti, che in tanti Comuni si contendono il primato di generazione in generazione, lo prova la stessa solidarietà dei malfattori fra di loro. D’altra parte, i mezzi materiali di difesa non mancano. I proprietarii hanno modo di assoldare gente risoluta in loro difesa. Qual’è dunque la ragione della loro mancanza d’unione, della loro impotenza, della loro docilità di fronte alla potente organizzazione del malandrinaggio?

Veramente, a vedere sottomettersi con tanta facilità tutta una classe di persone, cui basterebbe agire d’accordo per tre giorni per fare sparire il brigantaggio, la prima impressione è che questa rassegnazione non sia altro che complicità. Ma anche appoggiandosi sopra questa ipotesi, la mente cerca invano un criterio che la guidi nel giudizio dei fatti. La complicità apparente è universale. Ma in Sicilia l’apparenza di complicità non ha significato. Chi troverà il mezzo di distinguere quella che viene imposta dal terrore, da quella spontanea e lucrosa? Taluni proprietarii per aver rifiutato ospitalità o informazioni ai briganti, hanno avuto il bestiame distrutto, le piantagioni e le case bruciate, sono stati ricattati, assassinati([19]). Ma nel tempo stesso altri si sono arricchiti col manutengolismo, col tener mano ai ricatti, dando informazioni ai briganti, magari prestando il luogo dove rinchiudere il sequestrato. Taluni devono una fortuna considerevole all’industria del ricoverare nel loro fondo il bestiame rubato per curarne poi la vendita o l’esportazione. È incalcolabile il numero di persone d’ogni condizione che impiega in Sicilia l’industria degli abigeati. Una vasta rete di ladri, compari e ricettatori, cuopre tutta l’Isola. Dei capi di bestiame rubati, poniamo, sulla costa settentrionale, trovano chi li nasconde nel suo fondo, posto nel centro dell’Isola, e, al bisogno, chi provvede ad imbarcarli in qualche punto della costa meridionale per l’Africa. Ma d’altra parte è pubblicamente noto che taluni grandi proprietarii sono costretti, loro malgrado, a lasciare ricoverare nel loro fondo, il bestiame rubato dai briganti. Dovrà considerarsi come indizio di manutengolismo, se un proprietario sta tranquillamente in campagna colla famiglia, gira senza scorta dappertutto, e non è mai molestato? Nemmen questo: conviene talvolta ai briganti di non farsi nemico un signore ricco e potente, e rispettarlo senza esiger da lui altro che il silenzio sui loro movimenti, e lo stretto necessario per i loro bisogni. Questo non si può considerare, e non si considera, come manutengolismo, e non v’è proprietario che non sia in questo modo in contatto continuo coi briganti, e che non lo dica apertamente anche alle autorità. E in taluni casi di manutengolismo vero e proprio a fine di lucro, chi è il colpevole, il proprietario, o i suoi fattori ed impiegati? Il proprietario è spesso il primo ad esser vittima del manutengolismo del suo fattore. Questo ha interesse a tenere il padrone lontano dai suoi fondi colla paura. Molto più, ciò che ha apparenza di manutengolismo del proprietario, può essere atto di brigantaggio vero e proprio commesso dai fattori. Le firme dei briganti nelle lettere di scrocco non sono autenticate da notaro. Chi garantisce se sono vere od imitate? Quando i proprietarii, invitati a rendersi presso l’autorità pubblica per affari correnti non rispondono all’invito per timore d’esser sospettati di aver denunziato un malfattore, è probabilmente il solo terrore che li trattiene. Ma chi può dire se il loro silenzio riceve o no il suo compenso all’occasione? Si potrà dire almeno che non è manutengolo il proprietario il quale da parecchi anni non osa uscir dal paese per paura dei briganti o che vien da essi ricattato od anche ucciso? Nemmeno. Ognuno in Sicilia conosce la storia di quei due proprietarii alleati di bande brigantesche ostili fra di loro. Uno di essi fece ricattare l’altro che dovette pagare una grossa taglia. L’altra banda per vendicare lo sfregio fattole nella persona del suo protetto, sequestrò a sua volta il proprietario amico della banda avversa, gl’impose una grossa taglia, lo uccise, e nonostante si prese i denari. Dovrà dirsi manutengolo chi impiega a suo servizio gente facinorosa? Ma il proprietario che non voglia avere i fondi e il bestiame in balìa del primo ladruncolo venuto, deve aver alcuni fra i suoi campieri([20]) che si facciano rispettare, e il modo più efficace per farsi rispettare in buona parte di Sicilia, è l’esser in fama di aver commesso qualche omicidio. Ma il modo di non aver nemica una banda di briganti o qualche altra potente associazione di malfattori dei dintorni è l’avere al proprio servizio una persona, che sia in relazione con loro, che possa trattare con loro per riavere contro competente compenso il bestiame che hanno rubato al padrone. Il loro salario, a quanto dicesi, è talvolta fuor di proporzione col loro ufficio, è la tassa che il proprietario paga alla banda o all’associazione, ed una specie di premio d’assicurazione o di riscatto contro l’abigeato. E chi può dire se quel campiere non è stato da esse imposto al proprietario? I proprietarii dichiarano essi stessi apertamente di essere obbligati a tenere fra i loro impiegati dei facinorosi. Qual’è l’autorità che potrà farne loro un delitto quando il Governo è il primo ad impiegarli al suo servizio? Che cosa sono per la maggior parte i militi a cavallo se non degli antichi malandrini che portano una divisa e, sul berretto, la cifra del re? La mente si affatica invano a cercare i criterii che in una tale condizione di società distinguono il bene dal male, l’innocenza dal delitto. Chi è del tutto innocente, chi è del tutto colpevole? Un atto per il quale in paesi che sono in condizioni diverse non si esiterebbe a mandare un uomo in galera, qui è ammesso, e non si può punire. Ed intanto i briganti diventano capitalisti e hanno relazioni di affari cogli abitanti, dànno bestiame a soccida, diecine di mila lire a mutuo. Intanto stanno formandosi quasi pubblicamente dei patrimoni col manutengolismo e colla complicità negli abigeati. Intanto ciascuno dei partiti avversi nei Comuni, corteggia l’alleanza dei briganti e dei facinorosi; i privati acquistano rispetto, considerazione e influenza quando sia pubblico che sono amici di briganti. Chi potrà dire la parte che hanno i malfattori nella scelta dei fittaiuoli dei feudi, in quella dei compratori dei fondi in vendita, e nella determinazione dei loro prezzi? Chi potrà misurare la loro influenza diretta o indiretta, nelle elezioni municipali, nelle elezioni politiche? Venti o trenta mascalzoni sanguinari con una retroguardia di latitanti erranti per le campagne, e di facinorosi occulti o palesi, sono il fondamento di buona parte delle relazioni sociali più importanti in due terzi di Sicilia.

E si sentono dei Siciliani, specialmente delle classi medie e inferiori, che parlando del brigantaggio dicono apertamente di non veder nulla di anormale nella sua esistenza, di non veder nessuna buona cagione perchè debba cessare. Secondo loro, si tratta di gente che non fa male a nessuno se non è provocata, si contenta d’imporre una tassa ai ricchi, che del resto possono pagarla benissimo, e benefica la povera gente. «Quelli erano briganti chic», ci diceva e ci ripeteva, parlando della banda Capraro, un piccolo impiegato che incontrammo in viaggio. Si racconta perfino in Sicilia che giovani di buona famiglia si sono talvolta uniti a qualche impresa di bande brigantesche famose, senza nessuna mira d’interesse, ma per arditezza giovanile, per acquistare onore facendo prova di coraggio, nel medesimo modo che se si fossero arruolati nell’esercito o fra i volontari per le guerre d’indipendenza. Ad ogni modo, nelle persone di tutte le classi, specialmente se non hanno sofferto dai malfattori danni maggiori degli ordinari, si sente spesso trapelare nella conversazione una certa compiacenza per il tipo brigantesco, una tendenza a farne un tipo da leggenda, un sentimento insomma, che sarebbe abbastanza naturale in un professore di letteratura, ma si spiega difficilmente in proprietari fondiari che hanno masserie e granai combustibili.

Però, questa ammirazione teorica pei briganti non impedisce che la poca sicurezza non provochi, specialmente nella classe ricca, generali lamenti, i quali, nella bocca di chi ebbe a soffrire dal brigantaggio personalmente in modo crudele, diventano aspri ed irosi e si manifestano per lo più sotto forma di duri rimproveri al Governo. Da esso si aspetta, o piuttosto si richiede tutto. Esso in mezzo alla universale cospirazione del silenzio deve pur trovar modo di scuoprire i malfattori e di impadronirsene. Questo disperato cercare di un appoggio fuori di sè stessi non ha nulla che debba sorprendere quando si consideri la inaudita disorganizzazione di tutta la classe che ha qualcosa da conservare di fronte alla disciplina dei malfattori.

 

 

§ 24. — Propensione quasi generale per i mezzi di repressione arbitrari.

Ma ciò che mette lo scompiglio in tutti i concetti di Governo e d’interesse generale che uno si sia formati in paesi regolarmente costituiti, è l’udire gli apprezzamenti e le proposte della grandissima maggioranza dei Siciliani anche della classe colta e specialmente fuori dai grandi centri, sui rimedi atti a ristabilire la sicurezza. Non si sente chiedere che poteri arbitrari senza controllo, senza regola alcuna, senza garanzia di legge, senza quella di intelligenza, nè di moralità nelle persone cui tali arbitrii si vorrebbero affidati. Quelli stessi che riconoscono l’immoralità del personale componente il corpo dei militi a cavallo, e la grandissima difficoltà di depurarlo, chiedono per esso potere arbitrario. Chiedono che si diano in balìa a quest’accozzaglia di malandrini rivestiti le campagne di Sicilia e i loro abitanti con facoltà di estorcere confessioni e denunzie con ogni mezzo ch’essi credano opportuno: le bastonate, le violenze d’ogni genere. Non si rammentano che questi mezzi sono già stati impiegati in Sicilia ed in tempi non tanto lontani da dovere uscire dalle menti; che i membri della classe colta non furono gli ultimi a soffrirne; che allora furono denunziati all’Europa civile, e la fecero inorridire. Abbiamo sentito un proprietario lamentare amaramente il danno che la soppressione della guardia nazionale aveva fatto alla pubblica sicurezza, perchè quando questa esisteva, uno, rivestito della sua divisa, poteva tirare una fucilata a chiunque senza render conto a nessuno. Non pensava che come poteva tirare la fucilata, così poteva riceverla. Le menti non sono in grado di distinguere l’interesse sociale dal loro interesse personale immediato. Vittime di una violenza, chiedono una forza capace di vincere e di distrugger quella, e non vanno più in là. Non chiedono a questa forza garanzie di regolarità e di equità. Sia essa forza armata al servizio loro privato, o del Comune, o dello Stato, siano uomini capaci d’altronde di qualunque disordine, di qualunque delitto, magari briganti, è tutt’uno. E considerando a questo modo la quistione, sono sinceramente persuasi di cercare, non solo il vantaggio loro privato, ma anche quello del pubblico. Non esiste nelle menti della grandissima maggioranza, il concetto di un vantaggio sociale, superiore agli interessi individuali e diverso da questi. Nè possono concepire una forza diretta da siffatto criterio, una legge in somma che, intesa ad un fine generale, ora reca vantaggio, ora danno all’uno od all’altro singolo individuo. Ognuno istintivamente e sinceramente considera l’autorità pubblica in tutte le sue manifestazioni come una forza brutale alleata o nemica dell’una o dell’altra persona per tutti i fini buoni o cattivi.

 

 

§ 25. — Manca nella generalità dei Siciliani il sentimento della Legge superiore a tutti ed uguale per tutti.

Del resto questa mancanza del concetto di una legge e di un’autorità che rappresenti e procuri il vantaggio comune, astrazione fatta dagli individui, si manifesta nelle relazioni di ogni genere fra’ Siciliani. Essi non si considerano come un unico corpo sociale sottoposto uniformemente a legge comune, uguale per tutti e inflessibile, ma come tanti gruppi di persone formati e mantenuti da legami personali. Il legame personale è il solo che intendano. È accaduto a più di un rappresentante dell’autorità che rifiutava un favore richiestogli, allegandone la illegalità, di sentirsi rispondere: «lo faccia per amor mio» e ciò apertamente, senza esitazione, colla massima buona fede. Insomma, nella Società siciliana, tutte le relazioni si fondano sul concetto degl’interessi individuali e dei doveri fra individuo e individuo, ad esclusione di qualunque interesse sociale e pubblico.

 

 

§ 26. — Indole esclusivamente personale delle relazioni sociali in Sicilia. Clientele.

Una siffatta forma di società non è nuova nella storia, e se ne manifestano in Sicilia tutti i sintomi belli e brutti. Da un lato, una fedeltà, una energia nelle amicizie fra uguali e nella devozione da inferiore a superiore, che non conosce limiti, scrupoli o rimorsi. Ma dall’altro, il sistema della clientela spinto alle sue ultime conseguenze. I singoli individui si raggruppano gradatamente intorno ad uno od alcuni più potenti, qualunque sia la cagione di questa potenza: la maggior ricchezza ed energia di carattere o l’astuzia od altro. Gl’interessi loro vanno gradatamente accomunandosi. I più potenti adoperano a vantaggio degli altri la loro forza e la loro influenza, gli altri mettono al servizio di quelli i mezzi di azione meno poderosi di cui dispongono. Ogni persona che abbia bisogno di aiuto per qualunque oggetto, per far rispettare un suo diritto come per commettere una prepotenza è un nuovo cliente. I principali di ogni clientela non potendo concepire un interesse d’indole collettiva all’infuori di quelli della clientela stessa, cercano di arruolare a vantaggio di questa tutte le forze, senza distinzione, che trovano esistenti, e fra le quali nessun concetto d’interesse sociale generale pone una distinzione nella loro mente. Cercano in conseguenza, così l’alleanza dei malfattori come quella dei rappresentanti del potere giudiziario e politico. E per acquistare ciascuna di queste alleanze impiegano i mezzi più adatti. Aiutano il malfattore a sfuggire alle ricerche della giustizia, ne procurano l’evasione se è in carcere, l’assoluzione (e ognuno immagini con quali mezzi) se è sotto processo e non può evadere.

Il malfattore per tal modo salvato diventa un cliente se già non lo era. Il suo braccio è al servizio di quel gruppo di persone, ed in compenso è assicurato della loro protezione. Per procurarsi l’alleanza delle autorità giudiziarie e politiche impiegano la corruzione, l’inganno, l’intimidazione. Se questi mezzi non riescono, trovan modo di far credere alla loro clientela e al volgo che sono riesciti, oppure che hanno trovato nelle sfere superiori del governo gl’istrumenti per punire il funzionario ricalcitrante. Preme troppo ad essi che la loro influenza sia considerata come invincibile e infallibile. Così, quando un Prefetto rifiuti a uno di loro un favore, se poco dopo vien traslocato per una cagione qualunque, affermano a tutti che essi colle loro influenze al ministero lo hanno fatto traslocare in vendetta del favore rifiutato, ed ognuno li crede. Perfino le leggi rigidamente applicate servono talvolta ad accrescere siffatte autorità private. Chi ha ottenuto all’infuori di qualunque intercessione dai tribunali o da qualche amministrazione pubblica la giustizia dovutagli, se ha invocato l’aiuto di qualche protettore, rimane convinto d’esser debitore di ciò che ha ottenuto unicamente all’intervento di quello.

Così nasce un’infinità di associazioni che non possiamo chiamare che clientele, giacchè non hanno della associazione nè la determinazione dei requisiti per farne parte, poichè ogni giorno vi sono membri che escono o entrano, nè la stabilità delle regole e statuti, poichè le relazioni fra i loro membri sono varie quanto possono esserlo quelle fra due privati qualunque. Naturalmente, queste clientele si suddividono in clientele minori. Vi sarà quella fra malfattori, e i principali di questa saranno clienti di persone influenti spesso investite di cariche pubbliche, alle quali fanno capo d’altra parte altre unioni di persone meno influenti, e così di seguito.

 

 

§ 27. — La Mafia.

Così si formano quelle vaste unioni di persone d’ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza aver nessun legame apparente, continuo e regolare, si trovano sempre unite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico: abbiamo descritto la mafia, che una persona d’ingegno, profonda conoscitrice dell’Isola ci definiva nel modo seguente: «La Mafia è un sentimento medioevale; Mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall’azione dell’autorità e delle leggi».

Come fuori di Sicilia sono più conosciute quelle manifestazioni del suo stato sociale, che hanno carattere violento, così sono pure conosciuti più generalmente quegli elementi della mafia che sono cagioni immediate di siffatte manifestazioni. Perciò è generalmente significata con questo nome quella popolazione di facinorosi la cui occupazione principale è d’essere ministri ed istrumenti delle violenze, e coloro che sono con essi in relazioni dirette e continuate. Così si dice: «la mafia del tale o tal altro paese». Siffatta incompleta cognizione del fenomeno non entra per poco nella difficoltà incontrata a spiegarlo ed a scoprirne l’indole, come avremo luogo di manifestarlo più particolarmente nel corso di questo studio.

In siffatta condizione di cose, avviene per necessità che le gare personali a poco a poco ingrossino e diventino divisioni di partiti, e che le divisioni di partiti abbiano tutto il loro fondamento in gare ed ambizioni personali. Se una quistione d’amor proprio o d’interesse divide due delle prime famiglie di un Comune, a poco a poco le altre si aggruppano intorno a quelle, il paese è diviso in due fazioni. Ognuna impiega contro l’altra tutti i mezzi. Dalla violenza al Processo penale o civile, e alla legge elettorale e comunale. Ognuno cerca di tirar dalla sua il pretore, il procuratore del Re, il sotto prefetto. Dove poi non v’ha divisione o lotta, dove la persona preponderante in un Comune è sola e senza rivale, la sua potenza diventa assoluta. Dispone a modo suo dell’amministrazione pubblica e quasi delle sostanze e della vita di tutti.

 

 

§ 28. — Amministrazioni locali.

Con questo concetto dell’interesse generale in tutte le classi della popolazione, ognuno può immaginare che cosa sieno le amministrazioni locali d’ogni genere. Spesso il patrimonio comune diventa preda del partito al potere; gl’impieghi diventano patrimonio degli aderenti di questo; le leggi la cui esecuzione è affidata alle autorità locali, diventano un’arme, un mezzo per operare esazioni a vantaggio del partito vincitore e a danno del vinto. Per citare qualche esempio: le guardie daziarie, scelte dal partito al potere, lasciano passare la roba degli aderenti di questo, e compensano il bilancio comunale gravando la mano su quella dei membri del partito vinto. Ogni anno, alla revisione delle liste elettorali queste sono riempite di nomi di aderenti del partito al potere, non elettori. Le sentenze della Corte d’appello che ne ordinano la cancellazione giungono dopo le elezioni. L’anno seguente principia lo stesso giuoco e così da un anno all’altro il partito al potere vi si mantiene coi voti di persone, cui la legge rifiuta il diritto di votare. Parimente, i pochi Monti frumentari sopravvissuti alla generale rapina, le società cooperative, quelle di mutuo soccorso hanno, salvo poche onorevoli eccezioni, per unico scopo di procurare a chi se n’è impadronito, influenza per sè, guadagni per sè e per i propri aderenti.

Chiunque abbia energia, astuzia, denari, relazioni negli uffici pubblici, insomma qualcosa da dare in cambio della protezione di un più potente di lui, è certo di trovar posto nella clientela dell’uno o dell’altro. Rimangono fuori da tutte, isolati, esposti alle prepotenze di ognuno, coloro che non possono rendersi utili in nessun modo. Tali sono i più fra i contadini, che in generale non possiedono nulla; sono ignoranti e abbrutiti, e non sanno al bisogno prendere uno schioppo e andare ad aspettare al passo una diligenza o un viandante. Tali sono tutti coloro che non hanno nè ricchezza, nè astuzia, nè energia, tutti coloro insomma la cui sola difesa in altro paese sarebbero le leggi. Questi non hanno parte alla protezione di quella specie di diritto consuetudinario in vigore in Sicilia, la cui porzione più conosciuta fuori dell’Isola è quella che obbliga ognuno a proteggere il prossimo contro la legge e la giustizia. Difatti, il facinoroso conosciuto che, per schivare l’ammonizione giudiziaria, abbia bisogno di un certificato di buona fama, trova firme quante ne vuole, dalle persone più considerate. Il miserabile vagabondo inoffensivo, se la vede malamente rifiutare. Citeremo un esempio ancora più caratteristico. Un impiegato inferiore del macinato venuto da pochi giorni dal Piemonte, girando per la campagna per il suo ufficio, vede in un campo cadere un uomo colpito da una fucilata. Spaventato, corre in paese a denunziare il fatto. S’inizia la procedura, si ricerca il colpevole. Dopo pochi giorni viene arrestato quell’impiegato stesso sotto l’imputazione di aver commesso l’omicidio. Si istruisce contro di lui, si trovano testimonianze a suo carico, si è sul punto d’inviarlo alla Corte d’Assise, e ciò mentre tutta la contrada conosceva il nome di chi aveva veramente commesso il delitto, le cagioni che lo avevano spinto a commetterlo, il vantaggio che ne aveva ritratto. Ciò in un paese, dove denunciare un assassino veramente colpevole è infamia. Fortunatamente l’Autorità superiore, avvertita a tempo, intervenne energicamente, e il processo fu rimesso sulla vera strada. Ma convenne trovar modo di traslocare l’infelice impiegato del macinato per sottrarlo al pericolo di essere assassinato.

 

 

§ 29. — Autorità pubblica. Suoi mezzi di azione.

In mezzo a questa società, che si regge tutta all’infuori delle leggi, stanno sparsi qua e là nei capoluoghi delle Provincie, dei Circondari e dei Mandamenti, i rappresentanti del Governo, prefetti, sottoprefetti, ufficiali di sicurezza pubblica, magistrati, coll’incarico di governare le popolazioni per mezzo di quelle leggi stesse, e di farle rispettare se sono offese. Potremmo ripetere qui ciò che già abbiamo detto delle autorità ragionando di Palermo. Come sono simili le relazioni sociali, così lo è pure a Palermo e in provincia, la condizione dell’autorità pubblica e la sua impotenza. E sono pure medesimi i difetti nell’indirizzo di questa, nel suo ordinamento, nella sua composizione. In provincia come a Palermo, le autorità pubbliche, per conoscere i disordini di ogni specie e per ripararvi possono adoperare la popolazione se ci riescono, altrimenti hanno la truppa, i carabinieri, le guardie di pubblica sicurezza, i militi a cavallo.

 

 

§ 30. — Carabinieri.

I carabinieri senza essere più il corpo perfetto sotto tutti gli aspetti, che erano sopratutto nell’antico Piemonte, pure sono sempre degnissimi di rispetto. Ma, forestieri all’Isola, legati da un regolamento di servizio fatto per altre circostanze ed altri paesi, ignoranti, spesso, della lingua, dei luoghi e delle persone, quasi sempre del significato di quella mimica rapida e vivace, di quel girar d’occhi, di quelle intonazioni che formano per i Siciliani un secondo linguaggio determinato, chiaro quanto quello della parola, da loro impiegato per esprimere quelle cose, che non vogliono dichiarare apertamente e che sono in generale le più importanti a conoscersi, non avendo idea dei costumi della popolazione, delle complicatissime relazioni, che legano i malfattori fra di loro e colle altre classi della società, vivono in mezzo alla popolazione isolati come in un deserto, vedono e sentono senza capire, fanno la stessa figura che farebbe una statua della giustizia in mezzo ad una banda di malfattori.

 

 

§ 31. — Militi a cavallo. Loro modo di procedere.

I militi a cavallo non hanno tutte le cagioni d’ignoranza e d’impotenza dei carabinieri. I loro regolamenti e soprattutto la loro pratica di servizio, lasciano il campo aperto all’iniziativa individuale, e d’altra parte le tradizioni del loro corpo, dal 1543 in cui furono creati([21]) in poi, non sono tali da renderli molto rigidi osservatori delle forme legali e delle garanzie che lo Statuto e i codici assicurano ai cittadini. Nessuno è con loro in mezzo ai campi e ai boschi per verificare se osservano le regole della legge, per scuoprire e arrestare i delinquenti. Se talvolta accade loro di ottenere da qualche villano una confessione o una denunzia a suon di bastonate, l’eco di queste giunge talmente indebolito alle orecchie dell’autorità, che passa inosservato da loro. In quanto al pubblico, la gran maggioranza non prova per un tal mezzo di polizia, se usato sulle spalle altrui, tanta antipatia da lamentarsene. Tratti dal seno della popolazione vivono in mezzo ad essa, continuano a farne parte. Nel girare la campagna, se giungono a una masseria, vi trovano, essi e le loro giumente, da bere, da mangiare, da dormire. I briganti non sarebbero ricevuti meglio. La sera arrivano ad un paese, scendono all’osteria, depongono le armi in un canto, si mettono a tavola a bere coi mulattieri, coi barrocciai, colla gente d’ogni specie. Parlano con tutti, salutano tutti, conoscono tutti. Giunge la notizia di una grassazione o di un ricatto. Montano a cavallo, perlustrano la campagna, ma nel più dei casi non vedono, non conoscono, non trovano più nessuno. L’intera contrada è diventata ad un tratto per loro terra incognita. Solamente quando per caso i carabinieri e la truppa siano giunti a sospettare il covo dei briganti, se avvisano i militi per ottenere la tanto desiderata unità di azione, accade talvolta che messasi la spedizione in marcia, contornato il luogo indicato, non trovi più nessuno. In altri termini, in buon numero di casi i militi a cavallo, o perchè hanno paura delle vendette, o perchè dividono il prodotto dei delitti, sono complici dei malfattori almeno col silenzio e coll’inazione. Ciò non toglie che abbiano dati parecchi esempi di bellissime operazioni e di atti di eroismo. Talune sezioni di militi a cavallo composte di elementi puri, hanno purgato per qualche tempo il loro circondario dal malandrinaggio. Ma sono eccezioni.

 

 

§ 32. — Guardie di pubblica sicurezza. Truppa.

Le guardie di pubblica sicurezza depurate negli ultimi anni, hanno reso buoni servigi, ma pochissimo numerose fuori dei grandi centri, la loro utilità è limitata([22]).

La truppa poi residente nell’Isola per un tempo ristretto, per un tempo ancora più ristretto nelle singole località([23]), ignorante delle persone e dei luoghi, comandata da ufficiali la cui specialità non ha nulla che fare col servizio di polizia, deve limitarsi per lo più a mettere il suo coraggio e le sue cognizioni di tattica al servizio delle autorità di pubblica sicurezza e a fare il servizio di scorta e di pattuglie. E nuocciono talvolta all’efficacia ed alla fermezza della sua opera il gran numero di reclute, che non hanno mai visto il fuoco, e l’essere le pattuglie comandate da sott’ufficiali, che non possono esser sempre sostenuti davanti al pericolo da quel sentimento dell’onore e del dovere che animerebbe un ufficiale.

Con siffatti istrumenti, in mezzo a siffatta popolazione, gli impiegati di pubblica sicurezza devono scuoprire ed arrestare i delinquenti, i magistrati devono convincerli e condannarli.

 

 

§ 33. — Funzionari di pubblica sicurezza. Difficoltà che incontrano per scuoprire i malfattori e per radunare elementi atti a farli condannare in giudizio.

Veramente la condizione di un delegato di pubblica sicurezza in Sicilia, soprattutto se in un capoluogo di mandamento senza la vicinanza e l’appoggio di una più alta autorità, non è delle più invidiabili. Sta nel suo ufficio o nella sua casa come in una fortezza in mezzo a paese nemico. Per quanto possano esser numerose le persone che nel segreto dell’animo loro desiderano veder distruggere i malfattori, per quanto possa ricevere talvolta denunzie segrete, pure la forza preponderante dei malfattori s’impone agli animi. Ne resulta che il meglio che egli possa aspettare dalla generalità degli abitanti è una neutralità ostile. Costretto a guardare prima di ogni altra cosa la propria vita, egli è ben fortunato se può avere intorno a sè per proteggerlo dalle sorprese due o tre guardie fidate e coraggiose. Trattandosi di compiere un arresto, non si parla di apparato solenne di forme legali, non si ferma la persona ricercata per la strada intimandole a nome della legge di costituirsi prigioniera; molto meno si va a picchiare alla sua casa: la risposta sarebbe probabilmente una fucilata. È assai rischioso il presentarsi all’uscio di un uomo che non abbia la coscienza netta. Uno di essi sentendo picchiare alla porta di casa, senza guardare chi fosse, tirò una fucilata e uccise il proprio fratello. Gli agenti incaricati di operare un arresto, devono mettersi il mandato di cattura in tasca, avvicinarsi alla persona ricercata, senza che se ne avveda, saltargli addosso come se si trattasse di fare una grassazione, e prima che abbia avuto il tempo di riconoscerli, metterla nella impossibilità di resistere. Non dappertutto la situazione personale dell’ufficiale di pubblica sicurezza è così tesa. Nei capoluoghi di circondario l’ispettore o il delegato si appoggia sull’autorità e responsabilità superiore del sottoprefetto, può disporre di un personale più numeroso. Nei Capiluoghi di provincie, il questore o l’ispettore con autorità maggiore, con personale ancora più numeroso e col prefetto sopra di sè, si trova in posizione ancora più vantaggiosa. Ma per tutti è eguale la difficoltà di scuoprire i delinquenti e di arrestarli in mezzo al silenzio e alla finzione dei più. Potrebbero cercar di sorprendere i delitti in flagrante, facendo sorvegliare strettamente gli ammoniti, se questa sorveglianza fosse possibile; ma con un personale insufficiente, come fare a tener dietro alle centinaia di persone sottoposte all’ammonizione, e che per la maggior parte devono per la loro professione uscire ogni mattina dal paese nella campagna e tornare la sera, quando pure non vi si devono trattenere l’intera settimana? La forza pubblica si perderà molte volte a seguire i passi di qualche ozioso o ladruncolo inoffensivo, mentre l’ammonito pericoloso compie con tutto suo comodo una grassazione o un ricatto. Inoltre chi sorveglierà la gente di libertà, cioè i facinorosi non conosciuti come tali dall’autorità? Il portare armi senza licenza non è un indizio migliore per scuoprire un delinquente. Bisognerebbe che le sole persone innocue ottenessero licenza, e più un facinoroso è temuto, e più si procura facilmente testimonianze favorevoli per ottenerla. Del resto, anche se non l’abbia ottenuta, il malfattore può avere e adoperare il suo schioppo senza che l’autorità ne sappia nulla. Si potrà rovistare la sua abitazione in paese senza trovar traccia d’arme: i carabinieri lo vedranno uscire la mattina dal paese, tranquillo e disarmato. Va a una pagliaia in campagna, piglia il fucile nascosto tra lo strame, va a prender parte alla grassazione o al ricatto, torna a nasconder l’arme e la sera rientra in paese come ne era uscito.

L’ufficiale di pubblica sicurezza è ridotto alle rare e timide denunzie provocate dal desiderio di guadagno o di vendetta, alle rarissime confidenze disinteressate di qualche proprietario ed alle ispirazioni di quella specie d’intuizione che acquista talvolta per la lunga pratica. Ma quando esso sia stato messo con tali mezzi sulle tracce di un colpevole, le difficoltà, gl’impedimenti che separano l’arresto del colpevole dalla sua condanna sono tali da rendere quasi certa l’impunità del delitto. Chiunque faccia una denunzia chiede per prima cosa di non esser compromesso, e che la sua denuncia rimanga un segreto. Se l’ufficiale di pubblica sicurezza che l’ha ricevuta vuol nonostante cercare di ottener la punizione del colpevole rivelato, tutta l’abilità e la solerzia ch’egli potrà esercitare non riesciranno a nulla senza l’opera dei magistrati. Quand’egli sia riescito a sorprendere qualche confessione, a scuoprire degli indizi, a preparare insomma gli elementi del processo, e a mettere insieme le prove della reità, ha fatto poco o nulla per ottenere la condanna. Perchè le deposizioni fatte davanti all’autorità di polizia non hanno valore di testimonianze in giudizio; tutt’al più l’ufficiale di pubblica sicurezza potrà testimoniare di averle udite.

Affinchè il processo possa andare avanti, è forza che il giudice istruttore citi dinanzi a sè il denunciatore, e i testimoni; che questi ripetano davanti a lui ciò che già dissero all’ufficiale di pubblica sicurezza, che le loro deposizioni vengano scritte dal cancelliere, firmate da loro, per essere poi esibite al dibattimento pubblico dove dovranno ripeterle ancora una volta. Chiamati davanti al giudice istruttore, testimoni e denunziatore negano naturalmente di aver detto mai nulla, o se confessano di aver parlato, si ritrattano; gl’indizi, le prove svaniscono per incanto, il processo va all’aria, il magistrato istruttore deve pronunciare o provocare l’ordinanza di non luogo a procedere. Il colpevole è rimesso in libertà con piena facoltà di deliberare fra sè e sè, se gli convenga o no di ammazzare coloro che sospetta di averlo denunziato.

Se l’ufficiale di pubblica sicurezza è riuscito a cogliere gli autori e i testimoni di un reato quasi sul luogo e nel momento del delitto, il successo sarà sempre lo stesso. Egli, è vero, potrà più facilmente scuoprire indizi materiali, dirigere secondo questi le sue interrogazioni, gli sarà più facile incutere timore agl’interrogati. E così, se non sia del tutto inabile, potrà facilmente sorprendere delle contraddizioni nelle risposte, forse anche trar fuori dai più turbati qualche confessione. Ma poi, in questo come in qualunque altro caso, davanti al magistrato istruttore le confessioni sono ritrattate, le contraddizioni rimediate, nasce dalle deposizioni tutto un racconto logico, filato, dal quale resulta che il colpevole è innocente, che i testimoni non hanno visto nè sentito nulla e quasi quasi, che il delitto non è stato commesso. Non v’ha prigione tanto custodita che impedisca le comunicazioni dei carcerati fra di loro e con quelli di fuori, e il romanzo da presentarsi all’istruzione si combina senza difficoltà a traverso le mura e le inferriate.

L’ufficiale di pubblica sicurezza è più fortunato se giunge a tempo per sorprendere una prova di fatto, un corpo del reato che basti a convincere il colpevole. La cosa non è facile. Colla sterminata rete delle complicità e delle connivenze, le tracce materiali di un delitto atte a comprometterne l’autore, spariscono con una rapidità incredibile; però talvolta l’ufficiale di polizia riesce a vincere di prontezza e d’acume gli stessi malfattori. Ma nella sua fretta di sorprendere indizi e prove, egli corre gran pericolo di violare le forme richieste dalla legge, ed allora va incontro ad altri rischi. S’egli, per esempio, richiede i carabinieri di prestare l’opera loro per una perquisizione in una casa di nottetempo, senza le formalità volute dalla legge, i carabinieri si rifiuteranno. S’egli l’eseguisce per mezzo dei suoi sottoposti diretti, egli corre rischio di vedere per lo meno nei considerando della sentenza relativi a quel reato una censura al suo indirizzo.

Ad ogni passo in Sicilia si presenta questa quistione fra la inefficacia della legalità e i pericoli e i danni morali dell’arbitrio. L’impiegato di pubblica sicurezza, dallo spirito del suo ufficio, dalle tradizioni della polizia siciliana, dalla straordinaria difficoltà delle circostanze in cui si trova, è portato a invocare l’arbitrio, chiede una larga applicazione di quelli ammessi dalla legge: l’ammonizione e il domicilio coatto; chiede che si chiudano gli occhi se talvolta per salvare la società da un facinoroso, gira attorno a qualche prescrizione della legge o la viola addirittura. Invece, i magistrati sono in generale animati da altro spirito, informati a tradizioni diverse. E nemmeno a loro si può dar torto. L’uso eccessivo delle ammonizioni ha fatto fino adesso pessima prova. Raramente si è giunti a colpire con queste le persone veramente pericolose. Il numero soverchio delle persone ammonite ne rende la sorveglianza impossibile, ed il provvedimento diventa illusorio. Inoltre, se l’abuso degli arbitrii legali è nocivo, l’uso degli arbitrii illegali è pieno d’infiniti pericoli. Tolto il limite sicuro e determinato della legge, con quale criterio si potran distinguere gli arbitrii leciti, diretti al bene comune, da quelli illeciti, diretti a danno della giustizia e dell’ordine pubblico? Per quanto si possa garantire l’onestà di un ufficiale di pubblica sicurezza, chi garantirà ch’egli è abbastanza furbo per schermirsi dalle infinite astuzie dei malfattori e dei prepotenti, ch’egli non diventerà un istrumento in mano di coloro ch’egli vuole ridurre all’impotenza? La triste esperienza della prefettura militare è fatta per disgustare dalle illegalità. Tutte le soluzioni che si possono dare alla quistione sembrano ugualmente pessime; le leggi sono inefficaci, l’arbitrio pericoloso.

 

 

§ 34. — Indole del personale.

Nè è tale da diminuire l’inefficacia delle une e i pericoli dell’altro, l’indole di buona parte del personale amministrativo e giudiziario mandato in Sicilia. Il personale di pubblica sicurezza per quanto sia stato molto migliorato ultimamente, non offre sempre garanzie sufficienti. D’altra parte però, la magistratura non è sempre all’altezza del proprio ufficio. I pretori soprattutto non sono in grado di sopportare la responsabilità che pesa sopra di loro. Il delicato incaricato d’infliggere le ammonizioni richiederebbe grande intelligenza, indipendenza e coraggio; dall’oculatezza e dall’attività adoperate nei primi atti dell’istruzione dopo un delitto, spesso dipende la scoperta e l’arresto del colpevole. Ma i pretori poveri, mal pagati, siciliani per la massima parte, hanno tutto ciò che occorre per sottostare a tutte le intimidazioni, a tutte le pressioni di ogni genere, e la loro condizione non è tale da ispirar loro quello zelo, quell’attività che non guarda a disagi ed a pericoli per compiere il proprio dovere e raggiungere lo scopo; e pur troppo molto spesso subiscono infatti le pressioni e le intimidazioni, e mettono per tal modo la giustizia al servizio di coloro stessi contro i quali dovrebbe esser diretta. La magistratura superiore, quantunque in posizione più decorosa e più indipendente, è pure talvolta accessibile all’influenza di quella specie d’atmosfera che forma intorno a un tribunale l’opinione della maggioranza delle persone che sono in relazioni sociali coi giudici. Ed a questo risponde una fiaccona, una mollezza eccessiva, la mancanza di quel rigido sentimento del dovere, che solo rende capace la magistratura di far la parte che le spetta in uno Stato libero, quella di fondamento primo della società, di rappresentante cieca ed incrollabile delle leggi e del diritto; una negligenza nel sorvegliare e dirigere tutti i rami e tutti i gradi dell’azienda giudiziaria, che rende sterili le qualità di quelli fra i magistrati che sono all’altezza del loro còmpito([24]).

 

 

§ 35.— Prefetti e sottoprefetti. Loro impotenza contro gli abusi.

A capo delle provincie e dei circondari muniti di siffatto personale, sopra il personale di pubblica sicurezza, accanto alla magistratura, di fronte alla popolazione, stanno i prefetti e sottoprefetti venuti a rappresentare il Governo ed il suo spirito, ad assicurare l’onestà nelle amministrazioni, a conservare l’ordine e la sicurezza pubblica. Il funzionario giunto da un’altra parte d’Italia, ignorante delle condizioni sociali dell’Isola, per farsi un’idea del nuovo ambiente in cui è entrato, si dirige naturalmente ai cittadini. S’egli ha, come è probabile, la mente piena di racconti sul disprezzo del Siciliani per l’autorità e per le leggi, sull’asprezza delle rivalità fra i partiti locali, sul disordine delle amministrazioni locali, egli si aspetta a vedersi, fin dai suoi primi contatti colle persone del paese, aprir davanti, sotto una forma od un’altra, una specie d’inferno. Ed invece, si vede nel più dei casi trattato con ogni maniera di cortesie. Se interroga sulle condizioni del paese, sente bensì lamenti sulla pubblica sicurezza, sulla gravezza delle tasse, spesso sulla ingiustizia o sul poco tatto del suo predecessore; ma per il rimanente, tutto va bene nelle amministrazioni comunali; nelle Opere pie regna l’ordine il più perfetto e l’onestà la più illibata; le varie classi sono nell’unione la più cordiale e formano una vasta famiglia. Del resto, tutti faranno a gara per consigliarlo, per avvertirlo delle difficoltà, dei rischi cui va incontro. Il suo predecessore non ha fatto ottima riuscita perchè ha creduto di doversi appoggiare sopra certe persone, sopra certi interessi, oppure perchè ha urtato certe suscettibilità rispettabili: i Siciliani sono un popolo che ha bisogno di esser preso per il suo verso, di esser ben conosciuto, ed allora il governarlo è facilissimo. Peraltro, egli può far conto sui consigli, sull’aiuto di chi gli parla. Da tutte le parti, il funzionario nuovo venuto si sente fare i medesimi discorsi e le medesime offerte, dare i medesimi avvertimenti. La sola cosa che muti a seconda degli interlocutori, è il nome delle persone di cui deve diffidare e star lontano, Però, quando egli, più o meno edificato da queste manifestazioni secondo che è meno o più furbo, principia a metter mano agli affari correnti, ed a guardare ciò che si fa nei Comuni e nelle altre amministrazioni locali, la scena muta a poco a poco. Sia pure egli tanto fortunato da non trovare una enorme quantità di affari arretrati e i bilanci comunali da parecchi anni lasciati senza revisione dal suo predecessore, troppo assorbito dalle cure della sicurezza pubblica o delle elezioni politiche, le difficoltà non saranno per questo minori. L’apparenza dell’amministrazione sarà diversa secondo i luoghi. Troverà i bilanci di alcuni Comuni sapientemente redatti colle forme e le apparenze della legge rigidamente osservate; ad un esame superficiale nulla tradirà la minima illegalità, il minimo abuso. Altri bilanci invece manifesteranno la più grossolana incapacità ed ignoranza nei loro autori, tutte le prescrizioni della legge saranno state fraintese, e occorrerà un lavoro improbo per ritrovarsi in mezzo a una confusione di cifre senza ordine nè ragione. Ma per quanto possano essere diversi nella forma, sono simili nel maggior numero di essi i disordini e gli abusi. In un grandissimo numero di Comuni è mostruosa l’ingiustizia nella distribuzione delle imposte a vantaggio di chi comanda; le rendite e gli uffici del Municipio servono ad arricchire o sostentare le persone che hanno in mano il Consiglio comunale, i loro parenti, amici, aderenti; le rendite delle Opere pie, i capitali dei Monti frumentari, servono loro ad acquistare nuovi partigiani, e ad assicurarsi gli antichi; le liste elettorali sono l’oggetto di un perenne giuoco di bussolotti. Cogli abili, il funzionario deve lottare di astuzia e di acume per rendere manifeste le irregolarità e le magagne che si nascondono sotto le forme regolari, per eludere gl’infiniti cavilli coi quali cercano di mantenersi entro i limiti della lettera della legge; cogl’ignoranti, deve esercitare facoltà di tutt’altra specie, per fare entrare in menti incolte ed ottuse concetti che queste sono incapaci di comprendere. È accaduto a un sottoprefetto di dover chiamare nel suo ufficio dei sindaci, degli assessori municipali, e far loro durante delle ore la lezione come un maestro di scuola, per far intendere ad essi alcune modificazioni portate da un regolamento alla redazione dei bilanci comunali. Ma si tratti di esperti o di ignoranti, il funzionario cui preme il suo dovere, deve ugualmente accingersi, nel maggior numero dei casi, a combattere disordini, abusi, ingiustizie.

Allora principia per lui la dura prova. Tutti coloro cui l’applicazione della legge toglie un guadagno illecito, un mezzo d’influenza, o scema per poco la reputazione d’onnipotenza e d’infallibilità, e con loro tutti i loro parenti, amici o aderenti, principiano un coro di lamenti e di recriminazioni; s’ordisce una congiura di accuse, al bisogno di calunnie, senza posa. Si cerca l’aiuto di persone influenti a Roma, si reclama l’alleanza del deputato del collegio, quando si sia contribuito alla sua elezione; s’invoca la protezione del senatore più vicino. Il funzionario vede nascere, crescere ed ingigantire intorno a sè la bufera. A meno che sia dotato di una energia sovrumana, cerca istintivamente un sostegno. Se vi ha in paese un partito opposto alle persone che hanno avuti lesi i loro interessi, l’appoggio è bell’e trovato: non occorre cercarlo, si presenta da sè. E sarebbe chieder troppo ad un impiegato il volere che, assalito con tanto accanimento, mal sicuro dell’appoggio dei suoi superiori, egli non si abbandoni nelle braccia che gli si porgono con tanta cordialità, e non accetti l’alleanza offertagli. Da quel momento in poi, per un processo naturale dell’animo umano, qualunque pensiero, per quanto fosse prima dominante nella mente di quel funzionario, ne sparisce a poco a poco per dar luogo alla cura immediata della sua difesa: ed il successo di questa dipende dall’aiuto dei nuovi alleati. Poco a poco è trascinato a fare tutte quelle concessioni, che devono assicurargli questo aiuto, e di concessione in concessione, arriva a tollerare, a favorire, a vantaggio di quelle, le stesse illegalità, per impedire le quali egli ha sollevato contro di sè la tempesta. Da allora in poi egli diventa l’istrumento del partito o della camarilla, che l’ha preso a proteggere. Questa lo porta attorno come un trofeo della sua potenza, ne fa un’arme per i suoi soprusi, e se prima aveva da combattere aspramente ogni giorno per guadagnare e conservare una preponderanza mal sicura, adesso trionfa addirittura e s’impone senza contrasto per mezzo di lui.

Se poi per caso strano il funzionario ha il coraggio piuttosto unico che raro di resistere alle lusinghe come agli assalti, e di tenere alta la bandiera della legge di fronte a tutti; oppure se le persone che ha avuta la sventura di offendere non hanno rivali nel comando, allora la sua posizione è quasi disperata. Se non è siciliano, alle accuse contro la sua persona si aggiunge il lamento che gl’impiegati continentali sono incapaci di capire gl’isolani, non sanno rispettare le loro giuste suscettibilità, sono inatti a governarli. Intanto crescono senza contrasto le pressioni e gl’intrighi presso il Ministero, si sorveglia ogni atto, ogni parola, ogni movimento del perseguitato per coglierlo in fallo. E quando egli ha commesso qualche errore, inevitabile in una situazione così difficile ed esasperante, urli, scandali, contumelie; si grida all’immoralità, alla ingiustizia, si invocano perfino le leggi. Alla fine, il Ministero o per ignoranza del vero stato delle cose o per stanchezza, o per non perdere il voto in Parlamento, o per paura di ciò che crede esser l’opinione pubblica, cede, e trasloca il funzionario. È accaduto però lo strano caso che il Governo resistesse fino all’ultimo, cioè fino alla prima crisi ministeriale. Allora è il ministro nuovo che trasloca l’impiegato. Ma sia stato il trasloco ordinato dal ministro vecchio o nuovo, l’effetto è sempre lo stesso, cresce il disprezzo per il Governo e per i suoi agenti: nel volgo, perchè si conferma sempre più in lui l’idea che il rappresentante dell’autorità non è altro che persona posta dal Governo al servizio della influenza dei potenti del luogo, i quali hanno buoni mezzi di far punire ogni suo atto di insubordinazione; nelle persone influenti e prepotenti, perchè vedono quanto sia loro facile di trionfare della legge e di chi la rappresenta. Se poi un funzionario superiore riesce a rimanere lungo tempo nel suo posto facendosi tollerare, allora il disprezzo cresce più che mai, perchè ciò nel maggior numero dei casi può accadere solamente quando esso o sia tanto privo d’intelligenza da non capir nulla di quanto accade intorno a lui, o si sia lasciato corromper fin da principio, o sia di una debolezza eccessiva.

Chi potrà rimproverare a un funzionario posto in siffatte circostanze s’egli finisce coll’abbandonarsi all’influenza dell’ambiente, e coll’andare avanti a furia d’illegalità, di compromessi? Allora i lamenti, le recriminazioni crescono più che mai: abitanti e funzionari si rimproverano a vicenda le illegalità e le prepotenze, ognuno esagera dal canto suo. Una persona capitata da poco non trova filo per condursi in questo laberinto di vero e di falso, di torti che s’intrecciano, e si sente l’animo tormentato da quell’eterna quistione che pesa continuamente come un incubo sulla mente di chiunque studi le condizioni di Sicilia. Di chi è la colpa? Se da una parte le persone del paese non si curano delle leggi che per trovare i migliori modi di eluderle e di violarne almeno lo spirito, dall’altra non sono pochi nemmeno gli arbitrii e le illegalità dei rappresentanti del Governo. E queste non hanno sempre il fine di avvantaggiare l’interesse pubblico. Sono numerosi gli esempi di funzionari che hanno approfittato della forma che traevano dal loro ufficio per soddisfare rancori personali o avvantaggiare i loro interessi privati. Se gli abitanti, nel massimo numero dei casi, usano ogni mezzo per volgere a loro vantaggio privato i patrimoni dei Comuni e delle Opere pie, lo possono fare spesso per la negligenza e la fiaccona delle autorità incaricate di sorvegliare queste amministrazioni. Nella penuria in cui sono di vie rotabili, i Siciliani vedono talvolta lo Stato spendere inutilmente denari in costruzione di strade che franano appena aperte alla circolazione, e ciò per la scandalosa negligenza del proprio dovere per parte di taluni uffici del genio civile, dove la visita di collaudo si rimette dal capo al suo sottoposto, da questo al suo inferiore, e così di seguito finchè la visita e la verificazione vien fatta da un impiegato d’ordine infimo. Se gl’impiegati in taluni luoghi si lamentano dell’antipatia e dell’astio della popolazione, che li tratta e li considera come se fossero venuti alla coda di un esercito invasore, d’altra parte gli abitanti si lamentano a ragione della mancanza di riguardi di molti funzionari ed ufficiali dell’esercito per i loro costumi, per le loro tradizioni; dell’aperto disprezzo col quale questi trattano la popolazione in mezzo alla quale sono. Gl’impiegati continentali devono fare spesso ai Siciliani quell’impressione che fanno e soprattutto facevano per l’innanzi agli Italiani delle altre provincie i Francesi, quando venivano a denigrare e disprezzare tutto ad alta voce paragonando il nostro paese al loro. E dovrebbe pure esser gran cura di non urtare inutilmente una popolazione, dalla quale pur troppe idee o costumi inveterati si devono per necessità svellere ad ogni costo, perchè incompatibili col sistema di Governo italiano.

Ad ogni modo, di chiunque sia la colpa, il risultato chiaro e certo, è che la legge non si rispetta se non da chi non è abbastanza ardito per violarla; che, per chiunque altro, la legge e l’autorità non sono se non un mezzo per prevalere più sicuramente contro ogni diritto ed ogni giustizia; che quantunque vi siano e leggi e funzionari e tribunali e forza pubblica, il patrimonio pubblico è di chi se lo sa prendere, le vite e le sostanze dei cittadini sono in balìa dei più prepotenti; che per i monti, per le selve, per i campi, per le strade, si ammazza, si ruba, si ricatta, quasi sempre impunemente.

 

 

 

III.

LE PROVINCE TRANQUILLE

 

§ 36. — La pubblica sicurezza nelle provincie orientali dell’Isola.

Tale è lo spirito di quella zona centrale di Sicilia che si estende dal mare Tirreno all’Affricano e comprende le provincie di Palermo, Girgenti e Caltanissetta, la parte occidentale di quelle di Messina e Catania, e buona parte di quella di Trapani. In mezzo a questi orrori si sente raccontare che camminando verso Oriente, si trovano paesi benedetti, dove si può girare le campagne senza timore di essere uccisi o ricattati, far valere i propri diritti, scegliere liberamente un compratore per il proprio fondo, senza essere puniti con una fucilata. Il viaggiatore stanco di ciò che ha veduto e udito, si affretta verso quella terra promessa, giunge alle provincie di Messina, Catania e Siracusa. E trova che ciò che ha udito sopra di esse è vero in gran parte. Nella prima incontra senza dubbio ancora recenti le memorie degli assassinii e delle violenze di una classe di malfattori, che signoreggiò per lungo tempo il capoluogo e i suoi dintorni, ora fortunatamente vinta e distrutta da operazioni di polizia energiche e ben dirette. Sono pure ancora vive le tradizioni del capo brigante Ignazio Cucinotta, che per alcuni anni, fino al 1875, percorse da padrone buona parte della provincia, esercitando il brigantaggio e il contrabbando su larga scala a profitto e colla connivenza di buon numero di cittadini di ogni ceto. Costui eseguiva operazioni di contrabbando all’ingrosso. Operava lo scarico di bastimenti. Si dava appuntamento per la notte e sul punto della costa preventivamente fissato, al numero d’uomini e di barrocci occorrenti per lo scarico. Eseguito questo, non mancavano i proprietarii che fornissero luoghi di ricovero per le merci. Tutto ciò si operava per così dire, pubblicamente. Tutti lo sapevano, meno gl’impiegati di dogana; o piuttosto lo sapevano anch’essi, ma chiudevano un occhio, oppure venivano a transazioni vere e proprie coi contrabbandieri per salvarsi la pelle. Questa banda di malfattori si era accollata, nel territorio dove dominava, la protezione di talune industrie. Così i fabbricanti di mattoni dovevano pagarle una tassa, ma in cambio erano assicurati contro la concorrenza di chiunque volesse imprender la medesima loro industria. Costoro avevano acquistato sulle popolazioni tale predominio, da intromettersi negli affari privati, facendola quasi da autorità pubblica, ma esercitando una tirannia in confronto della quale quella dei Borboni nei tempi peggiori era benefica e giusta([25]). La maggior parte dei componenti quella banda furono presi. Il processo, iniziato in circostanze eccezionalmente favorevoli per essere arrestata la maggior parte della banda, e preventivamente sgominata la mafia messinese, ebbe esito felice, malgrado le intimidazioni subìte dai molti testimoni. La maggior parte degli imputati vennero condannati. Però, il capo, colla connivenza di persone di ogni classe, ha sfuggito e sfugge tuttora alle ricerche dell’autorità. Ridotto alla impotenza, egli continua nonostante a soggiornare nella provincia senza dar molestia ad alcuno. Molti sanno dov’è, e sono in relazione con lui.

Però, dopo la distruzione della mafia di Messina, e il processo della banda Cucinotta, la sicurezza pubblica è tornata in istato normale nella massima parte della provincia. Lo è pure nella maggior parte di quella di Catania, ed in quella di Siracusa; soprattutto in quest’ultima. Sotto questo aspetto, pare impossibile che nello spazio ristretto di un’isola come la Sicilia, possano trovarsi condizioni così diverse come quelle delle provincie occidentali e delle orientali. Parrebbe che le une dovessero esser divise dalle altre da parecchie centinaia di miglia di terra e di mare.

 

 

§ 37. — Condizioni sociali delle provincie orientali uguali a quelle del rimanente dell’Isola.

Ma se, lasciando da parte queste manifestazioni esteriori e derivate, per quanto importanti, ci volgiamo ad esaminare le condizioni sociali in loro stesse, ci ritroviamo pur troppo in paese di conoscenza. Certamente, manca nelle provincie orientali quella classe di malfattori che desola le altre; sono rare le violenze sanguinarie; ma ciò è in gran parte perchè i prepotenti sanno con altri mezzi prevalere a dispetto delle leggi e della giustizia. Da un lato, la classe abbiente ha saputo conservare preziosamente il monopolio della forza ed impedire fino adesso che lo dividessero con lei, servendola, dei facinorosi venuti su dalle classi infime della società; dall’altra parte, la popolazione di ogni classe, o per indole o per tradizione o per qualsiasi ragione è piuttosto portata ad usare l’astuzia che la violenza. Ma gli effetti finali vengono ad esser sempre i medesimi. In questa parte, come in tutte le altre dell’Isola, si adopera la legge soltanto per eluderla: v’è una cospirazione generale e permanente per far sfuggire alla legge coloro che l’hanno offesa se, offendendola, non hanno leso gli interessi di qualcuno fra coloro che prevalgono. Un piccolo numero di persone s’impone all’intera società e ne volge a proprio profitto le ricchezze e la forza. Nel campo delle relazioni private, le prepotenze, usandosi più generalmente da ricco a povero, fanno meno rumore e sono meno conosciute, le frodi di una infinita popolazione di faccendieri, non assumendo la forma di offese aperte e violenti alle leggi, non sollevano scandali e non sono conosciute fuori del luogo dove si commettono. Ma il disordine in tutte le relazioni sociali private e pubbliche qui come nel rimanente dell’Isola è profondo, e si estende a tutto. Ben più, quegli elementi di violenza che nelle provincie orientali dell’Isola sono in piena attività, qui esistono in germe e sono pronti a fiorire alla prima circostanza favorevole. Già in Messina mostrarono i loro frutti, e sono ovunque abbastanza sviluppati perchè, se qualcuno abbia un valido movente a far commettere un omicidio, non peni a trovare il braccio che lo eseguisca. Si sono presentati parecchi casi di uomini della classe abbiente che, volendo dar moglie ai loro figli si sbarazzavano delle drude di questi facendole uccidere. In un Comune della provincia di Siracusa che prima era fra i più tranquilli, da alcuni anni, gli odii si sono inaspriti fra le due famiglie che tengono diviso il paese, ed è già stato commesso un omicidio in circostanze tali, che nel centro della provincia di Palermo non si potrebbe far di meglio. Un sicario, per mandato di una di queste famiglie, uccise un membro dell’altra, mentre era la sera nella casina di società piena di gente, tirandogli dalla strada una fucilata per la finestra. I facinorosi non essendo in questa parte dell’Isola potentemente organizzati come in altre, l’autore e i mandanti del delitto sono stati arrestati. Però, a quanto pare, fu trovato modo di fare assalire per la strada la corriera il giorno che portava il loro processo a Palermo presso la sezione d’accusa della Corte d’appello. Questa fu svaligiata, e le carte del processo portate via.

La vista delle condizioni dell’Isola intera senza distinzione di provincie, ispira un profondo sconforto. L’animo prova una continua vicenda di sdegno e di pietà verso i vari elementi che vanno cozzandosi ciecamente in quella disperata confusione, prova uno smarrirsi e un confondersi di tutti quei criterii e concetti di buon governo che nelle università e nei libri si è imparato a ritenere per sicuri, e un dubbio doloroso che tutti quei principii di giustizia e di libertà, nei quali si era abituati a credere quasi come in una religione, non siano altro che discorsi bene architettati per coprir magagne che l’Italia è incapace di curare, una vernice per lustrare i cadaveri.


 

 

Capitolo II.

CENNI STORICI

 

 

 

§ 38. — Il feudalismo e i Parlamenti Siciliani.

Tale è la prima impressione di chi è venuto dal Continente a visitare la Sicilia. Però, se dopo calmata la prima sorpresa, egli torna colla mente sulle cose vedute e sentite, a cercare il filo che lo conduca attraverso quell’infinita confusione di fatti; se egli ricerca la loro origine nel passato, e, nel presente, le cagioni che li fanno perdurare, li vede gradatamente ordinarsi: ognuno prende il suo posto, e finalmente si spiega dinanzi a lui un quadro che, se non è bello, almeno è chiaro, distinto ed ordinato, e gli dà speranza che si possano forse trovare rimedi a mali, le cui cagioni appariscono tanto evidenti. Noi cercheremo adesso di esporre le ragioni dello stato attuale della Sicilia quali ci sono apparse, e se abbiamo errato nel vedere o nell’apprezzare i fatti, ci consoleremo pensando che non sia stata opera del tutto inutile quella che avrà dato a persone meglio informate e più perspicaci di noi, l’occasione di manifestare innanzi all’Italia quella verità, nella ricerca della quale avremo fallito.

L’anno 1812 trovò la Sicilia in piena feudalità e di diritto e di fatto. La massima parte delle terre erano di Signori feudali laici ed ecclesiastici, la maggior parte dei suoi abitanti anche quando possessori di beni liberi e allodiali,([26]) erano vassalli, cioè sottoposti nelle sostanze, nella libertà e, nel più dei casi anche nella vita, all’arbitrio del Signore. Difatti, la facoltà di tassare i propri vassalli in ogni maniera era, nel fatto, illimitata e duramente abusata dai baroni([27]). Il diritto d’appello ai tribunali regi era nel fatto illusorio([28]). La massima parte dei baroni possedeva sui propri vassalli la giurisdizione civile e criminale alta e bassa o per concessione graziosa, o per usurpazione, o per le vendite fatte di tali diritti specialmente sotto Filippo III e IV di Spagna([29]). Il Parlamento per quanto potesse essere un mezzo di difesa e di resistenza alla nobiltà e al clero di fronte a regnanti stranieri, non era di nessuna garanzia per la gran massa del popolo. Per l’antica costituzione di Sicilia, dice il Palmieri: «l’autorità del Principe era limitata senza che il popolo fosse libero.([30])» Il Parlamento era composto di tre bracci: l’ecclesiastico, il baronale, il demaniale. Nel primo sedevano in virtù del loro ufficio gli arcivescovi, vescovi, abati e priori di jus patronato regio([31]). Nel braccio militare o baronale sedevano in virtù del loro feudo i titolati, baroni, i Signori di vassalli e i feudatari obbligati al servizio militare([32]). Nel braccio demaniale sedevano i procuratori eletti dalle università, città, terre o luoghi, che erano immediatamente sotto il Regio dominio([33]). Ogni università non mandava più di un Procuratore([34]), il quale veniva eletto dal Consiglio del Municipio([35]). Il braccio demaniale era dunque la sola parte del Parlamento che provenisse da elezione e ne formava l’infima minoranza. I membri del braccio ecclesiastico erano 63([36]). Quelli del braccio militare erano 228([37]). Le università componenti il braccio demaniale erano 43 alla metà del secolo XVIII([38]).

Per approvare i sussidi (i quali avevano nome di Donativi), era necessaria la maggioranza dei voti. Però, il braccio ecclesiastico aveva diritto di veto([39]), e doveva concorrere il voto di due bracci([40]). Ma in ogni maniera, il braccio demaniale era in minoranza di fronte ai due altri che avevano interessi analoghi fra loro e che, pure possedendo la quasi totalità delle ricchezze dell’Isola, pagavano la minima parte di quei sussidi che votavano.([41]) Il braccio ecclesiastico discuteva e votava i sussidi e non vi contribuiva, in regola generale, che per un sesto del loro valore([42]). Il braccio baronale, in regola generale, non contribuiva ai sussidi([43]); e pagava solamente le imposte dovute in virtù del diritto feudale al sovrano quale concessore del feudo.

Il Parlamento dunque non era altro che un mezzo che avevano i baroni di farsi valere rimpetto al monarca coi denari del terzo stato, e difatti, la nobiltà era il solo elemento tenuto in conto in Sicilia dal Governo spagnuolo. Fino sotto il Regno del primo Ferdinando Borbone, i vicerè di Sicilia si regolavano colle istruzioni del conte di Olivarès, nelle quali era detto loro: «Coi baroni, siete tutto, senza di essi, non siete nulla([44])».

 

 

§ 39. — La Deputazione del Regno.

Stando le cose in tal modo, il Parlamento stesso e tutti quegli istituti che erano di salvaguardia e di garanzia alla sua autorità, non servivano che ad assicurare la potenza e prepotenza dei baroni([45]). Tale era la tanto vantata Deputazione del Regno: comitato permanente tratto dal seno del Parlamento, composto di dodici membri, quattro per ogni braccio, e che aveva ufficio di sorvegliare l’osservanza dei privilegi dell’Isola, l’applicazione delle Leggi, ossia Capitoli votati dal Parlamento, e di provvedere fra un Parlamento e l’altro, secondo le norme stabilite dal Parlamento stesso, alla riscossione dei donativi votati, e all’impiego di quelli che erano da spendersi nell’Isola([46]).

Del resto non deve neppure esagerarsi la potenza e l’efficacia del Parlamento e della sua Deputazione di fronte al Governo. Il La Lumia nell’opera citata([47]) descrive le arti tradizionali colle quali i vicerè spagnuoli cercavano d’influire sulle deliberazioni del Parlamento. I membri della Deputazione che prima erano eletti dal Parlamento, vennero poi nominati dai Vicerè con questo solo che ne dovessero far parte i capi dei tre bracci.([48]) Ciò nonostante non si può negare che il Parlamento. e sopratutto la Deputazione del Regno non sia stata in alcuni casi efficace salvaguardia dei diritti e privilegi della Sicilia in quanto erano rappresentati da quelli della nobiltà. In più casi, essa si oppose con energia e successo all’imposizione di tasse non votate o votate irregolarmente dal Parlamento([49]). E per l’ultima volta nel 1788, quasi alla vigilia della rivoluzione napoletana del 1799 che cacciò Ferdinando di Borbone da Napoli in Sicilia, questi, avendo voluto applicare una tassa approvata dal solo braccio demaniale, non trovò che tre fra i deputati del Regno i quali accettassero l’incarico di applicarla. Alla opposizione della maggioranza del Parlamento e della Deputazione, corrisposero atti di resistenza nella popolazione, nè si sa come la cosa sarebbe andata a finire, se il re, profugo da Napoli, ridotto al solo appoggio dei Siciliani, non avesse rinunziato alle sue pretese([50]). Però, questa vigilanza ed energia del Parlamento e della sua deputazione, si manifestavano solamente in via eccezionale.

 

 

§ 40. — La rappresentanza del Terzo Stato negli antichi Parlamenti Siciliani era illusoria.

Comunque siasi, questo spirito di resistenza, quando pure si manifestava, era proprio dei soli baroni([51]) e aveva per fine esclusivo il loro vantaggio. Il braccio demaniale era talmente impotente a rappresentare gl’interessi del Terzo Stato, che non ebbe mai nemmanco il pensiero di cercar di difenderli. Nel secolo XVI, il braccio demaniale eleggeva a suoi rappresentanti nobili o dipendenti da nobili;([52]) nel secolo XVIII «le città più distinte si credeano onorate dando la loro procura ai segretari del Vicerè, e le altre solean destinare per loro procuratori i loro avvocati, gente venale per mestiere, vile per abitudine, ambiziosa per necessità([53])». «In Parlamento la passiva docilità del braccio demaniale era assicurata a qualunque volere del Governo([54])».

 

 

§ 41. — Tentativo di riforme del vicerè Caracciolo (1785).

Tali erano le condizioni sociali e politiche della Sicilia in sulla fine del secolo passato. E malgrado il movimento intellettuale che stava manifestandosi a Palermo nella seconda metà del secolo XVIII([55]), nulla accennava che il Terzo Stato, considerato in generale, provasse il bisogno di sollevarsi ad una condizione giuridica migliore. Difatti le riforme iniziate dal Vicerè marchese Caracciolo colle sue circolari del 1785 e le istruzioni del 1787([56]), le quali sancivano la soppressione degli abusi feudali e di parte delle servitù che vincolavano le terre, non trovarono preparate ad approfittarne quelle classi della società, al cui vantaggio eran dirette. La condizione materiale e morale della generalità dei vassalli non era mutata dal tempo in cui erano invalsi gli abusi che ora si cercava di togliere; non erano mutate le condizioni dell’agricoltura e del commercio, e quelle medesime circostanze per le quali tali abusi avevano potuto nascere, furono cagione che non fosse usato da chi avrebbe avuto interesse a liberarsene, l’appoggio offerto dal Governo. Il concetto di siffatte riforme, era stato dai bisogni e dai desiderii di altri popoli in condizioni economiche molto più progredite,([57]) ispirato alla parte intelligente di quei popoli stessi. Costituito da questa in corpo di dottrina, era stato sotto tale forma comunicato alle classi colte degli altri paesi, ma non era in questi ultimi che un bisogno intellettuale di queste classi. Ed infatti il solo a promuovere energicamente l’applicazione delle riforme contenute nelle circolari del Caracciolo, fu colui stesso che le aveva ideate e pochi altri([58]). Dopo un’attuazione vigorosa a tempo della sua amministrazione, esse caddero per la massima parte nell’oblio in mezzo al silenzio e alla indifferenza generale.([59])

 

 

§ 42. — Costituzione politica del 1812. Sua mala riuscita.

Sopravvenne la rivoluzione di Francia, le due occupazioni francesi del Regno di Napoli, il ritiro di Ferdinando Borbone nella Sicilia presidiata da truppe inglesi. Nel Parlamento del 1810 apparvero le prime proposte di riforme. In quello del 1812 fu votata la nuova costituzione politica imitata dall’inglese con due Camere, l’una ereditaria, l’altra elettiva, e l’abolizione della feudalità. Non è qui luogo di esporre tutti i particolari relativi a codesti avvenimenti, nè le violenze e le astuzie della Corte, e sopratutto della Regina.([60]) Le riforme furono ideate, promosse, difese dall’ambasciatore inglese lord Bentinck e da tre o quattro siciliani di mente o di carattere superiori([61]); nè furono capite in mezzo all’ignoranza generale([62]). Il braccio militare le votò moncandole([63]) per subito dopo pentirsene aspramente e querelarsi «della nuova costituzione, perchè aveva tolto ai suoi membri tutte le preminenze e tutti i diritti feudali([64]),» e per cercare con ogni mezzo di conservare nel fatto almeno una parte dell’antica immunità dalle tasse([65]). Il braccio demaniale vedendosi regalare una potenza che non aveva fatto nulla per ottenere, passò dall’ubbidienza la più servile al volere sovrano([66]), all’estremo opposto, non occupandosi neppure di concedere al Ministero i denari per il servizio della Rendita pubblica, votando nuove spese, senza voler accordare nuove entrate.([67]) E parimente, i tre Parlamenti nel 1813 o 1814, eletti in forza della nuova costituzione, presentarono il doloroso spettacolo di una Camera dei Comuni inetta e faziosa, mossa da quella cieca antipatia delle tasse e degli aggravi di ogni genere che è propria delle plebi([68]); ignorante delle necessità della vita di uno Stato al punto di rifiutarsi ostinatamente ad occuparsi dei bilanci per accettarli o rifiutarli([69]); di una Camera dei Pari i quali si mantenevano consentanei allo spirito già dimostrato circa trenta anni prima dalla nobiltà siciliana di fronte alla proposta di riforma tributaria del vicerè Caracciolo([70]), e che erano intenti solamente a vendicarsi dei ministri che avevan loro fatto votare la costituzione e le riforme, e a riprendere il più che fosse possibile di quei privilegi e di quei guadagni ai quali l’anno prima avevano rinunziato([71]). Di modo che se il Governo, la costituzione e tutta l’Isola non andò in sfacelo, fu per l’opera del rappresentante britannico([72]), il quale, coll’esercito inglese di occupazione ai suoi comandi, era in Sicilia re di fatto([73]). Ed in mezzo a tutto questo violento agitarsi a Corte ed in Parlamento d’interessi, d’ambizioni e di rancori di persone e di caste, e prima e dopo lo stabilimento della costituzione, la nazione non diede segno di vita all’infuori dell’elezione delle Camere dei Comuni delle quali abbiamo descritto lo spirito,([74]) di due sedizioni della plebe di Palermo con saccheggio delle botteghe di commestibili([75]), e delle memorie stampate e indirizzi mandati al Governo in favore dell’abolizione dei fedecommessi([76]). Del resto, questo provvedimento, per quanto fosse per recare, coll’andar del tempo, infiniti benefizi all’intera popolazione, nonostante recava vantaggio immediato a un numero ristretto di persone, le quali sole perciò erano capaci di provarne il desiderio e di esprimerlo.

Finalmente il disordine crebbe a tal punto che lo stesso principe di Castelnuovo acconsentì, sulla richiesta di Ferdinando, tornato ormai all’esercizio del potere regio, a por mano ad un progetto di riforma della costituzione([77]).

Ma intanto le sorti di Murat precipitavano in Italia. Il dì 31 maggio 1815, Ferdinando tornava re nei suoi Stati di terraferma, lasciando in Sicilia una Commissione per la rettificazione della costituzione([78]). Poi sopravvennero gli atti sovrani degli 8 e 11 dicembre 1816, che mantenendo la costituzione in parole, la distruggevano nel fatto([79]), e la costituzione politica siciliana del 1812 morì coll’insperata gloria di una morte violenta e lasciò dietro di sè, nelle leggi, l’abolizione della feudalità e altre riforme giuridiche ed economiche d’ogni specie, nel fatto, condizioni economiche e morali circa uguali a quelle che aveva trovate.

 

 

§ 43. — Condizioni economiche e sociali della Sicilia dopo la Costituzione del 1812.

Imperocchè alla riforma economica erano quasi del tutto mancati gli effetti. Ed invero, la libera commerciabilità resa ai beni feudali, e lo scioglimento di diritti promiscui fra Comuni e proprietari erano poco atti a produrre la divisione della proprietà in un paese dove la ricchezza di ogni specie era concentrata nelle mani di coloro che già possedevano la terra e di pochissimi altri, e dove l’assoluta mancanza di commercio non dava luogo a nuove ricchezze di venire in mano ad uomini nuovi. Di modo che, se alcuna parte delle terre liberate dagli antichi vincoli venne venduta da qualche barone dissestato di fortuna, la comprarono o altri baroni o quei pochissimi già locupletati coll’industria dei grandi affitti, e così la ricchezza cambiava mani, senza dividersi gran fatto.

Perlochè, dopo il 1815 come prima del 1812, la popolazione siciliana quasi tutta si divideva in due classi. L’una, poco numerosa, di proprietarii straricchi, almeno riguardo alle condizioni del paese, l’altra, che comprendeva quasi tutta la popolazione, di contadini che non possedevano niente, ed erano miseri al punto di dover giorno per giorno dipendere dai proprietari per il loro pane. All’infuori di queste, erano solamente i pochissimi commercianti delle città, e i pochi proprietari medi e piccoli. Di questi, parte erano già proprietari di beni allodiali, parte possessori di terre date a censo da quei baroni che avevano con tal mezzo cercato di far nascere dei paesi nelle loro signorìe, o di farne coltivar meglio alcune parti. I componenti questa ristrettissima classe media erano i soli cui fosse permesso sperare di giovarsi coll’andar del tempo della libertà di vendere e comprare le terre, perchè a loro soli era possibile di metter da parte tanto capitale da potere imprendere una industria ed arricchirsi.

Per le medesime ragioni durava quasi ovunque la scarsa e pessima coltura del suolo. E valse poco a migliorarla l’abolizione degli usi civici assolutamente angarici, e la redimibilità di quelli provenienti da condominio od altro titolo, abolizione sancita dalla costituzione([80]). Quando pure questo provvedimento avesse potuto essere eseguito, non v’era ragione di coltivare i fondi nuovamente liberati dalla servitù, piuttostochè tanti altri già liberi e pure incolti.

E se furono più efficaci le riforme giuridiche, pure non lo furono molto. Difatti, il potere illimitato dei baroni d’imporre a discrezione a’ loro vassalli tasse, servigi, diritti di monopolio non era sancito solamente dalla pratica feudale, e da quella forza materiale organizzata, di cui disponevano i baroni e lo Stato per farla rispettare, ma era ancora sancito almeno nella massima parte dei casi in quanto, cioè, riguardava i proletari, dalla necessità delle circostanze e dall’indole delle relazioni economiche. Difatti tale potere non riconosciuto dal diritto feudale teorico, era nonostante prevalso come diritto consuetudinario, e come tale si mantenne anche dopo che fu per legge abolito.

Questa era conseguenza necessaria della persistenza delle condizioni economiche dell’epoca feudale. Invero, mancavano nella nazione gli elementi atti a costituire uno stato di diritto diverso e rispondente al concetto che aveva ispirato la nuova legislazione; perchè i contadini continuarono a formare coi baroni la quasi totalità della nazione, ed erano dopo, come prima della abolizione dei diritti feudali, assolutamente, proletari di fronte a una classe di proprietari che, tenendo impiegato nell’agricoltura un capitale minimo o nullo, avevano piena balìa d’imporre al contadino quelle condizioni che a loro piacessero in cambio della terra che gli davano da coltivare.([81]) Di modo che, per ciò che riguardava le prestazioni e servigi, dopo come prima dell’abolizione della feudalità il potere nel padrone d’imporli ai contadini non trovava limite che nella bontà del suo cuore, oppure in quel punto nel quale riducessero il contadino a preferire di morire di fame senza far nulla, piuttosto che lavorando. La sola differenza portata dall’abolizione della feudalità fu che il padrone, in luogo di esigere come prima le prestazioni in forza del suo diritto di dominio eminente e per mezzo del suo tribunale, ora esigeva in forza di contratto, e che il contadino poteva mutar padrone.

Nè maggiormente fu mutata la condizione riguardo alle prelazioni e monopolii. I contadini non trovavano più davanti a sè il diritto del barone di comprare i loro prodotti al prezzo che voleva, nè di proibir loro di venderli finchè non avesse venduti i propri. Ma essendo rimasti i capitali concentrati in pochissime mani, nè essendo cresciuto il commercio per mezzo di persone venute di fuori via, i contadini, costretti subito dopo il raccolto a vendere il grano per far fronte ai loro impegni, non avevano la scelta dei compratori; e il prezzo che veniva stabilito prima dal barone in virtù del suo diritto feudale, era adesso imposto dalla camorra dei pochissimi sensali e commercianti di grano possessori esclusivi del mercato([82]). Anche in questo mutavano o potevano mutare le persone, che approfittavano dei frutti del lavoro del contadino, ma la sua condizione giuridica rimaneva la medesima: per esso il diritto era sempre costituito dalla volontà di quel possessore di capitali che acconsentiva a trattare con lui.

La sola classe di persone che prima dell’abolizione della feudalità fossero in condizioni di fatto tali da poter fondatamente richiedere che queste venissero dal diritto positivo sancite con un miglioramento della loro condizione giuridica, era la scarsissima classe composta dai possessori di beni allodiali e di terreni censiti non troppo angusti, e dai pochissimi altri che col commercio o altrimenti, si erano formati un peculio. Difatti questi furono i soli a profittare delle riforme. Sicuri ormai di non poter essere spogliati del loro guadagno da qualche tassa arbitraria, liberi di far quell’uso che ad essi piacesse delle loro terre, dei loro prodotti e dei loro capitali, trovarono aperto dinanzi a sè il campo dei commerci e delle industrie dell’Isola il quale, quantunque ristretto, era pure più che bastante per il loro piccolo numero. E specialmente l’industria dei grandi affitti (gabelle) diede modo di arricchirsi a parecchi fra loro. Se le condizioni economiche dell’Isola fossero state tali da permettere a molti delle classi miserabili di potere gradatamente migliorare il loro stato, acquistare qualche capitale, e venire ad ingrossare il numero dei possessori di fortune medie e piccole, questi ultimi sarebbero stati il nucleo di quella classe media che avrebbe potuto sollevare la Sicilia a condizioni migliori. Ma rimasti costoro pochi come prima, padroni esclusivi insieme coi baroni delle terre, dei capitali, dei commerci e delle industrie dell’Isola, il tornaconto li portò, piuttostochè a farsi concorrenza fra di loro, a coalizzarsi di fronte alle classi inferiori. Laonde i privilegi e i monopoli tolti dalla legge ai baroni furono dalle condizioni economiche mantenuti, con questa sola differenza, che venne ammessa a parteciparvi la classe media. L’effetto dell’abolizione della feudalità nel campo economico fu dunque questo: che la classe dei possessori esclusivi della terra e dei capitali crebbe un pochino di numero, e che diventò possibile che i fondi dei nobili andati in rovina, venissero in mano di non nobili: divenne più facile alla ricchezza di mutar mani, ma non di dividersi, almeno in modo sensibile; e dopo come prima l’abolizione della feudalità, la popolazione dell’Isola rimase divisa in due parti, disugualissime per numero: restò industria quasi esclusiva dell’Isola l’agricoltura, continuò a mancare quasi assolutamente il commercio. Rimase insomma una condizione economica simile a quella della massima parte dei paesi di Europa tre o quattro secoli or sono.

E naturalmente, alle condizioni economiche rispondevano le morali ed intellettuali. Non essendo venuta di fuori influenza alcuna a combattere negli animi gli effetti dell’antico ed immutato stato materiale dell’Isola, sussistevano le tradizioni dei secoli passati nelle idee, nei sentimenti, nei costumi, nel senso giuridico di tutte le classi della popolazione.

 

 

§ 44. — Effetti delle sopraddette condizioni. Prevalenza dell’autorità privata.

Mancando la preponderanza di numero e d’influenza della classe media, mancò in Sicilia la cagione che aveva provocato quella trasformazione dei costumi e del diritto, della quale la rivoluzione francese è generalmente considerata come tipo. Ed invero, nello stato sociale di cui il diritto feudale è una manifestazione, sono per consenso universale considerate come diritti le volontà e gli interessi sostenuti da una forza materiale sufficente a farli rispettare. Per contro, è carattere proprio della classe media, che ognuno degli individui i quali la compongono non è in grado di far rispettare colla forza i propri interessi. Per modo che, quando per l’accrescersi delle industrie e dei commerci, la varietà degli interessi diventi tale che, per i componenti questa classe, sia più di danno che di vantaggio l’acquistare forze per difendersi coll’associarsi sotto forma di corporazioni di arti e mestieri; quando d’altra parte la classe media sia diventata tanto numerosa, e, per una cagione o per un’altra, tanto influente da poter determinare l’indirizzo del governo del paese, essa è portata dalla forza delle cose a chiedere che siano dall’autorità sociale riconosciuti e sanciti come diritti gli interessi di ciascuno dei suoi membri, in quanto non ledano quelli degli altri che siano appoggiati a titoli simili. Laonde i moderni codici civili, penali e di procedura. I quali, una volta stabiliti in cosiffatte circostanze, non hanno bisogno che vi si uniformi il senso giuridico della nazione, giacchè essi stessi piuttosto si sono uniformati a quello. Quella medesima influenza della classe media, che ha provocato la creazione del codice è cagione che esso non rimanga lettera morta e venga dalla magistratura applicato. Per quanto da cotale applicazione venga talvolta personalmente a soffrire taluno dei membri di quella classe stessa, pure il senso giuridico della maggioranza sancisce la sentenza, e lo obbliga ad accettarla e ad ubbidire.

Ma in Sicilia, nulla di simile. Di più, se da una parte mancava l’elemento sociale che impedisse l’abuso della forza in chi la possedeva, dall’altra tutto, nelle condizioni dell’Isola, portava all’uso della prepotenza nelle relazioni sociali. La mancanza di commercio e d’industria, le scarsissime relazioni col rimanente di Europa,([83]) chiudevano infinite vie allo sfogo dell’attività dei privati. Nè era loro maggiormente aperta la strada all’ambizione nella vita pubblica, giacchè questa non esisteva. In quello stato di cose, l’unico fine che ciascuno potesse proporre alla sua attività od ambizione, era di prevalere sopra i propri pari nell’angusto cerchio di un distretto dell’interno dell’Isola e tutt’al più di Palermo. Laonde le rivalità e gli odii ereditari fra le famiglie, inaspriti di generazione in generazione da nuove offese; e l’amore della vendetta spinto all’estremo.

In quanto ai modi per ottenere questa prevalenza, si riducevano quasi tutti alle prepotenze. Era certamente mezzo efficacissimo per acquistarla l’avanzare gli altri di ricchezze; ma nelle condizioni economiche dell’Isola, non si poteva gran fatto aumentare le proprie rendite col migliorare le colture del proprio feudo e impiantar nuove industrie. Rimaneva solamente il prendersi la ricchezza altrui o almeno scemarla. Per chi volesse prevalere coll’influenza, in un paese dove l’opinione pubblica non poteva esistere, e dove, essendo quasi nulla l’azione del Governo, si poteva dire che non esistesse autorità sociale, giacchè la sola giustizia efficace era quella dei baroni,([84]) il solo modo era la potenza personale. Per ottenerla, i soli mezzi erano la violenza e l’astuzia. In quanta proporzione concorressero l’una e l’altra a costituire la potenza, dipendeva da circostanze accessorie di persone, di luoghi, di costumi, di tradizioni. Ma rimaneva il fatto costante che la preponderanza non risiedeva nell’autorità sociale, bensì in quella persona o in quella unione di persone che sapessero essere più forti. Per modo che, nel massimo numero dei casi, il successo definitivo rimaneva alla forza, qualunque fossero gli elementi che la costituivano. La forza era per tal modo una istituzione di diritto, e l’uso ne diventava legittimo, se non altro, a titolo di difesa. E quantunque dopo il famoso caso di Sciacca nel 1529 le storie non rammentino più guerre private regolari, si può dire che riguardo alle relazioni fra feudatari, il senso giuridico della nazione fosse ancora al principio del secolo, nel punto stesso in cui era stato quello del rimanente d’Europa, quando le guerre private erano una istituzione regolare, e i loro risultati una sorgente di diritti.

Il fatto della soppressione della feudalità poteva mutar poco a questo stato di cose. Fu levata, è vero, ai baroni l’organizzazione legale ed ufficiale dei tribunali e degli armigeri baronali; ma se fu tolto un mezzo, non fu tolta nessuna delle cagioni che rendevano ai potenti utile, possibile e necessario il procurarsi non solo la prevalenza, ma anche la sicurezza per mezzo della loro potenza personale. E certamente la forza e l’energia del Governo che resse la Sicilia durante la breve vita della costituzione del 1812 non fu tale da potere imporre e sostituire la sua volontà e la sua legge all’autorità e alla forza personale. La differenza portata dalla abolizione della feudalità nelle relazioni sociali si ridusse dunque a questo: che come la ricchezza, così la prepotenza diventò accessibile ad un maggior numero, e che quella popolazione di facinorosi, che prima era al servizio dei baroni diventò indipendente; sicchè, per ottenere i suoi servizi bisognò trattare con essa da pari a pari. L’astuzia entrò in maggior proporzione a costituire la forza privata. Ma la forza rimase sempre il mezzo di ottenere in ogni disputa o gara, la vittoria definitiva.

E siccome, qualunque sia il concetto astratto che uno si faccia del diritto, è un fatto costante che la generalità degli uomini in un dato paese ed in una data epoca, considerano come istituzioni di diritto quelle forze d’indole qualsiasi, che non possono essere combattute e vinte, così si può dire che, nel senso giuridico dei Siciliani, immediatamente dopo l’abolizione della feudalità, la forza materiale privata, in quanto prevaleva, costituiva il diritto.

Ne veniva naturalmente che l’istinto della conservazione portasse ognuno ad assicurarsi l’aiuto di uno dei forti, giacchè la forza sociale nel fatto non esisteva, laonde la forza che assumeva la società era quella della clientela. Per modo che la società siciliana, immediatamente dopo l’abolizione della feudalità, aveva tutti i caratteri di quelle dei rimanenti paesi d’Europa nel Medio Evo. Distribuzione disugualissima della ricchezza; mancanza assoluta del concetto di un diritto eguale per tutti; predominio della potenza individuale; carattere esclusivamente personale di tutte le relazioni sociali; il tutto accompagnato, com’era inevitabile, da una grande asprezza negli odii; dalla passione della vendetta; dal concetto che chi non si fa giustizia e non si vendica da sè non ha onore. In un tale stato di cose nulla impediva la massima violenza dei costumi e un sommo disprezzo della vita umana, dove le circostanze locali, le abitudini, le tradizioni vi si prestassero. E difatti sotto questa forma della violenza si manifestò, in una gran parte dell’Isola, la sopra descritta condizione sociale. Nel rimanente, e specialmente nella parte orientale, le medesime cagioni produssero i loro effetti sotto forma differente. Alla violenza brutale, prevalse l’astuzia. Cercheremo più oltre di esporre in quella parte che ci sarà possibile le ragioni di questa differenza nei fenomeni. Ma ad ogni modo la condizione sociale comune a tutta l’Isola era tale che, se nel 1815 la Sicilia invece di tornare sotto il regime di una monarchia assoluta, fosse stata lasciata a sè stessa, e se avesse potuto essere assolutamente isolata dalle influenze di qualunque genere del rimanente dell’universo, non essendovi nella nazione siciliana elemento alcuno in grado di approfittare delle riforme del 1812-15, e in conseguenza di difenderle, queste sarebbero tosto cadute in disuso, e sarebbe invalso nell’Isola un diritto consuetudinario, analogo molto più al feudale che al napoleonico.

 

 

§ 45. — Opera ed effetti del regime Borbonico dopo il 1815.

Stando le cose a quel modo non era delle più facili l’opera di un Governo che avesse voluto continuare e rendere efficace l’opera delle riforme del 1812, anche quando si fosse prefisso esclusivamente siffatto scopo ed avesse potuto disporre di un personale intelligente, onesto, energico e sicuro. Però, molto avrebbe potuto ottenere. Non sarebbero mancati i mezzi, almeno indiretti, per rendere efficace la legislazione economica e giuridica. Ma l’opera loro sarebbe stata lentissima. L’azione del Governo avrebbe però potuto essere più pronta ed efficace a modificare quelle relazioni sociali, che non fossero d’indole esclusivamente economica. Un’amministrazione coscenziosa ed energica della polizia e della giustizia avrebbe potuto sostituire alla preponderanza della forza individuale quella della legge, ed imprimere nelle menti e negli animi il concetto ed il sentimento di un’autorità sociale, e questo sarebbe stato il principio ed il fondamento indispensabile del mutamento delle condizioni generali.

Ma il Governo borbonico fallì quasi del tutto in siffatta impresa. Fu da lui continuata, è vero, la riforma economica nella legislazione. La giustizia e l’amministrazione furono ordinate secondo le forme moderne.([85]) Ma tutti quei provvedimenti influirono poco sulla sostanza delle relazioni economiche e sociali dell’Isola, e ne mutarono più che altro l’apparenza esterna. I loro effetti furono superficiali. Poca fu la divisione della proprietà e della ricchezza malgrado i provvedimenti che la favorirono. Furono poco efficaci a questo fine l’abolizione dei fidecommessi([86]); il diritto concesso ai cadetti degli ex-feudatari di esigere da questi in piena proprietà tanta parte dell’ex-feudo che corrispondesse al capitale della loro vita milizia([87]); la soppressione del diritto di reversione delle doti di Paraggio a favore degli ex-feudi([88]); la liberazione forzosa dei fondi sottoposti a diritti promiscui (ossia servitù di legnatico, pascolo, ecc.) quando fra i titolari di codesti diritti vi fossero Comuni([89]); il valore di queste servitù compensato con tanta parte del fondo prima gravatone([90]), e non più in denari, come era stato stabilito nel 1812([91]); la legge del 10 febbraio 1824 che obbligava i proprietari ad assegnare degli immobili in pagamento di taluni loro debiti.

Ed era difficile che avvenisse altrimenti, rimanendo il commercio e l’industria in condizioni poco dissimili da quelle di prima. Imperocchè, nel periodo dal 1816 al 1860, crebbe, è vero, in modo sensibile l’industria della estrazione degli zolfi, e crebbe pure l’industria della fabbricazione dei vini di Marsala, nata in sul principio del presente secolo. Ma di altre industrie si poteva appena parlare, se si toglie l’estrazione di qualche scarsissimo prodotto minerale, e la fabbricazione del sale marino nei dintorni di Trapani ed in alcuni altri punti della costa. L’agricoltura conservava nella massima parte dell’Isola la sua forma più semplice e primitiva: granicoltura e pastorizia. D’altra parte, mancavano le comunicazioni interne nell’Isola, quelle del Continente erano scarse; durava un sistema di protezionismo commerciale; entrava nella politica del Governo borbonico l’impedire il più possibile i viaggi; ogni manifestazione di attività poteva diventar sospetta.

Per modo che la classe media cresceva, è vero, di numero, specialmente nelle grandi città marittime, dove si concentrava il poco commercio dell’Isola, e nei loro dintorni, dove la vicinanza di un centro popoloso e le facilità maggiori per la esportazione rendevano proficua una coltura del suolo più perfezionata; ma questo accrescersi non era tale da potere imprimere alle relazioni sociali nell’Isola quei caratteri che sono propri della società, dove predomina la classe media. D’altra parte, le condizioni generali dell’agricoltura duravano se non uguali almeno molto somiglianti a quelle di prima. Se la produzione era un poco aumentata, i sistemi di coltura e di contratti agricoli rimanevano gli stessi, e rimanevano come prima di fronte ai grandi proprietari e ai grandi fittaiuoli, i contadini quasi tutti assolutamente proletari e senza speranza di migliorare la loro condizione, fuorchè per qualche caso strano. Le fortune cambiavano è vero di mani più facilmente che sotto il regime feudale, ma era sempre scarsissimo il numero di coloro cui era accessibile la ricchezza.

Non era dunque avvenuto nelle condizioni generali dell’Isola alcun mutamento radicale, atto ad imprimere nuovo carattere alle relazioni sociali, togliendo la preponderanza alla forza e alla prepotenza personale.

Nè era la pratica di governo dei Borboni atta ad operare siffatto mutamento. Autore di una legislazione buona in molte parti, in alcune ottima, questo Governo era il primo a violarla e a toglierle efficacia. Perchè all’atto pratico, il suo fine unico ed esclusivo era la propria conservazione o almeno ciò che considerava come tale. A questa era sacrificata ogni cura di buon governo: paese e popolazione erano considerati come una proprietà materiale, che conveniva ritenersi con ogni mezzo. Laonde, al minimo sospetto di liberalismo o di opposizione qualsiasi, la legge spariva per far luogo alla volontà del Governo. I magistrati non avevano più da applicare i codici, ma da eseguire gli ordini del Ministero. Vi ha chi rammenta ancora come una volta a Favignana, mentre i giudici da esso incaricati di condannare talune persone per una pretesa cospirazione, titubavano per la mancanza di prove, uno di essi dicesse: «colleghi, qui si tratta della toga». E fu pronunziata la sentenza di fucilazione. Era impossibile che il Governo con un siffatto sentimento della giustizia, si limitasse a comandare le sentenze nei processi politici; e difatti, in quelle cause civili dove erano interessate persone influenti a Corte, la sentenza era spesso imposta ai giudici, quando pure il re non ordinava addirittura la sospensione della procedura per decidere la lite a modo suo, o piuttosto della persona favorita. Qualche caso di resistenza di un magistrato ai voleri del Governo, eccitava tanto maggior rumore ed entusiasmo in quanto che era rarissimo. È facile argomentare quale potesse essere lo spirito della magistratura sotto un dispotismo usato in modo così inetto. Qualunque influenza poteva più su di lei che la legge. Taluni magistrati supremi, sommi per ingegno e per dottrina, venivano corrotti pubblicamente. Se tale era lo spirito della magistratura nella capitale, ognuno imagini ciò che poteva essere nelle province. Nella generalità dei casi la legge non esisteva di fronte agl’interessi del Governo, o, quand’egli non fosse implicato nell’affare trattato, di fronte alla ricchezza e all’influenza personale.

Lo spirito dell’amministrazione civile rispondeva a quello della giustizia. La sola tradizione amministrativa era quella di impedire apertamente o con mezzi indiretti qualunque mutamento, che potesse accrescere l’attività delle popolazioni, o favorire in qualunque modo lo spargersi delle idee nuove. Il personale, lasciato per il rimanente a sè stesso, partecipava per la massima parte all’inaudita corruzione di tutta l’amministrazione borbonica. È facile argomentare quale fosse l’effetto di un tal reggimento sulle relazioni sociali e sullo spirito delle popolazioni. Nei casi in cui non era direttamente interessato il Governo, dominava chi fosse in grado coi denari e con l’influenza di assicurarsi l’alleanza degli agenti governativi. Insomma lo Stato non solo usava mezzi inatti a sostituire la legge alla prepotenza individuale, ma nemmeno mostrava di avere siffatto scopo. Alle prepotenze locali era venuta ad aggiungersi quella di un Governo fazioso, potente nei suoi mezzi di azione, ma intenta come le altre ad ottenere fini, che non avevan che fare con l’interesse pubblico. L’autorità sociale sotto il Borbone come sotto la feudalità non era rappresentata in Sicilia.

Ma se dopo l’abolizione della feudalità non era mutata la sostanza delle relazioni sociali, ne era bensì mutata la forma esterna. Avevano cessato di essere istituzioni di diritto la prepotenza dei grandi ed i mezzi di sancirla: le giurisdizioni e gli armigeri baronali. L’istrumento che conveniva adesso di adoperare per i soprusi, era in molti casi l’impiegato governativo o il magistrato. E ad assicurarsi la loro connivenza non bastava la corruzione, conveniva inoltre adoperare una certa arte. La stessa doveva adoperarsi per acquistare o conservare l’influenza su tutti coloro, che la loro condizione economica non rendeva addirittura schiavi. La violenza brutale dovette in parte cedere il posto all’abilità e alla astuzia.

Questo crescere dell’elemento intellettuale nei mezzi di preponderanza ebbe per effetto di aprir la via ad acquistarla ad uomini appartenenti a quella classe, che era quasi sola nell’Isola a possedere dottrina ed una mente esercitata. Vogliamo dire i legali, i quali, importanti già sotto il regime feudale, adesso andarono crescendo sempre d’importanza e d’autorità. La generalità del ceto dei legali godeva riputazione poco buona prima del 1812.([92]) Dopo, si distinguevano in due categorie. Gli avvocati di prim’ordine, dotti, spesso onesti, talvolta coraggiosi di fronte agli arbitrii del potere, e la turba degli avvocatucoli delle città principali, e dei legali dei luoghi di provincia, troppo numerosi per gli scarsi affari giuridici di un paese senza industria e senza commercio, ridotti a cercare un guadagno, procurando di rendersi necessarii ovunque, provocatori di liti, mezzani di corruzione fra gli abitanti e gl’impiegati, intriganti, ambiziosi al bisogno nella loro piccola cerchia, talvolta abili abbastanza per rendersi indispensabili valendosi della ignoranza comune a tutte le classi, e per acquistare influenza nei loro centri. Il loro intervento contribuì ad imprimere sempre maggiormente alle relazioni di ogni genere quel carattere d’astuzia, che rendeva l’opera loro efficace.

Tali erano le nuove forme e i nuovi elementi coi quali duravano le vecchie relazioni sociali in tutta la Sicilia. Ma non perciò era esclusa la violenza almeno nella maggior parte dell’Isola; nulla era venuto ad interrompere le antiche tradizioni, e rimanevano sempre gl’istrumenti per porla in opera. Rimanevano gli antichi armigeri baronali mandati a spasso, oltre a tutti gli uomini, che avevano già commesso reati, od eran pronti a commetterne, e che non potevano non essere numerosissimi in un paese dove era tradizionale la facilità ai delitti di sangue, e la inefficacia della loro repressione. Se non che adesso, i primi come i secondi, esercitavano il mestiere per proprio conto, e chi avesse bisogno dell’opera loro, doveva con loro trattar volta per volta e da pari a pari.

A migliorare la sicurezza pubblica, il Governo borbonico colla sua solita noncuranza della legge e del miglioramento morale dei popoli a lui sottoposti, usò quelle forze che trovò bell’e pronte. Contro i malandrini impiegò i malandrini, e dopo la rivoluzione del 1848 questo sistema, nella ferrea mano del capo della polizia, Manescalco, ebbe successo apparente. L’ordine materiale fu ristabilito. La prepotenza rimase il privilegio di chi era in grado di usarla, senza adoperare violenza aperta. La violenza diventò il monopolio dei facinorosi al servizio del Governo. A questi però tutto era permesso. Se commettevasi un delitto erano liberi di arrestare quante persone volessero, ed a furia di operare arresti, d’infliggere bastonate e al bisogno torture, il vero delinquente alla fine si trovava. Questo ultimo particolare del sistema di governo borbonico è generalmente meno conosciuto. Fu bensì denunziato all’Europa il sistema della tortura usato dal Borbone, ma solo allorquando cominciò a adoperarsi contro accusati politici. Del resto, la legislazione preventiva era terribile. Vi fu un tempo in cui il porto d’armi proibite era punito con la morte.

Comunque siasi, il Governo borbonico non operò nulla per far nascere nei Siciliani il sentimento dell’autorità sociale e della legge. Anzi, se prima il concetto di queste cose si poteva dire che non esistesse,([93]) il regime borbonico sostituì a questo sentimento piuttosto negativo, uno più positivo coll’ispirare per il Governo un odio profondo.

La politica dei Borboni in Sicilia dopo il 1816, fu sempre tale da alienare da loro tutta quella classe di persone che era in grado di concepire opinioni politiche. L’inintelligente tirannia, e la brutale crudeltà a cui fu portato dai sospetti politici sarebbero già bastate a procurargli da tutti coloro che direttamente o indirettamente ne soffrivano od erano esposti a soffrirne, un odio e una inimicizia implacabile. Per neutralizzarne gli effetti, non trovò di meglio che adoperare la sua nota politica di dividere per imperare. L’astio fra Siciliani e Napoletani fu fomentato con ogni mezzo, specialmente col sacrificare gl’interessi e l’amor proprio di quella classe di Siciliani, che era in grado di aspirare al lucro ed all’onore degli impieghi, di quella stessa insomma, contro la quale erano più specialmente dirette le crudeltà e i sospetti pubblici. E fu ottenuto pieno successo: chè nelle menti Siciliane dominio Borbonico e Napoletano diventò una cosa sola.

Naturalmente, in un tale stato di cose, associazioni di idee vecchie e nuove portavano i patriotti di Sicilia a vedere nel vecchio nome di costituzione siciliana il simbolo di tuttociò che era contrario al detestato Governo, e difatti, diventò loro parola d’ordine: indipendenza e costituzione siciliana. Per essi, questa costituzione rappresentava la memoria di libertà secolari, manomesse per la prima volta nel 1816. Non andavano tanto per la sottile nel cercare che cosa fossero queste libertà, fino a qual punto la costituzione del 1812 continuasse le tradizioni di quella dell’epoca feudale, o se piuttosto non fosse diretta a distruggerle addirittura. Per loro, la costituzione feudale, quella del 12 e quella del 48, avevano comune il nome e la dichiarazione generica di privilegi e libertà siciliane. I dotti stessi, che conoscevano quanta differenza di cose cuoprisse quella comunanza di nomi, si sforzavano a fare apparire continua la tradizione da una costituzione all’altra([94]). Ed a ragione, chè allora si trattava di combattere, non di discutere d’economia pubblica e di diritto costituzionale. Allora la parola Costituzione non era altro che un grido di guerra, e molti Siciliani morirono per quello da eroi.

D’altra parte, la quasi totalità dei patrioti Siciliani non era in grado di conoscere con precisione gli effetti che avrebbe portati nella pratica in Sicilia l’applicazione di una costituzione analoga a quelle di altri paesi di Europa. Perchè, nati e cresciuti senza esperienza di libertà in mezzo alle condizioni sociali, speciali dell’Isola, erano per necessità ignoranti delle differenze che correvano fra queste e quelle di altri paesi. Capivano che una costituzione analoga a quella di taluni altri paesi d’Europa avrebbe, nell’Isola come in questi, ugualmente permesso il libero svolgersi delle forze sociali esistenti, ma non potevano capire come queste forze fossero in quella ed in questi diverse, e che, quando la Sicilia avesse ottenuto una costituzione anche identica a quella di altro paese, sarebbe venuta in una condizione di fatto diversissima da quello. Siffatto errore era diviso dai liberali del rimanente d’Europa, ignoranti affatto dello stato dell’Isola. Per modo che gli uni e gli altri, tolti i pochissimi Siciliani, che avevano vissuto lunghi anni in paesi esteri, studiandone e intendendone le condizioni, credevano sinceramente di mirare allo scopo medesimo. E ciò era vero finchè si trattava solamente di distruggere. Ma quando, scacciati i Borboni, fu finita l’opera negativa e si trattò di governare, l’equivoco principiò ad operare i suoi sciagurati effetti. E dal giorno dello ingresso di Garibaldi a Palermo principiò fra i Siciliani e i governanti d’Italia d’ogni partito e d’ogni colore, quel colossale malinteso, che dura pure adesso e durerà chi sa per quanto ancora.

 

 

§ 46. — Effetti della sovrapposizione del sistema di governo italiano sulle condizioni della Sicilia.

Imperocchè il Governo italiano portò in Sicilia un sistema di legislazione (compreso lo Statuto) e di pratica di governo, fondati sulla presunzione della esistenza di una classe media numerosissima. Non è qui il luogo di esaminare quanta parte di questo sistema fosse stata presa bell’e fatta da altri paesi, nè qual prova facesse in altre parti d’Italia. Ad ogni modo, sta il fatto che la caratteristica principale del Governo italiano è che esso cerca l’appoggio e l’aiuto della classe media, per quanto possa accadere a chi lo dirige di perdere talvolta di vista nei particolari questo indirizzo generale.

Se non che un siffatto sistema produce gli effetti proprii di un governo civile in quei paesi solamente dove il numero e la condizione della classe media è tale, che l’infinita varietà dei suoi interessi e delle forme della sua attività rende impossibili o quasi, i monopolii di qualunque specie, monopolii d’influenza, o amministrativi, o commerciali. Tale non era, come abbiamo cercato di mostrarlo, la condizione della Sicilia nel 1860. La scarsissima classe che già prima dominava in gran parte le relazioni d’indole pubblica e privata, venne per la forza delle cose in potere anche della nuova autorità ed influenza conceduta dal Governo, e più crebbe il potere di questa classe, più l’uso che da essa ne veniva fatto assunse il carattere di un monopolio diretto ad esclusivo benefizio di chi lo esercitava. Ne nacquero i disordini di cui abbiamo cercato di dare un’idea nel capitolo precedente, e dei quali primi a soffrire furono i membri di quella classe stessa che n’era cagione. Laonde lamenti dei Siciliani, lamenti del Governo, accuse reciproche ed ugualmente ingiuste. Poichè l’una delle parti aveva in buonissima fede creduto di dare una cosa differente da quella che l’altra, con buona fede non minore, aveva creduto di ricevere. La cosa realmente data o ricevuta, poi, si trovava nel fatto esser diversa e dall’una e dall’altra. La classe che assumeva quell’autorità che dal Governo veniva abbandonata alla popolazione, non era in Sicilia la stessa che in altri paesi dove siffatto abbandono era già stato sperimentato. Per modo che quest’autorità mutò il carattere fino allora attribuitole, almeno in teoria. Insomma, la classe dirigente siciliana ricevette e si tenne una autorità differente da quella che il Governo italiano intendeva concederle, e ciò senza che, in sul momento, nè l’una, nè l’altro si avvedesse del qui pro quo. Quando se ne manifestarono gli effetti, la loro cagione fu cercata altrove, e non sapendo, o piuttosto non osando andare a cercare la radice del male, si è cercato di curarne le manifestazioni esterne con quel successo che ognun sa.

Noi tenteremo adesso di esporre nei loro particolari i modi nei quali le istituzioni e le pratiche del Governo italiano vennero ad assumere, applicate in Sicilia, un carattere speciale, producendo gli effetti già descritti, e la influenza che ebbero a vicenda le istituzioni sulla popolazione, e la popolazione sul carattere che assunsero in Sicilia le istituzioni. Però, prima di inoltrarci nell’ardua discussione delle questioni pratiche di governo, ci fermeremo un momento, e riassumendo parte del fin qui detto, determineremo il punto, al quale abbiamo fino adesso cercato di portare la questione.

Al sopravvenire del Governo italiano, le condizioni della Sicilia in confronto di quelle delle nazioni del centro d’Europa, erano per ogni verso molto più medioevali che moderne. La ricchezza era riunita in poche mani, pochissime erano le fortune medie, la classe che vive del lavoro delle braccia, e che formava la quasi totalità della popolazione, era non solo assolutamente proletaria, ma anche, nella maggior parte dei casi, nella dipendenza personale di chi l’impiegava, e ciò per il carattere speciale dei contratti agricoli([95]). Continuavano le condizioni della produzione già da noi descritte, e rispondevano alla distribuzione della ricchezza. Mancavano quasi del tutto le industrie e i commerci. Il piccolo numero di coloro che disponevano del capitale; la scarsezza, la semplicità, e l’uniformità delle relazioni economiche, davano per forza a queste tutti i caratteri di monopolii senza controllo. Qualunque forma queste assumessero, la forza delle cose portava sempre una coalizione anche non pensata, degli interessi economicamente più forti contro i più deboli. Rispondevano a questa condizione economica le relazioni sociali e lo stato morale delle popolazioni. Nel campo ristrettissimo lasciato all’attività ed all’ambizione di quella classe di persone che era in grado di averne, ogni ambizione diventava una gara, le gare prendevan forma di rivalità, le rivalità producevano odii che poi duravano e andavano esacerbandosi, ed estendendosi d’anno in anno e di generazione in generazione.

L’autorità sociale era sempre mancata, da un lato perchè i Governi o non avevano potuto imporsi o non si erano curati di farlo, dall’altro, perchè mancava una classe media numerosa. Di modo che la potenza individuale vinse, dominò e dette leggi dappertutto. E dall’esser sempre stati i suoi effetti invincibili ed ineluttabili, ne risultò che furono da tutti, sia che ne approfittassero, sia che ne soffrissero considerati come legittimi, e la prepotenza diventò il fondamento di tutte le relazioni sociali e del senso giuridico in ogni classe della popolazione.

Ne seguì che in quelle parti dell’Isola dove la prepotenza aveva forma violenta, si continuò fino al 1860 la tradizione medioevale delle violenze, della facilità al sangue, del niun valore dato alla vita umana.

In ogni modo da siffatto stato di cose risultò che i soli atti ad avere e usare influenza ed autorità di qualunque genere erano i membri della scarsissima classe abbiente insieme con quei pochi che alla mancanza di ricchezza supplivano colla svegliatezza di mente e coll’astuzia, e fra loro, quelli che s’erano acquistata e sapevano conservarsi la preponderanza. Siffatta autorità od influenza non era nè poteva essere usata da essi che a vantaggio loro e dei loro aderenti e a sostegno della loro preponderanza, poichè è inintelligibile per uomini nelle condizioni sociali descritte, perfino il concetto d’interesse pubblico nel senso moderno della parola. Finalmente l’usare siffattamente della loro autorità ed influenza era riconosciuto per cosa legittima dal senso giuridico dell’universale.

Alla classe dirigente di siffatta società, lo Stato italiano affidò:

La guardia della giustizia penale, dell’ordine e della sicurezza pubblica per mezzo del giurì, delle attribuzioni di polizia, dei sindaci, e, (fino al 1874) della Guardia nazionale;

L’amministrazione del patrimonio pubblico e l’autorità d’imporre tasse, coi Consigli provinciali e comunali, le Opere pie, insomma, le amministrazioni locali d’ogni specie;

L’amministrazione del patrimonio pubblico destinato al Credito per mezzo del banco di Sicilia([96]).

Finalmente, si rimise nelle mani loro per conoscere i lamenti, i bisogni, i desiderii dell’intera popolazione dell’Isola. Molto più: nella pratica si sottopose alla loro autorità; perchè deve fare i conti con i desiderii e le domande dei deputati, ai quali dal canto loro conviene appoggiarsi sulla classe influente dell’Isola per non perdere il collegio.

Nell’esporre gli effetti di codesta sovrapposizione delle istituzioni degli Stati moderni sopra condizioni sociali proprie di uno stadio diverso della civiltà, prenderemo principio dai fatti riguardanti la sicurezza pubblica, i quali ancora che non siano comuni a tutta la Isola, pure hanno fatto maggior rumore sul Continente, e si prestano più d’ogni altro alla esposizione minuta degli elementi, che contribuiscono alle condizioni comuni di tutta Sicilia.

Dopo di che, descriveremo gli effetti del sopraccennato sistema di governo sulle amministrazioni locali; sul maneggio dei loro patrimoni; e degli innumerevoli interessi che a loro si riferiscono; il che ci darà occasione di ragionare degli effetti del regime italiano sulle condizioni economiche della Sicilia.

Finalmente parleremo delle relazioni fra la società siciliana e il Governo italiano, e della politica da questi seguìta verso di lei.

E termineremo esponendo quei rimedi che a noi sembrano più atti a portare un miglioramento nello stato dell’Isola.


 

Capitolo III.

LA PUBBLICA SICUREZZA

 

 

 

I.

CAUSE E CARATTERI GENERALI

 

 

§ 47. — Cagioni generali e divisione della quistione.

Quali sono le cause delle tristi condizioni della pubblica sicurezza in una parte di Sicilia? Perchè talune provincie dell’Isola godono la tranquillità più perfetta, mentre altre sono dalla mafia, dal brigantaggio e dal malandrinaggio infestate in modo che gli sforzi fatti dal 1860 in poi per estirparne questi mali sono rimasti vani? La risposta a queste domande è difficile; gli elementi del problema sono numerosi e complicati. Noi cercheremo adesso, secondo le nostre forze, di scioglierlo analizzando minutamente i fenomeni che a questo si riferiscono. Diremo però, fino da ora che, a nostro avviso, la cagione prima dello stato di violenza che regna in una parte di Sicilia sta in quella condizione sociale comune a tutta l’Isola, la quale fa sì che, per una tradizione non interrotta dal Medio Evo fino ai nostri giorni, la potenza personale vi abbia conservata autorità efficace e riconosciuta. Il Governo è impotente a reprimere la violenza perchè, per la stessa indole sua, adopera per governare le forze sociali che gli fornisce l’Isola. La causa poi per la quale la medesima condizione sociale non ha prodotto il predominio della violenza ugualmente in tutta la Sicilia, sta in questo che, per la diversità di certe circostanze locali costanti, la potenza privata ha avuto luogo di manifestarsi e di farsi rispettare per mezzo della violenza in talune parti dell’Isola, e in talune altre no. Apparirà in che consista questa diversità, dall’analisi che siamo per fare dei modi in cui la violenza si esercita.

Oltre alle cagioni adesso accennate, ve ne sono state altre, temporanee, casuali, senza nesso necessario colle condizioni sociali siciliane. Avremo luogo di parlarne nel corso dei nostri ragionamenti. Possiamo però già adesso accennarne due: la liberazione di quasi tutti i carcerati dell’Isola nel 1860, e quell’interregno, che seguì la caduta del Governo borbonico([97]), durante il quale, per l’assenza assoluta di ogni autorità regolare, mancò perfino quel debole freno che oppone adesso il Governo all’esercizio della violenza. Queste cagioni ed altre simili, se sarebbero atte a produrre un dissesto momentaneo nella pubblica sicurezza anche in un paese in condizioni normali, pure non sono tali da non potere esser vinte dalle forze di un governo regolare. Esse, nelle parti di Sicilia dove domina la violenza, non hanno fatto altro che esacerbare uno stato di cose esistente e persistente per altre cagioni.

Siffatte cagioni però non hanno effetti assolutamente identici in tutte quelle parti di Sicilia dove predomina la violenza. Questi effetti, pur sempre uguali fra loro nella loro sostanza, differiscono in taluni particolari a seconda delle circostanze locali, e si possono in modo approssimativo dividere, per quanto abbiamo potuto giudicare, in due categorie di fenomeni: quelli che si manifestano a Palermo e nei suoi dintorni, e quelli che si manifestano nelle altre parti dell’Isola infestate dai malfattori. Noi esporremo adesso, prima i caratteri comuni alle violenze in tutte le parti dell’Isola dove viene esercitata, poi le caratteristiche speciali a ciascuna delle due categorie in cui le abbiamo divise. Finalmente, determinati gli elementi della violenza, risulterà da per sè come il non esistere siffatti elementi in alcune provincie siciliane, sia cagione che in quelle non si eserciti per mezzo di essa la potenza privata.

 

 

§ 48. — Perchè i violenti abbiano, in quella parte della Sicilia dove dominano, autorità non solo materiale, ma anche morale.

Il fatto che prima d’ogni altro colpisce la mente nei racconti che si sentono fare sulla Sicilia e specialmente sopra Palermo, è l’autorità non solo materiale, ma anche morale che vi hanno i violenti. Il timore non basta a renderne ragione. Perchè, se spiega il silenzio perfino degli offesi, non spiega la reprobazione pubblica che cuopre colui il quale ricorra alle autorità costituite per esser difeso da pericolo imminente. Questa ha la sua cagione nella condizione generale degli animi prodotta dallo stato sociale dell’Isola. Difatti, come in ogni società, così in quella che si regge sulla potenza e l’autorità individuale ad esclusione di qualunque altra forza, ogni atto diretto ad indebolire o rompere il legame che tiene insieme compaginata quella società, risveglia negli animi un sentimento analogo a quello designato dai criminalisti col nome di danno mediato, a quel sentimento, cioè, che nelle società fondate sulle basi che reggono i popoli considerati come civili, nasce al commettersi di un delitto. Ci spieghiamo: ciascuna persona interessata al mantenimento di una società qualsiasi nella sua forma attuale, qualunque essa sia, prova istintivamente un sentimento di sdegno e di repulsione per ogni atto che minacci l’esistenza di questa forma di società. Siffatto sentimento diviso da un gran numero di persone organizzate in società, si manifesta sotto forma di opinione e sentimento pubblico, e così gli atti che lo offendono pigliano carattere di disonoranti. Bene è vero che in una società pur fondata sulla forza privata abbondano le persone le quali non approfittano affatto di un cotale ordinamento, anzi, ne ricevono danno. Ma è cosa ormai pur troppo sperimentata, che le classi e le persone le quali hanno da soffrire di un dato ordinamento sociale, se mancano assolutamente di mezzi materiali di difesa contro di quello, non sono in grado di formare da sè un’opinione pubblica, ma la ricevono bell’e fatta da quella parte della società, che è organizzata e forte, e, quel che è più, l’accettano. Costoro diventano capaci di unirsi per formare un’opinione pubblica meno parziale, solamente allorquando o dentro o fuori di loro nasca a favore dei loro interessi una forza capace di farsi rispettare. Abbiamo già detto come il Governo borbonico non abbia portato in Sicilia cotale forza. Dell’italiano parleremo poi. Ad ogni modo, finchè l’opinione pubblica è costituita dal sentimento di quella categoria di persone, la quale ha interesse che l’ordine sociale continui a fondarsi sulla prevalenza della forza privata, ogni azione diretta a sostituire a questa l’autorità sociale, è dall’universale considerata come disonorante.

Non è questo il luogo di dimostrare partitamente i fenomeni psicologici e sociali adesso accennati, nè di analizzare gli elementi della quistione generale alla quale si riferiscono. Tale argomento richiederebbe da sè solo un’opera di non piccolo volume, per la quale del resto gli elementi non mancherebbero, a parer nostro. Ci contentiamo dunque di addurre per prove, i fatti che ci presenta la stessa Sicilia. Pochi, crediamo noi, negheranno che fino al 1860 l’intero ordinamento sociale si fondasse in Sicilia sulla potenza privata, e che in una parte dell’Isola, uno dei mezzi più generalmente usati a farla prevalere fosse, per tradizione immemorabile, la violenza. E niuno, che noi sappiamo, nega che adesso in quella stessa parte dell’Isola e, (per ragioni che esporremo fra poco) specialmente in Palermo e dintorni, sia dall’opinione pubblica considerato come disonorante ricorrere ad altri mezzi che alla forza privata, per sostenere la propria reputazione, vendicare le proprie ingiurie, per reagire insomma contro la violenza.

In siffatte circostanze, la violenza privata non trova contro di sè che altre violenze private, e non incontra nella società alcuna forza collettiva diretta a combatterla. La sola che potrebbe trovarsi dinnanzi, sarebbe quella del Governo quando fosse realmente una forza.

 

 

§ 49. — Cagioni dell’importanza acquistata dalla classe dei malfattori per mestiere.

Se non che la sovrapposizione di una legislazione e di un sistema d’indole moderna ad una società simile a quella di cui abbiamo adesso accennato, la conduce a prendere una forma particolare, e a manifestare fenomeni speciali. Fintantochè era in vigore nell’Isola il sistema feudale, la potenza e la forza materiale erano così in diritto come nel fatto, riservate ad una classe della Società([98]); la violenza veniva usata più specialmente a suo favore, si poteva dire un suo privilegio, e gli esecutori erano più che altro istrumenti a suo servizio. L’uso della violenza era dunque regolarizzato fino ad un certo punto, vi erano violenze riconosciute dal diritto, ed altre no; e, dato quello speciale ordinamento sociale, fondato sulla forza e sull’autorità private, l’andamento della società era normale. Certamente, non mancavano i disordini e le violazioni di quell’ordinamento stesso, il quale per la sua natura medesima è incapace d’impedirli. Era frequente il caso che la prepotenza e la violenza fosse usurpata abusivamente da persone che non avrebbero avuto titolo per usarla. Così, i bravi dei signori, i quali, proibiti o no dalla teoria del diritto, erano ammessi nella pratica, non si astenevano di commettere estorsioni a proprio vantaggio; non mancavano malandrini che esercitassero la loro industria per conto proprio; le violenze fra signore e signore non erano sottoposte a regola alcuna. Ma malgrado queste perturbazioni occasionali, l’uso della forza rimaneva nella massima parte dei casi limitato e sottoposto a certe regole: rimaneva in linea generale il fatto che la società era divisa in due parti: da un lato una classe dominante, dall’altro delle classi dominate; e che il mezzo che avea la prima per dominare, mezzo in gran parte riconosciuto dalla legge anche teorica, era la forza materiale. In siffatta condizione di cose, il diritto positivo rispondeva alle condizioni di fatto e al senso giuridico delle popolazioni. Il che permetteva di sperare che, verificandosi a poco a poco un mutamento nelle circostanze di fatto, vi rispondesse il modificarsi del diritto positivo, dimodochè ne sarebbe risultato un miglioramento spontaneo e lento di tutto l’organismo sociale in tutte le sue forme e manifestazioni.

Ma, cambiato coll’abolizione della feudalità il diritto positivo, cessò del tutto la conformità di questo colle condizioni di fatto e col senso giuridico delle popolazioni. Da un lato il diritto positivo non riconobbe più nè in teoria nè in pratica prepotenze o violenze di nessun genere, e le considerò tutte indistintamente, come delittuose. Questo cambiamento fu compiuto dalla legislazione portata dal Regno d’Italia nel 1860. Dall’altro lato, le condizioni di fatto rimasero immutate, essendo rimasto come prima libero il campo alla prepotenza privata, per l’assoluta impotenza dell’autorità sociale ad imporre le sue leggi con la forza. Per modo che sparì dal sentimento della popolazione perfino quell’oscura distinzione fra atti legali e illegali, che è sempre nelle menti generata da un diritto positivo efficace, per quanto la distinzione da questo sancita sia, al punto di vista della società moderna, iniqua ed ingiustificata. Ne risultò che, sparito qualunque criterio il quale distinguesse delle violenze lecite e delle altre illecite, e rimaste le condizioni di fatto che facevano della violenza il fondamento delle relazioni sociali, queste furono tutte indistintamente ammesse dal senso giuridico delle popolazioni.

D’altra parte, le condizioni di fatto furono bensì modificate dal mutarsi del diritto positivo, fu bensì dato alla società un carattere più democratico col lasciare aperta la via ad ognuno che ne fosse capace, di usare delle forze in essa esistenti. Ma la forza colla quale si reggeva la società, continuando ad essere la prepotenza privata, ne risultò che, dove questa assumeva forma di violenza, la riforma avesse per effetto solamente di aprir la via ad un maggior numero di persone ad usare di questa.

Invero, se da una parte chi era prima in possesso quasi esclusivo della forza materiale si riduceva ad usarne meno([99]), dall’altra, sciolta ormai da ogni vincolo e privilegio l’industria della violenza, ebbe una esistenza e un’organizzazione indipendenti. Il che ebbe per effetto di moltiplicare e variare all’infinito gli oggetti per i quali le violenze si commettevano. Difatti, adesso non si tratta più solamente di delitti commessi per favorire i disegni di questo o di quell’altro grande. I malfattori, pur sempre pronti a servire altrui, lavorano per conto proprio, e la loro industria è una nuova sorgente di delitti molto più numerosi di quelli che i bravi degli antichi baroni e i briganti del tempo passato potessero commettere nel proprio interesse. Di più, l’organizzazione della violenza diventata per tal modo più democratica, è adesso accessibile a molti piccoli interessi che prima non avevano a loro servizio se non il braccio e l’energia di colui cui premevano. Sicchè la soppressione delle forze armate ed in generale dei privilegi baronali ha fatto della violenza una istituzione accessibile quasi ad ogni ceto e ad ogni classe. Questa a noi pare la cagione di quell’infinito intricarsi di violenze in ogni direzione, che mette sulle prime tanta confusione nella mente di chi, per un processo intellettuale quasi istintivo, cerchi di distinguere una classe di oppressori ed una di oppressi. Perchè colui che oggi è prepotente può esser vittima domani, e di uno non più potente di lui. E l’uomo più pacifico può trovarsi nel caso di usar violenza, o per lo meno di fare alleanza, non foss’altro, per la sua legittima difesa, con chi fa mestiere di usarla.

L’importanza acquistata dalla classe indipendente dei facinorosi ebbe per effetto di assicurarle quella autorità morale di cui ogni forza privata che sia in grado di preponderare gode in Sicilia per le ragioni che abbiamo più sopra esposte. In conseguenza, nell’Isola, la classe dei facinorosi si trova in condizione speciale, che non ha nulla che fare con quella dei malfattori in altri paesi per quanto possano essere numerosi, intelligenti e bene organizzati, e si può quasi dire di essa che è addirittura un’istituzione sociale. Giacchè, oltre ad essere un istrumento al servizio di forze sociali esistenti ab antiquo, essa è diventata, per le condizioni speciali portate dal nuovo ordine di cose, una classe con industria ed interessi suoi proprii, una forza sociale di per sè stante.

 

 

§ 50. — Le condizioni sono specialmente favorevoli in Sicilia per l’esercizio dell’industria dei malfattori.

L’essere l’ordinamento della società siciliana fondato sulla prevalenza della forza privata è pure cagione che, laddove questa forza si esercita per mezzo della violenza, i malfattori trovino circostanze specialmente favorevoli per il facile esercizio della loro industria. Difatti, se volgiamo gli occhi alla condizione dei malfattori negli altri paesi, li vediamo isolati in mezzo alla società. Se vogliono unirsi fra loro non basta che s’intendano sul fine da raggiungere; conviene pure che combinino tra di loro un’organizzazione atta a proteggerli o ad assicurarli contro il rimanente della società. Laonde nascono quei statuti che regolano le relazioni fra i membri di ogni associazione di malfattori. Ma invece, il malfattore che sia in mezzo ad una società fondata essa medesima sulla potenza privata, trova quelle norme stesse già in vigore per tutte le relazioni sociali. Affermato ch’egli abbia la sua forza individuale con un delitto, il suo posto è bell’e pronto nella società; quelle garanzie che in altri paesi dovrebbe cercare coll’unirsi con altri suoi simili e collo stabilire accuratamente con loro i reciproci doveri e diritti, egli le trova nei costumi della popolazione. Egli ha così poco bisogno di regolarizzare con norme prestabilite la reciproca responsabilità fra sè ed altri malfattori che anzi, egli ha per complice tutta la popolazione di fronte alle autorità che sono al di fuori di essa. Il delinquente non è denunziato nemmeno dalla sua vittima, e se alcuno lo denunzia è tenuto dall’opinione pubblica per infame.

Per le medesime ragioni, in una siffatta società, la associazione di malfattori, nel senso tecnico della parola, esiste dappertutto in potenza. Basta che due malfattori si conoscano personalmente e s’intendano sopra un dato fine da raggiungere, perchè l’associazione sia bell’e formata senza bisogno d’altre garanzie fra di loro.

Le caratteristiche fin qui descritte sono comuni a tutte le parti di Sicilia dove predomina la violenza e sono cagioni della straordinaria persistenza del suo predominare nella sua forma presente, per mezzo cioè dei malfattori comuni. Però si modificano nei particolari, ed assumono principalmente due forme: la cosiddetta mafia da un lato, il brigantaggio e il malandrinaggio dall’altro. Il distinguerle fra di loro per mezzo di definizioni è molto difficile, per non dire impossibile. Sono vari aspetti del medesimo fatto e differiscono fra di loro solamente per la diversità delle condizioni, in mezzo alle quali si manifestano. Perciò non si può determinare una linea che li divida, ed hanno un vasto campo in comune. Il solo mezzo di dare un’idea chiara delle loro differenze è di descrivere i modi in cui l’una e gli altri si manifestano, e così stiamo per fare. E nell’analizzare le varie maniere in cui si esercita la violenza avremo luogo di esporre come riesca quasi del tutto impotente a reprimerla l’azione del Governo.

 

 

§ 51.— La mafia.

Principieremo colla mafia.

Abbiamo già accennato([100]) come questa parola sia sul Continente usata per lo più in un senso improprio. Si crede generalmente che i fenomeni abbracciati da questo suo significato comune compongano da sè soli un fatto sociale completo, mentre ne sono solamente manifestazioni parziali. Laonde si cerca dentro di essi le loro cagioni per non trovarci invece che una confusione inestricabile di fatti disordinati e spesso contraddicenti fra di loro. Il fatto completo di cui solamente un fenomeno è compreso nel significato comune della parola mafia, è una maniera di essere di una data Società e degli individui che la compongono ed in conseguenza, per esprimersi efficacemente ed in modo da ottenerne un’idea chiara, conviene significarlo non con un sostantivo, ma con un aggettivo. L’uso siciliano, giudice competente di questa materia, lo esprime precisamente coll’aggettivo mafioso, col quale non vien significato un uomo dedito al delitto, ma un uomo che sa far rispettare i suoi diritti, astrazione fatta dei mezzi che adopera a questo fine. E siccome nello stato sociale che abbiamo cercato di descrivere, la violenza spesso è il miglior mezzo che uno abbia di farsi rispettare, così è nato naturalmente che la parola usata in senso immediatamente derivato, venisse ad esprimere uomo dedito al sangue. Laonde il sostantivo mafia ha trovata pronta una classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l’indicasse, ed alla quale i suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana davano diritto ad un nome diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi.

Stabilito in tal modo il significato che noi, in conformità coll’uso siciliano e colla realtà dei fatti, intendiamo dare alla parola «mafioso» e la sua diversità da quello usato generalmente, potremo liberamente per la comodità del discorso e per evitar perifrasi inutili, usare la parola mafia nel suo significato comune e parziale, ed in questo caso lo segneremo in carattere corsivo.

 

 

 

II.

I MALFATTORI A PALERMO E NEI SUOI DINTORNI

 

 

§ 52. — Caratteri speciali dell’industria del delitto a Palermo e suoi dintorni. Loro cagioni.

Per chi abbia un poco seguito durante questi ultimi anni la discussione nel Parlamento e nella stampa sulla questione della pubblica sicurezza in Sicilia, è cosa ormai conosciuta che la mafia ha il suo tipo più perfetto e le sue manifestazioni più energiche in Palermo e nei suoi dintorni. Anzi, a questo proposito, conviene notare che molte descrizioni dove si credono generalmente esposte le condizioni di Sicilia tutta, dovrebbero invece riferirsi esclusivamente a Palermo e a quel territorio che la circonda ed è in relazioni immediate e continue colla città. Nell’analisi che ora cercheremo di fare del fenomeno, terremo dunque più specialmente in vista le sue manifestazioni in codesto angolo dell’Isola.

Le particolarità che a prima vista lo distinguono dalle altre parti di Sicilia dove pure predomina la violenza, sono specialmente le seguenti. Una estrema facilità ai delitti di sangue in gran parte degli abitanti, la quale produce una quantità straordinaria, anche per la Sicilia, di facinorosi per mestiere, avuto riguardo al numero della popolazione e all’estensione del territorio. Questo primo fatto rende possibile l’esistenza delle altre caratteristiche speciali che ci presenta Palermo e i suoi dintorni, cioè, il grandissimo numero dei casi dove questi facinorosi prendono occasione per esercitare la violenza, da relazioni fra persone non appartenenti alla classe dei malfattori e l’infinita varietà degli interessi propri e altrui che fanno valere per mezzo della medesima; il che ha non di rado per effetto che vari mafiosi abbiano interessi opposti, e siano in lotta fra di loro.

La gran facilità al sangue della popolazione della città e dell’agro palermitano, ha, secondo l’opinione generale, la sua origine in talune cagioni che, quantunque siano in parte ipotetiche, pure hanno un gran carattere di verità. Le principali sono: il gran numero di bravi che i signori residenti in Palermo tenevano a loro servizio e i cui discendenti hanno conservato la tradizione di famiglia; la forte mistura di sangue arabo e sopratutto berbero negli abitanti; l’essere stati ad ogni nuova conquista respinti da Palermo nei dintorni tutti gli elementi di resistenza e di malcontento. Inoltre, la popolazione senza mezzi regolari di sussistenza, che abbonda in ogni capitale, sopratutto dove l’industria e il commercio siano scarsi, è stata in Palermo molto accresciuta dopo il 1860 dalla soppressione di molti uffici governativi, che sotto il Borbone avevano sede in Palermo, e sopratutto dalla soppressione dei conventi che assicuravano l’esistenza di un numero infinito di persone in mille maniere, o cogli impieghi nelle loro amministrazioni, o colle elemosine. Non aggiungeremo a queste cagioni quella del clima, giacchè quando si ammettesse, rimarrebbe difficile a spiegare la dolcezza dei costumi della gran massa della popolazione nella provincia di Siracusa. E nemmeno adopereremo la nota figura rettorica del suolo vulcanico: la maggior parte delle popolazioni che abitano le falde dell’Etna sono fra le più tranquille dell’Isola.

La straordinaria agglomerazione dei malfattori ha potuto dare all’industria del delitto in Palermo e suoi dintorni, le caratteristiche speciali cui abbiamo or ora accennato, per essere Palermo un centro importante, avuto riguardo alla Sicilia, di affari di ogni specie. Inoltre, si trova riunito in quella città un gran numero di membri della classe dominante, più che altrove disposti ad usare la violenza per raggiungere i loro fini. Però, giova ripeterlo, qualunque sia l’origine prima delle cagioni che imprimono all’industria del delitto in codesto territorio le sue caratteristiche speciali, queste cagioni sussistono ed operano i loro effetti, perchè da un lato hanno trovato le condizioni sociali cui già accennammo, dall’altro non hanno incontrato forza alcuna, estranea alla società siciliana, che le combattesse.

Difatti, i numerosissimi facinorosi trovandosi in un centro importante di relazioni d’interessi di ogni genere quale può essere una grande città, porto di mare, contornata da un territorio dove predomina la piccola coltura esercitata da affittuari; e d’altra parte vedendosi intorno una popolazione pronta ad accettare come legittima ogni autorità privata in qualunque modo acquistata, pronta a sottomettersi con rassegnazione alla violenza del più forte; assicurati di non trovar mai da combattere nel seno della Società dove vivevano contro alcuna forza sociale che non fosse la violenza; certi dell’impotenza dell’autorità governativa (e ne diremo più sotto la ragione), avevano tutte le circostanze propizie per intromettersi in tutte le faccende, sia per loro esclusivo profitto, sia a vantaggio di chi li compensasse del loro aiuto. E così fecero. La grande quantità delle occasioni di esercitare siffatta industria fa sì che molti trovino la loro convenienza a darcisi, e che il numero dei facinorosi si mantenga, anzi, cresca sempre, e sia per crescere continuamente finchè non sopravverrà una forza estranea alla società siciliana che colla energia nella repressione dei delitti faccia in modo che cessi il tornaconto a prendere il mestiere di commetterli.

 

 

§ 53. — Caratteri speciali delle relazioni fra facinorosi a Palermo e dintorni.

Inoltre, la straordinaria agglomerazione di facinorosi per mestiere in uno spazio relativamente ristretto, è stata cagione che quasi tutti i malfattori di Palermo e dintorni avessero comodo d’incontrarsi e di conoscersi personalmente, in modo che fosse più intima e più efficace che in qualunque altra parte di Sicilia, quella relazione continua e necessaria di cui già cercammo spiegare le cagioni([101]) la quale unisce i malfattori fra di loro.

In conseguenza, vi è molto maggiore che in altre parti dell’Isola, la facilità a formarsi delle associazioni di malfattori vere e proprie. Per citare un esempio, si sono formate colla massima facilità le associazioni di cui abbiamo già parlato, dei Mulini e quella della Posa. Il medesimo esempio ci mostra come queste associazioni godano a siffatte circostanze di una elasticità straordinaria. Gli scopi si moltiplicano, il campo di azione si allarga, senza bisogno che si moltiplichino gli statuti; l’associazione si suddivide per certi scopi, rimane unita per altri. Parte dei suoi membri si dedicano all’industria d’imporre fittaiuoli e guardiani per gli agrumeti, altri a quella delle camorre nelle aste pubbliche, vi è chi si intromette come paciere nelle famiglie e cerca di persuadere ad un parente ricco di pensionare un suo congiunto bisognoso, pena la distruzione delle vigne o degli agrumi, ed ognuno è sempre assicurato del soccorso degli altri per il caso di bisogno, senza che occorra mettersi d’accordo sulle regole di condotta per difendersi dall’autorità.

Del resto l’organizzazione della intiera industria, la disciplina di coloro che l’esercitano è così perfetta, che laddove le imprese non implichino contrasto d’interessi, è difficile determinare a qual punto finisca l’associazione e principino le relazioni ordinarie tra gli esercenti la professione. Questo ordinamento superiore in Palermo e suoi dintorni ci sembra dovuto anche per molto alla parte che hanno nell’industria persone della classe media.

 

 

§ 54. — Facinorosi della classe media.

Imperocchè la città e l’agro palermitano ci presentano un fenomeno a prima vista incomprensibile e contrario alla esperienza generale e alle opinioni ricevute. Ivi l’industria delle violenze è per lo più in mano a persone della classe media. In generale questa classe è considerata come uno elemento d’ordine e di sicurezza, specialmente dov’è numerosa, come lo è infatti in Palermo. Noi stessi abbiamo più sopra notato come il suo scarso numero in Sicilia fosse una delle principali cagioni della condizione dell’Isola([102]). Questa contraddizione però è solamente apparente. Invero, quando la classe media non ha preso in un paese una preponderanza di numero e d’influenza tale da assicurare ad una legislazione uguale per tutti il sopravvento sulla potenza privata, l’osservanza delle leggi, la condotta regolare e pacifica non è più un mezzo di conservare le proprie sostanze e il proprio stato. Ora, la caratteristica essenziale che fa sì che codesta classe sia in generale un elemento d’ordine, è per l’appunto il timore che domina in chi la compone di perder ciò che ha acquistato, e la ripugnanza di correr rischi per acquistare di più. Per modo che, quando per le condizioni sociali da un lato, per l’impotenza dell’autorità dell’altro, il rischio non è maggiore a usar violenza che a non usarla, cessa ogni cagione per i membri della classe media, di sostenere l’ordine. Anzi, per poco che abbiano intelligenza, energia e desiderio di migliorare il proprio stato, (e in quella parte del territorio dove la classe media sarà più numerosa, saranno pure più numerose le probabilità che si trovino nel suo seno uomini dotati di siffatte qualità), niuna industria è per loro migliore di quella della violenza. Perchè portano nell’esercizio di questa tutte le doti che distinguono la loro classe, e, in altri paesi, la fanno prosperare nelle industrie pacifiche: l’ordine, la previdenza, la circospezione; oltre ad una educazione ed in conseguenza una sveltezza di mente superiore a quella del comune dei malfattori. Perciò l’industria delle violenze è, in Palermo e dintorni venuta in mano di persone di questa classe. A quelle deve la sua organizzazione superiore; l’unità dei suoi concetti, la costanza dei suoi modi di agire, la profonda abilità colla quale sa voltare a suo profitto perfino le leggi e l’organizzazione governativa dirette contro il delitto; l’abile scelta delle persone, dalle quali conviene accettare la commissione d’intimidazioni o di delitti; la costanza colla quale osserva quelle regole di condotta, che sono necessarie alla sua esistenza anche nelle lotte che non di rado insorgono fra coloro i quali la praticano.

Tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata. Sono sempre assicurati di trovare istrumenti sufficentemente numerosi a cagione della gran facilità al sangue della popolazione anche non infima di Palermo e dei dintorni. Del resto sono capaci di operare da sè gli omicidii. Ma in generale non hanno bisogno di farlo, giacchè la loro intelligenza superiore, la loro profonda cognizione delle condizioni della industria ad ogni momento, lega intorno a loro, per la forza delle cose, i semplici esecutori di delitti e li fa loro docili istrumenti. I facinorosi della classe infima appartengono quasi tutti in diversi gradi e sotto diverse forme alla clientela dell’uno o dell’altro di questi capi mafia, e sono uniti a quelli in virtù di una reciprocanza di servigi, di cui il resultato finale riesce sempre a vantaggio del capo mafia. Il quale fa in quell’industria la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore. Egli determina quell’unità nella direzione dei delitti, che dà alla mafia la sua apparenza di forza ineluttabile ed implacabile; regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina fra gli operai di questa industria, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere abbondanza e costanza di guadagni. A lui spetta il giudicare dalle circostanze se convenga sospendere per un momento le violenze, oppure moltiplicarle e dar loro un carattere più feroce, e il regolarsi sulle condizioni del mercato per scegliere le operazioni da farsi, le persone da sfruttare, la forma di violenza da usarsi per ottenere meglio il fine. È propria di lui quella finissima arte, che distingue quando convenga meglio uccidere addirittura la persona recalcitrante agli ordini della mafia, oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, coll’uccisione di animali o la distruzione di sostanze, od anche semplicemente con una schioppettata di ammonizione. Un’accozzaglia od anche un’associazione di assassini volgari della classe infima della società, non sarebbe capace di concepire siffatte delicatezze, e ricorrerebbe sempre semplicemente alla violenza brutale.

 

 

§ 55. — L’omertà.

Ma questa potente organizzazione della classe dei facinorosi, per quanto sia efficace a far riescire le imprese comuni a parecchi fra di loro, non potrebbe da sè sola bastare a salvare la classe dallo sfacelo nei casi numerosissimi a Palermo e dintorni, dove le imprese dei suoi membri implicano interessi contradittorii, e nei quali adoperano gli uni contro gli altri quelle medesime violenze che usano contro il rimanente della popolazione. Se non che, siccome i malfattori, anche nel contrasto dei loro interessi momentanei, conservano sempre comune e identico per tutti l’interesse al libero e sicuro esercizio della loro industria, la classe dei facinorosi della città e dell’agro palermitano è stata dal sentimento della conservazione portata a promuovere quest’interesse che potremmo chiamare sociale, astrazione fatta dagl’interessi individuali e momentanei dei suoi membri. Laonde è invalso fra di loro un vigoroso spirito di corpo più forte di qualunque odio o rivalità personale. Ora, l’interesse della classe dei facinorosi per mestiere essendosi ormai imposto come il più forte di ogni altro alla Società in Palermo e dintorni, ne è risultato il fatto di cui già ragionammo([103]), che, cioè, questo interesse si è imposto agli animi, all’opinione pubblica insomma, come interesse dell’intera società, e così, le regole che si sono imposte agli animi della popolazione come regole di virtù, di moralità e di onore, sono quelle che favoriscono l’esistenza di codesta classe. Vogliamo parlare di quell’assieme di norme in virtù delle quali è proibito ricorrere alla legge contro la violenza, pena non solo la morte ma anche il disonore. Queste regole sotto il nome di codice dell’omertà sono in Palermo e dintorni più che nel rimanente di Sicilia precise e stringenti nella popolazione, perchè qui l’interesse che colla forza si è imposto materialmente e moralmente è quello di una classe intera, mentre in altre parti dell’Isola, come avremo più sotto occasione di esporlo, si può dare e si dà effettivamente il caso che abbia assunto il predominio sopra l’opinione pubblica la preponderanza di un numero limitato di persone, e perciò il loro interesse individuale fa legge, per modo che contro di loro non sia permessa la denuncia, ma a loro favore sia ammessa dall’opinione pubblica non solo la denuncia, ma la denuncia calunniosa.

Nè può, secondo noi, l’autorità morale del codice dell’omertà attribuirsi a cagione diversa da quella ora accennata: non all’odio tradizionale contro il Governo e la legge, avanzato dal dominio borbonico, perchè più di una volta, una parte della mafia ha cooperato, a suo modo è vero, ma pur cooperato col Governo alla polizia. Nei militi a cavallo, corpo di polizia più o meno sicuro, ma pure corpo di polizia, prepondera nel più dei casi, l’elemento mafioso. E nemmeno si può attribuire tale autorità a un sentimento d’indipendenza e d’insofferenza di ogni giogo per parte della popolazione in generale, il quale, quantunque male inteso, pure sarebbe segno di una certa energia di carattere; giacchè mai nella popolazione si manifestò segno alcuno di sdegno o d’impazienza contro la società dei mulini che aveva imposto col terrore un rialzo fittizio sul prezzo delle farine. E pure sarebbe lungo a contarsi nella storia di Palermo il numero delle sedizioni popolari per il caro prezzo del pane. Ma bisognò che l’autorità facesse conto sulle sue sole forze ed attività per sgominare cogli arresti la società dei mulini, ed ottenere per tal modo da un giorno all’altro un ribasso nel prezzo di molenda di L. 1.50 a salma per le farine, e di L. 2.50 a salma per le semole, e nel prezzo di vendita delle paste di cent. 6 il rotolo.

Riassumendo i ragionamenti fin qui fatti sulle condizioni della sicurezza pubblica in Palermo e dintorni, possiamo dire:

Che le cause occasionali del predominio della violenza in quella regione, sono quelle tradizioni non interrotte e quelle circostanze in parte storiche, le quali imprimendo alla gran massa della popolazione un carattere violento e sanguinario, hanno fatto sì che fosse possibile alla prepotenza di esercitarsi col mezzo della violenza materiale;

Che l’esercizio della violenza vi ha assunto caratteri speciali per l’esistenza e l’organizzazione eccezionalmente perfetta di una classe di facinorosi indipendente e con interessi suoi propri, dovute a cagioni in parte storiche, comuni ad altre province di Sicilia per una parte, e speciali a Palermo e dintorni per l’altra. L’influenza di questa classe ha reagito sopra quei costumi che ne avevano resa possibile l’esistenza, determinandone meglio i caratteri.

Ma la cagione che ha rese efficaci tutte queste cause secondarie, è lo stato sociale comune a tutta la Sicilia, il quale fa sì che la potenza privata sia in grado di predominare nella società, e che quella forza che ha assunto il predominio, sia per consenso generale accettata come legittima. Questo stato è cagione che gli elementi di violenza, appena hanno acquistato una certa importanza, non rimangono isolati, ma diventano un elemento della vita sociale e un istrumento per tutti gl’interessi e tutte le pretese. In quella guisa che una goccia d’olio, cadendo sopra una tavola di marmo, rimane quello che era prima di cadere, e si può facilmente asciugare, ma se sopra un pezzo di carta, principia a imbeverlo, si estende, s’immedesima colla sua materia in modo da fare con esso una cosa sola, e non si può estirpare che con energici reagenti chimici; così in un paese di condizioni diverse dalle siciliane, se vi sono, per esempio, cento malfattori, l’autorità trova dinnanzi a sè cento malfattori e nulla di più. Ma in Sicilia, se non riesce a sopprimerli appena comparsi, e lascia loro il tempo di insinuarsi nelle relazioni sociali, l’autorità trova dinanzi a sè tutta una organizzazione sociale, e per estrarre dalla società l’umore malsano ha necessità di una energia e di una abilità, che sarebbero superflue in circostanze ordinarie.

Certamente, anche le cause occasionali sono elementi necessari delle cattive condizioni della sicurezza. Così, quando il numero delle persone capaci di commettere delitti di sangue fosse limitato, per quanto queste si fossero insinuate nella vita sociale, pure il giorno in cui l’abilità eccezionale di un funzionario o altre circostanze speciali avessero reso possibile all’autorità d’impadronirsi di quelle persone, le violenze cesserebbero. Questo accadde in Messina, dove la massa della popolazione è più mite che nella provincia di Palermo, dopo la cattura della massima parte della banda Cucinotta, e della mafia cittadina sua alleata. Inoltre, dove scarseggiano per l’indole della popolazione le persone capaci di commettere in circostanze ordinarie dei delitti di sangue, la violenza non sarà nelle tradizioni, e non si userà se non quando qualche persona influente o intelligente voglia adoperarla a suo vantaggio, cerchi gl’istrumenti adattati e prepari le circostanze favorevoli. Così avviene attualmente nelle parti tranquille delle province di Catania e di Siracusa. In quelle parti la potenza privata si fa valere con altri mezzi che avremo occasione di analizzare in seguito.

 

 

§ 56. — La classe dominante è cagione prima e fondamento dello stato della pubblica sicurezza in Palermo e dintorni.

Se lo stato morale dell’intera popolazione siciliana fosse solamente proprio di una parte della società, una autorità regolarmente costituita in condizioni ordinarie, potrebbe, pure con grandi sforzi, appoggiandosi sopra forze locali, vincere il male. Ne abbiamo un esempio in Romagna, dove la classe dei malfattori, che pure aveva imposto al senso giuridico delle classi inferiori, specialmente nei centri di popolazione, le regole che sono condizioni della sua esistenza, pure non si era insinuata nella vita delle classi abbienti ed influenti, se si tolgono alcuni individui che si appoggiavano su di essa per amore di popolarità e per sostenere la loro ambizione personale. Ma in Sicilia, nessuna classe può sfuggire agli effetti della costituzione sociale. Diremo più: come lo abbiamo già esposto, per le condizioni speciali dell’Isola, la società vi è tutta ordinata a vantaggio esclusivo della classe abbiente e delle persone che dividono con essa la preponderanza. E questa classe per le medesime cagioni, è pur essa ordinata a vantaggio di coloro che hanno in essa acquistato il predominio. Perciò, come tutte le altre forze sociali, così la violenza riesce in ultima analisi ad utile di quella classe o piuttosto di coloro che in quella classe preponderano, ed in conseguenza fa, in ultimo, capo a loro e sopra di loro si fonda. Molto più dopo che, per il sistema di governo portato nel 1860, quelle stesse persone, che prima per la forza delle cose godevano l’autorità di fatto, ora hanno ricevuto anche l’autorità legale nell’ordine giudiziario, amministrativo e politico.

Difatti, per quanto l’industria della violenza, la sola che per adesso prosperi realmente in Sicilia, abbia acquistato interessi ed in conseguenza ragioni d’essere sue proprie ed indipendenti, pure la forza che le ha permesso di porsi in questa condizione e che la fa sussistere, sta nella classe dominante. Questa, se si mettesse in animo di distruggere siffatta industria, disporrebbe di mezzi materiali e di autorità morale molto superiori al bisogno, e per schiacciare materialmente la classe facinorosa, e per distruggere il suo predominio sull’opinione pubblica per mezzo del proprio. E ciò, indipendentemente da qualunque organizzazione governativa. Nè vale opporre che le transazioni alle quali i membri della classe dominante vengono colla classe facinorosa, i danni che occasionalmente ne ricevono e i loro lamenti, sinceri nella maggior parte dei casi, sulla preponderanza da essa acquistata, provano che quest’ultima ha preso ormai la mano su di loro. Perchè coloro che predominano, se vogliono adoperare la classe facinorosa ai loro fini, devono pur permetterle di curare i suoi interessi particolari e indipendenti. Le relazioni fra la classe dominante e quella dei facinorosi, sono come qualunque altro fatto sociale, un fenomeno complesso, dove i singoli fatti sono non di rado in contraddizione apparente coll’indirizzo generale. Certamente, quelli stessi fra i membri della classe dominante che, per acquistare o mantenere l’influenza loro, sarebbero pronti perfino a dare il mandato per un omicidio, deplorano sinceramente quanto il più zelante questore, i delitti quando non sono commessi a loro vantaggio. Il loro ideale sarebbe di avere istrumenti che eseguissero le violenze per il loro servizio, e niente di più. Ma gl’istrumenti di violenza, nelle condizioni attuali, non possono esistere che come classe di facinorosi indipendente, la quale in conseguenza esercita violenza anche per conto proprio. Coloro che hanno un interesse principale ad aver pronti in caso di bisogno siffatti istrumenti, devono dunque rassegnarsi, pur lamentandolo, al danno secondario dei delitti commessi da questi per conto proprio. Questi delitti rappresentano il prezzo pagato da coloro che predominano per avere sempre a disposizione dei mezzi di violenza. Naturalmente, trovano il prezzo gravoso, e direbbero volentieri come quel giudice in una commedia di Beaumarchais ad una persona che si scandalizza perchè si vendono le cariche nella magistratura: «On ferait bien mieux de nous les donner pour rien. Farebbero meglio a regalarcele».

Noi non sappiamo se vi siano nella classe dominante in Palermo persone che partecipano direttamente ai guadagni che fa la classe dei facinorosi nell’esercizio della sua industria indipendente. Che questa classe mantenga degli agenti perfino a Roma e li mandi su e giù per i Ministeri a spiare, intrigare e intercedere, è indubitato; ma ignoriamo se questi emissari siano faccendieri di bassa sfera, oppure se siano di condizione, se non di carattere, rispettabile. Ad ogni modo, di questi non intendiamo ragionare. Il loro numero necessariamente ristretto rende la loro influenza sulla prosperità di questa classe secondarissima di fronte a quella del ceto dominante in generale. Ed è la parte di quest’ultimo nell’esistenza della industria indipendente dei malfattori, che intendiamo qui analizzare.

 

 

§ 57. — Come sia generalmente possibile in parte della Sicilia valersi dell’aiuto dei malfattori senza dar mandati per delitti.

Il vantaggio che un membro della classe dominante può trarre dall’esistenza del ceto dei malfattori è, nel massimo numero dei casi, indiretto. Ben di rado egli ha bisogno di dare un mandato per omicidio, ed anche per minaccia. Nel corso ordinario della vita, perch’egli possa impunemente imporre la sua volontà, basta la fama ch’egli è alleato colla mafia. Come la mafia è la forza più rispettata, così chi l’adopera è certo di vincere chiunque usi altri mezzi di violenza, e fra coloro che l’adoperano, è sicuro di predominare chi è unito alla frazione più temuta di essa.

Inoltre, la mafia non ha bisogno di adoperare attualmente la violenza o l’intimidazione diretta se non nel minimo numero dei casi in cui usa la sua autorità. Essa ha ormai relazioni d’interesse così molteplici e variate con tutte le parti della popolazione; sono tanto numerose le persone a lei obbligate per la riconoscenza o per la speranza dei suoi servigi, che essa ormai ha infiniti mezzi d’influire all’infuori del timore della violenza, per quanto la sua esistenza si fondi su questa. Di più, quando pure quei suoi altri mezzi non bastino, la riputazione d’efficacia e di inevitabilità delle sue vendette è stabilita talmente bene, che basta la fama ch’essa s’interessi ad un affare perchè ognuno si sottoponga in quello alle sue voglie.

Parimente, la perfetta organizzazione della classe dei facinorosi è cagione che essa possa assumere qualunque impresa per così dire, a cottimo, in modo che chiunque le dà un incarico non abbia da occuparsi dei mezzi che essa adopera per raggiungere il fine desiderato, e possa perfino ignorarli. Può benissimo darsi che sia commesso anche un assassinio nell’interesse di uno che si appoggi sulla mafia, non solo senza che questi lo sappia, ma anche quando sia uomo da riprovarlo ed impedirlo se lo sapesse. Non è che le cose avvengano sempre in questo modo. Più di un membro della classe dominante è direttamente responsabile di aver dato mandato per omicidii o per intimidazioni. Ma molti, e forse la maggior parte non hanno e probabilmente non avranno mai intenzione diretta di far commettere un assassinio; si contentano di conoscere in genere che se ne commettono, e si rassegnano a malincuore alla dura necessità che sia da altri usato siffatto mezzo per raggiungere direttamente o indirettamente i propri fini, od anche, nel risolversi ad approfittare di quella forza che trovano bell’e preparata per servirli, non si rendono ben conto dei mezzi che questa adopera, e non prevedono che saranno forse usati in loro servigio.

Ma se tutti coloro i quali proteggono la mafia non sono complici diretti dei suoi misfatti, tutti, senza eccezione, contribuiscono a porla in grado di commetterli, adoperando tutti i mezzi di cui dispongono per mantenerla in vita prospera e rigogliosa, per proteggere i malfattori e sottrarli alla giustizia. Il dar loro ricovero, il nasconderli dalle ricerche dell’autorità, il dar loro vitto, vesti, armi, sono, fra i mezzi usati, i meno efficaci, e per così dire i più negativi; molto più che questi fatti, considerati isolatamente, caso per caso, si possono in gran parte giustificare col timore di una vendetta. Ma l’alleato della mafia, protegge i malfattori, aiutandoli a fuggire se arrestati, intrigando presso la magistratura o l’autorità coi potenti mezzi di cui dispone per impedire le condanne, sollevando al bisogno la cosiddetta opinione pubblica, per mezzo dei giornali di cui dispone, contro i funzionari che li fanno arrestare, e contro il Governo che sostiene quei funzionari([104]). Certamente i rappresentanti del Governo non di rado prestano il fianco a siffatti attacchi, col non attenersi alle prescrizioni delle leggi; ma è cosa strana che quelle medesime persone le quali accolgono col silenzio, talvolta anco con l’approvazione, certe mostruose illegalità di funzionari governativi, che si distinguono difficilmente da delitti veri e propri, sollevano poi mari e monti quando qualche autorità, pure cogliendo nel segno, abbia commesso qualche violazione delle forme legali non giustificabile, ma spiegabile colla straordinaria difficoltà delle circostanze.

 

 

§ 58. — Come il predominio della violenza rechi danno alla maggioranza, e nonostante non possa da questa venire distrutto.

Certamente, dove domina la violenza, la sola minoranza ne trae maggiori vantaggi che danni; e così nella città e nell’agro palermitano, la gran massa della popolazione è sacrificata alla parte di essa che esercita il delitto; e nella classe dominante stessa, all’infuori del numero limitato di persone che si sono acquistate sul rimanente una preponderanza costante ed assoluta, e sono in relazioni continuate e regolari col principale istrumento di questa, la mafia, tutti gli altri sarebbero in una società di tipo moderno in condizioni materiali e morali molto migliori delle attuali, per quanto adesso possano dalla violenza trarre occasionalmente vantaggi. Eppure, non è prevedibile per parte di nessuna classe della Società una reazione efficace contro l’attuale forma delle relazioni sociali.

Difatti, nel volgo, il senso giuridico e il sentimento dell’onore, quali esistono, si impongono brutalmente. Le persone di quella classe, non sono in grado di imaginare uno stato sociale differente da quello in cui vivono; se capita loro addosso una prepotenza o una coltellata, ne incolperanno magari il loro santo protettore o sè stessi, per essere stati poco svelti o poco vigilanti, oppure si rassegneranno alla forza ineluttabile delle cose. Le persone più colte sono incapaci, anche quando lo desiderino, di reagire contro le forze sociali che li contornano, e di modificarle. Perchè l’organizzazione della società in mezzo alla quale vivono, s’impone a loro. Non solo riesce loro quasi impossibile, di resistere coi mezzi legali alla violenza, ma nemmeno possono sfuggire alla necessità di usarla essi stessi, almeno indirettamente. Se devono provvedere ad un loro interesse di qualche importanza, comprare o vendere terra, derrate, o altro, è ben difficile che non trovino una camorra che si sia impadronita della partita, e in mano alla quale debbano affidarsi. Ora, tutte le camorre per ultima ratio, hanno l’assassinio a protezione del loro monopolio. Se taluno esercita una industria di cui si è impadronita una camorra, il rifiuto di entrare a farne parte e di partecipare in conseguenza, almeno indirettamente, alle sue violenze, è punito colla morte([105]). Così può accadere che una persona che sarebbe disposta a grandissimi sagrifizi per far cessare il dominio della violenza, sia costretta a sostenerlo, a dargli forza e ad associarvisi. A chi entri nella gara delle ambizioni politiche o locali, rimane assolutamente impossibile sottrarsi ai contatti con persone che debbono la loro influenza al delitto. L’uomo che abbia il più grande orrore per la violenza e per il sangue, si trova presto o tardi inevitabilmente costretto a valersi di quell’influenza e di quella autorità che dà la fama di essere in buona relazione con gente potente per il timore che ispira. E dato pure che uno abbia tanta abnegazione da tenersi fuori da qualunque affare o da soffrire i soprusi in quelli indispensabili, da rinunziare a qualunque ambizione di qualsiasi genere, può giungere il momento che, aggredito e minacciato, si veda costretto a ricorrere all’opera dei violenti per proteggere la propria vita. A ricorrere alla legge non può pensare, poichè le probabilità di ricevere una schioppettata per chi faccia una denunzia sono troppo numerose perchè egli vi si esponga facilmente.

Così le circostanze esteriori s’impongono a chiunque, qualunque sia l’indole dell’animo suo. Si è perfino dato il caso di uomini che sul Continente erano ottimi carabinieri, mentre facevano parte di associazioni mafiose palermitane, e arrestavano i ladri e gli assassini, mentre ricevevano ogni giorno la loro quota dei guadagni della associazione, frutto se non di assassinii, almeno del timore di quelli. Non mancano i Palermitani, cui le condizioni di Palermo fanno orrore, e che, pur costretti ad abitarci, sono esposti a dovere, da un momento all’altro, far uso in un modo o in un altro, di quella violenza che vorrebbero sopprimere.

Nè servirebbe l’associarsi contro di essa, chè la Società è troppo perfettamente organizzata nella sua forma attuale, e la violenza si è impadronita troppo bene delle menti e degl’interessi di tutti perchè sia possibile a forze private di trovarne il punto debole per romperla e sgominarla. Un’associazione a questo scopo non avrebbe nemmeno il tempo di formarsi completamente, che già qualcuna delle persone interessate al mantenimento dell’attuale stato di cose, informata con uno degli infiniti mezzi di sorveglianza di cui dispongono, sarebbe in grado con due o tre uccisioni abilmente distribuite di incutere un salutare terrore agli aspiranti riformatori. Non parliamo poi delle calunnie, delle distruzioni di sostanze, dei libelli pubblicati nei giornali. Affinchè riescisse una tale associazione, bisognerebbe che fosse numerosa e composta tutta di persone decise a sacrificare per il loro fine le sostanze, la riputazione, la vita loro e delle famiglie. E questo è impossibile in qualunque paese del globo. Vi sono però casi di resistenza isolati; delle proteste eroiche e continuate, di cui l’ardire stesso ha salvato gli autori, tanto è certo che il loro esempio non è pericoloso, perchè nessuno lo imiterà, e difatti, fino adesso è stato ammirato, ma non seguìto.

 

 

§ 59. — Come la classe dominante sia fatalmente portata a proteggere i malfattori.

Per ciò che riguarda più specialmente la classe dominante, a queste difficoltà materiali si aggiungono le morali, più irrimediabili ancora perchè esistenti nell’animo stesso di coloro, che dovrebbero operare la reazione. Figuriamoci un uomo a cui il nome e la ricchezza permettono di aspirare ad un’alta posizione fra i suoi concittadini. Egli è giovane, ha ingegno, è ambizioso. Gli si presenta un’occasione di acquistare autorità e riputazione: saranno elezioni politiche od amministrative od altro. Un individuo che ha fama d’influente sulla popolazione viene ad offrirgli i suoi servigi; egli sa che altri si appoggiano sopra costui o su di altri simili a lui; sa che l’opinione pubblica non riprova il farlo. Ha ben sentito dire che quest’uomo ha commesso qualche omicidio, ma l’uccidere un uomo non è disonorante, talvolta anzi può esser prova di coraggio e di sentimento d’onore. Quegli omicidii stessi hanno procurato stima e riputazione al loro autore. D’altronde, egli è certo che per conto suo omicidii non ne saranno mai commessi; perchè non userebbe un istrumento simile a quelli che tutti usano? Egli ha ben sentito deplorare le condizioni di pubblica sicurezza di Palermo, le deplora egli stesso, forse ne ha avuto a soffrire nei suoi interessi, ma non percepisce ben distintamente il nesso di queste condizioni coll’atto ch’egli è per fare, ed in ciò, partecipa del resto allo stato di mente di buona parte dei suoi concittadini. Accetta il concorso offerto. Da quel momento in poi, è entrato nella gara delle rivalità e delle ambizioni: nè lui, nè altri può dire dove si fermerà nella scelta dei mezzi; l’abitudine, la passione potrà portarlo anche ad usare gli estremi. La riescita dipenderà dalla sua abilità, dalla sua energia, dalle circostanze; sarà forse di quelli, cui il predominio della violenza, tutti i conti fatti, riesce vantaggioso, ma il caso contrario è più probabile. Ad ogni modo egli è ben difficile che una volta agguantato dal vortice, voglia escirne, o, anche volendo, vi riesca. Perchè la mafia, come qualunque altra classe facinorosa, ha indole e modi di procedere tali, che difficilmente chi abbia avuto relazione con lei, può mai romperli del tutto. Rimane sempre l’addentellato di cui essa ha interesse e occasione di valersi, se non altro ad ogni nuovo arresto d’uno dei suoi membri. Ciò che abbiamo adesso descritto accade in gradi e sotto forme diverse a chiunque della classe dominante voglia approfittare della propria posizione. Parte lo fanno senza conoscere le ultime conseguenze cui vanno incontro, parte, sapendole benissimo. Taluni lo fanno per interesse personale, per esser posti a capo di qualche amministrazione, che fornisca loro guadagni leciti od illeciti; altri invece cercano autorità ed influenza per sincero amore del bene pubblico. Quasi tutti non capiscono che l’usare quei mezzi che si presentano a loro è la cagione prima dei mali che essi stessi deplorano e di cui talvolta sono i primi a soffrire. Se alcuno, superiore per ingegno, profondo conoscitore di altri paesi, lo intende, ed ha ripugnanza a contribuire ad un tale stato di cose, rimane fuori del tutto dagli affari pubblici, ed il più possibile dagli affari privati, spesso va a stabilirsi sul Continente, oppure vi passa buona parte dell’anno; oppure, se per necessità o per attività di mente non riesce a tenersi fuori dagli affari locali, si rassegna ad usar dei mezzi che gli sono imposti con una rabbia mal contenuta, che prorompe alla prima occasione in lamenti amari e spesso molto coraggiosi. Abbiamo avuto occasione di udirli più di una volta. Altri rimangono fuori dagli affari per una specie di ripugnanza istintiva per i mezzi che vedono adoperare: sono stati sul Continente, o nell’esercito, e sentono la differenza degli ambienti senza spiegarsela. Così tutti gli elementi di resistenza o si allontanano o se ne stanno neghittosi.

Ma il sentimento comune a quasi tutti della classe dominante, il quale è, se non l’appoggio, almeno la salvaguardia la più efficace per la classe facinorosa di fronte all’autorità pubblica, è quella passione di cui abbiamo così spesso parlato, di esercitare l’autorità privata, e di provare la sua potenza; passione tradizionale nell’aristocrazia specialmente; e questo fa sì che un signore richiesto della sua alta protezione non la rifiuta mai anche al più feroce assassino. Più il malfattore sarà pericoloso e conosciuto, più sarà grande il rischio che corre di essere arrestato o condannato, maggiore sarà la smania nel signore di affermare la sua potenza, proteggendolo o salvandolo anche quando non vi abbia nessun interesse materiale. Naturalmente, il malfattore così salvato diventa l’uomo del suo protettore nel senso feudale della parola; ha in certo modo ricevuto da lui in feudo la vita, e, d’allora in poi, è pronto ai suoi servizi. E colle tradizioni di violenza ancora in vigore, col piccolo valore dato alla vita dell’uomo, quel signore avrebbe una forza d’animo più che umana, se, ricevendo danno od offesa, non adoperasse per la sua vendetta l’istrumento che ha sotto la mano.

Questo spirito di alta protezione e reciprocamente di clientela che è uno dei più significativi fra i caratteri medioevali e feudali rimasti nella società siciliana, è più speciale alla città di Palermo, perchè è stato ognora ed è pure adesso il centro principale dell’aristocrazia siciliana, ed il luogo dove la sede principale del Governo ha richiamato le gare e le rivalità fra i suoi membri. Quest’ultimo fatto ci sembra pure una delle ragioni per cui le tradizioni di prepotenza e di violenza reciproca siano rimaste più vivaci nei membri della classe dominante residente in Palermo, che in quelli i quali abitavano altrove, specialmente nelle grandi città della costa orientale dell’Isola.

Ad ogni modo, e qualunque ne siano le cagioni, questi sentimenti di prepotenza e questa facilità alla violenza nella classe che è fondamento di tutte le relazioni sociali in Sicilia, fa sì che non solo essa non possa usar la forza che sola avrebbe, di distruggere l’autorità materiale e morale della classe facinorosa, e d’impedire in generale l’uso della violenza, ma ancora ch’essa sia cagione diretta per cui la pubblica sicurezza persista nelle sue condizioni attuali. La forza che deve dar la prima spinta al mutamento di queste condizioni deve dunque essere assolutamente estranea alla società siciliana, e venire di fuori: deve essere il Governo.

Ma il Governo appoggiandosi, come lo abbiamo già detto, e come avremo luogo di dimostrarlo, principalmente su quella classe dominante stessa, si trova in una posizione singolare. Da un lato il suo fine più immediato ed importante è di sopprimere la violenza; dall’altro, per i principii stessi che lo informano, si regge sulla classe dominante, e l’adopera come consigliera e in parte come istrumento nella legislazione e nella pratica di governo. Di modo che ha in mano dei mezzi che sono in contraddizione col suo fine, e conviene che rinunzi o al suo fine, o all’aiuto, e all’appoggio della classe dominante locale. Non avendo fino adesso rinunziato a questo, ha, per necessità, sacrificato quello. Quando ragioneremo delle relazioni del Governo cogli elementi locali e colla sedicente opinione pubblica siciliana, avremo occasione di esporre in particolare, le vie per mezzo delle quali l’influenza di questi elementi agisca sul modo di procedere del Governo. Ma fino da ora possiamo dire che questa influenza e la sua incompatibilità col fine immediato e principale del Governo in Palermo, col ristabilimento cioè della pubblica sicurezza, è fra le prime ragioni della fiaccona e della noncuranza di questo nella ricerca e l’applicazione dei provvedimenti contro il delitto.

Dunque, nelle presenti condizioni di fatto e coll’attuale sistema di governo che si appoggia sulla classe dominante, la cagione prima e il fondamento, non della esistenza, ma della persistenza delle condizioni di pubblica sicurezza in Palermo e dintorni, è la parte diretta ed indiretta che ha in queste condizioni la classe dominante. Oppure, se vogliamo considerare il fatto sotto un altro aspetto: nelle presenti condizioni di fatto e colla partecipazione della classe dominante alle condizioni di pubblica sicurezza in Palermo e dintorni, la cagione prima e fondamentale della persistenza di queste condizioni è il fatto che il Governo si appoggia, per reggere il paese, su questa classe dominante.

Del resto, ciò non è speciale a Palermo e dintorni, ma comune a tutta quella parte di Sicilia in cui lo stato della pubblica sicurezza, considerato al punto di vista di una società moderna, è anormale.

 

 

 

 

III.

I MALFATTORI IN PROVINCIA

 

 

§ 60. — Condizioni speciali dell’industria dei malfattori in provincia.

Il fenomeno dei predominio della violenza è nei suoi elementi essenziali, simile a Palermo e in provincia. Esso vi è ugualmente reso possibile dalle condizioni sociali già descritte. Per le ragioni storiche già esposte, l’esercizio della violenza vi è venuto in mano ad una classe indipendente di facinorosi che ha forza, mezzi di azione, ordinamento, industria ed interessi suoi propri. Questa ha acquistato il predominio coll’affermare la sua potenza con mezzi e per fini suoi propri. Ed una volta acquistata la preponderanza, reagisce a sua volta sui costumi e le condizioni sociali. L’esistenza di questo organismo indipendente e completo di per sè stesso, è assicurata contro la forza dell’autorità governativa per mezzo della protezione o della neutralità benevola della classe dominante, il cui ordinamento si appoggia su di esso. Ma la differenza fra Palermo e la provincia sta in questo: che il campo nel quale si esercita la industria indipendente dei facinorosi è nell’uno e nell’altra diverso; che in conseguenza questa classe assume in provincia caratteri diversi da quelli che ha in Palermo, e perciò la sua influenza sui costumi delle popolazioni ha effetti un poco differenti. Ed assumono pure forma diversa le relazioni che ha con essa la classe dominante.

La descrizione che adesso faremo dei fenomeni che presenta la mafia di provincia, il brigantaggio e il malandrinaggio, sarà dunque resa più facile dall’analisi già fatta, giacchè avremo solamente da esporre le cause locali che imprimono, in provincia, alla industria indipendente dei malfattori la sua forma speciale, e il modo in cui questa forma speciale reagisce sui costumi; finalmente le relazioni con questa industria della classe dominante, in quanto differiscono da quelle già trovate in Palermo.

L’impossibilità già da noi accennata([106]), di stabilire una distinzione netta fra le varie forme dell’industria dei facinorosi, ci costringe, nel descrivere le sue condizioni in provincia, a scegliere per principiare fra tutte le forme che essa industria ivi assume, la più dissimile da quelle che abbiamo viste esistere in Palermo, per poi seguire la gradazione insensibile delle modificazioni che subisce a seconda della infinita varietà delle circostanze in mezzo alle quali si esercita, fino al punto in cui si manifesta con atti identici a quelli della mafia palermitana. Principieremo dunque col brigantaggio e il malandrinaggio.

Lasceremo da parte le origini storiche di questo fenomeno. Esse hanno oramai per noi un interesse secondario dopo la descrizione già da noi fatta nel capitolo secondo, delle cagioni storiche della presente condizione sociale dell’Isola in generale. E ci partiremo dal fatto che nel 1860 esisteva, come in Palermo, così in una parte delle provincie di Sicilia, una classe di persone dedita all’industria del delitto, la quale ebbe dai fatti della rivoluzione occasione di accrescersi. Esporremo più tardi le ragioni per cui questa classe di facinorosi non esista in talune parti della Sicilia, quantunque le condizioni sociali e morali siano simili in tutta l’Isola. Per adesso non abbiamo carico di dimostrare altro, se non che questa classe di persone ha potuto dopo il 1860, come prima e meglio di prima, continuare l’esercizio della sua industria.

L’industria del malfattore in provincia si esercita principalmente per mezzo del brigantaggio e del malandrinaggio, sotto forma di grassazione, lettera di scrocco, abigeato (ossia furto di bestiame) e ricatto. Questi sono, per la natura stessa delle cose, i principali generi di speculazione, perchè da questi soli il malfattore può trarre guadagni costanti e fino a un certo punto sicuri. E ciò a cagione delle condizioni della industria e del commercio nell’interno della Sicilia. Ivi infatti gli interessi sono quasi esclusivamente agricoli. La classe della quale il malfattore è sempre certo di poter trarre guadagni è quella dei proprietari e capitalisti agricoltori. Il fondo sul quale è assicurato di poter sempre prelevare il suo profitto, è la ricchezza agricola sotto tutte le sue forme, i raccolti, gli alberi e i caseggiati rurali, dove ve ne sono, e il bestiame. Le persone sulle quali il malfattore esercita le sue speculazioni devono inevitabilmente stare in campagna o sempre, o spesso, o di quando in quando; giacchè il proprietario o il fittaiuolo deve pur sorvegliare le colture, devono pure i suoi impiegati risiedere sui fondi a loro affidati. La campagna è dunque sede principale della industria dei malfattori provinciali.

Non mancano del tutto, è vero, a questi anche altre materie sulle quali esercitare il loro mestiere, giacchè gl’interessi agricoli per essere principalissimi nell’interno dell’Isola pure non sono i soli; ma gli altri sono troppo poco numerosi e poco considerevoli per dare occasioni a guadagni continuati, e ne parleremo dopo. Oltre alle cagioni adesso descritte, favoriscono l’industria dei malfattori in campagna anche le condizioni topografiche. Il piccolo numero delle case rurali, il terreno nudo d’alberi, leggermente ondulato, permettono al malfattore di sorvegliare uno spazio estesissimo e di riconoscere da lontano così la forza pubblica dall’uniforme, come le persone ch’egli intende assalire, mentre non l’impediscono di nascondersi al bisogno dietro una piega di terreno. D’altra parte, non avendo egli stesso nulla che lo distingua dal pacifico cittadino in un paese dove niuna persona agiata gira la campagna senza schioppo, il vedere da lontano gli giova, l’esser visto non gli nuoce.

In mezzo a queste circostanze di fatto, che del resto non hanno nulla di esclusivamente siciliano, ed anche nella stessa Isola si presentano pure in altre parti, dove la sicurezza pubblica è perfetta, operano i loro effetti quelle condizioni che in una parte della Sicilia favoriscono l’industria dei malfattori. Ci rimane da descrivere sotto quali forme si manifestino, in siffatte circostanze, gli effetti di queste condizioni. E fra queste forme analizzeremo per la prima quella del brigantaggio come la più completa e la più perfetta. Il malandrinaggio verrà dopo.

 

 

§ 61. — I Briganti.

Il brigantaggio si distingue dalle altre forme dell’industria del malfattore in questo, che una banda di briganti ha un’organizzazione fissa, colla sua gerarchia di gradi espressamente definita, colla sua disciplina. Si compone di persone dedite alla professione del delitto violento in campagna ad esclusione di qualunque professione regolare anche apparente, insomma, tengono la campagna, per così dire ufficialmente. Ciò non toglie che ad una comitiva brigantesca non si aggiungano occasionalmente membri temporanei. Ma il nucleo della banda nelle circostanze ordinarie, si compone sempre delle medesime persone.

Il numero dei componenti una banda brigantesca, la necessità in cui sono di girar la campagna per lo più uniti, crea per loro dei bisogni, delle difficoltà e dei pericoli maggiori che quelli dei malandrini, i quali stanno isolati o si uniscono fra di loro o coi briganti solo occasionalmente. E non basta a togliere siffatti inconvenienti il sistema che hanno le bande di disperdersi momentaneamente il più spesso possibile. Ma d’altra parte, la salda organizzazione di ciascuna comitiva, le dà una potenza materiale e in conseguenza un’autorità morale, che fa molto più che compensare i sopraddetti inconvenienti, come apparirà da ciò che stiamo per dire del modo in cui esercitano la loro industria e delle loro relazioni colla popolazione.

Quando uno abbia stabilito la sua reputazione di uomo temibile con qualche delitto in cui abbia dato prova di coraggio o crudeltà; quando abbia acquistato sopra alcuni malfattori abbastanza autorità perchè si sottopongano alla sua direzione, e disponga di qualche intelligenza nella popolazione, ha tutti gli elementi della terribile potenza del capo-brigante: sta nelle sue qualità personali l’acquistarla, e acquistatala, il mantenerla. L’aver sotto di sè dei compagni, gli dà modo di essere informato di ciò che si fa e si dice, di far conoscere le sue intenzioni e di fare eseguire i suoi ordini e le sue vendette in più luoghi nel medesimo tempo, come pure di unire insieme i suoi uomini senza ritardi per le imprese difficili e pericolose. Se egli è capace di mantenere colla sua autorità personale la disciplina nella sua banda, se la sua mente e il suo carattere sono all’altezza della sua posizione, i potenti mezzi di cui dispone, lo pongono in grado di acquistare in breve tempo quella riputazione di onnipotenza e di invincibilità colle quali la sua autorità morale si stabilisce al punto di non aver rivali di nessun genere negli animi della popolazione. Dell’autorità e della forza pubblica non ha bisogno di preoccuparsi, perchè quando fra quelle e sè ha messo la popolazione, il pericolo che vien da loro è tanto remoto che quasi non esiste.

Il suo principale scopo deve essere di apparire sempre il più forte. E per questo, deve usare un finissimo tatto nella scelta degli alleati, dei neutri, dei nemici; trovar modo di essere sempre e prontamente informato di ogni atto, di ogni parola ostile e trarne vendetta pronta, crudelissima; colpire dieci innocenti pur di non lasciar sfuggire un colpevole. Deve, nel misurare e nel distribuire le offese disinteressare il più possibile chiunque si senta tanto potente o sia tanto ardito da non temere di vendicarsi. Deve per quanto sia possibile appoggiarsi sulla classe infima. Questa parte della politica brigantesca, è tanto importante per la prosperità dell’industria, che è diventata tradizionale, e fra i briganti e nella popolazione. La leggenda del brigante benefico passa di generazione in generazione, e non v’ha capo banda di vaglia che non colga qualche occasione di dotare una ragazza povera, o di pagare il debito a un contadino, o di rimproverare pubblicamente un suo sottoposto per aver svaligiato un povero mulattiere, e condannarlo alla restituzione. Ciò non l’impedirà di mangiarsi al bisogno egli e i compagni le capre o il maiale, unica fortuna di un pover’uomo, senza pagarli. Fu denunziato alla truppa il nascondiglio di una banda di briganti per vendetta di un fatto simile; ma il capo-brigante evita per quanto è possibile di farlo, e la cosa gli riesce facile, giacchè per poco egli abbia riputazione, le masserie dei grandi proprietari gli sono sempre aperte. Ad ogni modo, il brigante ha bisogno che si possa raccontar di lui qualche atto generoso, per dare al sentimento che ispira alla popolazione quel colorito superficiale consacrato dalla tradizione.

A misura che egli stabilisce la sua riputazione di onniscienza e di onnipotenza, quel sentimento che viene prodotto in Sicilia da ogni uomo che sappia farsi rispettare colla forza, ma che ha il suo tipo più perfetto in quello ispirato dal brigante, cresce e si conferma senza contrasto possibile. Imperocchè egli può sorvegliare ogni atto, ogni parola, quasi ogni pensiero di ciascuno; la rapidità e l’efficacia delle sue vendette non lascia il tempo di dare il benchè minimo principio ad un accordo per reagire. Per tal modo il pensiero della resistenza non ha nemmeno il tempo di nascere e non si affaccia nemmeno alle menti. Rimane negli animi l’impressione che la forza del brigante è ineluttabile al pari di quelle della natura. Ed è pur troppo un fenomeno costante della mente umana che, per essa, la forza ineluttabile per quanto dannosa e iniqua secondo le idee generalmente ricevute sulle relazioni fra gli uomini, è legittima ed in conseguenza è riconosciuta e rispettata spontaneamente. Tale è il fondamento del sentimento che il brigante ispira, e di cui cercammo di descrivere gli effetti nel capitolo primo. Sono accessorii gli altri elementi come le generosità intermittenti di cui parlavamo or ora, gli atti cavallereschi, intermittenti però anch’essi, come la fedeltà alla parola data, il rispetto a chi faccia prova di arditezza ec., ec.

Nè bisogna credere che malgrado i numerosi atti che contraddicono a queste azioni generose, i briganti le facciano sempre per calcolo. Spesso vi sono spinti senza ragionare da una specie d’istinto di conservazione. Inoltre, quel sentimento generale di cui abbiamo testè ragionato, che ha la sua origine nel rispetto della forza, ed assume la forma di simpatia per il tipo brigantesco leggendario, s’impone, per una specie di contagione morale comunissima, ai briganti stessi. Sono uomini fatti come gli altri e, come quello scultore che si prosternava davanti alla statua di Giove appena datogli l’ultimo colpo di scalpello, essi credono in sè stessi come crede in loro il rimanente della popolazione di ogni classe.

Per un fenomeno analogo, quel colorito di simpatia che assume il sentimento del contadino pel brigante, e che nel contadino è giustificato dalla vista della propria miseria e della ricchezza del padrone e, fino ad un certo punto, dalle intermittenti generosità brigantesche, quel colorito, dico, si comunica anche al sentimento che prova il signore, per quanto in questo non abbia niuna ragione di essere. Il fondamento però è sempre l’impressione della forza ineluttabile del brigante, la quale s’impone a tutte le menti senza distinzione. Già parlammo nel primo capitolo del modo in cui in Sicilia, si sente generalmente parlare dei briganti. Del resto, quelli fra i nostri lettori che abbiano avuto occasione di parlare sul Continente con Siciliani della classe colta, saranno stati probabilmente colpiti del tuono di simpatica indulgenza, e talvolta di ammirazione, colla quale molti fra loro ne discorrono. Alcuni ne parlano in tal modo per interesse personale, perchè traggono guadagni diretti dal brigantaggio, ed hanno interesse che la opinion pubblica non si sollevi al punto di spingere il Governo a misure energiche. Molti lo fanno anche per amor proprio e patriottismo locale. Ma quasi tutti, abbiano essi o no altri moventi, lo fanno sinceramente, perchè dominati da quel sentimento di cui stiamo parlando. Quel proprietario che, richiesto per lettera dai briganti, di formaggi e di denari glie ne portava egli stesso il doppio del domandato, era sinceramente persuaso di fare un’azione bella e generosa, ed avrebbe creduto disonorarsi denunciandoli. E quei briganti agivano probabilmente, non per calcolo, ma per sentimento spontaneo quando, colpiti dall’arditezza e dalla generosità dell’atto, rifiutavano ogni cosa, anche ciò che avevano chiesto ed accettavano solamente alcuni formaggi, per mostrare che gradivano la cortesia. Nè si può dire che quel sentimento che i briganti ispirano spesso anche a coloro che li odiano, sia la simpatia ispirata da caratteri generosi perfino nei nemici. Non è mai stato considerato come atto generoso, od eroico, che noi sappiamo, il vendicarsi di un supposto denunciatore, uccidendo non solo lui, ma la madre e la sorella, e promettendo di uccidere anche i bambini alla prima occasione. Eppure questo fece nel 1876 a San Mauro il Rinaldi che, dopo la morte del brigante Valvo, era considerato in Sicilia come il rappresentante il più perfetto del tipo brigantesco. Il fondamento del sentimento ispirato dai briganti qualunque forma esso assuma, è, non potremmo ripeterlo troppo, il rispetto della forza, nel quale entra naturalmente come elemento principalissimo il timore. Tant’è vero che, quando sia stata dalla pubblica forza sgominata una banda, uccisi o presi i capi e i membri principali più temuti personalmente, i semplici gregari sbandati si vedono spesso rifiutare asilo e vitto perfino dai contadini.

Spiegata in tal modo, l’inaudita potenza dei briganti non ha più nulla che sorprenda; ed è naturale che un capo banda, nel territorio dove predomina, sia la sola autorità riconosciuta, faccia le parti e adempia gli uffici di un Governo regolarmente costituito. Invero, se da un lato riscuote una parte dei prodotti sotto forma di tasse più o meno regolari, dall’altro riserva questo diritto a sè solo, punisce qualunque attentato di un malandrino minore, non autorizzato da lui, con un’energia ed un’efficacia che non sarebbe mai raggiunta da un Governo costituito; e così, mantiene sotto la sua autorità un ordine pubblico relativo, più saldo di ogni altro, perchè fondato sulla forza effettiva.

Le sue relazioni colle persone dalle quali esige tasse, sono regolari e pacifiche quanto e più di quelle di un esattore delle imposte. Quando vuole oggetti o denari, li manda a chiedere all’uno od all’altro proprietario, spesso colle forme le più cortesi, ed il proprietario con forme non meno cortesi ottempera al suo desiderio. Egli per lo più non deve ricorrere per ottenere ciò che gli fa bisogno, nemmeno ad una mezza minaccia. Il brigantaggio si risolve dunque per i proprietari, nelle circostanze ordinarie, ad una tassa, piuttosto grave, ma fino a un certo punto regolare. I furti ingenti di bestiame, i ricatti clamorosi, sono, relativamente alle condizioni della pubblica sicurezza, piuttosto rari, quantunque possa sembrare a persone di altri paesi che si seguano con una rapidità spaventevole. Essi avvengono solamente quando i briganti siano in un bisogno straordinario, o abbiano a vendicarsi di qualche torto più o meno grave contro un proprietario, o quando si presenti un’occasione molto favorevole. Veramente, occasione favorevole è talvolta semplicemente la gran ricchezza del proprietario da ricattare. Per operare siffatti sequestri, si sono viste perfino delle alleanze temporanee fra le principali comitive brigantesche di Sicilia.

 

 

§ 62. — I malandrini.

I malandrini si possono dividere in tre categorie: quelli già ricercati dalla giustizia, e latitanti; quelli solamente sospetti e sorvegliati dalla polizia, finalmente quelli occulti, che menano vita regolare, e non sono nemmanco sospettati dall’autorità. A qualunque di queste tre specie appartengano, l’esercizio dell’industria, è per loro sotto certi rispetti più arduo, sotto certi altri più facile che per i briganti veri e propri. Difatti, per il latitante isolato, il nascondersi, lo sfuggire alle ricerche, il trovar ricovero e mezzi di sussistenza è molto più facile che per una comitiva di persone. Perciò è meno pericoloso per lui che per i briganti l’aver qualche nemico nella popolazione infima. Difatti, si ode di mulattieri e di povera gente svaligiata da malandrini molto più spesso che da briganti. Per il malandrino che, sorvegliato o no dalla polizia, mena vita apparentemente regolare in paese, non esiste la quistione di trovar ricovero sicuro e vitto nelle circostanze ordinarie. Ma d’altra parte il malandrino isolato non gode dei vantaggi che si assicurano vicendevolmente colla loro unità di azione il capo brigante e i suoi uomini; non ha l’autorità di questo sulla popolazione, nè i suoi mezzi per agire con prontezza ed energia. Ma questi danni sono compensati da vantaggi: se i mezzi d’informazione del capo brigante sono più estesi, quelli del malandrino sono più minuti. Salvo casi eccezionali, come quello del Rinaldi, un capo brigante non ha relazioni continuate colla popolazione di un centro abitato, come le hanno generalmente i malandrini isolati, che sono in grado di essere per tal modo informati più minutamente e più prontamente di ogni minimo accidente che li possa interessare. Ma ciò che contribuisce soprattutto alla potenza dei malandrini, è la loro stretta unione.

Non staremo qui a ripetere il già detto sulla forma che le relazioni fra malfattori assumono spontaneamente in Sicilia. Osserveremo solamente che quelle fra i malandrini di provincia differiscono da quelle fra i malfattori di Palermo in questo, che mentre le speculazioni principali di quelli di Palermo, sono d’indole tale da generare spesso opposizioni d’interesse fra di essi, la grassazione, il ricatto e le altre speculazioni principali dei malandrini di provincia essendo invece scopo a sè stesse e mirando al vantaggio esclusivo dei malfattori come tali, non possono implicare opposizione d’interesse fra loro, e perciò rendono quasi sempre possibile la loro stretta unione non solo nel difendersi dall’autorità, ma anche nel compiere le singole operazioni. Le relazioni fra i malandrini di provincia di fronte a quelle fra i malfattori palermitani segnano dunque un passo nell’insensibile gradazione di sfumature che finisce per giungere all’associazione di malfattori nel senso dell’articolo 427 del Codice penale, e talvolta, portandolo le circostanze, ne assumono i caratteri veri e propri. Ad ogni modo, lasciando ora da parte i casi frequentissimi di unione fra più malandrini per una o più imprese particolari, l’unione fra quelli di ciascun vicinato fa sì che siano strettamente legati fra loro quando si tratti degli interessi della professione non solo contro i poteri costituiti, ma anche di fronte al pubblico in generale, e che tutti assumano le vendette di ognuno nell’interesse del mantenimento dell’autorità della intera classe sulle popolazioni. E le occasioni di eseguire tali vendette non mancano mai anche senza essere cercate, in un paese dove quasi ogni persona agiata deve di quando in quando girar la campagna per i suoi interessi. Non sapremmo citare in tal proposito fatto più caratteristico di quello già raccontato, di quei proprietari obbligati a fare ammenda onorevole presso la mafia di un paese per aver liberato colla forza un loro fratello sequestrato dai malandrini. La persona presa di mira dal malandrinaggio potrà scamparla una ed anche più volte con una difesa coraggiosa. Ma messasi una volta in guerra con lui è necessariamente vinta, a meno che mangi, beva, dorma, giri in campagna e in città in mezzo ad uno stretto cerchio di guardie armate e sicure, e badi a non passar pei luoghi dove si possa tirargli una schioppettata e poi avere il tempo di fuggire. Ciò spiega in parte, come un uomo solo con uno schioppo in una strada, faccia così spesso, metter faccia a terra anche a sette od otto persone; se pure questo fatto ha bisogno di spiegazione all’infuori di quella del contagio della paura e della demoralizzazione.

 

 

§ 63. — Speculazioni dei briganti e malandrini.

Con siffatti mezzi diversi nei particolari, uguali nelle caratteristiche fondamentali, i briganti e i malandrini assicurano la loro autorità sulle popolazioni, e per mezzo di questa, i loro mezzi di esistenza e le loro difese contro le ricerche della forza pubblica. Questa autorità dà agio ad essi di operare le loro speculazioni. I modi che tengono gli uni e gli altri sono, per la maggior parte di queste, simili. La lettera di scrocco, la grassazione, il sequestro di persona, l’assassinio puro e semplice si eseguiscono coi medesimi mezzi e nei medesimi modi da una banda di briganti, da due o più malandrini uniti momentaneamente in comitiva, e dal malandrino isolato. Tutti preparano il colpo dietro le informazioni avute, e per mezzo delle intelligenze che mantengono in paese, e si valgono talvolta di queste anche per compierli.

Nei generi di speculazione adesso enumerati i briganti e i malandrini sono ugualmente in grado di non usare gli estranei che come complici molto secondari e principalmente per averne informazioni. Non è che spesso estranei non prendano una parte molto più importante ed all’esecuzione ed ai guadagni di siffatte operazioni; avremo luogo di parlarne fra poco. Ma tale loro partecipazione per l’indole stessa dell’operazione non è necessaria. Non così per l’abigeato. Le circostanze nelle quali si opera mettono il brigante in condizioni diverse da quelle del semplice malandrino. Il capo brigante, per il numero delle sue relazioni in varie provincie dell’Isola, può facilmente allontanare il bestiame rubato dal suo luogo d’origine, magari trattare con qualche commerciante in un porto di mare per farlo esportare. La sua autorità personale lo mette in grado d’imporre a qualche gran proprietario che lo riceva in deposito nelle sue tenute in mezzo ai suoi armenti. Potrà anche, se vorrà, trovare chi lo prenda a soccida. I gregari della banda si valgono del prestigio della loro qualità di brigante per rubare animali per conto proprio, e per trattare la restituzione mediante un compenso in denari. Il malandrino invece, quando non sia di quelli più temuti e che partecipano piuttosto della natura del brigante, non ha generalmente relazioni seguite all’infuori di una cerchia di territorio relativamente ristretta. Non può sempre far conto sull’aiuto dei colleghi per un interesse secondario come quello del furto di qualche capo di bestiame. In conseguenza, s’egli non ha occasione di venderlo, appena rubato, in qualche mercato o fiera, o se non si trova in circostanze specialmente favorevoli per farsi pagare la restituzione dal proprietario, egli è costretto a consegnare gli animali rubati a qualche proprietario o mercante di bestiame, che sia in grado di nasconderlo nei suoi fondi o di trasportarlo lontano, o di commerciarlo, o di adoperarlo nella coltura. L’indispensabile necessità del concorso di siffatte persone per la riuscita dell’abigeato commesso da un malandrino ordinario, fa sì che queste sono in grado di esigere una grande, se non la maggior porzione del provento dell’operazione. Difatti la parte principale in un gran numero di furti di bestiame è tenuta da proprietari o da mercanti che spesso non sono solamente soci nell’operazione, ma committenti e accomandanti.

 

 

§ 64. — La mafia nelle province.

Ma se le speculazioni fin qui enumerate sono le principali dei malfattori in provincia, non sono le sole. Non mancano anche in provincia occasioni di guadagno analoghe a quelle che sono gli oggetti principali dell’industria del malfattore in Palermo e dintorni, e per cagione di questa analogia sono generalmente qualificate per atti di mafia. Nel medesimo modo anche ai malfattori in Palermo e nei dintorni non mancano occasioni di commettere atti di malandrinaggio vero e proprio, come grassazioni, lettere di scrocco, talvolta anche ricatti. Solamente a Palermo come in provincia, i generi di speculazione secondari non essendo sufficenti ad assicurare guadagni continuati, non impiegano generalmente un personale a parte, ma sono occupazioni accessorie di quei malfattori, dei quali abbiamo descritto le caratteristiche principali. Essi in conseguenza traggono la loro forza e la loro autorità dall’esercizio delle speculazioni principali, adoperano poi questa loro forza nell’esercizio delle secondarie. Perciò, il malfattore di provincia, che eseguisce operazioni simili a quelle che fanno l’oggetto principale dell’industria dei facinorosi palermitani, avrà nonostante tutti i caratteri del malandrino; mentre viceversa il mafioso di Palermo e dintorni, anche quando compie atti di malandrinaggio, conserva le sue caratteristiche. Le varietà nell’industria dei malfattori in Sicilia, non si devono dunque, a nostro avviso, distinguere a seconda delle varie speculazioni, colle quali siffatta industria si pratica, bensì, a seconda della qualità delle persone che l’esercitano. E questa qualità stessa è determinata dalle varie circostanze locali, in mezzo alle quali queste persone la esercitano: da un lato, quelle di Palermo e dintorni, o di taluni altri centri di popolazione, in quanto le loro condizioni si ravvicinano a quelle di Palermo, e dall’altro, quelle delle province.

Molto più, l’industria del brigantaggio ha a Palermo uno dei suoi principali centri d’informazione e di azione. A Palermo stessa si combinano molte delle operazioni di brigantaggio da commettersi nell’interno. A Palermo viene a finire buona parte del provento di queste. Insomma uno dei centri del manutengolismo vero e proprio, spontaneo e socio nei guadagni dell’industria, è Palermo. La cosa si spiega facilmente dall’esser questa città soggiorno per buona parte dell’anno di molti importanti proprietari delle terre percorse e dominate dai briganti, centro considerevole di affari e di ricchezze, finalmente sede d’importanti amministrazioni civili, giudiziarie e militari, sui procedimenti e intenzioni delle quali i malfattori hanno necessità di essere minutamente informati, e colle quali hanno continuamente bisogno di avere mezzi di contatto e d’influenza. Queste intime relazioni con Palermo non tolgono però all’industria dei malfattori di provincia i suoi caratteri speciali, nel medesimo modo che una società per la costruzione di ferrovie, o l’escavazione di miniere nell’America Centrale può avere la sede principale della sua amministrazione e dei suoi interessi pecuniari a Londra, senza diventare perciò una società bancaria o commerciale.

L’essere generalmente invalso l’erroneo criterio delle varie specie di speculazioni, per distinguere le varie specie dell’industria facinorosa, si spiega facilmente. Fra i diversi modi nei quali si esercita l’industria dei facinorosi in Sicilia, quelli che hanno prima e più d’ogni altro colpito le menti di chi riflette, parla e scrive dentro e fuori dell’Isola, sono da un lato il brigantaggio e il malandrinaggio, dall’altro i fatti che avvengono a Palermo. Di modo che, da una parte fu dato, e a buon diritto, il nome di brigantaggio e malandrinaggio agli atti simili a quelli che sul Continente erano designati con questi nomi. E dall’altra parte, invalsa nell’uso comune (sempre indeterminato e inesatto) la parola mafia (nel suo significato volgare ed improprio) per designare genericamente gli atti di qualunque specie coi quali si esercita l’industria dei facinorosi in Palermo e dintorni, venne naturalmente fatto di applicare il medesimo nome a quelle speculazioni dei facinorosi in provincia, che avevano una somiglianza formale con quelle di Palermo. La similitudine del nome genera naturalmente nelle menti l’idea della similitudine della cosa, e così accade che a prima vista nasca nella mente, se non il pensiero, almeno l’impressione che in provincia le speculazioni analoghe a quelle che costituiscono l’oggetto e il guadagno principale dei malfattori di Palermo, e per la loro natura e per le persone che praticano, siano una cosa distinta dal brigantaggio e dal malandrinaggio, e si confondano con l’industria della mafia palermitana, mentre è vero precisamente il contrario.

Posta la distinzione fra i facinorosi della città e dell’agro palermitano da un lato, e quelli di provincia dall’altro, senza pretendere di trarre fra le due categorie una linea di demarcazione che non esiste, se ricerchiamo una caratteristica costante che le distingua, troviamo la seguente cui già accennammo. In provincia l’unione fra i malfattori di un territorio per i loro fini immediati esiste quasi sempre, a Palermo no. Le rivalità e le lotte che talvolta avvengono fra bande brigantesche, sono fatti accidentali, che non mutano nulla ai caratteri generali, giacchè nella popolazione dei malfattori, il brigante è l’eccezione, e il malandrino la compone quasi esclusivamente. La necessità già dimostrata di questa unione nei fini immediati per i malandrini fa sì che, anche quando si adoperano nelle relazioni fra le persone estranee alla loro classe, i malandrini di un dato territorio, si mantengono quasi sempre uniti. Il che è, del resto, reso loro molto facile come lo esporremo or ora per l’indole delle relazioni sociali nella maggior parte dei paesi di provincia, dove non esiste gran varietà d’interessi di forza uguale, ma predomina l’interesse di uno, di due, o tutt’al più di tre gruppi di persone.

Questa differenza tra Palermo e le province, insignificante a prima vista, genera una diversità importantissima nei costumi dell’una e delle altre. Difatti, a Palermo, come già lo osservammo, il solo interesse comune che leghi insieme i facinorosi in modo costante, è la conservazione della loro classe come tale, in altri termini la sicurezza nell’esercizio della violenza, qualunque sia il fine al quale è diretta, contro le forze intese a sopprimerla in genere. Le regole di condotta prevalse nella classe dei facinorosi e da loro imposte materialmente o moralmente al rimanente della popolazione, sono quelle che per la natura delle cose hanno efficacia per tutelare l’esercizio della violenza, e, come tutte le altre che hanno carattere sociale, fanno astrazione dagli interessi momentanei ed immediati degli individui, anzi, sono spesso in contraddizione con quelli. Laonde il codice dell’omertà, in Palermo, non ammette eccezioni, e ne soffre nel fatto poche. In provincia invece, l’interesse della classe violenta s’identifica e si confonde con quello di determinate persone. In conseguenza l’interesse, la cui forza predomina, ed il quale per ciò si impone materialmente e moralmente a tutta la popolazione, è quello di determinati individui, che hanno fra di loro interessi comuni, oppure sono divisi in due, o tutt’al più, in tre campi avversarii. Chi adopera la violenza per reagire contro coloro che predominano, se riesce ad avanzarli di forza, piglia il loro posto, se rimane più debole, è vinto e distrutto. Chi adopera le sole leggi, rimane inevitabilmente più debole e ugualmente distrutto, e, se vien dai vincitori dichiarato infame, è per un di più. In conseguenza, ognuno, nella lotta, può usare a suo piacere, in aiuto alla violenza anche le leggi, senza rischio di dar di cozzo contro l’ostacolo fisso ed immutabile della consuetudine e dell’opinione pubblica. Perchè non vi sono altri violenti per reclamare e sancire a nome di un interesse di classe l’applicazione del codice dell’omertà, all’infuori dei componenti e aderenti del partito contrario. Il quale, se sarà più forte, potrà anche darsi il lusso di dichiarare i vinti infami, ma, in fin dei conti non farà che una sola vendetta e per le loro violenze, e per le loro insidie legali; e se sarà vinto, non avrà alcuna influenza sull’opinione pubblica. Sicchè il codice dell’omertà non è sicuro di essere rispettato che nei casi, non molto frequenti, di lotte fra malfattori di mestiere. Non abbiamo ormai bisogno di spiegare il perchè.

In conseguenza, nelle province, le regole dell’omertà, non si sono imposte all’opinione pubblica che in quanto giovano ai più forti; valgono a favore di questi, non contro di loro. Lo prova il fatto molto caratteristico già da noi citato, non di una denuncia, ma di una calunnia giudiziaria commessa dal vero colpevole, uomo temuto, a danno di un meschino impiegato del macinato, colla complicità del silenzio di un’intera popolazione. Lo prova anche meglio l’andamento dell’istruzione del processo cui diede luogo quell’omicidio. Finchè l’istruzione rimase in mano del pretore locale, per la fiaccona o per la poca autorità di questo, o per altre cagioni, gli indizi e le prove si accumulavano addosso all’innocente. Appena l’autorità superiore, avvisata, si mise in moto, mandò sul luogo il sotto-prefetto, il procuratore del re fece sentire che anch’essa era forte, sorsero per incanto le testimonianze a carico del vero colpevole. Del resto senza citar casi tanto estremi, accadono ogni giorno fatti, i quali provano che in provincia, il codice dell’omertà non ha fatto presa sull’animo delle popolazioni nel grado medesimo che a Palermo, e che soffre numerose eccezioni. I ladruncoli che non sono stati ancora buoni ad uccidere uno, sono dai proprietarii denunciati all’autorità, mentre o un brigante, o un malandrino temuto, può, meno rare eccezioni, uccidere chi gli pare senza pericolo di denunzia, neppure per parte dei prossimi parenti della vittima. L’unica volta, crediamo in cui contro il famoso brigante Angiolo Pugliese sia stato, innanzi al suo arresto, presentato lamento all’autorità, fu prima che egli si fosse dato all’esercizio del brigantaggio in Sicilia. E fu portato lamento per la detenzione di un cavallo prestatogli dal proprietario stesso, e che egli, nella sua confessione dichiara non avere avuto intenzione di rubare([107]). Va pure citato il fatto seguente: due partiti si combattevano in un Comune. Un membro dell’uno fu ucciso, per opera dei capi del partito opposto, credettero i congiunti della vittima; i quali da una parte tentarono di fare uccidere alcuni di quel partito, dall’altra porsero querela contro i suoi caporioni accusandoli di mandato per omicidio. E ciò senza scandalizzare punto l’opinion pubblica.

Fra le infinite forme colle quali si esercita in provincia la mafia, parleremo di una sola, di quella cioè che è caratteristica delle condizioni delle campagne siciliane, dove fiorisce l’industria dei malfattori. Vogliamo parlare della protezione delle proprietà e fino a un certo punto anche delle persone, che del resto si esercita da essi anche in Palermo, ma più nelle campagne dell’interno dell’Isola.

In un paese dove la classe dei malfattori ha l’importanza che ha in Sicilia, e dove l’autorità pubblica non ha o non usa forza sufficiente per distruggerla, bisogna pure che si trovi un modus vivendi fra essi ed i privati. Il quale, del resto, giova agli uni come agli altri; perchè se i malfattori usassero fino all’estremo la loro facoltà distruttiva, mancherebbe loro ben presto la materia rubabile. Essi sono in grado d’intenderlo, perchè la loro industria, stabile e regolare da tanti anni, ha tesori di esperienza e di tradizioni, e permette a coloro che la praticano di capire in quali condizioni possa sussistere e prosperare. È dunque invalso un sistema di transazioni e quasi diremmo di tassazioni regolari per parte dei malfattori, il quale pur lasciando luogo a molti disordini, nonostante è più tollerabile che uno stato di guerra aperta e continua. Una delle forme principali di queste transazioni è l’accollo preso dai malfattori stessi della protezione delle cose e delle persone. Già accennammo il modo con cui i capi briganti potenti fanno a proprio profitto le parti di un governo regolare. Ma tal sistema è eccezionale, come è eccezionale nell’industria dei malfattori la forma del brigantaggio. Più generalmente, alcuni fra i malfattori assumon ufficialmente le funzioni di guardiani della sicurezza delle cose e delle persone non solo dai privati, ma anche dai Comuni e perfino dal Governo. Limitandoci per adesso a parlare dei primi; senza ritornare qui sul già detto intorno all’importanza del campiere facinoroso nell’economia agraria siciliana([108]), osserveremo solamente che ciò che fa di questi campieri una istituzione caratteristica ed attissima a dare un’idea netta delle condizioni siciliane, è il fatto che sono in provincia uno dei principali fra gl’infiniti modi delle relazioni continue fra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche. Cercheremo adesso di analizzare codeste relazioni.

 

 

§ 65. — Relazioni fra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione.

Molte delle cose dette su questo argomento a proposito di Palermo, si possono applicare anche alla provincia. Ma rimangono da aggiungere molti particolari determinati dalla differenza delle circostanze, e che sono atti a dare un’idea sempre più chiara delle condizioni sociali e morali di Sicilia. Già accennammo([109]) come sia impossibile ritrarre dalla semplice osservazione delle relazioni fra cittadini e malfattori, le cagioni dell’impotenza di quelli contro questi. Ci lusinghiamo che l’analisi ormai fatta delle condizioni sociali dell’Isola avrà dato modo al lettore di spiegarsi quali sieno queste ragioni. Quell’analisi medesima ci permette adesso di ragionare con vera cognizione di causa di queste relazioni, e di renderci chiaramente conto del fenomeno del manutengolismo esercitato dalle classi abbienti.

Colui che volesse giudicare il manutengolismo siciliano ed apprezzarne la moralità od immoralità coi criteri ammessi nei paesi dell’Europa centrale, generalmente considerati come in istato normale, si ingolferebbe in una confusione inestricabile di equivoci, dove la sua mente si perderebbe inevitabilmente, e finirebbe o coll’abbandonare la questione come insolubile, o col portare un giudizio parziale ed avventato. In Sicilia, la distinzione fra il manutengolismo moralmente scusabile perchè imposto dal timore di un danno grave, e quello moralmente condannabile perchè provocato dal desiderio di avvantaggiarsene, non ha significato. Tenga in mente il lettore che si tratta qui di un paese dove il criterio del diritto è la forza, dove per circostanze speciali, una classe di malfattori è venuta in possesso di una forza considerevole, e dove in conseguenza le azioni dei malfattori non sono considerate come delitti dal senso giuridico dell’universale, come già cercammo di dimostrarlo, e come lo prova specialmente il già descritto sentimento ispirato dai facinorosi alle popolazioni. Le condizioni di fatto che hanno prodotto nei Siciliani questo modo di sentire il diritto, sussistono ancora, e per tal modo uno dei principali mezzi di promuovere od anche di tutelare i propri interessi materiali e morali (parliamo qui di una porzione della Sicilia) è la forza, cioè i malfattori. Da ciò resulta che, negli animi dei cittadini non è legato il concetto d’immoralità coll’atto di valersi di quelli. Manifestamente, in una siffatta condizione degli animi e delle cose, l’usare i malfattori piuttosto per difendere che per avvantaggiare i propri interessi potrà dipendere da una infinità di cause secondarie, come il carattere più o meno intraprendente di una persona o da circostanze indipendenti dalla volontà umana, o dalle occasioni. Ben più, l’essere amici o nemici dei malfattori potrà dipendere, da una questione avuta con loro per caso, da un malinteso, da un calcolo di tornaconto più o meno falso, ma non da una diversità di concetto sul valore morale della violenza in generale e degli atti dei malfattori in particolare. Tutte le specie di relazioni coi malfattori sono moralmente lecite in modo uguale. Insomma le condizioni di fatto della Sicilia non permettono l’esistenza di un criterio per distinguere il manutengolismo lecito, perchè forzato.

Non è che le teorie giuridiche importate da altri paesi non abbiano colpito le menti di molte persone, e che queste non abbiano accettato il concetto dell’immoralità e dei malfattori. Ma, nelle condizioni attuali, l’opera dei malfattori è così inestricabilmente mescolata colle relazioni sociali, che queste persone non hanno scelta che fra accettar quella o rinunziare a queste. Ed allorquando, (il che accade nella quasi totalità dei casi), non vogliono o non possono scegliere la seconda delle alternative, il concetto dell’immoralità della violenza e dei malfattori rimanendo per loro una teoria contraddetta ad ogni momento dalla pratica della vita, finisce per perdere il suo significato, e rimanere solamente una frase che intendono genericamente e in modo vago, ma senza legame alcuno coll’indirizzo delle loro azioni.

Nè può essere altrimenti, giacchè, data la potenza e l’autorità che hanno adesso i malfattori, chi è con loro in relazioni anche necessarie non può nelle circostanze ordinarie, per quanto abbia tutto un catechismo in testa, provare per essi quella ripulsione dalla quale è nell’animo umano costituito il sentimento dell’immoralità di una persona o di una cosa. Perchè, se uno di cui riconosciamo la forza superiore ci risparmia un danno che potrebbe farci, il sentimento che naturalmente proviamo per lui, è la gratitudine e in conseguenza la simpatia, e non ci viene in testa di pensare ch’egli ha semplicemente fatto il suo dovere. Parimente, se ci vien risparmiato un danno che nulla impediva ci fosse fatto, in che differisce il sentimento che proviamo, da quello che proveremmo se ci fosse addirittura recato un vantaggio? La distinzione fra il danno evitato e il vantaggio recato è fino ad un certo punto artificiale. È giustificatissima quando, prevedendo una gran massa di fatti, si dividano questi all’ingrosso in due categorie. Prendendo i casi estremi, la differenza fra il danno evitato e il vantaggio recato non lascia dubbio nella mente, ma la linea che li divide è impossibile a determinarsi, o piuttosto non esiste nel sentimento umano. Da tutto ciò risulta che in un proprietario delle province di Sicilia infestate dai malfattori, il quale viva della vita ordinaria, non può nascere sentimento di antipatia per i malfattori, meno il caso di gravi danni od insulti ricevuti, e che ancor quando egli voglia sottoporre la sua condotta ad una regola per così dire, meccanica, e transigere coi malfattori solamente per evitare danni, e non per acquistar vantaggi, egli non è in grado di stabilire fra l’una e l’altra cosa una linea di demarcazione nella sua mente. Inoltre, dove i malfattori intervengono e dominano gran parte delle relazioni sociali, quella distinzione fra danno evitato e vantaggio recato che non esiste nelle menti, neppure esiste nel fatto, e d’altronde, l’atto medesimo che salva dall’inimicizia dei malfattori, può recare la loro amicizia con tutti i vantaggi che ci sono inerenti, senza che a procurarli intervenga il fatto di nessuno. Citeremo degli esempi a chiarire o confortare le nostre asserzioni.

Se un brigante temuto, già stato campiere, rispetta i beni del suo antico padrone mosso da un sentimento di deferenza, naturale sopratutto in Sicilia, non si potrà certamente imputare a delitto al proprietario se si lascia rispettare, se approfitta della libertà di girare sicuro gratuitamente le campagne. Ma se questa amicizia gli procura il rispetto altrui, che colpa ne ha esso? Potrassi nemmeno rimproverargli, se tollera, senza trarne guadagno, che quel brigante ricoveri nei suoi fondi il bestiame rubato? Opponendosi, non otterrebbe nulla e se ne farebbe un nemico. E se pure in fondo in fondo quel proprietario provasse un sentimento di gratitudine per quel brigante che potrebbe nuocergli senza pericolo, anzi con suo guadagno, e non lo fa, un tale sentimento nelle circostanze in cui si trova la Sicilia, non solo sarebbe naturale ma anche segno di un’anima ben nata. Chi potrà dire il punto dove i proprietarii finiscono di favorire il malfattore per timore della sua inimicizia e principiano a farlo nella speranza di trar vantaggio dall’amicizia sua? Nessuno, e nemmeno i proprietari stessi. Una volta ottenuta la loro sicurezza con questa preziosa amicizia, è naturale, che presentandosi l’occasione di valersene e compensarsi per tal modo, delle gravi spese che è loro costata, ne approfittino. Trovano la forza bell’e pronta a loro disposizione, come potrebbero non usarne? Molto più che, giova ripeterlo, l’usarne, in Sicilia non è ritenuto disonorante.

I proprietari sono costretti a favorire i briganti non solo in modo negativo fornendo loro ricovero e mezzi di sussistenza, ma talvolta anche positivo, dando armi ed anche informazioni utili al successo delle loro imprese. Taluno diventato per siffatta via amico loro per non averli nemici, otterrà, dall’influenza in tal modo acquistata, guadagni indiretti d’ogni specie. Diremo più. Quelle persone che, impadronitesi di un Comune, arruolano nelle guardie campestri i facinorosi dei dintorni, certamente acquistano con ciò grandissima autorità morale. Inoltre hanno i loro fondi ben guardati mentre sono saccheggiati quelli di chiunque altro. Ma d’altra parte è probabilissimo, per non dire certo, che se quei malfattori fossero stati lasciati a sè stessi, avrebbero fatto i danni medesimi che fanno adesso, più quelli che risparmiano a chi l’impiega.

Malgrado tutto ciò, in molti Siciliani l’impressione delle teorie giuridiche di altri paesi, rinnovata ogni giorno dalla lettura di giornali, talvolta anche di libri, rimane abbastanza profonda; e senza portarli a fare una distinzione impossibile fra manutengolismo forzato o no, pure è cagione che vi sia in loro una tendenza a non adoperare i malfattori senza necessità o almeno a non trarre guadagno pecuniario diretto dalle relazioni con essi combinando insieme con loro atti di brigantaggio e dividendone il provento. Ciò non impedisce certamente ad essi di usare quel mezzo, spesso solo valevole a profitto delle loro ambizioni, dei loro odii ed anche negli affari d’indole economica. E le occasioni di usarlo sono tanto più frequenti, che, per la quasi assoluta mancanza d’industria e di commercio, il solo campo aperto all’attività o al desiderio di guadagni è quello delle gare locali da un lato, e dall’altro, degli accolli di lavori ed altre speculazioni simili, dove la riescita consiste nell’allontanare i concorrenti, al quale scopo l’intimidazione e in conseguenza l’alleanza dei malfattori è mezzo efficacissimo.

Del resto, la ripugnanza ad adoperare i malfattori cresce in proporzione dell’impressione ricevuta dalle teorie giuridiche di fuori, o semplicemente dal sentimento acquistato nel praticare in altri paesi ed in altri ambienti. Vi sono perfino taluni, che per aver soggiornato molto all’estero, e studiato nei libri o servito nell’esercito, provano ripugnanza tale per il genere delle relazioni sociali siciliane che, quando sono in grado di farlo, rimangono sistematicamente fuori di tutto il giro degli affari pubblici e privati, od anche vanno a stabilirsi sul Continente, o per lo meno vi stanno buona parte dell’anno. Peraltro quelle persone stesse contribuiscono indirettamente all’ordine di cose esistente per mezzo delle loro proprietà che sono in mano di fattori o di fittaiuoli, gente simile alla generalità della popolazione.

Ma sono pur molte in Sicilia le persone, sulle quali le teorie giuridiche del Continente non hanno fatto punto presa, e per le quali non esiste distinzione alcuna fra l’approfittare dei malfattori direttamente o indirettamente, a vantaggio della propria ambizione o del proprio patrimonio. Il provento di molti ricatti e di molte grassazioni finisce in gran parte nelle tasche di siffatte persone.

A qualunque di queste categorie appartengano i Siciliani che hanno relazione coi malfattori, è impossibile apprezzare queste relazioni coi criteri morali in vigore in altri paesi. Qualunque popolo nelle medesime circostanze farebbe lo stesso. Queste relazioni dureranno e non si potranno considerare come condannabili al punto di vista della morale astratta finchè durerà la forza dei malfattori.

D’altra parte però i malfattori continueranno ad essere i più forti e si potranno difficilmente distruggere finchè dureranno le relazioni fra loro e i cittadini. Siamo in un circolo vizioso. Se non che abbiamo parlato fino adesso dell’imputabilità del manutengolismo ai Siciliani dal punto di vista della morale astratta, non dell’utilità che può trovare lo Stato italiano a distruggere la potenza dei malfattori siciliani. L’una cosa non ha nulla che fare coll’altra, e quando lo Stato giudichi importare all’interesse pubblico di sopprimere i facinorosi, e per giungere a ciò d’impedire gli atti che ne favoriscono l’esistenza, potrà definire, per quanto la confusione dei fatti lo permette, quegli atti, e sottoporli a sanzione penale. Ma questa è quistione di tornaconto politico, non ha nulla che fare coll’apprezzamento della moralità di un individuo o di una popolazione. Certamente, una sanzione penale regolarmente ed efficacemente applicata, contribuisce potentemente a modificare il senso giuridico di una popolazione, soprattutto in quei luoghi, dove il senso giuridico è solito uniformarsi alla forza. Ma dato che il manutengolismo siciliano si possa nel fatto colpire con sanzioni penali, quando si fosse realmente modificato per mezzo di un codice criminale il senso giuridico di quelle popolazioni, non bisognerebbe pretendere di averle moralizzate. Si sarebbe solamente sostituita la forza di un codice a quella dei prepotenti e dei malfattori, e il senso giuridico della popolazione si sarebbe uniformato alla volontà di quello, nel medesimo modo e per le medesime ragioni che adesso si uniforma alla volontà di questi. Il caso, o, ad ogni modo, circostanze indipendenti dalla volontà della popolazione, avrebbero fatto sì che le regole imposte da quel codice fossero conformi a taluni principii qualificati per morali da taluni popoli, che ritengono sè stessi per civili, ma nulla più.

 

 

§ 66. — Come il Governo non possa usare l’opera dei Siciliani per distruggere i malfattori in Sicilia.

Da tutto ciò risulta che, se lo Stato italiano giudica opportuno di distruggere la forza dei malfattori e della violenza dove predominano in Sicilia, e sostituirvi quella delle sue leggi, la prima condizione per riescire è di non usare l’opera degli abitanti nel ricercare e combattere gli attuali malfattori, se non in quanto possono essere istrumenti ciecamente ubbidienti; e di non seguire i loro consigli intorno alla scelta dei provvedimenti atti ad impedire i malfattori di ripullulare una volta distrutti.

Difatti, lasciando da parte le classi inferiori e limitandoci a ragionare di quella abbiente, non si può chiedere l’opera di coloro che per ottener guadagno o per evitar danni sono in relazione coi malfattori, poichè queste relazioni stesse, ne abbiano essi o no coscenza, sono il primo ostacolo alla distruzione di quelli, ed impediscono soprattutto qualunque unione che si volesse far nascere fra i cittadini contro i facinorosi. Nè manco si possono sperare da questa categoria di persone buoni consigli intorno ai provvedimenti generali e stabili atti a mantener l’ordine; perchè, quantunque molte di esse siano tali da dare il loro avviso col fine sincero di raggiungere l’oggetto proposto, pure non possono conoscere i rimedi opportuni, essendo incapaci di sottrarre le loro menti all’influenza dello stato sociale che le assorbe per tutti i lati.

Riguardo a coloro che, ripugnanti dalle condizioni Siciliane si tengono fuori dal giro degli affari e delle ambizioni, l’opera loro poco può giovare, perchè, rinunziando ad usare le vie comuni, hanno rinunziato alla influenza ed in genere ai mezzi di azione. E son pochi tra essi coloro dei cui consigli si può far profitto, perchè, quantunque provino un sentimento negativo di ripulsione per l’attuale stato del loro paese, pur ben pochi hanno dottrina ed ingegno sufficente per rendersi conto di ciò che dovrebbesi sostituire a questo per rimediarvi.

Rimangono coloro che sono per caso in lotta coi malfattori. Sul loro aiuto per perseguitare questi non si può far conto per cagione dell’impotenza già tante volte accennata, dei privati contro i malfattori. In quanto ai loro consigli, già dicemmo che per il massimo numero di essi l’essere in lotta coi malfattori è quistione, per così dire, di caso fortuito, e non è segno che vi sia differenza alcuna fra il loro stato di mente e d’animo, e quello degli alleati più fedeli dei facinorosi. Saranno pronti ad unirsi coll’autorità pubblica, a suggerirle rimedi, anzi a chiederglieli. Ma saranno quei rimedi soli che le loro menti siano atte a concepire. Insomma, chiedono forza brutale in loro servizio, e nulla più. Ora l’esperienza dimostra che se il Governo non vuol subire esso stesso il contagio delle condizioni dell’Isola invece di guarirlo, se non vuol diventare in Sicilia una mafia di più, esso non può ricorrere per governarla ad altra forza che a quella propria degli Stati d’indole moderna: Una legge comune a tutti e uguale per tutti. Per ciò, esso non può valersi in Sicilia dei suggerimenti nè dell’appoggio morale dei più acerbi nemici della classe facinorosa. Questi non provano quel sentimento sociale, il quale è cagione che si chieda alla autorità pubblica non solo di salvarci da’ danni immediati, ma d’impiegare salvandoci modi tali, che ci assicurino che essa non potrà mai in nessun caso anche lontano, usare a nostro danno quella forza che adesso adopera a nostro vantaggio. Insomma, non provano il bisogno delle garanzie che sono fondamento di quelle forme legali, cui nelle società moderne si sottopone la forza sociale, anche nelle sue manifestazioni violente. Aspettano dal Governo quel medesimo aiuto che altri aspetta dalla banda brigantesca o dalla mafia, colla quale è amico. Quel che sentono dire di altri paesi, influisce certamente sulla loro mente e ha modificato le loro idee in questo senso, che vedono esser vantaggioso che l’ordine pubblico sia mantenuto, e i suoi interessi protetti dalla forza del Governo, piuttostochè dalla tale o tal’altra forza privata; ma non ne capiscono il perchè, nè concepiscono come la forza sociale debba procedere con criteri differenti da quella privata, e tener conto non di un interesse solo ma di tutti, anche a costo che quel singolo interesse non riceva tutta la soddisfazione alla quale avrebbe diritto. Nulla può dare idea della sorpresa o del disinganno che cagiona il sentire persone della classe relativamente colta, della classe che ha in mano il governo del paese, la cui opinione esercita influenza sul Governo centrale, le quali, dopo aver promesso la tanto cercata e tanto desiderata soluzione del problema della pubblica sicurezza siciliana, vengono fuori con proposte d’arbitrii, e nient’altro che arbitrii puri e semplici senza regola nè misura, senza nemmeno la garanzia, nelle persone cui siano affidati, dell’intelligenza e dell’onestà, del sentimento del diritto e dell’interesse generale. Avremo più tardi luogo di studiare la quistione se sia mai ammissibile per parte dell’autorità pubblica in Sicilia l’agire senza assoggettarsi alle forme legali. Certo è che quando pure si possa ammettere l’arbitrio in via transitoria, straordinaria ed eccezionale, questo dovrebbe esser circondato da garanzie, soprattutto informato nel suo esercizio ai criterii di quegli interessi sociali dei quali la generalità dei proprietari colti, specialmente dell’interno della Sicilia non sospetta neppure l’esistenza. Intendasi bene che qui parliamo della generalità, non della totalità dei proprietari siciliani. Le eccezioni sono numerose, ma non abbastanza perchè il carattere generale nel modo di sentire della classe alta e media in Sicilia non sia quale lo abbiamo descritto. Insomma, la società in Sicilia è in quello stadio stesso nel quale era in Firenze quando le sentenze del podestà o del gonfaloniere di giustizia contro quei grandi che avessero commesso delitti erano eseguite popolarmente colla distruzione delle loro case. Con questa differenza però, che in Sicilia non esiste quel Popolo, il quale non era altro che la classe media, industriale e commerciante, la classe che aveva interesse al mantenimento di quell’ordine pubblico relativo che comportavano i tempi, per modo che dalle sentenze del podestà o del gonfaloniere di giustizia, veniva tutelato il suo interesse, come nel suo interesse e per la sua volontà era stato creato l’ufficio del podestà stesso.

Da tutto ciò che precede risulta quanto abbiano torto così quelli che dicono i Siciliani tutti complici e manutengoli volonterosi dei malfattori, come pure quelli che li dichiarano tutti vittime innocenti. Risulta soprattutto quanto sia senza fondamento il giudicare il popolo siciliano più immorale di altri. Non esiste fatto alcuno che dia diritto di affermare che nella popolazione dell’Isola siano in proporzione diversa che altrove quegli elementi psicologici che in una società di tipo moderno spingono gli uomini a quegli atti i quali, secondo i criterii di siffatta società, si qualificano per buoni o per cattivi. Solamente, i medesimi elementi psicologici, producono nelle diverse condizioni di società, atti diversi. La radice dell’errore, sta nel non intender questo. Si mutino prima in Sicilia le condizioni sociali, si assimilino a quelle delle società che si prendono per tipo quando si giudica la Sicilia, si sostituisca insomma la forza della Legge alla forza privata, ed allora solamente si avrà il diritto di chiedere ai Siciliani di contribuire all’ordine pubblico, e di chiamarli immorali se non lo fanno. Ma finchè una forza estranea all’Isola non le avrà fatto subire siffatta trasformazione, il volere che in una Società medioevale prevalgano gli stessi criteri dell’ordine e del disordine, del giusto e dell’ingiusto che in una Società moderna, è inammissibile; la esigenza è ingiustificabile e il giudizio assurdo.

D’altra parte non è meno ingiusto il chiedere alle forze esistenti in una Società medioevale, che esse in Sicilia operino su di sè stesse in un breve giro di tempo quelle trasformazioni che nel rimanente d’Europa hanno richiesto parecchi secoli. La forza che trasformi in poco tempo le condizioni della Sicilia per la pubblica sicurezza come per il resto, deve dunque venire di fuori, cioè dal Governo. Dunque, fintantochè il Governo si appoggerà sugli elementi locali e s’ispirerà da loro per stabilire l’ordine pubblico in quelle parti dell’Isola dove manca, l’opera sua sarà miseramente inefficace, se pure non sarà nociva.

 

 

 

 

IV.

I RIMEDI

 

 

§ 67. — Come si presenti in Sicilia il problema del ristabilimento della sicurezza pubblica.

Fino adesso, nell’analizzare e nel misurare le forze che contribuiscono alle attuali condizioni della pubblica sicurezza in una parte della Sicilia, abbiamo sempre considerata la forza dell’autorità pubblica come uguale se non a zero, almeno ad una quantità infinitamente piccola. Quali sono le cagioni che riducono questa forza a siffatte proporzioni? In qual modo agiscono queste cagioni? Avremo luogo nel capitolo quinto di esporre per quali vie influisca sulla scelta dei provvedimenti riguardanti la pubblica sicurezza in Sicilia e sulla loro applicazione, il fatto che il Governo si appoggia sugli elementi locali e s’ispira da loro. Potremo però fin d’adesso, facendo astrazione da siffatta influenza, analizzare questi provvedimenti quali sono attualmente, e i modi in cui sono attualmente applicati, e cercare in quali parti si adattino alle condizioni della Sicilia e in quali no, e così tentar di scuoprire le cagioni della loro inefficacia. I fatti descritti nel primo capitolo di questo lavoro ci renderanno il còmpito più breve e più facile.

Se si vuole considerare isolatamente la questione amministrativa del ristabilimento dell’ordine pubblico in Sicilia, astrazione fatta dalle condizioni sociali che sono prima cagione delle attuali condizioni della pubblica sicurezza; in altri termini, se si vuole studiare separatamente l’ordinamento della polizia e della giustizia in relazione colle attuali condizioni di pubblica sicurezza di una parte dell’Isola, il problema è determinato da ciò che abbiamo detto finora, e si presenta nei seguenti termini, cioè: Trovare i modi coi quali il Governo italiano possa giungere a prevenire per quanto sia possibile i reati, e quando siano commessi, a scuoprirne gli autori, arrestarli, e procurare che siano condannati e posti nell’impossibilità di nuocere ancora, in un paese dove i delitti sono facili e frequentissimi e non sollevano contro di sè lo sdegno dell’universale; dove i delinquenti potentemente organizzati godono una grande autorità sull’opinione pubblica, ed hanno quasi sempre nella classe media o superiore della Società una o più persone direttamente o indirettamente interessate a sottrarli alla giustizia; dove l’azione dell’autorità pubblica è stata sempre miseramente inefficace, e questa inefficacia è stata cagione che il predominio morale dei delinquenti sia rimasto intero, assoluto e indiscusso, e che coloro stessi fra i cittadini che hanno interesse alla scoperta dei delinquenti abbiano ragione di temerli e li temano al punto di contravvenire alle leggi e d’incorrere piuttosto nelle pene dalla legge minacciate che nella vendetta dei delinquenti stessi; per modo che l’autorità, da un lato non può far conto alcuno sulle informazioni e l’aiuto dei cittadini contro i delinquenti, dall’altro è esposta senza riparo ad essere nelle sue ricerche tratta sopra una falsa via da chi ha interesse ad ingannarla.

Di fronte ad un tale stato di cose, l’esperienza di quindici anni ha ridotto il Governo italiano a un brutto bivio. Perchè da una parte, quando si è conformato alle forme che impongono le legislazioni moderne per la ricerca, l’arresto e la condanna dei delinquenti, ha ottenuto così pochi frutti, che rimasto come prima impotente, e non avendo acquistato autorità morale, ha mantenuto l’onnipotenza dei delinquenti e confermato nello spirito pubblico l’impressione che questi siano la sola autorità veramente costituita. Per modo che gli effetti reagendo sulle cagioni e viceversa, si mantiene un circolo vizioso infrangibile. Dall’altro lato, allorquando il Governo ha soppresso o nelle leggi o nella pratica la garanzia delle forme sopraccennate, esso è sempre o quasi, caduto in mano ad uno degli interessi locali, ne è diventato l’istrumento, e così, non solo non ha impedito i delitti ma se ne è reso complice. Ora, la questione sta nel sapere se tale riescita dell’uno o dell’altro dei due sistemi era inevitabile, oppure se è stata cagionata dai modi tenuti dal Governo per metterli in pratica. Noi cercheremo di chiarirla adesso, studiando l’amministrazione della pubblica sicurezza e della giustizia in Sicilia, e nelle sue istituzioni, e nel modo in cui queste sono state applicate. Tratteremo prima della polizia, poi della giustizia.

 

 

§ 68. — La Polizia.

L’autorità pubblica si trova in Sicilia per la ricerca e l’arresto dei delinquenti, in condizioni molto diverse da quelle dei paesi dove l’ordine pubblico (come è inteso nelle Società moderne), è in stato normale. Difatti, nell’alta Italia per esempio, o in Francia o in altro paese in condizioni analoghe, l’autore di un delitto è conosciuto da un numero di persone ristrettissimo relativamente alla popolazione totale del luogo dove il delitto fu commesso; e la generalità degli abitanti prova un sentimento ostile per il delitto ed il suo autore. Sicchè, per quanto l’indolenza e il timore li renda restii a ricercarlo ed arrestarlo spontaneamente, pure non rifiuteranno nei casi ordinari le informazioni ed anche la loro cooperazione all’autorità pubblica. In Sicilia invece, o almeno in quella parte dove sono comuni i reati, i particolari di ogni delitto, il delinquente, il luogo dove si nasconde, sono noti a quasi tutta la popolazione del vicinato. Ma d’altra parte la popolazione in generale non è disposta ad aiutare l’autorità nè direttamente, nè indirettamente, sicchè rimane libero il campo a coloro che hanno interesse a porla sopra una falsa via. Di più, il numero dei delinquenti per mestiere fra i quali è probabile si trovi l’autore di un delitto, è grandissimo in Sicilia, ristretto nei paesi considerati come in istato normale, sicchè il sorvegliare continuamente i facinorosi noti come tali, può in questi giovare alla scoperta dei colpevoli, in Sicilia molto meno.

D’altra parte, lo stato della viabilità dell’Isola pone la forza pubblica in una condizione speciale di fronte ad una specie importantissima di delitti; quelli cioè che si commettono contro i viandanti. Perchè nei paesi dove la rete stradale è completa o quasi, le occasioni di commettere siffatti reati, si presentano ben di rado fuori delle strade ruotabili, e, come il numero di queste è necessariamente limitato, un sistema ben combinato di perlustrazione permette non solo di prevenirli o di scuoprir presto le tracce dei loro autori, ma anche di sorvegliare le campagne vicine alle strade e render più difficili i delitti contro le persone che attendono alla coltura dei loro fondi. In Sicilia invece i sentieri sono molto più numerosi di quello che sarebbero le strade ruotabili di cui tengono il posto, e possono essere fra un luogo ed un altro quattro o cinque, lontani fra loro, ed ugualmente battuti. Il farli perlustrare tutti diventa dunque difficilissimo, senza parlare della maggior difficoltà di sorvegliare un sentiero che una strada maestra. La sorveglianza materiale delle campagne siciliane non sarebbe realmente efficace che quando si potessero disporre per tutta l’Isola a scacchiera ed a portata di voce gli uni dagli altri, dei pelottoni di truppa ognuno abbastanza numeroso per poter reggere almeno per un momento all’assalto improvviso di una banda di malfattori.

Da tutto ciò risulta che le difficoltà e gli ostacoli per la prevenzione dei delitti, e per la scoperta dei loro autori, sono in Sicilia d’indole diversa che nei paesi considerati come in istato normale; ed in conseguenza, che i modi usati per superarli, sperimentati buoni altrove, possono rimanere in Sicilia inefficaci. Inoltre, possono verificarsi molto più gravi in Sicilia quei loro difetti che altrove sono apparsi leggeri.

Ed invero, se da un lato, la sorveglianza materiale delle campagne ha un’importanza molto più secondaria in Sicilia che altrove, e quella dei facinorosi abituali vi è molto più difficile e meno efficace, dall’altro lato, per ciò che riguarda la scoperta dell’autore di un delitto, la difficoltà in altri paesi sta nel trovare chi conosca fatti che possano giovare alle ricerche; in Sicilia invece la difficoltà sta nel trovare chi parli. Il generale silenzio giunge al punto, che difficilmente e tardi pervenga all’autorità la notizia del semplice fatto di un delitto commesso, mentre altrove il clamore pubblico ne sparge rapidamente la fama.

Di modo che, se rimane pure ufficio importantissimo dei rappresentanti l’autorità il ricercare, dopo ricevuta la notizia di un delitto, le tracce del colpevole, è però molto più essenziale che essi siano in contatto talmente intimo e continuo con ogni classe della popolazione, da poter sempre, anche quando non sia in corso alcuna inquisizione, anche quando le ricerche non siano dirette a nessun fine speciale, approfittare di tutte le occasioni di ricevere rivelazioni, di scuoprire indizi di qualunque genere. Quando un segreto è conosciuto da una intera popolazione, basta usare una certa vigilanza per esser certi di sorprendere in un luogo od in un altro qualche gesto, qualche parola sfuggita che dia mezzo di scoprirlo. Inoltre, l’amore del lucro, o della vendetta od altri infiniti interessi possono non di rado esser tanto forti, da vincere nell’animo di qualche abitante quel sentimento di ripugnanza per far rivelazioni all’autorità, sentimento che come risulta dall’analisi da noi fatta delle condizioni della pubblica sicurezza([110]), è molto meno assoluto che non si creda generalmente, e dipende, più che da ogni altra cagione, dalla riconosciuta impotenza dell’autorità di fronte ai malfattori e dalla potenza di questi, e sparirebbe insieme con questa potenza. Diremo più: l’essere poche le denunzie non dimostra che non sia in molti il desiderio di farne. Anzi, per parte nostra siamo convinti che questo desiderio esiste in molti, e produrrebbe effetti senza il timore delle vendette e della riprovazione di quella specie di opinione pubblica che già analizzammo. Spetta all’autorità l’agire con prudenza e discretezza tali, che il sentimento del timore di una vendetta immediata non faccia tacere chi sarebbe disposto a denunziare. Però le denuncie continueranno ad essere rare come adesso, se l’autorità continua ad aspettarle invece di andarle a cercare.

Se non che un contatto intimo e continuo de’ funzionarii governativi colla popolazione, è reso difficilissimo dalla ripugnanza di questa ad entrare in relazioni d’indole amichevole con essi, specialmente se non sono Siciliani, e se sono impiegati di polizia. Ripugnanza che ha la sua origine nel medesimo fatto che impedisce le denuncie, cioè nella prevalenza morale dei malfattori. Questo sentimento è molto meno universale che non si creda generalmente, ma ha ormai preso la forma di tradizione, s’impone a coloro che spontaneamente non lo proverebbero, ed allontana spesso dai rappresentanti del Governo quelle persone stesse che sarebbero disposte a far rivelazioni, e non le possono fare perchè manca loro l’occasione di comunicare coll’autorità senza eccitare sospetti.

Inoltre, il trar profitto da siffatte rivelazioni è reso molto arduo dalla facilità che hanno i delinquenti di conoscere dove siano dirette le ricerche dell’autorità e di sottrarre a queste le tracce del delitto e di sè stessi appena possano lontanamente sospettarle; facilità dovuta alla complicità stessa dell’intera popolazione. Ciò rende necessaria all’autorità la massima segretezza, rapidità ed energia nell’agire in seguito alle informazioni. Il che implica unità nella direzione e nell’azione.

Il primo provvedimento che una siffatta condizione di cose suggerisce alla mente, è di affidare così la direzione come l’esecuzione in tutto ciò che riguarda la polizia a persone dei luoghi, come più atte di ogni altra a conoscere gl’individui e le località ed a trovar modo di mantenersi in relazioni intime e continue colla popolazione. Ma quelle medesime ragioni che in ogni paese rendono pericoloso l’uso degli elementi locali nella polizia, valgono anche per la Sicilia. Anzi in Sicilia questi pericoli sono molto maggiori che altrove per cagione di quello stato delle cose e degli animi, il quale fa sì che la complicità coi delinquenti, o positiva o negativa, o ultronea o forzata, sia generale. Il partecipare dei funzionari siciliani alla generale condizione morale, e i loro precedenti legami di parentela, amicizia, interesse od altro col rimanente della popolazione possono produrre e producono in moltissimi casi, mali di più d’una specie. La pressione morale dell’ambiente può esser tale da impedirgli di agire energicamente contro i malfattori temuti e in conseguenza simpatici alla popolazione. È probabilissimo il caso che abbiano legami personali coi malfattori, la cosa non deve sorprendere, trattandosi di un paese dove tutti ne hanno: ed allora non solo non li perseguiteranno, ma facilmente daranno loro aiuto. Le loro relazioni colle persone influenti del luogo possono far sì che non solo non ricerchino i delitti fatti nell’interesse di quelli, ma ancora impieghino i poteri che dà loro la Legge a servizio delle loro prepotenze, in modo che in taluni casi gli assassinii o i sequestri di persona per parte dei malfattori, a vantaggio di qualche alto mafioso, si rimpiazzino vantaggiosamente cogli arresti arbitrari per parte degli agenti dell’autorità. Meno sarà stretta la loro disciplina, la loro sorveglianza per parte di autorità che non siano del paese, e più saranno facili ad accadere siffatti inconvenienti. Finalmente, quand’anche si riescisse ad evitarli tutti, rimarrebbe sempre quella mancanza del sentimento della legge e delle garanzie legali, uguali per tutti, che già dicemmo essere a nostro avviso comune alla grandissima maggioranza dei Siciliani. E certamente, un ufficio nell’amministrazione della pubblica sicurezza non è molto atto a far nascere siffatto sentimento negli animi dove non esiste. Quando la polizia in Sicilia fosse in mano di funzionari siciliani, fossero pure onesti, animati del massimo zelo per il bene pubblico, gli arbitrii non troverebbero limite. Non abbiamo bisogno di tornare a dimostrare come siano infiniti e maggiori che in qualunque altro paese i danni che un sistema seguitato di arbitrii cagiona in Sicilia. Lasciamo pure da parte il rischio quasi inevitabile, che nelle attuali condizioni dell’Isola, mancando le garanzie fornite dalle forme legali, la forza pubblica diventi istrumento esclusivo di un interesse locale; pur troppo anche le forme legali, già lo dicemmo, spesso non bastano a schivarlo; questo danno per quanto grande, sarebbe secondario di fronte a quest’altro: che usando un tal sistema, quand’anche si riescisse ad impadronirsi di qualche malfattore, ci si allontana sempre più dallo scopo finale, da quello cioè di ristabilire la pubblica sicurezza durevolmente. E ciò, perchè si mantengono gli animi dell’universale in quelle condizioni stesse che adesso fanno continuamente ripullulare e prosperare i malfattori. Difatti, in un paese dove il criterio del diritto è la forza, e dove a questa si vuol sostituire quegli altri criteri del diritto sui quali si reggono le Società moderne, il modo più diretto e più pronto di riescirvi, è di dare a quelli, che sono diritti, secondo i criterii che si vogliono far prevalere negli animi, la sanzione costante della forza. Potendo disporre di questa, la quistione sta nel constatare quali siano i diritti, a chi spettino, e chi li offenda. Nessun uomo possedendo l’onniscienza, l’infallibilità e l’impeccabilità, non si può affidare all’arbitrio di un uomo lo scoprire questi diritti e il sancirli. L’unico modo che si sia fino adesso scoperto per trovarli colla minor possibile probabilità di errori, è l’osservanza di talune forme, le quali, in conseguenza, sono state sancite per mezzo di leggi. Devono dunque avere la sanzione costante della forza materiale i diritti e le rispettive infrazioni constatati per mezzo di codeste forme legali, se si vuole che negli animi dei Siciliani prevalga a poco a poco il sentimento del diritto come è inteso nelle Società moderne. Se si trattasse di ottenere un risultato passeggero, di sopprimere, per esempio, un certo numero di persone componenti attualmente la classe dei malfattori, sarebbe ammissibile il ricercare se non potrebbe convenire l’uso dell’arbitrio; tratteremo in altro luogo questa quistione. Però, trattandosi non solamente di sopprimere gli attuali malfattori, ma di procurare uno stato di cose tale da impedire che i nuovi, i quali venissero su, trovino le circostanze che hanno favorito quelli di adesso, l’usare l’arbitrio come sistema di governo e di repressione è inefficace e dannoso. Tale sistema può, è vero, secondo il modo in cui si adopera, talvolta impedire talune fra le manifestazioni del male, come accadde quando il Maniscalco dirigeva la polizia; talvolta invece esacerbarlo nelle sue radici e in tutti i suoi fenomeni, come accadde sotto la prefettura militare; potrebbe forse in circostanze eccezionalmente favorevoli sopprimere per un istante tutte le manifestazioni del male, ma il male stesso rimarrebbe quello di prima, quando pure non peggiorasse. Nell’animo delle popolazioni rimarrebbe il sentimento che il diritto è costituito dalla forza materiale senz’altro criterio che la volontà, l’interesse o il capriccio del più forte, sia questo un privato o un rappresentante del Governo. Non crediamo occorra tornare a dimostrarlo dopo tutto ciò che abbiamo detto fino adesso intorno alla sicurezza pubblica in Sicilia.

Dunque, gli elementi locali potranno bensì con profitto essere usati per ottenere informazioni, indizi diretti o indiretti, ma sono fra i meno adattati ad essere adoperati in ogni altro ufficio superiore od inferiore, attinente alla ricerca e all’arresto dei malfattori, a meno che siano sottoposti ad una rigidissima sorveglianza e disciplina che permetta di trar partito dei loro vantaggi, e di rendere inefficaci i loro difetti. Oppure, a meno che siano di quei pochi intelligentissimi, onesti ed energici che, avendo avuto occasione di conoscere le cose del Continente, hanno da quella loro esperienza tratto profitto tale, da sottrarsi del tutto all’influenza delle persone e dei sentimenti dell’Isola. Questi sono istrumenti preziosissimi, superiori a qualunque altro. Siffatti uomini esistono, ma sono ben pochi.

Converrebbe adunque che la gran maggioranza, se non la totalità delle persone impiegate alla ricerca e all’arresto dei delinquenti fossero estranee all’Isola, e converrebbe trovare all’infuori dell’impiego di funzionari isolani qualche altro mezzo per ottenere il contatto continuo dei rappresentanti dell’autorità colle popolazioni, o per lo meno, scuoprire un altro mezzo che conduca al fine che si vuol raggiungere con questo contatto, quello cioè di essere in grado di sorprendere in ogni classe della popolazione i discorsi od altri indizi atti a far rintracciare i delitti e i delinquenti. Per ciò che riguarda il contatto coi cittadini, se la diffidenza per l’autorità impedisce che nasca spontaneamente una gran cordialità di relazioni abituali fra essa e loro, pure non è per l’origine sua tale da impedire ad un funzionario che abbia abilità e tatto, di acquistar la fiducia di molte persone, specialmente della classe agiata, in modo che s’apra dinnanzi a lui un campo di osservazione piuttosto esteso, ed inoltre sia possibile a coloro che gli volessero far denuncie di parlargli senza eccitar la diffidenza altrui, e risvegliare l’attenzione degl’interessati. Inoltre un lungo soggiorno di impiegato nel medesimo luogo, lo porterebbe ad una cognizione così intima delle persone e delle località, da poter trar profitto degl’indizi in apparenza più insignificanti. Ma tutto ciò si riferisce alla scelta del personale ed alle condizioni che gli si dovrebbero fare, e perciò ci contentiamo d’accennarlo, dovendo trattare altrove la questione del personale. Rimane da trovare il modo di tenere informato un funzionario di polizia dei discorsi e degli atti della generalità della popolazione, quando egli non abbia con essa molti contatti. Ma questi, per quanto siano pochi, pure vi sono, e se non si può ottenere che un impiegato solo abbia molte relazioni coi cittadini, la somma totale delle relazioni che possono avere con essi parecchi impiegati e delle informazioni o indizi che ne possono trarre, è considerevole. E quel funzionario il quale riunisse in sè il risultato delle osservazioni di parecchi impiegati di polizia, fosse pure ciascuno di questi nelle condizioni più sfavorevoli per riescire nelle sue ricerche, si troverebbe in possesso di un numero considerevole di fatti e d’indizii più vari, venuti da tutte le parti, e sarebbe per la scoperta dei delinquenti in condizioni di poco inferiori a quelle di quel funzionario, che fosse colla popolazione nelle relazioni più intime e cordiali. I danni della mancanza di queste relazioni sarebbero dunque compensati quando nell’amministrazione della polizia in ogni luogo vi fosse tanta unità d’azione, che tutte le informazioni raccolte da impiegati d’ogni specie, grado od ordine, fossero prontamente riportate ad un solo e medesimo funzionario.

Condotto a questo punto, ci sembra che il problema della ricerca, della scoperta e dell’arresto dei delinquenti in Sicilia si riduca ai termini seguenti:

Trovare un ordinamento ed un personale di polizia tale:

che impiegandosi il minimo numero possibile di elementi locali, e questi strettamente disciplinati, gl’impiegati di polizia di ogni ordine siano pure in grado di approfittare in ogni momento delle possibili occasioni di ricevere rivelazioni e scuoprire indizi di delitti dagli abitanti di ogni rango e qualità, e perciò siano in contatto continuo colla popolazione di ogni ceto, oppure suppliscano alla scarsezza di questi contatti con una unità di direzione tale che le informazioni raccolte da tutti gl’impiegati vengano a riunirsi nella medesima persona;

che possano questi impiegati di polizia, dietro siffatte rivelazioni e indizi, agire colla massima segretezza, rapidità ed energia possibile, compatibilmente colle forme legali necessarie per evitare le ingiustizie e per distruggere nelle popolazioni il sentimento che il diritto consiste nella forza e non nella Legge.

Dunque, sotto ogni aspetto, la questione della scoperta e dell’arresto dei delinquenti in Sicilia, si risolve in quella dell’unità di direzione e dell’abilità, moralità e sicurezza del personale, ed in quella della stabilità degl’impiegati nel medesimo luogo.

Vediamo adesso fino a qual punto queste condizioni siano state ottenute in Sicilia.

 

 

§69. — Dualità nell’attuale ordinamento di polizia in Italia.

Nel Regno d’Italia, gli ordinamenti intesi alla ricerca, scoperta ed arresto dei delinquenti, brevemente riassunti, sono i seguenti.

La competenza della polizia è divisa in due parti: 1a La polizia generalmente chiamata amministrativa, destinata specialmente a prevenire i delitti, oltrechè a vegliare all’applicazione delle leggi e al mantenimento dell’ordine pubblico([111]). 2a La polizia giudiziaria che ha per oggetto di ricercare i reati di ogni genere, di raccoglierne le prove e fornire all’autorità giudiziaria tutte le indicazioni che possono condurre allo scoprimento degli autori, degli agenti principali e dei complici([112]).

Queste due specie di polizia, le quali del resto hanno un vasto campo comune, sono rispettivamente sottoposte alla direzione di due autorità indipendenti l’una dall’altra. La polizia amministrativa è diretta dal ministro dell’interno, e per esso dai prefetti e sottoprefetti([113]), cioè dall’autorità politica. La polizia giudiziaria viene esercitata sotto la direzione e dipendenza del Procuratore generale presso la Corte d’Appello e del Procuratore del Re presso il tribunale correzionale nel quale esercitano le loro funzioni([114]), cioè dell’autorità giudiziaria.

Però queste due autorità indipendenti hanno in comune una gran parte del personale. Difatti sono ad un tempo ufficiali di polizia giudiziaria e ufficiali od agenti di polizia amministrativa: I questori, ispettori, delegati ed applicati di pubblica sicurezza, il sindaco o chi ne fa le veci nei Comuni dove non sia un ufficiale di pubblica sicurezza, le guardie di pubblica sicurezza, le guardie forestali, municipali o campestri([115]) e l’arma dei reali carabinieri. Tutti gli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza sono pure ufficiali di polizia giudiziaria, e i soli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza, sono i giudici istruttori ed i pretori([116]).

Riguardo a questi ultimi, per quanto sia importante e necessario all’andamento della procedura penale la loro qualità di ufficiali di polizia giudiziaria([117]), e la loro conseguente dipendenza gerarchica dalle procure regie, è molto più importante ancora, nella parte che prendono alla scoperta e all’arresto dei delinquenti, il loro carattere di magistrati. Difatti, come tali hanno, il giudice istruttore sempre, il pretore in taluni casi, la facoltà di spedire mandati di cattura, comparizione e perquisizione([118]). E nella pratica attuale, per la maggior parte dei casi fanno piuttosto da magistrati che da ufficiali di polizia, come lo vedremo fra poco.

L’esercito fornisce il sussidio della sua forza materiale agli ufficiali ed agenti di polizia così amministrativa come giudiziaria([119]).

Parleremo dopo dell’ammonizione, atto ibrido, che partecipa ai caratteri di provvedimento di polizia amministrativa e di provvedimento giuridico, e del suo accessorio, l’invio a domicilio coatto, provvedimento di polizia amministrativa pura e semplice. Per adesso ci limiteremo all’argomento della scoperta ed arresto dei delinquenti allo scopo di sottoporli a giudizio penale.

Questo ufficio è comune alla polizia giudiziaria e all’amministrativa ed è dalla legge dichiarato scopo, della prima esplicitamente([120]), e della seconda implicitamente([121]), e nel fatto non potrebbe esser diviso per la sua natura stessa fra le due polizie. Abbiamo dunque un medesimo personale, incaricato di un medesimo ufficio, sotto la direzione di due autorità diverse, indipendenti l’una dall’altra. E ciascuna delle due autorità è incapace di raggiungere da per sè sola il suo fine, cioè l’arresto dei delinquenti. Difatti, il diritto di spedire mandati di cattura, comparizione e perquisizione sta nell’autorità giudiziaria ad esclusione della politica([122]). D’altra parte i giudici istruttori e i pretori, ancora che ufficiali di polizia giudiziaria sono, nelle condizioni di fatto attuali, impediti dall’indole e dal numero delle loro occupazioni di provvedere nel maggior numero dei casi alla direzione della polizia vera e propria, alla direzione cioè del lavoro continuato e non interrotto di sorveglianza delle popolazioni e della ricerca di tracce e d’indizi di delitti conosciuti e non conosciuti. Essi potranno scuoprire un delinquente nel corso di un’istruzione in seguito ad interrogatorii di testimoni o d’imputati, e talvolta anche per caso in seguito alla loro cognizione personale delle circostanze locali, ma non possono partecipare in modo regolare all’opera del personale di polizia vera e propria. La quale in conseguenza rimane nel fatto sotto la direzione dell’autorità politica. Di modo che il personale di polizia sotto l’autorità politica locale che lo dirige è quello che nel fatto per la massima parte dei casi ricerca i delitti e i delinquenti. Eppure non ha da sè solo potere non solo per arrestarli, ma neanche per ricercarli ovunque liberamente, giacchè fuori dei casi di flagrante reato([123]) deve ottenere dall’autorità giudiziaria i mandati di cattura e di perquisizione.

Questa divisione di autorità è necessaria. I suoi inconvenienti sono minori di quelli che porterebbe l’assoluto arbitrio dato per gli arresti e le perquisizioni al personale di polizia, e, nelle circostanze ordinarie, probabilmente anche di quelli che porterebbe l’assegnare ad una o più funzioni giudiziarie, il lavoro di polizia vero e proprio. Non è qui luogo di ricercare se, col rendere più intime e continue le relazioni fra le autorità giudiziarie e il personale di polizia per mezzo di leggi, regolamenti e scelta di personale adattato, gli inconvenienti della divisione dei poteri si potrebbero diminuire nelle circostanze ordinarie. Tali non sono quelle dell’Isola che stiamo ora studiando. Ci conviene dunque esaminare adesso gli effetti ottenuti in Sicilia dall’ora esposto ordinamento di polizia, e dal modo in cui vi è stato applicato.

Prima di tutto, al personale di polizia già descritto bisogna aggiungere per la Sicilia il corpo, speciale all’Isola, dei militi a cavallo.

 

 

§ 70. — I Militi a cavallo.

Questo, dopo varie vicende sotto il Governo borbonico e sotto l’italiano, è adesso sottoposto al regolamento del 25 gennaio 1871. A tenore di questo, i militi a cavallo sono agenti di pubblica sicurezza nelle campagne (art. 20). Non hanno però qualità di ufficiali di polizia giudiziaria a norma dell’art. 57, Codice di Procedura Penale. Dipendono dal Ministero dell’Interno e ricevono immediatamente gli ordini dai prefetti, sottoprefetti e questori (art. 37). Possono essere requisiti colle debite forme dalle autorità che hanno diritto di chiedere l’aiuto della forza armata.

Ogni circondario ha una sezione di militi a cavallo. Quello di Palermo però ne ha due, una orientale, l’altra occidentale (art. 2). Ogni sezione si può dire autonoma sotto il proprio comandante (articoli 3 e 25) salva la dipendenza dalle autorità politiche e dal questore, giacchè l’ispettore preposto a tutte le sezioni di militi di ciascuna provincia ha funzioni più che altro amministrative (articoli 30 e 23). Le sezioni nei circondari infestati dai malfattori sono di circa trenta uomini.

I militi a cavallo di ogni grado sono pecuniariamente e solidamente responsabili entro i limiti del rispettivo circondario, delle grassazioni, rapine, furti, (compresi gli abigeati) e dei guasti sulle vie pubbliche e nelle campagne per motivi di sequestro di persone avvenute in campagna (art. 27). Così almeno in teoria. Le somme destinate a cuoprire questa responsabilità sono costituite da cauzioni versate dai comandanti per 5000 lire ciascuno (art. 14) e dalle ritenzioni sulle paghe di tutti i componenti il corpo (art. 32). Il comandante dovrebbe versare per intero la cauzione entro due mesi dalla sua nomina e dovrebbe reintegrarla entro un mese dopo che fosse stata in tutta od in parte alienata, sotto pena della dimissione (art. 15).

Qualunque sia l’ammontare dei danni avvenuti durante un anno in una sezione, e garantiti in teoria, dalla responsabilità dei militi, la somma totale colla quale vengono risarciti non eccede l’ammontare delle ritenute operate durante l’anno sugli stipendi dei componenti la sezione, più l’ammontare della cauzione del comandante, cioè 5000 lire, più quella parte della ritenuta sullo stipendio dell’ispettore che spetta alla sezione. Se siffatta somma è inferiore al valore dei danni da risarcire, ne viene fatta la repartizione per contributo in via amministrativa fra gli aventi diritto senza che questi possano elevare pretese a maggiori compensi (articoli 31 e 32). Da ciò appare quanto sia illusorio il far conto esclusivamente sulla responsabilità pecuniaria per assicurare il fedele adempimento degli uffici dei militi. Se non sono d’altronde trattenuti da un ritegno morale, hanno interesse materiale a favorire qualunque delitto che possa procurar loro un guadagno maggiore dell’ammontare delle ritenute sugli stipendi di un anno e delle cauzioni. Del resto, il risarcimento dovendosi ottenere per via dei tribunali (articoli 28 e 29) è lungo e difficile a conseguirsi. Ed inoltre accade non di rado che il comandante stato scelto non sia in grado di versare la cauzione([124]).

I militi devono portar divisa. Questo articolo è da qualche tempo osservato, almeno nelle sue parti essenziali. Lo era meno l’articolo corrispondente (articolo 12) del regolamento 30 settembre 1863.

I militi a cavallo non sono considerati come militari, non vi è obbligo di saluto fra essi e i militari dell’esercito (art. 42). Non sono accasermati e vivono alle proprie case, sicchè manca affatto nel corpo la disciplina militare e la sorveglianza dei superiori sugli inferiori, anche fuori del tempo in cui sono isolati in perlustrazione([125]).

Attualmente, nei 13 circondari più infestati dai malfattori i militi sono mobilizzati con un soprassoldo di lire 2.95 (se non erriamo), per giorno([126]), ed armati di carabine Remington, armi molto superiori a quelle dei reali carabinieri.

È rimasto lettera morta nel regolamento in discorso il n° 5 dell’art. 8 sui requisiti per l’ammissione nel corpo dei militi. Fino adesso, l’essere di onesta condotta non è stato stimato, nella pratica, requisito necessario per essere arruolati, anzi, buon numero degli attuali militi sono antichi malfattori, e arruolati perchè tali; e naturalmente non hanno rotto ogni relazione cogli antichi colleghi. Ne risulta che quelli fra loro che vorrebbero fare il loro dovere ne sono impediti dagli altri, materialmente e anche moralmente perchè questi fanno prevalere nel corpo lo spirito dell’omertà. Adesso, nel più dei casi, è innegabile che i militi a cavallo sono più utili ai malfattori che all’autorità che li paga e li arma. Naturalmente non mancano le eccezioni. Parecchie brillantissime operazioni sono state eseguite dai militi, ma sono eccezioni.

È egli possibile rendere utile questo corpo locale e trar profitto della sua conoscenza dei luoghi e delle persone depurandone il personale e sottoponendolo a stretta disciplina coll’accasermarlo? Niuno può rispondere con certezza, giacchè l’esperienza non è mai stata fatta. Però le possibilità di riescita sono sufficenti perchè torni il conto a tentarla. Potremmo citare una sezione di militi che, sciolta e ricomposta con persone non legate coi malfattori, tratte per lo più dalla classe media inferiore, contribuì potentemente a migliorare la pubblica sicurezza del circondario. È vero che nello sciogliere l’antica sezione convenne sottoporre all’ammonizione una parte dei suoi componenti, e che la nuova, fra le sue prime operazioni, eseguì l’arresto di una porzione degli altri per grassazioni ed altri delitti commessi dopo il loro licenziamento. L’accasermamento e la stretta disciplina sarebbero necessarie per inculcare nei militi uno spirito di corpo che li garantisse dalle seduzioni di ogni genere alle quali sono esposti da tutte le parti([127]). La responsabilità pecuniaria dovrebbe naturalmente essere del tutto soppressa, giacchè, fare del mantenimento dell’ordine pubblico l’oggetto di una impresa d’indole quasi privata con scopo pecuniario, è adoperare un mezzo in contraddizione col fine([128]).

Si esita attualmente ad operare una depurazione in massa del corpo dei militi per timore di rendere al malandrinaggio il numeroso personale che ora vive dello stipendio in questo corpo. Ma se da un lato ciò dovesse produrre un peggioramento momentaneo nella pubblica sicurezza, dall’altro si acquisterebbe un mezzo di distruggere i malfattori nuovi e antichi, mentre adesso il corpo dei militi non solo non contribuisce a distruggerli, ma anche ne favorisce l’esistenza. Nelle attuali condizioni della Sicilia, l’impiegato di pubblica sicurezza che non lavora efficacemente per l’ordine è quasi inevitabilmente l’alleato dei malfattori e li favorisce, volontariamente o no. È quasi impossibile ch’egli si limiti ad essere semplicemente inutile. Tutto ciò che abbiamo detto fino adesso intorno all’Isola, ci sembra lo dimostri sufficentemente.

 

 

§ 71. — I sindaci ufficiali di Polizia. Le guardie campestri.

Per questa medesima cagione, il dare in Sicilia ai sindaci la qualità di ufficiali, e alle guardie campestri ed altri dipendenti dai sindaci quella di agenti di pubblica sicurezza ci sembra di sommo danno.

Ciò che già dicemmo sulle relazioni sociali nei Comuni dell’interno, ciò che avremo occasione di dire intorno alle amministrazioni comunali, ci dispensa adesso dal dilungarci molto sopra questo argomento. Diremo solamente che il sindaco, nei Comuni divisi in fazioni, è capo, o istrumento del capo di uno dei partiti; nei Comuni sottoposti alla tirannia di uno o di alcuni tutti fra loro d’accordo, è il tiranno del luogo, oppure lo rappresenta. Da questi fatti il lettore trarrà da sè le conseguenze riguardo alla pubblica sicurezza, dopo ciò che già dicemmo altrove. Nei Comuni fuori dell’una e dell’altra delle dette categorie, il sindaco è per lo meno vittima dei malfattori. Accade spesso che i sindaci di taluni Comuni chiamati dall’autorità pubblica non osino presentarsi per timore di essere da quelli sospettati di aver fatte denunzie. Come faranno siffatte persone a rifiutare informazioni ai malfattori stessi se richiesti? Eppure, in virtù dell’art. 5 capov. 3 della legge di pubblica sicurezza del 1865, gli agenti di pubblica sicurezza hanno obbligo, nei luoghi dove manchino altre autorità di polizia, di informare i sindaci di tutti gli avvenimenti interessanti la polizia, ed i carabinieri specialmente avrebbero obbligo siffatto in forza di una decisione del Ministero dell’interno del 3 marzo 1866.

Delle guardie campestri già avemmo occasione di parlare. Nella parte dell’Isola infestata da malfattori, è ben raro che non siano malfattori anch’essi([129]). In generale, si può dire che le guardie campestri rispondono in tutto alle condizioni del Comune cui servono. In parecchi Comuni il brigadiere delle guardie è il più tristo uomo dei contorni, ma è devoto al sindaco, alla famiglia di lui, e naturalmente nessuno in Giunta o in Consiglio oserebbe proporne il licenziamento. Quando l’autorità governativa tentasse di provvedere d’ufficio o d’imporre al Comune il licenziamento degli elementi impuri, i mali del Comune si aggraverebbero rapidamente, le distruzioni di colture, le grassazioni, gli omicidii andrebbero spesseggiando sempre più, e i proprietari, volenti o nolenti, verrebbero a protestare che si andava meglio quando si chiudeva un occhio. Da questo è facile vedere che il personale delle guardie campestri non può non esser sempre pessimo qualunque sia l’autorità incaricata della scelta loro, sia pure la governativa. Imperocchè il Governo deve pure per la scelta degl’individui ricorrere per informazioni alle persone del luogo, ed allora corre grave pericolo di essere «ingannato tristamente con false assicurazioni di moralità e rettitudine a riguardo di persone che agognano non pure a sottrarsi al rigore delle leggi, ma a divenir niente manco che depositari di parte del pubblico potere([130])». In conseguenza, il dare alle guardie campestri autorità di agenti di pubblica sicurezza non può, in regola generale, giovare ad altri che ai malfattori, qualunque sia il sistema di scelta e di nomina. Ben lungi dal dar loro siffatta qualità, converrebbe farli strettamente sorvegliare dalla polizia, laddove si lasciassero sussistere come semplici guardie municipali.

Rimane la quistione se si debbano lasciar sussistere anche in questa qualità. Nello stato attuale della pubblica sicurezza in parte della Sicilia, l’istituzione di un corpo di guardie campestri nominate e dirette dall’autorità comunale, non può, nella migliore ipotesi, essere altro che un modo di pensionare le persone più pericolose per la proprietà campestre, di pagare loro una tassa in cambio della quale si astengano almeno fino a un certo punto, da recar danni se non a tutte, ad una parte delle proprietà. In conseguenza, quando cessasse il sistema di transazioni col quale è stata fino adesso dal Governo amministrata la polizia in Sicilia, e quando si trovasse un modo efficace per impadronirsi dei malfattori, finchè questo mezzo non fosse giunto al suo risultato finale, a quello cioè di toglier via quasi la totalità di quelli esistenti, la soppressione pura e semplice delle guardie campestri, porterebbe vantaggi incomparabilmente maggiori dei danni. A meno che non si giudicasse praticamente opportuno il lasciarle sussistere, come si lasciano aperte certe bettole, ritrovi di malfattori, per dar maggior facilità all’autorità di polizia di conoscere dove deve cercare i facinorosi e le persone pericolose; imperocchè la qualità di guardia campestre sarebbe un indizio che la persona rivestitane dev’esser tenuta d’occhio. Ma se questo vantaggio si verificasse nella pratica insufficente a compensare il danno della facoltà che hanno le guardie campestri municipali di girare ufficialmente la campagna in bande armate, non esiteremmo a proporne la soppressione pura e semplice. Tutt’al più rimarrebbe da studiarsi la opportunità di un corpo di polizia governativa, incaricato specialmente della sorveglianza contro i furti campestri, scelto dal Governo, comune a tutta l’Isola e diviso poi fra i municipi, militarmente disciplinato, composto di elementi anche estranei alla Sicilia, o per lo meno presi indistintamente in tutta l’Isola, e non nel Comune dove devono prestar servizio, e senza dipendenza gerarchica dalle autorità comunali. Queste dovrebbero intervenire nell’azione di questo corpo esclusivamente col fornire informazioni. Noi proponiamo che sia studiato, non ammesso questo provvedimento, il quale ad ogni modo ci sembra d’importanza molto secondaria, come è secondaria di fronte alle attuali condizioni della pubblica sicurezza, la quistione dei furti campestri semplici, non commessi da malfattori di mestiere.

Il fin qui detto intorno alle guardie campestri municipali si applica a più forte ragione alle private. Già dicemmo fra qual razza d’individui siano generalmente scelti alcuni fra i campieri di ciascun feudo. Non esitiamo dunque a proporre che almeno nelle parti di Sicilia infestate dai malfattori, sia per regola generale ed assoluta rifiutato loro il porto d’armi, molto più la qualità di agente di pubblica sicurezza. Il danno immediato che ne riceverebbero taluni privati sarebbe incomparabilmente minore del vantaggio del pubblico, e, a lungo andare, di quei privati stessi. Insomma, proponiamo la soppressione di qualunque forza speciale, comunale o privata diretta contro i ladri campestri semplici e non altrimenti pericolosi. Riguardo alla repressione dei malfattori che esercitano l’abigeato, o pei quali il furto campestre semplice è una industria accessoria, queste forze non sono altro che dannose, e provvederebbe l’ordinamento generale della polizia([131]).

Naturalmente, qualunque riforma e provvedimento intorno ai militi a cavallo, alle guardie campestri municipali e private, è subordinato ad una ricostituzione del rimanente dell’amministrazione della pubblica sicurezza, che la renda realmente efficace, e che metta l’autorità in grado di abbandonare quel sistema di transazioni di cui sono precisamente le manifestazioni più evidenti la qualità del personale dei militi a cavallo e le guardie campestri, a una riforma, insomma, che permetta al Governo di sopprimere la classe dei malfattori, invece di stare eternamente cercando un modus vivendi con lei. Altrimenti questi provvedimenti farebbero molto male, o niun bene.

Adesso, eliminate le precedenti quistioni, esamineremo precisamente come l’ordinamento di pubblica sicurezza del rimanente del Regno, riesca inefficace in Sicilia.

 

 

§ 73. — Il personale addetto alla polizia in Sicilia.

Fino al 1874 è invalso il sistema di mandare in Sicilia il peggior personale amministrativo del Regno, specialmente per la polizia([132]). Non è difficile imaginare quale riescita dovessero fare cotali impiegati in un paese, nel quale sarebbero state necessarie in loro qualità eccezionali, e dove viveva da tempo immemorabile la tradizione di fare la polizia per mezzo dei malfattori. Gl’impiegati di pubblica sicurezza si appoggiarono in regola generale sugli elementi locali, e specialmente sui malfattori, sulla mafia([133]). L’applicazione di questo sistema ha il suo tipo più perfetto dopo il 1860 nell’amministrazione del questore Albanese sotto la prefettura Medici. Abbiamo già cercato di descriverne gli effetti generali e non ci torneremo sopra. L’influenza di siffatto sistema, specialmente sul personale di pubblica sicurezza, anche se questo fosse stato perfetto, non poteva non essere pericolosissima. Fu micidiale sopra un personale già troppo disposto alla debolezza e anche talvolta alla corruzione. La facilità di sgravarsi da cure, pericoli o responsabilità, fece ricercare l’aiuto dei malfattori anche dove sarebbe stato facilissimo farne a meno. Le relazioni continue coi malfattori diedero agio a questi non solo di essere adoperati, ma anche di adoperare gl’impiegati di pubblica sicurezza. La sorveglianza dei superiori sopra siffatte relazioni anche quando si fosse voluta esercitare, era impossibile.

Con modi di procedere e con tradizioni ben diverse, il corpo dei carabinieri rimaneva isolato dal personale direttamente sottoposto alle questure. La infusione di una dose troppo forte di elemento siciliano gli nocque([134]), già esponemmo in tesi generale il perchè([135]), non gli tolse però quello spirito di corpo che lo poneva quasi in antagonismo col personale dipendente dalle questure. Del resto, anche all’infuori di questa circostanza, è opinione espressa da molte persone competenti, che i regolamenti dei carabinieri ne impacciano l’azione in modo da renderla quasi infruttuosa in Sicilia([136]). Non ci avventureremo a portare un giudizio in una questione esclusivamente tecnica come questa, e dove validi argomenti possono probabilmente essere addotti pro e contro siffatti regolamenti; ci contentiamo di constatare il fatto.

I pretori, perno e fondamento dell’ordinamento di polizia, mal scelti e mal pagati, sottostavano a tutte le intimidazioni e le corruzioni delle influenze locali.

In siffatte condizioni, la quistione dell’ordinamento e degl’inconvenienti della divisione di autorità, spariva di fronte a quella del personale. L’amministrazione della pubblica sicurezza, qualunque fossero le leggi che la regolavano, non poteva non esser pessima.

Nel 1874 principiò il miglioramento del personale delle questure e delle autorità politiche dirigenti. Ed allora hanno cominciato a farsi manifesti e stringenti i danni della divisione delle autorità. Non essendo stato migliorato nel medesimo tempo il personale dei pretori, l’iniziativa e l’attività nella persecuzione dei delitti viene ad essere quasi tutta negli agenti del potere esecutivo, e accade non di rado che questi debbano esercitare pressioni sull’autorità giudiziaria, perchè proceda efficacemente contro i delinquenti, con non piccolo danno pubblico presente e futuro. Perchè le popolazioni mancanti del sentimento della Legge, si avvezzano ad associare nelle loro menti l’idea della Legge con quella, non del potere giudiziario, ma dell’esecutivo. Ed acquista fondatamente autorità morale un sistema di pressioni pieno di pericoli, facile ad essere in seguito adoperato per fini dannosi all’interesse pubblico ed anche privato. Insomma il potere esecutivo assume una specie di autorità gerarchica sul giudiziario, in qualità di rappresentante del diritto, e lo fa non per prepotenza, ma costrettovi. Il mezzo col quale si fa prevalere il diritto è in contraddizione col fine.

È facile imaginare quanto riesca difficile in siffatte circostanze agli impiegati di pubblica sicurezza di conciliare l’adempimento del loro ufficio coll’osservanza delle forme legali, secondo le quali il diritto di arrestare senza mandato dell’autorità giudiziaria è concesso loro nel solo caso di flagrante reato. Questa difficoltà sarebbe stata grandissima ovunque, ma è maggiore che altrove in Sicilia, dove le condizioni di fatto sono tali, che un agente dell’autorità non può cogliere un delitto in flagranza se non lo vede compiere coi propri occhi. Difatti, all’infuori di questo, tutti gli altri casi nei quali l’articolo 47([137]) del Codice di Procedura Penale considera un reato come flagrante, si presentano ben di rado in Sicilia. Nel caso di reato poco prima commesso, le tracce del colpevole spariscono così presto in mezzo alla connivenza generale, che può commettersi un omicidio con arma a fuoco in una strada piena di gente senza che gli agenti di polizia possano trovare un minuto dopo sul luogo, altra traccia del delitto che il cadavere della vittima; il clamore pubblico non insegue quasi mai il colpevole, molto meno lo insegue la parte offesa, giacchè l’omicidio si commette sempre per agguato, e la vittima, quando non è freddata sul colpo e si può muovere, pensa piuttosto a sottrarsi a nuovi colpi.

Inoltre è ben difficile che il colpevole si lasci sorprendere in tempo vicino o no al reato, con oggetti valevoli a farnelo presumere autore o complice, giacchè ha troppa facilità di nasconderli o depositarli ovunque voglia. Nè è meno difficile a cogliere in flagranza il reato speciale di banda armata costituita([138]). Bastano ben pochi minuti perchè una banda di briganti nasconda le armi e si faccia vedere in mezzo a pacifici contadini, magari a lavorare la terra con loro. E così accade ogni qualvolta la forza armata abbia lasciato sospettare il suo avvicinarsi.

 

 

§ 73. — Necessità di una stretta unità d’azione fra la magistratura inquirente e il personale di polizia.

Da ciò appare inoltre che, ancora quando fosse il personale dei pretori pari alle circostanze, ciò gioverebbe poco, se non fossero cogl’impiegati di pubblica sicurezza d’ogni genere in relazioni strette e continue, tali insomma che la spedizione dei mandati di cattura, comparizione o perquisizione potesse seguire immediatamente la scoperta, per parte di questi, dei più lievi indizi. Altrimenti la facilità con la quale sono dispersi gl’indizi materiali, e combinate le deposizioni da farsi all’autorità, rende ogni opera infruttuosa. Avvegnachè, se è possibile anche cogli ordinamenti attuali, di ottenere effetti potentissimi in qualche singolo caso concentrando sopra un dato punto tutti gli sforzi del meccanismo di polizia e giudiziario quale è adesso([139]), questi sono per la stessa loro indole eccezionali, perchè si fa servire ad uno scopo parziale, una forza che deve esser sufficiente ad ottenere risultati generali.

Di fronte alla mancanza di unione fra l’azione dell’autorità giudiziaria locale e di quella di polizia, i provvedimenti meglio imaginati recano pochi frutti, è secondario l’inconveniente pure gravissimo della poca unità d’azione fra le varie categorie del personale di pubblica sicurezza, ed il rimediare a questo solamente serve a poco. Difatti, furono limitatissimi i risultati del provvedimento col quale si è cercato di dare unità in tutta l’Isola alla direzione della forza militare contro il malandrinaggio, e di porre in relazioni strette e continue le autorità dirigenti la polizia fra di loro e colla forza militare.

Colle istruzioni per il servizio di repressione del malandrinaggio in Sicilia emanate dai Ministri dell’interno e della guerra in data del 1° settembre 1874([140]) il territorio della Sicilia è diviso a seconda della divisione amministrativa in province e circondari, in zone e sottozone militari, ognuna con un comandante, e tutte sotto la direzione suprema del Comando generale di Palermo, il quale è arbitro della distribuzione delle forze fra le varie zone. In ciascun capoluogo di provincia e di circondario, cioè per ogni zona e sotto-zona, è istituita una Commissione di pubblica sicurezza, composta del prefetto o sotto-prefetto presidente, del comandante della zona o sotto-zona, del comandante i reali carabinieri nella provincia o circondario, e di un segretario, uffiziale di pubblica sicurezza scelto dal prefetto o sotto-prefetto. Queste Commissioni si possono considerare costituite in permanenza, giacchè si devono riunire ogni giorno ed anche più volte al giorno quando ne riconoscano la necessità (paragrafi 1, 2, 3, 5, 6).

Senza entrare a studiare questo provvedimento nei suoi particolari, ci limiteremo alle seguenti osservazioni: Esso ha per unità territoriale il circondario, e si fonda sopra un ordinamento militare di fronte al quale quello della polizia è secondario e ausiliare (vedi specialmente i paragrafi 3, 4, 8, 14, 21)([141]). L’estensione relativamente grande del circondario è cagione che quei vantaggi che si possono aspettare dall’unione fra le autorità di pubblica sicurezza (e in questo caso il Comandante militare della zona o sotto-zona si può considerare come una di esse) sono scemati dalla inevitabile lentezza colla quale le informazioni possono giungere a queste autorità da punti lontani dal capoluogo, e gli ordini tornare ai medesimi. Non intendiamo da ciò conchiudere che si dovesse stabilire una sotto-zona per ogni mandamento, la cosa è praticamente impossibile, e del resto nei paesi non capoluoghi occupati da truppa, l’ufficiale che la comanda può sempre intendersi coll’ufficiale di pubblica sicurezza se vi è. Ci limitiamo a costatare il fatto.

D’altra parte ci sembra difficile l’ottenere che con l’ordinamento in discorso (vedi i già citati paragrafi 3, 4, 8, 14, 21) la base del servizio non sia militare, quantunque nella nota del Ministero dell’Interno 9 settembre 1874([142]), sia detto «che la direzione del servizio, alla cui buona riescita è indispensabile il concorso dell’elemento militare, ma che riposa anzi tutto su di un largo ed intelligente impiego di mezzi di polizia, rimane sempre affidato ai signori prefetti e sotto-prefetti, i quali.... ecc.». E quantunque nell’applicazione dell’ordinamento in discorso le istruzioni ministeriali fossero «eseguite ed attuate con perfetta armonia di vedute cementate da ottimi rapporti personali delle autorità civili e militari([143]),» risulta necessariamente dalla preponderanza dell’elemento militare nel servizio, che questo viene naturalmente ordinato di comune accordo anche colle autorità civili, piuttosto nell’interesse delle operazioni militari contro le bande di malandrini, che nell’interesse delle ricerche di polizia per scuoprire tracce di manutengoli e di colpevoli non palesi. Per poter sorprendere una banda di malandrini in armi, l’opera della polizia è certamente importantissima, ma secondaria e subordinata. Che le cose siano andate generalmente in questo modo lo provano i risultati. Si sono eseguite e si eseguiscono tuttora brillanti operazioni militari contro le bande di malfattori; l’attiva sorveglianza delle pattuglie in perlustrazione impedisce di quando in quando qualche reato, ma il nuovo ordinamento ha giovato ben poco contro la mafia([144]).

Ad ogni modo, quand’anche nel provvedimento ora descritto si fosse data la preponderanza alla polizia, e si fosse resa più rapida la trasmissione delle informazioni e degli ordini, la guerra campale contro il malandrinaggio sarebbe stata più efficace, ma nulla di più sarebbe stato ottenuto, finchè nelle Commissioni dirigenti le operazioni non fosse stato introdotto l’elemento giudiziario. Se non si vogliono sospendere le garanzie sancite dallo Statuto intorno alla libertà individuale e all’inviolabilità del domicilio, la ricerca dei delinquenti in Sicilia non può essere efficace se non quando sia fondata, in ogni unità territoriale non troppo estesa, sull’azione delle autorità locali, giudiziaria e di polizia talmente unite fra di loro da esser quasi confuse. Ciò naturalmente senza pregiudizio dei provvedimenti atti a facilitare la combinazione fra le varie unità territoriali, dell’azione delle forze dirigenti ed esecutive che sono in ciascuna.

Non neghiamo la difficoltà di congegnare un siffatto ordinamento il quale deve unire requisiti fino ad un certo punto contraddittorii. E prima di tutto, in qual modo dovrà disporsi in ogni unità territoriale il servizio di polizia, affinchè l’autorità giudiziaria e quella di polizia vi confondano la loro azione?

L’unità territoriale più adattata per il servizio della polizia giudiziaria ci sembra il mandamento, la cui superficie è generalmente abbastanza ristretta per permettere grandissima rapidità nella trasmissione delle informazioni e nell’esecuzione degli ordini([145]). Inoltre il mandamento è dalle leggi vigenti provvisto dell’organo secondo noi essenziale per il servizio della polizia giudiziaria in Sicilia, cioè il pretore.

 

 

§ 74. — L’ordinamento della polizia giudiziaria in Sicilia dovrebbe fondarsi sul pretore.

Sopra questo funzionario, a noi sembra, dovrebbe fondarsi in Sicilia tutto l’ordinamento della polizia giudiziaria senza pregiudizio naturalmente di una rigorosa unità nella direzione suprema. Nè per ciò occorrerebbe mutare molto la legislazione esistente.

Il pretore è ufficiale di polizia giudiziaria, e ha diritto di richiedere l’aiuto della forza armata([146]). Come magistrato può ricevere querele o denuncie, assumere informazioni, ed in caso d’urgenza, fare tutti gli atti necessari d’istruzione penale anche fuori della sua giurisdizione([147]). Come magistrato, ha diritto che gli ufficiali di polizia giudiziaria gli forniscano tutte le indicazioni riguardanti i delitti commessi([148]). Finalmente il pretore, anche quando la cognizione del reato non sia di sua competenza, deve, nei luoghi dove non risiede il giudice istruttore, procedere senza indugio a tutti gli atti d’istruzione occorrenti all’accertamento del reato e dell’autore di esso([149]). Ma (e qui occorrerebbe una mutazione della legge) la legge non dà al pretore poteri sufficenti per compiere efficacemente questa istruzione preliminare, giacchè, se egli ha facoltà di citare testimoni([150]) non ha quella di spiccare mandato di cattura e neanche di comparizione contro l’imputato, meno il caso di pericolo imminente di fuga([151]). Di più, anche se con mezzi così insufficenti riesce a mandare avanti l’istruzione, se non giunge a compierla in 15 giorni, deve interromperla per mandare gli atti al procuratore del re([152]), il quale li trasmette al giudice istruttore del tribunale correzionale. E tutte queste limitazioni del potere del pretore nell’istruire, si risolvono finalmente in perdita di tempo pura e semplice giacchè nella maggior parte dei casi, il giudice istruttore, valendosi dell’art. 81, capov. 2, del Codice di Proc. Pen. delega al pretore stesso l’incarico di istruire completamente il processo insieme con tutti i suoi poteri([153]). Se dunque, secondo la proposta del commendatore Calenda (vedi la nota) si attribuissero al pretore senza bisogno di delegazione tutti i poteri dell’istruttore, compreso quello di spedire mandato di cattura, il pretore avrebbe per legge, senza che nulla fosse mutato nel fatto all’andamento della procedura penale, tutte le facoltà per dirigere la polizia nelle ricerche di ogni specie di delinquenti, di farli arrestare, e di radunare gli elementi necessari per inviarli al giudizio.

Ma all’atto pratico, sarebbe egli possibile ai pretori di provvedere non solo all’istruzione dei processi, ma anche alla direzione delle indagini di polizia? Le difficoltà sono molte. Prima di tutto, le infinite occupazioni di questi magistrati riguardo alla giurisdizione civile, alla volontaria e ai delitti minori o contravvenzioni di loro giurisdizione vera e propria. Nel 1873 nel Circondario della Corte d’Appello di Palermo, le contestazioni civili portate davanti i pretori furono 13,374([154]); i provvedimenti di giurisdizione volontaria da loro emessi furono 4872([155]), i delitti minori e le contravvenzioni di loro competenza propria furono 12,837([156]), al che conviene aggiungere le 14,190 istruzioni per crimini o delitti compiute nell’anno medesimo([157]), le quali, se venissero adottate le nostre proposte, incomberebbero per la massima parte ai pretori. Quando tornasse realmente il conto a fare del pretore il fondamento della polizia indagatrice, questa difficoltà si potrebbe a parer nostro togliere, dividendo dalla competenza penale la civile, ed affidando questa in ciascun mandamento, sia ad un vice-pretore, sia ad un altro pretore. Ma tolta questa, le difficoltà si affollano, e si complicano da tutte le parti.

 

 

§ 75. — Come convenga porre in Sicilia il personale di polizia sotto una stretta dipendenza dell’autorità giudiziaria.

Se la direzione locale della polizia indagatrice deve stare nel pretore, quali dovranno essere le relazioni con lui dell’autorità locale di pubblica sicurezza? come si potranno conciliare queste relazioni coll’unità nella direzione suprema della polizia in tutta l’Isola o in buona parte di essa?

Perchè il problema sia solubile, occorre, prima di tutto, che venga posto un funzionario di pubblica sicurezza in ogni mandamento. Questo provvedimento è del resto richiesto da tutti i prefetti delle province mal sicure di Sicilia nelle loro già citate relazioni. Per il rimanente, noi sappiamo che le proposte che siamo per fare parrebbero, nelle circostanze ordinarie, per lo meno discutibili, ma, fuori del caso che si voglia sospendere lo Statuto, ci sembra talmente indispensabile per la scoperta e l’arresto dei delinquenti, l’unione fra le autorità locali giudiziarie e di polizia, stretta al punto di farne una potestà sola, che se la pratica dimostra che sia necessario per raggiungere siffatto scopo, il porre l’autorità di pubblica sicurezza del mandamento sotto la dipendenza gerarchica vera e propria del pretore, non esitiamo a proporre di farlo.

Per conciliare la sottoposizione all’autorità giudiziaria dell’impiegato di pubblica sicurezza nel mandamento, colla sua dipendenza dalle autorità superiori di questura, converrebbe che in tutti i gradi della gerarchia fossero simili le relazioni fra i funzionari di pubblica sicurezza e l’autorità giudiziaria rappresentata dai Procuratori del Re presso i tribunali correzionali, e, sopra tutti dal Procuratore Generale alla Corte di Appello presso il quale risiederebbe la questura.

Per ottenere l’unità nella direzione suprema, converrebbe mutare in Sicilia la circoscrizione delle Corti di Appello. E quando si chiarisse impossibile nella pratica il metterne una sola per tutta l’Isola e stabilire in tal modo un ordinamento che provvedesse al possibile estendersi delle cattive condizioni della pubblica sicurezza alle parti attualmente tranquille, almeno togliere dalla dipendenza di quella di Palermo, la tranquilla provincia di Siracusa, e rimpiazzarla coi circondari delle province di Messina e Catania presentemente infestati dai malfattori.

Con un siffatto ordinamento, le istruzioni penali per le quali tutti gli elementi sussistessero nel territorio di un mandamento o nelle sue immediate vicinanze, verrebbero compiute dal pretore. Quando questi elementi fossero sparsi sopra un più vasto territorio, si farebbero dai giudici istruttori sotto la direzione rispettivamente dei procuratori del Re circondariali o della procura Generale secondo i casi. Per le istruzioni penali che venissero sotto la direzione di quest’ultima, rimarrebbe la quistione esclusivamente pratica, se gl’istruttori dovessero esser presi dal Tribunale Correzionale della residenza della Corte d’Appello, oppure dalla sezione d’accusa della Corte stessa, e diventerebbero forse necessarie alcune modificazioni al Libro II, Titolo 3, Capo 1 del Codice di Procedura Penale. Quando nel corso dell’istruzione venissero fuori elementi sparsi sopra un più vasto territorio, il processo si potrebbe trasmettere dall’autorità inferiore alla superiore perchè continuasse l’istruzione in quanto a lei spetterebbe.

Converrebbe inoltre ordinare le relazioni fra i pretori in modo da rendere rapide e continue le comunicazioni fra di loro, e da rendere facile a ciascuno di essi di iniziare istruzioni anche per delitti commessi in mandamenti limitrofi, quando in questo modo si potesse ottenere rapidità maggiore. Quest’ultima sarebbe piuttosto opera di regolamento che di legge, poichè questa ha già provveduto al caso([158]). Per i delitti commessi nelle grandi città comprendenti parecchie preture come Palermo, Catania e Messina, l’ordinamento di polizia si fonderebbe sull’unione del questore e del Procuratore del Re.

Naturalmente il provvedimento che stiamo proponendo, e che viene a mettere l’amministrazione della polizia nell’arbitrio dell’autorità giudiziaria, dovrebbe esser subordinato ad una depurazione radicale di quest’ultima in tutti i suoi gradi, depurazione che le nostre leggi attuali rendono difficilissima, fuorchè per i pretori che sono amovibili in virtù dell’art. 69 dello Statuto.

Ma tolte pure quelle difficoltà, ne rimarrebbero due capitali. Da un lato, è egli possibile togliere all’autorità politica la direzione della pubblica sicurezza? Dall’altro, la qualità di capo di polizia, è essa compatibile in pratica con quella di magistrato?

Evidentemente, coll’ordinamento che proponiamo, l’autorità politica potrebbe bensì richiedere l’opera del personale di pubblica sicurezza, ma il suo servizio sarebbe subordinato a quello dell’autorità giudiziaria, e di più il sottoporre alla suprema autorità giudiziaria di Palermo circondarii dipendenti dall’autorità politica di Catania e Messina complicherebbe ancora più le relazioni, a meno che si modificasse la circoscrizione amministrativa dell’Isola insieme colla giudiziaria. Ma quando il personale giudiziario fosse scelto in modo da poter dirigere efficacemente la polizia indagatrice, l’opera dell’autorità politica nella pubblica sicurezza, si ridurrebbe a ben poco, e sarebbe ausiliare. Per ciò che riguarda gli uffici di bassa polizia e gli annessi provvedimenti amministrativi, i funzionari di pubblica sicurezza potrebbero rimanere sottoposti alle autorità politiche. Per ciò che riguarda i pericoli per la sicurezza dello Stato, congiure politiche ec., pericoli che del resto si presentano ben di rado in Sicilia, basterebbe a parer nostro la continuità delle relazioni fra potere giudiziario e politico. Del resto i fatti di Palermo nel 1866 hanno dimostrato come la dipendenza diretta delle questure dalle autorità politiche sia molto meno efficace di quel che si crede generalmente a scoprir le congiure o a prevenire le rivolte di qualunque genere. Basterebbe dunque che i regolamenti determinassero le relazioni riguardo alla polizia fra le autorità giudiziarie e politiche in modo da renderle intime e continue, e prevedessero il maggior numero possibile di casi di conflitto, a fine di eliminarli e così rendere queste relazioni anche cordiali. D’altronde, già lo vedemmo, la dualità delle autorità soprintendenti alla polizia è inevitabile; e ci sembra che in Sicilia i danni che ne derivano sarebbero minori, quando i poteri di queste due autorità fossero distribuiti come lo proponiamo, invece di esserlo come adesso nel modo inverso.

Riguardo ai pericoli morali che correrebbe la magistratura coll’esser posta alla testa della polizia, ci sembra che non siano molto grandi, quando si tratti della polizia strettamente giudiziaria e della sorveglianza preventiva che essa implica, a condizione naturalmente che il Governo non tentasse mai d’impiegare la polizia per fini politici ed elettorali. Osserveremo peraltro che l’ufficio che noi proponiamo di dare ai magistrati è di semplice sorveglianza, e non implica arbitrii, mentre la legislazione in vigore affida ai pretori l’arbitrio importantissimo dell’inflizione dell’ammonizione. Del resto, per questo, come per tutto il rimanente, molti inconvenienti quando si presentassero, dipenderebbero non dalle istituzioni, ma dal personale. E dal personale giudiziario di ogni grado l’elemento siciliano dovrebbe essere escluso.

D’altra parte, la direzione della polizia locale affidata a un magistrato, sarebbe cagione che avesse minore occasione di manifestarsi quell’ombroso spirito di corpo dei Carabinieri, il quale, per quanto possa talvolta nuocere all’unità di azione, pure ha grandi vantaggi.

Affinchè l’unità nella direzione della polizia mandamentale raggiungesse nella pratica tutta la sua efficacia, sarebbe indispensabile che un medesimo locale racchiudesse la pretura, l’ufficio di pubblica sicurezza e la caserma della forza armata di pubblica sicurezza, guardie, carabinieri od altri. Questa condizione per quanto possa sembrare a prima vista accessoria, è d’importanza capitale per ottenere rapida trasmissione delle informazioni e degli ordini, contatto continuo, segretezza e rapidità nel preparare le operazioni.

Per ciò che riguarda la parte esecutiva del servizio di polizia, la forza armata di pubblica sicurezza destinata al servizio in campagna dovrebbe esser tutta a cavallo. Il radunare informazioni e il seguir tracce di qualunque genere in un paese dove i luoghi abitati sono lontani gli uni dagli altri è assolutamente impossibile senza una grande rapidità di movimenti([159]).

Naturalmente, qualunque sia l’ordinamento della polizia, non è meno necessaria in Sicilia, almeno per adesso, una numerosa forza militare distribuita in modo da esser pronta a qualunque richiesta delle autorità di pubblica sicurezza. Nè è meno indispensabile l’unità di comando di questa truppa in tutta la Sicilia, per poter provvedere rapidamente alla distribuzione della forza nei vari luoghi e nelle varie parti dell’Isola a seconda dei bisogni. Per questa medesima ragione è utilissimo l’ordinamento in zone e sotto-zone, purchè però non abbia una rigidità tale da impedire le autorità locali di polizia di valersi dei soldati senza ricorrere prima al capo-luogo della sotto-zona.

 

 

§ 76. — Come debba mantenersi più rigorosamente il segreto delle denunzie ricevute dall’autorità, e quello delle istruzioni penali.

Ma quando pure i provvedimenti ora proposti ottenessero il loro intento, rimarrebbe da assicurare la segretezza delle denunzie e delle istruzioni penali indispensabile in Sicilia più che altrove. Finchè il segreto non sarà assicurato ai denunciatori, questi saranno rarissimi([160]); e si ode spesso lamentare in Sicilia che denuncie pericolose per i loro autori siano venute a cognizione degli interessati. La segretezza delle istruzioni penali non esiste che di nome. È frequentissimo il caso che taluno riceva avviso del suo imminente arresto a tempo per poter fuggire. Per rimediare a ciò, è necessaria una prudenza molto maggiore dell’attuale nelle autorità quando ricevano denuncie. Tutte le lettere ed altri documenti concernenti rivelazioni non dovrebbero esser conosciuti che dai funzionari per i quali sono assolutamente indispensabili. È necessario che questi funzionari non siano esposti a subire pressioni di specie alcuna che li inducano a palesarle, e perciò il minor numero possibile di loro deve esser siciliano. Conviene che siano soppresse talune formalità, anche se perciò si debba rinunziare alle garanzie contro abusi di altra specie. Si è dato il caso che fosse da alcuni interessati risaputa una denuncia, perchè al suo autore fu fatta firmare la ricevuta della taglia pagatagli in ricompensa dall’autorità. Esso venne ucciso tre giorni dopo. Ma il mezzo principale col quale vengono palesati i segreti degli uffici di polizia e di istruzione è il basso personale di siffatti uffici, quasi tutto composto di Siciliani: uscieri, scrivani ec. Anche se questi impiegati non hanno per conto loro relazioni colla mafia esiste nelle città principali una classe di avvocatucoli, il cui mestiere consiste nell’accattare siffatti segreti. Il solo rimedio sarebbe non lasciare un solo basso impiegato siciliano negli uffizi di pubblica sicurezza ed in quelli dei tribunali, e disporre il servizio in modo da poter fare a meno degli scrivani temporanei.

Naturalmente il bisogno comune a tutta Italia di una riforma nella procedura delle istruzioni penali la quale le renda più rapide, è, più che in ogni altra parte, stringente m Sicilia. Lasciamo agli specialisti il trattare siffatto argomento([161]). Nè ci dilungheremo qui su tutte le riforme particolari colle quali si toglierebbe facilità a commettere taluni delitti o si renderebbe più facile lo scuoprire i colpevoli.

 

 

§ 77. — La giustizia. — Il giurì.

Ma quando pure si fossero arrestati tutti i delinquenti dell’Isola rimarrebbe il farli giudicare e condannare in giudizio pubblico e col giurì. Crescono le difficoltà per far parlare i testimoni, nasce quella di far parlare i giudici. Principieremo col trattare di questi.

Nelle condizioni attuali della Sicilia non esitiamo ad affermare che il giurì, comunque composto, non può che impedire l’azione della giustizia([162]). Non staremo a citare assoluzioni scandalose, numerosissime specialmente in Sicilia; non staremo ad analizzare le statistiche ed a cercarvi per quali specie di reati sia stata pronunziata l’assoluzione e per quali la condanna. Se le relazioni sociali nell’Isola sono realmente quali le abbiamo descritte in questo lavoro, e pochi, crediamo, lo negheranno, è lecito conchiudere senza esitazione che un colpevole, per poco che abbia aderenze, protezioni od influenze di qualunque specie, è certo di essere assoluto. Dove non valgono la corruzione o le intimidazioni, valgono le relazioni d’amicizia, di clientela, di riconoscenza. In ogni caso vale l’opera di quegli avvocati che hanno per industria speciale la fabbricazione dei giurì. Essi s’informano dei particolari più intimi riguardanti ognuno dei giurati, e così scuoprono i modi più opportuni d’influenzarli o corromperli. Una statistica che non segnasse nemmeno una assoluzione, non proverebbe nulla, se non che i colpevoli influenti non sono stati mai sottoposti al giudizio dei giurati, sia perchè la procura del Re, certa di non ottenere testimonianze, ha dovuto perfino rinunziare ad iniziare l’istruzione([163]), sia perchè nel corso della medesima «le prove più palmari si dileguano e sfumano, a così dire, fra le mani dei magistrati, dimodochè le più di tali procedure cominciate sotto ottimi auspici, si chiudono con un non farsi luogo a procedere per mancanza di prove([164]).» La soppressione del giurì in Sicilia recherebbe per tutti i versi infiniti benefizi([165]). Nulla impedirebbe di mantenerlo per quelle cause nelle quali il giudicabile potrebbe giustificatamente temere pressioni governative sui magistrati, per i delitti politici, cioè, e per quelli di stampa.

 

 

§ 78. — Reticenza dei testimoni al dibattimento pubblico.

Ma quand’anche fosse tolto di mezzo il giurì, rimarrebbe la difficoltà di far parlare i testimoni al giudizio pubblico. Questo è il punto del problema di soluzione più difficile ed incerta. Riguardo a questo, rimangono da sperimentare due mezzi con qualche probabilità di buona riuscita: 1° quando si fosse ottenuta una polizia indagatrice realmente efficace, profonda conoscitrice dei luoghi e delle persone e rapida nella sua azione, si potrebbe per tutti i delitti aventi connessione fra di loro per motivo del fine, degli autori, dei complici o d’altro, scuoprire ed arrestare tutte le persone che avessero con questi delitti attinenza lontana o vicina, arrestarle ed istruire contro di loro, in modo che al momento in cui il processo trasmesso alla sezione di accusa della Corte d’appello, ha un principio di pubblicità perchè comunicato agli avvocati della parte civile (quando vi sia) e dell’imputato([166]), rimanessero pochi o punti fuori di carcere per intimidire i testimoni. Veramente, i legami fra i delinquenti sono talmente estesi nelle province malsicure di Sicilia, che, per ottenere siffatto risultato, converrebbe fare un gran colpo, preparato di lunga mano, e per mezzo del quale venisse arrestata la maggior parte dei delinquenti pericolosi dell’Isola. La riescita di una siffatta operazione sarebbe del resto il fine pratico al quale tenderebbero tutte le riforme che stiamo proponendo, e dipenderebbe in gran parte dal mantenimento durante l’istruzione, di quel rigoroso segreto di cui parlavamo or ora.

 

 

§ 79. — Arbitrio del giudice istruttore per l’arresto e la libertà provvisoria. — Legge del 30 giugno 1876.

Ad ogni modo, per ottenere questo effetto sarebbe necessaria una larga facoltà nel magistrato istruttore di rilasciare mandati di cattura, di confermare gli arresti fatti in flagranza di reato e di rifiutare la libertà provvisoria([167]) anche per i delitti o per i crimini che per una ragione od un’altra siano di competenza del Tribunale correzionale. Lo studio di quistioni così difficili e complicate non è compatibile coll’indole generale del presente lavoro. Ma riguardo ai limiti posti all’arbitrio del giudice nel concedere o no la libertà provvisoria, limiti resi più stretti ancora dalle modificazioni portate al Codice di Procedura Penale colla legge del 30 giugno 1876, ci permetteremo solamente di sottoporre un dubbio al lettore. Ha l’esperienza dimostrato che il numero e la complicazione dei controlli, e le limitazioni imposte dalla legge all’arbitrio del magistrato, bastino a compensare i danni prodotti dall’essere il personale giudiziario in parte impari all’ufficio suo, e il servizio della polizia giudiziaria inefficace al punto di prendere per colpevoli gl’innocenti in un grandissimo numero di casi? E più specialmente per ciò che riguarda lo stato di fatto che ha provocato la legge 30 giugno 1876, può una legge generale prevedere e distribuire in categorie l’infinita varietà di circostanze che presentano i processi per delitti non leggerissimi, e stabilire anticipatamente quando il giudice abbia facoltà d’assicurarsi della persona dell’imputato e quando no? Nessuno al mondo potrà certamente criticare la legge in discorso in quelle parti dove all’obbligo sostituisce la facoltà di rilasciare il mandato di cattura (come per esempio nella modificazione portata all’art. 183 del Cod. di Proc. Pen.). Ma dove l’arbitrio del giudice viene ristretto, è forse lecito di temere che sia stato chiesto alla legge di fare ciò di cui sono capaci solamente le persone incaricate d’applicarla. Era senza dubbio indispensabile ed urgente il provvedere agl’inconvenienti che provocarono questa legge, ma il modo efficace di provvedervi ci sembra sia di modificare non la legge, ma il personale giudiziario, il personale e l’ordinamento di polizia. In ogni istituzione politica vi ha un punto dopo il quale la sua riescita non può dipendere altro che dalle qualità delle persone cui n’è affidata l’applicazione, e dove ogni nuovo provvedimento legislativo diventa non solo inutile, ma dannoso. Perchè, volendo sottoporre ad una regola generale e prestabilita fatti infinitamente vari, si corre grave rischio, per schivare un male, di cadere nel male opposto; e soprattutto perchè chi governa, credendo di aver provveduto sufficentemente, si mette l’animo in pace, e lascia sussistere e crescere la cagione vera del male ritenendola per un inconveniente secondario. E a chi dicesse che il fondare un’istituzione sulle qualità di una categoria di funzionari è darle una base incerta e precaria, non potremmo rispondere altro se non che l’aver base incerta e precaria, è natura di tutte le cose umane e delle istituzioni politiche più di qualunque altra, e che le garanzie dei sistemi costituzionali hanno per iscopo di restringere questa incertezza e precarietà, non di toglierle.

 

 

§ 80. — Invio delle cause criminali alle corti di Assise del Continente.

2° Quando, per causa delle leggi vigenti o delle difficoltà pratiche riescisse impossibile il compiere una vasta operazione di polizia giudiziaria che conducesse in potere della giustizia gli autori e i complici della maggior parte dei delitti commessi durante gli ultimi tempi nelle parti di Sicilia infestate dalla mafia, rimarrebbe, per indurre i testimoni a parlare, il mezzo già impiegato nel processo pel furto del Monte di pietà in Palermo. Il mezzo cioè di avocare le cause gravi a Corti d’assise dell’Italia alta o media, togliendo via con una legge il dubbio espresso da alcuni, se sia lecito il sottoporre un processo criminale a giudizio fuori della circoscrizione della Corte di Cassazione dove il delitto fu commesso([168]). Non neghiamo che il provvedimento sia costoso, ma probabilmente pagherebbe le spese.

Ai due provvedimenti adesso proposti per ottenere deposizioni dai testimoni, e soprattutto al primo si potrebbe giustamente obbiettare che, quando pure siano praticabili, essi esigono per tutti i versi un tale sforzo, da non potere essere che temporaneo. Difatti all’operazione di polizia giudiziaria da noi accennata occorrerebbe un numero straordinario di funzionari giudiziari e di polizia, tutti d’intelligenza, d’energia e di onestà eccezionale; ed anche da questi richiederebbe una spesa di forze morali, intellettuali e fisiche la quale non potrebbe durar molto. A questo rispondiamo che basterebbe la riescita di due o tre grandi cause, perchè da un lato fosse tolta di mezzo buona parte dei malfattori e mafiosi, e dall’altro fosse rotto l’incanto del terrore che tien chiusa la bocca a tutti coloro ai quali il predominio dei malfattori reca maggiori danni che vantaggi immediati. Sarebbe in gran parte sciolto il problema della pubblica sicurezza in Sicilia il giorno che fosse entrato negli animi della popolazione la convinzione che la legge e l’autorità pubblica possiede forza materiale maggiore di quella dei malfattori. Allora quello stesso modo di sentire che adesso è a danno dell’autorità, si volterebbe a suo vantaggio. Sparirebbero o scemerebbero molto quelle forze, cagioni di disordine, che sfuggono all’azione diretta di ogni legge. Così perderebbe ogni importanza l’intimidazione. La quale spesso non può cadere sotto alcuna definizione giuridica, ma, coll’arresto dei facinorosi di mestiere, sparirebbe da sè, giacchè, specialmente in Sicilia, non basta di volere intimidire per riescirvi, bisogna esser riconosciuto capace di commettere un delitto violento, od essere pubblicamente in relazione con chi è capace di commetterne. Di più, cresciuta l’efficacia del servizio di polizia, ed il rischio per i delinquenti di essere arrestati e condannati, scemata la garanzia dell’omertà, la repressione sarebbe anche una forza preventiva, e diminuirebbero i delitti per vendette di cose futili in quegli uomini che se non sono già facinorosi per mestiere, non hanno, per parte loro, niuna difficoltà a diventarlo. Ottenuti siffatti risultati, il mantenimento dell’ordine in Sicilia, pur richiedendo maggior sforzo che nel rimanente d’Italia, sarebbe però incomparabilmente più facile che adesso.

 

 

§ 81. — Carceri.

Ma arrestati e condannati i malfattori, non sarebbe ancora del tutto rotta la loro unione nè fiaccata la loro potenza, finchè rimanessero nelle carceri dell’Isola. In Sicilia le comunicazioni fra i carcerati e l’esterno sono continue e facili, e la mafia s’impone al paese anche dalla prigione. Sarebbe dunque essenziale che tutti i condannati al carcere per un tempo non molto breve, fossero colla maggior prontezza, dopo la loro condanna, trasportati nell’alta e media Italia, e che in conseguenza l’amministrazione centrale delle carceri si tenesse sempre al corrente dei processi in corso in Sicilia, onde provvedere locali sufficenti per quanti fossero per esser probabilmente condannati. Le difficoltà per siffatto provvedimento sarebbero solamente pecuniarie e di pratica amministrativa.

 

 

§ 82. — Ammonizione e domicilio coatto.

Qualunque possa essere la efficacia dei provvedimenti da noi proposti sta il fatto che adesso i delinquenti sottoposti a processo sono pochi, e meno i condannati. Nella pratica si è cercato di supplire a questa impotenza coll’uso dell’ammonizione e del suo accessorio l’invio a domicilio coatto([169]). I quali per tal modo sono spesso diretti in Sicilia, ad impadronirsi di quei delinquenti che è stato impossibile condannare per le vie legali, piuttosto che a sorvegliare più efficacemente, ed a porre nell’impotenza di nuocere quelle categorie di persone che per presunzione della legge sono più facili di altre a commettere delitti o contravvenzioni. I primi del resto sono pure fra coloro che la legge sottopone ad ammonizione come diffamati per crimini o per delitti contro le persone e le proprietà([170]).

Se non che, e la legge e il personale incaricato di applicarla sono poco adattati all’uso che principalmente se ne vuole fare in Sicilia.

Lasceremo da parte la definizione dell’ammonizione di valore esclusivamente teorico data dall’art. 47 del Codice Penale([171]), per occuparci delle disposizioni della legge di Pubblica Sicurezza del 20 marzo 1865 modificata in alcuni articoli colla legge del 6 luglio 1871([172]). Secondo questa legge, l’ammonizione s’infligge per tre cagioni principali. S’infligge cioè: 1° Agli oziosi e vagabondi (art. 70 capov. 1)([173]); 2° Ai sospetti per furti di campagna o per pascolo abusivo (art. 97); 3° Ai sospetti come grassatori, ladri, truffatori, borsaiuoli, ricettatori, manutengoli, camorristi, mafiosi, contrabbandieri, accoltellatori, e tutti gli altri diffamati per crimini e delitti contro le persone o la proprietà (art. 105). L’ammonizione è pronunziata dal pretore: contro gli oziosi e vagabondi e i sospetti di furti campestri, sulle denuncie dell’autorità di pubblica sicurezza ch’egli deve verificare, ovvero anche senza denunzia, in seguito della pubblica voce o notorietà (articoli 70, 98); contro i sospetti grassatori ec., e diffamati per crimini o delitti, dietro denuncia dell’autorità di pubblica sicurezza, verificate dal pretore stesso con informazioni assunte (articoli 105 e 106 capov. 1). La contravvenzione all’ammonizione è punita (articoli 71 e 106 capov. 2), colle pene sancite dal Codice Penale per gli oziosi e vagabondi cioè col carcere da tre a sei mesi, più la sorveglianza speciale della polizia. La pena è aggravata in caso di recidiva([174]). Inoltre può essere all’ammonito proibito dal prefetto di abitare in dati luoghi, e può il Ministro dell’Interno inviarlo a domicilio coatto per un termine da sei mesi a due anni, dopo una prima condanna per contravvenzione, e dopo una seconda, per un termine da uno a cinque anni([175]). L’ammonizione quantunque pronunziata da un magistrato, è stata dalla giurisprudenza considerata come provvedimento amministrativo, e perciò inappellabile in via giudiziaria([176]) e non soggetto a ricorso in Cassazione.

È incerta la quistione di competenza per la sentenza di contravvenzione all’ammonizione, essendo la giurisprudenza contradittoria([177]). Talune decisioni l’attribuiscono al pretore, talune altre al tribunale correzionale. Però la Corte di Cassazione di Palermo l’ha dichiarata di competenza del tribunale correzionale.

L’invio a domicilio coatto è provvedimento esclusivamente amministrativo, ma subordinato per legge, alla condanna per contravvenzione all’ammonizione.

Riguardo ai fatti che possono giustificare l’ammonizione, la legge lascia pieno arbitrio al pretore col solo obbligo di prendere informazioni([178]).

Riguardo ai fatti che possono giustificare una sentenza di contravvenzione all’ammonizione, la legge è molto indeterminata in quanto spetta agli ammoniti per oziosità e vagabondaggio e soprattutto agli ammoniti come sospetti di grassazioni, ec. e diffamati per delitti contro la proprietà o le persone. Difatti, in quanto riguarda gli oziosi e vagabondi gli estremi della contravvenzione sono stabiliti, ma molto vagamente dai termini nei quali il pretore deve pronunziare l’ammonizione([179]). Per i sospetti di grassazione, ec. o diffamati per delitti, gli estremi della contravvenzione non sono affatto stabiliti. La giurisprudenza non ammette che si facciano a questa categoria di ammoniti nemmeno i precetti medesimi che agli oziosi e vagabondi s’impongono in virtù dell’art. 70, capov. 1, della legge di Pubblica Sicurezza([180]). Per modo che, secondo la legislazione attuale, le persone più pericolose sono quelle che, per quanto menino vita irregolare e diano luogo a più fondati sospetti, possono più difficilmente essere convinte di contravvenzione all’ammonizione e condannate in conseguenza; essere cioè incarcerate e sottoposte alla sorveglianza della polizia([181]) in virtù dell’alt. 437 del Codice Penale; e inviate a domicilio coatto. Quando poi si pensi che la condanna per contravvenzione è una sentenza pronunciata da un tribunale e in conseguenza subordinata a un certo rigore di prove, non sarà necessario grande sforzo di mente per intendere che la legge, non permettendo che sia data a questa sentenza quando diretta contro i sospetti grassatori ec. e i diffamati per crimini e delitti altra base che una persistenza di sospetti, mette il tribunale incaricato d’infliggerla in una strana posizione: perchè se la pronuncerà, agirà contrariamente alla sua natura di corpo giuridico, se non la pronuncerà, renderà inutili ed illusorie le disposizioni di legge intese a far sorvegliare questa categoria di persone e ad impedirle di commettere reati. Riguardo agli oziosi e vagabondi questi inconvenienti quantunque grandi ancora, sono minori per la maggior precisione della legge. Riguardo alle persone sospette di furti campestri e pascolo abusivo, la difficoltà quasi non esiste per la maggior determinatezza della legge a loro riguardo([182]).

Ora, conviene considerare che in Sicilia le persone che è essenziale di sorvegliare sono i sospetti e i diffamati per crimini e delitti; preme tener d’occhio gli oziosi e vagabondi solamente in quanto sono pericolosi, e si possono comprendere nella precedente categoria. La prevenzione dei delitti minimi, come quelli che vengono generalmente commessi dagli oziosi e vagabondi inoffensivi, e i furti campestri (che nel più dei casi sono una sola e medesima cosa) è un lusso che si possono dare le società in cui la pubblica sicurezza è in ben altre condizioni, e che possono disporre delle loro forze per fini secondari. Le leggi italiane sull’ammonizione sono dunque siffattamente ordinate, che dànno all’autorità in Sicilia i mezzi più efficaci per prevenire quei disordini che sono tollerabili.

Ma gli inconvenienti della legge crescono ancora per il modo della sua applicazione. In Sicilia non si può parlare del caso che le persone da ammonire siano denunziate dalla voce pubblica. Rimane la denuncia delle autorità di pubblica sicurezza fatta in seguito agli indizi che queste, per l’ufficio loro, sono state in grado di raccogliere, seguendo l’individuo passo a passo per delle settimane e dei mesi. Ma queste denunzie non bastano. Il pretore per legge è obbligato a formarsi personalmente una convinzione sull’argomento. Siccome egli non interviene per nulla nel servizio di polizia, egli è costretto a ricercare gli elementi della sua convinzione per altre vie che quelle tenute dagli agenti di pubblica sicurezza, e non ha altro che le testimonianze dei cittadini. Già dicemmo quanto poco numerosi sieno i cittadini capaci di rifiutarsi a firmare un attestato di buona condotta per un malfattore temibile([183]). Chi non lo può ottenere, è il delinquente minore. Ben più: taluni dei capi mafiosi, più noti e più ribaldi di Palermo e dintorni, denunciati per l’ammonizione, trovarono non di rado per perorare la loro causa presso le autorità, persone considerevoli non solo per la loro ricchezza e per la loro influenza nell’Isola, ma anche per la loro posizione ufficiale. Di fronte a tali informazioni, le sole sulle quali, nelle condizioni attuali, il pretore possa fondare la sua convinzione legale, sarà ben difficile che esso infligga l’ammonizione al malfattore più palese, se si rammenta di esser magistrato, per quanto sia onesto, coscenzioso, coraggioso fino all’eroismo, insomma inaccessibile alle influenze di ogni genere.

Ma questo non è il caso per la maggior parte dei pretori di Sicilia, lo abbiamo già detto nel primo capitolo. Ne risulta che essi da un lato non avendo altri limiti al loro arbitrio nello scegliere le persone da ammonire fuorchè quelli imposti dalla loro coscenza, dall’altro essendo sottoposti a pressioni ed influenze di ogni genere, si sfogano ad ammonire sospetti di furti campestri, oziosi e vagabondi inoffensivi, e di quando in quando qualche malfattore che abbia poche aderenze. Quando poi altre influenze riescano a vincere quelle locali ed il pretore principii a distribuire le ammonizioni senza tanti riguardi, si espone a rimetterci la vita, come l’infelice pretore di Alcamo. Del resto, in questa cattiva scelta delle persone da ammonire hanno una gran parte di colpa anche gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza per la troppa facilità nel far le denunzie.

Da questa larga e cattiva distribuzione delle ammonizioni sono risultate grandi sofferenze, ingiustamente sofferte da quella classe infima che in Sicilia non ha voce per farsi sentire ed è vittima di tutti. Ed inoltre il gran numero degli ammoniti, rendendo impossibile il sorvegliarli tutti insieme, ha fatto sì che in molti casi l’ammonizione si limitasse a una sorveglianza intermittente dei condannati che fa soffrire gli ammoniti senza avvantaggiare l’autorità.

Del resto, quand’anche le leggi sull’ammonizione, la scelta del personale dei pretori e della pubblica sicurezza, la loro unione e le istruzioni loro impartite fossero tali da impedire per un momento le soverchie ammonizioni, dubitiamo che tali mezzi potessero avere efficacia per lungo tempo. Gli arbitrii di polizia non trovano nelle qualità del personale quelle medesime garanzie che gli arbitrii nei provvedimenti giudiziarii. Il giudice, che di sua autorità ordina un arresto o rifiuta la libertà provvisoria, trova la condanna o l’approvazione del suo provvedimento nel risultato definitivo della procedura. S’egli ha usato il suo arbitrio in modo eccessivo, la sua coscenza, quando l’abbia retta e sensibile, riceve un avvertimento che lo riconduce entro i giusti limiti. Nulla di simile nei provvedimenti di polizia. In questi, nessuna forza morale si oppone a quella tendenza che ha ogni uomo di attenersi ai mezzi più facili per raggiungere il suo intento. Entro un tempo più o meno lungo i pretori più rigidi si troverebbero, senza avvedersene, trascinati dalle forze ineluttabili della natura umana a sbrigarsela con una ammonizione, deve sarebbe stata possibilissima una procedura regolare per delitto poco grave.

Il già detto riguardo alla ammonizione, si deve a più forte ragione dire per il domicilio coatto, quantunque colpisca un numero di persone molto minore. Coll’attuale legge può accadere, ed accade talvolta che porti due anni di domicilio coatto il sospetto di azioni le quali, se fossero giudizialmente provate, procurerebbero al loro autore poche settimane di carcere. Di fatti gli ammoniti per vagabondaggio o per sospetto di furti campestri, in seguito a sentenza di contravvenzione, possono essere e sono talvolta inviati a domicilio coatto per due anni con infinito danno di loro e delle famiglie non solo, ma anche dell’intera società.

Giacchè l’uomo più inoffensivo alla partenza, torna quasi inevitabilmente mafioso e malfattore dal domicilio coatto nelle isole. Nulla potrebbe esser più demoralizzante del genere di vita che vi menano i condannati. La sola regola disciplinare cui siano astretti, è di presentarsi ogni sera all’appello, e di dormire in certi cameroni che la loro indolenza lascia orribilmente sporchi. Durante la giornata sono liberi. Il Governo passa loro un pagliericcio e una coperta che nell’isola di Ustica (la sola sulla quale abbiamo informazioni precise) vengono mutati quattro volte all’anno per esser lavati. Hanno inoltre 60 centesimi al giorno; del resto, sono lasciati interamente a sè stessi. Pochi s’impiegano a lavorar la terra nelle piccole proprietà dell’isola. Gli altri vivono nell’ozio il più assoluto e si dànno al giuoco che, proibito nei cameroni, non si può impedire fuori di essi. Si giuocano i pochi denari che ricevono dalle famiglie e perfino gli abiti. I delitti di sangue sono frequenti. Vorremmo poterci maggiormente dilungare sul doloroso argomento del domicilio coatto. Ma il tempo che ci stringe ci obbliga a venire alle conclusioni intorno a questo e alla ammonizione.

Abbiamo detto che, a parer nostro, sarebbe difficile alla lunga di evitare il rinnovarsi degli attuali inconvenienti nell’uso dell’ammonizione per quanto si cercasse di garantirsene. Ma con ciò non abbiamo inteso dire che si dovesse adesso sopprimerla in Sicilia, e molto meno rimandare a casa i domiciliati coatti. Anzi, riguardo a questi, è spesso tale il pericolo che porta per l’ordine pubblico il loro ritorno in patria dopo lo spirar della pena, che spesso di necessità conviene sorvegliarli strettamente per trovar presto cagione di ammonirli, convincerli di contravvenzione all’ammonizione, poi rinviarli alle isole. Intendiamo dire che, supposto che si voglia a qualunque costo ricondurre la pubblica sicurezza in Sicilia ad uno stato relativamente normale, ottenuto questo fine, o coi mezzi che proponiamo o con altri, e tolti via o resi impotenti i malfattori, l’uso dell’ammonizione e dell’invio a domicilio coatto dovrebbe ridursi ad essere considerato come un espediente eccezionale. Fintantochè non si sia giunti ad un così bel risultato conviene cercare che questi provvedimenti raggiungano in Sicilia il fine che ne giustifica l’uso sopra larga scala: la soppressione cioè di quei malfattori di ogni grado che non si possono condannare per le vie legali; e per questo, i mezzi adattati ci sembrerebbero i seguenti:

Prima di tutto adoperare in Sicilia l’ammonizione e il domicilio coatto contro i soli sospetti di crimini o delitti gravi, ad esclusione dei semplici ladri campestri e degli oziosi e vagabondi inoffensivi. Quando le condizioni del rimanente d’Italia non permettessero di sancire siffatta disposizione con una legge generale, e non si volesse fare una legge speciale per l’Isola, si potrebbe ottenere l’intento per mezzo d’istruzioni ai funzionari competenti. Il derogare ad una legge con istruzioni, potrà sembrare a molti cosa scandalosa, ed è certamente pericoloso; ma da un lato, siffatte istruzioni non allargherebbero, bensì ristringerebbero l’applicazione della legge, e d’altra parte, dietro a tali istruzioni, le autorità farebbero per le ammonizioni ciò che fanno adesso nel caso di molte contravvenzioni minori. Difatti, se gli agenti della pubblica sicurezza dovessero far processo verbale per tutte le contravvenzioni, per esempio all’obbligo di tener la notte lanterne alla porta delle osterie ed altre prescrizioni simili, non rimarrebbe più tempo per correr dietro ai malfattori. E magari, fossero queste sole in Sicilia e in tutta Italia le leggi di cui l’autorità pubblica non cura l’applicazione!

Ristretta in tal modo l’applicazione della legge, si farebbe però più che mai sentire il bisogno di determinare i criteri secondo i quali si dovesse ai sospetti o diffamati infliggere l’ammonizione, o per lo meno la condanna per contravvenzione alla medesima. Ma questo è un caso in cui l’indole stessa del provvedimento costringe a far conto esclusivamente sulle qualità personali di coloro cui ne vien affidata la esecuzione. Riguardo all’ammonizione, una osservazione lunga e paziente delle abitudini dei malfattori, dei luoghi che frequentano di preferenza, può forse in altri paesi, permettere di stabilire a priori qualche criterio benchè molto vago. In Sicilia la cosa è molto più difficile, perchè i malfattori sono generalmente troppo confusi col rimanente della popolazione. Converrebbe fidarsi all’onestà, alla energia e alla perspicacia del pretore locale per infliggere l’ammonizione.

Le medesime ragioni per le quali è impossibile stabilire in una legge i criteri, secondo i quali si deve infliggere l’ammonizione, impediscono pure di stabilire con una regola generale gli estremi della contravvenzione alla medesima. Perchè fosse possibile dare un fondamento giuridico alla sentenza, converrebbe dunque attribuire al pretore facoltà di imporre agli ammoniti quei precetti che per le loro circostanze speciali giudicasse più efficaci a porli nell’impotenza di nuocere, affinchè la contravvenzione, quando si verificasse, fosse costituita da fatti. Anche in questo caso, la garanzia non si può cercare in provvedimenti legislativi, ma nella scelta del personale e nella posizione che gli venga fatta, tale da renderlo per quanto sia umanamente possibile inaccessibile alle pressioni e alle corruzioni locali.

Ad ogni modo, le esigenze dell’ammonizione così ridotta renderebbero più che mai necessaria una larga partecipazione dei pretori alla direzione della polizia indagatrice, affinchè questi potessero farsi un’opinione personale indipendente sul conto delle persone sospette, per mezzo delle loro proprie informazioni ed osservazioni giornaliere, senza dover ricorrere dopo la denuncia dell’autorità di pubblica sicurezza ad una specie d’istruzione fondata sulle informazioni fornite dai cittadini, e fossero per tal modo in grado di sfuggire all’alternativa della quale parlavamo or ora, di dovere o andar contro allo spirito del loro ufficio di magistrati condannando all’ammonizione senza avere adoperato i mezzi indicati dalla legge per formare la loro convinzione sui fatti che la giustificano, oppure lasciare in piena balìa di sè stesse persone pericolose.

Riguardo alla competenza per i giudizi di contravvenzione, vi sono due fini fra loro contraddicenti da conseguire. Da un lato, il lasciar siffatti giudizi in balìa del pretore, è render più grande che mai quel pericolo degli arbitrii di polizia cui accennavamo or ora([184]). Dall’altro, l’affidarli ai tribunali correzionali, lascia il tempo all’imputato di darsi alla latitanza. Si potrebbero conciliare ambedue le cose, dando al tribunale la competenza per il giudizio, e al pretore la facoltà di arrestare l’imputato di contravvenzione nel momento che è presentata al tribunale stesso la denuncia per la medesima. Quando la contravvenzione consistesse nell’infrazione di determinati precetti, il caso di accusa e conseguente arresto non giustificati, sarebbe raro. Per evitare il rischio di troppo lunga prigionìa preventiva, converrebbe nel medesimo tempo trovar modo di distribuire i lavori dei tribunali in maniera che una o più adunanze per settimana, secondo il bisogno sperimentato, fossero consacrate ai processi per contravvenzione all’ammonizione([185]).

Riguardo al genere di vita dei domiciliati coatti nelle isole, il problema è più difficile. È quistione di denari e di colonie penitenziarie in Italia, o in un luogo di deportazione. Non ci dilunghiamo su questo argomento, perchè pur troppo per adesso, ogni proposta sarebbe oziosa.

In ciò che abbiamo detto adesso intorno all’ammonizione, abbiamo proposto di affidare ai pretori straordinario arbitrio di polizia, e ciò dopo aver dichiarato quanto poco valessero a lungo andare contro il loro abuso anche le qualità personali dei funzionari. Ma tutte le nostre proposte si fondano sulla presunzione che allo stato anormale della pubblica sicurezza in Sicilia si voglia ad ogni costo provvedere entro un tempo non troppo lungo, rinunziando assolutamente al sistema delle mezze misure e delle transazioni. Quando ciò non sia, queste e le altre nostre proposte non hanno niun significato, e, faccia o no buona riescita la prova di affidare arbitrii ai pretori o ad altri, stiano gli ordinamenti come adesso o diversamente, poco importa.

 

 

§ 83. —È necessario in Sicilia un personale giudiziario e di polizia con qualità eccezionali.

Ad ogni modo, non solamente quest’ultima nostra proposta, ma tutte quelle da noi fatte, hanno, per condizione indispensabile e per fondamento principalissimo la scelta di un personale di pubblica sicurezza, giudiziario e politico non solo d’intelligenza, di energia, di coraggio e d’onestà eccezionali, ma ancora inaccessibile a qualunque influenza locale, anche alle più lecite. Nè diverso potrebbe essere il fondamento di qualunque proposta diversa che altri facesse. Per dimostrarlo dovremmo riassumere tutto il già detto in questo libro fin dalla prima parola; non crediamo sia necessario il farlo.

È adunque necessario prima di tutto, (già lo dicemmo dimostrandone il perchè) che nell’amministrazione della pubblica sicurezza, come in tutti i gradi della gerarchia giudiziaria, il personale sia estraneo all’Isola, eccettuata una parte della bassa forza di polizia, e anche quella, colle condizioni cui già accennammo. Le difficoltà per imparare il linguaggio, per capire i gesti, per conoscere le abitudini e le persone, le località, si risolvono in una quistione di tempo ed in conseguenza di misura nelle traslocazioni. Non ci fermeremo qui sui mezzi per ottenere siffatto personale, perchè avremo luogo di parlarne a proposito di tutti gli impiegati d’ogni ordine e grado in Sicilia. Diremo solamente che andrebbe scelta con maggior cura quella parte precisamente che adesso è più negletta; i pretori cioè, poichè, almeno a parer nostro, dovrebbero esser la base e il perno di tutto l’ordinamento di polizia e giudiziario in Sicilia.

Ma finchè il personale giudiziario inferiore e superiore, sarà qual’è adesso in gran parte, finchè si potrà dare il caso che una persona contro cui è iniziato processo per mandato di omicidio possa venire a Palermo, fare pubblicamente gli affari suoi con tutto comodo per due o tre giorni, poi, la sera verso le dieci, montare in carrozza a due cavalli, escire di città per una delle porte principali e sparire; ed essere contro di essa rinnovato il mandato di cattura il giorno dopo la sua partenza dal magistrato istruttore invano sollecitato per otto giorni, il parlare di migliorare la pubblica sicurezza o di provvedere a qualunque altro male in Sicilia è uno scherzo di cattivo genere.

Abbiamo finito per adesso coll’argomento della pubblica sicurezza siciliana, e dovremo tornarci solamente quando avremo da parlare del sistema generale di governo tenuto in Sicilia dal 60 fino ad oggi. Per ora ci rimane solamente da parlare delle ragioni le quali, a parer nostro, sono causa che le condizioni sociali e morali, uguali in tutta l’Isola, producano solamente in una parte di essa sulla pubblica sicurezza quegli effetti che abbiamo adesso descritti. Già le abbiamo in massima parte accennate nel corso dei nostri ragionamenti. Adesso ci contenteremo di riassumerle.

Nelle parti dell’Isola dove la sicurezza pubblica è migliore, la generalità della popolazione d’indole molto mansueta, almeno nelle circostanze ordinarie, non basterebbe a fornire un numero di reclute sufficiente alla classe dei facinorosi. In gran parte per questa cagione stessa, manca nella classe dominante di queste province, la tradizione, l’abitudine e la necessità di usare la violenza a sostegno della loro autorità privata. Per la prima di queste cagioni non ebbe occasione di nascere la classe dei facinorosi. Per la seconda non ha avuto luogo di perpetuarsi e soprattutto di fiorire in quei luoghi dove sia nata spontaneamente([186]).

Siccome in tutti i fenomeni sociali la forma influisce sulla sostanza, così è innegabile che il non esservi tradizioni di violenza nelle province delle quali adesso parliamo, influisce sui costumi in generale, dispone meglio le menti ad accettare miglioramenti di ogni genere, e soprattutto rende più agevole l’introdurli ad una forza estranea all’Isola. Ma, quantunque il non esser nelle tradizioni l’uso della violenza, come mezzo di prevalere, faccia sì che sia più difficile che ad alcuno venga in mente d’impiegarla, nonostante, già lo dicemmo, quando alcuno vi si risolvesse, troverebbe gli elementi pronti. Troverebbe istrumenti in quei malfattori che, in numero più o meno grande, si trovano in qualunque paese. Potrebbe adoperarli con libertà e sicurezza per quelle medesime cause che già descrivemmo a proposito delle altre province dell’Isola. Giacchè in qualunque parte di questa, la forza sociale del Governo non ha potuto affermarsi, e la forza privata con qualunque mezzo manifestata, s’impone negli animi nel medesimo modo. In tutta l’Isola, la violenza usata più o meno spesso nell’atto pratico, pure è ritenuta un mezzo legittimo d’imporsi ed in conseguenza di difendersi. Difatti, il colpevole di delitto violento trova nelle parti più tranquille di Sicilia non solo chi lo nasconda e lo soccorra, ma anche chi interceda per lui presso le autorità, gli dia al bisogno falsi attestati di presenza in un dato luogo, e, appoggiato in tal modo, sa farsi temere abbastanza per impedire non di rado i testimoni di parlare e i giurati di condannarlo. Del resto, per questi ultimi, dove non valgono le intimidazioni valgono le arti già descritte di certi avvocati che fioriscono principalmente nelle parti più tranquille dell’Isola. La differenza principale, sotto questo aspetto, fra le parti tranquille e quelle che non lo sono, sta in ciò, che in quelle è possibile una repressione più rapida del male soprattutto se còlto nel suo principio; pur sempre però coi medesimi mezzi.

 

 

 

 

Capitolo IV.

RELAZIONI ECONOMICHE E AMMINISTRAZIONI LOCALI

 

 

 

 

§ 84. — Scarsa influenza della legislazione posteriore al 1860 sulla distribuzione della proprietà.

Fatta ormai l’analisi degli elementi essenziali del vivere sociale in Sicilia, ci riescirà più facile e spedito l’esame degli effetti prodotti fino adesso dal regime inaugurato nel 1860, sulle relazioni economiche in generale ed in specie sulle amministrazioni locali.

Per le medesime cagioni per cui la distribuzione della proprietà non potè dalla legislazione borbonica posteriore al 1812 esser modificata al punto d’influire sulle condizioni sociali dell’Isola, non furono molto più efficaci a tal uopo le leggi venute in vigore dal 1860 fino ad oggi([187]). Le vendite e quotizzazioni dei beni demaniali ed ecclesiastici, il continuare della quotizzazione dei demani comunali([188]), hanno più che altro servito ad ingrandire le proprietà già grandi. La divisione delle eredità sancita dal nostro Codice Civile senza le poche e limitate eccezioni che ammetteva quello delle Due Sicilie([189]), non ha avuto ancora tempo di produrre effetti. L’aumento di alcune colture ed industrie, specialmente di quella sullo zolfo([190]), se oltre a render maggiori le grandi fortune, ne ha create alcune nuove, pure non ha portato la classe media al numero ed al grado che deve avere in una società del tipo moderno. Laonde, nulla o ben poco è stato mutato alle relazioni sociali da noi già descritte([191]). Nel senso giuridico universale il diritto continua a fare una cosa sola coll’interesse e la volontà dei più forti. E forti continuano ad essere i ricchi e gli abili. Scoppiata appena la rivoluzione del 1860, vi fu bensì un momento in cui i contadini credettero che la forza, e in conseguenza il diritto, era venuta nelle loro mani. Tentarono di sperimentarla. Vi furono in alcuni luoghi sollevazioni incomposte e barbare, giacchè nelle condizioni sociali dell’Isola non potevano esser diverse; promosse, come era inevitabile, da taluni della classe dominante stessa, che speravano di potere sfruttare. Ma furono presto represse in alcuni luoghi dai proprietari stessi, nella maggior parte, dalla forza del Governo. Ne risultò solamente che quelli della classe dominante in molti di quei luoghi dove erano avvenute sommosse, resi cauti dallo spavento avuto e dai danni momentanei sofferti, si affrettarono di operare fra i proletari quella divisione dei beni comunali alla quale erano tenuti per legge, e vanno adesso adagio nel caricare le imposte quasi esclusivamente sulla classe povera. I contadini, dopo aver fatto la prova che la forza privata e pubblica era sempre al servizio dei medesimi interessi di prima, si acquetarono, continuarono a riconoscere ciò che avevano fino allora riconosciuto per diritto, e d’allora in poi sperimentano la propria forza solamente allorquando gli si dà ad intendere che la forza del Governo ha cessato di esistere, e che su di essa non può più far conto la classe dominante([192]).

 

 

§ 85. — Aumento negli affari. Suoi effetti.

Ma d’altra parte sopravvenne uno straordinario accrescimento di relazioni d’indole commerciale. Questo però non ebbe grande influenza sulla distribuzione della ricchezza se si tolgono i grandi centri. Imperocchè se fu in parte reale, per una parte molto maggiore fu fittizio: non solo ebbero incremento naturale il commercio dei prodotti agricoli e dello zolfo per la libertà di commercio e per le accresciute comunicazioni regolari col Continente, ma i numerosi appalti per opere pubbliche per un verso, e l’introduzione di numerose sedi e succursali di stabilimenti di credito per l’altro, fecero nascere una attività di affari, insolita per l’Isola, e relazioni d’indole complicata, alle quali le popolazioni non erano per nulla preparate.

Ne risultò da un lato, che i capitali offerti sul mercato dagli stabilimenti di credito, non trovando chi fosse capace di adoperarli nelle speculazioni produttive, per le quali l’Isola presenta pure campo sterminato ed incolto, e di cui ha tanto bisogno, vennero per la maggior parte usati da affaristi in imprese poco atte a produrre frutti nelle condizioni attuali della Sicilia e furono consumati improduttivamente. Codesto è stato mal comune non della Sicilia solamente, ma dell’Italia e dell’Europa intera, per tacere dell’America. Ma in Sicilia ha prodotto danni maggiori che altrove, perchè maggiori che altrove erano i bisogni ai quali siffatti capitali avrebbero potuto giovare, e minore che altrove era il numero delle persone capaci d’intendere i veri bisogni, e di salvare una parte dei capitali posti sul mercato, adoperandoli a soddisfar quelli; finalmente perchè il timore prodotto dall’esser fallite talune imprese, è molto maggiore che altrove in un paese dove la ripugnanza ad impiegar capitali fuori dalle poche vie consuete è incomparabilmente più grande che dove le condizioni economiche sono più progredite.

Inoltre la popolazione dell’Isola, avvezza, fuori di pochissimi centri, a relazioni commerciali scarse e di una semplicità primitiva, vide ad un tratto non solo crescere il numero di queste, ma anche mutarsi l’indole loro, e questa diventar delicata e complicatissima. In conseguenza del sopravvenire di siffatte relazioni, vennero per necessità ad aver occasione di essere applicate quelle non meno complicate regole di diritto che sono indispensabili per sancirle, garantirne l’esecuzione, insomma per renderle possibili. Manifestamente, a queste regole di diritto non poteva corrispondere il senso giuridico dell’universale, giacchè fino allora il bisogno non ne era stato sentito. La loro importanza per il buon andamento della società non poteva essere intesa; non potevano da un momento all’altro imporsi moralmente. Il complicato meccanismo della cambiale, per prendere un esempio, il valore commerciale della firma, la importanza del pagamento a giorno fisso, non potevano dai proprietari dell’interno della Sicilia, avvezzi solamente a contratti di affitto e a compre e vendite alla buona, esser meglio capiti che non lo siano da buona parte dei più ricchi signori nelle principali città d’Europa. I quali ritardano indefinitamente il pagamento delle cose comprate dai commercianti, e sono per tal modo cagione perfino del loro fallimento. E mentre il commerciante ritiene sè stesso, per aver senza sua colpa mancato ai suoi impegni, disonorato al punto di togliersi la vita, i suoi debitori inesatti non si credono disonorati punto per aver commesso volontariamente il fatto medesimo, ma invece crederebbero di esserlo quando non pagassero nelle ventiquattr’ore un debito di giuoco.

 

 

§ 86. — Gli avvocati, loro influenza.

Ma questa disproporzione fra il senso giuridico delle popolazioni e il diritto positivo, non avrebbe avuto effetti importanti e soprattutto durevoli come quelli che ha nel fatto prodotti, senza l’influenza di una parte della classe degli avvocati. La quale in Sicilia si divide in due categorie molto distinte. L’una, che pur troppo è la meno numerosa, composta di uomini dotti, onesti, intelligenti, coraggiosi. Istruiti ad una scienza coltivata per tradizione nelle province meridionali: quasi la sola nella quale la politica sospettosa dei Borboni tollerasse studi seri; famigliarizzati coi concetti di diritto che reggono le società moderne, essi hanno il tipo di queste nella mente e nella coscenza, e molti fra loro cercano d’informare a quello la società in mezzo alla quale vivono. Fra loro si trovano quegli uomini, i quali, con una fermezza d’animo, che in Sicilia non è coraggio solamente civile, denunciano gli abusi venuti così dall’alto come dal basso, e l’Italia aspetta molto da loro per la rigenerazione della Sicilia.

Ma di fronte a questi si agita e s’arrabatta la turba degli avvocatucoli, di quelli che fin dal principio del secolo ebbero giudici il Balsamo e il Palmieri([193]). Troppo numerosi per i veri bisogni del paese, vanno attorno offrendo i loro servigi a chi vuole e a chi non vuole, insegnano a girare intorno alle leggi senza incorrere nelle pene, si adoperano per influenzare le giurìe, s’internano negli uffici pubblici per sorprendere i segreti dalla buona fede o dalla fame degli impiegati, speculano sull’ignoranza e sull’inesperienza dei più per intromettersi fra loro e i funzionari pubblici. Accade ogni giorno che in qualche ufficio governativo capitino cittadini anche delle classi elevate accompagnati da qualcuno di questi intriganti. Questo prende la parola, espone verbosamente il caso. Coi gesti, colle intonazioni di voce fa intendere al cliente che fra esso e il funzionario v’ha intelligenza segreta, che si sono intesi a mezza parola. Spesso il favore richiesto è cosa cui il cliente ha diritto per legge e che viene concessa senza difficoltà; se non che, dopo, il cliente paga al preteso patrocinatore il compenso della sua fatica e gli rimborsa la mancia che egli pretende aver data al funzionario. Così avviene a meno che quest’ultimo, avvisato od istruito dall’esperienza, non imponga silenzio al mascalzone e non lo cacci via dalla stanza. Il che, per fortuna, accade spesso. Ad ogni modo, il lavoro per questa gente non manca mai. Sono i mezzani di tutte le corruzioni, i ministri di tutte le prepotenze legali, a loro si deve in gran parte se è diffuso in tutta la Sicilia «quel funesto contenzioso spirito» che nel principio del secolo era «ristretto nella sola capitale([194]),» e se è tanto comune in Sicilia il caso che le leggi civili e i contratti si violino o si eludano non solo colla prepotenza aperta, ma anche coll’astuzia.

Nè da tutto ciò è lecito conchiudere che la popolazione in Sicilia abbia senso del bene o del male più o meno raffinato che altrove. Avviene in Sicilia ciò che sarebbe avvenuto ogni dove nelle medesime condizioni. Difatti, sono esenti dal male comune da un lato molti fra coloro che per antiche ed estese relazioni di affari con altri paesi, non sono nuovi alle esigenze del commercio, dall’altro quei piccoli negozianti che trattano gli affari con semplicità primitiva. Abbiamo incontrato in talune bottegucce prove di buona fede che si cercherebbero invano girando molti e molti negozi in Parigi o in Londra.

Nonostante è impossibile negare che questa abitudine dell’astuzia ha reagito sui costumi, specialmente in quella categoria di persone che nell’interno dell’Isola ha accaparrato il commercio, gli appalti di opere pubbliche ec., la quale del resto, in un gran numero di casi, è quella stessa che si è impadronita delle amministrazioni locali. E siccome questa classe, e specialmente i più attivi e i più astuti di essa sono quasi soli in relazioni di affari continuati colle autorità, e in generale colle persone estranee all’Isola, è facile che molti, da questi campioni avariati, abbiano giudicato l’intera classe abbiente in tutti i suoi gradi. Della classe proletaria, non è questo il caso di parlare, giacchè, nelle sue attuali condizioni, in essa si trovano non cittadini, ma elementi coi quali se ne potrebbero fare.

 

 

§ 87. — Amministrazioni locali.

Ma se la tendenza all’astuzia e al dolo si può dire speciale ad una parte sola della classe abbiente e precisamente a quella parte che ha preso il sopravvento sul rimanente, è comune a tutta, meno eccezioni individuali, già lo dicemmo, quello stato delle menti e degli animi proprio di tutte le società nello stadio della siciliana, che produce un sentimento fortissimo ed esclusivo dei diritti ed obblighi reciproci fra individui; al quale corrisponde per necessità l’assoluta mancanza di sentimento degli interessi collettivi della società in tutte le sue manifestazioni dallo Stato al Comune o all’Opera pia.

Ne risulta che quella persona o quel gruppo di persone cui venga affidato un interesse collettivo non può evidentemente intendere da sè l’indole ed il fine dell’ufficio ricevuto, e quando non sia guidato passo per passo dal controllo di un’autorità sociale superiore, non potrà non considerare non solo come diritto, ma anche come dovere l’impiegare il potere che ha in mano, a vantaggio proprio e dei suoi aderenti personali. Accadrà dunque quasi inevitabilmente che questo potere sia adoperato nell’interesse esclusivo, non diciamo della classe sociale cui è stato affidato, ma di una parte di essa, di quelle persone cioè alle quali è venuto in mano, e di coloro che sono legati con esse.

Ora, la legislazione Italiana, in generale, e quella specialmente sulle amministrazioni locali, ed il modo in cui viene applicata sono tali che da un lato la classe proletaria viene per ogni verso data in assoluta balìa alla classe abbiente, e dall’altro una porzione di quest’ultima ed anche la minore, può impadronirsi dell’autorità in modo da signoreggiare senza controllo alcuno.

 

 

§ 88. — Come la legislazione italiana sancisca e ribadisca nelle province meridionali il potere illimitato ed assoluto della classe abbiente su quella povera.

Gli effetti della nostra legislazione e della nostra pratica specialmente amministrative sulle relazioni fra la classe abbiente e la proletaria non sono speciali alla Sicilia; ed in tutte le province meridionali, vediamo ripetersi con una dolorosa uniformità il fatto che queste hanno ribadito e sancito la dipendenza delle classi povere dalle abbienti, ed alla servitù economica hanno aggiunto quella amministrativa. Le leggi hanno affidato gl’interessi locali alla popolazione abbiente di ogni luogo. I Consigli comunali e provinciali sono eletti dalle persone che pagano una data somma d’imposta rispettivamente nel Comune e nella Provincia, e fra quelle persone. Sono pure elette da loro le Giunte esecutrici di questi Consigli, la maggioranza dei Consigli scolastici, delle Congregazioni di carità ec. Nei Comuni, il sindaco è scelto dal Governo, ma fra i membri del Consiglio comunale. Al Consiglio comunale e al sindaco è dato per così dire, in balìa il Comune. Essi, da sè, o per mezzo della Congregazione di carità e della Commissione del Monte frumentario amministrano il patrimonio pubblico. Colla distribuzione delle tasse, la cui scelta è solamente sottoposta ad alcune limitazioni legislative piuttosto elastiche, possono influire sulla fortuna privata dei cittadini. Al sindaco s’indirizza l’autorità governativa per avere informazioni sulle condizioni economiche del paese. A lui tocca dare i certificati di stato civile, di moralità, di miserabilità. Da lui principalmente riceve informazioni il pretore sulle persone da sottoporsi all’ammonizione. Egli è ufficiale di polizia dove manca, e come tale ha diritto di eseguire arresti in certi casi. Sicchè il contadino non solo per i suoi guadagni e per la sua prosperità economica, ma anche per tutte le necessità della vita, nascita, matrimonio, morte, e per rimanere e per partire, per la sua libertà personale stessa, dipende in gran parte da coloro che sono alla testa del municipio.

È facile imaginare quali possono essere gli effetti di quella onnipotenza assoluta della classe abbiente, combinata colla speciale condizione del senso giuridico che già descrivemmo. Le amministrazioni locali sono, ad esclusione di poche eccezioni, tanto più degne di ammirazione quanto sono più rare e contrarie allo spirito generale, dirette ad esclusivo vantaggio della classe abbiente (e più specialmente di una parte di essa, come esporremo tra breve). Parimente, nelle relazioni d’indole privata, la volontà di chi è ricco, o per qualunque altra ragione potente trova raramente ostacolo nelle leggi ed è assoluta di fronte non solo dei proletari veri e proprii, ma anche di coloro che hanno scarsa fortuna, o sono deboli per qualche altra causa. Per modo che il non imporre a torto la propria volontà è, nell’uomo potente, atto di carità, non dovere nel senso giuridico della parola. Sotto questo aspetto la differenza sola che distingua dalle altre la parte dell’Isola infestata dai malfattori, si è che in questa, alle cause ordinarie che rendono un uomo potente, alla ricchezza cioè, all’abilità, o alla cognizione della legge, bisogna aggiungere il potere usare direttamente o indirettamente la violenza.

Se vogliamo ricercare le manifestazioni esterne di questo stato di cose, vediamo che le imposte municipali in grandissimo numero di Comuni sono distribuite in modo da gravare specialmente sulla classe povera([195]). A questo proposito citeremo il fatto seguente che ci sembra abbastanza caratteristico. In un Comune dove la sovrimposta municipale gravava per una somma di 95.000 lire sul dazio consumo (il quale per l’indole sua colpisce più specialmente la classe povera), rimanendone intieramente esente la fondiaria, il sindaco rispose alle osservazioni in proposito dell’autorità politica, che il territorio del Comune essendo tutto in mano di pochi proprietari, quando si fosse sovrimposto la fondiaria, ognuno di essi avrebbe dovuto pagare una grossa somma, e sarebbe stato in conseguenza ingiustamente gravato. Il medesimo spirito si manifesta nella distribuzione delle spese in molti luoghi, dove vediamo sprecate somme considerevoli per spese edilizie di lusso, mentre mancano in campagna le strade e talvolta in città le cose più necessarie per la generalità della popolazione([196]). Del resto, la cagione della cattiva distribuzione delle imposte non sta sempre in chi regge i Comuni, ma talvolta anche nei difetti della loro circoscrizione territoriale([197]). Pur tuttavia esistono, benchè rari, esempi di autorità comunali che anche con gravi sacrifizi pigliano i provvedimenti più atti a giovare le classi meno fortunate. Se non che nell’assoluta mancanza d’unità nell’indirizzo del governo, o nell’inaudita confusione dei concetti che lo dirigono, accade talvolta che questi provvedimenti vengano dall’autorità governativa avversati od anche impediti per cagioni d’indole burocratica. L’amministrazione delle Opere pie([198]) è in un disordine tale che la minor parte delle loro rendite giunge alla classe povera, cui è destinata; lo stesso dicasi per il maggior numero di quei pochi Monti frumentari che esistono ancora.

Riguardo alle relazioni fra privati, non staremo a parlare degl’innumerevoli abusi nell’esecuzione dei contratti fra padroni e contadini, specialmente in quanto riguarda la misurazione o la qualità dei generi, nella restituzione delle anticipazioni. Queste sono conseguenze pur troppo inevitabili dell’assoluta dipendenza economica dei lavoranti della campagna. Ma che dire, per esempio, del fatto di un accollatario di lavori, influente e prepotente in paese, che per la costruzione di una strada si fornisce della ghiaia occorrente nel fondicello di una povera vecchia rifiutando di pagarla? È impossibile conoscere nemmeno alla lontana quanti casi di tal genere avvengano in Sicilia, giacchè la maggior parte di essi, per la stessa natura loro, riman nascosta, o per lo meno conosciuta da pochissimi, che non trovano la cosa strana. Ma è un fatto che i rimedi dati dalla legge contro siffatti abusi sono illusorii. In un paese dove molte persone della classe ricca sono convinte della necessità che intervenga un faccendiere quando abbiano che fare colle autorità, sarà ben raro che una persona della classe inferiore creda poter ricorrervi direttamente. E quando ciò non fosse, quando d’altra parte l’autorità morale dei prepotenti non fosse così grande, e quella della legge così piccola, da toglier dalle menti perfino il pensiero di ricorrere ai magistrati, quale giustizia potrebbe nel più dei casi ottenere un pover uomo dal giudice conciliatore, persona per lo più del paese, o dal pretore, quale è adesso, sottoposto alle influenze locali? Ne risulta che il povero non ha altro rimedio che la rassegnazione o la reazione violenta; ch’egli ha maggior garanzia contro i soprusi dove i costumi sono violenti e sanguinari; che può accadere talvolta al brigante o al malandrino di acquistare nelle classi inferiori fama di giustiziere, mentre fa una speculazione per conto proprio, operando un ricatto lucroso, o uccidendo taluno per incutere salutare timore agli altri.

Riguardo agli abusi nelle amministrazioni locali, poi, la legge non concede neppure rimedi teorici alle classi inferiori, giacchè i miserabili non sono elettori. Le altre libertà garantite dai cosiddetti immortali principii dell’89 non sono nemmeno fatte per essi. Il parlare a proposito di loro della libertà di stampa o degli altri modi d’influire sull’opinione pubblica, è ridicolo. Del diritto di riunione, i contadini non sanno usare che per correre addosso ai proprietari, ucciderli e bruciar loro le case. Contro i soprusi amministrativi, come contro gli altri, la violenza è il loro solo rimedio. Il quale del resto non è sempre del tutto inefficace. È curioso osservare come in molti dei Comuni i quali ebbero a sperimentare che cosa siano le sommosse di una plebe semiselvaggia, si vada a rilento nell’imporre le tasse che gravano più le classi povere, quella di fuocatico, per esempio; e come, quando si siano stabilite, ai primi segni di malcontento, si alleggeriscano o si tolgano del tutto.

Per modo che in Sicilia, lo Stato si trova in questa dolorosa condizione, che nell’adempiere al primo dei doveri di uno Stato moderno, il mantenimento, cioè dell’ordine materiale, esso non difende la Legge, ma le prepotenze e i soprusi di una parte dei cittadini a danno degli altri. Difatti, mentre l’azione del Governo è efficacissima e pronta contro i disordini popolari, rimane miseramente impotente contro quelli i quali, come il brigantaggio e la mafia, si fondano sopra la classe abbiente, o almeno sopra la parte dominante di essa.

Per altro, se tutta la classe povera, meno poche eccezioni individuali, riceve danno nella maggior parte dei Comuni dall’attual sistema di amministrazione locale, non tutta la classe abbiente ne trae ugual vantaggio. Anzi, in questo campo, più che in qualunque altro, è elemento di potenza l’intelligenza e l’astuzia, per modo che talvolta chi trae maggior vantaggio dalle amministrazioni locali, non è il ricco proprietario, ma l’uomo di mediocre fortuna e perciò più attivo. Di più, in molti Comuni dove i ricchi non risiedono o non vogliono occuparsi direttamente delle faccende municipali, la cosa pubblica è in mano di piccolissimi proprietarii e commercianti e di membri della classe media inferiore([199]).

 

 

§ 89. — Come la legislazione e la pratica amministrativa in Italia siano impotenti ad impedire un numero ristrettissimo di persone dall’assicurarsi un predominio assoluto e durevole sulle amministrazioni locali.

Ad ogni modo, una buona parte, per non dire la maggiore, delle amministrazioni municipali dell’Isola, sono in mano ai faccendieri, e si possono distinguere in tre categorie: o questi sono divisi in due o più partiti che si contendono l’autorità, o sono tutti uniti, o finalmente hanno al disopra di loro, qualche ricco signore, prepotente di alta sfera, che non mira ai guadagni, ma all’influenza. In ogni caso, il patrimonio e le entrate del Comune diventano preda di coloro che si sono impadroniti del municipio, e dei loro parenti, amici e aderenti. Abbiamo già accennato ai modi praticati fra’ partiti avversari in taluni Comuni([200]). Comunque siasi, il partito vinto sopporta i soprusi, vede e tollera le rapine nell’amministrazione, ma tace, o tutt’al più manda all’autorità denuncie anonime, perchè o ha già fatto, o si ripromette di fare quello stesso che fanno gli altri. Quando chi comanda nel Comune, è solamente ambizioso e non ricerca il lucro, lascia rubare quelli che sono sotto di lui per acquistarsi aderenti.

Le amministrazioni locali di ogni genere, principiando con quella della provincia, non sono gli ultimi fra gl’innumerevoli mezzi coi quali si acquista e si stabilisce l’autorità di una camarilla o di una persona. Chi riesca a dominarvi non solo acquista il mezzo d’influire sugli interessi materiali d’infinite persone, ma acquista inoltre nelle sue relazioni col Governo i vantaggi di una posizione ufficiale. Del resto, tutte le nostre leggi amministrative secondano efficacemente i costumi e le condizioni sociali dell’Isola nel dare i modi di acquistare una preponderanza indiscussa ad infime minoranze quando siano fortemente organizzate. Le disposizioni della nostra legge comunale e provinciale intorno al rinnuovamento parziale dei Consigli comunali, alla divisione in frazione dei Comuni, sono specialmente efficaci in questo senso. Ma peraltro, le leggi amministrative più perfette, non potrebbero tener luogo di una numerosa classe media che in Sicilia non esiste, e non potrebbero in conseguenza impedire il dominio assoluto delle camarille. Il formarsi di queste, è vero, non è vizio della sola Sicilia, e la legge le favorisce in ogni provincia d’Italia. Vediamo pure in altre province gruppi di persone cercare d’impadronirsi a poco a poco delle amministrazioni locali d’ogni specie, degli stabilimenti di credito, di tutti i simili mezzi d’influenza e riescirvi. Ma in altri paesi rimangono così numerosi gli interessi indipendenti i quali sono in grado di sottrarsi a quella influenza, che, per quanto una camarilla possa riescire ad essere potente, ed anche in talune cose a signoreggiare interamente, non può mai diventare padrona assoluta di un Comune, od acquistare in una provincia autorità siffatta, che niuno affare pubblico si possa sbrigare senza la sua approvazione. In un paese, invece, dove la ricchezza è in pochissime mani, dove i modi di acquistarla mancano quasi del tutto per chi già non la possiede, l’essere in posizione indipendente, e il dominare sugli altri, è una sola e medesima cosa, quando alla ricchezza sia unita un’intelligenza sufficente per usarla.

Di tutte quelle forme di associazione, per mezzo delle quali cercano di unirsi per acquistar vigore le forze minori della società, il solo nome e le apparenze esterne hanno potuto esser portati in un paese dove mancano quelle forze stesse. Difatti, tutte le società cooperative, operaie ec., nate ad imitazione delle continentali, non sono per lo più che istrumenti e mezzi d’azione per qualche ambizioso, oppure sono usate da taluno per riunire capitali altrui e prenderseli poi. Le relazioni sociali, pigliando forma di relazioni personali di clientela, fanno per necessità capo ad una o a pochissime persone, di modo che non esistono che interessi personali subordinati gli uni agli altri.

 

 

§ 90. — Come in Sicilia sia per regola generale inefficace e dannoso il controllo o la tutela esercitati sulle amministrazioni locali da corpi composti essi stessi di elementi locali.

Per questa ragione, non è possibile per adesso il controllo degl’interessati sulle amministrazioni locali. Qualunque sia il numero di riscontri e tutele legali alle quali le si vogliano sottoporre per parte di altri corpi composti di elementi locali, tutti avranno il vizio d’origine. L’intervento della tutela della deputazione provinciale nell’amministrazione dei Comuni e delle Opere pie, potrà bensì farvi trionfare l’interesse di una o più persone piuttostochè di altre, non l’interesse comune. Il solo ente atto a concepire e rappresentare l’interesse comune è il Governo.

 

 

§ 91. — Come il Governo sia, coll’attuale sistema amministrativo italiano, impotente a conoscere e reprimere gli abusi nelle amministrazioni locali.

Ma il Governo è impotente a impedire i disordini. Le Opere pie sottoposte alla tutela delle Deputazioni provinciali, sono sottratte alla sua azione. Del resto, quando pure esso intervenisse a sorvegliare la loro amministrazione, l’essere a queste imposto l’obbligo di presentare all’autorità tutrice i soli conti consuntivi e non i bilanci([201]), toglierebbe efficacia a qualunque sorveglianza. L’amministrazione dei Consigli provinciali è in alcuni suoi atti sottoposta alla sorveglianza ed anche alla tutela del Prefetto([202]). Così pure quella dei Consigli comunali([203]). Per quanto limitate, le facoltà del Prefetto gli permetterebbero di evitare per lo meno i disordini maggiori, e d’altra parte quando fosse in grado di scuoprire le disonestà, avrebbe la risorsa d’invocare la giustizia penale, quantunque anche per questo, l'articolo 110 della legge comunale e provinciale gli leghi singolarmente le mani.

Ma quand’anche esso avesse pieno arbitrio per reprimere i disordini e le disonestà, non potrebbe farlo perchè non le conosce. Già avemmo occasione di descrivere qual sia la sua posizione in mezzo alla popolazione. Esso, nel fatto, non ha altro mezzo di conoscere ciò che accade nei Comuni, che le carte di ufficio o le informazioni di quelle autorità locali stesse che si tratta di sorvegliare, o di quando in quando qualche accusa anonima, o quelle relazioni che possa piacere ai carabinieri di fargli, sopra fatti che non sono propriamente sottoposti alla loro sorveglianza. Egli si trova ugualmente al buio del vero, sia che le magagne vengano da abili persone nascoste sotto bilanci di forma inappuntabile, sia che l’inettezza degli amministratori gli presenti bilanci incomprensibili per gli errori e la confusione. E ciò in un paese, dove i Consigli municipali in non pochi piccoli Comuni sono composti in tal modo, che l’autorità politica non sa trovarvi una persona di onestà abbastanza riconosciuta per poterla proporre al Governo per la carica di Sindaco; in un paese, dove il sentimento e la cognizione della legge manca al punto, che si vedono in taluni Municipii dei sindaci fare eseguire arresti arbitrari per contravvenzione alle leggi sulla tassa del macinato, ed altrove dei Consigli comunali che impongono per conto proprio, con sistema di esazione proprio, una tassa municipale sul macinato.

 

 

§ 92. — Perchè il migliorare la legislazione e la pratica di Governo sia insufficente ad impedire i soprusi non violenti a danno delle classi inferiori, e gli abusi nelle amministrazioni locali.

È ancora più difficile il trovar rimedi per provvedere ai mali accennati in questo capitolo che per ristabilire la sicurezza pubblica. Difatti le condizioni di questa sono un effetto indiretto e derivato dallo stato sociale dell’Isola, mentre ne sono effetti immediati, e quasi diremmo necessari, le relazioni fra la classe ricca e quella più povera o assolutamente proletaria, ed in gran parte anche l’attuale condizione delle amministrazioni locali. Sicchè è lecito dubitare che si possano trovare rimedi efficaci all’infuori della modificazione di quello stato sociale stesso, il quale, fa una sola e medesima cosa colle condizioni economiche, colla distribuzione cioè della ricchezza.

Difatti, se consideriamo le amministrazioni locali in qual modo si potrà, per esempio, impedire l’iniqua distribuzione delle imposte comunali? Il sostituire il Governo ai Municipii nell’amministrazione dei Comuni non è praticabile, e quando lo fosse, recherebbe più danno che vantaggio, perchè l’innumerevole personale di cui dovrebbe provvedersi il Governo per dirigere siffatti uffici, sarebbe probabilmente peggiore, certo non migliore di quello che attualmente dirige ed amministra i municipi siciliani. L’assicurare a priori con una legge l’equa ripartizione delle gravezze comunali è impossibile, giacchè la equità o l’ingiustizia di una data imposta in un luogo dipende esclusivamente dalla forma che ivi assume la ricchezza e dalla sua distribuzione. Il legislatore dovrebbe dunque conoscere quali sieno queste condizioni della ricchezza in tutti i Comuni d’Italia, dividere questi per categorie in ordine a queste condizioni, e determinare per ogni categoria l’ordine e la proporzione nella quale si dovessero imporre le varie tasse comunali. E ciò coll’infinita varietà delle forme e della distribuzione della ricchezza nelle varie parti d’Italia. La cosa è evidentemente impraticabile nell’attuale ignoranza delle condizioni economiche delle varie province del Regno, e lo sarebbe pure, molto probabilmente, anche quando queste fossero perfettamente conosciute([204]). La sola garanzia per un’equa distribuzione delle imposte comunali, è la partecipazione efficace o l’influenza nel governo delle cose locali, di tutte le classi della popolazione che sottostanno alle medesime; il che in Sicilia non è, nè può essere nelle attuali condizioni economiche.

 

 

§ 93. — Dei mezzi che si potrebbero usare colla speranza di diminuire il numero dei disordini nelle amministrazioni locali, e dei soprusi non violenti a danno dei deboli.

All’infuori di questo, non v’è altro modo per impedire l’ingiusta distribuzione delle imposte, che la influenza personale che possa acquistarsi dai rappresentanti del Governo, quando sia tale da porli in grado di ottenere colla persuasione ciò che non possono imporre in forza della legge, oppure i mezzi indiretti che possa fornire la legge stessa. Ma prima che vi sia luogo di pensare a tentare siffatti mezzi, è necessario che i rappresentanti del Governo siano persone capaci di distinguere che cosa sia equa distribuzione d’imposte nel territorio di loro giurisdizione.

Per ciò che riguarda i disordini o gli abusi nelle amministrazioni locali di ogni genere, qualche miglioramento si potrebbe probabilmente procurare, con grandi sforzi. Ma la prima condizione per provvedervi, è che i prefetti e sotto-prefetti conoscano almeno un poco il territorio di loro giurisdizione: per ciò dovrebbero visitarlo. Non mancano a queste visite le difficoltà pratiche, la principale delle quali, in quanto riguarda i sotto-prefetti non è, in molti casi, la spesa, o la difficoltà materiale del viaggio, bensì una cosa molto meno prevedibile: la rivalità d’uffizio che può nascere fra il prefetto e il sotto-prefetto, quando il primo veda il secondo affiatarsi più di lui cogli amministrati. Ma oltrechè il rendere siffatta visita obbligatoria per legge toglierebbe occasione in molti casi al nascere di questo sentimento, esso s’incontrerebbe probabilmente ben di rado quando i prefetti fossero persone tali da non lasciarsi vincere in attività e in amore all’ufficio dai loro inferiori gerarchici.

Del resto queste visite che per le grandi difficoltà del viaggio nell’interno della Sicilia e per il tempo che richiedono, non potrebbero generalmente esser fatte dal capo della provincia o del circondario più di una volta nel corso della sua residenza, lo porrebbero bensì in grado di prendere un’idea generale dei luoghi e delle persone, e di procurarsi talvolta delle intelligenze nei Comuni, non di scuoprire le magagne delle amministrazioni locali di ogni genere. Per provvedere a queste, sarebbe necessario in Sicilia, come nelle province meridionali del Continente, come forse in tutta Italia, l’istituzione di commissari itineranti che andassero Comune per Comune rivedendo i conti e le casse delle amministrazioni dei municipi delle Opere pie, dei Monti frumentari, raccogliessero informazioni ed avessero facoltà di promuovere l’azione dell’autorità giudiziaria. Rimarrebbe da studiare il modo di coordinare l’azione di questi commissari con quella delle altre autorità amministrative e giudiziarie.

Questa medesima istituzione potrebbe fino ad un certo punto giovare a reprimere i soprusi fra i privati. Noi non pensiamo certamente a rendere di azione pubblica le querele civili, ma molti soprusi presenterebbero elementi per un’azione penale, e di questi dovrebbesi approfittare.

Ma questo provvedimento e qualunque altro migliore si potesse imaginare, non avrebbe efficacia alcuna se non si ponesse in tutti i gradi dell’amministrazione civile e giudiziaria un personale scelto. Non parliamo poi delle qualità speciali e del coraggio eccezionale che dovrebbero avere i commissari incaricati di visitare i Comuni come pure tutto il personale delle prefetture e sotto-prefetture. Già avemmo luogo di dire come il miglioramento del personale inaugurato nel 1874 sia stato solamente parziale. Anche adesso, in molte amministrazioni governative([205]), o prevale l’elemento siciliano che per le ragioni già esposte, potrà esser buono sul Continente, ma non può, salvo distinte eccezioni individuali, che esser pessimo in Sicilia, oppure sono mandati impiegati continentali per tirocinio o per punizione, di modo che dove non v’è corruzione vera e propria, pure prevale una cedevolezza, una compiacenza a violare il proprio dovere, la quale trova poi il suo compenso in un ricambio di favori, di protezioni, d’intercessioni presso l’autorità superiore. La prima condizione per ottenere un buon personale così amministrativo come giudiziario, è di escluderne del tutto l’elemento siciliano, facendo eccezione solamente per quei pochissimi cui già avemmo occasione di alludere, ed ai quali l’altezza dell’ingegno e l’energia del carattere ha concesso da un lato di conoscere e capire l’indole delle società moderne, dall’altro di liberarsi da tutti quei sentimenti che sottopongono i Siciliani alla fitta rete degli interessi locali. Per gli impiegati poi delle altre parti d’Italia, converrebbe lasciarli in Sicilia tempo sufficente perchè potessero conoscere il paese ed approfittare delle cognizioni acquistate; converrebbe che fossero tanto intelligenti da capire ciò che vedono, e qual sia l’indole vera del paese, da sventare le astuzie da cui sono circondati; tanto onesti e tanto energici da resistere alle tentazioni d’ogni genere. Però, non basta l’energia, l’intelligenza e l’onestà; è necessaria anche una grande abilità e molto tatto. I rappresentanti del Governo potrebbero ottener molto in Sicilia per mezzo della influenza personale. La cosa sembra a prima vista inverosimile a chi ripensi a tutti i discorsi che si sono sentiti sulla diffidenza e sull’antipatia che dimostrano i Siciliani per le autorità, specialmente se continentali, sentimenti di cui già esaminammo gli effetti riguardo alla sicurezza pubblica. Eppure nulla è più vero.

 

 

§ 94. — Come la diffidenza e l’antipatia che ispirano i rappresentanti del governo a molti Siciliani, si possano vincere, e con quali mezzi.

Che questa diffidenza e questa antipatia esistano, è indubitato. Diremo più: il Governo e tutto ciò che lo rappresenta o che è da lui rappresentato, è in molti luoghi profondamente disprezzato. Ma, prima di tutto, questi sentimenti sono molto meno generali che non si creda, ed inoltre, essi nascono da cagioni diverse da quelle che generalmente s’imaginano.

Che gli accennati sentimenti non sieno insiti nella natura dei Siciliani, e comuni a tutti, lo dimostrano esempi di ogni specie. Da un lato, abbiamo vista la bassa mafia al servizio della polizia, dall’altro vediamo ogni giorno delle autorità, specialmente le nuove venute, circondate ed accarezzate dai principali del paese dove sono. Queste cortesie sono spesso interessate, e con esse ciascun partito cerca impadronirsi del nuovo funzionario, però talvolta sono anche senza secondo fine. Se d’altra parte ci volgiamo ad analizzare l’antipatia, la diffidenza, il disprezzo che ispirano le autorità, la spiegazione si presenta chiara ed evidente alla mente. Fino adesso in Sicilia la legge ed il Governo che la rappresenta, sono stati, tutt’i conti fatti, i più deboli dappertutto. In conseguenza, il sentimento pubblico, secondo una legge psicologica di cui già cercammo dimostrare l’esistenza, s’informò agl’interessi di chi realmente dominava, i quali sono contrari a quelli delle leggi. Ne risultò una tendenza generale a considerare le leggi, e in conseguenza i loro rappresentanti come intrusi, la quale, aiutata dalla tradizione, influì sulle menti dei più, e costituì un’opinione pubblica, la cui pressione determinò gli atti esterni anche di coloro che non dividevano il sentimento generale.

Cotale essendo lo stato delle menti, è facile imaginare con quali sentimenti la popolazione sottostia ai sacrifizi che l’autorità non riconosciuta del Governo riesce ad imporre. Le tasse, quand’anche fossero leggerissime, sarebbero considerate come soprusi da coloro stessi che ne pagano regolarmente delle gravissime all’autorità riconosciuta dei briganti o della mafia. E molto più sono considerate come soprusi delle tasse gravi accompagnate da formalità che le rendono più gravi ancora. Inoltre il Governo, continuando nella sua debolezza non dà in cambio delle tasse quei vantaggi di sicurezza pubblica, di opere pubbliche ec., ch’egli promette, e che i Siciliani conoscono per fama essere in altri paesi assicurate da lui. Bene è vero, che se esso è impotente ad assicurare questi vantaggi specialmente in ciò che riguarda la pubblica sicurezza, la colpa è principalmente delle condizioni sociali dell’Isola; ma i Siciliani non ne hanno coscenza. Per modo che, anche all’infuori delle speciali influenze che determinano in Sicilia l’indirizzo dell’opinione pubblica, la maggioranza della classe abbiente siciliana che dall’attuale prevalenza della potenza privata trae maggior danno che vantaggio, potrebbe considerare come ingiustificate le gravezze imposte dal Governo.

Da ciò che precede risulta che allorquando la legge per mezzo del Governo diventasse realmente la più forte, sparirebbe in gran parte quell’antipatia che prova per esso la classe abbiente (della classe povera non è qui luogo di parlare). Perchè da un lato sparirebbe quella forza che imprime all’opinione pubblica un indirizzo avverso al Governo; dall’altro, lo sparire della prepotenza privata recherebbe alla maggioranza della classe abbiente vantaggi sensibili. È vero che d’altra parte una rigida applicazione della legge, toglierebbe alla totalità di questa classe molti vantaggi materiali e morali nelle sue relazioni colle classi povere, ma il malcontento prodotto da questa perdita sarebbe forse compensato dagli altri vantaggi recati dal dominio della legge. E ad ogni modo, quando il Governo avesse impresso negli animi il sentimento della sua forza, erediterebbe quella simpatia che adesso è privilegio dei prepotenti. Preparato per tal modo il terreno, il rappresentante del Governo, quando non fosse persona volgare, potrebbe valersi nelle sue relazioni colla classe abbiente siciliana, la cui educazione intellettuale, specialmente in provincia, è generalmente piuttosto scarsa, di quell’autorità morale che viene assicurata ad una mente di coltura superiore; la sua influenza potrebbe lottare vantaggiosamente contro quella dei faccendieri, e per mezzo delle conversazioni private, gli sarebbe più che in ogni altro paese possibile ottenere in via ufficiosa, colla persuasione, dei miglioramenti che la legge la più complicata sarebbe impotente a procurare.

 

 

§ 95. — Conviene che i funzionari siano assicurati dell’appoggio del Governo.

Comunque siasi, il personale amministrativo e giudiziario per quanto sia bene scelto, sarà impotente a togliere o scemare i guai nelle relazioni fra classe e classe e nelle amministrazioni locali, quando l’opera sua non sia assicurata sull’appoggio del Governo a dispetto di ogni e qualunque influenza od interesse locale. Non diremo altro per adesso sopra questo argomento dovendolo trattare nel capitolo prossimo.

 

 

§ 96. — Le opere pubbliche.

Fra i principali mezzi per rimediare ai mali non solo amministrativi, ma di ogni specie, devesi annoverare la facilità delle comunicazioni, la costruzione di una fitta rete di strade ruotabili e di ferrovie. Certamente le strade da sè sole non potrebbero recare grande utilità almeno in breve tempo, ma senza di esse, qualunque altro rimedio perderebbe ogni efficacia.

L’argomento sul fatto e sul da farsi in questa materia, è stato dalla Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia dottamente e distesamente trattato([206]). Ci contenteremo dunque di rinviare a quella il lettore, e per parte nostra aggiungeremo solamente poche osservazioni. Di fronte allo spreco di forze e di denari adesso cagionato dal mancare l’unità di direzione per la costruzione della rete stradale siciliana, di fronte all’urgente bisogno di compierla nel più breve tempo possibile, noi proporremmo di affidare allo Stato la costruzione non solo delle strade comunali obbligatorie (come propone la Commissione d’inchiesta) ma delle strade di ogni categoria, rivalendosi esso delle spese anticipate sugli enti cui spettano per legge. E daremmo anche all’amministrazione incaricata di questa opera in Sicilia quella certa autonomia di fronte al potere centrale, che la Commissione d’inchiesta propone di dare all’amministrazione incaricata della costruzione delle ferrovie.

La riescita di un tale sistema, dipenderebbe esclusivamente dal personale cui venisse dallo Stato affidata la sua esecuzione. Finchè dureranno ad esser fatti come lo sono adesso gli studi preliminari e le perizie dei lavori da farsi; finchè i prezzi posti agli appalti de’ lavori saranno tali da dar margine agli accollatari a pubblici e scandalosi guadagni di centinaia di mila lire sulla costruzione di pochi chilometri di strada; finchè i collaudi dei lavori si faranno in guisa tale che, anche dove il prezzo dell’accollo riesca giusto od anche inferiore al giusto, pure l’accollatario possa trovare sicuro guadagno colla cattiva costruzione delle strade, l’affidare la direzione allo Stato, alle Province, ai Comuni o ad altri sarà tutt’uno. Il personale dovrebbe dunque essere intelligente, istruito, laborioso e coraggioso per potere studiare sui luoghi le condizioni dei terreni e i tracciati. Dovrebbe essere inaccessibile alle influenze e pressioni di ogni genere e tener conto solamente degli interessi generali dell’Isola nella determinazione dei tracciati delle strade e dell’ordine di tempo nel quale si dovessero costruire, e per ciò dovrebbe essere composto esclusivamente di persone del Continente.

Ma perchè queste qualità del personale approfittassero alla Sicilia e all’Italia, converrebbe che il Governo centrale non fosse il primo a lasciarsi influenzare od ingannare da quegli interessi esclusivi di persone, di camarille, di località che dappertutto in Sicilia si fanno innanzi, s’impongono ai Siciliani stessi, si presentano sotto forma d’interesse generale e come tali si fanno trattare a danno degli interessi generali veri. Nella combinazione di questo prevalere ed imporsi degli interessi e dei desiderii d’infime minoranze, collo spirito della legislazione e della pratica di Governo italiano, sta la cagione prima e il fondamento della straordinaria impotenza di questo a riparare a tutti i mali di Sicilia di ogni genere e specie. Preparato ormai il campo coll’analisi degli elementi della società siciliana, potremo, senza troppo dilungarci, esporre nel capitolo seguente in quali modi e con quali forme siffatta cagione possa produrre tali effetti.


 

 

Capitolo V.

IL GOVERNO E LE INFLUENZE LOCALI IN SICILIA

 

 

 

§ 97. —Come, per il sistema di governo in vigore in Italia, la classe dominante sia considerata quale interprete dei bisogni dell’intera popolazione.

Negli Stati costituzionali, i quali come l’Italia intendono reggersi per mezzo della classe media, il fondamento di tutto il meccanismo governativo sta nelle influenze locali. Il Ministero governa per mezzo della maggioranza dei deputati alla Camera, e l’elezione di questi dipende in gran parte dalle persone che per qualsiasi cagione possono influire sui voti degli elettori in ogni collegio. Ancor quando il Ministero usi per determinare l’indirizzo di queste persone influenti i mezzi di cui dispone, questi non possono essere che promesse o minacce, ed in conseguenza si risolvono inevitabilmente nel favorire o nell’avversare quelle persone stesse nei loro interessi. Questi interessi medesimi, nell’atto pratico, trovano inoltre validi avvocati ed intercessori nei deputati eletti. I bisogni e i desideri manifestati da queste persone influenti, determinando la scelta d’un deputato piuttostochè di un altro, sono necessariamente considerati come bisogni e desiderii del paese. Per modo che l’opinione di quelle costituisce l’opinione pubblica.

Imbevuto dallo spirito di siffatto ordinamento l’intero sistema del Governo, ne risulta che questo per determinare l’indirizzo della sua politica in tutto il paese ed in ciascuna delle sue parti, cerca di conoscere i desiderii della maggioranza di queste persone influenti rispettivamente in tutto il paese ed in ciascuna parte di esso. E siccome in teoria, i desiderii della maggioranza di esse rappresentano quelli della maggioranza della classe media, i quali a loro volta sono supposti rappresentare quelli della maggioranza dell’intera popolazione; siccome i desiderii dell’intera popolazione si considerano come la espressione dei suoi bisogni, il Governo che si uniformi ai desiderii della maggioranza di quelle persone influenti, regge in teoria l’Italia tutta e le sue singole parti conformemente ai loro bisogni; considera sè stesso ed è considerato da quell’opinion pubblica che ha organi e voce, come un Governo che abbia raggiunto il suo fine. Il detto adesso intorno all’indirizzo nella politica generale, si può ripetere in quanto riguarda i particolari dell’amministrazione in ciascuna località. Difatti, il criterio per giudicare se i funzionari mandativi soddisfanno o no per le loro qualità personali e per gli atti della loro amministrazione, ai bisogni della generalità della popolazione, è l’approvazione o disapprovazione delle più influenti fra quelle persone medesime.

L’autorità delle persone influenti di ciascun luogo, qualunque sia l’origine e la cagione di questa influenza, è dunque riconosciuta, sancita e adoperata dal Governo, e queste costituiscono in conseguenza anche nella politica e nell’amministrazione, la classe dominante. Da tutto ciò risulta che, se da un lato l’intervento diretto della classe dominante, nella amministrazione locale, è fino a un certo punto sottoposto per le leggi vigenti al controllo del Governo, dall’altro non vi ha appello contro l’intervento dell’influenza di quella classe medesima su l’indirizzo del Governo stesso, il quale invece è da essa controllato.

Per altro, se da un lato si suppone che i desiderii di questa classe rappresentino i bisogni della generalità della popolazione, dall’altro, taluni di questi bisogni sono conosciuti a priori, per essere stati sanciti dai rappresentanti stessi di essa colle leggi. I principali fra questi bisogni sono il mantenimento dell’ordine pubblico e l’amministrazione a vantaggio dell’universale dei pubblici patrimoni sotto tutte le loro forme. Per quanto si possa discutere se i mezzi adoperati per raggiungere questi fini rispondano realmente ai bisogni di tale o tal’altra parte d’Italia, non è discusso da nessuno, almeno ufficialmente, che il raggiungerli corrisponda al bisogno dell’intera popolazione. Date queste premesse, risulta a termini di logica che la classe dominante, rappresentando gl’interessi generali, l’adoperarla nel Governo è il miglior modo di raggiunger fini corrispondenti al bisogno dell’universale, quali sono il mantenimento dell’ordine pubblico e la retta amministrazione dei pubblici patrimoni.

 

 

§ 98. — Come in Sicilia il fatto non risponda alla teoria di governo ricevuta in Italia.

Non è questo il luogo di ricercare fino a qual punto il fatto risponda alla teoria nell’Italia in generale. Certo è che non vi risponde in Sicilia. Quivi la classe abbiente è scarsa, e in questa l’influenza e l’autorità è monopolio esclusivo di pochissimi. Essi soli hanno voce tanto forte da farsi sentire, e mezzi tanto efficaci da farsi temere dal Governo; da loro dipende l’elezione dei deputati; a piacer loro si manifestano quei fenomeni che in altri paesi sono a torto od a ragione considerati come la espressione dell’opinione pubblica. D’altra parte, gli interessi di questi pochi non hanno nulla che fare con quelli della popolazione in generale; sono interessi strettamente personali di loro o di quegli altri individui che per relazioni di clientela fanno capo a loro. Diremo più: se l’interesse generale sta principalmente nella pubblica sicurezza, nell’impiego a vantaggio di tutti del pubblico patrimonio, nell’applicare in modo uguale per tutti le leggi di ogni specie, gl’interessi di quei pochi sono contrari a quelli dell’universale, giacchè quello che per loro importa più, è di mantenere la propria autorità, e questa si fonda in parte, ne abbiano essi o no coscenza, sul proteggere e sul mantenere in stato i malfattori; e si fonda del tutto sull’assicurare a sè, e più che a sè ai propri clienti, sotto una forma o sotto un’altra, l’utile dei patrimoni pubblici di ogni specie; finalmente sul far prevalere, ovunque sia bisogno, a vantaggio proprio e dei clienti, la propria volontà, sopra quella della legge.

In conseguenza, più un provvedimento o un funzionario sono efficaci nel promuovere il vantaggio generale, maggiore è l’opposizione che incontrano in quel ristretto numero di persone che in Sicilia forma la classe dominante: opposizione nel maggior numero dei casi sincerissima, come quella di persone che non conoscono nè ammettono stato sociale diverso da quello in cui vivono. Di modo che un Governo il quale si regoli sull’approvazione o disapprovazione di quella classe per conoscere se i provvedimenti che prende e i funzionari che invia sono o no realmente vantaggiosi per l’interesse generale, otterrà dalla prova resultati opposti alla realtà dei fatti e alle più ragionevoli previsioni.

 

 

§ 99. — Effetti della contradizione fra la teoria e il fatto, sui procedimenti del Governo italiano in Sicilia.

Così difatti dal 1860 in poi è accaduto e accade tuttora a tutti i Ministeri d’ogni partito che si sono succeduti al potere in Italia. I quali vedendo nascere risultati tanto inaspettati dal criterio, secondo il quale intendevano giudicare la bontà dei propri atti, mancata loro la regola di condotta, andarono a tastoni, pur sempre sforzandosi di conciliare due cose inconciliabili e brancolando d’insuccesso in insuccesso. E siccome quando cerca l’interesse generale non riesce ad ottenere ciò che crede essere l’approvazione pubblica, e quando ricerca questa si allontana fatalmente da quello, così il Governo, nel continuo correr dietro dell’uno e dell’altra insieme, vien trascinato in una disperata altalena, e, secondo la impressione del momento corre da un eccesso nell’altro. Spesseggiano i delitti, accade un fatto più rumoroso che all’ordinario; il Ministero manda istruzioni energiche ai suoi rappresentanti, prende provvedimenti vigorosi, si moltiplicano gli arresti, le ammonizioni, gli invii a domicilio coatto, si giunge talvolta fino alla illegalità. Allora principiano le preghiere, le intercessioni di persone influenti, i reclami, cresce il clamore. Il Governo s’intimorisce, tituba, cede, abbandona i suoi funzionari, li trasloca. Nel medesimo modo, da un lato chiede alla Camera provvedimenti eccezionali, dall’altro butta via cinque milioni per una società ormai irrevocabilmente condannata al fallimento. In mezzo a questo confuso avvicendarsi di rigori e di compiacenze, in mezzo alle incertezze nella direzione suprema, ogni funzionario va lavorando per conto proprio sul problema che tormenta l’autorità centrale, e lo scioglie a modo suo. Da un lato si fa dar la croce di cavaliere a gente che dall’altro si manda a domicilio coatto. In un luogo, l’autorità s’impone con ogni mezzo; in un altro si prefigge per scopo di far tollerare il Governo. Il quale scoraggiato, conscio della propria impotenza è troppo felice di sgravarsi della sua responsabilità sopra i suoi rappresentanti nell’Isola, e giunge ad ignorare gli atti loro al punto di lasciarli tentar di ristabilire la sicurezza pubblica accettando l’alleanza degli stessi malfattori. Del quale fatto un Governo ci sembra doversi considerare colpevole per averlo potuto ignorare, come e quanto se l’avesse ordinato egli stesso.

In mezzo a questa inaudita confusione, rimane sola ad esser sempre ferma, costante, avveduta e coerente a sè stessa, la politica di coloro che intendono mantener sottoposta la società siciliana alla loro privata autorità, e che riescono non solo a conservar questa, ma ad accrescerla.

Imperocchè la loro influenza in Sicilia estende i suoi effetti al di là dei limiti dell’Isola fino alla capitale. I deputati, fondamento del Governo costituzionale, sono in Sicilia, come altrove, eletti nel seno della classe dominante, secondo la sua volontà, e ne rappresentano gl’interessi. Certo non è solamente in Sicilia che i deputati si adoperano per procurare ai loro elettori favori più o meno conciliabili colla legge. Ma non dappertutto il caso è così frequente, ma non dappertutto questi favori hanno l’importanza e gli effetti medesimi che in Sicilia. In un paese dove niuno crede che le leggi siano superiori a tutti e per tutti uguali, e dove è convinzione generale che la loro applicazione dipenda dalla autorità dei potentati locali, ogni concessione che venga a questi fatta ribadisce l’universale credenza: e queste concessioni sono sempre state numerose, salvo in alcuni periodi pur troppo corti. Le intercessioni hanno gli argomenti i più vari. S’intercede per risparmiare l’ammonizione a qualche mafioso di bassa sfera, come per ottenere la traslocazione di qualche alto impiegato che sia incorso nella disgrazia dei maggiorenti locali. Si potrebbe dire che i deputati siciliani hanno dai loro elettori il mandato, più che di far nuove leggi di procurare che sieno fatte eccezioni a quelle in vigore. Certamente non tutte le intercessioni hanno buon successo. Ma troppe sono quelle che l’ottengono.

I favori non si concedono solamente dal potere centrale o per suo ordine. Molti funzionari d’ogni grado e d’ogni ordine, i quali hanno uffici nell’Isola, ne concedono per conto proprio, oppure tollerano abusi, il che equivale a conceder favori. E la cosa è naturale. Da un lato, vedendosi abbandonati dall’autorità centrale, è facile che si lascino andare a contentar la gente per aver pace. Dall’altro, il personale amministrativo, per ciò che riguarda gli elementi continentali, subiva e subisce tuttora, in quella parte che non è stata depurata o che fu dopo la depurazione peggiorata, gli effetti dell’ambiente. In quanto agl’impiegati siciliani, già dicemmo come il desiderio di acquistare influenza o protezione nel loro paese, sia, per la massima parte di loro, ragione più che sufficente per conceder favori. Se si aggiunge ai casi di favori realmente concessi, quelli in cui le persone influenti attribuiscono alla loro intercessione il merito della giustizia che sarebbe stata ad ogni modo resa, non sarà difficile capire come non solo si mantenga, ma cresca ognora nella gran massa dei Siciliani la convinzione che all’autorità dei loro piccoli potentati locali cedono Legge e Governo. E così avviene che quest’ultimo diventi sempre maggiormente in Sicilia un oggetto di disprezzo e di ludibrio; che, allorquando in qualche accesso spasmodico di energia fa sentir la sua forza, faccia quasi l’effetto di rivoltarsi contro le autorità legittime che dominano nell’Isola ed ecciti odio senza rispetto. Così il Governo, nel cercare di affezionarsi gli elementi locali, vede le sue concessioni voltate a suo danno, e dove cerca di farsi della classe dominante uno istrumento, diventa invece istrumento di lei; al punto che se talvolta sembra aver forza alcuna, vuol dire che è venuto in mano ad un partito locale.

Bene è vero che allora diventa potente e i suoi mezzi di azione non hanno più limiti. Perchè se le illegalità commesse dal Governo per proprio conto, possono trovare un ostacolo nelle manifestazioni dell’opinion pubblica e negli altri mezzi che il sistema costituzionale concede ai cittadini per reagire, questi mezzi non servono contro le prepotenze di un partito locale che si valga dell’autorità pubblica per predominare. Le garanzie costituzionali non hanno effetto contro quegli abusi cui i cittadini sono più esposti in Sicilia. Se ne fece la prova sotto la prefettura militare, allorquando gli eccessi di quella frazione della mafia che aveva in mano la polizia, si commisero per parecchio tempo in mezzo al silenzio generale, e quando s’alzò qualche voce coraggiosa, rimase senza eco, finchè lo scandalo fu portato in Parlamento. Tutt’al più in questi casi si addosseranno gli eccessi commessi al Governo, il quale ne assume l’odiosità senza averne il profitto, e trae le castagne dal fuoco a vantaggio dei despoti locali, continuando sempre a fare di fronte ai Siciliani la parte del tiranno babbeo ed impotente; un chè di simile al vecchio marito ingannato delle vecchie commedie.

E durerà a fare questa parte in Sicilia, finchè non si sarà deciso a rinunziare o all’appoggio della classe dominante, o all’adempimento dei suoi fini più essenziali. Fino a quel momento il suo continuo tentennare finirà sempre inevitabilmente nella ricerca del primo a danno dei secondi. Ve lo trascinano fatalmente tutte le forze di cui si compone il nostro sistema politico. E quanto maggiormente un ministero si vanterà di esser liberale e di governare secondo la volontà del paese, tanto più governerà la Sicilia secondo gl’interessi della ristrettissima classe che vi domina, e transigerà con lei in ogni particolare.

Ma la prima condizione perchè il Governo si rassegni a rinunziare all’una o all’altra di queste due cose, è che si convinca della loro incompatibilità. E questa convinzione è più difficile ad ottenersi che non sembri a prima vista, giacchè richiede che il Governo conosca realmente le condizioni della Sicilia, cosa difficile.

 

 

§ 100. — Come sia impossibile al Governo nelle condizioni attuali, di conoscere i veri bisogni della Sicilia.

Nello stato attuale delle cose, è quasi impossibile che il Governo giunga a questa cognizione. Difatti per conoscere le condizioni di ciascuna parte d’Italia, non ha che due mezzi; le relazioni dei suoi funzionari, e le manifestazioni dell’opinione pubblica locale.

Per i funzionari governativi, sono grandi dappertutto, e specialmente in Sicilia, le difficoltà che loro impediscono di conoscere le condizioni generali di una regione; sono maggiori ancora quelle che impediscono ad essi di manifestarle quando le abbiano conosciute. Prima di ogni cosa, il soggiorno dei funzionari in Sicilia è troppo breve per permetter loro, non solo di fare del paese uno studio generale o ragionato, ma nemmeno di acquistare le cognizioni più indispensabili per il disimpegno degli affari correnti. Senza parlare delle frequenti traslocazioni provocate dalle influenze locali, i funzionari governativi mandativi con pochissimi e spesso punti vantaggi eccezionali, appena giunti se non sono nati nell’Isola, non hanno, almeno nel più dei casi, cura maggiore che quella di ottenere in ogni modo di esser richiamati sul Continente. In un siffatto stato d’animo, il più che si possa aspettare da essi è lo stretto adempimento del loro dovere professionale. D’altra parte anche i maggiori fra loro, preposti ad una sola provincia dell’Isola, hanno un campo d’osservazione troppo ristretto. Inoltre, la cura incessante dei particolari, che pure hanno una grandissima importanza immediata, dà loro un abito di mente poco atto alle considerazioni generali. Per modo che i soli i quali sarebbero atti a dare buoni giudizi, sono quei pochissimi fra i funzionari nati in Sicilia, che non dividono i modi di sentire e di vedere dei loro compaesani.

Per altro, quando pure un funzionario governativo si fosse persuaso che il governar bene la Sicilia coll’aiuto dei Siciliani è e sarà, almeno per un certo tempo, impossibile; se avesse il non comune coraggio di dichiararlo, egli probabilmente, non farebbe altro che recar danno a sè stesso. Un’eresia tanto orribile chiamerebbe sul suo capo le scomuniche del liberalismo dottrinario che in Italia domina assoluto nelle regioni ufficiali senza distinzione di partito. Pioverebbero le interpellanze in Parlamento; si chiederebbero spiegazioni ai Ministri sulle gravi insinuazioni fatte da quel funzionario. Nella discussione di queste, i più mansueti gli darebbero del codino e del borbonico, gli sarebbe rovesciato addosso tutto il frasario consacrato, si parlerebbe molto di libertà, di dignità e di altre cose simili. Sarebbe votato a grande maggioranza un ordine del giorno che condannerebbe altamente lo sciagurato, colpevole di aver offeso una delle più nobili parti d’Italia, ed egli sarebbe troppo felice se riescisse a cavarsela con una traslocazione.

Però, chi dopo la seduta volesse levarsi il gusto di ascoltare i discorsi dei deputati, e magari dei ministri negli anditi della Camera, per le vie, nelle trattorie, nei caffè, nei salotti, potrebbe sentire la maggior parte di loro, compresi molti siciliani, fare discorsi ben diversi da quelli uditi nella seduta pubblica. — Certo gli apprezzamenti di quel funzionario erano esagerati, le sue conclusioni sono inammissibili, però molto di ciò che ha detto è vero. Ma bisognava dare una soddisfazione all’opinione pubblica siciliana. —

 

 

§ 101. — Di che cosa sia costituita l’opinione pubblica in Sicilia.

Se fosse possibile fare la statistica degli elementi che compongono la cosiddetta opinione pubblica, si otterrebbero, crediamo, in tutta Italia risultati stranissimi. Ma in nessuna parte tanto strani come nelle province meridionali, e specialmente in Sicilia. Ivi la gran massa della popolazione non ha voce, o l’ha così debole, che chi sia un poco lontano non l’ode. Per modo che, in mezzo al silenzio generale, quelle poche voci che sono in grado di farsi sentire, sembrano quelle dell’intera popolazione. Così avviene che si creda generalmente da tutto il pubblico italiano, essere rappresentati gl’interessi e i desiderii di tutta la popolazione e di tutta l’Isola da quelli delle poche persone che dispongono dei consigli locali, degli istituti pubblici d’ogni specie, dei giornali, che sono in grado di organizzare ed eccitare dimostrazioni popolari; e da quelli delle città che per la loro importanza storica ed economica, per il numero della loro classe colta sono in grado di farsi sentire. Questa illusione acustica è tanto potente da imporsi a quelli stessi che ne approfittano, e che spesso credono di rappresentare realmente i desiderii dell’Isola intera. Sono innumerevoli gli esempi che mostrano quanto poco abbia che fare cogl’interessi della Sicilia la parvenza d’opinione pubblica siciliana. Nessuno però è evidente quanto il caso recente del sussidio concesso dal Governo alla società di navigazione La Trinacria. Il Ministero volendo dar prova della sua sollecitudine per gl’interessi dell’Isola, non trovò modo migliore che di venire in soccorso di qualche intraprenditore più ardito che felice, il quale stava dibattendosi contro il fallimento ormai inevitabile, e dei capitalisti che avevano compromesso nell’impresa di quello parte dei proprii averi. Poniamo pure che il sacrifizio del Governo fosse creduto efficace da chi dava il soccorso e da chi lo riceveva. Ma è certo però che non sarebbe occorso cercar molto per trovar modo d’impiegare quei cinque milioni con maggiore utilità della Sicilia in generale, che col tenere in vita una società di navigazione. Non intendiamo qui discutere la quistione se importasse più all’interesse generale d’Italia il reggere in piedi una gran società di navigazione o, per esempio, costruire per cinque milioni di nuove strade in Sicilia. Asseriamo bensì che, riguardo alla Sicilia e considerata in particolare, volendo spendere cinque milioni a pro di essa, lo spenderli come si è fatto, anche sotto forma di anticipazione, era curare gl’interessi non della Sicilia, ma di pochissimi Siciliani.

Un altro effetto di questo predominio di una finta opinione pubblica, e più grave nei suoi risultati, ci si presenta in ciò che potremmo chiamare quistione di Palermo. La classe colta di Palermo sostiene, ed in massima parte crede, che gl’interessi della sua città sono quelli di tutta la Sicilia; che col favorir Palermo si giova alla Sicilia intera, e le si nuoce coll’avversarla. Ora, basta fare una corsa nell’Isola per convincersi che non solo il fatto non sta così, ma ancora che vi è antagonismo fra la parte orientale dell’Isola e Palermo. Del resto la rivalità fra quest’ultima e Messina è secolare. Certamente gl’interessi di Palermo sono importantissimi, come quelli di qualunque altra città di duecento e più migliaia di abitanti, principale centro intellettuale di una regione d’Italia. Come porto di mare relativamente considerevole, i suoi interessi sono collegati con quelli di tutte le parti dell’Isola che vi hanno lo sbocco naturale dei loro prodotti; ma niente di più: Palermo è uno degli 8325 Comuni del Regno d’Italia, ed i suoi interessi devono essere coordinati a quelli dell’Isola e dell’Italia tutta. Ma il Governo in questo come in tanti altri casi si è lasciato imporre dalla parvenza di opinione pubblica. Se non che questa, nel caso presente, essendo duplice, quella cioè di Palermo e quella delle città orientali di Sicilia, il Governo, secondo che si abbandonava all’una o all’altra, ha corteggiato Palermo o le ha fatto guerra. Sempre però, avversario od alleato, ha trattato con lei da potenza a potenza, e per tal modo si è mantenuto ed accresciuto nell’universale, e soprattutto nei Palermitani, quell’esagerato sentimento dell’importanza della loro città, il quale è stato ed è tuttora di grave impedimento alla buona amministrazione ed alla prosperità materiale dell’Isola.

In un siffatto stato di cose non solo gl’interessi, ma anco i sentimenti di pochi appaiono come se fossero generali. Così quell’amor proprio e quel patriottismo locale puntiglioso, che si pretende essere una caratteristica degli Isolani in generale e dei Siciliani in particolare, s’incontra nelle grandi città e specialmente in Palermo; ma appena uno s’inoltra nell’interno della Sicilia, lo vede sparire come per incanto e lo ritrova solamente in quelli che hanno subìto l’influenza delle idee e del frasario dei giornali siciliani. Del resto, qualunque sia il numero delle persone che provano questo amor proprio, non v’ha bisogno d’andare a cercare per rendersene ragione, spiegazione tanto comoda di un chè di arcano che distingua gli Isolani dal rimanente degli esseri umani. Il fenomeno è molto più semplice: Nei grandi centri è numerosa la classe colta, di coloro cioè i quali capiscono come lo stato della Sicilia differisca da quello di molti altri paesi, i quali ne soffrono, e provano quel medesimo sentimento che noi tutti Italiani proviamo viaggiando in paesi più potenti, più ricchi e più progrediti del nostro. Questo sentimento dimostra solamente che nei Siciliani vi sono elementi morali atti a farli rapidamente progredire, quando le circostanze non vi si oppongano. Se non che da questo sentimento è tratto partito molto abilmente da chi approfitta degli abusi esistenti ed è interessato al loro mantenimento, per sollevare ed attizzare, specialmente nella gioventù, uno sdegno più generoso che ragionevole, ogni qualvolta si espongano alla luce le piaghe della Sicilia e si accenni a volerle curare.

 

 

§ 103. — Partiti politici. Gli autonomisti.

Potremmo ripetere i medesimi ragionamenti riguardo alle opinioni e ai partiti cosidetti politici. Sono monopolio di pochissimi, rappresentano gl’interessi di pochi. Per lo più non hanno della politica altro che il nome, e lo assumono per valersi a fini privati, o tutt’al più di vantaggio locale, dei mezzi di azione e d’influenza che fornisce il nostro ordinamento politico. Nè fa eccezione l’opinione autonomista, che a primo aspetto potrebbe sembrare manifestazione di un patriottismo comune a tutti i Siciliani. Non è altro che il sentimento di pochi, provocato da varie cagioni. È l’interesse di coloro che per ambizione, vanità od altro, sperano vantaggi per sè dall’indipendenza più o meno assoluta dell’Isola; da coloro che non giungendo adesso a farsi innanzi nella folla, sperano che in un piccolo regno di Sicilia, per la minorata concorrenza degli ingegni e delle ambizioni riescirebbero ministri o poco meno, a quelli che desiderano i balli, i divertimenti e i diritti di precedenza che procurerebbe ad essi il soggiorno di una Corte a Palermo. A questo partito si aggregano tutti coloro che per i motivi i più diversi desiderano indebolire e distruggere l’ordine di cose esistente. Con ciò non intendiamo dire che non vi siano autonomisti sinceri e convinti. Crediamo che non esista opinione al mondo la quale non abbia partitanti di buona fede. Il solo fatto che una opinione esiste, è cagione che l’adottino un numero più o meno grande di persone, le quali vi sono portate dalla tendenza della loro mente, da associazioni d’idee o da caso fortuito. Le cagioni poi che hanno dato all’opinione autonomista occasione di nascere in Sicilia sono storiche. Questa non ha luogo di sorgere in una provincia che da tempo immemoriale faccia parte di una grande nazione; ma la Sicilia, dal secondo periodo del dominio musulmano fino al 1816, in tutte le sue vicende è stata sempre, almeno in teoria, un regno a sè, unita ai paesi cui era legata, solamente nella persona del sovrano. Fino a poco prima del 1860, l’idea di libertà in Sicilia, fu perciò connessa con quella d’indipendenza dell’Isola. In conseguenza, non v’ha nulla di sorprendente che la tradizione duri ancora oggi.

 

 

§ 103. — Come l’opinione pubblica siciliana non possa in niun caso servir di guida al Governo italiano.

Non staremo a moltiplicare gli esempi. Peraltro, se l’avere l’opinione pubblica siciliana una base più larga porterebbe il Governo a giudizi meno lontani dalla realtà delle cose in quanto riguarda gl’interessi speciali e momentanei, ciò non avrebbe nessuna influenza sugli apprezzamenti di questo, intorno agli interessi generali e ai rimedi più atti a migliorare le condizioni dell’Isola, considerate nel loro complesso. Riguardo a questi, già cercammo di dimostrarlo, i Siciliani d’ogni classe e d’ogni ceto, meno eccezioni individuali, sono ugualmente incapaci d’intendere il concetto del Diritto nel modo medesimo che s’intende in uno Stato del tipo moderno. E nel proporsi fini materiali apparentemente simili a quelli di uno Stato siffatto, ricorrerebbero ai mezzi i più incompatibili coi fini stessi.

A compiere l’opera prefissaci in questo volume, ci rimane da esaminare con quali mezzi possano codesti fini esser raggiunti in Sicilia.


 

Capitolo VI.

RIMEDI

 

 

 

 

§ 104. — Riassunto degli effetti delle condizioni generali siciliane. Doveri che da queste condizioni risultano per il Governo italiano.

Tutti i fenomeni che abbiamo cercato di descrivere e di analizzare nel presente volume si compendiano in questo: che in Sicilia l’autorità privata prevale sulla sociale. Ne risulta, da un lato la prevalenza dell’interesse privato dove dovrebbe prevalere l’interesse sociale secondo lo spirito delle società moderne in generale, ed in ispecie dell’intero ordinamento politico ed amministrativo del Regno d’Italia; dall’altro lato, che in generale il diritto ha per unico criterio la forza, invece di quelli che lo determinano nelle società moderne. E così, l’uso della violenza è libero in chi ha i mezzi di valersene, il patrimonio pubblico e l’opera dell’autorità pubblica sono vòlti a profitto di pochi, i diritti riconosciuti dalla legislazione civile italiana non hanno sanzione contro la prepotenza privata.

Certo, questo è uno stato di cose come un altro. È stato per secoli quello di tutta Europa; in parecchi paesi dura ancora, ed ha in sè i germi di quello ulteriore sviluppo sociale che si è manifestato in una parte dell’Europa stessa. È probabile che coll’andar del tempo questi germi produrrebbero anche in Sicilia i loro frutti, forse gradatamente e quasi insensibilmente, forse per mezzo di una rivoluzione violenta o di una conquista straniera, niuno è in grado d’indovinarlo. Intanto però l’Isola rimarrebbe lungo tempo in istato simile all’attuale, o poco diverso.

Ma, se la Sicilia deve essere governata secondo i medesimi criteri del rimanente d’Italia, il durare, anche per poco, il solo esistere di questo stato di cose deve considerarsi come un fenomeno morboso, come un disordine, ed in conseguenza l’Italia ha il dovere di sopprimerlo nel più breve tempo possibile.

Se non che nulla prova che il sopprimerlo sia possibile, giacchè nelle questioni politiche e sociali non si possono fare soluzioni a priori. Certo è però che l’Italia deve cercare di toglierlo con ogni sforzo e ad ogni costo. A questa condizione solamente ha il diritto di tenersi unita la Sicilia. Conviene dunque usare ogni mezzo, prima, per far la diagnosi del male, poi per sperimentare i rimedi da quella diagnosi suggeriti, e regolarsi secondo tale esperienza.

Se non che i Siciliani, considerati in generale, non sono atti a contribuire a quest’opera, poichè è precisamente il loro modo di sentire e di vedere che costituisce la malattia da curare. Le opinioni, i giudizi e i suggerimenti dei Siciliani si devono premurosamente ricercare se si vuol conoscere la condizione dell’Isola e gli effetti dei rimedi applicativi. Ma questi giudizi, queste opinioni si debbono considerare come fenomeni, come sintomi d’importanza capitale per chi vuol scuoprire l’indole ed il processo della malattia, non come norme direttive per la cura. Spesso il sentir l’ammalato lamentarsi della sete, è pel medico una ragione per non dargli da bere. Spesso le sensazioni di cui l’ammalato si lamenta più aspramente, sono segno pel medico che i suoi rimedi sono efficaci e portano la guarigione. Spesso un sollievo momentaneo ed un miglioramento apparente è segno che il morbo peggiora, e la morte è vicina. I Siciliani, o piuttosto quella classe ristretta che in Sicilia costituisce l’opinione pubblica, ritengono, è vero, per morbosi taluni dei fenomeni che si verificano nell’Isola, ma perchè da un lato ne ricevono danno materiale immediato, dall’altro conoscono per fama che questi fenomeni si possono sopprimere, perchè in altre società, la loro manifestazione è impedita; però non si rendono conto del come e del perchè lo sia. Se non conoscessero per riputazione che sono altrove tolti via, li considererebbero per forza come fenomeni necessari e normali benchè nocivi, come la pioggia soverchia che facesse marcire sui campi i loro raccolti di un’annata, come una forza ineluttabile della natura di cui ci si può lamentare, ma non accusare alcuno, nè ricercare il rimedio. Inoltre, questi fenomeni sono indissolubilmente legati con altri che quei Siciliani stessi i quali costituiscono l’opinione pubblica, non considerano come anormali, perchè traggono vantaggio da questi, soffrirebbero per la loro soppressione, e, ignoranti dell’indole di quello stato di cose di cui invidiano gli effetti ultimi, non possono intendere come siffatti fenomeni siano accompagnamento necessario di ciò che considerano come male: lo dimostrano gli aspri lamenti sullo stato della sicurezza pubblica per parte di quelli stessi che, allorquando viene arrestato un malfattore, intercedono per lui. Ora, essendo necessario per guarire quelli che anch’essi considerano come mali, di toglier prima ciò che secondo il giudizio loro è un bene, ne viene per necessità, come abbiamo avuto luogo di esporlo nel capitolo precedente([207]), che giudicheranno dei rimedi con criteri non solo diversi, ma opposti a quelli di chi vorrà ridurli allo stato della rimanente Italia, e più questi rimedi saranno efficaci, più saranno da loro considerati come cattivi ed inopportuni, e solleveranno lamenti ed opposizione. Ciò in quanto riguarda le persone che attualmente in Sicilia fanno l’opinione pubblica. In quanto al rimanente della classe abbiente o colta, la quale per adesso non contribuisce a costituire la pubblica opinione, se non in quanto i suoi apprezzamenti e i suoi interessi sono identici a quelli di coloro che hanno su di lei la preponderanza, i vantaggi immediati che potrebbe trarre dai rimedi compenserebbe forse i danni, e sarebbe lecito sperare che non li avverserebbe soprattutto quando fosse tolta l’influenza morale che hanno adesso su di essa coloro che vi predominano([208]). Non sarebbero però da aspettarsi nemmen da lei consigli o suggerimenti direttamente utili, poichè anch’essa, già lo dicemmo, non sarebbe in grado d’intendere il fine ultimo dei provvedimenti presi o da prendersi. In quanto alla gran massa della popolazione, nelle sue attuali condizioni economiche, morali ed intellettuali, è assolutamente incapace di giudicare bene o male un provvedimento d’interesse pubblico, nè si può per adesso aspettar da lei altro che sedizioni e tumulti provocati da un accrescimento presente di sofferenze materiali.

 

 

§ 105. — Lo Stato italiano se vuol rimediare ai mali della Sicilia, deve valersi per governarla degli elementi che gli fornisce la Nazione ad esclusione dei Siciliani.

In conseguenza, se l’Italia vuol porsi in grado di cercare efficacemente i rimedi ai mali della Sicilia e di applicarli con speranza di riescita quando giunga a trovarli, conviene innanzi tutto che si valga a tale scopo dei mezzi morali e intellettuali che le offre la nazione ad esclusione dei Siciliani, o meglio di quasi tutti i Siciliani, giacchè saranno istrumenti migliori di qualunque altro quei pochissimi fra loro che intendono ugualmente lo stato dell’Isola e quello delle società moderne.

Ora, il solo organismo che sia in grado di riunire le forze di una nazione, ordinarle, disciplinarle e dirigerle verso un dato fine, è lo Stato, cioè il Governo. Risparmieremo al lettore una chiacchierata sui limiti teorici dello Stato, ed osserveremo solamente che se nelle condizioni ordinarie si provvede al governo di un paese, di una regione, di una provincia coll’opera combinata dei suoi cittadini e dello Stato in Sicilia, fintantochè faccia parte d’Italia, questi due elementi sono (almeno a parer nostro) incompatibili. L’uno o l’altro deve dominare esclusivamente. Si dia pur la preferenza all’elemento cittadino, ma allora lo Stato stia da parte; si lasci la Sicilia in assoluta balìa di sè stessa, chè allora vi sorgerà spontanea un’autorità sociale la quale sarà risultante delle sue forze naturali, e conseguentemente in grado di reggerla per mezzo di queste. Ma se la Sicilia dev’esser governata dallo Stato italiano, se non è ammissibile che esso, nel reggere una delle sue province, rinunzi ai propri principii; questi devono in tutto e per tutto essere sostituiti a quelli su cui si fonda la società siciliana; nè si può tentare di conciliare gli uni e gli altri. Altrimenti lo Stato interviene solamente a turbare il giuoco naturale delle forze di una Società, le impedisce di raggiungere nei modi propri a loro un equilibrio stabile, senza sostituirne a questo un altro; e viene ad essere in quella un elemento di disordine, come lo sono stati in Sicilia tutti i Governi, specialmente dalle riforme del 1812 in poi; come lo è soprattutto il Governo italiano. Il quale impedisce al brigante di conquistar terre, di finire, come i cavalieri di ventura nel Medio Evo, signore di feudi e baronìe, e diventare un elemento d’ordine; reprime le sedizioni dei villani che reclamano le terre loro dovute per legge e non vogliono esser soli a sopportar le gravezze comunali; ma non riesce a sopprimere i briganti, nè a costringere la classe abbiente ad amministrare secondo gl’interessi di tutti. Insomma in una società che si regge sul predominio della forza materiale, il Governo toglie a questa la sanzione, la facoltà di esercitare l’autorità che le spetta, i mezzi di diventar fondamento di un ordine stabile, ma non sa sostituirvi l’autorità propria.

 

 

§ 106. — Come lo Stato in Sicilia debba, prima di qualunque altro scopo, prefiggersi quello di sostituire alla forza privata quella della Legge.

Lo Stato italiano ha dunque in Sicilia la missione di far prevalere esclusivamente colle proprie forze il suo diritto civile, penale ed amministrativo sopra il diritto attualmente in vigore. Ha missione di far prevalere l’autorità della Legge sull’autorità privata con qualunque mezzo ed a qualunque costo. A questo deve esser subordinato ed anche sacrificato ogni altro suo fine, perchè questo è mezzo indispensabile per assicurare gli altri. Deve a costo d’ogni sforzo, d’ogni sacrifizio, a costo anche di subire insuccessi momentanei, di peggiorare le condizioni apparenti dell’Isola, adoperare la forza materiale di cui dispone a far rispettare la Legge, ed a combattere chi l’abbia violata, senza mai cedere o transigere. Quando riesca ad assicurare a questa una forza materiale preponderante, ne sarà pure stabilita l’autorità morale in un paese in cui la forza materiale costituisce il diritto, e sarà così superato il primo degli ostacoli da vincere per portare la Sicilia alla condizione sociale di un popolo moderno. Se non vi riesce, provi finchè ha mezzi, e quando sia convinto di averli esauriti tutti, conchiuda che non esistono i mezzi artificiali per mutare lo stato sociale della Sicilia, od almeno che, se esistono, sono superiori alle forze dello Stato italiano; abbandoni l’Isola alle sue forze naturali, e ne proclami l’indipendenza. Ma se non vuole tradire il suo primo dovere, e andar contro al suo più stringente interesse, a quello della sua esistenza, non transiga mai per ottenere una falsa apparenza d’ordine o di prosperità, con chi viola il diritto.

Il far prevalere in una parte del proprio territorio un diritto nuovo in contraddizione colle sue condizioni sociali, ed in conseguenza collo stato morale degli abitanti, è per ogni Stato, ma soprattutto per l’Italiano, cosa difficilissima, ottenibile solo parzialmente, e ciò a costo dei più grandi sforzi e sacrifizi di ogni genere. Si tratta di conoscere a fondo le condizioni materiali e morali di questa parte senza l’aiuto dei suoi abitanti, di dedurre da questa cognizione che cosa debba essere mutato in tutti gli ordinamenti militari ed amministrativi, ed in generale, in quella porzione della legislazione che ha per oggetto di assicurare l’applicazione del rimanente delle leggi. Si tratta di applicare i mutamenti fatti, di verificare nella pratica se sono efficaci per il fine destinato, senza lasciarsi sviare in questo apprezzamento da altri criterii, senza lasciarsi spaventare dai peggioramenti momentanei nelle condizioni apparenti, e ciò sempre senza l’aiuto degli abitanti, anzi a dispetto dei loro apprezzamenti; in mezzo ai lamenti, alle minacce di clamori pubblici, forse in mezzo ai timori, alle critiche ignoranti e infondate dell’opinion pubblica del rimanente d’Italia, finalmente, di fronte all’opposizione dei deputati Siciliani.

Imperocchè il Governo italiano è in questa dura posizione, che per governare l’Italia intera, deve chiedere l’aiuto e l’approvazione di chi rappresenta l’interesse di quella classe stessa, contro la quale dovrebbe in Sicilia far prevalere le leggi.

 

 

§ 107. — Quali effetti immediati debba prima ottenere lo Stato italiano, per poter poi raggiungere il fine del predominio del Diritto moderno in Sicilia.

La quistione dei rimedi a quei disordini che sono stati descritti in questo volume, si riduce per noi a quella dei mezzi che può trovare lo Stato per vincere le difficoltà adesso enumerate. Essa è duplice: Primo: come potrà lo Stato trovare istrumenti capaci di fornirgli una cognizione esatta e completa delle condizioni della Sicilia; di dedurre da questa i provvedimenti da prendersi; di applicarli secondo il loro spirito, di giudicarne gli effetti? Secondo: come potrà resistere alle forze che si solleveranno nel suo seno stesso contro l’indirizzo generale che avrà prescelto? In altri termini, la prima, è questione di personale; la seconda, di politica parlamentare.

 

 

§ 108. — Del personale da adoperarsi dallo Stato in Sicilia.

Le qualità che si esigono in Sicilia per il personale di ogni grado e d’ogni ordine così amministrativo come giudiziario, sono molto superiori a quelle che si richiederebbero in circostanze ordinarie dal personale più perfetto.

Già abbiamo avuto occasione di accennare quanto un prefetto ordinario sia poco in condizione di conoscere i fenomeni che presenta la Sicilia e di ritrovarne le cagioni. Però, in ciò che riguarda lo studio preliminare delle condizioni dell’Isola, nulla costringerebbe il Governo a limitarsi ad adoperare i funzionari, residenti nell’Isola per ragione del loro ufficio. Trattandosi di un lavoro temporaneo, potrebbe mettere a contribuzione tutte le forze intellettuali del paese per operare inchieste e contro inchieste. Del resto un siffatto sistema è stato seguito ora ch’è poco coll’invio in Sicilia della Commissione parlamentare d’inchiesta, nominata in seguito alla discussione della Legge sui Provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza.

Ma la questione muta affatto quando si tratti dell’applicazione dei rimedi, e del giudizio sui loro effetti, insomma, del governo di ogni giorno. Per questo è pur forza impiegare il personale stabile. Si tratta di trovare fra questo, non impiegati coscienziosi ed ordinati, buoni a seguire una via già tracciata e ad applicare le leggi ed i regolamenti via via che si presentino i casi da essi previsti, ma uomini capaci di analizzare fatti sociali complessi, di andare a ritrovarne le cagioni, capaci di regolarsi nei casi particolari, secondo criteri precisi e determinati sì, ma generali. Sarebbe incalcolabile il danno che porterebbe all’opera di rigenerazione della Sicilia, una burocrazia pedante e gretta.

Ma affinchè si possano ragionevolmente chiedere siffatte doti al personale, conviene che prima il Governo si sia reso chiaramente conto delle condizioni della Sicilia, abbia definitivamente deciso l’indirizzo che intende seguire per rimediarvi, e sia irrevocabilmente risoluto a seguirlo ad ogni costo. Allora solamente potrà dare a tutta l’amministrazione unità di fine e di concetto; allora solamente potranno i funzionari proporre ai loro sforzi uno scopo determinato e chiaro, allora solamente sarà possibile trovare i modi di dare all’intera amministrazione civile e giudiziaria, uniformità nello spirito e nell’indirizzo, e di infondere in tutti un sentimento tale che, almeno nei gradi superiori, ogni impiegato abbia coscenza della missione a cui partecipa, intenda il fine comune al quale dovrebbe esser diretta l’opera dei singoli funzionari, e provi per esso quell’amore del quale ogni uomo intelligente si sente preso, anche senza volerlo, per uno scopo grande e difficile. Allora ogni impiegato fuori dell’ufficio come dentro, avrebbe sempre presente alla mente quell’interesse pubblico che è suo compito promuovere e rappresentare. Non torneremo qui a parlare dei rimedi particolari già da noi proposti per i singoli disordini descritti nel presente volume, ed a noi suggeriti dall’esame delle condizioni dell’Isola. La importanza di siffatti rimedi è, a parer nostro, affatto secondaria e subordinata di fronte alla necessità nei rappresentanti del Governo e della Legge, delle doti e dello spirito, adesso accennati.

Ma per ottenere un tale spirito negli impiegati, per metterli d’altronde in grado di porre in opera le loro qualità di carattere e d’intelligenza, conviene che si abbandoni l’attuale sistema delle traslocazioni continue, che, posto in un luogo l’impiegato, vi sia lasciato lungo tempo. Se sono state molto esagerate le difficoltà che incontra in Sicilia una persona del Continente per conoscere le persone, i costumi, il linguaggio; queste difficoltà pure esistono, e se, come ne siamo profondamente convinti, debbono essere esclusi dall’amministrazione della Sicilia, in ogni ordine ed in ogni grado gl’impiegati siciliani, meno pochissime eccezioni individuali, conviene pure dare il tempo a quelli del Continente di porsi in grado d’adempiere l’ufficio loro, e poi di mettere in opera le cognizioni acquistate. Conviene soprattutto che agli impiegati in Sicilia sia fatta una condizione tale da indurli a non considerarsi nell’Isola come in esilio.

E per giungere a questo, i vantaggi speciali da darsi agli impiegati d’ogni genere in Sicilia, e nello stipendio e nella carriera dovrebbero essere grandissimi, tali da compensare da un lato le gravi spese cui vanno soggetti, dall’altro i disagi e i pericoli dell’ufficio([209]). Sotto questo aspetto, dovrebbe essere soprattutto provveduto ai pretori. Già accennammo all’importanza che a nostro avviso dovrebbe darsi in Sicilia all’ufficio loro. Ma non ci nascondiamo che ogni riforma nel senso delle nostre proposte sarebbe pericolosissima, e che converrebbe piuttosto farne nel senso opposto, fintantochè non si fosse migliorata moltissimo la loro condizione; fintantochè la paga e le probabilità di progredire in carriera per i pretori in Sicilia saranno quelle di adesso, essi rimarranno quali sono ora, e qualunque ufficio, per quanto infimo, sarà per loro troppo importante, qualunque responsabilità troppo grave. Si tratta di mandare a cuoprire le 178 preture di Sicilia, almeno in quanto riguarda il ramo penale, altrettanti giovani del Continente, istruiti, intelligenti, incorruttibili, pieni di tatto, e di coraggio a tutta prova. Uomini cosiffatti costano caro e vogliono far carriera. Non basterebbe assicurar loro una paga cospicua, converrebbe trovar modo di riservare per loro un certo numero di posti nelle regie procure dopo che avessero coperto l’ufficio loro in Sicilia per un certo numero di anni. E certamente le procure regie non potrebbero che avvantaggiarsi di persone educate al duro e difficile tirocinio.

Per altro, se il completo mutamento del personale dei pretori in Sicilia non presenterebbe che difficoltà di attuazione pratica, quello della magistratura inamovibile ne incontrerebbe anche nella legislazione vigente. Il tempo che ormai ci stringe, non ci permette di studiare il modo di vincerle; questo solo possiamo dire, che senza la sua depurazione ogni tentativo di riforma generale in Sicilia non sarebbe altro che tempo, fatica, denari e sangue buttati via.

Del resto, se trattando adesso la quistione del personale governativo in Sicilia, abbiamo parlato solamente degli uffici superiori, ciò nonostante essa esiste per tutti i gradi fino all’ultimo usciere di Pretura.

 

 

§ 109. — Difficoltà di trovare in Italia un personale sufficentemente numeroso colle qualità necessarie per la Sicilia.

Se non che, assicurati pure i vantaggi maggiori al personale inviato in Sicilia, dove si troveranno le persone dotate dei requisiti necessari per farvi buona riescita? Certamente non mancano nel personale amministrativo e giudiziario d’Italia numerose persone superiori ad ogni elogio; ma se si manda in Sicilia tutto quello che fa bisogno, che cosa rimane nelle province del Continente, specialmente nelle meridionali, che sotto questo come sotto molti altri aspetti, hanno le medesime necessità che la Sicilia? La quistione del personale è comune a tutta Italia, la quale ha urgente bisogno che la media dei funzionari di ogni ordine sia di gran lunga superiore all’attuale, per ingegno, dottrina e moralità; ed alla soluzione di tale questione è subordinata, a parer nostro, quella di tutte le altre in Italia, giacchè poco vale fare le leggi quando non si sa come saranno applicate. È quistione di ordinamento, di stipendi, di disciplina, di repressione. Ma a quanto pare, la nostra opinione sulla sua importanza non è generalmente divisa, giacchè, in quanto riguarda gli stipendi, si è recentemente provveduto in parte per coloro che ne abbisognano meno, riservando ad altro tempo il provvedere agli altri; riguardo alla riforma generale, per adesso non ci si pensa nemmeno. Una proposta sopra riduzioni necessarie nel numero dei tribunali, ed in conseguenza del personale giudiziario, è sparita tempo addietro senza lasciar tracce, davanti alle minacce d’interessi locali offesi. Ad ogni modo, converrà che la Sicilia aspetti per aver rimedio ai suoi mali, che la quistione del personale sia risoluta in Italia, e questo ci fa pur troppo temere che per adesso il ragionare dei mali della Sicilia sia fare teoria pura.

 

 

§ 110. — Il tentar di reprimere una sola categoria di disordini non può dare in Sicilia risultato alcuno.

Comunque siasi, non si potrà pensare a rimediare ai disordini descritti in questo volume, finchè il personale amministrativo e giudiziario non avrà le qualità necessarie in tutti gli ordini e in tutti i gradi; giacchè si tenterebbe invano di assicurare il predominio della Legge in un ordine solo di fatti, lasciando gli altri andare per il loro verso. I disordini di ogni specie che presenta la Sicilia sono manifestazioni della medesima cagione, la prepotenza privata. Ora, i prepotenti appoggiano la loro autorità sopra punti tanto diversi fra loro, che se la non si combatte in tutti i lati alla volta, nelle sue relazioni così coi facinorosi come colle amministrazioni locali e colle società, associazioni e persone di ogni genere, troveranno modo di schermirsi dagli assalti, valendosi dei mezzi di cui è lasciato loro libero l’uso. Il volere sopprimere la prepotenza in una sola delle sue manifestazioni è cercare di stringere con una mano sola una grossa vescica a metà piena d’aria. L’aria scappa nella parte libera, e si rimane colla sola membrana in mano. Ma d’altra parte, la moltiplicità dei punti d’appoggio, se apre più vie al prepotente per sfuggire alle autorità, è cagione per contro ch’egli presenti a questa maggiore numero di punti vulnerabili, quando l’autorità lo assalga da ogni lato. Chi non ha potuto esser convinto di mandato d’omicidio potrà mandarsi in galera per malversazioni in un’amministrazione locale, e dove per il primo delitto sarà mancato chi volesse testimoniare, forse per il secondo non difetteranno le denuncie segrete che ne faranno scuoprire le prove di fatto. Il lettore avrà forse già osservato che dopo aver fatto lunghe teorie sulla difficoltà di distinguere il manutengolo forzato da quello volenteroso e che dal manutengolismo ritrae lucro, non abbiamo indicato criterio per distinguere l’uno dall’altro; difatti un criterio a priori a parer nostro non esiste, e già cercammo di dimostrarlo. Un funzionario intelligente, con una grandissima pratica dei luoghi e delle persone, ha mille modi di distinguere quelle persone che nel favorire i malfattori hanno per iscopo principale di acquistare autorità e denari, ma ben di rado potrà trovar contro di loro prove da addurre in giudizio. Questa difficoltà non si vincerà mai prendendola di fronte. Il manutengolismo è effetto delle condizioni sociali generali e non si può vincere che combattendo queste. Con questo mezzo però la vittoria è sicura. Colui che non è manutengolo solamente per paura, è necessariamente un prepotente, in conseguenza il funzionario che conosca ciò ch’egli è, non ha che da tenerlo d’occhio per trovare in breve tempo piuttosto dieci che una cagione di porlo sotto processo, all’infuori del manutengolismo. In questo modo saranno colpiti non solo i manutengoli, che dalla loro complicità ritraggono vantaggio materiale, o guadagno pecuniario, ma anche coloro che ne ricevono vantaggio solamente morale, e che nel massimo numero dei casi sarebbe assolutamente impossibile di potere giuridicamente convincere.

 

 

§ 111. — Della politica parlamentare del Governo.

Per altro, l’opera del personale più prelibato dipenderebbe sempre in ultima analisi dalla direzione e dall’appoggio del Governo centrale, insomma dalla sua politica parlamentare. Egli è evidente e naturale che, appena un Ministero dasse solamente segno di voler governare la Sicilia in contraddizione colla classe ivi dominante, solleverebbe una tempesta nella Deputazione siciliana, la quale, pur di rovesciarlo, farebbe alleanza con qualunque gruppo o partito. Quelli fra i deputati dell’Isola che si mostrassero troppo freddi nella loro opposizione non sarebbero rieletti, sicchè la caduta del Ministero, nella migliore ipotesi, sarebbe quistione di tempo. A meno però, che la quistione della Sicilia e delle province meridionali in genere non prendesse nella opinione pubblica italiana, ed in conseguenza in Parlamento, il grado che le spetta, chè allora i deputati dell’alta e media Italia sacrificherebbero alla soluzione di questa, molte piccole gare, interessi e rancori. Disgraziatamente per adesso questo non è che un bel sogno, e le coalizioni si fanno in Parlamento per tutt’altre ragioni. Ad ogni modo si sarebbe fatto molto per portare l’opinione pubblica a stimare la quistione delle province meridionali secondo la sua importanza, quando un Ministero avesse avuto il coraggio di porla in Parlamento, e l’abilità di farsi rovesciare a proposito di quella.

Ogni Ministero italiano si trova in questa quistione delle province meridionali fra il suo interesse e il suo dovere, e fino adesso hanno sacrificato il dovere all’interesse. Per guadagnare qualche voto nelle elezioni hanno transatto cogli abusi ch’era loro ufficio reprimere; per la nomina e la traslocazione degli impiegati si sono regolati non secondo l’utile dell’amministrazione, ma secondo il tornaconto elettorale. Molte volte nella ricerca dei delitti o dei loro autori si sono fermati ed hanno indietreggiato davanti a colpevoli od a complici potenti. Insomma il primo a lasciarsi corrompere dalle influenze locali è stato il Governo. Non per denari è vero, ma per voti, per articoli di giornali, per dimostrazioni della cosiddetta opinione pubblica. Ora, finchè la durerà in questo modo, egli è evidente che le doti le più somme nel personale non potranno porre questo in grado di andar contro ai voleri dell’autorità centrale che lo dirige e ne dispone.

Sotto le condizioni enumerate in questo capitolo, sarebbero a nostro credere efficaci a stabilire il predominio della Legge i rimedi particolari da noi proposti nei precedenti capitoli. Ai quali del resto se ne potrebbero aggiungere senza dubbio ed anche forse sostituire altri, quando si facesse un’analisi più minuta dei singoli disordini. Per noi la quistione dei rimedi speciali per i singoli disordini è accessoria e secondaria. Se questi rimedi esistono, il trovarli è affare di tempo e d’esperienza, quando si sia adottato in Sicilia l’indirizzo generale che abbiamo cercato di descrivere in questo capitolo. Se questo non viene seguìto, i rimedi di dettaglio più ingegnosi e meglio studiati saranno assolutamente inefficaci per vizio d’origine, e tutt’al più, con ingenti sforzi e con sacrifizi sproporzionati coll’effetto che se ne otterrà, sarà possibile procurare momentaneamente qualche miglioramento apparente, il quale durerà quanto lo sforzo straordinario che l’avrà cagionato; una diminuzione nei delitti, la quale servirà, più che ad altro, a fornire argomentazioni a qualche Ministro in una discussione parlamentare.

 

 

§ 112. — Come sia infondata l’asserzione che i Siciliani sieno più difficili a governare che altri popoli.

Dopo quindici anni d’insuccessi nel governare la Sicilia, molti pretendono che i Siciliani sono ingovernabili. Noi personalmente crediamo l’asserzione falsa; e ad ogni modo essa è ingiustificata; giacchè appare necessariamente ingovernabile qualunque popolo che si voglia governare con mezzi contradittorii fra loro.

Si è pure attribuito la difficoltà di governare i Siciliani a un chè di arcano che distinguerebbe gli isolani in genere dal rimanente dell’umanità. Questa spiegazione ci sembra avere un poco troppa analogia con quella data nella commedia di Molière del perchè l’oppio faccia dormire «quia est in eo virtus dormitiva quae facit dormire.» Ad ogni modo, se essa è molto comoda per chi voglia scaricarsi della responsabilità che gl’incombe, crediamo che non possa reggere dinnanzi ad una osservazione seria dei fatti. Se si paragonano i Siciliani per esempio cogl’Inglesi, e cogl’indigeni dell’isola di Tahiti, crediamo ben difficile di trovare la più lontana somiglianza nelle relazioni di ciascuno di questi popoli colla autorità pubblica. Bene è vero che se limitiamo l’osservazione alle grandi isole del Mediterraneo, l’analogia fra loro diventa grandissima, non solo nel particolare ora accennato, ma in tutto; e la spiegazione di questo fatto ci sembra molto semplice e chiara. La Sicilia, la Corsica, la Sardegna, dal Medio Evo fino ad epoca recente, sono rimaste ugualmente fuori dalla corrente della civiltà Europea. Certamente a questo ha molto contribuito la loro posizione isolana, però a siffatta cagione se ne sono aggiunte molte altre speciali, le quali non si sono manifestate, a modo di esempio, per l’Inghilterra. Le grandi isole del Mediterraneo si rassomigliano fra loro non perchè isole, ma perchè tutte egualmente simili al rimanente d’Europa quale era quattro secoli addietro.

 

 

§ 113. — Dei provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza.

Ma tornando ancora una volta alla quistione dei rimedi particolari, specialmente in quanto riguarda la pubblica sicurezza, l’esperienza sola, già lo dicemmo, può decidere se sono efficaci tutti quelli d’indole normale o stabile che si potessero imaginare. Se, contro alla nostra aspettativa, riescissero impotenti a stabilire il predominio della Legge, converrebbe ricorrere a provvedimenti eccezionali e provvisori per ripulire e preparare il terreno; per distruggere, cioè, quel sistema d’intimidazioni che impedisce l’azione delle leggi regolari. Quali dovrebbero essere cotali provvedimenti?

Fra quelli da noi proposti fin adesso, se taluni (come per esempio la soppressione pura e semplice delle guardie campestri armate)([210]) non sono definitivi, pure dovrebbero esser mantenuti per un tempo piuttosto lungo ed esser considerati come stabili. Inoltre non implicano derogazioni allo Statuto, se si toglie ciò che proponiamo intorno al Giurì. Riguardo a quest’ultimo premettiamo che a nostro avviso, in Sicilia, la sua soppressione nei limiti già sopra da noi esposti, non può essere un provvedimento straordinario e provvisorio, ma di lunga durata e tale da considerarsi come normale; imperocchè a parer nostro, il giurì non può esistere in Sicilia finchè dureranno, non solo l’attuale stato della pubblica sicurezza, ma anche le presenti condizioni sociali([211]). Se non si giudica praticabile il sopprimere per legge il giurì nell’Isola, se ne renda l’opera superflua provvedendo ad inviare per regola tutte le cause criminali gravi alle Corti d’Assise del Continente; e si sottostia pure a tutte le spese e a tutte le complicazioni amministrative che porterebbe un siffatto sistema. I suoi inconvenienti, per quanto grandi, non sarebbero nulla di fronte ai suoi vantaggi.

Posto in sodo questo punto, rimane ancora da studiare quanto riguarda i provvedimenti straordinari e provvisori veri e propri, cioè: primo, l’istituzione di tribunali militari; secondo, i mezzi di toglier via coloro che pure essendo palesemente autori e mandanti di delitti, non si sono potuti condannare giudizialmente per lo stato eccezionale della pubblica sicurezza. Riguardo ai tribunali militari, dall’analisi da noi fatta delle condizioni di pubblica sicurezza in Sicilia, risulta che recherebbero vantaggi scarsi e non tali da compensare i loro inconvenienti. Si fucilerebbe lì per lì, qualche brigante, qualche malandrino, forse qualche manutengolo, ma non s’intaccherebbe il vasto sistema di complicità che cuopre buona parte dell’Isola.

Sarebbe invece molto efficace, a parer nostro, il toglier di mezzo i sospetti, a condizione però che l’operazione si facesse completa, senza debolezze, senza compassioni male intese. Dovrebbero portarsi fuori dell’Isola tutti i sospetti, per quanto altolocati ed influenti, e dovrebbero tenersi fuori non per poco tempo e quasi in via provvisoria, ma per lunghi anni, per tutto il tempo necessario a rompere le loro relazioni, i loro legami di ogni genere coll’Isola. Prima di ricorrere ai provvedimenti eccezionali, bisogna esitar molto e tentare ogni altro mezzo; una volta che si siano decisi, l’essere inesorabile, crudele, è virtù e dovere; la compassione è delitto, perchè facendo le cose a metà, il provvedimento produce i danni grandissimi pubblici e privati che vi sono inerenti, ma non i benefizi. Il transigere in questi casi è fare come quegli che, per la gran compassione, non avendo il coraggio di tagliare le orecchie al cane in una volta, ne tagliava un pezzettino ogni giorno.

Del resto, quand’anche dovessero finire per chiarirsi indispensabili i provvedimenti eccezionali, sarebbe nonostante necessario il riordinamento da noi proposto nell’amministrazione della polizia e della giustizia, giacchè, per conoscere e colpire senza processo gli autori e mandanti di delitti, sarebbe più che mai necessario di essere perfettamente informati e ovunque delle più minute particolarità locali; sotto pena non solo di colpire degli innocenti alla cieca, ma anche di farsi in ogni luogo istrumenti delle vendette e delle prepotenze di una parte degli abitanti contro gli altri, sprofondandosi così sempre più in quell’abisso per trarsi dal quale si starebbe facendo uno sforzo disperato. D’altra parte, essendo l’operazione anticipatamente preparata e determinate le persone da deportarsi, basterebbe sospendere le leggi ordinarie per un tempo brevissimo, tanto che bastasse per metter la mano sulle persone destinate, e così si ridurrebbero al minimo possibile gli enormi danni che cagiona per tutti i versi uno stato di violenza, come quello della legge stataria.

 

 

§ 114. — Come l’Italia sia tenuta a fare grandissimi sacrifizi pecuniari per migliorare le condizioni materiali della Sicilia.

Fino adesso si è parlato di riforme nel Governo, di rigori, di provvedimenti eccezionali; ma a questo punto non si limitano i doveri dell’Italia verso la Sicilia. Venuta nell’Isola ad imporre un nuovo ordine sociale, essa ha l’obbligo di porla in condizioni materiali tali da renderlo possibile. Ha essa adempiuto a quest’obbligo? Ci sembra di no. L’Italia ha trovato la Sicilia con pochissime strade e senza ferrovie([212]), ed i sacrifizi che ha fatti fino adesso per le opere pubbliche dell’Isola non sono nulla in paragone di ciò che le doveva. La Sicilia, e con lei le altre province meridionali, non hanno certamente il diritto di chiedere all’Italia ch’essa ricada nel disavanzo; hanno bensì quello di chiederle che usi in loro favore tutte le forze di cui può disporre, hanno diritto di chiederle d’esser preferite nella costruzione di opere pubbliche a qualunque altra regione. Del resto, il ritardo in questo non sarà stato tutto danno se sarà mutato l’indirizzo del Governo nell’Isola, e se questo d’or innanzi si regolerà sugli interessi della intera popolazione siciliana, non sulle esigenze e sui clamori di quella parte di essa che predomina. Così sarà evitato nell’avvenire che una gran parte dei denari destinati al bene dell’Isola vengano sprecati senza profitto per lei, e finiscano in parte nelle mani di accollatari influenti sotto forma di guadagni scandalosi, in parte siano sprofondati sotto le frane e nelle paludi per ubbidire ai clamorosi capricci di qualche città o di qualche camarilla. Il brano della Relazione della Commissione d’Inchiesta che citiamo in appendice dà un’idea delle immense e dolorose perdite che ha fatte in questo modo la Sicilia.

 

 

§ 115. — Come il Governo abbia obbligo di studiare nelle province meridionali ancora più che altrove gli effetti sulla ricchezza delle sue tasse.

Inoltre, se il Governo ha necessità di studiare con cura gli effetti prodotti in Sicilia dalle sue leggi civili e penali, ha ancora il dovere di ricercare colla cura più coscenziosa i risultati prodotti dalle sue imposte. Se tale dovere gl’incombe per tutta l’Italia, è più che mai stringente per lui in Sicilia e in genere nelle province meridionali, dove uno sbaglio che inceppi l’attività economica rende chi l’ha commesso fautore e complice di tutte quelle forze che trattengono quella parte d’Italia nella sua attuale condizione sociale([213]). Disgraziatamente, per le tasse come per il rimanente, le ultime ad essere studiate sono le province meridionali, e così leggi e regolamenti si adattano a condizioni di fatto diverse dalle loro, osservate in altre regioni.

 

 

§ 116. — Come la repressione dei disordini descritti nel presente volume sia atta a render possibile e preparar un miglioramento stabile delle condizioni della Sicilia, ma non ad operarlo.

Finalmente, quando il Governo avesse trovato mezzi efficacissimi per far prevalere la forza della Legge sulla prepotenza privata, i risultati che otterrebbe sarebbero incompleti e precari. Incompleti, perchè la massima parte delle prepotenze private non violente essendo di competenza delle leggi civili, non potranno, anche coi massimi sforzi esser conosciute e represse dallo Stato, fintantochè gli offesi non verranno da sè a palesarle ed a invocarne l’aiuto. Precari, perchè le leggi saranno sostenute bensì dalla forza artificiale dello Stato, non da quella naturale degli elementi sociali interessati al loro mantenimento. Lo Stato, coi provvedimenti accennati in questo volume, potrà bensì permettere a questi elementi, se esistono in germe, di sorgere ed acquistar vigore, ma non crearli. La cagione dei mali della Sicilia è nel suo stato sociale, cioè nelle sue condizioni economiche; quelli dureranno quanto queste, nel fondo se non nella forma, e non cesseranno se non quando queste saranno mutate, quando cioè sarà sorta in Sicilia una numerosa classe media. Ora, in un paese come la Sicilia, quasi esclusivamente agricolo, la gran massa della classe media non può sorgere che dall’agricoltura, nè essere costituita altrimenti che per mezzo di agricoltori agiati. Il problema dei rimedi ai mali della Sicilia, si riduce dunque in ultima analisi, a questo: Se ed in quali modi si possano porre i contadini siciliani in grado di acquistare, se non la proprietà della terra che lavorano, almeno una certa agiatezza ed indipendenza. Questo problema sarà trattato nel libro secondo della presente opera.


 

 

CONCLUSIONE

 

 

 

 

Se non è sbagliata del tutto l’analisi fatta in questo lavoro dei fenomeni che presenta la Sicilia, conviene conchiudere che essi non hanno nulla di anormale, ma sono manifestazioni necessarie dello stato sociale dell’Isola. Diremo più. Se v’ha in Sicilia qualcosa di anormale, è l’intrusione di una civiltà diversa che cerca d’imporsi e mette lo scompiglio nel giuoco delle forze naturali, che altrimenti avrebbero operato lo svolgersi regolare e spontaneo della società siciliana.

Però, se lasciando da parte l’aspetto storico e filosofico della quistione, la consideriamo sotto il lato politico, essa muta faccia. La Sicilia fa parte d’Italia e non si ammette che ne possa esser divisa. La coesistenza della civiltà siciliana e di quella dell’Italia media e superiore in una medesima nazione, è incompatibile colla prosperità di questa nazione e, a lungo andare, anche colla sua esistenza, poichè produce debolezza tale da esporla a andare in fascio al minimo urto datole di fuori. Una di queste due civiltà deve dunque sparire in quelle sue parti che sono incompatibili coll’altra. Quale sia quella che deve cedere il posto, non crediamo sia oggetto di dubbio per alcun Siciliano di buona fede e di mezzana intelligenza. Certo, le condizioni sociali dell’Italia media e superiore lasciano immensamente da desiderare sotto ogni aspetto, ma appartengono incontestabilmente ad uno stadio di civiltà posteriore in linea di tempo a quello della Sicilia. La quale deve inevitabilmente passare per uno stato analogo se deve progredire per la medesima strada di quelle società che, secondo i criteri generalmente accettati al dì d’oggi in Europa, sono considerate le più civili ed in condizione superiore a quella del rimanente dell’umanità. Abbiamo detto uno stato analogo e non identico, giacchè la civiltà, ancora che uguale di specie e di grado in vari paesi, pure può essere in ciascuno di loro molto diversa nelle forme esterne e nei particolari.

Dunque, se l’Italia ha il dovere di esistere, a lei spetta quello di usare tutti i mezzi di cui può disporre per portare la Sicilia al grado di civiltà delle sue parti più progredite. Noi non sappiamo se sia possibile siffatto mutamento; ma se lo è, i mezzi più potenti in sè stessi si manifesteranno miseramente inefficaci, se la nazione italiana non sente questo suo dovere e gli obblighi che le impone. Abbiamo detto che lo Stato per salvar la Sicilia deve governarla senza la cooperazione dei Siciliani, ma esso non può governar l’Italia senza gl’Italiani, conviene dunque che trovi appoggio nel rimanente della nazione.

La quale fino adesso non ha avuto il sentimento dei suoi doveri e della sua missione verso la Sicilia e le province meridionali in genere. Abbiamo ricevuto quelle nostre sorelle minori che, senza pensare all’avvenire, si buttavano fiduciosamente nelle nostre braccia. Erano macilenti, affamate, coperte di piaghe, e noi avremo dovuto curarle amorevolmente, nutrirle, cercare con ogni mezzo anche col fuoco, dov’era necessario, di ridonar loro la salute. Invece, senza nemmeno gettar gli occhi sulle loro ferite, le abbiamo messe al lavoro, lavoro duro e faticoso, del compimento d’Italia; abbiamo loro chiesto uomini e denari, abbiamo dato ad esse in cambio una libertà da dozzina, di fabbricazione forestiera, e abbiamo detto loro: crescete e moltiplicate. E poi dopo quindici anni ci maravigliamo perchè le piaghe sono incancrenite e minacciano di ammorbare l’Italia.

Ormai l’esperienza di questi quindici anni basta per insegnarci che nello stato delle province meridionali v’ha qualcosa a noi sconosciuto, cagione dell’inefficacia dei mezzi di governo fino adesso adoperativi. Spetta alla classe colta dell’Italia media e superiore e a quei pochi dell’Italia meridionale che si rendono conto dello stato del loro paese, di cercar di conoscere quel che è adesso ignorato, d’imporre al Governo il sistema che dietro siffatta conoscenza si sia chiarito necessario. Certamente anche un Ministero potrebbe tentare da sè ciò che adesso chiediamo alla classe colta della nazione, e dare l’impulso alla medesima invece di aspettarlo da lei. Ma non si può ragionevolmente chiedere a dei Ministri che sacrifichino gl’interessi del loro partito e le cosiddette convenienze parlamentari al bene generale d’Italia. Tal fatto può certamente avvenire: e come negli affari privati, così e più ancora in politica, è regola elementare di prudenza il non far conto sui casi eccezionali. Finchè sarà lasciato a sè stesso, il Governo, qualunque sia il suo colore ed il suo partito, continuerà a vivere giorno per giorno di rimedi empirici ed infruttuosi, e, senza potere nè voler conoscere il male in sè medesimo e curarlo, si arrabatterà intorno a qualche fenomeno esterno di questo, ed ogniqualvolta una recrudescenza nei sintomi del morbo lo minaccerà di qualche interpellanza o di qualche articolo di giornale, mostrerà il suo zelo coll’accrescere i sacrifizi di denari e di sangue, sempre col medesimo frutto. E quegli uomini che per i monti, per i boschi, per le città della Sicilia cadono sotto le palle dei malfattori in difesa di una Legge che non ha mezzi d’esser rispettata, non hanno essi diritto di chieder conto all’Italia del loro sangue sprecato inutilmente, perchè gli uomini politici Italiani non hanno il coraggio di chiamar le cose coi loro nomi in Parlamento, e di scuotere il giogo di quel dottrinarismo dozzinale che tutti adorano ed al quale nessuno crede, perchè le classi colte d’Italia, dimenticando la missione che dà loro il nostro ordinamento politico, se ne stanno neghittose, oppure vanno appassionandosi e mettendo sottosopra il paese per dei miseri interessi locali?

Certamente l’Italia potrà sussistere per molto tempo ancora in quelle medesime condizioni nelle quali vive da quindici anni. Sono molte le malattie organiche che non spingono a pronta morte. Ma in un organismo indebolito, pieno di germi di decomposizione, quelle medesime cagioni che in un corpo sano produrrebbero effetti appena avvertibili, generano lo sfacelo generale. E quando questo avvenisse, i primi a soffrirne crudelmente sarebbero i membri di quella classe che adesso non sa capire qual responsabilità e quali doveri le imponga di fronte al rimanente della nazione il fatto ch’essa è quasi sola a trar profitto della libertà Italiana.

APPENDICE

 

 

LE OPERE PUBBLICHE IN SICILIA

ESTRATTO DELLA RELAZIONE DELLA GIUNTA PER L’INCHIESTA SULLE CONDIZIONI DELLA SICILIA

NOMINATA SECONDO IL DISPOSTO DELL’ARTICOLO 2 DELLA LEGGE 3 LUGLIO 1875.

 

 

 

 

I porti

Fino dal 1865 scriveva il Possenti essere doloroso confessare come la somma destinata nei bilanci dello Stato allo spurgo dei porti siciliani fosse affatto inadeguata al bisogno largo ed urgente che vi era di siffatti lavori. E fin d’allora suggeriva che ognuno dei porti principali fosse fornito di un buon cavafondo, perchè l’operazione potesse lestamente condursi a termine. La somma destinata a questi espurghi crebbe certamente d’allora in poi; ma la condizione di fatto odierna se n’è poco avvantaggiata; può dirsi peggiorata, se si pon mente allo sviluppo di navigazione che ha reso necessario in molti porti un eguale sviluppo di profondità e di spazio. Catania, Porto Empedocle, Trapani, dove il movimento mercantile si fa ogni giorno maggiore, vedono gl’interrimenti minacciare sempre più i loro porti. A Trapani, per esempio, la Camera di commercio dichiara che i bastimenti superiori a 600 tonnellate non possono più entrare nel porto, e bisogna che le operazioni si facciano alla rada, con perdita di tempo e spese, e rischi maggiori. Il capitano del porto conferma questo fatto, e aggiunge che nei mesi d’inverno i naviganti evitano il porto di Trapani per le disgrazie che vi succedono. E i cavafondi sono tuttora così scarsi che, votata una somma insufficiente di lire 36 mila per espurghi nel porto di Trapani, se ne dovettero spendere 6 mila pel solo trasporto di una di queste macchine dal porto di Girgenti. Non parliamo dei porti minori, di Marsala, di Mazzara, di Cefalù. L’interrimento completo va diventando per quei porti una questione di tempo; eppure a Cefalù si lamenta che molte barche vadano a rompersi sulle coste della Calabria, e che i giovani marinari emigrino in America abbandonando il mare nativo; eppure a Marsala cresce continuamente l’accorrenza del naviglio mercantile, soprattutto per l’esportazione dei vini; eppure a Mazzara la natura ha fatto l’opera per tre quarti, introducendo nell’interno della città un canale marino, atto ad essere espurgato e mantenuto con modica spesa.

Vero è che la legge ha determinato i contributi e le spese secondo la classificazione dei porti; vero è che molti lavori pei porti principali si sono compiuti, che molti sono in corso di esecuzione, che altri, come appunto per Trapani, per Girgenti, per Palermo, furono recentemente prescritti da legge o prossimi ad essere proposti al Parlamento. Vero è infine che non è fievole neanche in Sicilia quell’affannarsi di città e di villaggi attorno alla provvidenza dello Stato, quel lamento dei singoli interessi e dei singoli bisogni, che sognano un’ingiustizia del Governo tutta speciale ad essi, e che affettano di non vedere nell’orizzonte a loro schiuso altri bisogni ed altri interessi, nonchè prevalenti, di eguale diritto ed egualmente obliati.

Nè vogliamo obliare noi, ingiusti prima di tutti, per quante e quali difficoltà politiche, parlamentari e finanziarie abbia dovuto passare in questi anni quell’ente Stato, obbligato a soddisfare alle spese di coloro stessi che le invocavano, tante e così grosse esigenze di una vita per tutti nuova.

Resta ad ogni modo, sull’argomento dei porti, un criterio comparativo a cui nessuno può negare una certa evidenza; ed è che l’ufficio dei porti in un’isola ha un carattere di maggiore importanza che sulle spiaggie del Continente. Il mare è la via fatale nel primo caso, può essere la via sussidiaria nel secondo. Ciò che per Ancona o per Savona può essere un lusso, aggiunto alle comodità di una triplice comunicazione ferroviaria, diventa una necessità di esistenza per Trapani o per Milazzo, rimaste finora sorde al rumore degli stantuffi di Watt. E ciò spiega come per le città siciliane, il porto sia più che un bisogno, sia una smania; ciò spiega come in ognuno dei piccoli villaggi che sorgono sulle spiaggie marine, la vita dell’oggi e la speranza dell’avvenire si abbranchino ad un molo, ad una banchina, ad un approdo periodico, ad un gavitello d’ormeggio. Il mare è lì, colle sue onde invadenti, colle sue misteriose attrazioni, coi suoi sconfinati orizzonti, colle sue vaghe promesse di economia e di ricchezza. Non parlate a quei trafficanti, a quei pescatori, che lottano dall’infanzia coi suoi mutevoli capricci, dei vostri bilanci, della vostra contabilità, delle competenze passive, della legge sulle opere pubbliche. È un linguaggio che non comprenderebbero, sono argomenti di cui non saprebbero indovinare il nesso coi casi loro. La voce del mare è più grossa di ogni altra, il pericolo da evitare più vicino, l’opera che li può aiutare o che s’immaginano li possa arricchire, non par loro discutibile per ragioni lontane o per interessi lontani. D’altronde, che è lo Stato per quei trafficanti, per quei pescatori che avranno veduto cento volte Tunisi o Malta, ma che non hanno mai visto Genova, forse neanche Messina? Lo Stato è una gran macchina, lontana da loro, lontana dalla Sicilia, che può tutto, che ha sempre denari, che ne distribuisce a chi e come crede; è una macchina di cui erano avvezzi a dir male, quando si chiamava il regno di Napoli, di cui hanno cominciato a dir bene quando si chiamò il regno d’Italia, e di cui tornano a sospettare che possa volgersi a male quando vedono ritardarsi troppo il molo, la banchina, l’approdo, il gavitello.

Certo, a siffatti criteri, non esclusivi delle popolazioni siciliane, uno Stato non può cedere, ma deve lottare cogli stromenti della coltura e dell’amministrazione perchè si modifichino. Nemmeno però può ribellarsene affatto, quando questi criteri, divenuti generali e vivaci, traggono una certa giustificazione da condizioni speciali, quali dicemmo essere per le popolazioni isolane le questioni dei porti. Allora, anche l’applicazione della legge può divenire più larga, soprattutto i procedimenti amministrativi debbono spogliarsi perfino dell’apparenza di improvvidi ritardi o di inopportune rigidità. Tanto più debbono spogliarsene, inquantochè la stessa popolarità che circonda in Sicilia ogni lavoro marittimo, rende assai rare le resistenze dei corpi locali ad assumersi le tangenti ordinate dalla legge, e talvolta provoca anche esempi splendidissimi di larghezza. Ne siano prova Catania e Licata, che stanno costruendosi a loro spese dei grandi porti, valutati a più di dodici milioni il primo, a più di sette il secondo. Ne sia prova Trapani, che offriva una somma di 100,000 lire, al di là della sua quota legale, per la costruzione di un bacino di carenaggio. Eppure Trapani non ha potuto ottenere ancora che una somma di lire 35,000, a spese comuni, fosse inscritta nel bilancio del 1876 pei necessari lavori di espurgo; eppure Licata, già prossima alla fine dei lavori suoi, non ha visto mantenersi dallo Stato la corrispondente promessa sua, che pel gennaio 1875 fosse aperta all’esercizio la linea ferroviaria Canicattì-Favarotta-Licata.

La legge sulle opere pubbliche del 20 marzo 1865 non è, anche lasciata tal quale, priva di temperamenti da potersi con maggiore larghezza del passato applicare alla Sicilia. L’articolo 187, che contempla il trapasso di un porto da una classe ad un’altra, potrebbe dare modo di soddisfare reclami o lagnanze che avessero veramente il loro fondamento sulle circostanze mutate e sullo sviluppo della navigazione in questo decennio. E l’articolo 198, che regola i sussidi dello Stato pei porti di quarta classe, lascia al Governo una latitudine, della quale un’amministrazione intelligente e benevola può usare, senza abusarne, con effetti così politicamente come economicamente rimuneratori.

Alcune volte poi, bastano delle previdenze amministrative di qualche larghezza ad imprimere nelle popolazioni il concetto della cura che il Governo pone al loro benessere. E, per esempio, il passeggiero o il trafficante che da Reggio s’imbarca per Messina si sentirebbe assai più sotto la protezione di un grande Stato se trovasse un vapore di qualche portata, invece di quei piccoli vaporini postali che non sempre paiono atti a sfidare l’agitazione dello stretto; e se, giunto a Messina, come partendone, trovasse assettati quei ponti di sbarcatoio, che ormai non difettano in nessun porto, e senza i quali riesce sempre incomodo, talvolta pericoloso, l’approdo.

 

 

Le ferrovie.

Fra i principali porti dell’Isola, sei hanno avuto a quest’ora il beneficio di una linea ferroviaria: Palermo, Messina, Catania, Augusta, Siracusa, Girgenti, e due, Trapani e Licata, stanno per ottenerlo. Quando i lavori saranno finiti, certo molte diffidenze si spegneranno, e una corrente più salubre d’idee e di affetti si espanderà per gli animi. Ma finora non vi sono molti disposti a giudicare con grande imparzialità la condotta e gl’intenti del Governo in questa materia delle ferrovie, così facile ad esser presa per vessillo di ogni malcontento, di ogni ostile od onesta impazienza.

Sono vari e complessi i fatti ed i criteri che contribuiscono a creare in Sicilia la situazione ferroviaria odierna; e non si giudica con equità se tutti non si ricordano e se non si attribuisce ad ogni causa l’effetto suo.

Innanzitutto, un concetto predominò nell’Isola e fuori, quando si procedette al primo disegno della rete delle ferrovie sicule: fu il concetto di favorire gli zolfi. S’era nel colmo degli aumenti di prezzo che a questa derrata aveva cagionato la malattia delle viti. La mancanza di ogni altro movimento commerciale o industriale aveva concentrato sugli zolfi i desiderii e le speranze di tutti gli uomini d’affari in Sicilia; fuori ne seguirono l’impulso. Certo è che quasi ogni altro intento della viabilità ferroviaria fu sacrificato al proposito di aprire più numerose e più larghe ai filoni del metalloide le vie del mare. E così fu spinta senz’altro verso Lercara la prima linea che si staccò da Palermo; così fu obliata la provincia di Trapani, e furono obliate, tranne i capoluoghi, le provincie di Messina, di Siracusa, che zolfi non producevano; così fu necessario cercarsi da Lercara un passaggio per le dirupate sponde del Platani verso Girgenti e tentare l’unione col bacino solfifero di Caltanissetta traverso le mobili e fangose arene di Montedoro. Nè a tutt’oggi sono ancora cessate le illusioni che gli zolfi producono sulle menti; che anzi sta in cima a qualunque progetto di linee nuove, o di allargamento di porti, l’intento di deviare dai suoi sbocchi naturali i prodotti delle solfare e costringerlo, con artificiali e costose combinazioni di viabilità, ad imboccare altre zone e ledere, se è possibile, i diritti della geografia. Ed illusione è quella di Palermo, se crede che con qualunque accorciamento di linea possa disputare a Girgenti ed a Licata gli zolfi dei bacini centrali; illusione è quella di Siracusa, se crede che la ferrovia Siracusa-Licata potrà condurre al suo magnifico porto gli zolfi dei bacini del Salso; illusione è quella di Messina, se crede che, girando l’Etna, mediante la ferrovia nella valle del Cantara, possa attingere alle sorgenti minerarie gli zolfi di Leonforte e di Castrogiovanni e stornarli dal porto di Catania a cui sono destinati.

La rete ferroviaria di un paese si tesse male, quando si ubbidisce ad una sola preoccupazione, e si vogliono forzare per essa le condizioni naturali. I guai, dissimulati da prima, si fanno strada più tardi, ma i tracciati difficilmente si possono correggere, e aumentano così gl’impacci per l’avvenire.

Sventuratamente non fu questa la sola cagione che influì male sull’originario disegno delle ferrovie siciliane. Le vicende per cui passò la concessione di quelle ferrovie, le pressure parlamentari che sembravano esigere il presto anche a disagio del bene, la facoltà lasciata alle compagnie assuntrici di proporre progetti e variazioni che quasi tutte avevano per iscopo la convenienza dei costruttori, anzichè la migliore direzione della linea, contribuirono a rendere vizioso ed incompleto il primo tracciato. E dovette essere per ragioni di questa natura che la linea da Catania a Leonforte fu lanciata per intero traverso ai facili, ma deserti terreni della piana di Catania, lasciando fuori di comunicazione tutti i paesi collocati alla destra, e non toccando neanche alla sinistra Palagonia e Rammacca, come era stato desiderio della Commissione parlamentare del 1863. Così fu strano e ingiusto che la linea litoranea orientale si fermasse al porto di Siracusa, senza spingersi almeno fino a Noto, che pur era in quel tempo il capoluogo della provincia, e il cui territorio, ricco di produzioni, avrebbe potuto recare un po’ di alimento all’arido tronco Siracusa-Catania.

Forse, quando cause così molteplici non avessero contribuito alla redazione del primitivo disegno, una rete più ampia e più razionale avrebbe potuto costruirsi, salve le ragioni del tecnicismo, e con maggiore riguardo alle zone più popolate. Forse la congiunzione di Palermo con Girgenti si sarebbe condotta per la linea interna più produttiva di Misilmeri, Corleone e Bivona, con una diramazione verso Sciacca; la congiunzione con Catania avrebbe seguita per Termini e Caltavuturo la linea che oggi chiamasi delle due Imere, e, giunta a Leonforte, avrebbe seminate le sue stazioni lungo quella schiera di grosse e fiorenti città che da Agira a Misterbianco adornano il potente fianco dell’Etna. E allora Caltanissetta, unita per Castrogiovanni alla linea PalermoCatania, avrebbe potuto diventare il centro di tre altre diramazioni, una per Girgenti, una per Licata, ed una per Piazza e Caltagirone, sopra Catania o sopra Siracusa, toccando Modica e Noto. I tronchi secondari poi, da Palermo a Trapani per Alcamo e Castellammare, da Corleone per Partanna e Castelvetrano a Mazzara ed a Marsala, da Adernò per Bronte e Randazzo a Taormina, da Messina pel Faro e Barcellona a Patti, e forse da Leonforte per Nicosia e Mistretta a Cefalù, avrebbero, coi sussidi provinciali e comunali, completata la viabilità ferroviaria dell’Isola in modo da non lasciare nessun onesto appiglio al più piccolo lagno. Si sarebbero sfondate tutte le vene interne della produzione agraria, senza trascurare gli zolfi; i quali poi, se qualche bacino speciale, come Lercara o Casteltermini, fosse rimasto senza una linea principale, vi si potevano allacciare mediante qualcuna di quelle ferrovie economiche, così agili e così utili a un tempo per gli usi e pei paesi industriali.

Ad ogni modo, adottato come che sia un piano generale, sarebbe stato desiderio vivo dell’Isola che alla sua esecuzione si fosse posta molta sollecitudine. Ma questa mancò. Mancò, in parte per le ragioni stesse per cui rimase imperfetta la rete, in parte per altre ragioni che verremo esponendo.

Innanzi tutto è mestieri attribuire agli elementi costitutivi del suolo siciliano la sua grossa porzione di responsabilità. Gli ostacoli che quei terreni franosi e scivolanti sui loro strati di creta oppongono all’opera dei tecnici, sono veramente gravi e continui. Le gallerie si sfasciano, i ponti crollano, i più robusti pilastri, sprofondati a più decine di metri, si piegano e si rovesciano sui lati, invasi da quelle montagne di melma che con lento ma irresistibile lavorìo scalzano e sollevano tutte le fondamenta delle opere d’arte. Un piccolo seno di monte, il passaggio di un torrentello, una frana della estensione di alcuni metri esigono lavori preliminari, rassodamenti di terreni, sistemi complicati di acquedotti e di muraglioni, quali non occorrono sul Continente per grossi fiumi o per larghe vallate. Aperta una volta col piccone la terra, le frane aumentano e le acque filtrano da ogni lato, inutili all’agricoltura, esiziali alle strade.

Questa condizione geologica non può non essere di grande ostacolo e di grande ritardo alla costruzione delle ferrovie, dove così rigoroso essere deve lo scrupolo dell’esattezza e della solidità dei lavori. Rifare la stessa cosa due volte, impiegare ad una data opera il doppio del tempo che avrebbe potuto calcolarsi, dovettero essere gli incidenti ordinari di simili costruzioni. Fu preveduta la situazione dagli ingegneri del Governo? E una volta scopertasi, fu pari lo zelo alla difficoltà, pari l’attività all’ostacolo?

L’opinione siciliana è molto propensa a non riconoscere negli ingegneri che studiarono e diressero le ferrovie questa eccellenza di qualità. A Palermo, a Girgenti ci dissero che gli ingegneri locali avevano avvertita questa speciale condizione delle terre siciliane; ci dissero altresì che questi avvertimenti non erano stati considerati, che i progetti di ferrovia erano stati redatti senza alcuna conoscenza delle località a cui si applicavano. Che qualcosa di vero in questa opinione vi sia, lo proverebbe una certa mutabilità di progetti, che in condizioni ordinarie non si saprebbe nè spiegare, nè approvare. La importante galleria, per esempio, che chiamano della «Misericordia» e che traversa una collina tra Calascibetta e Castrogiovanni, fu in origine progettata della lunghezza di quattro chilometri da un ingegnere governativo, il comm. Marzano. Affidati i lavori alla società Vittorio Emanuele, un secondo progetto ridusse questa galleria a 2200 metri. Subentrata nella concessione la ditta Charles e Vitali, la lunghezza della galleria fu ancora ridotta a 1500 metri. Finalmente il Governo, quando rientrò nel sistema delle costruzioni dirette, fece allestire un altro progetto che abbreviava quel traforo fino a metri 1126. Ed ora che l’opera è compiuta misura esattamente una lunghezza di metri 1424,13. Così intorno a Lercara le variazioni della linea furono parecchie, e le difficoltà del tracciato non sembrano essere state considerate con i dovuti criteri. Da Girgenti a Porto Empedocle si costruisce una linea per esclusivo servizio degli zolfi, ma, appena costruita, si comprende che difficilmente potrà servire all’uopo, vista la precarietà dell’esercizio ed i continui pericoli di franamento e la mancanza di materiale opportuno. Si aggiunge che i lavori del porto, approvati alcuni anni or sono e condotti innanzi con molta spesa, si sono ora verificati, dietro un’ispezione dell’egregio ingegnere Mati, affatto contrari allo scopo di sicurezza, e si devono rifare su disegni completamente diversi.

E finalmente si notano, come sconci gravissimi in linea tecnica, le forti pendenze tollerate in moltissimi tronchi; pendenze del 20, del 26, del 30, fino del 33 per 1000; pendenze insomma superiori a quelle che si permettono tecnicamente nei grandi passaggi delle Alpi; e ciò, malgrado che i dati forniti ad una Commissione governativa che esaminava nel 1863 il contratto Lafitte sembrassero assicurare una media pendenza superiore in pochi casi al 10 per 1000.

La Giunta, in base a questi fatti, non può dunque escludere che qualche ragione abbia l’opinione pubblica siciliana nell’addossare al personale tecnico governativo parte della responsabilità pel cattivo tracciato delle ferrovie e per la lentezza della sua costruzione. E fra gli stessi attuali capi del servizio tecnico non si tacque il fatto che linee più facili e più sicure avrebbero potuto in qualche caso costruirsi; non si tacque il dubbio che le strade sicule siano state studiate piuttosto sul tavolo che sul luogo, e che la condizione di quei terreni sia stata considerata assai meno difficile del vero.

Negli ultimi anni però l’azione del Governo si è venuta precisando d’assai, e svincolati ormai da ogni legame di diritto con quelle infauste società costruttrici che in Sicilia pur troppo si seguirono e si rassomigliarono, i tecnici governativi secondarono in questi ultimi tempi l’impulso ministeriale con una operosità feconda, di cui sarebbe ingiustizia non tener conto. Infatti, mentre nel 1871 gli operai occupati nelle ferrovie salivano ad una media giornaliera di 2416, nel 1872 questa media salì a 6942. Scemato un po’ il bisogno, per l’apertura all’esercizio di molti tronchi, la media giornaliera si trovò nel 1874 di 5540, ma risalì nel 1875 a 6273. Così accadde che, mentre la rete originaria del primo periodo, affidata alle società concessionarie per una lunghezza di 329 chilometri, esigette dieci anni di tempo per la sua costruzione, vale a dire una media di 33 chilometri all’anno, la rete del secondo periodo, votata colla legge 28 agosto 1870 e costruita direttamente dallo Stato per una lunghezza di 221 chilometri, fu incominciata nel settembre 1872, e al 1° maggio scorso contava già aperti all’esercizio 140 chilometri, vale a dire una media di 40 chilometri all’anno, malgrado le difficoltà di tanto maggiori che queste linee presentano in confronto delle prime. Dell’intiera rete sicula, composta di 550 chilometri, sono dunque attualmente in esercizio 469 chilometri; rimangono a completarsi sulla linea LeonforteLicata un tronco fra Santa Caterina e Caltanissetta di chilometri 8 e il tronco fra Campobello e Licata di chilometri 29; sulla linea Palermo-Girgenti il solo tronco fra Spina e Passofonduto di chilometri 14; e finalmente la trasversale fra le due linee, che da Serradifalco dovrebbe giungere a Campofranco, per una lunghezza di chilometri 29.

 

 

Caldare e Montedoro.

Qui veramente il ritardo cessa di trovarsi imputabile all’opera del Governo, che ha fatto e va facendo ogni sforzo perchè una comunicazione diretta fra Palermo e Catania si stabilisca. Ma è noto il lungo ed aspro dibattimento che intorno a questa linea di congiunzione insorse fra gli interessi locali. Per due anni discussero le provincie e le Camere di commercio dell’Isola se a raggiungere Campofranco si dovesse procedere direttamente da Serradifalco per Montedoro o scendere a Canicattì e di là staccare un tronco fino al quadrivio delle Caldare, alcuni chilometri al disotto di Campofranco. Palermo e Caltanissetta propugnarono accanitamente la linea di Montedoro; Girgenti, Siracusa, Catania, Messina appoggiarono la linea delle Caldare. Il Governo stette un pezzo neutrale; i suoi tecnici però non dissimulavano che le difficoltà di costruzione lungo la linea di Montedoro si mostravano assai maggiori. Finalmente, cedendo forse al desiderio di fare cosa grata alla città di Palermo, piuttosto che ad una decisa convinzione sulla opportunità tecnica di quella linea, udito il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Governo si decise per la linea di Montedoro e stipulava con l’appaltatore Parisi il contratto d’appalto per la somma di lire 6,874,000.

Senonchè, appena posta mano ai lavori, crebbero le difficoltà, e ricominciarono le esitazioni. Per secondare le raccomandazioni tecniche unite al voto del Consiglio superiore dei lavori pubblici, furono studiati i progetti e proposte deviazioni tali che sopra 29 chilometri della lunghezza totale del tronco, soltanto tre chilometri e mezzo rimanevano invariati secondo il primitivo progetto. Dopo ciò bastò una cattiva invernata, perchè il movimento dei terreni rendesse necessarie nuove varianti anche al secondo progetto; e queste varianti si esercitarono sopra una lunghezza complessiva di oltre 13 chilometri. Malgrado ciò, l’enorme franosità dei terreni, l’insalubrità della regione, la scarsezza dei materiali, le difficoltà dei trasporti hanno potuto far dire ad un chiaro ingegnere essere quella località la negazione stessa della viabilità. E la Commissione, composta dei signori Siben e Imperatori, che con espresso mandato visitò quella linea nell’estate del 1875 fece un rapporto assai scoraggiante sulle sue condizioni di costruzione e di esercizio. In una tabella annessa alla relazione del bilancio definitivo del Ministero dei lavori pubblici pel 1876 è accennato che le ultime constatazioni ufficiali farebbero ascendere il costo della linea di Montedoro a lire 10,000,000 più del prezzo d’appalto. Queste varianti e queste visite impedirono naturalmente i lavori; tantochè in questi due anni, in cui fu dato così forte impulso a tutta la costruzione ferroviaria dell’Isola, appena poche centinaia di migliaia di lire furono spese sulla linea appaltata al Parisi. L’opinione pubblica si preoccupò di questa situazione e cominciò a discutersi una soluzione diversa. Gl’interessi favorevoli alla linea delle Caldare ripigliarono forza; nella stessa Palermo gli uomini d’affari e le personalità più distinte rammollirono le loro resistenze; si ammise che, se le difficoltà tecniche avessero resa mal sicura la strada di Montedoro, era necessario trovare in qualche modo una congiunzione fra le due ferrovie, pur scendendo sino alle Caldare; purchè un’altra via più diretta fra Palermo e Catania si ponesse allo studio, quella per esempio, delle due Imere, che accorcierebbe di 75 chilometri la comunicazione fra le due grandi città.

La questione trovasi attualmente a tal punto, ed è grave per gli interessi molti e complicati che vi si annodano. Essa comprende principalmente tre aspetti: l’aspetto commerciale, l’aspetto tecnico finanziario, l’aspetto politico.

Sotto il primo aspetto, la Giunta non può non dare alla linea delle Caldare la preferenza su quella di Montedoro. Mentre questa traversa una landa incolta, dove il piccolo comune di Montedoro è quasi il solo centro di popolazione, in tutto meno di 5 mila abitanti, la linea delle Caldare passerebbe a poca distanza dalle grosse e ricche borgate di Racalmuto, Grotte, Comitini, Aragona, che sarebbero messe in comunicazione diretta con entrambi i due porti di Licata e PortoEmpedocle. Come importanza solfifera, l’ingegnere Parodi, competentissimo nella materia, considera il bacino delle Caldare come produttore di 200 mila quintali di zolfo, quello di Montedoro di soli 30 mila, che recenti calcoli porterebbero anche fino a 50 mila. Il paragone quindi non regge. Finalmente una ricchezza ancora vergine troverebbe nella ferrovia delle Caldare il modo di manifestarsi: e sarebbero le miniere di salgemma che abbondano a Racalmuto, e che ora, pel prezzo dei trasporti, non possono offrire all’industria bastevole allettamento. Queste saline sono giudicate di tale importanza che il compianto generale Bixio, seguendo il consiglio dello stesso Parodi, aveva divisato farne la sua zavorra pei carichi di ritorno nell’India; e mentre ad esse darebbe valore mercantile la ferrovia delle Caldare, non potrebbe darne quella di Montedoro alle minori saline di Mussomeli, ancor troppo lontane dalla linea per potersene giovare.

Sotto l’aspetto politico il tracciato più favorevole è quello che più rapidamente si compie. È già vivo ed aspro il malcontento destato da questo fatto, che dopo 16 anni Palermo non si trovi ancora in diretta comunicazione ferroviaria colle città orientali dell’Isola. Riesce difficile a molti l’indagare con animo scevro di passione le cause di siffatto ritardo, ed uomini eletti per intelligenza e patriottismo non sempre sanno difendersi contro ingiuste impressioni. Prolungando ancora di troppo l’epoca di questo congiungimento, possono soffrirne alcuni interessi commerciali di Palermo, ma ne soffrirà assai più lo spirito pubblico e l’indirizzo politico di quella illustre città. Palermo ha bisogno di rompere l’incanto che la tiene segregata e sovrana al di là del Platani e delle Madonie. La via del mare non le basta; bisogna che per le vie di terra, e le più rapide che si possa, si senta allacciata d’interessi, di affetti, di idee, al resto della Sicilia, al resto d’Italia, a Roma.

Dopo ciò la Giunta non crede poter discutere il terzo aspetto della questione, l’aspetto tecnico finanziario. Le mancano troppi dati, troppa competenza per pronunciarsi. Se un nuovo esame della linea delle Caldare dimostrerà che tecnicamente come finanziariamente le sue condizioni siano quali si erano dette fin qui, vale a dire un tracciato da potersi eseguire in due anni e con cinque o sei milioni di spesa, nessuna esitazione a scegliere questa linea sarà scusabile più. Se invece le delusioni tecniche si ripeteranno anche per le Caldare e si proverà che le cifre del tempo e della spesa debbano salire a livello di quelle della linea per Montedoro, il Governo sarà giustificato se persiste in questo tracciato, dal momento che non sarà nè più lungo, nè più difficile, nè più dispendioso di un altro.

 

 

Le linee future.

Quanto ad altre linee da costruirsi o da studiarsi in Sicilia, è evidente che non può impegnarsi fin da ora tutto l’avvenire, come è evidente altresì che l’attuale rete ferroviaria non basta. Se Palermo avrà la sua seconda comunicazione colla Sicilia orientale mediante le due Imere, o verso Messina mediante il litorale marittimo, qualora la costruzione del tronco Eboli-Reggio rendesse quest’ultima linea il complemento naturale della grande longitudinale tirrena, non è facile sia deciso fin d’ora. Certo, costruita la linea per le Caldare, questa seconda comunicazione diventa una questione di tempo, subordinata soltanto ad opportunità di finanza. Nè può mettersi in dubbio che i precedenti legislativi e le necessità di commercio rendano desiderata l’esecuzione anche della linea complementare del mezzogiorno, che pure per sole opportunità di finanza potrà essere suddivisa in tronchi successivi; da Siracusa a Noto, da Noto a Modica, da Modica a Vittoria o a Licata. Le linee Messina-Patti, Termini-Cefalù, Caltagirone-Catania, per cui le rappresentanze locali hanno votato sussidi, si presentano pure con qualche diritto di preferenza; e più lontane di speranza e di attuazione, cominciano a disegnarsi le linee Giardini-Randazzo, MazzaraGirgenti, Trapani-Castellammare.

Che questi desiderii e questi progetti di nuove ferrovie debbano tutti coordinarsi colle necessità dello Stato, non è chi non veda. L’orizzonte ferroviario si suole abbracciare tutto di un guardo; ma lenti poi e lunghi scorrono gli anni necessari per attraversarlo. Illusioni ed utopie sulle conseguenze di un allacciamento ferroviario non mancano neanche in Sicilia; però non devesi dimenticare che il reddito chilometrico delle reti sicule, previsto nel 1863 di lire 10,000 o 12,000 al massimo, è già arrivato a circa 11,000, malgrado che la mancanza di congiunzione tra i due versanti, le sospensioni frequenti di esercizio e i trasbordi fra le linee interrotte rendano il movimento di scambi enormemente fiacco e inceppato. Forse un sistema favorevole alla costruzione delle linee secondarie nella viabilità siciliana sarebbe quello delle ferrovie economiche, suggerito dall’esperienza di altri paesi, e suffragato dall’opinione di persone competenti. Giacchè il fenomeno che in Sicilia atterrisce le buone volontà, è la grande differenza che, per le condizioni sopra descritte, presenta ivi il costo chilometrico delle ferrovie in confronto delle cifre ordinarie. E questo fenomeno sarebbe in gran parte scongiurato dalle ferrovie a binario ristretto, che per la loro agilità nelle curve e pel minor peso del materiale possono più facilmente superare le difficoltà dei terreni.

Il Governo avrebbe anche un altro modo di cautelarsi contro le eccessive esigenze che in fatto di ferrovie potessero assalirlo. E sarebbe di vincolare la concessione delle nuove linee alla esecuzione preventiva delle strade rotabili che per legge spettassero alle provincie. Non parliamo di quelle spettanti ai Comuni, perchè la condizione sarebbe troppo dura, e potrebbe sembrare una ripulsa palliata. Ma l’adempimento degli obblighi di legge per parte delle provincie è una condizione che lo Stato può lealmente esigere come preliminare, e sarebbe utile impulso a doppio beneficio per le popolazioni.

Così la norma direttiva del Governo in questo argomento delle ferrovie potrebbe essere questa: classificare, secondo la varia importanza politica ed economica, le nuove linee; considerare quali fra esse abbiano a loro favore validi antecedenti; promuovere, secondo le risultanze combinate di queste indagini, quelle linee di diritto prevalente che fin d’ora contassero inoltre a proprio vantaggio il concorso più efficace dei corpi morali interessati; ben inteso che le nuove costruzioni ferroviarie non dovrebbero incominciarsi che dove fosse compiuta o resa idonea all’allacciamento arteriale della ferrovia, la rete delle strade rotabili assegnate dalle vigenti leggi allo Stato e alle provincie.

Un’ultima osservazione su questa importante materia. Forse non ha giovato al prospero e rapido andamento dei lavori ferroviari nell’Isola, una soverchia concentrazione di attribuzioni tecniche presso i poteri centrali. Le approvazioni richieste e date da questi poteri ai vari progetti, le dilucidazioni chieste e raccolte, le molte ispezioni succedutesi con grande sacrificio di tempo, si è visto che non hanno impedito nè una continua mutazione di questi progetti, nè una libertà esecutiva delle società concessionarie che tornò di grave danno allo Stato. Forse un ufficio locale, composto di personale giovane, intelligente ed energico, fornito di responsabilità e di facoltà speciali per l’esecuzione dei lavori ferroviari, avrebbe potuto provvedere più sollecitamente alle varie difficoltà, ed esercitare sulle società costruttrici un’azione ed una vigilanza che certo mancò. Di siffatti organismi per lavori complessi e speciali non mancano esempi nell’amministrazione italiana; e il Governo potrà vedere se non sia tuttora conveniente di adottare pei lavori ancora da compiersi un provvedimento discentratore di tale natura, come anche lo consigliano uomini tecnici di alta e incontrastata autorità.

Finalmente si lagna non senza ragione il ceto commerciale dell’Isola per l’insufficienza e la precarietà primordiale delle stazioni ferroviarie. Invero, nè Palermo, nè Catania, per esempio, possiedono una stazione conforme all’importanza del centro commerciale ed alla dignità del paese dove son poste. E, specialmente lungo le linee di Palermo-Girgenti e Catania-Leonforte son troppe le stazioni, quantunque provvisorie, dove non solo le persone hanno sconvenienti ricoveri, ma le merci, gli zolfi, i grani, i sommacchi, debbono accatastarsi nei sacchi a cielo aperto, subendo i danni e le diminuzioni di volume o di valore che le intemperie e l’insicurezza sovente arrecano. Una sollecita trasformazione delle stazioni provvisorie in stazioni definitive e un aumento del materiale mobile atto a servire convenientemente il movimento delle derrate non può non essere considerato dalla Giunta come un mezzo di rendere più animati gli scambi e più nudrito il reddito chilometrico.

 

 

Le strade ordinarie.

Quanto abbiamo detto a proposito delle ferrovie, servirà ad abbreviarci il cómpito riguardo alle strade rotabili, per cui ricompaiono in molta parte le stesse argomentazioni, gli stessi bisogni, più numerosi lamenti.

Vi è, per esempio, nell’Isola una città, a cui la Giunta avrebbe voluto pure condursi, ma che ci si affacciò da ogni lato inaccessibile, senza pericolo di trovarvisi poi per parecchi giorni rinchiusi. Sciacca, a cui d’inverno il mare impedisce frequentemente l’approdo, che i torrenti privi di ponti chiudono da dritta e da sinistra alle vetture, si trova ancora, dopo 16 anni di Governo liberale, non congiunta da via praticabile nè al capoluogo della sua provincia, Girgenti, nè ai capoluoghi di circondario coi quali confina, Mazzara e Bivona. Lo Stato non ha certo che una colpa indiretta in questa sgraziata condizione di cose, giacchè le linee stradali che circondano Sciacca, furono classificate come provinciali, e soltanto dopo la recente legge del 30 maggio 1875 lo Stato vi prese ingerenza. Ma che rispondere agli uomini estranei ai pubblici negozi quando vi chiedono se sia regolare o tutrice degl’interessi generali una legislazione che in 16 anni non trova modo di ottenere da cui spetta l’adempimento di uno dei più indispensabili scopi della vita civile? In verità alla domanda la risposta è ardua; giacchè tutti i criteri che si possono addurre a giustificazione delle varie necessità amministrative e delle varie autonomie che debbono coordinarsi ed armonizzare colle funzioni di uno Stato libero, si rompono contro il fatto brutale, contro l’isolamento di un grosso paese, contro un così lungo diniego di viabilità.

Il caso di Sciacca è però eccezionale fra i grossi Comuni della Sicilia; ma non pochi ancora dei Comuni minori si trovano in condizioni così meschine di viabilità, da dovere indurre la pubblica amministrazione a riesaminare seriamente il problema.

Non è neanche a dire che sia stato in questi anni meschino l’impulso dato alle costruzioni stradali. Se esaminiamo le cifre, queste non ci rispondono sfavorevolmente. Infatti, secondo i dati raccolti dal Possenti, a tutto il 30 marzo 1862, erano privi di strade 244 Comuni, compresi 4 capoluoghi di circondario; e lo sviluppo della viabilità ragguagliavasi a metri 84,50 per chilometro quadrato, e metri 0,914 per abitante. Oggi, vale a dire al 31 dicembre 1875, i Comuni privi di strade sono ridotti a 102; e la viabilità si ragguaglia a metri 139 per chilometro quadrato e metri 1576 per abitante.

Vediamo a chi, e in quale proporzione, si devono questi progressi.

 

 

Strade nazionali.

Lo Stato innanzitutto, colle due leggi del 30 marzo 1862 e 25 giugno 1866, si era assunta la costruzione di chilometri 605 di strade nazionali, e 105 ponti sulle strade provinciali dell’Isola. Al 31 agosto 1875, si erano costruiti chilometri 458,229, stavano in costruzione chilometri 134,894, non erano ancora appaltati chilometri 12,041; di ponti se ne erano costrutti n° 52; erano in costruzione n° 9; 44 non erano ancora appaltati. Se dunque la legge del 1866, che prescriveva il termine di 10 anni per l’esecuzione di queste opere, non può dirsi totalmente rispettata, è chiaro che la buona volontà non fece difetto, se si vuole tenere conto delle difficoltà tecniche già menzionate a proposito delle ferrovie e delle strettezze di bilancio fra cui si è sempre trovato in questi anni l’erario pubblico.

Nè il legislatore può dirsi avere mancato agli obblighi suoi; giacchè colla legge 30 maggio 1875 decretò larghi concorsi per sette grandi strade provinciali, e col progetto di legge ultimamente discusso nei due rami del Parlamento, ed approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 22 giugno, e dal Senato nella tornata del 1° luglio di quest’anno, completò, mediante un altro assegno in bilancio, la somma necessaria a saldare le eccedenze di spesa, e a compiere le costruzioni.

 

 

Strade provinciali.

Le provincie non furono pure restìe a grandi sacrifici per la pubblica viabilità; soltanto questi sacrifizi non sempre furono opportunamente fatti e in qualche caso non servirono che a rendere più difficile il problema stradale.

Questo avvenne soprattutto a Girgenti e a Caltanissetta.

La provincia di Girgenti, quella appunto che non provvide finora a nessuna comunicazione coi suoi due capoluoghi di circondario, Sciacca e Bivona, contrasse fino dal 1865 prestiti onerosissimi per otto milioni; decretò di costruire con questo fondo tutte le strade comunali della provincia; largheggiò in progetti male redatti da uomini imperiti o mossi da considerazioni di piccoli interessi locali; spese fino a 500 mila lire per soli 7 chilometri di una strada comunale; seminò tronchi di strada senza concetti direttivi e senza ordine amministrativo; e si trova ora con un debito ingente, colle strade provinciali non fatte, colle strade comunali interrotte o male costrutte; col malcontento seminato in ogni ordine di cittadini per questa specie di anarchia stradale; e non senza aver lasciato qua e là il sospetto che in questa anarchia qualcuno abbia avuto il proprio tornaconto, o per lo meno che qualche amministratore della provincia abbia pensato esclusivamente ed egoisticamente agli interessi del singolo Comune dove tiene beni e dimora.

A Caltanissetta pure l’amministrazione provinciale diresse la materia stradale in modo da lasciare aperto l’adito a gravi censure. Lì i partiti si combattono con vigore e sono tenaci ad escludersi. Dopo il 1867 il partito che predominava nel Consiglio provinciale fece decretare una larga rete stradale, comprendendovi, come a Girgenti, molti tronchi di puro interesse comunale. E si contrassero, come a Girgenti, prestiti per la somma di circa 5 milioni. Indi a poco, scavalcato quel partito, e introdottisi nel Consiglio molti amministratori nuovi, prevalse il sistema di affidare in appalto ai Comuni l’esecuzione della rete provinciale. Si appaltavano i tronchi per L. 23,000 al chilometro, i Comuni li riappaltavano per L. 8000 o 9000 e lucravano la differenza. Una grande rilasciatezza nella sorveglianza tecnica fu la conseguenza necessaria di questo sistema; si costrussero ponti, che naturalmente rovinarono, col ginese delle zolfare a guisa di mattoni o di pietre; gli ingegneri che redigevano progetti furono anche chiamati talvolta a collaudarne l’esecuzione; onde i sospetti facilmente attecchirono, e non mancarono deposizioni che attribuirono una parte dei lucri guadagnati sugli appalti comunali agli stessi consiglieri provinciali che di quel sistema erano stati iniziatori e propugnatori.

Nella provincia di Messina le cose andarono diversamente, ma egualmente non bene. L’amministrazione provinciale non sembra, a parere di qualcuno anche fra i suoi componenti, avere un eguale interesse per tutte le parti del territorio da essa vigilato. Però, una rete stradale fu decretata; ma la provincia inciampò in appaltatori insufficienti; con uno di questi, a cui si vuole attribuire qualche influenza presso la prefettura di Messina, pendono già da assai tempo trattative e contestazioni; il risultato fu che appena alcuni chilometri poterono costruirsi di tutta la rete provinciale.

La configurazione territoriale di questa provincia è sfavorevole per ciò che un’aspra catena di monti la taglia longitudinalmente per mezzo, e rende quindi assai difficili e costose le comunicazioni fra i due versanti. È inoltre in questa provincia soprattutto che i corsi d’acqua frequentissimi e scorrenti sopra larghissimi letti esigono tal numero di ponti monumentali da soverchiare le forze di ogni provinciale bilancio. Le fiumane della Calabria si ripetono qui cogli stessi caratteri come si riproduce coll’identico tipo l’aspetto delle montagne. E in entrambe le regioni la necessità di provvedere al rimboscamento dei terreni dirupati e all’arginatura di certi fiumi è vivamente sentita, pei danni gravi che una mancanza e l’altra producono agl’interessi locali.

A queste difficoltà e a queste deficienze venne però in soccorso lo Stato. Il quale si addossò la costruzione di 85 ponti in questa sola provincia; comprese fra le strade nazionali due traversate montane, quella da San Stefano per Mistretta a Nicosia e quella da Milazzo per Novara a Randazzo; e coll’ultima legge del 1875 si addossò pure la costruzione di due altre grandi strade provinciali, quella da Sant’Agata a Randazzo e quella da Capo Orlando a Bronte. Rimarrebbe una quinta traversata che interessa giustamente la città di Castroreale, non congiunta da strada rotabile con quella parte del suo circondario che rimane al di là della catena. Ma è sperabile che, appena svincolata dalle pastoie legali in cui ora si dibatte coi suoi appaltatori, la provincia pensi a soddisfare questo debito che essa ha veramente verso una parte importante del suo territorio.

Quanto alle provincie di Trapani e di Palermo, la loro azione e stata più regolare e più efficace. Palermo ha una rete di chilometri 420 in esercizio, ne ha in costruzione chilometri 49 e sta preparando i provvedimenti per la costruzione di altri chilometri 158. Trapani va compiendo il suo sistema di strade provinciali, cominciate già sotto il precedente Governo, e ha trovato un poderoso aiuto nella legge del 1875 che affidò allo Stato il compimento della lunga e importante linea da Trapani, per Castelvetrano e Sciacca, a Porto Empedocle.

Di Catania e Siracusa non si può dire che bene; dell’ultima soprattutto, la cui rete stradale fu iniziata e ormai compiuta con grande e intelligente coraggio; sicchè può dirsi che la sua viabilità ha poco da invidiare a quella delle meglio servite fra le provincie continentali. Anche nelle provincie di Catania e Siracusa prevalse originariamente il concetto, come a Caltanissetta e a Girgenti, di costruire a spese del bilancio provinciale la rete intercomunale. Era un effetto dell’anteriore legislazione stradale; che, prelevando ogni anno, dal 1843 in poi, una somma di ducati 300,000 (L. 1,275,000) sui bilanci comunali per la costruzione delle strade provinciali, aveva attribuito una specie di diritto ai Comuni stessi, di rivalersi poi sui bilanci provinciali per la continuazione di quella viabilità a cui essi avevano per tanto tempo provveduto del proprio. Fu dopo il 1865 che, dovendosi attuare le classificazioni stradali, quel concetto cominciò ad urtare contro la legge. E d’allora sorsero quelle contestazioni e quelle confusioni, di cui parlammo a proposito di Girgenti e Caltanissetta; perchè molti Comuni non volevano accettare il carico del compimento e della manutenzione di tronchi interrotti e che male servivano alle loro comunicazioni; molti altri si videro ad un tratto possessori di magnifiche reti comunali costruite senza loro spesa e fatica. Si aggiunge che, dopo la legge sulle strade obbligatorie del 1868, sorsero altre contestazioni col Governo, pretendendo le provincie di farsi rimborsare dallo Stato, pei lavori anteriormente compiuti, la quota che per le strade comunali obbligatorie si assumeva l’erario pubblico. Di lì uno stato d’incertezza che rese lunga e complicata l’esecuzione della legge, tantochè, per esempio, nella provincia di Catania soltanto al principio del 1875 passarono ai bilanci comunali le strade fatte costruire anteriormente dalla provincia. Ad ogni modo, ciò che a Girgenti e a Caltanissetta compromise così gravemente le finanze provinciali ad un punto e la pubblica viabilità, a Catania e a Siracusa, per una migliore e più cauta direzione degli affari, non nocque; anzi, è giustizia ripeterlo, a Siracusa la rete è bene compiuta e bene mantenuta, a Catania, quantunque meno bene mantenuta, soltanto 34 o 35 chilometri, attualmente in costruzione, occorrono a compierla.

Nel complesso, dal 31 marzo 1862 al 30 giugno 1875, della rete provinciale si sono costruiti chilometri 593,956, sono in corso di esecuzione chilometri 304,302, restano a costruirsi chilometri 714,052.

 

 

Strade comunali obbligatorie.

Le note dolenti, quanto a viabilità, si fanno più numerose allorchè dallo Stato e dalle provincie si scende ai Comuni. E l’esaminare la viabilità comunale, vuol dire esaminare l’unico stromento che su quella agisca, la legge 30 agosto 1868 sulle strade obbligatorie.

Quella legge, frutto precipuo degli studi della Commissione parlamentare d’inchiesta del 1867, ha pur troppo avuto in Sicilia un’applicazione assai meno efficace che non fosse nell’intendimento degli autori della legge e nel giusto concetto che la ispirò. Tutte le deposizioni si lagnano di questo fatto, quantunque non tutte lo attribuiscano alle stesse cagioni.

Che la resistenza all’attuazione pratica di quella legge, teoricamente accolta con plauso, sia stata viva da parte delle amministrazioni comunali, non si può dubitare. Il prefetto di Palermo dice che la legge si eseguisce nei preliminari di ufficio, ma che arrivando allo stadio delle costruzioni si trovano ostacoli grossi nella condizione finanziaria dei Comuni e nella poca esattezza con cui erogano i fondi stabiliti in bilancio per materie stradali. Il prefetto di Catania deplora che la legge del 1868 «sia divenuta una palestra, in cui municipi, sindaci e difensori si studiano a tutto possa di contrastare l’applicazione più larga del provvedimento». Un consigliere provinciale di Catania afferma che molti Comuni non si prestano ad eseguire quella legge, perchè non sono giunti ad un grado di civiltà e d’istruzione da comprendere i vantaggi della viabilità. Nella provincia di Messina i Comuni si prestarono dapprima a fare gli elenchi, ma poi per la compilazione dei progetti, per gli appalti, e tutti i procedimenti esecutivi dovettero supplire la provincia e il Governo. Nella stessa città di Messina l’elenco delle strade obbligatorie fu dovuto redigere d’ufficio dalla prefettura nel 1874. E un membro di quella deputazione provinciale ci assicurava che fino ad ora non si era costrutto nel Comune di Messina un solo chilometro di strade obbligatorie. A Siracusa le cose camminarono in senso inverso; da principio grandi resistenze attive e passive; poi le repugnanze scemarono, le resistenze furono più miti; ora non mancano municipi che gareggiano di zelo nel compiere quelle parti della rete intercomunale che ancora difetta.

Nè solo si trovarono ostacoli alla costruzione, ma in qualche luogo le strade costrutte rimangono con manutenzione insufficiente, talchè deperiscono e bisogna talvolta quasi rifarle. Così avvenne nella provincia di Palermo, dove il Governo, con esempio unico nello Stato, fece costruire dall’esercito due gruppi di strade della misura di chilometri 81, anticipando ai Comuni una spesa di L. 876,000, e dove ora, per mancanza di manutenzione, alcuni tronchi importanti, per esempio quello da Caccamo a Sciara, sono divenuti ormai impraticabili. Così avvenne nella provincia di Catania, dove alcune strade comunali, che erano rotabili alcuni anni fa, si debbono ora percorrere a cavallo. E in qualche luogo, come sulla linea Palermo-Messina, si deplora che ponti costruiti dal Governo rimangano inutili per le contestazioni locali che impediscono le strade d’accesso. E per contestazioni della stessa natura osservò la Giunta essere da lungo tempo in deplorevole stato di manutenzione un tronco stradale di moltissima importanza locale, quello che conduce tutti gli zolfi di Lercara alla stazione della ferrovia.

Di codeste contestazioni, di codesti ripicchi tra autorità che dovrebbero tutte cooperare al comun bene, pur troppo non vi è penuria in Sicilia; e forse non vi sono rimaste estranee sempre le autorità governative, quando spiriti gretti o rivalità burocratiche riescono a prevalere sulla direzione imparziale e assennata dei pubblici servizi. Gare di questa natura non giovano mai a rialzare il sentimento della giustizia e dell’autorità, come non giovarono in passato alla buona soluzione di alcune questioni stradali, per esempio nel circondario e nella città di Nicosia.

Ritornando alle strade obbligatorie, il risultato dell’azione finora ottenuta dalla legge 30 agosto 1868 può riassumersi nelle seguenti cifre.

La classificazione delle strade obbligatorie in Sicilia si estende, a tutto il 1874, a chilometri 3809,864, la cui spesa importerebbe una cifra approssimativa di L. 40,363,000. Calcolando l’esecuzione della legge sulla base del fondo speciale stabilito dall’art. 2 e dei sussidi provinciali e governativi, in quindici anni dovrebbero essere costruiti chil. 2561,879; gli altri raggiungerebbero od oltrepasserebbero il ventesimo anno.

In fatto si sono redatti, a tutto giugno 1875, progetti regolari per chilometri 1733, dei quali 676 parte dai Comuni e parte dalle provincie, 1057 direttamente dall’amministrazione governativa; i progetti redatti dalle provincie costarono sino a 600 lire al chilometro, quelli compilati d’ufficio ascesero ad una media chilometrica di L. 223. A tutto agosto 1875 si erano decretate linee stradali per chilometri 534, si erano concessi sussidi dallo Stato per L. 1,247,810, si erano eseguiti lavori per L. 982,762 (escluse le linee eseguite per mezzo dell’esercito) e si era pagata in sussidi la somma di L. 219,056.

Se poi si prendono le mosse dalla solita epoca del 1862, l’aumento delle strade comunali verificatosi nell’Isola ascende a chilometri 705; nel complesso, tra nazionali, provinciali e comunali, la viabilità siciliana sarebbe cresciuta dal 31 marzo 1862 al 30 giugno 1875 di chilometri 1638,210; una media annua di chilometri 117.

 

 

Effetti della scarsa viabilità.

Il risultato, bisogna dirlo, non è brillante, pensando che a questo concorsero le forze dei Comuni, delle provincie e dello Stato. Dalle cifre è apparso però che soprattutto nella viabilità comunale la sproporzione è sfavorevole. Infatti, mentre lo Stato ha costruito chilometri 458 sopra 605, vale a dire più di tre quarti del debito suo, mentre le provincie hanno costruito chilometri 594 sopra 1612, vale a dire più di un terzo dell’opera loro, i Comuni, sopra una rete obbligatoria di chilometri 3810, non ne hanno costruito che 705, vale a dire meno di un quinto del lavoro totale. Il linguaggio delle cifre diventa anche più doloroso, se si guarda all’entità dei risultati ottenuti dalla legge 30 agosto 1868; giacchè l’avere in 7 anni potuto erogare soltanto una somma di circa un milione, mentre il preventivo sommario della rete complessa tocca per lo meno i 40 milioni, dimostra quanto siamo lontani dall’avere finora a nostra disposizione un mezzo efficace per raggiungere lo scopo. Continuando in queste proporzioni, non venti nè venticinque, ma duecento ottanta anni occorrerebbero per compiere la rete obbligatoria delle strade comunali in Sicilia. Nè sarebbe esatto il dire che l’opera o il sussidio dello Stato abbiano avuto minore larghezza nell’Isola che nel Continente. Le somme spese in tutto il regno per l’esecuzione della legge del 1868 ammontavano a tutto giugno 1875 alla cifra di L. 7,915,779; e di queste, per progetti, lavori e sussidi, toccarono alla Sicilia L. 1,449,146, vale a dire quasi il doppio di ciò che in proporzione di territorio e di abitanti le sarebbe spettato. Ed è giusto che sia così, giacchè dove è maggiore il bisogno, ivi dev’essere più robusto lo sforzo.

È vero che ormai il primo periodo, il periodo più difficile della preparazione è già spinto innanzi, e che ora i procedimenti dell’amministrazione pubblica potranno essere ridotti alla metà, al quarto della loro durata, ma risultati maggiori la legge del 1868, così come è, non potrà darne; ed è impossibile che si lasci per altri cinquant’anni la Sicilia alle prese con uno sviluppo così lento della primaria viabilità.

È questo il primo bisogno dell’Isola, la causa più frequente e più intima delle sue sofferenze. L’efficacia dannosa dell’odierno sistema stradale si tocca, si vede, si indovina in ogni manifestazione della vita o degli interessi dell’Isola. Nell’ordine economico, turba i fenomeni ordinari dello scambio, impedisce le coltivazioni accurate come i convenienti commerci, allontana i proprietari dalle loro terre, scoraggia i costruttori di case agrarie e gli intraprenditori di migliorie, si oppone alla introduzione delle macchine, pesa sulla elasticità dei prezzi e dei salari, rende fiacco e lento il progresso industriale, affatica lo sviluppo minerario, perpetua dove c’è, il regime del latifondo e il regno della malaria. Nell’ordine morale, contribuisce a mantenere i pregiudizi e gli errori delle classi popolari, alimenta in esse l’abitudine dell’inerzia e dell’egoismo, impedisce quei contatti che servono a dirozzare le menti, a spegnere le diffidenze, a rendere largo e sicuro il sentimento delle solidarietà umane e dei progressi civili. Nell’ordine politico, i danni poi sono continui e complessi. Senza strade, la pubblica amministrazione si trova ad ogni passo inceppata. Non può vigilare l’esecuzione delle leggi, lasciate troppe volte in balìa di sindaci, che dell’isolamento del loro Comune si formano uno stromento di dominio od un pretesto di resistenza passiva. La pubblica sicurezza non vi può essere guarentita, perchè il servizio periodico si rende difficile, e tardi e scarsi i soccorsi straordinari in caso di turbamenti. Estremamente onerosi e dispendiosi riescono gli obblighi che il sistema liberale dello Stato impone ai cittadini; come i servizi dei giurati, delle testimonianze, della leva, dei tributi; e così più lenti e inefficaci rimangono i servizi che i cittadini possono esigere dallo Stato, ad esempio, per la posta, per la giustizia civile e penale, per le ispezioni scolastiche. Da che ognuno vede quale discredito ne venga al sistema politico e quale continua lotta tra gli interessi privati e le esigenze dello Stato. La mancanza di strade crea poi un grosso turbamento in tutta la materia delle circoscrizioni, così amministrative, come giudiziarie; giacchè spesse volte Comuni che si trovano in linea chilometricamente diretta a poca distanza dal loro capoluogo sono costretti, per incompleta viabilità, a percorrere lunghissimi spazi e attraversare, per giungervi, territori soggetti ad altre giurisdizioni; e talvolta avviene pure che un piccolo tronco costruito da un Comune o da una provincia confinante aumenti il danno e quasi il ridicolo della loro situazione, mettendoli a due passi da un capoluogo che non è il loro, e lasciando il loro a distanza di tre o quattro giorni di viaggio disagiato e pericoloso.

 

 

Circoscrizioni amministrative e giudiziarie.

Queste circoscrizioni, così amministrative, come giudiziarie, come anche politiche, dànno luogo a molti reclami; di cui alcuni verranno scemando man mano che la viabilità, progredendo, sani e corregga certe anormalità passeggiere e certi squilibri attuali; altri dovrebbero veramente essere soddisfatti, perchè mossi da intollerabili difetti di circoscrizione. Sciacca e Sambuca, per esempio, si trovano ora in più facili comunicazioni con Palermo che con Girgenti, e quindi il desiderio di avere la prima città anzichè la seconda per capoluogo di provincia può essere ora scusato. Non lo sarà più quando siano aperte le linee stradali in costruzione, che metteranno Sciacca e Sambuca a pochissima distanza dal capoluogo attuale. Piazza Armerina si lagna d’essere l’unico capoluogo di circondario in Italia che non sia sede di un collegio elettorale, essendo invece suddivisa fra due o tre collegi finitimi la sua popolazione. Agira, che la ferrovia ha posto a qualche ora di distanza da Catania, si trova annessa alla giurisdizione del tribunale di Nicosia, da cui lunghe e malagevoli strade la dividono e dove nessun altro interesse la chiama. Cammarata e Casteltermini, che in tre ore per la ferrovia possono venire a Girgenti, sono sotto la giurisdizione dei tribunali circondariali di Sciacca e di Bivona, paesi a cui non possono accedere se non per aspri e inospiti sentieri, spesso pericolosi e non sempre praticabili, specialmente d’inverno. Reclami di questa natura sono molti, nè li possiamo noverar tutti.

Grave però e veramente dannosa è la condizione della provincia di Siracusa che tuttora trovasi annessa alla giurisdizione della Corte d’appello di Palermo. I cittadini di quella provincia che sono, mediante la ferrovia, in diretta e brevissima comunicazione con Catania, dove risiede una Corte d’appello, vedono i loro affari soggetti a lunghi ritardi, e devono per recarsi personalmente al loro tribunale, traversare tre vaste provincie, mentre una grande sollecitudine di trattazione ed una grande economia di spese e di tempo verrebbe loro dal trovarsi sottoposti alla giurisdizione della Corte di Catania. I reclami per questo disagio furono unanimi in tutta la provincia di Siracusa. Veramente è assurdo che, mentre la Corte di Palermo esercita la sua giurisdizione su cinque provincie, e quella di Catania si restringe a una sola, non si aggiunga a quest’ultima la provincia finitima di Siracusa, i cui affari e i cui cittadini, obbligati già a passare da Catania, perdono inutilmente tutto il tempo e tutta la spesa che esige l’attraversare le provincie di Caltanissetta e di Palermo, e il ripercorrerle nel ritorno. Non pare alla Giunta che questa ripartizione sia ora giustificata da nessuna esigenza legittima, da nessun interesse di pubblico servizio. E siccome questa condizione di cose non potrà essere mutata da nessun fenomeno di viabilità, giacchè i paesi della provincia di Siracusa dovranno ancora essere avvicinati a Catania, non potranno esserne allontanati, la Giunta ritiene che il Governo farebbe cosa giusta e utile alle popolazioni, promovendo la separazione della provincia di Siracusa dalla Corte d’appello di Palermo, e aggiungendola alla Corte d’appello di Catania.

Questo provvedimento, anche isolato, non comprometterebbe in nessuna guisa la questione più larga della riforma delle circoscrizioni giudiziarie, mediante la riduzione dei tribunali circondariali. È un quesito codesto che non tocca la sola Sicilia, per quanto in Sicilia possa trovare argomenti maggiori a vantaggio suo. Certo, in alcune delle residenze più aspre e disagiate dei monti siciliani, nè il numero degli affari è tale da giustificare la residenza di un tribunale, nè riesce facile di mantenervi sempre un personale, così giudicante, come patrocinante, che dia buone guarentigie per la buona trattazione degli affari stessi. Troppe volte, così in Sicilia come altrove, i tribunali circondariali sono piuttosto diretti a soddisfare interessi locali di altra indole, anzichè gl’interessi alla cui tutela i tribunali provvedono. Le turbate condizioni della pubblica sicurezza possono sole creare in qualche caso la convenienza morale di un centro giudiziario altrimenti superfluo. E sotto questo rapporto la questione si collega coll’ordinamento delle preture, di cui ci avverrà parlare più tardi. Ad ogni modo, trattandosi di provvedimento ordinario e duraturo, la Giunta addita al Governo come degna di studio una circoscrizione del territorio dei tribunali dell’Isola, più conforme agli interessi della popolazione e della giustizia; e la convenienza di ridurne anche il numero, a riguardo degl’interessi medesimi, tenendo sempre in gran conto lo stato della viabilità.

Prima di chiudere questo argomento, la Giunta non può a meno di dire una parola sopra un reclamo, per verità d’interesse locale, ma che, per l’eccezionalità del caso, merita l’attenzione del Governo, ed un’equa soluzione troppo ritardata fin qui.

La città di Noto, rimasta per quasi 30 anni capoluogo della provincia di Siracusa, si vide con una legge del 1865 nuovamente privata di questo vantaggio. Per una logica di centralità che potè sembrare eccessiva, perdette la prefettura, perdette il tribunale, perdette il liceo. Tali spostamenti, verificatisi quasi ad un tratto, non poterono che agire sfavorevolmente sulla prosperità materiale e sulla tempra morale della città. Proposta alla Camera una petizione per ottenere dei compensi, questa petizione, dopo un’ampia discussione, veniva rinviata al Ministero, il quale accettava l’impegno di studiare che cosa potesse farsi per migliorare la situazione di Noto. Questa deliberazione favorevole della rappresentanza nazionale veniva poi rafforzata presso i cittadini di Noto da un dispaccio del Ministro dell’interno che «assicurava essersi presa in attento esame la questione dei compensi da accordarsi a codesta città per la perdita del capoluogo». Malgrado ciò, dei tanti modi escogitati o proposti dal Comune di Noto per raggiungere questo scopo, nessuno fu sinora accettato. Fu chiesta la sede di istituti giudiziari importanti, e non si poterono concedere. Non si concesse la sede del distretto militare, non si concesse la dimora di un reggimento, mediante offerta gratuita dei locali, non si concesse la continuazione del tronco ferroviario sino a Noto, si accordò e poi non si mantenne un sussidio per l’arginamento del fiume Eloro. Pare alla Giunta che il caso eccezionale e la forza dei precedenti non lascino il Governo senza obbligo di provvedere a che la città di Noto non possa considerare come vuote di senso e di serietà le dichiarazioni solenni dei grandi poteri dello Stato.

 

 

La legge del 30 agosto 1868.

Il viluppo degli argomenti ci ha portato lungi dal tema fondamentale, da cui ci eravamo dipartiti: la necessità di dare più rapido impulso alla viabilità, e di migliorare quindi sotto tale aspetto la legge del 30 agosto 1868.

Si è visto che in molti casi quella legge trovò ostacoli nella resistenza passiva dei Comuni; in molti più casi la trovò eziandio nella difficoltà finanziaria della sua applicazione. E questa difficoltà deriva da cause varie. In alcuni luoghi, per esempio, nella provincia di Palermo, la resistenza assoluta di quella deputazione provinciale a concedere un aumento della sopratassa fondiaria oltre il limite accennato dalla legge del 14 giugno 1874, impedì la costituzione del fondo speciale, previsto dall’articolo 2 della legge del 1868, a tutti quei Comuni che con altre spese obbligatorie avevano raggiunto quel limite. Altrove le circoscrizioni comunali ristrette rendono quel fondo speciale affatto insufficiente, anche portando la sovrimposta al di là del limite fisso, e quindi aggravando molto la imposta individuale. In altri Comuni le difficoltà nacquero o dalla mancanza di un appaltatore dei lavori o dalla impossibilità di trovare i mutui necessari alla intrapresa stradale.

Certo, se lo Stato potesse recarsi in mano tutto l’andamento e tutta la responsabilità di questo servizio, rivalendosi esso delle spese anticipate sui bilanci e sui contribuenti comunali, con quei mezzi che possiede, e quei temperamenti che potrebbe adottare, la costruzione della rete obbligatoria camminerebbe assai più spedita, e i voti delle popolazioni isolane saluterebbero con indubbia soddisfazione questo sistema. Almeno quando si tratta di consorzi comunali, a termini dell’articolo 21 della legge 30 agosto 1868, un intervento più diretto dello Stato varrebbe una benefica abbreviazione delle infinite lungaggini che rendono impotente l’opera del legislatore. E l’esempio già avuto, che i progetti sono stati compilati più sollecitamente dallo Stato, e che quei progetti sono costati meno, prova quanto più rapidamente ed economicamente funzionerebbe in questa materia l’ingerenza governativa.

Ma se fin lì non si può o non si vuole arrivare, bisognerebbe però in alcune parti rendere la legge più pratica e più efficace.

L’articolo 1 dovrebbe essere interpretato con temperanza affinchè la classificazione obbligatoria non imponga oneri troppo gravi a Comuni privi di ogni potenza economica.

L’articolo 2, che costituisce il fondo speciale, poco risponde allo scopo. La prestazione d’opera soprattutto, fonte di liti e d’incertezze nell’esigenza, allontana gli appaltatori che temono da quella forma di concorso, ritardi di pagamento o malfidi operai. E andrebbe ad ogni modo aumentata, se si vuole utile, l’aliquota del 5 per cento sulle tasse erariali, e permesso di oltrepassare per tale intento il limite fisso.

Quanto al sussidio dello Stato, regolato dall’articolo 9, due modificazioni sarebbero di grande utilità: 1° permettere la concessione anticipata del sussidio, almeno per quelle strade alla cui costruzione si procede d’ufficio, giacchè è crescere le difficoltà del Comune l’obbligarlo ad anticipare anche quella parte di spesa che non gli spetta; 2° portare la quota del sussidio ad un terzo, almeno in casi determinati, invece del quarto. Nè queste modificazioni altererebbero gravemente il concetto originario della legge e le previsioni finanziarie che l’avevano accompagnata. Infatti, coll’ingenuità del desiderio ottimista, quella legge stabiliva che il sussidio annuo per le strade obbligatorie non fosse inferiore a tre milioni. L’esperienza ha provato che questa cifra superava di gran lunga gli stimoli della legge e l’attività del paese, giacchè in sette anni, invece di spendere 21 milioni, se ne sono potuti spendere soli 8. Per cui aumentando anche di un dodicesimo il sussidio erariale, è difficile che si arrivi mai ad erogare tutta la somma annuale che la legge del 1868 aveva prescritta. Se vi si arriva, sarà un giorno beato per la viabilità italiana.

Però la questione più grossa non è forse quella del sussidio. Ai due terzi della spesa deve sempre provvedere il Comune. E come vi provvede? Quali sono le fonti, gl’istituti a cui rivolgersi per ottenere un’anticipazione di capitali così importante?

Abbiamo veduto quali trabalzi abbiano avuto in Sicilia gl’istituti di credito, e come siano oggi obbligati a trincerarsi cautamente nelle operazioni di sconto e nei prestiti a breve scadenza. Il credito mobiliare e il credito fondiario non hanno finora istituti importanti a loro servizio, e il capitale privato non osa ancora avventurarsi fuori delle usate vie, o, quel che è peggio, fuori dei nascondigli. I Comuni siciliani non hanno dunque che due casse pubbliche a cui rivolgersi: la Cassa dei depositi e prestiti e la Cassa di soccorso per le opere pubbliche in Sicilia; istituzioni che, quantunque amministrate da una sola autorità, secondo l’ordinamento provvisorio attuato col decreto 4 gennaio 1872, conservano però divise le attribuzioni e separato il bilancio.

Ora, la Cassa del depositi e prestiti ha bensì largito ai corpi morali della Sicilia una somma di lire 13,570,000 dall’anno 1863 in poi; ma di queste una tenuissima parte può dirsi avere avuto influenza sulle costruzioni della rete stradale; la più gran somma andò a beneficio delle grandi città o delle provincie: Palermo ebbe 4 milioni, Catania quasi 3 milioni, Siracusa 2,600,000, un milione e mezzo Girgenti, un milione Caltanissetta; denari consacrati ad opere grandiose certo ed utili, come piazze, teatri, palazzi provinciali, ma che assorbirono inopportunamente ogni fondo, a danno dei piccoli Comuni e della interna viabilità dell’Isola.

 

 

La Cassa di soccorso per le opere pubbliche.

La Cassa di soccorso per le opere pubbliche rimase per verità più fedele all’indole della sua fondazione, ma il suo capitale è affatto insufficiente al bisogno. Fu una delle poche istituzioni borboniche, meritevoli di plauso, e che sopravvissero al Governo assoluto. Regolata da un decreto del 23 luglio 1843, apriva le sue operazioni con un modico capitale (circa 200 mila ducati), proveniente dalla liquidazione delle antiche amministrazioni regie stradali. Prestava alle casse provinciali e comunali «le somme necessarie per accelerare la costruttura delle strade ed altre opere più importanti». Per norma costante, tali imprestiti «si sconteranno» dice il regolamento «nel corso di 20 anni coll’interesse scalare del 3 per cento». Le stesse norme segue oggi ancora l’amministrazione di questa Cassa, la quale al 31 dicembre 1875 chiudeva la sua situazione con un attivo netto di lire 5,976,316, di cui lire 82,880 in numerario ed il resto in crediti che rateatamente si esigono. Con questo capitale, che ogni anno si aumenta dei propri interessi, la Cassa ha potuto dal 1861 fino ad ora prestare ai Comuni della Sicilia la somma di lire 9,478,497; vale a dire una media di circa lire 630,000 all’anno. È poco, e si comprende come, con capitale così scarso di anticipazioni, l’esecuzione della rete obbligatoria, invece di 20 anni minacci di durare più di cinquanta. L’aumento dei fondi della Cassa di soccorso o l’istituzione di una Cassa speciale destinata a simili prestiti vincerebbe d’un tratto la maggior parte delle lentezze e delle difficoltà che assediano lo svolgimento della rete comunale obbligatoria e ne assicurerebbe il compimento in poco numero d’anni. Ma il problema non è facile a risolvere; nè di grande aiuto potrebbero essere per i primi anni i risparmi provenienti dalle Casse postali di nuova istituzione, prescindendo anche dal considerare se depositi di quella natura possano essere investiti in prestiti a così lunghe scadenze.

 

 

Il quarto dei beni ecclesiastici.

A questo bisogno pare alla Giunta che risponderebbe assai bene un altro provvedimento che da molto tempo oscilla nelle regioni amministrative e che in tutta la Sicilia è con un solo grido invocato. Trattasi dell’applicazione integrale della legge 7 luglio 1866 sulla soppressione delle corporazioni religiose.

Ognuno sa che coll’articolo 35 di quella legge, ai Comuni di Sicilia era dato il quarto della rendita di quei beni, a datare dal 1° gennaio 1867, coll’obbligo di pagare il quarto delle pensioni dovute ai religiosi. Sopravvenuta poi la legge 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico, s’imponeva con l’articolo 18 di quella legge una tassa straordinaria del 30 per cento sul patrimonio ecclesiastico rappresentato dal Fondo pel culto. L’amministrazione di quel Fondo che, non avendo ancora fatte le liquidazioni, teneva presso di sè le rendite di tutte le corporazioni religiose abolite coll’antecedente legge del 1866, pretese che la tassa straordinaria del 30 per cento colpisse anche la rendita iscritta a favore dei Comuni di Sicilia. E in qualche caso, incoatasi lite, la vinse.

È però un fatto, a cui l’equità difficilmente si rassegna, questo, che uno Stato possa, dopo concesso un diritto, ritornare sulla sua concessione e roderne un brano. Al 1° gennaio 1867, il diritto dei Comuni di Sicilia a possedere la rendita iscritta corrispondente al quarto dei beni, salvo l’obbligo del quarto delle pensioni, restava pieno ed intero. La legge posteriore del 15 agosto 1867 non poteva più considerare quella parte di beni come un patrimonio ecclesiastico; era divenuta un patrimonio comunale; e non si capisce come potesse colpirsi di una tassa retroattiva, non si capisce come la tardanza dello Stato a fare le liquidazioni e consegnare la rendita, vale a dire l’indugio del Governo nella esecuzione dei suoi doveri, dovesse poi volgersi a suo vantaggio e a danno dei Comuni.

L’intenzione del legislatore del 1866 fu evidentemente di usare un riguardo speciale ai Comuni della Sicilia; e questo riguardo trovava forse il suo corrispettivo nella massa maggiore di beni che, in proporzione delle altre regioni italiane, lo Stato trovava nella Sicilia, rimasta fino allora vergine di qualunque legge di soppressione e quindi ricca di tutto l’originario patrimonio del clero regolare.

Questa intenzione non poteva certo essere mutata, a così poca distanza di tempo, dal legislatore del 1867. Il pensare diversamente equivarrebbe a supporre che si abbia voluto con una mano togliere il beneficio recato dall’altra; molto più che l’onere delle pensioni imposto dalla legge del 1866 restava intero, e solo si sottraeva circa un terzo dell’utile.

Quanto nuocerebbe al credito ed alla dignità del Governo presso le popolazioni siciliane questa interpretazione delle due leggi non è mestieri percorrere la Sicilia per indovinarlo. Il sentimento pubblico sarebbe laggiù gravemente offeso da questa soluzione che, a torto o a ragione, sarebbe considerata come una mistificazione. La fiducia nelle promesse, nella parola del legislatore ne andrebbe scossa; e al malcontento che desta il bisogno poco soddisfatto della viabilità s’aggiungerebbe quello di vedersi contesi, per una interpretazione di legge, se non ingiusta, certo durissima, i mezzi di potere in parte provvedere a tale bisogno.

Giacchè non si può dimenticare che la stessa concessione del quarto dei beni era fatta col vincolo d’impiegarlo in opere di pubblica utilità. Ora, se non tutti, molti di questi Comuni hanno fatto debiti, hanno anticipato somme per costruzione di scuole o di strade. Gli altri aspettano per costruirle che la rendita di quel quarto sia loro consegnata. Non c’è della durezza a lagnarsi che non abbiano pensato ad entrambi gli scopi contemporaneamente, mentre lo Stato, loro debitore, trattiene presso di sè le somme necessarie per conseguirli entrambi?

La Giunta non può avere dubbio sulla soluzione più equa da darsi a questa pratica. Essa fa voti, non solo perchè il Governo solleciti le liquidazioni definitive dei beni delle soppresse corporazioni religiose in Sicilia, ma perchè la tassa straordinaria imposta coll’articolo 18 della legge 15 agosto 1867 non sia applicata al quarto della rendita corrispondente ai detti beni, da iscriversi a favore dei Comuni di Sicilia, a termini dell’alinea secondo dell’articolo 35 della legge 7 luglio 1866.

E se questa disposizione avrà bisogno di un nuovo atto legislativo e si potrà con esso vincolare espressamente la restituzione di questo quarto alla costruzione della rete stradale, il beneficio non sarà che doppio e la questione della viabilità otterrà quello sviluppo più sollecito che aveva cercato di imprimerle la legge 30 agosto 1868.

 

 

Altre questioni di viabilità.

Non vogliamo abbandonare la materia dei lavori pubblici, senza dire una parola sulle trazzere e sulle bonifiche. Le trazzere, che sono larghe striscie di terreno, non selciate nè mantenute, che seguono l’andamento naturale del suolo e che, praticabili nell’estate, divengono nell’inverno alti e pericolosi strati di fango, sono però le uniche vie di comunicazione per cui uomini e quadrupedi accedono a parecchi Comuni. L’usurpazione dei proprietari e la trascuratezza dei Comuni tendono in molti luoghi a rendere inutile anche questo primitivo mezzo di viabilità. Non è inopportuno che si ricordi a chi ne ha debito la vigilanza su questa proprietà e su tale servizio.

Quanto alle bonificazioni, la mancanza di una legge speciale non ha dato al Governo altre ingerenze che quelle consentite dagli articoli 128, 129 e 130 della legge sulle opere pubbliche. Nè sono mancate trattative fra le parti interessate per addivenire al prosciugamento dello stagno di Mondello nelle vicinanze di Palermo e delle paludi Pantano e Pantanelli nelle vicinanze di Siracusa. Vi è pure un’impresa per l’arginazione del Simeto nella piana di Catania, che, perfezionata, porterebbe assai vantaggio alla produzione ed alla salubrità di quella vasta contrada. L’effetto però di queste pratiche non ha potuto dirsi salutare, giacchè l’impresa di Mondello è sempre allo stato di progetto, il Simeto perde tuttora lungo le rive due terzi della fertilizzante sua onda, e le paludi dell’Anapo sono oggi ancora sconfinate e insalubri, come all’epoca in cui menavano strage fra gli eserciti greci che Demostene conduceva ad assediare Siracusa.

Finalmente non può la Giunta dimenticare affatto alcuni lagni che toccano da vicino le civili necessità di un paese. La manutenzione delle strade è su molte linee trascurata troppo; il materiale di consolidamento è, secondo i tronchi, o insufficiente o eccessivo; di rado sparso a tempo sull’asse stradale. I difetti di costruzione e di manutenzione che si deplorano nelle strade rotabili di alcune provincie erano già molto esattamente riassunti nella Relazione dell’ingegnere Possenti del 1865; sono anche oggidì confermati da deposizioni di uomini tecnici, nè pare, malgrado ciò, che molti miglioramenti si facciano. La situazione è poi intollerabile laddove, per un’acuta previsione di un felice futuro, sono stati adottati sistemi di manutenzione provvisoria e quindi economica, per quei tronchi paralleli alle ferrovie, destinati poi a cadere sul bilancio delle provincie.

Questo deperimento di viabilità ordinaria cominciato dieci, dodici, quindici anni prima che sia praticabile la viabilità ferroviaria non pare alla Giunta nè logico, nè giusto; giacchè per un trapasso di stanziamenti nei pubblici bilanci non devono i cittadini vedersi stremati i mezzi di comunicazione attuale in vista di una più rapida comunicazione futura.

Ne deriva un altro e non lieve disagio; che su vie così trascurate e disuguali possono difficilmente correre vetture comode, ma vi si trascinano informi veicoli, turpi di aspetto e inospitali per ogni civile persona, che servono in Sicilia ai trasporti postali.

Le cartelle d’oneri che l’amministrazione delle poste aggiunge ai capitolati speciali colle imprese appaltatrici, non impongono sufficienti condizioni per la qualità delle vetture, ed anche quelle pattuite non si rispettano. E siccome il privilegio dato alle imprese postali rende difficile la concorrenza, i viaggiatori, piuttosto che perdere le corse, si rassegnano ad accatastarsi in quei disgraziati veicoli, che dovrebbero trasportare soltanto quattro persone e che talvolta ne trasportano otto.

Eppure anche questi veicoli sono talvolta desiderati lungo le linee stradali che costituiscono una interruzione fra due tronchi di ferrovia. E il non esservi servizio di trasbordo organizzato fra queste percorrenze è un inconveniente gravissimo, specialmente in paesi dove nessun ricovero notturno è consentito e dove riesce impossibile trovare, se non ci si è pensato prima e a gravi spese, alcun mezzo di locomozione. Oltrechè la mancanza di queste necessarie agevolezze allontana i passeggieri e le merci, e diminuisce il reddito delle ferrovie. Se queste potessero in Sicilia costruirsi colla sollecitudine che altrove è consentita, e se le strade parallele o intermedie fossero percorse da vetture postali, si capirebbe che nessuna cura si prendesse si Governo per ciò. Ma, essendo per colpa delle circostanze e della natura, così diverse laggiù le condizioni delle cose, non è desiderio eccessivo che, durante questa lunga precarietà, il Governo pensi un po’ anche alle persone, non soltanto alle lettere e ai gruppi.

Sono queste cause molteplici e connesse che inaspriscono gli animi nell’Isola e li sconfortano dalla fiducia. I confronti col passato sono in questa materia sfavorevoli, giacchè il Governo borbonico provvedeva con una certa larghezza al servizio delle vetture e dei corrieri lungo le linee stradali allora esistenti. Ora è noto che si dimentica più sollecitamente il bene che il male, e quando si è alle prese coll’ultimo difficilmente si pensa a far paragoni col primo.

Togliere queste cagioni d’inferiorità supposta o reale, mostrare una cura più costante e più benevola per tutti i miglioramenti della locomozione, spingere laviabilità d’ogni natura verso il più rapido e il più largo sviluppo, vorrà dire avere sciolto per quattro quinti il problema di governo in Sicilia([214]).

 

 


 

 

 

 

LEOPOLDO FRANCHETTI E SIDNEY SONNINO

 

LA SICILIA NEL 1876

 

 

LIBRO SECONDO

 


INDICE

 

I CONTADINI IN SICILIA

 

Introduzione

 

PARTE PRIMA

CONDIZIONI ATTUALI

Capitolo I. — Divisione geografica. — Zona interna e meridionale. — Regione montana.

§ 1. Divisione geografica

§ 2. Caratteri generali della prima zona

§ 3. Regione montana

§ 4. Associazioni pastorali. — Mandre alla mistrettese

§ 5. Mandre a spese sapute, e pel frutto

§ 6. I pastori

 

Capitolo II. — Zona interna e meridionale.

§ 7. I latifondi. — Affitti dei latifondi

§ 8. Divisione delle colture. — Il pascolo. — Il maggese. — Granicoltura. — L’inquilinaggio

§ 9. Il terratico

§ 10. Le metaterìe. — Maggese, vuoto o con fave. — Patti pel frumento

§ 11. Le retrometaterìe

§ 12. Estensione dei poderi. — Piccolo fitto in denaro

§ 13. Impiegati dei feudi

§ 14. Piana di Catania. — Risaie. — Immigrazione di Calabresi

§ 15. Piana di Terranova

§ 16. Terreni prossimi alle città. — Censi. — I fondi. — I fondi seminativi. — I concimi

§ 17. Contratti nei fondi seminativi. — Metaterìe dei fondi seminativi

§ 18. Mezzadrìe presso le Petralìe

§ 19. Forme eccezionali di partecipazione. — Animali del metatiere

§ 20. I piccoli affitti

§ 21. I fondi alberati. — Olivi. — Mandorli. — Nocciuoli, fichi d’India, pistacchi, ecc. — Sommacchi. — Agrumi — Vigne

§ 22. Condizioni dei contadini nella prima zona. — Impiegati dei feudi

§ 23. I giornalieri. — Salari. — Migrazioni di lavoranti. — Ribassi nella primavera del 1876.

§ 24. Case

§ 25. Metatieri e terraggieri. — I soccorsi

§ 26. Obblighi del metatiere. — I sensali di grano.

§ 27. Terratichieri

§ 28. Paragone tra giornalieri e borgesi

§ 39. Censuari

§ 30. Donne

 

Capitolo III. — Zona alberata. — Da Mazzara a Catania.

§ 31. Zona alberata

§ 32. Marsala.

§ 33. Trapani e Monte San Giuliano. — I massarioti. — Fitto a spezzoni

§ 34. Censuari. — Censuario di Canalotte.

§ 35. La Conca d’Oro

§ 36. I contadini della Conca d’Oro

§ 37. Termini.

§ 38. Valle di Castelbuono. — Diritti promiscui. — Partecipazione

§ 39. Contratto misto

§ 40. Circondario di Patti. — Metatieri salariati. — Gelsi. — Allevamento di animali

§ 41. Castroreale e Barcellona. — Colonìe parziarie.

§ 42. Condizioni generali. — Case. — Donne. — Condizioni generali

§ 43. Milazzo

§ 44. Messina e la Costa Orientale

§ 45. Colonìe perpetue

§ 46. Da Linguaglossa ad Acireale

§ 47. Da Acireale a Catania e Adernò. — Il Bosco. — Regione mezzana

§ 48. Contratti a migliorìa. — Contratto d’inquilinaggio per le vigne

 

Capitolo IV. — Provincia di Siracusa

§ 49. Caratteri generali. — Coltivazione diretta del gabellotto. — Salari. — Canone d’affitto in generi

§ 50. I fondi seminativi. — I fondi alberati.

§ 51. Enfiteusi temporanee e fitti lunghi. — Contratti a migliorìa

§ 52. Condizione del contadino

 

Capitolo V. — Condizioni generali dei contadini.

§ 53. Proprietà grande e piccola

§ 54. Relazioni tra le diverse classi

§ 55. L’usura

§ 56. Amministrazioni comunali. — Imposte. — Opere pie

§ 57. Diritti promiscui. — Quotizzazioni dei beni comunali. — Considerazioni generali. — Medici condotti

§ 58. Zona alberata

§ 59. Vitto. — Lavoro delle donne. — Istruzione. — Considerazioni generali

 

 

PARTE SECONDA

CARATTERI ECONOMICI DEI CONTRATTI AGRICOLI SICILIANI

Capitolo I.—La partecipazione del lavorante al prodotto.

§ 60. Argomento e divisione della seconda parte

§ 61. Partecipazione del lavorante al prodotto

§ 62. Inconvenienti della partecipazione. — Partecipazione agli utili. — Partecipazione al prodotto complessivo. — Sua applicazione all’agricoltura

§ 63. Condizioni per la riuscita

§ 64. Necessità della consuetudine come barriera alla concorrenza

§ 65. Partecipazione alla rendita fondiaria

§ 66. Condizioni all’impero della consuetudine. — Deve abbracciare tutta l’azienda rurale. — Semplicità ed uniformità dei patti. — Permanenza sul podere

§ 67. Durata del contratto

§ 68. Metaterìe della prima zona

§ 69. Mezzadrìe presso le Petralìe. — Contratto misto. — Vigne. — Raccolta delle olive, ecc.

§ 70. Mezzadrìe del Messinese. — Contribuzione dei coloni all’imposta fondiaria

§ 71. Contratti a migliorìa

§ 72. Colonìe perpetue

 

Capitolo II. — Il fitto

§ 73. Fitto dei latifondi

§ 74. Danni dei grandi affitti. — Conduzione diretta del proprietario

§ 75. Fitti piccoli. — Il terratico

§ 76. Piccolo fitto in denaro. — Ricchezza mobile sui contadini affittuari

§ 77. Censi.—Fitti a termine indefinito o lunghissimo

 

Capitolo III. — Il salario.

§ 78. Categorie di salariati

§ 79. I braccianti. — Salario in natura

§ 80. Impiegati dei feudi

§ 81. Guardiani delle vigne

 

 

PARTE TERZA

RIMEDI E PROPOSTE

Capitolo I. —L’azione dello Stato.

§ 82. Divisione dell’argomento

§ 83. Azione dallo Stato. — Proprietà privata del suolo

§ 84. Alienazione delle proprietà demaniali ed ecclesiastiche

§ 85. Censimento dell’Asse ecclesiastico. — Camorre nelle aste

§ 86. Vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici. — Beni delle Opere Pie. — Quotizzazioni dei beni comunali

§ 87. Tutela sulle amministrazioni locali. — Ordinamento amministrativo

§ 88. Finanza

§ 89. Perequazione dell’imposta fondiaria

§ 90. L’imposta fondiaria e la piccola proprietà. — I grandi proprietari

§ 91. Imposta fondiaria sulle case rurali

§ 92. Ricchezza mobile. — Giornate obbligatorie per le strade. — Macinato. — Tassa di registro. — Tributi locali

§ 93. Esazione delle imposte

§ 94. La mezzadrìa secondo il Codice Civile

§ 95. L’enfitetusi secondo il Codice

§ 96. Disposizioni limitatrici della libertà di contrattare

§ 97. Risaie

§ 98. Norme legislative pei contratti

§ 99. Disposizioni intese a prolungare i termini degli affitti. — Imposizione della mezzerìa per legge. — Codici agrari.

§ 100. Del diritto ai miglioramenti introdotti nel fondo. — Proposta Jacini

§ 101. Credito agricolo e fondiario. — Magistratura speciale

§ 102. Opere pie

§ 103. Strade

§ 104. Istruzione

§ 105. Emigrazione

§ 106. Autorità provinciali e comunali

 

Capitolo II. — L’azione del proprietari.

§ 107. Azione dei proprietari

§ 108. Abitazioni rurali

§ 109. Modificazioni nei contratti agricoli. — Soppressione degl’intermediari

§ 110. Introduzione della mezzadrìa

§ 111. Obiezioni alla introduzione della mezzadria.

§ 112. Affitti delle grandi aziende rurali. — Fitti ai contadini

§ 113. Le grandi aziende condotte direttamente dai proprietari. — Immigrazioni temporanee di braccianti

§ 114. I salariati fissi

§ 115. Partecipazione agli utili

§ 116. I giornalieri. — Affitti dei latifondi a società di contadini

§ 117. Istruzione

§ 118. Progressi dell’agricoltura

§ 119. Regolamento delle acque. — Le macchine in agricoltura

§ 120. L’opinione pubblica

 

Capitolo III. — Mezzi d’azione dei contadini.

§ 121. I mezzi d’azione dei contadini

§ 122. Associazioni cooperative di produzione

§ 123. Trades’ Unions di contadini. — Unioni agricole

§ 124. L’emigrazione. — Emigrazioni periodiche

§ 125. Emigrazione dalla Sicilia

§ 126. Associazioni di previdenza

 

Capitolo IV. — Conclusione.

§ 127. Argomento. — Il feudo e il diritto di proprietà privata del suolo

§ 128. Effetto delle istituzioni libere dopo il 1860. — Sintomi minacciosi

§ 129. Doveri della classe agiata

§ 130. La questione sociale in Italia

§ 131. L’Economia politica e le questioni Siciliane

 

Capitolo supplementare. — Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane.

§ 132. Argomento. — Le zolfare in Sicilia. — Impiego dei fanciulli. — Contratti coi picconieri.

§ 133. Il lavoro dei carusi

§ 134. La questione industriale del lavoro dei carusi

§ 135. Lavoro di mezza giornata. — Questione umanitaria. — Irregolarità nel pagamento dei salari. — Responsabilità del padrone della miniera.


I CONTADINI

 

 


SIDNEY SONNINO

 

 

I CONTADINI IN SICILIA

 

 

 

 

“La discussione non sarà mai utile, se prima non ci liberiamo da quella stolta vergogna che spesso, a noi Italiani, ci fa celare le nostre piaghe per parere da più o altrimenti di quel che siamo. “Dalla verità, la libertà; dalla libertà, la verità”. Il nostro voto più caldo è quello d’invogliare qualcuno a rifare le stesse nostre ricerche, e a verificarne i risultati; e vorremmo specialmente indirizzarci ai giovani per incitarli a studiare da vicino nelle varie sue regioni quella terra incognita che è per gl’Italiani l’Italia tutta”.

L. Franchetti e S. Sonnino

Pref. al I vol. de La Sicilia nel 1876.

 

 

 

VALLECCHI EDITORE FIRENZE


 


 

 

I CONTADINI IN SICILIA

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

 

Comincia a penetrare le menti dell’universale l’opinione che per opporsi efficacemente al Socialismo e al Comunismo non basta il dimostrare in teoria e colla storia alla mano la ragionevolezza e la utilità degl’istituti, che sono base della moderna civiltà, ma che bisogna pure esaminare partitamente quali sono le mende che presenta la nostra società nei suoi ordinamenti attuali, quali sono le sciagure che essa cagiona, quali i dolori cui non ripara, e quanta parte delle une e degli altri potrebbe togliersi senza toccare ai principii.

Ogni legge, ogni istituzione creata dagli uomini, e mantenuta coll’autorità dello Stato, produce direttamente e indirettamente un numero infinito di conseguenze nelle condizioni economiche e sociali delle classi e degl’individui, e diviene così causa pur troppo spesso di diseguaglianze artificiali mantenute a forza in nome dell’eguaglianza; di oppressioni legali esercitate in nome della libertà. E tra tutte queste istituzioni è certo la proprietà privata territoriale la più importante, ed è quella difatti contro cui più vivi sono stati ognora gli assalti di coloro, che partendosi da massime a priori vorrebbero tutta rovinare la società moderna e riedificarla a loro modo, soltanto perchè l’edifizio attuale non è perfetto; come se mai si potesse creare edifizio perfetto con materiali che non lo sono affatto, e ordinare una società perfetta di uomini che sono tuttora ignoranti, egoisti, superstiziosi, frivoli e avidi di ogni più basso godimento.

La giustificazione maggiore dell’istituto della proprietà privata del suolo è economicamente la sua utilità generale, e questa si prova generalmente in modo più negativo che positivo, appoggiandosi piuttosto sui danni evidenti della proprietà collettiva, che sugli effetti benefici provati della proprietà territoriale individuale. Ma se vogliamo rinforzare l’istituzione contro gli attacchi degli oppositori, dobbiamo aggiungere una prova positiva: dobbiamo poter dimostrare come dappertutto, o quasi dappertutto, la proprietà privata del suolo nella sua forma attuale conduca al maggior benessere di tutti; e non solo alla maggior produzione agricola, chè questo non varrebbe che a giustificarla di fronte a quella parte della società, che non ha alcuna attinenza col suolo, ma anche e principalmente al maggior benessere di tutti coloro che contribuiscono a quella produzione. E se questa dimostrazione è utile dovunque, lo è tanto più in Italia dove più del 60% della popolazione è legata alla produzione agricola.

Ma vi sono nel fatto gli elementi per fornire una tale dimostrazione? — Ecco quello che dovrebbe principalmente prefiggersi di esaminare un’inchiesta agricola. Possiamo però affermare fin da ora, che pur troppo quegli elementi di fatto non esistono dappertutto presso di noi, e che in gran parte d’Italia il contadino sta male, molto male, e si trova in condizione tale da far temere per l’avvenire serii pericoli per la civiltà nostra.

Ma di chi la colpa? — I proprietari dicono che è colpa delle leggi, delle imposte, degli ordinamenti amministrativi, e dei contadini stessi. Lo crediamo anche noi che vi sia colpa di tutti, ma e dei proprietari medesimi non meno e forse molto più che degli altri. Intendiamoci però su questa parola colpa. Non attribuiamo alla classe dei proprietari una malignità speciale a danno dei contadini, o una cosciente trascuranza di quanto possa giovare alle classi inferiori, non più di quel che crediamo che gli ordinamenti amministrativi e le leggi d’imposta siano stati dettati coll’intendimento preciso di danneggiare una classe a benefizio di un’altra; ma troviamo quasi dappertutto una ignoranza assoluta e incosciente dei doveri che implica la proprietà del suolo, la quale è un privilegio (privilegio utile, ma sempre privilegio) e diremo quasi un ufficio sociale; troviamo un’opinione pubblica che si preoccupa dei salari degli operai industriali, della rendita dei proprietari, e dei profitti dei capitalisti, e ciò perchè e operai, e proprietari, e capitalisti sanno gridare e farsi valere, ma la quale ignora affatto le condizioni materiali e morali degli umili coltivatori del suolo; perchè il contadino lavora, paga, e brontola sommesso, ma non sa far dimostrazioni, non sa scrivere, e per ora non si muove.

Importa dunque di attirare l’attenzione pubblica su questi paria della nostra civiltà. Da qualche tempo vi è un notevole risveglio, in Italia, degli studii agricoli ed anche dell’agricoltura pratica. Da ogni parte sorgono e si agitano società scientifiche, comizi agrari, giornali e riviste agricole, istituti e colonie agrarie, società d’acclimazione, ecc.; in ogni provincia italiana si tentano esperimenti pratici, si pubblicano lavori dottissimi, si studia, si discute e si opera. Tutto questo movimento è ottimo, e promette molto per l’avvenire del paese; ma non basta. Si parla molto di produzione, e poco o nulla di distribuzione; eppure produzione e distribuzione sono fenomeni molto distinti. È teoria comoda di non pochi economisti ed agricoltori, quella che il benessere del contadino dipenda dalla floridezza dell’agricoltura, e che basti perfezionare questa per migliorare quello: — è questo quasi un luogo comune — ma pur troppo il fatto ci dimostra spesso il contrario. Si guardi l’Inghilterra, ove l’agricoltura è bellissima e il lavorante agricolo poverissimo: e se l’esempio non basta a persuadere il lettore, lo invitiamo a fare una piccola gita nella pianura irrigua del Po, e specialmente nella Lomellina, nel basso Pavese, nel basso Milanese e nel basso Mantovano. Egli vi troverà una produzione agricola straordinaria, un’agricoltura oltremodo perfezionata, ed insieme la condizione dei contadini la più miserabile, la più infelice di tutta l’Italia; più miserabile e più infelice di quella del contadino abruzzese o del contadino delle vallate più interne della Sicilia. Eppure il proprietario lombardo non è certo meno buono, meno umano o meno caritatevole del proprietario toscano del Val d’Arno. Da che dipende dunque la diversità delle condizioni? — Non dalla produzione diversa, ma semplicemente dalla diversità dei contratti, che regolano la distribuzione del prodotto agricolo tra i suoi tre coefficienti — terra, capitale e lavoro. I nostri contadini non sono organizzati, come in alcuni paesi, e in parte anche da noi, lo sono gli operai industriali; nè potrebbero così facilmente esserlo per la diversità delle loro condizioni: essi non possono quindi limitare artificialmente, mediante l’accordo, l’azione della concorrenza, che tende a ridurre al minimo necessario alla vita la retribuzione del lavorante, nella repartizione del valore del prodotto. E d’altra parte l’emigrazione dalle campagne è ancora fenomeno troppo parziale e ristretto a poche località per esercitare una sensibile influenza nel limitare l’offerta delle braccia, e così ottenere pel lavoro condizioni migliori di fronte al capitale. S’aggiunga inoltre che molti miglioramenti agricoli tendono per primo effetto a diminuire la quantità di lavoro necessaria alla produzione; — e si vedrà come unica difesa che resti al contadino siano quelle speciali forme del contratto agricolo le quali, invalse e mantenute per legge o per consuetudine, costituiscano una barriera contro la pressione a danno del lavoro di chi tiene in mano gli altri due fattori della produzione — il capitale e la terra. Ed è perciò che nelle seguenti pagine in cui ci siamo prefissi di esaminare a larghi tratti la condizione dei contadini in una delle più ricche e più nobili regioni d’Italia, ci occuperemo più specialmente dello studio dei varii contratti agricoli.

Importa però chiarire fin da ora il nostro concetto.

Non è che crediamo che il contratto agricolo si possa dovunque regolare a volontà, e neppure che il contratto sia la causa prima ed unica delle condizioni dei contadini nelle diverse regioni. Non v’ha dubbio alcuno che la forma generale del contratto agricolo dipenda in gran parte dalle condizioni speciali della coltura di ogni regione; ma da ciò non risulta che non si possano variare le modalità minute del contratto, in modo da regolare diversamente la distribuzione di quella ricchezza la cui forma di produzione determinò la scelta del contratto. Di più, le differenze nella condizione dei contadini dipendono certamente, oltrechè dal contratto agricolo, anche dallo stato della produzione agricola; come pure è verissimo che le tradizioni storiche, le leggi e i costumi, c’entrano per molto nel determinare la forma dei contratti agricoli; ma ciò non toglie che in questa forma si debbano cercare le ragioni della diversità di effetti che, a produzione eguale, si vedono risultare nel fatto, in luoghi diversi, dall’azione delle stesse leggi economiche generali.

Divideremo il nostro studio in tre parti. Nella prima diremo brevemente dei contratti esistenti nelle varie zone e secondo le varie colture, in Sicilia, e della presente condizione materiale e morale di quei contadini. — Nella seconda esamineremo quegli stessi contratti nei loro effetti economici e sociali, analizzandone i vantaggi e i difetti alla luce dei principii della scienza; — e in terzo luogo parleremo dei rimedi, dei tentativi fatti, delle speranze e dei timori per l’avvenire.

Il lettore ci sia indulgente. Per quanta cura abbiamo messa nel raccogliere dati e notizie, volendo tutto verificare nella misura del possibile coi propri occhi, sentiamo quanto ci manca per poter dare dei giudizi assoluti. Altri ci corregga dove sbagliamo: — il nostro intento è sovrattutto di richiamare l’attenzione pubblica su queste questioni. Ci siamo accinti allo studio senza preconcetti, desiderosi soltanto di raccontare i fatti, e di giovare colla discussione e colla pubblicità agl’interessi di una classe importante di cittadini, e insieme a quelli agl’interessi di tutto il paese.


 

 

 

 

PARTE PRIMA

 

 

 

 

CONDIZIONI ATTUALI

 

 

 

 

«Stultorum incurata pudor malus ulcera celat»

Orazio, epist. XVI.

 

Capitolo I.

 

DIVISIONE GEOGRAFICA — ZONA INTERNA E MERIDIONALE —REGIONE MONTANA

 

 

 

§ 1. — Divisione geografica.

Sarebbe quasi impossibile tracciare precisamente i confini geografici di tante zone, in cui e le colture e insieme i contratti agricoli presentino in Sicilia differenze abbastanza marcate per doversene trattare separatamente; nè una tale distinzione geografica avrebbe ora per noi una grande importanza. Potremmo bensì distinguere le colture secondo i varii climi, e quindi secondo le varie altezze, giacchè la Sicilia, paese tutto montuoso, ci presenta le condizioni di temperatura e di clima le più estreme, dalle nevi del Mongibello e delle Madonie, fino ai calori tropicali della piana di Catania, e della marina meridionale; e secondo le varie altezze avremmo le terre di montagna, le mezzaline, e quelle di marina. Se però si fa astrazione dalle terre più alte e situate al disopra dei 1200 metri, che presentano condizioni uniformi in tutta quanta la Sicilia e nelle quali la pastorizia occupa necessariamente il primo posto, e la coltura dell’olivo, del mandorlo, della vite ecc., è fuori di questione, non avremmo nella divisione delle terre in mezzaline e basse, alcuna guida per lo studio dei varii contratti agricoli, alcuna linea di demarcazione tra condizioni diverse della classe rurale.

Noi preferiamo adottare per il nostro studio una divisione meno scientifica, ma che prende per criterio le condizioni presenti di fatto delle colture in Sicilia, secondo il vario predominio della granicoltura unita alla pastorizia sopra le colture arborescenti, o viceversa. Dividiamo quindi la Sicilia in due zone principali. La prima abbraccia tutto il paese che si stende dai monti Nettuni o delle Madonie fino al Mare Africano, comprendendovi la provincia di Trapani, meno la marina da Trapani a Mazzara, la provincia di Palermo meno la Conca d’Oro e il tratto verso mare da Palermo ad Alcamo, e le provincie di Girgenti e di Caltanissetta; più il circondario di Mistretta, la parte interna di quello di Castroreale, e i circondarii di Nicosia e di Caltagirone. In questa zona troveremo alcuni caratteri costanti: la granicoltura, che si alterna col pascolo naturale e coi maggesi, e nessuna coltura di alberi o di arbusti fruttiferi o industriali fuorchè nell’immediata vicinanza dei paesi.

La seconda zona comprende oltre la marina tra il monte S. Giuliano e Mazzara, quella verso Castellammare e la Conca d’Oro; la maggior parte delle vallate strette e corte che scendono dalle Madonie verso il Mare Tirreno; i due versanti Settentrionale e Orientale della provincia di Messina, e le falde orientali e meridionali dell’Etna. In tutta questa zona troviamo l’albericoltura in grande, la granicoltura come cosa secondaria, e soppressi i maggesi di sole, e in gran parte pure i pascoli naturali.

Resta la provincia di Siracusa: questa secondo le varie altezze e i vari climi partecipa delle condizioni dell’una e dell’altra delle zone suddette, ed ha inoltre qualche carattere suo particolare.

Diremo in ultimo qualche parola intorno al lavoro nelle zolfare, che si trovano sparse in tutta l’estensione delle due provincie di Caltanissetta e di Girgenti, e presso Lercara nella provincia di Palermo; ne daremo qualche cenno a parte in un capitolo supplementare, arrestandoci soprattutto sulla questione del lavoro dei fanciulli.

Se le prime due zone principali che abbiamo distinte, parranno sproporzionate fra di loro per estensione, non lo sono però per il numero della popolazione, il quale anzi è forse alquanto superiore nella zona più ristretta.

 

 

§ 2. — Caratteri generali della prima zona.

Campi a grano, pascoli naturali, e maggesi lavorati alla profondità di un palmo — ecco la descrizione completa di tutta l’immensa campagna, che abbiamo compresa nella prima zona. Si può camminare a cavallo per cinque o sei ore da una città ad un’altra e non mai vedere un albero, non un arbusto. Si sale e si scende, ora passando per i campi, ora arrampicandosi per sentieri scoscesi e rovinati dalle acque; si passano i torrenti, si valicano le creste dei poggi; valle succede a valle; ma la scena è sempre la stessa: dappertutto la solitudine, e una desolazione che vi stringe il cuore. Non una sola casa di contadini. A lunghissimi intervalli, forse a ore di distanza, si trova qualche grande casolare all’apparenza antica e trasandata, con una costruzione che accenna insieme a fortezza e a granaio. È quello il centro dell’amministrazione di qualche grande tenuta o ex feudo, servendo talvolta più di magazzino provvisorio, che di luogo di abitazione. Per strada s’incontra forse qualche gruppo di contadini che tornano dal lavoro, a piedi, o a due e tre a cavallo di un asino o di un mulo, tutto spelacchiato e piagato, sul quale hanno pure caricati tutti gli arnesi di campagna, cioè l’aratro e la zappa.

Ad un tratto apparisce sull’orizzonte una comitiva di gente a cavallo, che scende nella vallata in direzione opposta alla vostra, e vedete il luccicare delle armi. Eccovi tutti in guardia. Esaminato il grilletto della vostra carabina, procedete innanzi con qualche precauzione. Non sarà nulla: — forse due o tre proprietari, o un gabellotto, che viaggiano coi loro campieri, tutti armati fino ai denti, da una fattoria o da una città ad un’altra. Sarà gran ventura se, per rompere la monotonia del viaggio, v’incrociate nel corso della giornata con qualche pattuglia di carabinieri o di bersaglieri, o con due o tre militi a cavallo dall’aspetto pochissimo rassicurante.

All’avvicinarsi però alla città tutta la scena si trasforma: alla distanza forse di un miglio, o più o meno secondo l’importanza del centro, vi trovate ad un tratto in mezzo a un’oasi di olivi, di mandorli, di viti, di fichi d’India; e in basso, in fondo alla valle, vedete la foglia cupa dei giardini di agrumi. Entrando in città, — qui non esistono quasi villaggi, — dovrete passare fra lunghe file di case basse, composte ognuna di un pianterreno di una stanza, l’una addossata all’altra, senza finestre, ma con la sola porta di entrata, nella quale forse si apre sì e no uno sportello. Son le case dei contadini. Vedrete entrare ed uscire da esse nella strada fangosa, tutta ineguale, — e talvolta, se costruita sulle falde di un poggio, più ardua e scoscesa di un sentiero da capre, — le donne, i bambini, i maiali, i cani e le galline, tutto mescolato insieme in buona e in cattiva armonia.

Tutta la popolazione è accentrata nelle città. Il contadino, per recarsi al campo che deve lavorare, ha talvolta da percorrere 15 e più chilometri. Se la distanza è grande, egli si parte il lunedì mattina da casa, e torna il sabato sera, perdendo così due mezze giornate nella settimana; allora dorme fuori in campagna, per lo più sotto una rozza capannuccia di paglia e di frasche, messa su provvisoriamente in mezzo ai campi, oppure talvolta addossata ai casamento della masserìa centrale. Se invece la distanza non è troppa, si parte da casa la mattina prima dell’alba, e torna la sera per il tramonto, perdendo così ogni giorno per lo meno due o tre ore di lavoro.

Anche nei terreni alberati nell’immediata prossimità delle città, è raro che vi sia qualche casa rurale; menochè si tratti di giardini di agrumi e di vigne di una certa entità, chè allora vi abita un guardiano.

Vediamo ora brevemente quali sono le colture e quali i contratti agricoli predominanti nell’ampia estensione di cui parliamo.

 

 

§ 3. — Regione montana.

Prima di tutto occupiamoci della regione più alta e montana, e che resta coperta di neve per una parte dell’inverno.

Questa regione viene detta in molte parti semplicemente il Bosco; forse perchè era una volta tutta coperta di selve. Ora esiste ancora qua e là qualche bella selva di castagni e di querci, ma sono rimasugli che ogni giorno tendono maggiormente a sparire. In questa regione predomina in primo luogo la pastorizia, con avvicendamento di grano, specialmente marzuolo, di segale e di orzo. La proprietà è molto grande e vi si trovano ancora spesso molti diritti promiscui tra Comuni e baroni, e che ancora non sono stati sciolti, malgrado le ripetute prescrizioni legislative e regolamentari. Così troviamo in più luoghi dei vasti terreni dove gli alberi appartengono a un Comune, e il terreno a un barone, o viceversa. Nella regione montana poi del Messinese, esistono tuttora dei diritti speciali di semina alternativa, oltre i diritti di tutti i comunisti al pascolo nelle terre comunali, o anche baronali, al far legna, al prendere pali per le viti, ecc.

Il diritto di semina alternativa consiste nel diritto, che possiedono alcuni comunisti, per lo più gente civile e di condizione agiata, di seminare a grano ogni secondo anno un determinato pezzo di terra, senza pagare alcun fitto o censo di sorta. Nell’anno successivo in cui la terra vien lasciata in riposo, il pascolo è libero a tutti i comunisti. Gli aventi diritto alla semina alternativa non coltivano quasi mai la loro terra da sè; ma ne concedono la coltura per l’anno del grano ai villani, coi patti di terratico o di metaterìa, che vedremo esser quelli universalmente in uso per la coltura dei cereali in Sicilia.

Vi sono poi, secondo i diversi luoghi, proibizioni o consuetudini speciali. Così a Motta Camastra vi è una proprietà in cui gli alberi sono del marchese di G*.... e la terra è sottoposta ai diritti di semina alternativa; là però vi è divieto pei possidenti di quei diritti, di piantare viti. Più in qua invece, e nel Bosco che sovrasta alla marina orientale della provincia di Messina, se colui che ha il diritto di semina alternativa pianta una vigna nel suo pezzo di terra, egli ne rimane proprietario col solo obbligo di pagare la decima dei prodotti al Comune.

Sarebbe inutile voler qui descrivere le molte e strane varietà dei diritti promiscui di cui qua e là si trovano ancora dei resti in Sicilia e specialmente nella zona montana. Torneremo a parlare dello scioglimento di questi diritti.

 

 

§ 4. — Associazioni pastorali.

Una particolarità interessante, in fatto di contratti agricoli, la troviamo nelle associazioni pastorali in uso in Sicilia; non ne daremo però che un breve cenno, rimandando il lettore per ogni ulteriore ragguaglio ai lavori del barone Turrisi([215]), e del Salamone([216]), dai quali abbiamo tolte le nostre notizie.

Queste associazioni, di cui troviamo maggiori esempi nel Mistrettese e sulle Madonie, si dicono mandre, ma non si estendono però alle mandrie di vacche, che appartengono sempre ai grossi proprietari ed affittuari, ognuno dei quali amministra la propria mandria con impiegati propri, salariati all’anno. Le associazioni pastorali siciliane non comprendono che le greggi di pecore e di capre, e le mandrie di cavalle. Esse hanno varie forme, ma non sono rette che dalla consuetudine, e i soci non hanno altra garanzia che la reciproca buona fede.

I soci si dicono prezzamari, e il socio amministratore, che è sempre il maggiore interessato, vien detto il patrone. In tutti i sistemi ora in uso, tanto in quello di mandra alla mistrettese, vera commandita pastorale, come negli altri di mandra a spese sapute, o pel frutto, l’unità d’interesse, o diciamo l’azione, che ogni socio ha nella impresa, è costituita da ogni testa di capra, di pecora o di cavalla che egli contribuisce alla massa sociale. Impiegati della società non sono che gli stessi soci, i prezzamari, o i loro figli o stretti parenti, i soldanieri. Il lavoro vien retribuito in varii modi secondo i luoghi; sia con una paga annua, più un soprassoldo per giorno di lavoro, ad alcune categorie d’impiegati; sia col solo soldo per giorno di lavoro, eguale per tutto l’anno, ma che varia secondo gli uffici. La proprietà degli animali di ogni socio si riconosce per le pecore e le capre a certi segni, che si fanno loro nelle orecchie. La lana delle pecore, e gli agnelli ed i capretti non entrano generalmente in conto sociale, ma si commerciano da ogni socio per proprio conto. Si fa ogni 15 del mese la numerazione degli animali di ogni socio i quali dànno latte, e secondo i resultati di questa numerazione egli riceve alla fine del mese sociale seguente la sua parte di ricotta; e sui registri gli viene assegnata una quota corrispondente delle forme di cacio; delle quali quote mensili di cacio egli riceve poi il valore soltanto alla liquidazione dei conti a fin d’anno.

 

Mandre alla mistrettese.

Le società pastorali alla mistrettese o per le spese, prendono talvolta in affitto per conto sociale intiere proprietà, riconcedendo poi quella parte che va coltivata a grano, ai villani coi soliti patti di metaterìa, o di terratico. Le spese comuni vanno divise tra i soci, secondo il numero di animali di proprietà di ciascuno.

 

 

§ 5. — Mandre a spese sapute, e pel frutto.

Più comuni però sono ora le mandre a spese sapute, o pel frutto, le quali non possono applicarsi che alla sola pastorizia. I ricchi proprietari di greggi volendo evitare le conseguenze della trascuranza o della malafede dei soci prezzamari, e non volendo dividere con loro i lauti guadagni del fitto di tenute intiere o dei soli pascoli, — fitto di cui essi debbono sopportare i maggiori rischi, e per cui debbono offrire tutte le garanzie, come soli possessori di capitali, — preferiscono queste forme più ristrette di società, in cui il patrone o interessato principale fornisce il pascolo agli altri soci, contro un pagamento fisso o fida per ogni 100 capi di bestiame minuto, e talvolta s’incarica pure di tutte le spese.

La lana, gli agnelli e i capretti restano sempre esclusi dalla società e di spettanza di ogni socio; ma quanto al latte, al cacio e alla ricotta, mentre nella mandra a spese sapute, vengono divisi tra gl’interessati come s’è detto sopra, nella mandra pel frutto restano di tutta proprietà del patrone, o socio amministratore. Nel primo caso la fida pel pascolo e per tutte le spese è di circa 400 lire per 100 capi minuti, o più o meno secondo i luoghi e i tempi; nel secondo di lire 100 circa. Quest’ultima è la forma più comune di queste società, ed usata generalmente dagli affittuari di grosse tenute per utilizzare i loro pascoli. Dei salari dei pastori parleremo più giù nel discorrere degl’impiegati di una grande azienda rurale.

Le dette forme di associazione, già lo vedemmo, non si applicano che al solo bestiame minuto e alle cavalle, e non si usano per le mandrie di vacche. Il barone Turrisi però ci dà notizia di un’altra forma di mandra, che ha per obietto la sola fabbricazione del cacio e delle ricotte, e che è, o era, in uso in Sicilia tra i piccoli possessori di armenti, là dove vigono ancora i diritti civici di compascolo sui beni comunali o exfeudali. È la mandra a latte reso, che ci ricorda le associazioni svizzere, quelle di Reggio d’Emilia, e delle valli bergamasche, per la fabbricazione del cacio. Questa mandra consiste nel patto tra i soci di mutuare ogni giorno a turno tutto il latte a uno solo, al fine di averne sempre riunita una quantità sufficiente per la conveniente manipolazione del burro e del cacio. Non sapremmo dire se questa forma di associazione si trovi ancora molto sparsa; ma dietro il continuo restringersi dei pascoli comunali, la progressiva soppressione degli usi civici, e il nessun progresso in Sicilia delle piccole proprietà, non crediamo che la mandra a latte reso abbia per ora campo di estendersi.

La pastorizia ha sofferto molto in Sicilia da un decennio in qua. Il tifo bovino fece specialmente strage negli anni 1866, 1867 e 1868, distruggendo più di due terzi degli armenti: la rogna, la scabbia e il tifo hanno pure prodotto danni immensi nelle greggi di pecore e di capre.

Un inconveniente grave, che si verifica in Sicilia per la pastorizia vagante, è quello cagionato dalle imposte comunali sulle greggi o sulle mandrie; le quali imposte voglionsi dai municipii riscuotere in ogni territorio, onde lo stesso animale vien tassato in più Comuni, talvolta in cinque o sei di seguito. Di qui naturalmente liti e reclami senza numero; e malgrado una decisione del Consiglio di Stato, che non ammette l’applicazione delle tasse sugli animali senonchè pro rata della loro permanenza nel territorio comunale, seguitano gli abusi e gli errori, le tassazioni indebite, i reclami e i danni.

 

 

§ 6. — I pastori.

Siccome le greggi e gli armenti in Sicilia emigrano periodicamente secondo le stagioni dalle terre più alte alle mezzaline, e quindi in quelle più basse, che si dicono indistintamente terre di marina, e siccome i campi della zona più alta vengono coltivati da villani che dimorano per lo più nelle città più basse, non vi è molto di speciale da osservare intorno alla condizione della popolazione rurale della zona montana. La vita dei pastori è qua, come dappertutto, vita dura e di stenti. Il loro vitto si compone quasi esclusivamente di pane più o meno buono, e di un po’ di ricotta salata: di carne mangiano soltanto quella di qualche animale morto per malattia o per disgrazia. Coperti di pelli di montone, vivono la maggior parte dell’anno sotto la vôlta del cielo, esposti giorno e notte a tutte le intemperie. Sono inoltre, com’è facile il credere, privi affatto di qualunque istruzione. I caprai poi, possessori di una cinquantina di capre, e che errano di luogo in luogo mantenendo il gregge in gran parte sul pascolo abusivo, e sull’erba che costeggia le trazzere, cioè i sentieri, che percorrono, costituiscono più specialmente una classe pericolosa, che sta in continui rapporti coi latitanti e coi malandrini che battono la campagna; ne mantiene le relazioni tra un luogo e l’altro; li avvisa dell’approssimarsi della forza pubblica, e contribuisce a tener viva quella piaga speciale dell’agricoltura siciliana, l’abigeato, ossia il furto del bestiame.

Nella zona alta di cui parliamo, manca affatto ogni abitazione. La proprietà è tutta a latifondi, che sono per la massima parte posseduti dai baroni, eredi degli antichi feudatari; e il resto dai Comuni. Le proprietà ecclesiastiche sono andate, qui come altrove, in mano dei grossi proprietari; ma su ciò torneremo nell’ultima parte, quando ci occuperemo del censimento delle terre ecclesiastiche.


 

 

Capitolo II.

 

ZONA INTERNA E MERIDIONALE

 

 

 

§ 7. — I latifondi.

Intendiamo ora descrivere a larghi tratti l’ordinamento delle aziende rurali di tutta l’immensa estensione, che occupa più di cinque sesti della prima delle due zone maggiori in cui abbiamo diviso la Sicilia; di tutte cioè quelle terre situate in montagna, in collina, nel fondo delle valli, o in pianura, che sono destinate alla coltura dei cereali avvicendata coi pascoli naturali.

Come già notammo, la coltura degli alberi fruttiferi e degli arbusti si restringe all’immediata vicinanza delle città; il resto è tutto campo nudo, e tutta la parte coltivabile è destinata alla granicoltura o alla pastorizia. La quasi totalità di queste terre è divisa in latifondi detti exfeudi, che corrispondono generalmente agli antichi feudi baronali, e sono in gran parte ancora in mano delle famiglie della nobiltà. Altri sono stati alienati per diverse cause, di divisione per successione, di vendita per debiti, di assegnazione ai creditori dietro la legge del 10 febbraio 1824, ecc., e si trovano in mano della ricca borghesia: però se hanno cambiato di mano, sono raramente stati divisi, e il latifondo è rimasto nella sua entità. E ciò si spiega facilmente, oltrechè per molte altre ragioni, anche per la grande mancanza dei fabbricati necessari per un aumento del numero delle aziende rurali. Son frequenti i feudi di 1000 e di 2000 ettari, e ve ne sono di 6000 ettari e più; la maggior parte conta dai 500 al 1000 ettari.

Ogni feudo ha un casamento che è il centro dell’azienda rurale. Queste fabbriche sono per lo più in uno stato deplorevole, e quasi tutte poi mancano di stalle per gli animali bovini, e di convenienti abitazioni per gl’impiegati, specialmente per quelli inferiori, che dormono a molti in una stanza, sopra rozzi giacigli di paglia e di cenci. Si contano sulle dita i proprietari che abbiano fatto in Sicilia qualche spesa per ridurre convenientemente questi casamenti rurali, lo stato dei quali ha pure tanta importanza per la coltura dei terreni, e per la condizione di una non infima parte della popolazione rurale.

 

Affitti dei latifondi.

In tutta la Sicilia gli exfeudi — e per feudo o exfeudo s’intende ora qualunque latifondo con coltura a cereali e pascolo, — sono, come regola, dati dai proprietari a fitto a degl’industriali capitalisti, per un termine di anni che varia secondo le provincie e i luoghi, dai tre ai sei, e qualche rara volta tocca i nove anni. Dare una proprietà a fitto in denaro si dice in Sicilia darla a gabella, e gabellotto si chiama l’affittuario; nel Catanese arbitriante. Il fitto dei feudi in tutta la Sicilia si fa generalmente contro un canone in denaro. Però nel Siracusano, più comunemente per i fondi medii e piccoli, e talvolta anche per i feudi, il canone è pagato parte in denaro e parte in generi, oppure anche tutto in generi. Quest’ultimo caso però non si applica che ai fondi minori.

Un gabellotto prende talvolta in affitto parecchi latifondi, per subaffittarli poi ad altri, e in alcuni luoghi dell’interno si trovano così anche due e fino a tre subaffitti. La riunione di parecchi feudi in un solo fitto si chiama nel Caltanissettese uno Stato.

Questo sistema però di subaffitti va fortunatamente diminuendo, e si usa piuttosto dai proprietari di affittare i loro feudi direttamente a chi ne intraprende la coltivazione. Moltissimi però sono i gabellotti che conducono direttamente due o tre latifondi, situati ad altezze diverse, e ciò specialmente per il comodo della pastorizia vagante. Se non hanno capitali da far ciò, prendono a fitto per una parte dell’anno il solo pascolo di qualche altra tenuta in montagna o in marina, per mandarci gli armenti e le greggi nell’estate o nell’inverno. Qua e là troviamo qualche proprietario che conduce da sè il suo latifondo, e per di più prende a gabella qualche altra proprietà: in alcuni luoghi come a Corleone, alle Petralìe, a Caltagirone, la conduzione diretta per parte del proprietario, si trova abbastanza comune; ma però può considerarsi sempre in Sicilia come l’eccezione per quanto riguarda i latifondi di terreni seminativi, e come eccezione non abbastanza frequente per alterare in nulla le condizioni generali della proprietà, nè quelle dei contratti agricoli o della popolazione rurale.

Se vi è per caso qualche oliveto presso il centro del feudo, esso viene, come regola generale, escluso dal fitto, e tenuto dal proprietario a economia, cioè per conto proprio. Se però non si tratta di veri oliveti, ma di poche piante di olivi, vanno per lo più compresi nel fitto generale del feudo. I vigneti che si trovino presso i caseggiati dei feudi vanno più spesso compresi nell’affitto complessivo; ma non sempre.

L’anno agrario in Sicilia per tutta la terra a granicoltura corre dal 1° settembre al 31 agosto, e l’immissione in possesso del nuovo affittuario, comincia difatti col 1° settembre. Siccome però è uso generale che l’affittuario che parte debba lasciare per l’ultimo anno o per 18 mesi prima della scadenza, un terzo del fondo a completo riposo, il nuovo gabellotto può, secondo le due varietà di patti, sia nel maggio, sia nel gennaio, che precede l’epoca in cui comincia il suo fitto, entrare a lavorare (novalizzare) quella terza parte del fondo, onde prepararla per la sementa del grano a novembre. In generale il fondo vien consegnato al gabellotto colla sola colonna di terzerìa, ossia soltanto col terzo del terreno riposato. Però alcune volte vi si aggiunse come colonna, cioè come capitale d’esercizio, anche la paglia dell’anno precedente, che il gabellotto deve poi lasciare nel fondo in eguale quantità alla scadenza del fitto. In alcuni rari casi troviamo pure la colonna a borgenzatico completa, e il proprietario consegna al gabellotto tutto quanto il capitale d’esercizio, ossia buoi, pecore, paglia, grano per il vitto degl’impiegati per un anno e per la sementa. Probabilmente in origine era questo l’uso più generale, e fu in questo modo che in antico e sotto i nobili feudatari potè formarsi e crescere la classe dei gabellotti capitalisti, alla cui energia, attività e intelligenza deve pur tanto l’agricoltura Siciliana, malgrado tutte le sue deficenze.

 

 

§ 8. — Divisione delle colture.

I limiti ristretti che ci siamo prefissi non ci consentono di estenderci nell’esposizione dei sistemi in uso per la coltura dei cereali in Sicilia, e dovremo per questi rimandare il lettore specialmente al lavoro del Caruso([217]) e a quello non meno interessante del Cattani([218]). Le consuetudini poi variano molto nei minuti particolari da un luogo all’altro. Non intendiamo nemmeno discutere ora i metodi siciliani al punto di vista di una buona agricoltura; questo studio è già stato fatto dai detti autori competentissimi e da molti altri; e noi qui non intendiamo che dare un quadro succinto della condizione degli agricoltori. Ci bastino dunque i seguenti brevissimi cenni.

L’avvicendamento agricolo in tutta la zona di cui parliamo è generalmente quello dei cereali col pascolo naturale, facendo però seguire al pascolo, prima della seminagione del grano, dieci mesi o sei di maggese lavorato. È quella che generalmente in Sicilia chiamano la coltura a terzerìa. L’intera ruota agraria viene a compiersi in 3, 4 o 5 anni secondochè si seminino i cereali, o si lasci il pascolo, per uno o per due anni consecutivi: forse la ruota più comune è quella dei 4 anni: 1° anno maggese; 2° anno grano; 3° anno orzo; e 4° anno pascolo. Non si coltiva l’intiero fondo successivamente a grano, a pascolo, ecc.; ma invece si divide in tre parti, di cui l’una è a pascolo, la seconda a maggese, e la terza coltivata a cereali, e in ognuna delle quali si fa l’avvicendamento suddetto.

 

Il pascolo.

Il gabellotto tiene per conto proprio il pascolo, facendovi pascolar sopra i suoi armenti e le greggi composte dei suoi propri animali, e, spesso per circa una metà, di animali dei suoi subordinati e di altri, che gli pagano una fida([219]); oppure l’affitta in tutto o in parte ad altri gabellotti o pastori, che manchino di pascoli per i loro animali.

 

Il maggese.

Se il gabellotto possiede in proprio un numero sufficiente di bovi, egli lavora talvolta tutto o la massima parte del maggese per conto proprio con tre o quattro arature, ma questo è caso che diventa sempre più raro dopo le terribili epizoozie del passato decennio, e per lo più la massima parte della terra destinata al maggese vien divisa in piccoli appezzamenti, e la lavorazione vien eseguita in modo molto imperfetto per conto dei villani. Questi ci seminano le fave, mettendovi sì e no un po’ di concime, oppure lasciano il terreno vuoto, lavorandolo soltanto con due o tre arature coi propri muli, se ne hanno, o se no prendendo gli aratri di bovi o di muli a fitto per la giornata, sia dallo stesso gabellotto, sia da altri. Il prezzo di una giornata di aratro varia molto da luogo a luogo e secondo la stagione; oscilla tra le 6 e le 14 lire; ordinariamente è di 8 lire per lavoro di maggese, di 10 a 12 per la sementa. Il contratto tra padrone e villano, per cui il maggese di un appezzamento vien fatto per conto di quest’ultimo, dura talvolta un solo anno, e ciò soltanto quando si faccia la favata, cioè quando vi si seminino le fave; oppure il contadino è quello stesso che prende a coltivare in quell’appezzamento i cereali nell’anno o negli anni successivi, e allora i patti per il maggese, sia esso di sole o con fave, si ricollegano con i patti dell’anno o degli anni successivi.

 

Granicoltura.

Veniamo ora alla terza parte del feudo che è destinata ad essere coltivata uno o due anni, o talvolta anche tre, a grano e a orzo. Vi è qualche gabellotto, — ma fuori del Siracusano non è che una rara eccezione, — il quale, avendo animali sufficenti e facendo una parte del maggese per proprio conto, coltiva pure per proprio conto e con salariati alla giornata, un appezzamento più o meno grande della sua terra, anche negli anni della coltura dei cereali; riservandosi naturalmente la parte migliore del fondo. Il caso generale però è il seguente:

 

L’inquilinaggio.

Tutta la parte destinata ai cereali viene divisa in piccoli appezzamenti, e concessa ai contadini per uno, due, o anche tre anni, a inquilinaggio([220]), cioè o a terratico, o a metaterìa.

Il contratto in generale non è che di un anno, oppure di due quando comprenda l’anno del maggese; ma si rinnova pure tacitamente per uno o due altri anni, finchè non si cessi in quella parte del fondo la coltura dei cereali, e si lasci la terra a pascolo naturale, oppure si ripeta il maggese. Il sistema di dare la terra ai contadini coi contratti di terratico o di metaterìa, si chiama in Siciliano sistema a borgenzatico. Diciamo prima del terratico.

 

 

§ 9. — Il terratico.

Il contratto di terratico non è altro che un fitto in grano. Si conviene che il contadino terratichiere deve pagare secondo la qualità delle terre o i luoghi 2, 3 o 5 salme([221]) di grano per salma([222]) di terra. Di più paga in generale 1 tumolo([223]) di grano per ogni salma di terra a titolo di diritto di guardia, ossia pel pagamento del campiere, impiegato dal gabellotto per sorvegliare la terra e più ancora il rigoroso adempimento del contratto per parte del villano. Talvolta oltre il diritto di guardia il terratichiere è tenuto pure a pagare qualche altro dei molti diritti di cui parleremo a proposito della metaterìa. Si dice in Sicilia che il terratico è di 2, 3 o 5 terraggi, oppure in alcune parti del Catanese e nel Siracusano di 2, 3 o 5 coverte, secondo il numero di 2, 3 o 5 salme di grano che il contadino debba pagare per ogni salma di terra.

In media si può forse ritenere che il terratico in Sicilia sia di 3 terraggi; ma le medie ci dicono poco o nulla; e per farsi un giudizio di quanto sia volta per volta più o meno grave la prestazione per il contadino, bisogna poter tener conto di molti altri elementi oltre quello della cifra degli ettolitri da pagarsi per ettaro di terra, come per esempio della fertilità del suolo, del capitale impiegato, ecc. Il Caruso([224]), il Salamone([225]), il Cattani([226]), ci mostrano colle cifre alla mano quanto sia in generale eccessivo il canone in grano che si richiede dal terratichiere, il quale alla fin dell’anno, anche nelle annate di raccolta discreta, non viene a riscuotere un giusto compenso alle sue fatiche, tenuto calcolo delle giornate di lavoro che deve impiegare alla coltura del campo. Nelle annate medie egli difatti riesce appena a pagare i debiti che ha dovuto contrarre per mantenere in vita sè e la famiglia, e in quelle di raccolta magra è costretto a vendere il mulo o la casupola. Ma di questo poi. Il terraggio in grano è dovuto dal terratichiere anche per l’anno del maggese, quando questo sia compreso nel contratto, e ciò tanto se il contadino vi semina le fave, e questo è il caso più generale, come se fa il maggese vuoto. Naturalmente l’esserci o no il maggese compreso nel contratto fa una differenza nel fitto. Il canone però per l’anno del maggese vien sempre pagato nell’anno seguente, alla raccolta del frumento. Il canone eguale è pure dovuto nell’anno in cui il contadino coltivi l’orzo; soltanto si calcola generalmente nel pagamento due ettolitri d’orzo come uno di grano.

Vi è qualche luogo in cui troviamo contratti di terratico di tre, quattro o sei anni, che hanno la stessa durata del fitto principale del feudo; così talvolta verso Alia e Valledolmo nella provincia di Palermo. Il gabellotto insomma converte semplicemente in tanti fitti in grano che contrae coi contadini, tutto o in parte il suo fitto in denaro, lucrando sulla differenza, la quale importa per lo più un benefizio del 100%. In questi casi, che però non sono molto comuni, il contadino è alquanto più libero di coltivare la sua terra a modo suo, perchè non tenuto a seguire la ruota agraria di tutto il feudo. Egli è però costretto a non lasciar mai riposare la terra, e non ha mai d’altra parte la possibilità di concimarla convenientemente per fare una coltura più intensiva.

Dei fitti in denaro fatti ai contadini parleremo più tardi.

Nel territorio di Noto abbiamo osservato la seguente particolarità nei contratti di terratico. Mentre in generale in Sicilia, meno forse presso Corleone dove molto si lavora colla zappa, tanto le metaterìe che i terratici, e specialmente i secondi, non vengono concessi che a quei contadini che possiedono almeno un mulo, verso Noto invece i terratichieri, che in gran parte son contadini che abitano a Avola e in altri paesi vicini, spesso non hanno animali, e il padrone fa fare colle proprie bestie due arature per conto del contadino, facendosi pagare per la prima aratura dieci tumoli di grano per salma di terra, e per la seconda sei; dimodochè il terratichiere che non abbia animali in proprio, paga, a contratto uguale, una salma di grano di più per ogni salma di terra, ossia 1 terraggio di più di chi ha uno o due muli e può lavorare la propria terra.

In genere le condizioni fatte al terratichiere, non variano molto da quelle del metatiere, e il lettore potrà forse meglio formarsi un concetto della natura dei patti agricoli in Sicilia, dalla esposizione delle forme principali della metaterìa, la quale tende generalmente a sostituirsi a poco a poco al terratico. Vi è ragione di credere antichissime ambedue queste forme di contratto([227]).

 

 

§ 10. — Le metaterìe.

Secondo gli usi dei luoghi, la natura dei terreni o la più o meno durezza dei padroni, e la concorrenza dei lavoranti, sono infinite in Sicilia le minute varietà del contratto di metaterìa, e che vertono specialmente sui patti di restituzione della semenza e sul maggiore e minor numero di diritti, che deve pagare il contadino sulla sua parte. Non diremo senonchè delle forme che abbiamo potuto riscontrare più costanti([228]).

 

Maggese a vuoto o con fave.

E cominciamo dall’anno del maggese, supponendo che questo sia a carico del contadino. Se il maggese resta vuoto, e soltanto lavorato con due o tre arature dal contadino, questi nulla paga e nulla riscuote per quell’anno, ma i patti per l’anno seguente sono in compenso più vantaggiosi per lui. Riceve intanto, e finchè durano i lavori nel campo, qualche soccorso in grano dal padrone; soccorso ch’egli deve rendere nell’anno seguente, alla raccolta del frumento, restituendo 20 tumoli per ogni 16 che riceve.

Se invece sul maggese si mettono le fave, i patti sono di due specie. Nella prima che è la meno vantaggiosa pel contadino, il padrone anticipa la semenza delle fave, che ripiglierà al tempo del raccolto coll’addito, o frutto, di quattro tumoli per ogni salma (16 tumoli) che ha dato. Di più fornisce talvolta un po’ di concime, che non è generalmente che un po’ della terra del luogo dove pernottano gli armenti. Il contadino mette tutto il lavoro e le spese di seminagione, di sarchiatura (zappugliatura), e di raccolta, fino alla consegna del genere sull’aia. Là, detratta come si è detto la semenza, il resto si divide a metà; oppure il contadino prende tutto quanto il raccolto, ma restando in debito per la semenza e per la metà padronale, debito che pagherà poi all’anno seguente in tanto frumento. Altre volte il padrone perde tutto o parte della semenza, oppure la riprende senza l’addito.

Secondo l’altra forma di contratto, che si usa per le terre più stanche, più distanti e meno buone, tutto quanto il raccolto va al contadino colla sola deduzione della semenza coll’addito; ma in questo caso per lo più i patti per la divisione del frumento dell’anno seguente sono alquanto aggravati. — Questi contratti si fanno però talvolta anche per il solo anno della favata.

La maggiore o minore gravezza dei patti per le favate, come per le metaterìe del grano, come pure pei terratici, oltrechè dalla natura del suolo, dalla stanchezza del terreno su cui siano stati fatti senza intervallo più raccolti di grano, e dalla sua distanza dall’abitato, dipende più che tutto dalla concorrenza fra i contadini in cerca di lavoro.

 

Patti pel frumento.

Passiamo ora al primo anno della coltura del frumento. Se il padrone lavorò il maggese precedente per proprio conto, la divisione del raccolto si fa con uno dei due sistemi seguenti, che si ritrovano usati ambedue negli stessi luoghi.

1° Il padrone dà la semenza senza riprenderla sul raccolto. Il contadino fa l’aratura e tutti i lavori di seminagione, prendendo l’aratro in affitto, se non l’ha in proprio, oppure unendosi ad un altro compagno, se egli non possiede che un solo mulo; fa tutti i lavori di sarchiatura del grano, tutte le spese della raccolta, del trasporto sull’aia, e della trebbiatura che in tutta Sicilia si fa o colle cavalle, o più spesso coi muli. Per il trasporto all’aia il padrone è tenuto talvolta a prestare i bovi; altre volte egli prende dal contadino un tanto fisso, generalmente un tumolo di grano([229]) per salma di terra([230]), a titolo di trasporto. Il raccolto si divide sull’aia in quattro parti, di cui tre vanno al padrone e una al contadino. Così a Corleone, a Santa Margherita, a Bivona, a Valledolmo, ecc. Più spesso la divisione è di tre parti, di cui una al borgese e due al padrone, riprendendosi questi per di più, ora sì e ora no, la semenza prestata. Il contadino deve sulla sua parte pagare a titolo di guardia, un tumolo di grano per salma di terra.

2° Il padrone anticipa la semenza. Il contadino fa tutti i lavori e le spese dette sopra. Il raccolto si divide a metà, ma il contadino deve per di più al padrone sulla propria metà:

a) La semenza, ch’egli deve restituire nella quantità ricevuta, più l’addito di quattro tumoli per salma, ossia del 25% per circa 7 mesi: — talvolta l’addito non è che di due tumoli, ma è caso alquanto raro. Di questi additi parleremo più giù a proposito dei soccorsi;

b) Un terriggiuolo o antiparte, che varia molto nel suo importare, ma sta per lo più tra una e due salme([231]) di grano, per salma([232]) di terra;

c) Il diritto di guardia, che varia da mezzo a due tumoli, ma ordinariamente è di un tumolo di grano per salma di terra. — A Santa Margherita, a Bivona, ecc., il diritto di guardia spesso non viene misurato a tanto per salma di terra, ma invece è di un tumolo per aia, ossia per ogni metatiere, qualunque sia l’estensione della terra che coltiva.

Di più secondo i casi, i luoghi, i terreni e i proprietari si toglie dalla parte del contadino — il

diritto di messa; ordinariamente un tumolo per salma di terra. Questo diritto vien tassato nei luoghi lontani dalla città, per pagare il prete che dice la messa: però è spesso una sorgente di guadagno per i padroni, i quali pagheranno 10 al prete e prenderanno 100 ai contadini. Si ritrova questo diritto specialmente in montagna;

diritto di estimo o di stimatina, di cui non sapremmo bene dare la spiegazione; e che per lo più non si prende che nel solo primo anno in cui si coltiva frumento. È di circa un tumolo per salma di terra;

diritto di sfrido per la perdita che subirà nella vagliatura il grano restituito per la semenza: è di circa 3/4 di tumolo per salma di terra;

restituzione della tassa di ricchezza mobile colonica stata anticipata per legge dal padrone;

diritto di cuccìa o del maccherone, che vien dato dal contadino al campiere a titolo di dono. — I padroni dicono che essi non ci hanno che vedere, e che il contadino può dare quel che vuole, ma nel fatto accadono molti abusi e i padroni non se ne incaricano. Si ritiene ordinariamente come giusto il dare un mezzo tumolo per salma di terra;

diritto del galletto, ed altri minuti diritti e angherie([233]).

L’una o l’altra delle suddette due forme di contratto riesce più o meno vantaggiosa al padrone o al contadino, secondo il maggiore o minore prodotto che si ottenga da una salma di terra. Se il prodotto è molto ricco, converrà più al padrone la prima forma di divisione a 3/4 e 1/4, o anche a 2/3 e 1/3, siavi o no prelevazione della semenza, mentre quando il prodotto per salma di terra è meschino, riesce più grave al contadino la seconda forma, quella cioè della divisione a metà, più la restituzione della divisione della semenza coll’addito, e il pagamento del terriggiuolo fisso; — e ciò evidentemente perchè essendo il terriggiuolo una quantità fissa, come pure la restituzione della semenza coll’addito, esse superano nelle cattive annate la differenza che può correre tra la metà e i due terzi o anche i tre quarti del raccolto.

Si noti inoltre, che per lo più il contadino in Sicilia non sparge sul suolo tutto quanto il seme che riceve dal padrone, ma ne destina una parte al proprio sostentamento: di una salma e mezzo di frumento che riceverà per sementare una salma di terra, ne seminerà veramente una salma, e gli altri 8 tumoli anderanno per consumo della famiglia. Con ciò il contadino diminuisce il prodotto per salma di terra, onde per lui viene facilmente a riescire più pesante la seconda delle dette forme di divisione, la quale pure è la più comunemente usata.

Se poi il maggese vuoto dell’anno precedente fu lavorato dal contadino o per conto di lui, si segue generalmente il secondo dei due sistemi riferiti, e la minor durezza nei patti per l’anno del frumento consiste per lo più nella soppressione totale o parziale del terriggiuolo, oppure nella ripresa della semenza sulla massa del raccolto e prima della divisione, invece che sulla parte del contadino.

Nel secondo e nel terzo anno in cui si coltivino i cereali nello stesso campo, i patti sono naturalmente alquanto meno duri per il contadino, e in generale si divide a metà con qualche imposizione di meno sulla metà colonica, che non nel primo anno del frumento. Però quando il contratto di metaterìa o di terratico comprende due o tre anni di coltura di cereali, i patti sono per lo più uniformi per tutto il tempo che dura il contratto. Se invece il contratto è annuo, è sovrattutto la maggiore o minore concorrenza dei contadini fra loro, che determina anno per anno la gravezza dei patti.

I patti naturalmente sono più gravosi per le terre che distano meno dall’abitato; onde se, per esempio, per la terra a 12 chilometri dall’abitato, troveremo che il padrone rinunzia a riprendere la metà della semenza, a 8 chilometri invece la riprenderà tale e quale la dètte, e a 4 chilometri vorrà per di più quattro tumoli di addito per salma. Le ragioni principali per cui coll’approssimarsi alla città diventano più gravi i patti pel metatiere sono le seguenti: — Essendo minore la distanza da percorrere per andare e tornare all’abitato, viene ad essere più lunga la giornata di lavoro tanto del metatiere stesso, come dei giornalieri ch’egli impieghi, senza che perciò egli debba pagar loro di più. Avendo la terra presso la città, il metatiere può lavorare anche le mezze giornate sul suo fondo, come pure lavorare egli stesso e impiegare altri nelle giornate di stagione incerta. Può inoltre nell’impiegare giornalieri, approfittare dei momenti in cui siano più bassi i salari nel mercato, le cui oscillazioni può meglio seguire da vicino; e infine ha maggiori facilità di ottenere del concime.

Avverto che quando vien parlato di contratto fra padrone e contadino, non si deve intendere con ciò che vi sia contratto scritto tra gabellotto e contadino. I contratti scritti non si fanno in generale che fra proprietario e gabellotto; il resto è tutto verbale; il gabellotto noterà soltanto sui suoi registri i patti che fa coi singoli contadini. In alcuni luoghi però, e specialmente della costa meridionale, si usa fare un solo contratto scritto per tutti quanti i metatieri o terratichieri, e ad ognuno di essi viene imposta una piccola quota per le spese dell’atto.

La scelta dei borgesi, la repartizione della terra fra di essi, e lo stabilimento dei patti e degli oneri che spettano a ciascuno, si fanno per mezzo di uno di loro, detto l’inviatore([234]), il quale, prese le istruzioni dal soprastante o dal primo campiere, assegna ad ogni metatiere il suo appezzamento, fissandogli i patti. Egli ha il privilegio di potersi scegliere il proprio appezzamento, che coltiva però agli stessi patti degli altri, e riceve inoltre qualche regalo alla repartizione del prodotto.

 

 

§ 11. — Le retrometatere.

Nella piana di Catania, e in alcuni luoghi del Siracusano, come Lentini, Chiaramonte, Buccheri, ecc., troviamo un’altra forma di contratto colonico, che nel Catanese vien chiamata retrometaterìa, verso Lentini contratto a governo, e verso Chiaramonte a masserìa.

La terra vien consegnata al contadino già seminata, e a grano spuntato. Il contadino s’incarica di tutti i lavori fino alla consegna sull’aia. Quindi il padrone si riprende la semenza coll’addito di quattro tumoli a salma (20 per 16), e il resto si divide in quattro parti, di cui tre al padrone ed una al contadino. A Chiaramonte la divisione del raccolto sarebbe più favorevole al contadino, il quale avrebbe un terzo, e due terzi il padrone. Le retrometaterìe nella piana di Catania sono talvolta subconcessioni fatte dal metatiere che ha animali propri, e il quale dopo seminato un appezzamento lo concede, col consenso del gabellotto, a retrometaterìa ad un altro villano il quale non dispone che delle proprie braccia.

Vi si fanno pure le retrometaterìe della tumilìa o grano marzuolo, e del cotone.

Il retrometatiere è sempre un bracciante, che non possiede alcun animale.

 

 

§ 12. — Estensione dei poderi.

Varia molto, secondo i luoghi, l’estensione che si dà a coltivare ad ogni terratichiere o metatiere, e che costituisce un’aia. Ad un uomo che non abbia che una zappa e le proprie braccia si concederà da 40 are a 1 ettaro di terra. A chi abbia due muli si daranno da 4 ad 8 ettari di terra. Il contadino che ha un solo mulo si associa con un altro come lui, oppure essi si prestano a vicenda il mulo per compiere i lavori. Il terratichiere e il metatiere possiedono generalmente almeno un asino o un mulo; quasi mai un bove o una vacca, fuorchè talvolta nella piana di Catania, o in qualche località ristrettissima e dove il fondo coltivato sia nelle vicinanze alberate della città.

Come già dicemmo, il contratto di metaterìa va sostituendosi in molti luoghi al terratico: questo predomina ancora nel Messinese; e invece è più comune la metaterìa nelle provincie di Trapani, Palermo, Girgenti e Caltanissetta.

 

Piccolo fitto in denaro.

Torneremo più sotto a parlare della condizione economica e sociale dei metatieri e de’ terratichieri, dovendo ora, per meglio completare il quadro dell’amministrazione dei latifondi in Sicilia, dar qualche cenno intorno alla classe degl’impiegati del feudo, che vengono direttamente stipendiati dal gabellotto. Ma prima di lasciare l’argomento dei contratti colonici, dobbiamo avvertire che in alcuni luoghi, come nei territori di Trapani, Salemi, Leonforte, Piazza ed altri, si riscontri talvolta anche nell’aperta campagna e lontano dall’abitato, il sistema di affittare ai contadini la terra in piccoli appezzamenti contro canone in denaro, per tre, quattro o sei anni. È questa però l’eccezione, e ci riserviamo di riparlare del fitto in denaro ai contadini, quando tratteremo dei fondi, cioè delle proprietà medie e piccole nelle vicinanze delle città; — la sola differenza essendo che mentre nei feudi e latifondi il fitto al contadino è quasi senza eccezione un subaffitto fatto dal gabellotto del feudo, pei fondi invece presso le città è per lo più un fitto che il contadino prende direttamente dal proprietario.

 

 

§ 13. — Impiegati dei feudi.

Gl’impiegati principali in un latifondo o exfeudo siciliano sono i seguenti: Prima di tutto il soprastante, che è un direttore o sorvegliante di tutta l’azienda, e fa le veci del padrone quando questi sia assente. Quindi il primo campiere, o capo dei campieri, il quale è responsabile della custodia dei magazzini, ed ha pure uffici di direzione generale del feudo. Sotto di lui i campieri; questi sono propriamente i guardiani del latifondo, ma sono pure incaricati della sorveglianza di qualunque lavoro speciale che venga eseguito sia dai bifolchi, dai giornalieri o dai borgesi, come pure dell’alta sorveglianza del bestiame, e in genere di curare l’esecuzione di qualunque ordine padronale. Questi campieri vanno sempre armati di fucile, e girano la tenuta a cavallo. Il Cattani([235]) osserva con ragione che la scelta dei campieri è quella che meglio denota l’indole del padrone e del soprastante. Sono due i tipi di campieri in Sicilia; il primo è quello dell’uomo violento, risoluto, dall’aspetto minaccioso e poco rassicurante, il quale probabilmente non è in perfetta regola nei suoi conti colla giustizia: il secondo più docile e laborioso, dall’aspetto più contadinesco, e che ha mansioni più strettamente agricole.

Quindi, per seguire l’ordine del Cattani, da cui specialmente togliamo queste notizie sul personale dell’amministrazione di un latifondo, vengono: il magazziniere; il panettiere, che è incaricato dell’importante ufficio di fare il pane per la fattoria; il garzone, che cura la pulizia delle stalle e delle corti; il palafreniere incaricato della stalla padronale; i bordonari, ossia i mulattieri: — ogni bordonaro conduce una retina, ossia 7 muli: per intendere l’importanza dei bordonari, bisogna tenere a mente che colla deficienza ancora così universale, di strade provinciali e comunali in Sicilia, tutto si trasporta ancora a dorso di mulo; — il curatolo degli aratri, che costruisce e ripara gli aratri, e sorveglia e dirige i bifolchi nell’aratura dei campi; il bovaro, che, aiutato da un garzone, è incaricato della cura dei buoi da lavoro; e finalmente i bifolchi, i quali non fanno veramente parte del personale di fattoria, ma sono giornalieri che vengono impiegati per lo più dall’ottobre a tutto maggio per i lavori di aratura, e cambiano di volta in volta, e spesso anche a mezzo anno, da un latifondo a un altro. Per lo più si concede anche a loro, come del resto a tutti gli altri impiegati della fattoria, qualche piccolo appezzamento da seminarsi a fave coi soliti patti, e ciò per avere una garanzia che non se ne vadano prima della fine dei lavori del maggese. È questa dei bifolchi però, ci dice il Cattani, la classe la più abietta dei contadini siciliani. Tutti gl’impiegati della fattoria hanno il diritto all’uso degli aratri padronali per la semina del loro appezzamento da coltivarsi a fave.

Il Cattani ci dà la seguente tavola delle mercedi di tutti gl’impiegati che ho nominati; ma egli parla di una azienda grandissima e che comprenda molti latifondi, e le cifre dei salari sono forse un poco più alte di quel che comunemente si usa dare in una fattoria ordinaria. Per il Mistrettese il Salamone ci dà cifre alquanto inferiori. —

 

Qualità del personale dei feudi

Salario

annuale

Pastura

annuale di giumente

Pane

giornaliero di due rotoli

Vino

giornaliero

Cacio

mensile

Ricotta

mensile

L.

C.

Num.

Num.

Lit.

C.

K.

G.

C.

K.

G.

C.

Il soprastante

459

2

1

1

7

2

3

8

Il primo campiere

229

50

2

1

1

7

2

3

8

Il campiere di mestiere

153

2

1

9

1

5

9

Il bestiamaio campiere

153

1

1

1

5

9

Il magazziniere

306

2

a discrezione

a discrezione

a discrezione

Il panettiere

153

id.

id.

id.

Il garzone di case

114

75

1

9

1

5

9

Il palafreniere

153

1

9

1

5

9

Il bordonaro

191

25

1

1

7

2

3

8

Il curatolo degli aratri

191

25

2

1

1

7

1

1

9

1

1

9

Il bovaro

153

1

1

1

3

1

5

9

Il garzone bovaro

63

75

1

4

7

9

Il bifolco: per 8 mesi da ottobre a tutto maggio

102

1

9

1

5

9

1 rotolo: chilogr. 0,792

 

Nelle fattorie minori si cumulano naturalmente alcuni tra gli uffici rammentati.

Oltre questi impiegati, vi sono quelli addetti alla pastorizia, cioè alle mandre, e sono: il curatolo delle vacche, o capo vaccaro; i vaccari; il curatolo delle pecore; i pecorai, e se vi sono greggi di sole capre, pure i caprai. Di più i garzoni, o ragazzetti addetti alle vacche, alle pecore, o alle capre.

Ad Alia, provincia di Palermo, trovammo per questi uffici i salari seguenti: Per i vaccari i salari indicati nella tavola del Cattani per i bovari, meno il vino giornaliero, ma con 6 rotoli mensili di ricotta invece di due. Per il curatolo delle pecore, salario di L. 127.50, mantenimento di una giumenta oppure L. 25.50 di più all’anno, un pane giornaliero di due rotoli, e 4 rotoli mensili di ricotta; e per i pecorai un salario di L. 76.50, e il resto come al curatolo([236]). Il capopecoraio e i pecorai hanno pure diritto al mantenimento di 50 pecore di loro proprietà nella mandra padronale, contro il pagamento di una fida di 1 lira per capo di animale adulto, e coi patti di cui parlammo a proposito delle mandre pel frutto([237]). Anche pel magazziniere di una fattoria si cerca in generale che sia prezzamaro di pecore nella mandra padronale, e ciò per avere una garanzia della sua buona gestione. Spesso la metà soltanto di una mandra è di proprietà del gabellotto, e il resto dei diversi prezzamari.

 

 

§ 14. — Piana di Catania.

La specialità delle condizioni fisiche e quindi delle colture delle due maggiori pianure della Sicilia, della piana cioè di Catania e di quella di Terranova, porta con sè alcune diversità nei contratti agricoli, delle quali sarà bene dir qui qualche parola.

Triste dote della vasta e ferace pianura di Catania, è quella di essere il luogo dove in Sicilia maggiormente predomina la malaria e fanno strage le febbri intermittenti e le perniciose. In tutta l’Isola troviamo pur troppo nel basso delle valli questa terribile piaga della malaria durante tre a quattro mesi dell’anno: e ciò si deve attribuire specialmente alla pochissima cura con cui sono regolati il corso e gli scoli delle acque, che dappertutto ristagnano in piccole fosse; e all’uso generale di farvi macerare il lino, che serve ai contadini più che per commercio, per farne la tela di cui si vestono. Con una migliore condotta delle acque nei fondi particolari, e con maggiore sorveglianza e qualche opera nei torrenti montani, e nei corsi d’acqua che scorrono nel fondo delle valli, si potrebbe molto probabilmente togliere la malaria dalla maggior parte della Sicilia, purchè si vieti allo stesso tempo con savi regolamenti sanitari la macerazione attuale del lino e della canapa durante alcuni mesi dell’anno. Nella piana però di Catania, e in grado minore anche in quella di Terranova, occorrerebbero opere di maggiore importanza, trattandosi là di corsi d’acqua assai ragguardevoli e di vasti terreni con leggerissimo declivio, una buona parte dei quali irrigui, ed altri impaludati.

L’immensa estensione della piana di Catania è assolutamente disabitata, all’infuori del piccolo e misero villaggio di Catenanuova. Soltanto nelle epoche dei grandi lavori campestri di aratura, di seminagione, e specialmente di raccolta e di trebbiatura, vi immigrano lavoranti dal Siracusano, e più ancora dalle montagne del Messinese. Questi infelici lavorano tutto il giorno sotto la sferza di un sole cocente, e la notte dormono all’aperto, senza riparo di sorta, in mezzo ai miasmi micidiali: parecchi ne muoiono lì per lì, e moltissimi riportano a casa i germi di lunga malattia che li renderà inabili al lavoro e li trascinerà sicuramente alla tomba. E ciò per guadagnarsi per una o due settimane poche lire di più di salario! Il salario medio di tutto l’anno nella piana varia tra una lira e 1.25 alla scarsa; in tempo di mèsse è ordinariamente di L. 0.85, più vitto e vino, equivalente in tutto a circa L. 2.50; spesso però circa 3 lire, ed eccezionalmente fino a 5 e più.

Una considerevole estensione della piana è stata resa irrigabile coll’incanalamento delle acque del Simeto; ma sia a causa della impermeabilità del sottosuolo, sia per la poca cura e la pochissima intelligenza con cui nei fondi particolari vien diretta la condotta delle acque, l’irrigazione non ha migliorato di molto la produzione agricola, ed in molti luoghi ha soltanto peggiorate le condizioni igieniche. Le colture principali della piana di Catania sono, oltre il frumento, il cotone e il riso; vi si coltivano pure qua e là l’arbusto della liquorizia e il riscolo (salsola o spinedda), pianticella annua da cui colla combustione si estrae la soda.

Tutta la piana è divisa a latifondi o exfeudi, che si affittano ai ricchi gabellotti. Questi, come già abbiamo veduto, subconcedono ai contadini, a metaterìa o retrometaterìa, la terra da coltivarsi a cereali o a baccelline. Si concede a metaterìa ai villani che abbiano qualche animale, ma è il numero minore. Vi è qui qualche metatiere che possiede bovi. Al retrometatiere si daranno a coltivare due ettari circa di terra. La retrometaterìa si applica pure alla coltura del cotone, che vien praticata sul maggese come calorìa, e dopo l’anno di pascolo.

Il personale d’amministrazione dei feudi nella piana, abita, ad eccezione di qualche guardiano, tutto l’anno nelle città e a distanza dalle terre.

 

Risaie.

Per il riso i contratti agricoli in Sicilia non hanno alcuna attinenza colle zappe, o contratti di partecipazione, della bassa Lombardia. Il proprietario o il gabellotto contratta sia con un risaio, intraprenditore che pensa a coltivare coi giornalieri, sia talvolta anche direttamente con società di contadini. Il coltivatore o respettivamente i coltivatori debbono mettere il seme e tutto il lavoro, fino alla consegna sull’aia. Il prodotto vien diviso a terzi di cui due al proprietario, e uno a chi coltivò; oppure anche a quarti, di cui tre al proprietario, se si tratta di terra superiore o su cui ancora non si sia coltivato il riso. Del resto per la mancanza di concimi non si coltiva il riso che un anno sopra sei, o sopra sette. Dove la proprietà dell’acqua per l’irrigazione non sia annessa a quella del fondo, si patteggia in alcuni luoghi, come sotto Lentini, che un terzo del prodotto vada a compenso del proprietario dell’acqua. Il salario dei lavoranti nelle risaie non supera in tutto L. 1.25 a L. 1.30. Non vi sono macchine per la trebbiatura del riso. La pilatura non si fa che nei molini di Acireale.

Essendo entrati in questo tèma, noteremo qui che il riso si coltiva pure in Sicilia presso Ribera nel circondario di Bivona, e col solito accompagnamento della malaria, che fa strage perfino nella città. Là tutto si fa direttamente dai gabellotti o dai proprietari col mezzo di salariati all’anno, o alla giornata. Le risaie vi sono stabili e irrigate dall’acqua del fiume Verdura.

La mondatura del riso dalle erbe selvatiche si fa dalle donne e dai ragazzi; questi guadagneranno da L. 0.60 a L. 0.80 al giorno; guadagno che non parrà grandissimo a chi pensi esser quello uno dei lavori più duri che si conoscano, dovendo la donna o il ragazzo lavorare chinati da mane a sera, e coi piedi nell’acqua, sotto la sferza del sole di giugno.

 

Immigrazione di Calabresi.

Vi è ogni anno dall’ottobre al dicembre una immigrazione di Calabresi nella piana di Catania. Essi fanno tutti i lavori di terra, specialmente pei terreni sott’acqua e nei canneti, gli espurghi delle fosse, e i lavori di regolamento delle acque. I Calabresi si mostrano molto abili in questo genere di lavori, e vengono a ciò impiegati dall’ottobre al dicembre in tutta la Sicilia. Nella piana lavorano a cottimo, ossia a fattura, e con un lavoro durissimo guadagnano circa L. 1.50 al giorno. Si contrae con loro a brigate, che per lo più sono costituite dalle varie persone di una stessa famiglia. Sono buona gente, lavoratrice ed economa, e fanno risparmi sui loro salari per riportarli alle loro famiglie rimaste in Calabria.

 

 

§ 15. — Piana di Terranova.

La pianura di Terranova è stata resa irrigua dalla diga che vi fece costruire a tutte sue spese verso la fine del secolo scorso il principe di Monteleone, proprietario di quasi tutto quel territorio. Quella immensa proprietà appartiene ora ai due fratelli principe di Monteleone e duca di Terranova. Anche il Comune di Terranova vi ha un latifondo estesissimo.

Quei latifondi vengono affittati a pochi ricchi gabellotti, i quali poi subaffittano il terreno diviso in tante particelle a piccoli affittuari, che direttamente lo coltivano. Anche l’acqua d’irrigazione è tutta affittata a uno solo, il quale la subaffitta ai coltivatori, secondo la necessità di ogni podere. Il subgabellotto è per lo più un contadino, che possiede qualche mulo: chi non ha animali, e non può anche prestare qualche garanzia, non può sperare di ottenere un podere in affitto. Le colture sono il frumento alternato col cotone; questo si semina a maggio per esser raccolto a ottobre e novembre, e la coltivazione ne è molto dispendiosa, richiedendosi forti spese per l’acqua, per i lavori d’irrigazione, che vengono tutti eseguiti da’ Calabresi, per le molte arature necessarie, e per la mano d’opera. I giornalieri, che vi sono numerosissimi, guadagneranno in media L. 1.50 al giorno, e al tempo dei raccolti L. 3 a 3.50, più il vino e qualche companatico. Un subgabellotto che abbia quattro o sei muli coltiverà da 20 a 25 ettari di terra; chi ne abbia uno solo non può coltivare più di un ettaro circa. Questi subgabellotti minori vanno pure a lavorare come giornalieri presso gli altri.

I grandi rincari nei prezzi del cotone durante la guerra civile d’America, migliorarono molto le condizioni della piana di Terranova, e vi fu qualche contadino che si trovò a un tratto possessore di un discreto capitale. Quando però successero i ribassi del cotone, le condizioni economiche dei contadini si fecero più difficili, e i prezzi altissimi a cui erano saliti gli affitti dei terreni non poterono mantenersi: ora la coltura del cotone tende a diminuire.

Avvicinandosi a Terranova dalla parte del Nord si trova di tanto in tanto e a qualche miglio dalla città qualche casa rurale, situata in mezzo a un piccolo giardino d’agrumi e di alberi fruttiferi. Sono le abitazioni di villani che affittano quegli orti oltre poca terra arativa all’intorno, quanta possa bastare per produrre il frumento necessario pel consumo della famiglia. L’aspetto di queste piccole aziende rurali è sorridente, e desta un’impressione di piacere in chi provenendo dall’interno dell’Isola ha l’animo rattristato dalla vista di quelle immense estensioni di campagna, prive affatto di ogni abitazione.

E noi pure seguitando il nostro studio, ci avvicineremo ora alle città, nelle cui immediate vicinanze abbiamo già visto essere molto diverse le condizioni agricole.

 

 

§ 16. — Terreni prossimi alle città.

Qui si lasciano i latifondi e si entra nella zona della proprietà media e piccola, meglio coltivata, e in buona parte, e secondo i luoghi, piantata a olivi, mandorli, viti, aranci, limoni, fichi d’India, nocciuoli, peri, fichi, pistacchi, sommacchi, ecc. — L’origine storica di queste proprietà più piccole varia da luogo a luogo. Qua sono antiche proprietà allodiali scampate lungo il corso dei secoli, dalle usurpazioni dei baroni, dello Stato, o della chiesa; là invece sono censi di terre baronali, concessi dai feudatari per attirare gente sul suolo sottoposto alla loro giurisdizione, e ciò per accrescere col numero dei loro sudditi la loro potenza, e il provento delle imposte dirette e indirette che percepivano.

 

Censi.

Questi censi sono stati in parte affrancati; ma generalmente non lo sono ancora, perchè i capitali si sono più volentieri impiegati all’acquisto di nuove proprietà dell’asse ecclesiastico o demaniali, anzichè all’affrancazione delle vecchie. La maggior parte di questi censi è posseduta da gente civile, proprietari o professionisti; ma in molti luoghi della Sicilia troviamo tuttora molte terre sottoposte a censo, che suddivise e sminuzzate, per successioni o per vendite, in piccoli appezzamenti di circa 5 a 20 are, sono possedute da contadini e braccianti, e costituiscono per numerose famiglie di questa classe un prezioso peculio, che fornisce loro lavoro quando ne manca in piazza, e qualche prodotto da aggiungere agl’incerti guadagni giornalieri: un tale appezzamento serve inoltre per il contadino come una cauzione o garanzia ch’egli possa esibire per ottenere in affitto qualche altro terreno maggiore.

Le proprietà medie e piccole che si ritrovano presso le città si chiamano comunemente in Sicilia fondi, in contrapposizione ai feudi o ex-feudi, di cui ci siamo occupati finora; ed è in questo senso che noi adopereremo la parola fondo.

 

I fondi.

I fondi si possono suddividere secondo le colture che vi si praticano, in terreni a seminerio (seminativi), cioè coltivati a cereali e privi di alberi o arbusti, e in terreni alberati. I primi si trovano talvolta designati tecnicamente come chiuse, e i secondi come luoghi; ma queste parole si adoperano diversamente in siti diversi, e per evitare confusione non ce ne serviremo, bastandoci le espressioni di fondi seminativi e fondi alberati. I primi formano spesso, com’è facile il presupporre, la zona di transizione tra i latifondi, e i terreni alberati che stringono più da vicino la città o borgata; onde uscendo da questa si cammina generalmente per un certo tratto in mezzo alle colture alberate, a cui succedono i campi seminativi divisi a proprietà piccole e medie, e in ultimo si entra nelle sterminate solitudini dei latifondi colle loro immense estensioni a grano, a pascolo, o a maggese. Tutte queste distinzioni però non debbono naturalmente essere accolte dal lettore come rigorosamente esatte, e spesso si troveranno intercalati i terreni alberati coi fondi seminativi.

 

I fondi seminativi.

La coltura del fondo seminativo è in qualche modo più intensiva che quella del latifondo, e, ad eccezione del Siracusano dove s’alternano anche nei piccoli fondi i cereali col pascolo naturale con rotazione biennale, generalmente vi si esclude l’anno del pascolo, e si avvicendano le fave sul maggese, col grano e coll’orzo: nel Trapanese si mette il lino sul maggese in luogo delle fave, e altrove il grano marzuolo o tumilìa; oppure la tumilìa si sostituisce all’orzo. La maggiore facilità di ottenere il concime esclude qui i maggesi di sole. Non si creda però che almeno qui si sappiano tenere in debito conto i concimi.

 

I concimi.

È un fatto deplorevole per l’agricoltura siciliana quel grande sperpero che si fa del concime. Accosto alle città si vedono sul pendìo di qualche collina tanti piccoli scompartimenti divisi da un orlo di terra, in ciascuno dei quali ogni contadino ripone tutto il concime che possiede. Tutti gli scoli vanno interamente perduti; in alcuni luoghi poi si arriva al punto di dar fuoco in estate a tutti questi depositi per evitarne gli effluvi malsani. Qua e là si comincia, è vero, ad apprezzare un poco più il valore di quest’indispensabile elemento di ogni agricoltura razionale; ma l’assoluta mancanza di stalle nei feudi e nelle masserìe, e l’ignoranza e l’accidia generale, non ci dan luogo a sperare che si cessi per molto tempo ancora dal deplorevole sistema di sfruttare il suolo, col togliergli continuamente tutte quelle sostanze minerali che il solo maggese e l’azione atmosferica non bastano a restituire. Finchè non si arrivi in Sicilia ad adoperare più razionalmente e in quantità maggiori i concimi sia naturali, sia artificiali, non si può quasi considerare che come una benedizione del cielo e come una provvidenza per le generazioni avvenire, l’uso attuale di quell’aratro primitivo che non smuove che una leggerissima crosta del suolo arabile.

 

 

§ 17. — Contratti nei fondi seminativi.

Nei fondi seminativi([238]) troviamo quasi tutte le varietà esistenti di contratti agricoli e di sistemi di conduzione. Il piccolo censuario contadino lavora il suo tumolo (are 10.91) di terra colle proprie braccia, nei momenti in cui non trova da locare ad altri la sua opera; il proprietario o censuario di condizione civile ora coltiva i suoi campi a economia, coll’opera di giornalieri, ora li concede a metaterìa, ora li affitta ai villani a piccoli appezzamenti per tre o quattro anni contro canone in denaro. Sulla coltivazione del proprietario colle proprie braccia o coll’opera di giornalieri, non abbiamo qui nulla da osservare.

 

Metaterìe dei fondi seminativi.

I termini del contratto di metaterìa dei fondi seminativi non variano sostanzialmente da quelli che abbiamo ritrovati nelle metaterìe dei feudi, e la condizione economica dei contadini è la stessa. Vi è forse generalmente una maggiore semplicità nella forma dei patti, benchè la loro gravità sia eguale: essi consistono nella divisione a metà, con un’antiparte o terriggiuolo da pagarsi dal contadino sulla sua quota, più sì o no il diritto di guardia; con varietà inoltre di accordi, secondo i luoghi e i terreni, quanto alla restituzione della semenza, sia che si tolga dalla massa prima della divisione, sia invece dalla parte colonica a divisione fatta, sempre però coll’addito di quattro tumoli per salma. Il villano gode soltanto del vantaggio di poter albergare la notte nella sua casa in città nelle epoche in cui lavora nel suo campo. Egli è pure costretto in generale a locare la sua opera come giornaliere, per una parte dell’anno.

Vi sono però tra le due metaterìe alcune diversità non piccole, e che importa qui di notare. E primo, nei fondi, a differenza dei feudi, non ritroviamo che raramente i gabellotti, e mai i due o tre ordini di subaffittuari; onde il contadino è quasi sempre in relazione diretta col proprietario o coi suoi mandatari. La diversità inoltre dei sistemi di coltura nei feudi e nei fondi, tira dietro a sè una importante differenza di fatto nel carattere economico e sociale delle due metaterìe. Mentre nel feudo il metatiere non ha alcun legame col suolo che coltiva, e muta di anno in anno di campo, e per lo più anche di padrone, nelle metaterìe dei fondi ciò accade meno, non essendovi nè l’anno di maggese, nè l’anno di pascolo naturale; onde in queste si riscontra una maggiore continuità nelle relazioni tra proprietario e contadino, ed è reso possibile il fatto che un contadino o una stessa famiglia di contadini, lavori per molti anni di seguito, o anche per generazioni sugli stessi appezzamenti di terra. Non diciamo che questo accada sempre: anzi, per quanto abbiamo potuto vedere, sarebbe un caso assai raro; ma per noi è già cosa importante che il fatto sia possibile, e qualche volta si verifichi. Per questi due caratteri di fatto la metaterìa del fondo seminativo si avvicina più al contratto di mezzadrìa come è conosciuto sul Continente, e del quale si trova forse il tipo più perfetto nella mezzerìa del Val d’Arno.

 

 

§ 18. — Mezzadrìe presso le Petralìe.

Negl’immediati dintorni delle due Petralìe, e presso le borgate rurali, che, cosa rara in Sicilia, si trovano nel territorio di quei Comuni, si pratica una forma di metaterìa che ha strettissime attinenze colla mezzadrìa toscana. Vi troviamo le colture legnose intercalate colla granicoltura, come pure in mezzo ai campi qualche casa rurale, che serve di abitazione ai mezzadri: questi perdurano molti anni sullo stesso podere, cogli stessi patti; e il prof. Giulio Carapezza, alla cui cortesia andiamo debitori delle notizie intorno a questa forma ristretta ed eccezionale di mezzadrìa, ci assicura che ciò succede non di rado anche per più generazioni di seguito.

Vi si dividono i prodotti dei campi a metà, e lo stesso mezzadro del campo partecipa egualmente nel raccolto delle vigne, e qualche volta pure di altre piante arboree. Però quando i vigneti sono giovani o per le condizioni del terreno molto produttivi, il contadino riceve un solo terzo del raccolto.

In alcuni di questi fondi si alleva bestiame bovino, e in qualche raro caso anche il pecorino. Nel primo caso il proprietario compra l’animale in conto sociale, e a metà profitti e perdite; soltanto viene ascritta a debito al colono una somma alquanto superiore alla metà del prezzo di compra, somma sulla quale non correrebbero frutti, e che il proprietario si riprende alla prima vendita di animali sociali. L’intiero mantenimento della bestia spetta al mezzadro, il quale inoltre nell’agosto di ogni anno paga al proprietario 20 tarì (L. 8.50) per ogni vacca da lavoro, e un’onza (L. 12.75) per ogni giovenco che s’aggioghi per la prima volta, e due onze per ogni bove da lavoro: ma è raro il caso che si tengano giovenchi o bovi. I latticinii si dividono a metà. — Per le pecore invece il mezzadro, che non ne abbia in proprio, prende a censo, ossia in affitto, una parte del gregge del proprietario, pagandogli 3 tarì (L. 1.27) per ogni pecora; dovrà soltanto restituire un numero eguale di animali allo scioglimento della società, la quale è una vera mandra per le spese([239]) in cui le spese e i prodotti vengono divisi tra i soci pro rata del numero di animali posseduti da ciascuno. I mezzadri posseggono in generale un maiale e qualche gallina.

In queste colonìe ritroveremmo dunque alcuni tra i principali caratteri della mezzadrìa toscana, cioè abitazione del colono sul fondo, continuità di durata del contratto colla stessa famiglia colonica, varietà di colture nello stesso podere, e — in grado però alquanto minore — uniformità dei patti per le varie colture, loro stabilità per l’impero della consuetudine, e allevamento di bestiame bovino in conto sociale tra il mezzadro ed il proprietario.

È questo il solo esempio di qualche importanza che ci sia stato dato di ritrovare di tale forma di mezzadrìa in tutta la zona di cui discorriamo. La condizione di quei mezzadri delle Petralìe è abbastanza prospera, se si paragona a quella degli altri metatieri dei feudi, e dei giornalieri. Se non lo è di più si deve ascrivere alla funesta smania che hanno quei contadini di prendere moglie ancora giovanissimi, e di sciogliere subito le società famigliari — e questo è un guaio che comincia a mostrarsi anche in Toscana — e inoltre all’esser molti di quei poderi troppo piccoli per bastare al mantenimento di una famiglia; donde l’uso nei mezzadri, oramai quasi generale, di assumere oltre il proprio podere, la coltivazione a metaterìa di qualche appezzamento nei prossimi feudi; il che, come ci scrive il prof. Carapezza, «se talvolta per la ristrettezza del fondo è una necessità, si traduce sempre in poca cura nel coltivare».

 

 

§ 19. — Forme eccezionali di partecipazione.

Nei fondi presso Caltanissetta, come anche presso Bivona, Leonforte, ecc, si trova qualche volta che il contadino del fondo seminativo partecipi pure per un terzo, nei prodotti degli olivi, dei mandorli o degli altri alberi fruttiferi, che si trovino sparsi a piccole partite sui campi; ma è questa però l’eccezione, essendo raro il caso di alberi sparsi in piccolo numero nei campi, e non riuniti in veri oliveti o mandorleti. In alcuni casi poi, in cui si dividono a metà i prodotti degli alberi sparsi, il contadino è tenuto al pagamento di una somma fissa in denaro. Egli è pure sempre tenuto a fare il raccolto e il trasporto fino ai magazzini del padrone, e a pagare un terzo della spesa del frantoio, ecc.

 

Animali del metatiere.

In generale il metatiere dei fondi seminativi è possessore di un mulo, e spesso di due o più. Ve ne sono però che non hanno alcun animale, oppure un asino soltanto: sono questi gli zapponari, che lavorano la terra colla zappa, e a cui si dà un terreno molto più ristretto da coltivare. A ogni modo il metatiere che non abbia muli, o abbia bisogno di un aratro di bovi, deve prenderlo in affitto giorno per giorno dal padrone o da altri.

Ad eccezione dei pochi esempi presso le Petralìe, dei quali abbiamo ora discorso, non ci è riuscito di trovare in alcun luogo in tutta la zona di cui stiamo ora trattando, l’uso dei contratti di allevamento di bestiame, sia a soccida o altrimenti, tra padrone e contadini. Soltanto presso Caltanissetta e presso Noto abbiamo potuto rilevare le seguenti particolarità:

Nei fondi seminativi presso Caltanissetta, la spesa di aratura spetta per metà al padrone e al contadino; ma il padrone spesso compra prima dell’aratura i bovi per conto del contadino, a cui in questo caso spetta tutta l’aratura. A sementa finita, quegli animali si rivendono, non avendo il contadino di che nutrirli, e il padrone si rimborsa. Alcune volte il padrone compra i bovi per conto metà profitti e perdite col contadino, il che si chiama fare a guadagno.

A Noto il metatiere dei fondi intorno alla città prende gli animali dal padrone a gabella, cioè in affitto: l’animale vien stimato alla consegna; quindi il contadino paga un frutto fisso in denaro che è almeno dell’8% sulla stima, e deve in ultimo restituire l’animale a valore eguale di quanto ricevè in consegna.

 

 

§ 20. — I piccoli affitti.

Passiamo ora ai contratti di piccolo fitto, che si fanno coi contadini per i fondi. Il fitto contro canone in grano, in altre parole il contratto di terratico, non si usa quasi mai pei fondi seminativi, siano allodi o censi, prossimi alle città. Non così del fitto in denaro. Questo contratto, come già abbiamo accennato, si estende perfino talvolta nei feudi, ma però soltanto come eccezione. Per i fondi seminativi lo troviamo usato comunemente in moltissime località della Sicilia; segnatamente poi nel Trapanese, presso Trapani e presso Salemi, va sostituendosi alle altre forme di contratto colonico. Lo troviamo pure usitato ad Alcamo, Piazza Armerina, Leonforte, Caltagirone, Siracusa, Modica, Terranova, Girgenti, Bivona, ecc.: e in grado minore, a Corleone, a Ribera, a Castiglione, a Castrogiovanni, ecc. In quest’ultimo luogo citato i contadini ci dicevano che il sistema di affittar loro i terreni contro canone in denaro, era molto più usato qualche anno fa che non ora, e sembravano rimpiangere l’uso antico e considerare il mutamento come un danno per la loro classe. Bisogna però avvertire che in molti tra i luoghi rammentati, i fitti dati al contadino sono subaffitti fatti dal gabellotto, e specialmente quando si tratti di terreni alquanto distanti dal paese, oppure abbastanza estesi e che il proprietario quindi preferisca affittare in un solo corpo, lasciando al gabellotto la cura della ulteriore ripartizione della terra ai contadini.

Il contadino in generale preferisce il fitto agli altri contratti, perchè si sente più libero e più indipendente nel regolamento della sua piccola azienda, e può meglio adattare minutamente le colture al terreni. Sui vantaggi e sui pericoli di questa forma di contratto avremo più volte occasione di tornare a parlare, e ne diremo più specialmente nella seconda parte del presente lavoro. Per ora ci basti l’accennare come in tutti indistintamente i luoghi citati, i fitti pagati dai contadini sono relativamente molto alti, e la classe dei piccoli affittuari generalmente povera e indebitata.

 

 

§ 21. — I fondi alberati.

Avendo così parlato successivamente dei feudi o latifondi, e dei fondi seminativi nelle vicinanze dell’abitato, non ci resta ad esaminare, per completare il quadro delle colture e dei contratti agricoli nella prima zona, che i fondi alberati, ossia i sistemi in uso per la coltivazione degli oliveti, dei mandorleti, delle vigne, degli agrumi, dei fichi d’India, dei noccioleti, delle pistacchiere, degli alberi in genere da frutta, dei sommaccheti, e in breve dell’infinita varietà di colture legnose a cui si adattano il suolo ed il clima della Sicilia, e che in questa prima zona sono quasi esclusivamente ristrette agl’immediati contorni delle città. La trattazione più particolareggiata dei contratti in uso per queste colture riescirà più opportuna quando verremo a parlare della seconda zona, che comprende con brevi interruzioni tutta la costa e il versante settentrionale delle montagne da Mazzara, per Trapani, Palermo, Milazzo e Messina, fino a Catania, e in cui dominano le colture arborescenti. Ne daremo però anche qui qualche breve cenno, perchè il lettore possa meglio fin da ora rendersi ragione della condizione dei contadini nella prima zona, che comprende i tre quarti della Sicilia.

Le colture legnose principali che si ritrovano in ogni parte di Sicilia sono quelle dell’olivo, del mandorlo e della vite. Anche intorno ai centri dei maggiori feudi non è raro trovare qualche vigna, e talvolta anche qualche oliveto. Presso diverse città poi, per speciali condizioni del suolo, o per ragioni che non sarebbe sempre facile il determinare, troviamo predominanti alcune colture particolari, che non compariscono altrove che come rara eccezione. Così i noccioleti a Polizzi, a Piazza Armerina e a Castiglione; così le pistacchiere a Bronte; i frassini ed amollèi nelle valli settentrionali delle Madonie. Più generalmente poi ritroviamo i giardini di agrumi dove vi sia acqua per irrigare, benchè in tutta la zona di cui ora discorriamo, la produzione degli agrumi non sia che molto secondaria; salvo qualche rara eccezione, come presso Palma di Montechiaro. I fichi d’India si trovano dappertutto, ma il prodotto ha raramente una vera importanza commerciale; servono di siepi, e il frutto è durante alcuni mesi dell’anno nutrimento gradito e quasi gratuito per la povera gente e specialmente per i fanciulli: nell’ubertosa chiana però di Santa Margherita se ne fa coltivazione estesa, e il prodotto dà buona rendita ai proprietari. La coltura del sommacco si estende di anno in anno; ma nella zona di cui ci occupiamo non è che presso Santa Margherita che ci è sembrato che avesse raggiunta una vera importanza.

È da notarsi che tutte queste colture, ad eccezione dei fichi d’India, non si trovano intercalate colla coltura dei campi, piantando, come per esempio si fa nelle colline lombarde, nell’Emilia, in Toscana, gli alberi a filari intorno ai campi, in modo da mantenere una certa proporzione tra la produzione del campo nudo e quella degli alberi e degli arbusti; ma invece si riuniscono in oliveti, in vigne, in giardini d’agrumi, in noccioleti, ecc. Gli alberi sparsi o piantati radi nei campi, sono una eccezione. È vero bensì che spesso in mezzo ai mandorleti, agli oliveti e anche alle vigne, si semina il grano, le fave, i ceci, ecc., ma queste colture non si considerano in tal caso che come cosa molto secondaria, e destinate soltanto, e non sempre con prudenza, a ritrarre un profitto anche da quegli spazi intermedi che non si possono non lasciare fra gli alberi.

Diciamo ora partitamente dei sistemi in uso per ogni coltura. E in primo luogo degli olivi.

 

Olivi.

L’olivo in generale non dà prodotto in Sicilia che ogni secondo anno, e in alcuni luoghi non si può sperare un raccolto pieno che ogni quattro o cinque anni, o anche più. Come già si disse, presso Caltanissetta, Leonforte, Bivona e qualche altro luogo, quando si tratti di un piccolo numero di piante di olivi, se ne concede talvolta la coltura e la raccolta allo stesso contadino che coltiva il terreno, e ciò col patto di divisione di 2/3 al padrone e 1/3 al colono. Questi deve fare la raccolta, e trasportare le olive fino al frantoio, ed è tenuto al terzo o alla metà della spesa di affitto del frantoio e delle spese di macinazione. Anche quando il frantoio sia dello stesso proprietario degli olivi, viene computata al contadino una somma corrispondente al terzo dell’affitto di esso. Altri concedono al contadino una metà del raccolto, ma imponendogli una tassa fissa in denaro. Ripetiamo che tutti questi contratti sono l’eccezione.

Come regola generale, gli olivi, tanto se sparsi nei campi, quanto se piantati a oliveto — e questo è il caso quasi costante — sono tenuti dal proprietario a economia, ossia per conto proprio, e pagando giornalieri per la coltivazione delle piante. Questa coltivazione però per lo più non esiste, poichè non si dà concime nè si lavora la terra alle radici. Il terreno sotto gli olivi viene talvolta tenuto a economia, o più spesso dato a metaterìa con patti alquanto più liberi di quelli dei terreni nudi, e ciò per la poca produzione che può dare il suolo sempre ombreggiato dalla fronda fittissima degli alberi d’olivo; il contadino però, che coltiva il terreno non ha nulla che vedere cogli alberi. La sola eccezione che abbiamo potuto trovare in tutta la prima zona, sarebbe negli oliveti della chiana di Santa Margherita, dove gli alberi pure si affidano comunemente allo stesso contadino che coltiva il suolo, concedendogli per coltura delle piante e raccolta delle olive, un terzo del prodotto.

I rari oliveti che si trovano nei feudi vanno talvolta, quando si tratti di latifondi molto lontani dalla città, compresi nell’affitto generale della tenuta. Per i pochi alberi isolati ciò accade naturalmente sempre. A Ribera inoltre ci fu detto che anche i pochi oliveti presso la città si davano a fitto dai proprietari; e così pure si farebbe da alcuni presso Corleone. Ma queste si debbono considerare come eccezioni.

Quanto al raccolto, il sistema più generale in questa zona è di vendere tutto quanto il prodotto a stima, quando è ancora sulla pianta, due, tre e anche quattro mesi prima della raccolta. La stima si fa dai periti nell’agosto o settembre. Questi contratti si fanno per lo più a grosse partite con speculatori, che comprano così il frutto di un grandissimo numero di piante e prestano caparra al venditore. Altre volte invece chi prende il raccolto a gabella, non compra il prodotto, ma si obbliga a dare al proprietario la quantità di olive stimata dal perito: e questa seconda forma si usa quasi sempre quando si contratta con villani, o a piccole partite. Ogni rischio susseguente al contratto resta a carico di chi ha comprato il raccolto, o si è impegnato a consegnare una data quantità del frutto. È rarissimo il caso che il proprietario faccia fare il raccolto delle olive a economia, cioè con giornalieri e per conto proprio. La raccolta delle olive si fa in Sicilia battendo i rami dell’albero per far cadere il frutto.

 

Mandorli.

I mandorli, salvo le rare eccezioni di cui già abbiamo parlato e in cui si tratti di pochi alberi sparsi, sono tenuti sempre a economia, e il frutto venduto ancora pendente a stima, come si fa per quello degli olivi. La stima e la vendita si fanno ordinariamente nel maggio, quando il raccolto è già assicurato.

 

Nocciuoli, fichi d’India, pistacchi, ecc.

Lo stesso si dica per i noccioleti a Polizzi, Piazza Armerina e Castiglione; pei fichi d’India a Santa Margherita; per le pistacchiere a Bronte, ecc. Tutte queste colture sono condotte a economia dai proprietari, i quali poi gabellano il raccolto pendente, dietro stima di periti, sia più comunemente vendendolo contro pagamento del prezzo in denaro, sia contro l’obbligo di consegnare la quantità stimata del frutto.

 

Sommacchi.

Il sommacco viene coltivato generalmente a economia. A Santa Margherita però se ne concede la coltura ai contadini contro partecipazione di un terzo al prodotto: il contadino è tenuto a fare tre zappature nell’anno, e alla raccolta della fronda.

La raccolta delle olive, delle mandorle, delle nocciuole, vien fatta da donne e da ragazzi. Una donna può guadagnare in questo lavoro circa L. 0.50 al giorno; verso Piazza Armerina alla raccolta delle nocciuole L. 0.75 e anche una lira: vengono pagate a fattura.

Passiamo ai giardini di agrumi e alle vigne, ricordando però sempre al lettore, che non ci occupiamo per ora che della prima zona, in cui salvo qualche rara singolarità locale, le colture legnose non sono che l’eccezione, e limitate ad una stretta cerchia intorno alle città e alle borgate.

 

Agrumi.

Per gli agrumi l’uso generale è di tenerli a economia. Quando siano giardini di una certa estensione vi è ordinariamente annessa una casettina in cui abita un guardiano o castaldo, il quale è un salariato all’anno, e lavora pure il giardino. Presso Lentini gli si dànno 3 onze (L. 38.25) al mese, oltre la casa.

 

Vigne.

Le vigne che si trovano presso i caseggiati dei feudi si affittano assai spesso insieme col fondo. Il gabellotto le tiene a economia facendole lavorare da giornalieri. Regola generale però per le vigne nei pressi delle città, come pure per quelle nei feudi che non sieno state gabellate insieme col latifondo, è la coltivazione a economia per conto del proprietario. Se poi si tratta di un contadino proprietario o censuario di una vigna, egli la coltiva naturalmente da sè e colle proprie braccia. Nelle vigne di una certa estensione sta di casa un guardiano (curatolo, annaloro, castaldo, massaro), e questi secondo i luoghi è un salariato all’anno che deve pure lavorare nella vigna, oppure s’incarica di tutti i lavori di cui ha bisogno la vite, zappature, potatura, ecc., contro una somma fissa annua per ogni mille piedi di vite, somma che varia secondo i luoghi, dalle 15 lire (Chiaramonte) alle 25 lire (Noto), e si aggira comunemente tra le 20 e le 25 lire. A Caltagirone si dànno sole 12 lire per mille viti, ma la pota è a carico del padrone, e il guardiano è obbligato soltanto a fare le tre zappature nell’anno. Si fanno queste convenzioni chiamate comunemente a estaglio, anche con estranei, quando non vi è un guardiano nella vigna o che questa sia troppo estesa. In generale un uomo che prenda a coltivare delle viti a estaglio, ci può guadagnare col suo lavoro da 200 a massime 500 lire all’anno. A Corleone dove il curatolo delle vigne è ordinariamente un salariato all’anno, gli si dà di salario annuo 150 lire, più al mese quattro tumoli di grano e un rotolo di olio, e 1 1/2 quartuccio (litri 1.2.9.) di vino al giorno.

Le poche case rurali che si vedono presso alcune città distare alquanto dall’abitato, sono tutte occupate dai custodi o guardiani delle vigne.

Vi è pure qualche esempio di coltura delle vigne con patti di mezzadrìa presso Caltanissetta, Lentini, Noto, ecc., ma è da considerarsi come una rara eccezione; in quei casi poi vi è sempre un’antiparte fissa di tante botti, che il padrone preleva prima della divisione.

 

 

§ 22. — Condizioni dei contadini nella prima zona.

Abbiamo così percorso rapidamente tutta la serie dei contratti agricoli più importanti, che si usano per le diverse colture nella prima delle due zone maggiori in cui abbiamo divisa la Sicilia. Ora diremo qualcosa delle varie classi dei lavoranti agricoli, che sono soggetto dei contratti già descritti. Ci restringeremo a pochi cenni generali.

 

Impiegati dei feudi.

Sul personale delle grandi fattorie, ossia dei feudi e dei latifondi, non importa fermarsi. La condizione degl’impiegati inferiori, garzoni, bifolchi e pastori, non differisce da quella degli altri contadini siciliani. Nella parte meridionale dell’Isola e dove i gabellotti coltivano a economia una parte dei latifondi si trova una classe di salariati all’anno detti anche in genere famuli, che son tenuti a prestare la loro opera in qualunque lavoro per cui vengano richiesti, e abitano tutto l’anno nella masserìa. Verso Canicattì si dà loro 170 lire, più due rotoli (chilog. 1 1/2) di pane al giorno. Il posto di famulo e d’impiegato nei feudi è dappertutto assai ricercato, e ciò per la maggior sicurezza della sussistenza durante tutto l’anno. Il pane che si dà agl’impiegati della fattoria è naturalmente di qualità inferiore, e fatto col solame, ossia col grano che si ricava dalla spazzatura dell’aia.

 

 

§ 23. — I giornalieri.

I giornalieri o braccianti costituiscono la classe la più numerosa dei contadini siciliani. Anche il terratichiere o il metatiere diventa bracciante e loca la sua giornata quando non ha lavoro nel suo campo.

La mattina prima dell’alba, si vede riunita in una piazza di ogni città, una folla di uomini e di ragazzi, ciascuno munito di una zappa: è quello il mercato del lavoro, e son quelli tutti lavoranti, che aspettano chi venga a locare le loro braccia per la giornata o per la settimana. Se piove o se la stagione è minacciosa, la giornata è perduta, e ciò anche se più tardi il cielo si rasserena; il che dipende specialmente dalle grandi distanze che debbono per lo più percorrere per recarsi al luogo del lavoro. Quelli che vengono impiegati per la sola giornata tornano la sera a casa; se invece l’impegno è per la settimana e la distanza è grande, dormono sia nei cortili dei feudi, sia in mezzo ai campi, sotto capannucce provvisorie di paglia o di frasche, o sotto la vôlta del cielo.

 

Salari.

I salari variano molto secondo i luoghi, le stagioni e il genere dei lavori. Vi sono diversità da luogo a luogo, che difficilmente si saprebbero spiegare. Le comunicazioni rese più facili negli ultimi anni, tendono a diminuire in qualche grado queste diversità e ad eguagliare dovunque il livello dei salari; ma questo movimento non è ancora più che incipiente. Come media generale crediamo si possa ritenere che il salario di un uomo in tutta la zona di cui parliamo sia, tutto compreso, di 3 tarì (L. 1.27); oscillando però secondo i luoghi tra L. 1 e 1.70; ma queste cifre potranno soltanto fornire una qualche idea generica al lettore, e a tali medie generali non si può annettere alcun valore scientifico. In tempo di mèsse il salario è naturalmente molto più elevato, e si tiene in media tra le L. 2.50 e le L. 3.50, andando però talvolta fino alle 5 lire, e anche superandole.

Raramente in Sicilia si paga tutto quanto il salario in denaro: si dà ordinariamente 1 tarì (L. 0.42), 1 1/2 tarì o 2 tarì in denaro, e il resto in pane, companatico (olive, mezzo arancio, ecc.) e vino; oppure denari, companatico e vino; o soltanto denari e vino. Il vino si calcola in una quantità giornaliera di 1 1/2 quartucci([240]) a 2 quartucci. In alcuni luoghi si dà come vitto una minestra di fave o di legumi. Per i giornalieri che si fissano a settimana si usa in più luoghi di anticipar loro una mezza settimana di salario.

 

Migrazioni di lavoranti.

Per la raccolta del grano vi sono nel giugno migrazioni regolari di lavoranti dai monti ai piano e viceversa, secondo l’epoca varia di maturanza della mèsse alle diverse altezze: così ottengono di prolungare il tempo degli alti guadagni, e vien supplito in parte a quel gran difetto della coltura dei cereali, di richiedere cioè un numero grandissimo di braccia durante pochi giorni dell’anno, senza fornir loro un lavoro sufficiente in tutte le altre stagioni.

La maggior risorsa per i braccianti è la coltura dei vigneti, nella quale trovano lavoro per una buona parte dell’anno, nelle diverse zappature, nella potatura, nella vendemmia, ecc. Molti giornalieri prendono pure a coltivare qualche campo a fave per un anno coi patti che sopra abbiamo descritti([241]). Contuttociò manca spesso il lavoro in tutta la zona interna e meridionale dell’Isola, e in tempo d’inverno la classe dei giornatari si trova di frequente sottoposta a durissime privazioni. Tra le feste, i giorni di cattivo tempo, ecc., si può calcolare in media che il giornataro resti da 100 a 120 giorni dell’anno senza lavoro.

Nei momenti difficili egli deve ricorrere agli usurai, ma ha poco o nulla da offrire come garanzia, e paga un’usura rovinosa, che può variare dal 25 al 50%, e va spesso a molto di più. Se è personalmente conosciuto da qualche proprietario o gabellotto, che lo impieghi regolarmente di preferenza, e lo riconosca quasi come cliente o aderente, otterrà più facilmente qualche mutuo di grano o d’altro a condizioni uguali a quelle che si fanno ai metatieri, e per la restituzione gli verrà regolarmente defalcato un tanto sopra ogni giornata di lavoro che presterà nel corso dell’anno.

In alcuni luoghi (Randazzo, Isnello, ecc.), i proprietari o gabellotti per essere meglio sicuri di non mancare mai di lavoranti, contraggono con questi dei patti, che durano uno o più mesi, o anche tutto l’anno, e per i quali il bracciante si obbliga a lavorare di preferenza per quel determinato padrone entro il mese o entro l’anno, ogni volta che ne venga richiesto, e ciò sia ad un prezzo determinato, sia talvolta al prezzo di piazza. Quando non venga richiesto da quel padrone può lavorare per proprio conto o per altri. Questi lavoranti così impegnati si dicono nel Catanese mesaruoli o annaruoli, secondo il tempo dell’impegno. Ricevono al momento del contratto una caparra, di cui il padrone si rimborsa via via sui salari nel corso del mese o dell’anno. A Randazzo un annaruolo riceverà di caparra 5 onze (L. 63.75).

 

Ribassi nella primavera del 1876.

Nella primavera di quest’anno (1876) i salari subirono un forte ribasso in una buona metà della Sicilia, e specialmente lungo tutta la parte occidentale, quella interna e quella meridionale dell’Isola. Le cause sono forse molteplici: — 1° I grandi ribassi nei prezzi del vino, che hanno portato dietro di sè la diminuzione dei lavori nelle vigne: — 2° La crise commerciale e industriale che ha afflitto la Sicilia nell’inverno 187576, crise che travagliò specialmente l’industria mineraria e privò di lavoro tanti operai delle zolfare: — 3° Il forte aumento delle gabelle dei fondi negli ultimi anni, mentre d’altra parte i capitali vanno scarseggiando, perchè molti gabellotti e proprietari si son fatti acquirenti di beni demaniali o ecclesiastici, senza aver denari sufficienti per sborsare tutto il prezzo, e fidandosi sui successivi raccolti per pagarne le rate: — 4° La stessa bella stagione che durò per tutto l’inverno, la quale ha permesso che si continuasse sempre a lavorare nei campi; onde non essendovi nuovi impieghi vistosi di capitale, il lavoro è venuto presto a scarseggiare, e le braccia abbondano: sicchè i lavoranti hanno guadagnato circa lo stesso, ma lavorando di più: — 5° I timori che la troppa siccità, e la bella stagione troppo prolungata avevano fatti concepire per le raccolte dell’estate, onde nessuno voleva impegnare i propri capitali in nuovi lavori.

Il fatto è che in alcuni luoghi, nei mesi di marzo e d’aprile, i braccianti chiedevano lavoro contro un salario perfino di L. 0.60 in tutto (ad Alcamo e Sciacca) o di L. 0.85 (a Ribera, Chiaramonte, Marsala).

Il bracciante non possiede quasi mai un mulo. e raramente un asinello che lo porti mattina e sera le lunghe miglia che deve percorrere per andare e tornare dal lavoro. La sua grande aspirazione è di arrivare a possedere un mulo, perchè con questo potrà ottenere qualche campicello a metaterìa o a terratico. Per raggiungere questo ideale, egli fa i maggiori sforzi di lavoro e di risparmio. Se non può giungere a mettere insieme il prezzo di un qualche mulo vecchio e piagato, cercherà, quando sia possessore di una casupola, di acquistarlo a credito, pigliando al doppio del valore un animale quasi inservibile, da pagarsi l’anno dopo in tutto o in parte sul prezzo delle raccolte sperate: e per ottenere ciò impegnerà la casupola, l’unica sua proprietà.

 

 

§ 24. — Case.

Il contadino siciliano è spesso proprietario della casetta in cui vive. Questa casetta, come già si disse, si compone in tutta la zona di cui stiamo discorrendo, di una sola stanza terrena, stretta e bassa, spesso senza impiantito, e con i soli tegoli per tetto; in essa vive, o almeno dorme di notte — poichè il giorno tutti stanno in strada — l’intiera famiglia, compreso il maiale e le galline se ve ne sono. Anche chi ha l’asino o il mulo, li tiene nella stessa stanza, e insieme i foraggi e le provviste. Per dare aria e luce non vi è per lo più che la sola porta, e in questa sì e no si apre un piccolo sportellino. Soltanto in alcune località si trova di solito un’altra apertura nel muro, come finestra. Quando il contadino non abbia casa propria, la prende a fitto: il canone annuo è generalmente di circa L. 25, ma in alcuni luoghi va fino a 40, 50 e 60 lire. (Alcamo, Bivona, Licata, ecc.).

 

 

§ 25. — Metatieri e terraggieri.

Abbiamo detto come mèta dell’ambizione del giornaliero in Sicilia sia comunemente quella di diventare metatiere o terratichiere. Esaminiamo ora la condizione di questi, per vedere come e di quanto sia superiore a quella del bracciante.

Il metatiere e il terratichiere vivono normalmente una gran parte dell’anno di soccorsi, ossia di anticipazioni che presta loro il padrone, e di mutui che prendono dagli usurai delle città. La quantità dei soccorsi che dà loro il gabellotto è calcolata soltanto su quel che è necessario per mantenerli durante il tempo in cui lavorano sul campo loro affidato; quando là non vi sia da lavorare, il borgese diventa un semplice bracciante e cerca d’impiegare dovunque le sue giornate. Se possiede un mulo avrà la risorsa di poter fare qualche vettura, ossia qualche trasporto a schiena d’animale, di merci o di passeggeri da un luogo a un altro.

 

I soccorsi.

Diciamo dei soccorsi. In molti luoghi vi è una consuetudine che impone quasi al padrone di prestare una certa quantità di fave o di grano come soccorso al contadino, secondo la estensione della terra concessa. Questa consuetudine consiste ordinariamente nell’anticipazione di una salma di frumento (ettol. 2.75) per ogni salma di terra (ettari 1.746). Non è però cosa generale, e anche dove il fatto duri tuttora, si scorge una tendenza nei gabellotti, e specialmente in quelli di montagna, dove più incerte sono le raccolte, a cercar di esimersi da quell’obbligo. Del resto non essendovi nulla che costringa il gabellotto a dare questa anticipazione a un frutto piuttosto che a un altro, ed avendo egli inoltre l’interesse di render possibile al metatiere la continuazione del suo lavoro fino alla consegna del prodotto nell’aia, non potrà mai sparire l’uso dei soccorsi, ossia delle anticipazioni fatte al metatiere per il suo mantenimento, contro rimborso sulla raccolta finale, rimborso per il quale il mutuante ha il privilegio accordato dall’art. 1958 del Codice civile, oltre quello sanzionato dal decreto del prodittatore Mordini del 18 ottobre 1860.

Questi soccorsi padronali vengono da per tutto dati col patto della restituzione al raccolto, di 20 tumoli per ogni salma prestata (1 salma = 16 tumoli), ossia del 25% per 6 a 7 mesi. Alcuni pochi proprietari o gabellotti più umani, si contentano dell’addito di 2 tumoli per salma, e questo è considerato anche dai contadini stessi come un frutto equo e legale.

Quando il mutuo vien fatto in denaro, il che non accade che ben raramente, il frutto formalmente pattuito è molto minore, e non supera ordinariamente il 10 a 12%, ma siccome il rimborso viene poi eseguito mediante una valutazione arbitraria fatta dallo stesso creditore, del prezzo del genere che egli si ripiglia al momento del raccolto, di fatto viene a prendersi una usura più forte; oltrechè il frutto del 10 o 12% viene spesso preso sui sei o sette mesi che corrono dal momento del mutuo a quello del rimborso, il che costituisce un interesse annuo di quasi il doppio.

Nei soccorsi ordinari poi che vengono dati in grano, il mutuante guadagna sulla differenza di qualità tra il genere che dà, che è tutto quanto c’è di più scadente, e non altro che solame, ossia spazzatura dell’aia, e quello che riceve, che è quanto egli si ripiglia di grano di buona qualità sulla parte colonica, alla divisione sull’aia.

Del resto ci basti per ora l’osservare che come cosa di fatto in Sicilia il metatiere e in gran parte anche il terratichiere vivono di soccorsi per parecchi mesi dell’anno, e specialmente nel tempo in cui lavorano sui loro paraspoli o poderi. Quando il gabellotto non voglia o non possa prestare tali soccorsi, il contadino deve necessariamente ricorrere agli usurai, e non è dato calcolare fino a che punto giungano la spogliazione e i soprusi, che egli deve allora subire.

Vi sono dei centri di usura dove un gran numero di fortune cospicue si sono fatte con questa sola industria.

 

 

§ 26. — Obblighi del metatiere.

Il metatiere è tenuto, come dicemmo, a tutte le spese di coltura del suo campo: sopra di lui quindi ricade il pagamento del giornalieri che raccolgono la mèsse. Se egli tarda ad assicurarsi di quel numero di braccia che si stima necessario per la pronta mietitura del suo campo, il campiere padronale fissa addirittura la squadriglia dei mietitori, per conto e a carico del contadino. Il salario dei mietitori viene anticipato dal gabellotto, il quale si rimborsa poi sull’aia.

A carico del contadino è pure la trebbiatura del grano. Nella mancanza quasi universale di qualunque macchina, la trebbiatura si fa coi muli, che guidati dal contadino pestano correndo i covoni sparsi sull’aia. Per fare questo lavoro bisogna aspettare una giornata in cui tiri vento. Il lavoro della trebbiatura sotto i raggi cocenti del sole siciliano è durissimo, e rovinoso per gli uomini e per le bestie.

Terminata la trebbiatura e venuto il gran momento della divisione sull’aia, il contadino può ritenersi fortunato se sopra venti salme che abbia prodotte il suo campo, egli può riportarne a casa sua tre o quattro, e in massima parte di qualità inferiore, ossia di solame misto a terra. Il segno e l’espressione della compiacenza padronale verso quei contadini che si sono mostrati più degni di premio per lavoro, onestà, o altro, consistono nel dono di qualche tumolo di grano di qualità inferiore, a divisione fatta.

Avuto il suo grano, è cura ordinaria del contadino di cercare di venderne prontamente la maggior parte nel mercato più vicino, per poter utilizzare le sue bestie nel trasporto, mentre le trazzere, ossia i sentieri da muli, sono ancora in buono stato, e prima della caduta delle pioggie autunnali che le renderanno impraticabili. Col retratto della vendita egli potrà soddisfare ai suoi debiti in denaro, e comprare per il proprio nutrimento qualche genere più scadente e di meno prezzo di quello che vende.

 

I sensali di grano.

Il contadino si recherà perciò con una paio di salme di grano caricate sul mulo, fino alla città più prossima dove possa sperare di trovare un mercato più esteso, e là cadrà inevitabilmente, per la mancanza di mercati settimanali, nelle mani dei sensali di grano; i quali riuniti in associazioni e accordati coi negozianti di grano in vere società di monopolio o, diciamolo pure, in vere camorre, impongono sempre al contraente al minuto, al povero, e al debole, il prezzo più basso se vuol vendere, e il prezzo più alto se vuol comprare. Il gabellotto ricco sfugge a queste camorre perchè può aspettare il suo tempo e può spedire la sua merce agli emporii principali e più lontani, dove otterrà il vero prezzo del mercato([242]).

 

 

§ 27. — Terratichieri.

La condizione economica del terratichiere differisce poco o nulla come regola generale, da quella del metatiere. Nei luoghi però dove si richiede da lui un qualche maggiore capitale come garanzia per l’adempimento preciso dei suoi impegni, e ciò perchè la sua posizione è alquanto meno dipendente e meno soggetta a sindacato di quella del metatiere, vediamo là il terratichiere occupare un posto economicamente un po’ più elevato; ma ciò dipende più dal fatto d’avere egli qualche animale di più o qualche piccolo censo in proprio da prestare come garanzia, che non dalle forme stesse del contratto di terratico. Egli corre maggiormente il rischio delle buone e delle cattive annate che non il metatiere; e dopo uno o due anni di magre raccolte si trova spesso affatto rovinato e sopraccarico di debiti.

Per completare il quadro delle classi agricole di Sicilia, dobbiamo avvertire che vi è in alcuni luoghi un numero di borgesi agiati, che posseggono più coppie di muli o di bovi, e fanno l’industria d’intraprendere i lavori di aratura dei maggesi, sia contro un pagamento a giornata, che varia da 6 a 12 lire, oppure con patti molto vari di pascolo, di pagamento in denaro o in generi, o di partecipazione per 1/4 nel prodotto di grano dell’anno futuro.

 

 

§ 28. — Paragone tra giornalieri e borgesi.

Qui però il lettore vorrà forse fare la seguente domanda. — Se è così triste la condizione generale dei metatieri e dei terratichieri, come mai si spiega che mentre i salari sono relativamente alti in Sicilia, i giornalieri aspirino a diventare metatieri, e vi sia sempre concorrenza tra i contadini per assumere la coltura dei campi a patti così duri come quelli che abbiamo descritti? —

La risposta a questa domanda resulterà più chiara nella seconda parte di questo lavoro, quando avremo esaminato più da vicino il carattere economico dei contratti di partecipazione agricola; ma possiamo scorgere fin da ora come la mancanza di varietà nelle colture della zona di cui discorriamo, in cui tutto, quasi, dipende dalla sola coltura del grano, renda naturalmente più incerta, ristretta a poche epoche dell’anno, e dipendente dalle stagioni, la giornata del bracciante; e come egli quindi venga ad invidiare la condizione del borgese metatiere.

Questi difatti, grazie all’appezzamento di terra che ha preso a coltivare a metaterìa, ha una certa sicurezza del domani, in quanto sa che, per non perdere il resultato del lavoro passato e del capitale già anticipato, il proprietario gli darà sempre qualche soccorso nel caso di bisogno; nè egli si cura del frutto che poi gli venga imposto, imperocchè non conta tanto sul raccolto, quanto sulla sicurezza che, in vista del raccolto, vi è qualcuno interessato a non lasciarlo morire di fame.

Si aggiunga che l’aver terra a metaterìa è un modo per poter impiegare utilmente, mediante la compra e il lavoro di un mulo, di un asino, ecc., quei pochi risparmi che il contadino possa, per un soffio di fortuna propizia, riescire a mettere insieme. Egli altrimenti non saprebbe in che modo impiegarli a buon frutto, sorvegliandoli pur sempre da vicino. Come metatiere invece il contadino, oltrechè quando possa assumere su di sè il lavoro del maggese ottiene condizioni migliori, è sicuro poi di trovare nella sementa, nel trasporto dei generi, ecc., un impiego utile alle sue bestie.

Inoltre il metatiere o il terratichiere potranno impiegare utilmente sul loro campo la mezza giornata; cosa che specialmente in Sicilia, come già dicemmo, il giornaliero non può fare, per la grande distanza tra le abitazioni e i campi, onde egli, quando piove la mattina, perde ipso facto tutta la sua giornata: giacchè più tardi non saprebbe dove poter andare a cercar lavoro.

 

 

§ 29. — Censuari.

In parecchi luoghi un certo numero di contadini, borgesi o giornalieri, possiede, come già abbiamo veduto, un piccolo appezzamento di terra a censo, e in questo caso la condizione di quella gente è subito migliore, perchè su quell’appezzamento il lavorante ha modo di utilizzare non solo i giorni in cui manca d’impiego, ma anche le mezze giornate o i ritagli di tempo di cui possa disporre. I piccoli censi posseduti dai contadini sono quasi sempre coltivati con gran cura: il lavoro assiduo supplisce alla mancanza di capitale. Questi censi sono alcune volte resti delle quotizzazioni dei terreni comunali ordinate sotto il Borbone, e di cui alcune sono state eseguite anche dopo il 1860; più spesso invece sono antiche enfiteusi di terre baronali, che col tempo si sono sempre più suddivise e sminuzzate. Le quotizzazioni comunali non hanno in generale prodotto altro effetto che quello di far passare, con vendite e locazioni simulate, i beni comunali in mano dei proprietari agiati, non procurando alle classi povere che l’effimero vantaggio di un regalo immediato di poche lire, contro la prospettiva futura di un aumento di tasse per le diminuite entrate municipali; giacchè ogni somma retratta dalle vendite o dalle affrancazioni va ben presto a sparire nel gran baratro dei disavanzi, o va spesa in opere di lusso e a benefizio esclusivo della classe agiata.

 

 

§ 30. — Donne.

Le donne dei contadini contribuiscono poco ai guadagni della famiglia: l’accentramento delle case rurali nella città, la conseguente lontananza del contadino dal campo su cui lavora, e la solitudine delle campagne, escludono di per sè la donna dal prender parte ai lavori campestri. Soltanto a tempo della mèsse tutta la famiglia si sparge per le campagne per aiutare a raccogliere i covoni, per spigolare e per rubacchiare. Alla raccolta delle olive, delle nocciuole, ecc. e alla vendemmia, lavorano pure le donne, ma in generale non sono che quelle più miserabili, quelle dei metatieri più poveri e dei giornalieri, le quali s’impiegano in queste faccende. All’infuori di ciò le donne restano sempre in casa, dove filano il lino, badano al maiale, e ai bambini, e fanno la minor pulizia possibile. Spesso posseggono in casa un rozzo telaio col quale fanno la tela, che serve al vestiario della famiglia. La moralità è varia secondo i luoghi: generalmente vien detta piuttosto buona, e superiore a quanto si potrebbe credere, tenendo conto di tutti i pericoli e delle tentazioni a cui la lontananza dei mariti e degli uomini di casa per sei giorni su sette della settimana, espone un grandissimo numero di donne della classe rurale, della assoluta dipendenza in cui vivono le classi inferiori, di fronte a quelle che godono di una qualche agiatezza, e della poca moralità generale di queste ultime.


 

 

Capitolo III.

 

ZONA ALBERATA — DA MAZZARA A CATANIA

 

 

 

§ 31. — Zona alberata.

Descritta così sommariamente nella varietà delle sue colture e dei contratti agricoli, la prima delle due maggiori zone in cui abbiamo diviso la Sicilia, ci resta da studiare la seconda, che comprende approssimativamente nei suoi confini tutta la costa da Mazzara a Trapani, da Trapani a Messina e da Messina a Catania, risalendo qualche volta le vallate dei brevi corsi d’acqua fino a qualche miglio nell’interno. È questa la zona delle colture alberate, che vi si mostrano in tutta la loro bellezza e nella impareggiabile varietà che consentono il clima e il suolo della Sicilia. Qui si succedono e si frammischiano secondo le diversità dei terreni e delle esposizioni, le colture le più ricche: è questo il regno della vite, del limone, dell’arancio, dell’olivo, del mandorlo, del frassino mannifero, del sommacco, del gelso, del tabacco, del fico d’India, del fico, del pistacchio, del nocciuolo, del melagrano, ecc. Qui non è più davvero il caso di deplorare la poca produzione del suolo, o la mancanza di capitali impiegati nella agricoltura. Certamente vi è sempre da fare anche qui, e tutto si può migliorare; ma ogni anno crescono le piantagioni, si perfezionano i metodi di coltura, si studiano le nuove malattie, e l’agricoltura tende a progredire, a farsi sempre più intensiva, a migliorare la qualità dei suoi prodotti; mentre un movimento simile, sebbene più lento, si osserva pure nelle industrie affini, a cui spetta preparare e manipolare i prodotti del suolo secondo le esigenze del commercio, come per esempio nella fabbricazione del vino e dell’olio.

Studiamo ora quali sono le forme dei contratti agricoli, che accompagnano quelle varie colture, e quali le condizioni generali dei contadini in questa zona. L’argomento è molto intricato e complesso, e per non confonder troppo il lettore con lunghi cataloghi di nomi di città, secondo le diverse categorie di patti, non ci occuperemo che di pochi luoghi dove si presentano più distinti i caratteri specifici dei diversi tipi di contratti agricoli.

Cominceremo dalla zona vinicola, rinomata pel vino di Marsala, la quale da Mazzara si estende fin verso Trapani. Quindi daremo pochi cenni dei diversi sistemi di conduzione agricola in uso nei circondari di Trapani e di Alcamo. E così, procedendo verso Oriente, ci fermeremo alquanto nella Conca d’Oro, celebre per mafia e pei giardini d’agrumi; e traversando poi gli oliveti della marina da Bagherìa a Cefalù, faremo una breve sosta nella vallata di Castelbuono, ricca di olivi, di briganti e di frassini amollèi.

Quindi salteremo d’un tratto alle tranquille vicinanze di Patti, per poi visitare i poggi di Castroreale, e di là scendere nei boschi di olivi, nelle vigne e negli agrumeti della fertilissima piana di Milazzo.

A Messina troveremo la via ferrata che ci porterà comodamente lungo la ridente marina orientale fino alla bocca del fiume Cantaro; e non avremo quindi, per terminare la seconda zona, che da percorrere le pittoresche falde dell’Etna da Castiglione a Giarre, e di lì a Catania e Adernò.

 

 

§ 32. — Marsala.

Il comune di Marsala, oltre l’alto onore di aver dato il nome al vino siciliano più conosciuto in Europa, presenta la particolarità di essere uno dei due soli municipii di tutta la parte occidentale dell’Isola, dove la popolazione rurale abiti in gran parte sparsa nelle campagne.

La sola Marsala ha su 34,202 abitanti, una popolazione sparsa maggiore (16,536) che non quella (10,836) delle due provincie di Palermo e di Girgenti riunite. Sommando insieme le cifre delle popolazioni di Marsala e del piccolo comune di Monte San Giuliano presso Trapani, abbiamo secondo i dati del censimento del 1871, sopra una popolazione complessiva di 51,698 abitanti, 28,308 che abitano nelle campagne, ossia 5190 più che non ci dieno le tre provincie riunite di Palermo, Caltanissetta e Girgenti, le quali contano sole 23,118 persone che abitino in campagna sopra una popolazione complessiva di 1,113,644 anime.

Per quel che riguarda Marsala, questo fenomeno si deve all’immenso numero di vigne, che cuoprono tutto il territorio. Se da Marsala si procede nella direzione di Salemi, allontanandosi in linea retta dal mare, si cammina per tre o quattro miglia sempre in mezzo alle vigne; queste poi cessano a un tratto, e uno si trova di nuovo nelle solitudini dei latifondi senza case e senza alberi, e in mezzo agli sterminati campi a grano, a pascolo, o a maggese. Tutto quel tratto di marina che è riccamente coltivato a vigne, è, nel territorio di Marsala diviso in una infinità di piccole proprietà, che nella grande maggioranza sono enfiteusi di origine antichissima e non per anco affrancate. Tra queste le più minute sono possedute dagli stessi contadini che le coltivano, e i quali s’impiegano inoltre come vigneri, o vignaiuoli nelle vigne prossime che appartengono a proprietari di condizione più agiata.

Verso Mazzara la proprietà dei vigneti non è tanto frantumata, e vi si usa più dai proprietari la coltivazione per mezzo di salariati a giornata. Così pure nei pressi di Trapani sono rare le piccole vigne, e si suole tenere nei vigneti un curatolo, che riceve un salario annuo; lavora egli stesso alle viti e sorveglia i lavoranti giornalieri.

A Marsala invece, il vignere prende l’impresa di tutti i lavori della vigna, a estaglio, ossia a un tanto — ordinariamente 24 lire — per ogni 1000 piante. Egli deve fare due arature fra le viti, la potatura, e ogni altro lavoro, prendendo per suo conto i giornalieri necessari: la spesa di vendemmia però è a metà col padrone. A un contadino che abbia due o tre ragazzi in famiglia si affiderà circa una salma di terra a vigna, ossia circa 12,800 piante. In ogni vigna, che non sia piccolissima, evvi una casetta, che ha generalmente un primo piano oltre quello terreno.

L’aspetto di tutte queste casette è sorridente, e dà un’impressione di benessere dei contadini, forse anche maggiore della realtà, poichè l’abitazione vera del contadino è quasi sempre ristretta a una stanza, e il resto della casa è riservato esclusivamente al proprietario della vigna, che va a starvi durante la vendemmia. La condizione però della classe dei vigneri, sembra essere veramente un po’ migliore che altrove. Anche pei giornalieri il lavoro è più continuo e i salari generalmente abbastanza alti, oscillando intorno alle L. 1.50, compreso sì e no un litro di vino. Però evvi sempre il grande inconveniente della unicità di coltura, che sottopone la classe agricola a gravi sofferenze ad ogni crise che avvenga per ragioni qualsiasi nel commercio di quell’unico prodotto principale. Così col ribasso del prezzo del vino, quest’anno (1876) i salari dei giornalieri si sono ridotti quasi alla metà, e manca il lavoro.

Parecchi contadini vanno pure ogni anno a prender dei terreni a metaterìa nei latifondi più interni, e una certa emigrazione ha pure luogo per la Tunisia, dove la Reggenza concede terre a fitto o a metaterìa a condizioni favorevoli.

La coltura così estesa della vite è stata promossa dai grandi stabilimenti per la fabbricazione di quel tipo di vino conosciuto dovunque come vino di Marsala. Il più antico di questi stabilimenti (Woodhouse) data fin dal 1789; a questo s’aggiunse nel 1815 lo stabilimento Ingham, che occupa ora circa 300 operai, e possiede 12 grosse barche a vela, che viaggiano le coste della Sicilia per raccogliere da ogni parte mosto e vino; e in data molto più recente surse il non meno grandioso stabilimento Florio. Vi sono inoltre diverse imprese minori di fabbricazione di vino Marsala, tanto a Marsala come a Mazzara e a Trapani.

I grandi stabilimenti che a Marsala vengono designati col nome generico gl’Inglesi, fanno nel corso dell’anno anticipazioni in denaro ai proprietari e ai censuari dei vigneti, contro l’obbligo di consegnare a suo tempo allo stabilimento mutuante, tutta l’uva, o il mosto, o il vino che produrranno; e ciò al prezzo generale che fisseranno gli stessi Inglesi. Non si pattuiscono interessi, ma nel fatto, colla fissazione del prezzo, si viene a percepire un frutto del 12 a 13 per cento. Questo prezzo viene fissato uniformemente da tutti gli stabilimenti primari. Da due anni il Municipio di Marsala fissa esso pure la mèta del prezzo a cui si dovrà pagare il vino, ma gli stabilimenti, per assicurarsi contro ogni eventuale imposizione, pattuiscono spesso coi proprietari nel far loro le anticipazioni, che il prezzo del vino debba essere di un tanto meno della mèta che sarà fissata dal Municipio.

I piccoli censuari e proprietari sono tutti indebitati; spesso se l’annata è cattiva non giungono a rimborsare col prodotto della vigna le anticipazioni ricevute. Allora il residuo debito vien rimesso al raccolto futuro, e quasi sempre senza aggiunta di frutti. Gli stabilimenti comprano o l’uva, o il mosto, secondo la diversità dei loro bisogni; spesso nel fare le anticipazioni si riservano il diritto di fare essi stessi la vendemmia, e nei giorni che a loro piacerà; ne ritraggono il vantaggio di cogliere l’uva più matura col ritardare la vendemmia, il che migliora la qualità del vino, ma ne diminuisce la quantità a scapito del proprietario. La produzione però delle vicinanze di Marsala non basta per la quantità enorme del vino Marsala, che si esporta per tutta l’Europa, e segnatamente per l’Inghilterra, e i grandi stabilimenti fanno forti acquisti di vino in tutti i porti della Sicilia e specialmente a Catania; mescolando poi tutto insieme nella concia generale, che di un vino ordinario, che si venderà in piazza a 15 centesimi il litro, fa un nettare a 1 o 2 lire il litro.

 

 

§ 33. — Trapani e Monte San Giuliano.

Passeremo ora senz’altro alla seconda tappa che ci siamo segnati, e volgendo la nostra attenzione ad alcune condizioni speciali che si ritrovano qua e là nel circondario e nella provincia di Trapani, ci fermeremo più specialmente nella regione, che dal Monte San Giuliano si stende verso Paceco.

La vite e l’olivo, e negli aridi pendii il sommacco, sono le principali colture legnose.

L’olivo si pianta a filari in mezzo alla vigna che invecchia, e ciò perchè la pianta giovine dell’olivo profitta delle zappature fatte alla vigna, e così non soffre nelle sue radici per le larghe crepe, che il sole d’estate apre nel suolo argilloso. Venendo a mancare dopo qualche anno la vite, resta l’albero già fruttifero dell’olivo, che in Sicilia cresce tanto bello e rigoglioso. Gli olivi si tengono a economia, e se ne vende il raccolto pendente in agosto contro pagamento in denaro in tre rate, il proprietario prestando il trappèto (frantoio), e i vasi sufficienti per un terzo del supposto raccolto.

I sommacchi pure sono quasi sempre tenuti a economia; qualche rara volta però se ne affida la coltura e la sfrondatura a un contadino contro un terzo del prodotto. Il sommacco si trova coltivato in grande presso Calatafimi, e dopo Alcamo.

Per le viti, come già dicemmo, nel Trapanese si usa coltivarle in generale per mezzo del curatolo, o guardiano, e dei braccianti a giornata. Alcune volte si dànno a coltivare al contadino, contro un terzo dell’uva o del mosto, essendo a suo carico la vendemmia. Presso Alcamo la coltura della vite è la più importante. Là si usava assai la mezzadrìa per le vigne, ma dopo i forti ribassi verificatisi nei prezzi dei vini, questa si è ristretta, e ora se ne coltiva la maggior parte a economia, oppure a estaglio, dando 24 a 30 lire per la coltura di mille piante. Chi dà la vigna a mezzadrìa compra per patto la parte colonica del mosto, al prezzo di mèta che il Municipio fissa più tardi per ogni contrada del Comune, sulle medie delle vendite avvenute. Per diminuire però il prezzo, i proprietari fissano col contadino ch’egli debba accettare la mèta di quella contrada del Comune in cui si sa che debba essere più bassa.

Quello però che più importa di notare relativamente al Trapanese, sono i sistemi di conduzione, che si vanno generalizzando in vari luoghi per la coltura non dei terreni alberati, ma dei campi seminativi.

Si trovano qui difatti tre ordini di affittuari di terreni, che corrispondono a tre sistemi diversi di coltura: — 1° In primo luogo i gabellotti dei feudi e dei latifondi, colle subconcessioni ai metatieri, e l’avvicendamento agricolo di grano e pascolo, più l’anno di maggese, così come in tutta la prima zona che abbiamo studiata; — 2° i massarioti, o affittuari di poderi che misurano in media dai 50 ai 100 ettari: qui vi è una coltura mezzana e alquanto più intensiva che nei latifondi, con parziale soppressione dei pascoli naturali nella rotazione agricola; — 3° i piccoli affittuari di appezzamenti di terra che misurano in media dai tre agli otto ettari, e che in Sicilia si dicono spezzoni: qui non più pascolo, ma le fave e il lino si avvicendano col grano e coll’orzo. La durata di tutti quanti questi affitti è di 4 a 6 anni: soltanto le gabelle più grosse vanno talvolta fino ai 9 anni.

Dei gabellotti dei latifondi non importa tornar qui a parlare.

 

I massarioti.

I massarioti prendono il podere direttamente in affitto dal proprietario: essi sono possessori di animali, ordinariamente di dieci a venti bovi, e lavorano la terra per mezzo di giornalieri. In questi poderi mezzani si trovano parecchie stalle e se ne fabbricano delle nuove, e coll’aumento della stabulazione cresce l’uso del concime e migliora la coltura.

 

Fitto a spezzoni.

Il fitto a spezzoni, ossia il fitto in denaro di piccoli appezzamenti di terra ai contadini, vien fatto tanto direttamente dai proprietari che abitano nelle città vicine, quanto di seconda mano dagli affittuari di grandi possessi. Esso va sempre estendendosi, e si sostituisce alle metaterìe e alla grande coltura. È il sistema che rende di più ai proprietari, e che finora, in questa regione pareva pure promettere assai per il benessere dei contadini, che coll’assiduità del lavoro e colla maggiore specificazione delle colture secondo i diversi terreni, riescivano a pagare affitti altissimi, e ciononostante a guadagnare abbastanza per mantenersi a un livello più alto dei loro compagni giornalieri o metatieri. Siamo ora però in un momento di crise. L’eccessiva concorrenza che si son fatta i contadini tra loro, ha spinto in parecchi luoghi i canoni di affitto a un saggio eccessivo, e superiore a quanto nelle presenti condizioni generali possa essere la produzione media dei campi; onde dopo qualche cattivo raccolto, e dopo il grande ribasso avvenuto nei prezzi del seme di lino per la diminuzione della esportazione, cagionata dalla cresciuta concorrenza fattaci dalla Russia meridionale, molti piccoli affittuari si sono trovati ridotti a mal partito.

In ordine alla condizione sociale delle diverse classi, i piccoli affittuari vengono per ora prima dei giornalieri delle masserie mezzane, e questi stan meglio dei metatieri. In questi dintorni si nota generalmente che le case dei contadini hanno, oltre la stanza terrena, un tramezzo o soffitto sotto il tetto. Inoltre l’aspetto generale di quelle modeste abitazioni dimostra maggiore pulizia, e ciò specialmente nei paesi come Paceco, dove è più generale il fitto a spezzoni.

 

 

§ 34. — Censuari.

In qualche Comune troviamo numerosa la classe dei piccoli censuari, e questi o fanno i giornalieri, o cercano di prendere a fitto qualche altro appezzamento di terra, da coltivarsi insieme col proprio. Alcuni di questi censi sono abbastanza estesi per fornir lavoro durante tutto l’anno ad una famiglia.

 

Censuario di Canalotte.

Uno dei più grati ricordi che ci abbia lasciato il giro fatto in Sicilia, è quello della piacevole impressione che provammo in una conversazione avuta con un contadino censuario, che insieme con due braccianti lavorava in un suo campo situato presso Canalotte, piccola borgata del Comune di Monte San Giuliano, a circa dieci miglia da Trapani, sulla strada postale per Alcamo. I miei compagni ed io, avevamo lungo la strada ammirato sulle vicine colline un certo numero di casette rurali, all’aspetto abbastanza comode e pulite, situate in mezzo a campi coltivati evidentemente con cura assidua, e contornate di vigne e di qualche pianta d’olivo. Destatasi in noi la curiosità di esaminare più da vicino un fenomeno così insolito nell’Isola, e affatto sconosciuto in tutta la parte interna che avevamo percorsa fin allora, appena che si fu fermata la carrozza per far riposare i cavalli, dirigemmo i nostri passi verso tre contadini che stavano lavorando in un campo di lenticchie. S’impegnò la conversazione coi soliti presagi sulla stagione.

Uno dei contadini era il proprietario censuario di quel campo in cui lavorava, e gli altri erano braccianti ch’egli impiegava a giornata. Tanto il censuario che uno dei giornalieri erano stati soldati nell’esercito italiano. E qui diremo tra parentesi, che abbiamo potuto più volte ammirare in Sicilia quanta influenza educativa eserciti il servizio militare su quei contadini. Essi tornano colla mente più sveglia, meno ottenebrata dai pregiudizi e dalle superstizioni, e dimostrano col contegno più spigliato e franco, di aver acquistato la coscienza della propria dignità ed il sentimento dell’eguaglianza civile di tutte le classi. Ma torniamo ai nostri rustici interlocutori.

Il contadino censuario, vivamente commosso dall’offerta di tabacco per la pipa, che gli fece uno dei miei compagni, e mostrandosi come sorpreso che gente vestita civilmente si fermasse a chiacchierare con un suo pari, ci fu largo di cortesie e di spiegazioni intorno alla sua condizione, e a quella di molti altri della sua classe, che abitavano nei dintorni; mentre uno dei giornalieri, con pensiero gentile, andava a cogliere delle fave fresche per offrircele in dono.

Quei campi facevano parte di una estesa tenuta del Barone di X.... che l’aveva censita tutta circa venti anni fa, in tanti appezzamenti distinti, contro 21 onze (L. 267.75) da pagarsi subito, come gioia, per ogni salma di terra, e un canone annuo per salma, che variava secondo i campi dalle 4 onze, 22 tarì (L. 60.35), alle 5 onze, 8 tarì (L. 67.15). Parecchi altri signori pure censirono a date diverse i loro possessi in quei dintorni. Sui censuari gravava il pagamento dell’imposta fondiaria. Essi avevano costruito da sè tutte le casette, che si vedevano sparse lì presso. L’estensione degli appezzamenti a censo variava dai due ai sette ettari; ma i censuari prendevano inoltre a fitto qualche campo vicino, per estendere le loro coltivazioni. Ve ne sono alcuni più ricchi, che possedendo animali prendono a fitto come massarioti ampie estensioni di terra, e ce ne fu indicato uno là vicino, che possedeva una ventina di bovi e viveva in un caseggiato rurale di bella apparenza e munito di stalle. In ogni appezzamento vi è una vigna più o meno estesa.

Il nostro interlocutore aveva ereditato il suo censo dal padre, ed un fratello e un cugino suo avevano pure degli appezzamenti vicini. Le sue donne di casa non faticavano mai nei campi, ma badavano alle faccende domestiche, filavano e lavoravano al telaio: i bambini andavano alla scuola comunale. A quei due giornalieri che impiegava, dava 2 tarì (L. 0.85), il vitto e il vino: le relazioni tra essi e lui sembravano cordiali e come di eguale a eguale.

Egli ci disse che prenderebbe molto volentieri a censo qualche campo del latifondo vicino, che ora vien affittato tutto in un corpo, se il proprietario volesse consentire a censirlo; e dicendo ciò c’indicava l’opposto versante della vallata, che tutto nudo e privo di case faceva un contrasto spiccato con la campagna dove stavamo discorrendo.

Lasciammo quei dintorni con rincrescimento, per tornare ad ingolfarci nelle meste solitudini dei feudi, che ricominciando di là a poca distanza, si estendono per miglia e miglia fin presso Calatafimi.

 

 

§ 35. — La Conca d’Oro.

— La Conca d’Oro. — Chi è che non ha letto qualche descrizione delle impareggiabili bellezze dell’ampia arena che si eleva intorno al golfo di Palermo, la vegetazione lussureggiante della quale le ha meritato il nome di Conca d’Oro? — Certo la mia umile penna non si attenta a tanta impresa, degna soltanto d’un Goethe. Se quella vista rapisce in estasi il poeta e l’artista, non meno grata riesce all’agronomo e all’economista, che sentono narrare con stupore come ogni ettaro di terra vi renda migliaia di lire; come ingenti capitali si profondano ogni anno sul suolo; come l’opera diligente dell’uomo tragga l’acqua dalle viscere profonde della terra, per irrigare i giardini innumerevoli di agrumi.

Attenti però di non lasciarci invadere da troppo entusiasmo, e di non voler esaminare troppo da vicino tutte quelle maraviglie, che in qualche piacevole passeggiata non ci abbia a cogliere per isbaglio, malgrado le numerose stazioni di bersaglieri e le molte pattuglie, una fucilata di vendetta o di chiacchierìa([243]), tirata al padrone dall’ingenuo agricoltore appostato dietro il muro di cinta di uno di quegli ombreggiati giardini; oppure che qualche pittoresco furfante non ci obblighi a consegnargli l’orologio e il portafogli. Imperocchè è questo il regno della mafia, che tiene i principali suoi covi nelle città e nelle borgate che fanno corona a Palermo, nel distretto dei Colli, a Morreale, a Misilmeri, a Bagherìa, ecc. Per quanto riguarda l’agricoltura e le classi agricole, la mafia esercita la sua azione nella imposizione dei gabellotti e dei guardiani, ai proprietari dei giardini d’agrumi; e nelle associazioni camorristiche, come la società detta della posa, che riscuotono dazi sulla molitura, sui trasporti e sui magazzini dei grani.

La coltura principale di questa regione è indubitatamente quella degli agrumi, aranci o limoni, i quali in questa parte dell’Isola hanno sofferto molto meno della malattia della gomma, che nella parte orientale. L’irrigazione si fa con acqua di sorgente o più spesso con acqua tirata su da grandi profondità per mezzo delle norie o senie, che sono il bindolo moresco perfezionato, e che vengono mosse da bestie o da piccole macchine a vapore. Anche la coltura degli orti è importante, e si pratica molto sotto le piante giovani di agrumi, prima che queste diano frutto.

Il sistema generale di conduzione agricola è il fitto. Vi è qualche piccolo proprietario che lavora o sorveglia da sè il suo piccolo agrumeto, prendendo pure spesso in affitto qualche altro giardino, come pure evvi qualche proprietario maggiore che conduce il suo giardino per mezzo di un fattore o agente, aiutato da guardiani salariati; ma la regola in questa regione è di affittare tutto a un gabellotto, il quale da solo o coll’aiuto di guardiani, sorveglia i braccianti che prende a giornata per i lavori necessari di zappatura e d’irrigazione([244]). I giardini sono qui tutti circondati da alte mura, a difesa dai ladri, che pullulano da ogni lato. Il gabellotto, o il guardiano, abita una casetta posta nel giardino: i braccianti dimorano nelle città.

Si affittano anche i campi per uso di orti, come pure allo stesso uso, per sei o per otto anni, i giardini d’agrumi mentre gli alberi sono piccoli. L’agrume dà frutto dopo sei anni, ma molti usano prolungare l’affitto per otto anni, perchè l’ortolano colla speranza di quei due ultimi anni di frutto, curi maggiormente nei primi sei la pianticella giovane. Son proibite per patto espresso alcune colture che possono danneggiare gli agrumi.

È naturalmente molto numerosa la classe dei giornalieri, dalla quale la mafia toglie il maggior numero dei suoi strumenti. Si sono però visti all’occasione gli stessi gabellotti ed anche i proprietari, tirare da sè e per proprio conto una fucilata a un nemico. I salari sono relativamente alti, da L. 1.50 a 2 lire, secondo le stagioni; il massimo nel novembre; e il lavoro non manca. Nell’estate si paga una lira per la sola mezza giornata: nel giugno molti emigrano nell’interno per lavorare alle mèssi. Alla raccolta degli aranci e dei limoni, che comincia coll’ottobre, lavorano gli uomini e le donne. Un uomo vi guadagnerà L. 2, e una donna da L. 0.50 a L. 0.60. L’agricoltore vende il frutto sull’albero, ed è il compratore che pensa a farlo raccogliere, a incartarlo e a incassarlo per metterlo in commercio. Una gran quantità va esportata per NewYork.

I grandi aumenti verificatisi nei prezzi degli agrumi durante l’ultimo decennio, hanno creato delle rapide fortune nei proprietari e nei gabellotti della Conca d’Oro: — un ettaro a limoni può rendere più di 2500 lire annue al proprietario([245]). La proprietà è molto suddivisa e frastagliata, ma una gran parte però è posseduta da ricchi proprietari, e sono frequenti le ville e i palazzi dove vanno, o meglio dove andavano una volta a villeggiare nell’autunno i signori palermitani.

 

 

§ 36. — I contadini della Conca d’Oro.

La condizione economica del contadino e lavorante agricolo nei dintorni di Palermo non si può generalmente dire cattiva, benchè in alcuni luoghi come Misilmeri, Marinèo, ecc., si scorga esservi pure molta miseria, certamente quella condizione è superiore a quella dei contadini dell’interno. Non sarebbe quindi possibile trovare nella miseria della classe agricola la causa particolare delle condizioni morali eccezionalmente cattive di tutta la Conca d’Oro. E nemmeno si può ritenere per fondata nel fatto la supposizione del professor Villari([246]), che siano gli stessi gabellotti o proprietari dei giardini, che tengano a gabella i feudi dell’interno dell’Isola, donde trarrebbero dalle misere turbe dei lavoranti, gli strumenti abbrutiti al servizio delle proprie passioni. In Palermo, e specialmente nelle città dei dintorni, vivono, è vero, molti gabellotti di feudi, giacchè a poca distanza ricominciano i latifondi colle condizioni di coltura già descritte per l’interno; ma il numero di questi intermediari tra il proprietario e il contadino non è maggiore qui che in tutte le altre città di tutta la prima zona che abbiamo studiata; onde nel solo fatto della loro presenza nei pressi di Palermo non può trovarsi una spiegazione sufficiente per le condizioni speciali, che presenta la Conca d’Oro in fatto di mafia e di sicurezza pubblica. Del resto, anche il professor Villari ammette che altre cagioni possano avere specialmente influito per rendere più acuto il male in questa parte dell’Isola.

Noi riteniamo che le condizioni particolari ed eccezionali di Palermo e dei dintorni, abbiano origine specialmente in certe condizioni morali, che sono effetto di molteplici condizioni storiche; e di più, che la durata del male nel suo stadio acuto dipenda in buona parte dalla fiacchezza e dalla debolezza delle autorità. Con questo però non vogliamo asserire che le condizioni economiche e sociali dell’interno dell’Isola non influiscano in nulla su quelle morbose di Palermo. Tutt’altro. Crediamo che in quelle condizioni dell’interno si debba trovare storicamente la prima causa delle deplorevoli condizioni morali così dell’antica capitale e dei suoi dintorni, come del rimanente dell’Isola; che tuttora la mafia palermitana tragga alimento e sostegno dalle vicine condizioni delle provincie interne; e che se non si curano i mali di quelle, non si potrà tutto al più che reprimere dovunque con mano di ferro gli eccessi delittuosi della mafia, ma non estirpare la mala pianta dalle radici nè in Palermo, nè fuori. Il male è generale, e anche i sintomi non mancano in alcun luogo; ma le condizioni storiche particolari a Palermo, come antica capitale, centro del Governo e di tutte le amministrazioni, e luogo di dimora della nobiltà e dei grandi proprietari, hanno influito a maturare il foruncolo piuttosto qui che altrove, e a dargli una forma particolare di suppurazione.

Senza arrestarci dunque più oltre sulle condizioni agricole della Conca d’Oro, proseguiremo il nostro viaggio lungo la costa settentrionale dell’Isola.

 

 

§ 37. — Termini.

Non ci fermeremo nei folti oliveti che circondano il golfo di Termini, bastandoci di avvertire che mentre nei contratti agricoli non vi è nulla di nuovo da segnalare, troviamo però a Termini stessa un notevole progresso nella fabbricazione e nella depurazione dell’olio, di fronte al resto della Sicilia, dove si lasciano marcire le olive ammucchiate, coll’illusione di poterne così trarre maggior quantità d’olio, e col resultato certo di ottenere un prodotto grasso e fetido e di basso valore.

S’incontra pure sulla costa qualche contratto a migliorìa per le vigne, che qui si tengono a pergolato, mentre in tutto il resto della Sicilia sono tenute basse, con o senza sostegni. Questi contratti consistono nel concedere appezzamenti di terra contro un fitto in grano, per 15 o 16 anni a un contadino, che si obbliga di piantarci le viti, e gode del prodotto di queste fino alla scadenza del contratto; alla quale epoca tutto torna al proprietario, senza che questi debba alcun compenso per i miglioramenti trovati nel fondo.

 

 

§ 38. — Valle di Castelbuono.

Prima però di lasciare la provincia di Palermo, merita il conto di fare una gita nella fertile vallata di Castelbuono, che giace immediatamente sotto le Madonie, ed è divenuta tristamente reputata, per essere da circa quattordici anni il teatro delle gesta della banda brigantesca capitanata dal Rinaldi([247]). Qui oltre gli oliveti e le vigne, troviamo il centro maggiore della coltivazione del frassino mannifero, e specialmente della varietà amollèo, che produce una manna più bianca e di maggior prezzo.

 

Diritti promiscui.

Una particolarità singolare che si riscontra più specialmente in questa vallata, è la promiscuità dei diversi diritti di proprietà degli oliveti. Il suolo degli oliveti appartiene spesso a un proprietario, e gli alberi a uno o più altri. L’origine storica di questa singolarità è la seguente. Nei secoli scorsi il marchese di Geraci, feudatario di questa valle, allo scopo di arricchire la città e le terre, e per attirarvi maggiore popolazione, dava il permesso a chiunque di innestare gli oleastri, che qui crescono dappertutto spontanei, e di far così proprie le piante di olivo. Il Comune di San Mauro tolse la promiscuità nei suoi beni col censimento che ne fece nel 1861, nella quale occasione concedè a un censo minimo a ciascun proprietario di qualche pianta di olivo, il pezzo di terreno sottostante. Il censimento generale dei suoi beni fu imposto al Comune nel 1861 dal contegno minaccioso della popolazione. La quota assegnata a ciascun abitante fu di un tumolo di terra a L. 0.30 di censo. In moltissimi oliveti però dura tuttora la promiscuità dei diritti. Il possessore degli olivi ha diritto di innestare gli oleastri che nascono più vicino ai suoi alberi che a quelli degli altri. Morto però un olivo, il possessore non ha diritto di ripiantarlo; il diritto di piantare nuovi olivi non spetta che al proprietario del suolo.

 

Partecipazione.

Nei contratti agricoli che si usano nella vallata per le colture alberate, si ritrova più frequente l’uso della partecipazione del contadino al prodotto, che non in tutta quella parte della Sicilia, che abbiamo finora percorsa. Non vi è però vera forma di mezzadrìa secondo il tipo continentale, perchè mancano nella campagna le case rurali; perchè di anno in anno variano generalmente i patti che si fanno con ogni contadino, il quale contratta ogni volta per appezzamenti diversi, e non ha alcun legame stretto e continuato collo stesso podere; e perchè presso ogni proprietario e per ogni speciale coltura i patti hanno forma e natura diversa.

Sono parecchi i giardini di agrumi; alcuni tenuti dai proprietari a economia, altri gabellati come nel Palermitano. Il solo barone Turrisi, benemerito dell’agricoltura siciliana, ha introdotto per gli agrumi alcuni contratti di partecipazione della durata di tre, quattro o sei anni. Il padrone dà il concime, e il colono pensa alla coltura e all’irrigazione. Il raccolto, dopo prelevazione del 10 per cento pel proprietario, si divide a terzi, di cui due al proprietario e uno al colono. Lo stesso Barone ha introdotto un contratto speciale di appalto per la piantagione di nuovi agrumeti; contratto che dura dodici anni, e in cui pure per il secondo sessennio vi è partecipazione del colono alla metà del frutto.

Per gli olivi si usano i seguenti patti. Se al contadino ne è affidata la coltura per tutto l’anno, egli riceve un terzo del prodotto: altrimenti, per la sola raccolta, un quarto. Se si tratta di un contadino di fiducia del padrone si dividerà il raccolto effettivamente a 3/4 e 1/4; ma più comunemente si stima preventivamente il raccolto, e il contadino è tenuto a consegnare i tre quarti di quella quantità stimata. Si dànno pure le olive a gabella a speculatori estranei, facendo stimare il raccolto pendente al 31 ottobre: lo speculatore assicura al proprietario una quantità determinata di olive.

Pei vigneti si usa dai proprietari tanto di darli a mezzadrìa con varietà di patti speciali, quanto di tenerli a economia; questo secondo però sembra essere il caso più ordinario.

Pei frassineti i patti sono diversi e variano secondo i prezzi della manna sul mercato. Talvolta i patti col contadino mannaloro non comprendono che la sola raccolta della manna, che si fa per mezzo di numerose incisioni sul tronco e sui rami, dalle quali scorre l’umore che si raccoglie; altre volte invece comprendono, oltre la raccolta, l’intiera coltivazione dell’albero, cioè zappatura nell’inverno, sarchiatura in estate e nettatura delle ceppaie. I patti variano comunemente secondo i tempi, i luoghi e i proprietari, da una divisione eguale a metà quando il prezzo è basso, fino alla divisione, se il prezzo è elevato, a terzi, di cui due al padrone, il quale inoltre preleva spesso un’antiparte del tanto per cento. Sicchè il lavorante, malgrado i patti di partecipazione, non profitta punto degli aumenti di prezzo, perchè a prezzo più alto ha una partecipazione minore; onde avviene che ogniqualvolta l’elevazione del prezzo sia effetto di un misero raccolto, il mannaloro si vede diminuita la parte, non soltanto in proporzione della diminuzione totale della manna raccolta, ma anche di più, per la minore sua quota di partecipazione in quel raccolto; ossia, in altre parole, avrà un terzo di una quantità minore, invece che una metà di una quantità maggiore. Facciamo notare questa particolarità ad illustrazione del come — contrariamente all’opinione dei dilettanti di economia politica, — la partecipazione al prodotto come forma di retribuzione del lavoro, non sia per sè stessa di alcun vantaggio pel lavorante, ognivoltachè non riunisca quei caratteri speciali che la elevano a barriera contro la concorrenza del lavoro sul mercato.

Una delle cose che più colpiscono in Sicilia è quel continuo sentirsi dire dappertutto e da tutti, che i patti colonici, le mercedi, tutto insomma che importa alla condizione buona o cattiva dei contadini dipende assolutamente dalla bontà d’animo e dalla maggiore o minore generosità del proprietario. Ma non anticipiamo sul nostro ragionamento.

La terra che si possa seminare in mezzo agli olivi, o nei pochi appezzamenti non alberati, si concede comunemente ai contadini a terratico, ossia a fitto a grano.

 

 

§ 39. — Contratto misto.

Ci resta a dire di una forma speciale di contratto misto di fitto e di colonìa parziaria, che trovammo introdotta in una tenuta del barone Turrisi, situata in comunità di San Mauro. L’intiera proprietà misura circa 100 ettari, di cui quattro quinti coltivati a vigna, a olivi e ad amollèi; ed è stata divisa tra dieci famiglie di coloni, ad ognuna delle quali si è assegnata un’abitazione di due a tre stanze in alcuni caseggiati, che si trovano sparsi nella tenuta. I muli non si tengono nelle case, ma in apposite capanne di paglia.

Questi coloni dimorano stabilmente sul fondo, in cui trovano lavoro durante tutto l’anno. Per la terra nuda, e per quella seminativa sotto gli alberi, pagano un modico fitto in denaro. Per l’intiera coltura della vigna, e i lavori della vendemmia, il contadino riceve la metà del mosto. Per la completa coltura degli olivi, compresa la raccolta del frutto, egli riceve un terzo dell’olio, dovendo pagare soltanto L. 0.85 per ogni 8 tumoli di olive raccolte (ettolitri 1.36), a titolo di contribuzione nelle spese di fattura dell’olio. E finalmente per la coltura dell’amollèo e il raccolto della manna, riceve una metà di questa, previa prelevazione del 10 per cento per conto del proprietario. Questi tiene sul luogo un suo fattore o campiere, che sorveglia i coloni e le coltivazioni.

Le condizioni di questo contratto sono indubbiamente assai larghe, e vorremmo vederle adottate con eguale larghezza da molti proprietari; ma per ora non pare che l’esempio sia stato seguìto; forse anche per la mancanza assoluta di caseggiati rurali in mezzo ai campi. Ci riserviamo di esaminare, nella seconda parte di questo scritto, i caratteri economici che presenta questa forma di contratto, che ci ricorda le colonìe dell’alto Milanese e della Brianza.

 

 

§ 40. — Circondario di Patti.

Riprendiamo intanto il nostro cammino lungo la marina. Questa volta la tappa sarà più lunga, e per non stancare troppo il lettore con particolari di un’importanza secondaria, ci trasporteremo d’un salto fino nel tranquillo circondario di Patti.

Qui la produzione alberata, lungo tutta la zona media e inferiore della marina, è ricca e varia. Si comincia a vedere una certa quantità di gelsi, ma la coltura legnosa principale è quella degli oliveti, e dopo questa per ordine d’importanza vengono quelle degli agrumi e della vigna. Su tutta la costa verso Oriente troviamo i prati artificiali dell’erba sulla, che generalmente si alternano col grano con avvicendamento biennale, — e raramente quadriennale col grano, le fave, e l’orzo o l’avena. La sulla vien seminata quasi contemporaneamente col grano: quando questo poi si raccoglie rimane il prato della sulla, che non si rompe prima di un altro anno.

 

Metatieri salariati.

Con nostra sorpresa vediamo qui ricomparire i metatieri, e questa volta per le colture alberate; ma questo nome di metatiere non può attribuirsi ad altro, nel circondario di Patti, come nella piana di Milazzo, che a reminiscenze storiche, giacchè nella metaterìa di Patti non vi è alcun elemento di partecipazione del contadino al prodotto. Questo contratto di metaterìa che si usa soltanto per i terreni alberati, è il seguente:

Il proprietario, e in generale senza intermediario di gabellotto, dà al contadino la casa e la legna gratis, e per di più un piccolo orto contro alcuni regali di prodotti del medesimo. Il contadino sorveglia in genere la proprietà, e si obbliga a lavorare in tutto il corso dell’anno pel padrone, ogni volta che venga da lui richiesto, e per un salario costante di 2 tarì (L. 0.85) al giorno, più un quartuccio (8 1/2 decilitri) di vino e altrettanto di vinello. Nei giorni in cui non sia impiegato dal padrone, questi non gli deve nulla ed egli può lavorare per altri. Il padrone gli permette di coltivare per proprio conto le fave, in mezzo ai filari delle viti: la lavorazione del terreno è fatta dal padrone, ma il contadino mette il concime e paga alla raccolta 10 tarì (L. 4.25) per ogni migliaio di viti tra cui ha seminato le fave. Se in mezzo al terreno alberato vi è un pezzo di terreno nudo, il metatiere lo prende a terratico, come pure a terratico vengono concessi in generale ai contadini tutti i campi non alberati, per l’anno o gli anni della coltivazione a cereali o a baccelline.

Sopra una trentina di ettari di terreno alberato si troverà una sola famiglia di metatieri. In ogni proprietà un po’ estesa vi è inoltre un campiere, che per conto del padrone sorveglia i metatieri e le ciurme, ossia le brigate dei giornalieri. Il metatiere vien impiegato dal padrone per circa un cento giorni nell’anno. Alla donna del metatiere si paga circa L. 0.60 per giornata di lavoro, e ad un ragazzo da L. 0.20 a L. 0.40.

Del resto tutte le colture legnose vengono condotte a economia e coll’opera dei giornalieri, che sono la classe di molto la più numerosa. I fitti sono rari e non si fanno senonchè per una proprietà tutta intiera. Soltanto per gli agrumeti giovani e che ancora non dànno frutto, si usa concederli a baliaggio, ossia affittarli per uso d’ortaggio contro canone in denaro per sei a otto anni. Per le vigne alcuni singoli proprietari hanno introdotto la partecipazione del colono, che riceve secondo i casi, 1/3, 2/3 o anche metà del prodotto; ma queste mezzadrìe sono rare. Quanto agli olivi si concede talvolta al contadino la raccolta dei coccioni, ossia delle poche olive che restano sui rami dopo la battitura, rilasciandogli una metà dell’olio che se ne estrae.

 

Gelsi.

I gelsi sono coltivati per conto esclusivo del proprietario, il quale ne vende la foglia, se non vuol fare i bachi da seta. Se invece ne fa, ed ha bigattiera grande, ma il caso è raro, fa far tutto per conto suo, per mezzo di salariati. Se invece non ha bigattiera, dà ai contadini il seme, la foglia, i castelli; il contadino mette tutte le spese di allevamento, come sarebbero la raccolta delle foglie, il fuoco, ecc.; e il prodotto bozzoli va per un terzo a lui e due terzi al proprietario. Alcuni pochi dividono il prodotto a metà. Ad una famiglia di contadini si affidano due o tre once di seme, e con queste riesce a guadagnare da 80 a 100 lire, ma dando perciò naturalmente le giornate occorrenti. La speculazione dei bachi si fa soltanto da quei proprietari che possiedono gelsi.

I campi tenuti a prato artificiale si affittano annualmente contro canone in denaro.

 

Allevamento di animali.

Qui cominciamo a entrare nella zona dell’allevamento di bestiame bovino, affidato ai coloni. A Patti ancora gli esempi sono pochi, ma troviamo l’uso di questi allevamenti per ingrasso diventar sempre più generale, via via che procediamo nella direzione del Faro. Il padrone compra il vitello di sei o sette mesi; il metatiere lo mantiene con foraggi propri, pagando con annuo fitto in denaro la terra che produce il foraggio. Alla rivendita dell’animale ingrassato, ogni profitto o perdita sul primo prezzo di compra va in conto metà, e così pure l’eventuale morte dell’animale: in quest’ultimo caso però il padrone si rimborsa della metà che spetta al colono, soltanto coi guadagni che si faranno sopra i nuovi animali che gli affiderà. Questi allevamenti per ingrasso non si usano in quel di Patti che sulle terre dove si possa fare il prato. La stalla dei contadini è una stalla aperta e formata da una piccola tettoia, che appoggia da un lato alla casa, e riposa dall’altro su due pilastrini di mattoni. Chi non ha stalla, lega il vitello sotto un albero.

Il salario dei giornalieri nella marina da Santo Stefano a Patti, varia in media da L. 1.10 a L. 1.40. A Patti oscilla tra L. 0.85 e L. 1.10, più quasi 1 litro di vino, e mezzo di vinello. Per la mèsse si pagano 4 tarì (L. 1.70); per la vendemmia i salari non crescono.

La proprietà è poco divisa in alcuni Comuni; assai in altri. A Gioiosa, a Montagna, molti giornalieri possiedono oltre la casa, anche un piccolo appezzamento di terreno a censo; a Patti non posseggono nulla e debbono prendere la casa in affitto. Presso Patti troviamo pure qualche casa da metatieri in mezzo ai terreni alberati.

Le case dei contadini non sono generalmente migliori di quelle che abbiamo vedute altrove; in tutto, una stanza terrena e sotto i tegoli. Durante l’estate, qui come in gran parte della Sicilia, i contadini dormono fuori.

Vi è malaria soltanto in vicinanza dei corsi di acqua, e specialmente a causa della macerazione che vi si fa del lino dai contadini.

Il giornataro o giornaliero, sta in via generale peggio del metatiere. Questi riceve alcuni soccorsi dal padrone e anche, nominalmente, senza frutto quando sono dati in denaro. Per le anticipazioni però della semenza al terratichiere, il padrone riprende sul raccolto 5 tumoli per ogni 4 dati. I giornalieri sono indebitati e oppressi dall’usura; e la popolazione è piuttosto esuberante. Nel giugno emigrano da tutta questa costa per andare a far la mèsse nella piana di Catania; e nell’autunno dopo finita qua la vendemmia, tornano nel Catanese, per impiegarsi là pure nella vendemmia sulle colline, che vi si fa generalmente un po’ più tardi, e per i lavori di preparazione della terra nella Piana.

 

 

§41. — Castroreale e Barcellona.

Continuando ora il nostro cammino verso Oriente, ci tratterremo alquanto nei ricchi Comuni di Castroreale e Barcellona. Sopra meno di 8000 ettari di territorio, Castroreale ne conta 1500 piantati a oliveto, 1100 a vigneto tra collina e pianura, e 600 ad agrumeto; e Barcellona sopra circa 5000 ettari di territorio, 890 a oliveto, 1200 a vigneto e 500 ad agrumeto. Per dare un’idea della ricchezza che denotano queste cifre, basterà accennare come il prezzo medio annuo di fitto di un aranceto, sia di 500 lire in collina e 1400 lire in pianura, e che quello di un giardino di limoni giunga talvolta fino al doppio([248]).

Nella parte montana di questi Comuni ritroviamo i pascoli naturali, i feudi dati a gabella e i terratici dei villani.

 

Colonìe parziarie.

Nei fondi invece seminativi, situati presso Castroreale, si usa una forma di colonìa parziaria, che si designa pure con quella parola universale di metaterìa. Sui fondi più vicini all’abitato esiste pure qualche casa rurale; ma la maggior parte però di quei coloni abita nella città o nelle borgate sparse per il territorio. In queste metaterìe il padrone anticipa la semenza, ch’egli si ripiglia poi sulla massa del raccolto, e prima della divisione; la quale quindi si fa a metà. Nelle terre migliori il colono o metatiere deve render tutta la semenza sulla parte sua. Queste colonìe sono stabili, nel senso che la stessa famiglia seguita talvolta per anni a coltivare lo stesso podere, poichè si cerca di avere contemporaneamente in ogni podere le tre colture che si avvicendano: grano, sulla e fave. Un podere misurerà in media una salma (ettari 1.746), e il colono avrà uno o due vitelli da allevare. Si usa pure di concedere i terreni seminativi a terratico, e ciò specialmente verso la pianura, ossia verso la marina.

Per le colture alberate si osserva pure un fenomeno analogo. In collina, tanto per le vigne come per gli oliveti, si trova abbastanza comune il sistema della partecipazione del contadino al prodotto, ammenochè si tratti di oliveti o di vigneti di molta estensione; ma scendendo verso la pianura, la partecipazione del contadino diventa sempre più rara, e più generale invece il sistema della coltivazione condotta dal proprietario per proprio conto a economia. Ciò dipende probabilmente dal prodotto relativamente molto maggiore, che dànno queste colture in pianura.

A Castroreale le vigne si dànno assai comunemente a coltivare a colonìa parziaria, lasciando al contadino due quinti del prodotto e talvolta anche la metà. Verso Barcellona invece le vigne sono tutte tenute a economia e con salariati a giornata, fuorchè quando si tratti di piccoli appezzamenti staccati, chè allora per evitare la eccessiva spesa di custodia, si concedono a colonìa, dando al colono un terzo o tutto al più due quinti del prodotto. In tutti questi casi di mezzadrìa per le vigne le spese di zolfo e di canne, come pure quelle per la fattura del vino, sono divise proporzionalmente alle quote di divisione del prodotto. Se il padrone possiede i vasi necessari, li fornisce per lo più senza correspettivo: se no si prendono a fitto, e il contadino paga la sua quota. Se tra i filari delle viti si semina frumento, ceci, fave o altro, seme e prodotto sono a conto metà tra padrone e contadino.

Vi è gran numero di alberi di fico, piantati in mezzo agli olivi o alle viti: il contadino li coltiva, coglie e dissecca i fichi, e riceve in compenso un terzo di questi. A Barcellona si concede al contadino una partecipazione nel prodotto degli alberi da frutta, soltanto per quelle piante che siano in una vigna ch’egli coltivi a colonìa.

Gli oliveti a Castroreale generalmente si dànno a coltivare al contadino contro un quarto dell’olio, dovendo egli raccogliere le olive e trasportarle fino al frantoio, secondo la stima fatta da perito del frutto pendente. Se la quantità che consegna è meno della stima, tanto peggio pel contadino, poichè il padrone si assicura prima di tutto dei suoi tre quarti della quantità stimata. Negli oliveti maggiori tenuti a economia, non si dà al contadino che un regalo a fin d’anno per la guardia fatta; il che si usa pure per gli agrumeti, che sono tutti tenuti a economia tanto là che a Barcellona, meno qualche raro caso di partecipazione del contadino guardiano e coltivatore, a un ottavo del prodotto. A Barcellona gli oliveti si coltivano a economia, meno i piccoli appezzamenti staccati.

Sotto gli agrumeti giovani si affitta il terreno per piantarvi ortaglie. Quando l’agrumeto è vecchio e folto, non si mette più nulla sotto. Per uso d’ortaglie si affittano pure in denaro, i terreni irrigui non alberati, come pure i campi a prato artificiale.

Qui sono molti i contratti di allevamento di bestiame, sul tipo di quelli che or ora abbiamo descritti per Patti. A Barcellona sono per lo più speculatori estranei al fondo, che affidano ai contadini gli animali da allevare. I patti di divisione dei guadagni e delle perdite sono molto vari: talvolta il contadino c’entra per tre quinti, altre volte per metà, oppure anche per un solo terzo. Oltrechè vitelli, si dànno pure ad allevare ai contadini, asini, muli e maiali. Le stalle qui sono come quelle di Patti. Il concime deve essere sempre impiegato nel fondo dove è tenuto l’animale.

I salari d’inverno sono di circa L. 1.30 più un litro di vino; per la zappatura però delle vigne, di primavera e d’estate, si paga poco più della metà di questa somma come mezza giornata, ma non si lavora che dall’alba a mezzogiorno. Del resto parecchi giornalieri hanno in proprio a censo, un pezzetto di terra di una diecina di are.

 

 

§ 42. — Condizioni generali.

A Castroreale nel 1871 furono divisi e concessi a censo parecchi feudi comunali, in 150 lotti che si distribuirono ai poveri ed ai reduci dalle patrie battaglie, a norma respettivamente del decreto e relative istruzioni del dì 11 dicembre 1841, e dei decreti della prodittatura Mordini. Però con fitti e contratti simulati, qui come nelle quotizzazioni comunali dell’intiera Sicilia, tutti i lotti sono andati in mano dei ricchi proprietari. Quanto poi ai terreni censiti dell’asse ecclesiastico, non vi è stato in alcun luogo nemmen bisogno di simulazioni, e in tutta quanta l’Isola, tutte le terre censite sono toccate ai ricchi proprietari e capitalisti: ma di questo censimento dovremo tornare a parlare più estesamente in seguito. Vi è pure per queste parti un gran numero di censi antichi di terre baronali, di cui alcuni sono stati affrancati dopo la nuova legislazione.

 

Case.

Le case dei contadini sono qui forse in generale un poco più ampie, ma si tratta sempre di una sola stanza, e per lo più sotto i tegoli. Però qui si vede più spesso una finestra a lato della porta, e i contadini sembrano tener di più alla luce e alla ventilazione, poichè molte case hanno pure una porta nella parete di fondo. Le case più grandi hanno anche una soffitta. L’unica stanza della casa, quando è un po’ spaziosa, vien divisa dalla famiglia in tanti piccoli scompartimenti separati, mediante stoie o panni distesi.

Tanto a Castroreale che a Barcellona vi sono molti villaggi, borgate e casali sparsi nel territorio, ed i contadini avendo quivi le loro case non si trovano generalmente lontani dai fondi su cui lavorano. Dal giugno fino alla vendemmia, i contadini stanno giorno e notte all’aperto in campagna a custodia del raccolto, e si riparano sotto tettoie provvisorie formate di canne.

 

Donne.

In tutta la zona a colture arboree della provincia di Messina, vediamo le donne lavorare pure in campagna, e non solo alla raccolta delle olive e delle frutta, e alla vendemmia, ma anche nei lavori minori dei campi. Esse aiutano in genere gli uomini di casa nella coltivazione del podere, e s’impiegano pure fuori a giornata.

 

Condizioni generali.

I contadini sono in generale poveri e indebitati ed abbisognano di soccorsi, che ricevono in denaro o in natura dal padrone o da terzi. Restituiscono quasi sempre col genere che è la loro produzione principale. Si stima il genere prestato al momento dell’imprestito, e si riprende un prezzo eguale di quello che vien restituito. Il modo in cui si fanno queste stime dipende tutto dalla moralità del padrone. Chi prende frutti e chi no; ma vi è qui una qualche odiosità annessa al prenderli; onde i più, se li prendono, lo fanno col mezzo indiretto delle valutazioni elastiche dei generi prestati e di quelli ripresi in pagamento. Quando il contadino deve ricorrere a terzi resta naturalmente molto più angariato.

I proprietarii medii e piccoli stanno in generale nelle città vicine ai loro terreni, o tutto al più a Messina, ma visitano abbastanza spesso i loro poderi, passandovi pure qualche mese dell’autunno, se vi possiedono una qualche casetta o villetta. Non è però lo stesso per i più ricchi proprietari di tenute estese, i quali abitano lontano, a Messina, a Palermo, o fuori dell’Isola, e non vengono quasi mai sulle loro terre.

 

 

§ 43. — Milazzo.

Se fin qui ci siamo estesi assai nella enumerazione dei patti per ogni singola coltura, l’abbiamo fatto perchè il lettore possa meglio rendersi ragione della grande varietà e complicazione dei contratti colonici in queste parti, secondo la varietà delle colture e quella pure degli umori padronali. Saremo d’ora innanzi più brevi per non confondere con troppi particolari, giacchè non ci proponiamo di far qui una vera e propria inchiesta agricola, ma di dare soltanto un quadro delle condizioni della classe rurale in Sicilia, e dei vari tipi di contratti agricoli che vi si praticano. Molte delle cose dette per Patti, Castroreale, Barcellona, son vere anche pel circondario di Messina in genere, e per la costa orientale fino a Taormina. Non accenneremo quindi che a quelle particolarità locali più spiccate, di cui non abbiamo discorso fin qui.

Cominciamo dal territorio di Milazzo. Qui troviamo più particolarmente nelle vigne una nuova specie della gran famiglia dei metatieri, specie che riunisce i caratteri di quella vista a Patti, e dell’altra dei vigneri di Marsala. Di questi contratti a baliaggio ve ne sono pure esempi a Castroreale e a Barcellona; ma là sono eccezionali, mentre a Milazzo diventano la regola. Una metà circa del territorio di Milazzo è piantata a oliveti, due quinti a vigneti, e il resto a giardini d’agrumi.

Vigne. — Vi si tiene un cosiddetto metatiere, cui si dà la sola casa, e 12 tarì (L. 5.10) all’anno per migliaio di viti, e a cui si paga la giornata ogni volta che s’impiega, dandogli in tutto e durante tutto l’anno, circa una lira, che è pure il prezzo della piazza pei giornalieri estranei. Contro quelle lire 5.10 a migliaio di viti, il colono deve fare alla vite tutti i lavori minori, come potatura, ecc., non compresi quelli della prima zappatura, dell’aratura, della seconda zappatura e della vendemmia. Tra i filari delle viti il metatiere suol coltivare fave, o piselli, o qualche legume, e paga in correspettivo al padrone 1 tumolo (17 litri) del prodotto, per ogni migliaio di viti tra cui ha seminato.

Quasi in ogni vigna havvi la casa pel metatiere, e anche gli attrezzi per fare il vino. Queste casette sono generalmente un po’ migliori del solito, e più ampie; hanno talvolta una stanza al primo piano, e una stanza per i vasi del vino. Moltissime case hanno annessa una stalletta aperta; e alcune anche una stalla chiusa. Ci sono pure nel territorio diverse borgate in cui i giornalieri affittano una casa per 20 a 30 lire l’anno: essi vanno a lavorare a giornata specialmente nelle vigne.

Quando non vi è lavoro nelle vigne, quasi il solo guadagno dei contadini è l’allevamento dei vitelli: il padrone compra l’animale e lo consegna a metà guadagno e perdita al contadino, il quale provvede tutto il foraggio; il concime resta al padrone. Questi patti di allevamento non si fanno soltanto coi metatieri delle vigne, ma anche con quelli degli oliveti e con estranei.

Il vino della piana è forte, e di ottimo sapore se fatto con qualche cura: si vende ora in media a 17 lire la salma di circa 80 litri, e vien esportato quasi tutto per Marsiglia su bastimenti francesi; là serve per conciare altri vini.

Olivi e agrumeti. — Vi si tengono i guardiani che si chiamano pure metatieri; ma la coltivazione è tutta a economia. Vi è qualche proprietario che dà ai contadini il raccolto delle olive a mezzo quarto, cioè contro un ottavo del prodotto. I patti per la terra coltivata sotto gli olivi sono molto vari secondo i terreni e la più o meno ombra: talvolta si dànno a fitto, altre volte il contadino ha la metà o il terzo del prodotto. Il terreno sotto gli agrumi si affitta spesso per coltura di ortaggio al contadino per 25 a 30 lire il tumolo (are 10.91), col diritto all’uso dell’acqua della noria, ma con esclusione di certe colture.

Malgrado la malattia della gomma, che ha fatto strazio degli agrumeti in tutto il Messinese, si continua dappertutto a piantare nuovi giardini, e nella piana di Milazzo si vanno sostituendo alle vigne. Anche gli oliveti qui sono relativamente moderni ed hanno preso il posto delle vigne.

 

 

§ 44. — Messina e la Costa Orientale.

Percorriamo ora rapidamente il circondario di Messina e la costa orientale di quello di Castroreale, non occupiamoci della parte montana, coltivata a grano e a pascolo, perchè già ne abbiamo parlato nei primi capitoli di questo lavoro. Ritroviamo qui tutta la varietà dei contratti, che abbiamo studiati nei diversi luoghi visitati; qui coltura a economia nelle varie sue forme, qui fitto specialmente piccolo e per tre anni, qui terratici, qui mezzadrìe; ma quest’ultima è la forma che prevale più generalmente. Essa riunisce qui, come già abbiamo cominciato a vedere a Castroreale, molti dei caratteri della mezzadrìa toscana. Vi notiamo però alcune varietà da luogo a luogo, e nei patti, e più nella estensione dei poderi, che a misura che si scende lungo la costa orientale, vanno prima ingrandendo di fronte a quelli della costa settentrionale, e poi di nuovo rimpicciolendosi in modo, che sotto Savoca vediamo uno stesso contadino pigliarne a coltivare insieme parecchi. Questo fatto dipende più che da estrema divisione delle proprietà, dall’eccessivo frastagliamento di queste, male gravissimo per tutti, e per cui troviamo tenute assai estese che son composte di un gran numero di piccoli appezzamenti staccati. Di qui perdita di tempo pel contadino, difficoltà di sorveglianza del padrone sul contadino e del contadino sul podere, e conseguente facilità di furti campestri, che in tutta la provincia sono diventati una vera piaga dell’agricoltura.

Nelle vicinanze di Messina e nel lato settentrionale del circondario, ogni podere ha per lo più la casa rurale annessa, e nelle borgate e paesi stanno i giornalieri, che qui non sono molto numerosi. Lungo la costa orientale si trova più di rado il podere a mezzadrìa il quale abbia la casa annessa, e in generale il contadino ha o prende a fitto per proprio conto una casetta nel villaggio, nella borgata o nella città. In questa costa bellissima per l’artista non meno che per l’agronomo, vediamo miracoli di lavoro umano, nelle terrazze che rette da muri a secco sostengono gli alberi di olivo sulle ripide falde dei monti. Nelle colline più basse verdeggia la vite, e sulla marina si coltiva l’agrume.

Il patto generale per i terreni sia nudi, sia sotto gli alberi, è quello della divisione del raccolto a metà; però nelle terre buone il contadino deve dare sulla sua parte tutta la semenza, e la paglia inoltre resta tutta al padrone. Ai poderi non alberati non va mai annessa la casa rurale. Presso Messina si usa poi per il grano, i ceci, i piselli, ecc., che si coltivano sotto gli olivi, di far stimare la quantità del raccolto in piede e appena maturo da un perito, il quale assegna al padrone la quantità che dovrà avere per sua metà, e questa quantità il contadino è obbligato a consegnare.

I patti di divisione per le colture legnose variano. Per il prodotto degli olivi si divide ordinariamente a quarti, prendendosi il padrone i tre quarti. Egli deve dare il concime per gli alberi. Il contadino è tenuto a fare una zappatura annua intorno all’albero, al raccolto delle olive, e alle spese di molitura; il padrone però prestando il trappèto (frantoio). Talvolta il contadino riceve un terzo del prodotto, rimanendo a suo carico anche la concimazione delle piante. La divisione si fa però sempre nel modo seguente: quando le olive sono mature, e prima del raccolto, viene il perito, che riceve uno stipendio annuo dal proprietario, e stima il raccolto a tante macine di olive (1 macina = ettolit. 2.75). Secondo i diversi luoghi si calcola che ogni macina di olive può dare una certa quantità d’olio, che si misura in tanti gafisi per macina: verso Messina, una macina dà da 4 a 5 gafisi d’olio. Il perito quindi attribuisce al proprietario come parte padronale, i tre quarti o due terzi che siano, di questo prodotto precalcolato di olio. Il contadino raccoglie e porta le olive al frantoio del proprietario, e questi per mezzo del suo soprastante ritira come prima cosa quel numero di gafisi d’olio a lui assegnato, senza imbarazzarsi se poi resta veramente un quarto o meno al contadino. Tutto qui dipende dunque dalla capacità e dalla moralità dei periti, e pur troppo se ne trovano che per guadagno favoriscono scientemente qualche proprietario meno scrupoloso. I contadini si difendono rubacchiando dove possono. Per la sola raccolta, lungo la costa orientale da Alì in giù, dove per lo più si coltivano gli olivi a economia con giornalieri, si calcola che il contadino guadagni un quinto del prodotto.

Lo stesso sistema delle stime si usa per il prodotto degli alberi da frutta, che generalmente vien diviso a metà.

Il prodotto della vigna si divide comunemente a metà. Nei terreni più ricchi a 2/5 al contadino e 3/5 al proprietario, o anche 1/3 e 2/3. Si divide sempre il mosto. Molti proprietari però preferiscono tenere i vigneti a economia, coi guardiani. Così pure a economia si coltivano sempre gli agrumi: al guardiano si dà casa e legna, e alla fine dell’anno un regalo in denari, vario secondo il prodotto. Il prodotto del terreno sotto gli agrumi, coltivato a ortaglie dal guardiano, si divide spesso a metà.

Per la foglia del gelso e la divisione dei bozzoli, si usano generalmente le convenzioni che abbiamo già riportate per Patti. Dopo la malattia nei bachi questi industria già fiorente in Sicilia ha perso moltissimo della sua importanza, essendo stati pure abbattuti dai proprietari moltissimi alberi di gelso. Però da qualche tempo accenna a rifiorire. Anche la coltura del tabacco, dopo l’imposizione della tassa, è diminuita di molto, e i prezzi che offre la Regìa ai coltivatori non sono tali da farla rifiorire.

Dove vi è mezzadrìa i proprietari caricano sul mezzadro il pagamento di una quota proporzionale della imposta fondiaria.

È molto generale la pratica di dare vitelli ad allevare ai contadini, sia dal proprietario del fondo, sia da estranei. Le convenzioni sono quelle che già dicemmo per Patti e per Castroreale. Generalmente il proprietario prende la metà del guadagno se l’animale fu allevato sopra un podere suo, e invece soli due quinti se sopra un podere altrui o nel borgo.

Le case coloniche, meno quelle di cui dicemmo a Milazzo, sono generalmente ristrette e misere, e in cattiva condizione; vi è in generale una piccola finestra. Non sono peggio però di quelle dell’interno della Sicilia. Anzi, forse l’unica stanza di cui si compongono è un po’ più grande e ariosa di quelle che si trovano nella prima zona da noi descritta; ma è pure sotto i tegoli e insufficiente per ogni verso.

I mezzadri mutano generalmente assai spesso di podere in podere; non però egualmente in tutte le zone; e presso alcuni proprietari se ne trovano che restano fissi per diecine di anni, e talvolta anche famiglie che sono sul medesimo podere da più generazioni: ma questo caso non è frequente.

La classe dei giornalieri, come abbiamo detto, non è molto numerosa; i salari in media variano secondo le località da L. 1.25 a L. 1.50; e pei lavori di mèsse da L. 2 a L. 3. Vi è emigrazione soltanto temporanea e specialmente verso il Catanese, per la raccolta di agrumi, per la mietitura e per la vendemmia: alcuni vanno anche in Calabria per la raccolta degli agrumi e la pota degli olivi; pochissimi emigrano per paesi più lontani. La donna, lavorando a giornata, guadagna in media da L. 0.50 a L. 0.60.

Vi sono, specialmente nella zona orientale, moltissimi piccoli censuari, di cui alcuni contadini; sono per la maggior parte censi antichi di terre baronali. Alcuni sono stati affrancati, ma non sono molti; perchè, come già dicemmo, in generale dopo la nuova legislazione i proprietari in Sicilia che avevano qualche denaro libero, hanno preferito di acquistare nuove terre demaniali o ecclesiastiche, anzichè affrancare i terreni che già possedevano.

Sono qui rari gli affitti delle proprietà, ammenochè l’affitto sia imposto dalla legge; i proprietari o i loro agenti trattano direttamente coi contadini. Questi non si può dire che godano di una condizione prospera; non sono economi nè previdenti, e abbisognano molto spesso di soccorsi. Al mezzadro o al guardiano li appresta generalmente il padrone; gli altri debbono cadere sotto gli artigli degli usurai di campagna. Apparentemente pei soccorsi amministrati al colono dal padrone, non si prende frutto, ma, come già accennammo altra volta, nel fatto la cosa varia molto secondo la generosità d’animo dei proprietari; e si può ritenere, senza tèma di errare, che come regola un frutto vien preso effettivamente colla valutazione che fa il proprietario, del prezzo del genere che dà come soccorso, quando questo sia dato in natura, e tanto in questo caso come nell’altro più raro di soccorso in denaro, colla valutazione ch’egli fa del prodotto che riprende al raccolto, a saldo del suo credito. E non si può nemmeno dire che, salvo numerose ed onorevoli eccezioni, i proprietari non siano pur troppo sempre pronti a gravare quanto più possono sulla classe dei contadini, fenomeno di cui non è da maravigliarsi come fosse strano o insolito, giacchè lo ritroviamo costantemente e dappertutto, in Italia e fuori.

 

 

§ 45. — Colonie perpetue.

Ci resta ora a parlare di una forma particolare di censo a mezzadrìa, conosciuta sotto il nome di colonìa perpetua, che una volta era molto generale nella provincia di Messina, specialmente nei beni ecclesiastici, e di cui si trovano tuttora moltissimi esempi nelle proprietà dei privati sulla costa orientale da Messina a Giardini.

I monasteri e le chiese, e anche molti baroni, usavano in passato concedere in perpetuo ai villani le terre incolte divise in tanti appezzamenti, col patto che pagassero anno per anno un canone proporzionale ai prodotti di qualunque natura, che fossero per ricavare da quella terra: la quota da pagare era quasi sempre della metà dei raccolti, alcune volte del terzo per alcuni determinati prodotti. Queste colonìe perpetue sono insomma veri censi perpetui a canone in natura, variabile e proporzionale all’annuo prodotto; e sono quindi regolate dalle leggi relative all’enfiteusi, così per la devoluzione al proprietario in caso di non eseguito pagamento del canone per il corso di due anni, come pel diritto all’inamovibilità del colono. Questi coloni perpetui trovandosi quasi nella condizione di proprietari, migliorarono di molto i loro poderi, piantandovi olivi, viti, ecc.

Dopo la legge del 1862 di censimento dei beni ecclesiastici, e quella generale sulle affrancazioni del 24 gennaio 1864, quei canoni variabili in natura si poterono oltrechè affrancare, anche trasformare in canoni fissi in denaro, da stabilirsi dietro domanda del colono e per mezzo di perito, sulle raccolte di un decennio, o sul fitto del decennio quando fitto vi fosse stato; e di un ventennio dopo la legge del 28 luglio 1867. Queste conversioni si facevano per le colonìe perpetue nei beni ecclesiastici, dalle Commissioni circondariali enfiteutiche stabilite col regolamento del 26 marzo 1863, per l’applicazione della legge di censimento del 10 agosto 1862.

Quasi tutte le colonìe perpetue sui beni già ecclesiastici sono ora sparite, sia su vari latifondi per effetto della conversione chiesta dai coloni, sia per alienazione fatta dal Demanio del dominio diretto. Il Corleo, soprintendente delle Commissioni enfiteutiche della Sicilia([249]), ci assicura che per parte della Soprintendenza tutto si fece, perchè i coloni perpetui non fossero defraudati nei loro diritti; e lo crediamo facilmente, ma sembra però, che, sia per errore o per altro, molti di questi dominii diretti siano stati venduti, e talvolta, per connivenza dei periti coi compratori, a prezzi bassissimi ed inferiori al giusto. Parecchi poi di questi acquirenti del dominio diretto hanno ottenuto dai coloni la cessione del loro diritto livellare, contro pagamento di una tenuissima somma, ingannandoli colla lusinga che sarebbero rimasti egualmente sul podere, e cogli stessi patti di divisione, come coloni amovibili o mezzadri. Altri proprietari, a quanto sembra, hanno acquistato nello stesso modo dai coloni perpetui il loro diritto livellare, e quindi l’hanno convertito in canone fisso, affrancandolo o no; e così sono rimasti a buon patto, proprietari dei poderi.

A ogni modo restano ancora moltissime di tali colonìe perpetue sopra beni di particolari. Quasi tutti i terreni a colonìa perpetua sono stati beneficati a tutta spesa dei coloni, e moltissimi contengono pure la casetta stata costruita dagli stessi coloni. Disgraziatamente tutte queste colonìe sono di piccoli appezzamenti di terra, che giungono raramente fino a un ettaro, e non bastano a dar lavoro e sostentamento ad una famiglia.

 

 

§ 46. — Da Linguaglossa ad Acireale.

Le falde dell’Etna da Linguaglossa fin verso Acireale, non ci presentano novità in fatto di contratti. La maggior parte del terreno nella zona media e inferiore è piantata a vigna; il resto a oliveti e agrumeti. I pochi terreni seminativi si affittano per lo più in denaro per tre anni, oppure anche a terratico: alcune mezzadrìe, ma non frequenti.

Vigne, oliveti e agrumeti tenuti per lo più a economia con massari ossia guardiani, di cui molti risiedono sul fondo. Il massaro delle vigne comunemente le coltiva a estaglio, ossia a tanto il migliaio. Numerosi i giornalieri, con salario in media di L. 1.25, più il vino che qui ha un valore minimo. La condizione dei massari è un po’ migliore di quella dei giornalieri. Per la vendemmia, immigrazione di uomini, donne e ragazzi dalla provincia di Messina. Malaria presso la marina. La popolazione rurale abita in gran parte nei villaggi, casali e borgate, che si trovano sparsi in gran numero nelle campagne.

I proprietari sono soliti passare qualche mese in campagna e specialmente in tempo di vendemmia: questa permanenza dei proprietari sui loro poderi, giova ai loro interessi e all’agricoltura, e contribuisce pure a rendere più facili le relazioni delle diverse classi; ma nuoce sensibilmente alla costumatezza delle ragazze dei massari.

Si trovano parecchi contratti a migliorìa per piantagione di vigne, forma di contratto di cui parleremo or ora; ma qui non usa forse tanto farli direttamente coi contadini, quanto con intraprenditori agiati, che poi coltivano col mezzo di giornalieri.

 

 

§ 47. — Da Acireale a Catania e Adernò.

Passiamo ora all’ultima tappa che ci resta da percorrere, per finire la seconda zona: essa comprende le falde superiori dell’Etna e le colline sottoposte, e tutta la regione racchiusa fra le quattro città di Acireale, Catania, Paternò e Adernò.

 

Il Bosco.

Nella regione più alta detta il Bosco la proprietà è assai suddivisa, e ogni contadino ha per lo più, sia a censo, sia in proprietà libera, un piccolo appezzamento in proprio, che coltiva colle proprie braccia. Qui è comune la mezzadrìa per le terre seminative, e anche talvolta per le vigne. La popolazione vive sparsa sui poderi o nei numerosi casali.

 

Regione mezzana.

Nella regione alquanto più bassa e che costeggia colla Piana, i poderi sono più grandi; si affittano i terreni irrigui e talvolta anche quelli asciutti seminativi; e le vigne si coltivano a economia o più spesso a inquilinaggio, forma di contratto di cui diremo or ora. Però vi si ritrova assai di sovente anche la mezzadrìa per i prodotti del suolo, esclusi quelli delle colture legnose. Sono qui pure meno numerosi i caseggiati rurali nei poderi, e la malaria domina nell’estate. I giornalieri, che vanno specialmente a lavorare nella Piana, abitano quasi tutti nella zona del Bosco. La coltura principale di tutta la zona mezzana di cui parliamo è quella della vigna: subito dopo per importanza viene quella degli agrumi che va ogni giorno estendendosi; indi gli oliveti; e in linea secondaria i mandorli e gli alberi da frutta.

Nel territorio di Catania si usa gabellare i giardini di agrumi per sei o otto anni; gli affittuari li coltivano poi col mezzo di giornalieri. Come regola però, nella regione di cui ora ci occupiamo, i proprietari coltivano gli agrumeti a economia. Per la custodia del frutto pendente negli agrumeti e nelle vigne si prendono guardiani a giornata.

In tutti poi i poderi alberati condotti a economia, il proprietario tiene un massaro o castaldo, il quale custodisce il fondo, lo lavora pure da sè, se piccolo, e in ogni caso sorveglia i lavoranti presi a giornata, e la recollezione dei frutti. A un massaro si darà, a mo’ d’esempio, casa e legna, e al mese 3 onze (L. 38.25), 1 tumolo (17 litri) di grano, e 2 quartari (1 quartaro = 17 litri) di vino. Questi stipendi del resto variano molto secondo l’estensione e l’importanza dei fondi. Nelle vigne spesso il massaro non ha stipendio, ma si assume tutta la coltura della vigna a estaglio, ossia a tante lire per ogni mille viti.

Per gli olivi e i mandorli, che gli uni e gli altri si coltivano sempre per conto padronale, si suole vendere al solito il raccolto pendente a stima di perito, contro tanti gafisi d’olio chiaro da darsi per ogni macina di olive stimata. Questi contratti si fanno con speculatori, oppure con associazioni di villani, a cui gli speculatori prestano, con varie ingegnose combinazioni, a un frutto sempre superiore del 10% e che va sino al 30%, il denaro occorrente. Si calcola comunemente che il raccoglitore abbia per sua parte un quinto del valore totale dell’olio. Il frantoio deve essere fornito dal proprietario degli olivi.

Nella regione del Bosco e qualche volta, ma meno spesso, in quella mezzana, i proprietari affidano ai contadini l’allevamento di vitelli ed altri animali, e cogli stessi patti che abbiamo veduto nel circondario di Messina. In questi casi l’allevamento di un animale è sempre messo tra i patti colonici, e contato come una parte del salario.

I patti di mezzadrìa per i campi nudi seminativi variano molto secondo i terreni e specialmente in quanto alla contribuzione del proprietario al seme; si usa pure la mezzadrìa per la coltivazione della terra sotto gli olivi.

Le contadine allevano i bachi da seta affidati loro dal padrone in conto sociale, o talvolta ne fanno anche una industria propria, comprando le foglie di gelso a stima sull’albero, oppure a sacchi. Dopo l’infierire però della malattia nei bachi, l’industria dell’allevamento si è molto ristretta.

Il salario dei giornalieri varia ordinariamente da L. 1.25 a L. 1.70, e in tempo di mèsse in media L. 2.50 a L. 3, arrivando talvolta a superare le 5 lire.

Presso Catania, come presso tutte le maggiori città di Sicilia, dove il latte che si consuma è quasi sempre latte di capra, i caprai possessori di piccole greggi, sono una vera piaga per le vigne e i poderi alberati; essi nutrono le loro greggi con quanto rubano devastando sulle terre altrui.

 

 

§ 48. — Contratti a migliorìa.

La specialità però di questa regione, e quella che ci ha specialmente indotto a fermarcisi, sono i così detti contratti a migliorìa, i quali si usano tanto per la formazione di nuovi agrumeti, come per la piantagione e anche per l’intiera coltura delle vigne. Diciamo dell’una e dell’altra forma.

Si distinguono i contratti propriamente detti a migliorìa, i quali si fanno, con termini diversi di durata, tanto per gli agrumeti come talvolta per la piantagione di olivi, di mandorli, di fichi e di vigne, ed anche per soltanto spietrare un campo, dai contratti detti d’inquilinaggio, i quali non si usano che per le vigne, e durano diciannove o più spesso ventinove anni.

I contratti della prima specie si usano in questa regione più specialmente per l’impianto di nuovi agrumeti. N’è infinita la varietà e ogni giorno nascono nuove convenzioni con nuovi patti. Ecco alcune forme più generali che si usano. Si conviene che debba eseguirsi dal colono la piantagione di un dato numero di piante di agrumi. Dopo un certo termine di anni il proprietario gode di una partecipazione di 1/3 o 1/4 nel prodotto degli alberi piantati; alla scadenza però del contratto, che durerà dieci, quindici o venti anni, i miglioramenti qualunque si sieno anderanno tutti a lui, senza che egli debba compenso di sorta. L’impianto della irrigazione è a carico del proprietario, e le condizioni del contratto variano molto secondo la natura dell’acqua che si fornisce al fondo, se di noria, di sorgente o di fiume. Altre volte invece si pattuisce che al termine del contratto, il proprietario debba dare al colono un tanto per cento — in generale dal 10 al 15 — sui miglioramenti eseguiti nel fondo, e che vengono valutati per mezzo di perito.

Per la piantagione poi di olivi, alberi da frutta, o vigne, o per togliere i sassi da un campo, il contratto è generalmente il seguente: Si conviene un fitto annuo in denaro che deve pagare il colono, e si stabiliscono le epoche e i modi in cui si debbono fare le piantagioni. Allo spirare dell’affitto, che è ordinariamente a lungo termine — di nove anni per la vigna, — si fanno stimare dal perito i miglioramenti eseguiti sul fondo, e il proprietario deve pagare in contanti al colono la metà del valore stimato, detratte naturalmente le anticipazioni già fattegli. Questi contratti però non sono comuni in questa regione, ma li ritroveremo frequenti nel Siracusano.

 

Contratto d’inquilinaggio per le vigne.

Comunissimo invece è il contratto detto d’inquilinaggio per le vigne nuove da impiantarsi: anzi si può dire che la maggior parte delle vigne piantate da vent’anni a questa parte, specialmente al nord di Catania, sono coltivate con questa forma particolare di colonìa parziaria. La durata di queste convenzioni è generalmente di ventinove anni, poichè non si ritiene che la vigna renda più bene al di là di quest’epoca. Il contratto si fa con pubblico strumento. Spesso si procede nel modo seguente: Il terreno, se grande, vien diviso in partite, e queste si sorteggiano fra i coloni([250]). Il padrone talvolta dà i maglioli per le viti. Il colono deve piantare il vitigno ed è tenuto a tutte le spese e i lavori occorrenti alla coltura; il padrone avendo diritto di sorvegliare a che tutto sia fatto a regola d’arte. Per i primi due anni il colono paga un tanto a ettaro contro la facoltà di seminare fave negl’interfilari delle viti. Le spese di guardianìa, ossia di custodia del frutto pendente sono a carico comune. Il colono poi paga al proprietario per ogni giornata d’uso del palmento, circa 5 lire al giorno. Il prodotto delle viti si divide quindi a metà tra padrone e colono pei terreni migliori e vicini alle città o alle grosse borgate, o invece a terzi, di cui due al colono e uno al proprietario, per le vigne molto lontane dall’abitato, di poca fertilità, o situate in luoghi malsani.

Giunti ora alla fine del nostro viaggio da Marsala, lungo la costa settentrionale, fino a Catania, ed esaminati rapidamente i caratteri principali dei contratti agricoli nelle due zone maggiori in cui abbiamo diviso l’Isola, non ci resta che da accennare ad alcune particolarità della provincia di Siracusa, senza però tornar sopra a tutte quelle condizioni che le sono comuni con le altre provincie da noi già percorse.


 

 

Capitolo IV.

 

PROVINCIA DI SIRACUSA

 

 

 

§ 49. — Caratteri generali.

Nella sua parte montuosa e interna le condizioni generali della provincia di Siracusa variano poco o punto da quelle delle altre regioni interne della Sicilia, per quanto riguarda l’oggetto principale dei nostri studi, cioè a dire i contratti agricoli. Si ritrovano i latifondi gabellati colla divisione della coltura in tre parti, ossia a terzerìa; e i contratti di metaterìa e di terratico tra il gabellotto e il contadino. La pastorizia è più estesa specialmente nella già Contea di Modica, e son numerosi gli armenti della bella specie bovina conosciuta come razza Modicana; ma ciò altera le proporzioni delle diverse colture e delle diverse occupazioni dei lavoranti, anzichè la natura essenziale dei contratti, o la condizione economica e sociale della classe agricola. Alcune particolarità però meritano di essere notate.

 

Coltivazione diretta del gabellotto.

In primo luogo l’uso per parte dei gabellotti, che si trova più frequente nel Siracusano che nelle altre provincie siciliane, di coltivare una buona parte del predio per proprio conto, e con giornalieri fissati a settimana, o a giorno.

 

Salari.

Altra cosa da osservarsi è che i salari dei giornalieri sono nell’interno della provincia e più specialmente del circondario di Modica, generalmente assai bassi, non passando in media una lira in tutto; il che contrasta singolarmente col fatto della grande superiorità della provincia di Siracusa di fronte a tutte le altre dell’Isola, per quanto riguarda la sicurezza pubblica.

A Modica il salario dei giornalieri, che in tutto ammonterà a circa una lira il giorno, vien pagato quasi interamente in natura, e soltanto per una minima parte in denaro; così si darà in media per settimana, termine per il quale, in quasi tutta l’Isola, si fissano ordinariamente i braccianti, 17 soldi in denaro, 1 tumolo (17 litri) in grano, più al giorno 1 1/2 quartuccio (litri 1.2.9) di vino, e una minestra di fave la sera. I giornalieri sono in tutta la provincia la classe più numerosa; forse i tre quarti della popolazione agricola.

 

Canone d’affitto in generi.

Notiamo inoltre la particolarità negli affitti dei latifondi, come pure di molti fondi minori, dell’esser spesso il canone di affitto dovuto parte in denaro, e parte in generi, il che corrisponderebbe alla divisione delle colture in pascolo naturale e in coltivazione di cereali.

Quanto alle vigne, che qui si trovano assai spesso anche nei latifondi, presso il caseggiato centrale della azienda, si usa diversamente secondo i luoghi e i proprietari: alcuni li affittano insieme col fondo, altri li ritengono per proprio conto, facendosi prestare soltanto dal gabellotto gli animali per le arature tra i filari delle viti.

Nella provincia di Siracusa non è raro trovare dei ricchi proprietari che coltivano direttamente le loro terre, unendovi pure generalmente qualche fondo vicino che prendono a gabella.

Del resto, anche qui si ritrovano molte delle caratteristiche già notate per le altre provincie dell’interno; così vi ritroviamo le colture legnose ristrette generalmente alle sole vicinanze dell’abitato; e l’accentramento di tutta la popolazione rurale nelle città, da cui i contadini escono per lo più il lunedì per tornarvi il sabato sera; come pure la nessuna emigrazione per contrade lontane, ma soltanto al tempo delle mèssi una migrazione temporanea di lavoranti dalle montagne alle piane di Catania e di Terranova. Dalla montagna i giornalieri, in alcune epoche dell’anno, scendono pure a lavorare nelle regioni più basse della stessa provincia di Siracusa, e dove sono più sviluppate le colture arborescenti. Così per esempio da Chiaramonte vanno a zappare o vendemmiare nelle vigne di Comiso e di Vittoria; da Buccheri scendono a Lentini e Carlentini, ricche di agrumi, di oliveti e di vigne. Di immigrazione da fuori provincia, non v’è che quella dei Calabresi, per i lavori di espurgo dei fossi e per la pota degli olivi.

Per i lavori della mèsse, si usa in diversi luoghi della provincia (Lentini, Avola) di impegnare i lavoranti fino dal gennaio, dando a ciascuno una caparra, generalmente di 5 lire. Il salario vien poi fissato a giugno dai proprietari; ordinariamente sono i pochi grandi proprietari della località che stabiliscono il prezzo della giornata, e i proprietari minori adottano lo stesso saggio. I salari così fissati per la mietitura, raggiungono in media le 2 lire, più il vino e 1/4 di chilo di cacio. Per i lavori della mietitura, il padrone divide i lavoranti in tante ciurme, o brigate, e pone a capo di ognuna come sorvegliante, uno di loro, che generalmente è scelto dai compagni.

 

 

§ 50. — I fondi seminativi.

Venendo ora a parlare dei fondi o allodi presso le città, vi troviamo soppresso l’anno di maggese nei campi seminativi, e per lo più una rotazione biennale che alterna il grano o l’orzo col pascolo; ma non così dappertutto, perchè a Lentini, Chiaramonte, ecc., si avvicenda generalmente nei fondi minori il grano con l’orzo e le fave, sopprimendo l’anno di pascolo naturale.

Quanto ai contratti che si usano per i fondi seminativi, predomina il fitto per tre o quattro anni; così presso Siracusa, Modica, ecc. Però a Lentini, Noto, e in qualche altro sito è più comune il contratto di mezzadrìa o metaterìa. Presso Siracusa quegli affittuari minori, possiedono generalmente in proprio da due a sei bovi. Il canone d’affitto è pagato parte in generi e parte in denaro. Dei contratti pel bestiame che prendono a gabella i mezzadri presso Noto, abbiamo già parlato altrove([251]).

Sono assai comuni presso tutte le città del Siracusano, le enfiteusi o censi di poche are di estensione, e che sono posseduti dai contadini e dai giornalieri; molti di questi appezzamenti sono coltivati a vigna. Questi censuari coltivano il loro podere la domenica, e quando non possono trovare lavoro altrove.

 

I fondi alberati.

In quanto poi ai contratti relativi ai fondi alberati, e ai prodotti delle colture legnose, non vi è molto di nuovo da osservare, all’infuori dei contratti a migliorìa, e dei fitti a lungo termine ed enfiteusi temporanee, i quali tutti si trovano molto frequenti nella provincia di Siracusa.

Gli agrumeti (Lentini, Siracusa, ecc.) si conducono dal proprietario a economia, tenendo sul luogo un castaldo salariato all’anno. Presso Noto si usava finora dare gli agrumeti a gabella, ma va generalizzandosi il sistema di conduzione a economia dallo stesso proprietario.

Gli oliveti si coltivano a economia, e il contadino non ha partecipazione nel raccolto. Presso Agosta, Avola, ecc. si gabellano gli oliveti situati nei latifondi, insieme con tutto il fondo. Il raccolto si vende a estimo, contro tanti gafisi d’olio, come abbiamo veduto farsi a Messina e a Catania. Però a Lentini, Buccheri, Chiaramonte, si comincia da qualche proprietario a far raccogliere le olive per proprio conto col mezzo di giornalieri.

Una coltura ricchissima di questa provincia, è quella del carrubbio, che vi cresce spontaneo. Tra Noto e Spaccaforno si vedono dei bellissimi boschi di quest’albero. Anche per la raccolta dei frutti del carrubbio come per quelli del mandorlo, si usa la vendita del frutto pendente, a estimo di perito.

Le vigne che non siano soggetto d’enfiteusi temporanea, o di contratto a migliorìa, si coltivano ovunque a economia dal proprietario, il quale vi tiene un massaro o guardiano; questi poi assume spesso la coltura dei vitigni a tante lire per migliaio di viti. Si trova però qualche raro caso di mezzadrìa per le vigne, fatta specialmente da quei proprietari che per le loro occupazioni non possono sorvegliare da sè i loro terreni, e ai quali non conviene affidarne la sorveglianza ad un agente. In queste mezzadrìe però il proprietario prima della divisione preleva sempre come antiparte un certo numero di barili per migliaio di viti.

 

 

§ 51. — Enfiteusi temporanee e fitti lunghi.

Moltissime vigne in tutta la provincia di Siracusa, sono attualmente possedute con una forma di enfiteusi temporanea, ossia con fitti di 29, di 36 o di 40 anni. Fu questa una forma usata dagli Enti ecclesiastici prima del 1862 per eludere la legge che imponeva loro la gara dell’asta nella censuazione dei loro beni; e questi contratti furono dopo il 1867 riconosciuti come vere enfiteusi redimibili, imponendo soltanto agli utilisti un canone nuovo maggiore di un quarto di quello pagato per la locazione. Questa forma di contratto di fitto per 29 anni, è stata pure adottata dopo il censimento dell’asse ecclesiastico, nelle subconcessioni fatte dai primi acquirenti; forse per eludere la legge che vieta le subenfiteusi.

Una forma di siffatte enfiteusi mascherate, la quale si trova frequente specialmente presso Noto, è il fitto a durata di vigna, che dura cioè finchè dura il vigneto, e che nel fatto viene ad essere eterno per la continua sostituzione di nuove piantagioni alle antiche. Altra forma è quella del fitto a novennio, col patto che l’affittuario possa fare tutti i miglioramenti che vuole, e che allo spirare del novennio non possa essere mandato via senza che gli venga rimborsato tutto quanto il valore delle migliorìe; altrimenti il fitto s’intende rinnovato alle stesse condizioni di novennio in novennio. Il valore del vitigno è grande, e supera spesso il valore della terra, onde non conviene al proprietario di riprendere il suo terreno collo sborso di una forte somma di denaro, e il contratto si prolunga indefinitamente.

 

Contratti a migliorìa.

Nella provincia di Siracusa sono pure frequentissimi i contratti a migliorìa, che han per iscopo la piantazione di olivi, vigne, ecc., e di cui abbiamo fatto menzione nel parlare del Catanese, avvertendo però che là invece erano rarissimi([252]). Questi contratti in alcuni luoghi si sogliono fare con persone agiate e di condizione civile, le quali ne fanno un’industria, impiegando poi contadini per la coltivazione: l’uso più generale però è che il contratto a migliorìa sia assunto da un contadino, il quale da sè pianta gli alberi e lavora il terreno.

L’assuntore del contratto a migliorìa si obbliga di piantare un vigneto, e di mettere tra le vigne un certo numero di olivi, di mandorli e di carrubbi o di alberi da frutta. Le forme però e la durata del contratto variano assai a seconda della intenzione del proprietario del terreno, la quale miri soltanto a costituirvi un albereto di ulivi, mandorli, carrubbi, ecc., oppure voglia anche godere del frutto della vigna. Nel primo caso il contratto dura comunemente dai 10 ai 14 anni, termine oltre il quale la vigna vive raramente quando sia piantata con queste condizioni: restano allora già grandi e produttivi gli alberi piantati in mezzo al vitigno, che hanno vita molto più lunga, e pei quali il proprietario non deve compenso. Il contadino per quei 10, 12 o 14 anni, paga al proprietario un fitto fisso in denaro come canone per il terreno che gli venne consegnato nudo di piantagioni, e gode d’altra parte del frutto della vigna da lui creata.

Nel secondo caso invece il contratto non oltrepassa i nove anni. Prendiamo come illustrazione un esempio comune presso Avola e Noto. Il contadino avrà l’obbligo, per ogni tumolo (are 10.91) di terra che coltiverà a vite, di mettere 4 piante di carrubbio, 8 olivi e 16 mandorli. Egli deve mettere tutte le spese e il lavoro occorrenti. Il proprietario talvolta darà i maglioli delle viti, i quali del resto qui non hanno quasi nessun valore. Pei primi sette anni tutto il prodotto va al contadino: poi per due anni si divide a metà. Alla fine del contratto è convenuto che al contadino debbano essere pagati i miglioramenti eseguiti nel fondo, defalcando le anticipazioni che avesse già ricevute. Ora nel fatto il proprietario ogni anno anticipa al contadino in media circa 13 lire per ogni migliaio di viti piantate, o più o meno secondo le prospettive della piantagione; e queste anticipazioni sono altrettanti acconti sul prezzo che sarà dovuto in ultimo per i miglioramenti, e si misurano dai proprietari in modo che allo spirare del contratto, il dare e l’avere restino perfettamente bilanciati. In media bastano a ciò le 13 lire per migliaio di viti. Queste anticipazioni servono per le spese di piantagione e di coltura, e per il sostentamento del contadino, il quale va pure fuori a giornata per campare.

I contratti a migliorìa si trovano pure frequentemente usati nella regione montana e sassosa, allo scopo di migliorare un campo col toglierne i sassi. In questi casi pure il contratto dura comunemente nove anni: il contadino paga un fitto per il terreno, e si obbliga a toglierne le pietre, ammucchiandole in alcuni punti del campo, o costruendo con esse quei muri a secco che si veggono così numerosi in tutta la Contea di Modica, e che servono anche per contenere il bestiame entro certi confini o per difendere da esso le piante giovani. Alla fine del contratto i miglioramenti vengono pagati in tutto o in parte dal proprietario, dietro stima.

Nel fatto però in tutti questi contratti il contadino si avvantaggia poco o niente, e giunge difficilmente a guadagnar la mercede delle giornate impiegate. Essi però gli sono utili in quanto gli assicurano un qualche lavoro per i giorni in cui manca d’impiego, e gli dànno la possibilità di ottenere soccorsi sotto forma di anticipazioni, nei momenti di bisogno. Del saggio poi a cui dovrà scontare le anticipazioni, il contadino poco si cura: qualunque sia, sarà per lui sempre meglio che il dover ricorrere agli usurai di mestiere; e poi per lui l’essenziale è di poter ricevere il soccorso quando ne abbisogna, e senza perdite di tempo o necessità di offrire garanzia; per il resto s’affida alle raccolte, alla fortuna, alla bontà d’animo spesso problematica del padrone, e più di tutto alla propria miseria, che gli dà la sicurezza di non poter peggiorare di molto la propria condizione, checchè sia per accadere.

 

 

§ 52. — Condizione del contadino.

La condizione del contadino nel Siracusano non varia molto da quella dei suoi compagni di sventura delle altre provincie, e specialmente dell’interno dell’Isola. Nell’antica Contea di Modica in ispecie, e nella regione alta, il lavorante agricolo è assai miserabile. A Modica, moltissime delle case non sono altro che grotte scavate nella roccia calcare e chiuse da un muro nel quale si apre la porta. I salari, come già dicemmo, sono in media più bassi che altrove nell’Isola; ma questa differenza tende ogni anno a diminuire colla progrediente facilità delle comunicazioni tra Comune e Comune, e tra provincia e provincia. La provincia di Siracusa si distingue tra le altre, per la sua rete pressochè completa di strade provinciali, la quale, sia detto ad onore di quella amministrazione provinciale, è stata quasi intieramente costruita da un ventennio a questa parte.

Qui termina il nostro giro in Sicilia. Ora, volgendo indietro lo sguardo, diremo in genere delle relazioni esistenti tra le varie classi, che finora abbiamo studiate nei soli loro rapporti contrattuali, e le quali insieme comprendono la quasi totalità della popolazione dell’Isola. Ciò formerà l’argomento di un nuovo capitolo


 

 

Capitolo V.

 

CONDIZIONI GENERALI DEI CONTADINI

 

 

 

§ 53. — Proprietà grande e piccola.

La Sicilia è paese eminentemente agricolo e povero d’industrie. Ad eccezione delle miniere di zolfo e di sal gemma, quasi tutte le poche industrie siciliane consistono in una prima manipolazione dei prodotti dell’agricoltura, e vengono quindi esercitate in gran parte dalle stesse classi che coltivano la terra. Esaminando dunque le relazioni tra le classi dei proprietari, dei gabellotti, dei borgesi, dei coloni e dei giornalieri agricoli, noi otteniamo un quadro abbastanza completo della vita siciliana. Noi qui non intendiamo studiare analiticamente le cause storiche e morali delle presenti condizioni sociali delle classi agricole in Sicilia; ma esponiamo soltanto lo stato attuale delle cose.

Al principio del secolo coll’abolizione dei fide-commessi, colla rovina di molte famiglie del patriziato per la pazza gara di lusso e di spese, e colla legge del 10 febbraio 1824, che dava diritto ai baroni di assegnare forzosamente delle terre ai loro creditori in pagamento dei propri debiti, e a saldo di qualunque prestazione obbligatoria, vi fu un movimento accentuato verso la divisione della proprietà territoriale. Ma questo movimento pur troppo si è da qualche anno arrestato, e ciò per parecchie cause, e malgrado tutte le vendite e censuazioni eseguite di beni demaniali ed ecclesiastici([253]). Questo fatto ci viene spiegato dal prof. Basile come una conseguenza del sistema erroneo dei nostri catasti, che colpiscono la sola industria agricola, invece di colpire la vera rendita fondiaria. Onde avviene che il piccolo proprietario, più industre e laborioso, è oltremodo aggravato dall’imposta fondiaria, e negli anni di cattiva raccolta non può pagare l’imposta, senonchè ricorrendo al mutuo, e firmando ipso facto la propria sentenza di morte.

Comunque sia, la proprietà è nella maggior parte della Sicilia ancora pochissimo divisa: segnatamente nella parte interna e meridionale dell’Isola manca una vera classe di proprietari piccoli o medii, e si salta invece d’un tratto, dal grande proprietario che possiede più migliaia di ettari, al piccolo censuario di poche are di terra. La censuazione dell’asse ecclesiastico ha modificato pochissimo queste condizioni della proprietà, giacchè come meglio vedremo in appresso, la immensa maggioranza di quelle terre è passata tale e quale nelle mani dei grandi proprietari.

 

 

§ 54. — Relazioni tra le diverse classi.

Nelle relazioni tra il contadino e il proprietario, o in genere tra il contadino e il cosiddetto galantuomo, ossia la persona civile, molto è rimasto ancora dei costumi feudali; e non è da sorprendersene ove si pensi che il feudalismo in Sicilia fioriva ancora in tutta la sua pienezza al principio di questo secolo, e che la sua abolizione legale nel 1812, completata colle due leggi del 2 e 3 agosto 1818, non fu nè provocata, nè accompagnata, nè seguìta da alcuna rivoluzione, da alcun movimento generale che mutasse d’un tratto le condizioni di fatto della società siciliana. Quella che era stata fino allora potenza legale, rimase come potenza o prepotenza di fatto e il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo ed oppresso. Il latifondista restò sempre barone, e non soltanto di nome: e nel sentimento generale la posizione del proprietario di fronte al contadino, restò quella di feudatario di fronte a vassallo. Vi è poi la classe della borghesia, non molto numerosa, e là, come dappertutto, avida di guadagno, e imitatrice della classe aristocratica soltanto nelle sue stolte vanità e nella sua smania di prepotenza.

La proprietà vi è ancora considerata come una vera e propria dignità. Il proprietario siciliano sdegna di vendere la sua terra, anche quando ridotto all’estremo dai debiti o dalla sventura. L’alienazione di una parte delle sue proprietà gli appare come una vera capitis diminutio, come cosa indecorosa per lui e per la sua famiglia. Ma pur troppo l’idea di dignità, che si annette al fatto della proprietà fondiaria, non ha condotto all’idea di ufficio e di dovere.

Manca generalmente del tutto il sentimento della solidarietà tra le varie classi; o per dir meglio, esso non si dimostra che nella sola diffidenza di fronte al non siciliano. Per ogni altro riguardo il galantuomo non considera il borgese o il giornataro che come uno strumento di guadagno, o come un terreno da sfruttare, mentre essi non vedono alla loro volta nel benestante che un oppressore, o qualcuno che vigila su ogni loro necessità per sempre più sottoporli a sè, e smungere loro i miseri guadagni.

Citeremo un caso che ci pare abbastanza tipico: A Modica, come abbiamo visto al § 49, il salario dei braccianti per antica consuetudine vien loro pagato per la massima parte in generi, e consiste principalmente in un tumolo di grano a settimana e pochi soldi in denaro. Tre anni fa vi fu grande carestia nel Modicano, e il grano andò a prezzi altissimi. Or bene, in quell’anno i proprietari, non saprei dire se con accordo tacito o espresso, convertirono in denaro quel tumolo di grano, calcolandolo al prezzo medio degli altri anni, cioè a 5 lire, e pagarono i salari in contanti. Ciò mentre d’altra parte tesaurizzavano spietatamente il grano per farne alzare il prezzo, e non vendevano che quando non potevano sperare ulteriori aumenti.

È forse da sorprendersi che il brigante trovi da per tutto così facilmente amici sicuri e devoti? — Se a lui i proprietari si prestano per terrore, o alcuni perchè egli si offre come strumento alle loro passioni; nei contadini invece egli trova altrettanti alleati naturali, perchè il brigante, accomodandosi al sentimento popolare, tassa il proprietario ed è prodigo coi poveri, e perchè apparisce alle loro menti come una fiera protesta contro l’oppressione sociale ed un’affermazione della loro dignità individuale.

 

 

§ 55. — L’usura.

Il tarlo roditore della società siciliana è l’usura. Il contadino siciliano è sobrio, laborioso e duro alla fatica: il suolo è fertile quanto altro mai: la media di produzione di grano non è certo inferiore alle otto semenze, più cioè che in Toscana dove si vanga profondo e si concima, mentre in Sicilia l’aratro non fa che malamente scalfire la terra con solchi della profondità di un palmo, e la concimazione è più nominale che reale: il clima è temperato e assai costante, — e con tutto ciò la condizione delle classi agricole è misera. I contratti agricoli sono tali che la concorrenza reciproca dei contadini riduce sempre il loro guadagno annuale complessivo al minimo necessario alla vita; come accade sempre e dovunque la legge, l’accordo, o meglio la consuetudine, non abbiano posto barriere alla libera concorrenza dei lavoranti; ma quel che peggio è, in Sicilia la forma speciale dei contratti e le condizioni dell’agricoltura in tre quarti dell’Isola, sono tali da rendere indispensabile al contadino di mutuare denari, ossia di chiedere soccorsi anche nelle stesse annate buone. Figuriamoci poi nelle annate cattive, e in quelle che immediatamente seguono a cattivi raccolti! — È qui che il capitale impone le sue condizioni più dure al lavoro.

Il saggio comune del frutto o addito, che si prende il padrone per le anticipazioni fatte al proprio contadino, è di 4 tumoli a salma, ossia del 25%. E si noti che questo addito si prende anche per una anticipazione fatta non più di due o tre mesi prima del raccolto, sicchè in questo caso il saggio annuo dell’interesse diventa quattro a cinque volte maggiore, e veramente enorme. I soccorsi poi non vengono dati dal padrone al metatiere che all’epoca in cui questi lavora sul campo affidatogli, onde in tutto il resto dell’anno, ove abbia bisogno di mutui, non li può generalmente contrarre senonchè da estranei e a saggi ancora più rovinosi. La ragione per la quale ai proprietari o gabellotti convien sempre di fare essi stessi le anticipazioni ai metatieri durante i lavori sulle loro proprietà, è quella d’impedire che altri possa, prestando soccorsi al contadino, acquistare privilegio per il rimborso sul raccolto. È per questa ragione che in diversi luoghi, e specialmente nel Siracusano, i gabellotti e proprietari mettono spesso come condizione espressa nei patti di metaterìa o di terratico, che il contadino non debba indirizzarsi ad altri che a loro per ottenere soccorsi.

Ordinariamente si cerca di giustificare l’esorbitanza del saggio a cui vengono in Sicilia prestati i soccorsi ai contadini dallo stesso loro padrone, colla seguente argomentazione: — Una buona parte di quei quattro tumoli che si esigono sopra ogni salma prestata, non rappresenta un vero frutto, ma invece un rimborso dello stesso capitale; ed invero il prezzo corrente del grano al momento in cui venne dato il soccorso, ordinariamente nell’inverno, è sempre maggiore del suo prezzo al momento della restituzione, cioè subito dopo la raccolta. Onde il mutuante per riavere, all’infuori di ogni frutto, lo stesso capitale ch’egli consegnò al mutuatario, deve necessariamente riprendersi quella maggiore quantità di grano che rappresenti al momento della raccolta, un valore in denaro eguale al prezzo che aveva all’epoca del mutuo quell’altra quantità minore che fu consegnata al contadino.

Il ragionamento è giusto, e nella teoria non fa una grinza. Si potrebbe pure a sostegno citare come nel fatto in alcuni luoghi, per esempio presso Caltanissetta, si usi ordinariamente dai padroni prendersi l’addito di soli 2 tumoli a salma, e di più soltanto quella quantità che conguagli i due prezzi — del momento della consegna, e di quello della restituzione. Per esempio: se all’epoca in cui fu dato il soccorso una salma di grano costava 65 lire, e al momento del raccolto non più di 60; il padrone si riprenderebbe in grano una salma, più 1/12 di salma a titolo di rimborso di capitale; e più 2 tumoli, ossia 1/8 di salma, a titolo di frutti.

In risposta però si può osservare: — che un forte sconto che faccia il padrone al contadino per le anticipazioni sulla sua quota di raccolto, è tanto meno giustificabile, in quanto manca quasi affatto per il mutuante in questo genere di operazioni ogni elemento di rischio, che è il solo che possa talvolta giustificare moralmente l’usura. Che di più vi è già come cosa di fatto, e all’infuori di ogni saggio d’interessi convenuto, un guadagno per i padroni nella differenza di qualità tra il genere che prestano, il quale è sempre d’infima qualità, e quello che si ripigliano al momento del raccolto. Che anche il frutto di 2 tumoli, a salma, ossia del 12 1/2% per pochi mesi, (in media meno di sei mesi), è per sè più che discreto. Che nella realtà la differenza tra i prezzi del grano nelle diverse stagioni è spesso minore del 12 1/2%, ossia di 2 tumoli di grano per salma, che rappresenterebbero, secondo l’esemplificazione che sopra, la semplice aggiunta a titolo di rimborso di capitale. E finalmente, ad illustrazione dell’esempio citato, si potrebbe contrapporgli il fatto abbastanza sintomatico che essendo i prezzi del grano nell’inverno scorso e nella primavera di quest’anno (1876) rimasti piuttosto bassi, vari gabellotti e proprietari dei pressi di Caltanissetta, temendo di riscuotere troppo poco grano all’epoca della futura raccolta col semplice conguaglio dei prezzi, più i 2 tumoli di addito, s’appigliarono al partito di valutare il grano che consegnavano ai contadini a un prezzo fittizio, e molto superiore a quello vero del mercato; onde nella realtà imponevano un frutto molto maggiore a quello già non lieve dei 2 tumoli a salma per pochi mesi, pur mantenendo però sempre le apparenze.

E questo invero è l’espediente generale con cui l’usura in Sicilia come altrove, maschera una parte delle sue enormità, col valutare cioè a un prezzo fittizio e superiore al vero, quanto viene consegnato al mutuatario.

Il giornaliere si trova naturalmente, quando abbia bisogno di soccorsi, in condizioni ancora più dure di quelle del metatiere, poichè non avendo padrone a cui indirizzarsi, e a cui importi di lui, egli deve, salvo i casi di relazioni personali o di clientela con qualche proprietario o gabellotto, ricorrere in ogni circostanza agli usurai di mestiere.

L’usura rende impossibile al contadino siciliano ogni risparmio, ogni miglioramento della sua sorte; e peggio ancora, col tenerlo in uno stato continuo di asservimento legale e di depressione morale, gli toglie ogni libertà, ogni sentimento della propria dignità. Il contadino siciliano è quasi costantemente indebitato, o verso il padrone o verso estranei: il compenso alle sue fatiche gli viene dato sotto forma di soccorsi, che egli deve impetrare umilmente e facendo rinunzia completa a tutto quanto la fortuna o il maggior lavoro potrebbero arrecargli di vantaggio al tempo dei raccolti. D’altra parte basta a chiunque di aver raccolto per fas aut nefas, un gruzzolo di qualche centinaio di lire, per non lavorare più affatto, e per vivere nell’ozio e nel vizio esercitando l’usura la più sfrenata sulla classe campagnuola: costui da membro utile della società, diventa issofatto un parassita dannoso del corpo sociale.

Con ciò non intendiamo dire che tutti in Sicilia che abbiano qualche denaro vivano oziando di usura. Sarebbe asserzione falsa e ridicola; e basta a dimostrare il contrario l’esistenza della classe energica ed attiva dei gabellotti; — ma pur troppo la magagna è tanto generale da viziare gravemente la salute della società siciliana.

 

 

§ 56. — Amministrazioni comunali.

La classe dei cosiddetti galantuomini ha in mano tutte le amministrazioni comunali, e inoltre la gestione di tutto il denaro delle Opere pie.

 

Imposte.

Quanto al modo in cui si vale delle amministrazioni comunali a suo profitto, ed a danno della classe dei contadini, basterebbe esaminare Comune per Comune i ruoli delle imposte per averne qualche idea. Così noi troveremo generalmente imposta in modo gravissimo la tassa sulle bestie da tiro e soma, ossia principalmente sui muli e sui cavalli, che sono la proprietà maggiore dei contadini; e invece raramente e in proporzioni minime la tassa vera sul bestiame, ossia sulle vacche e sui bovi, perchè questi sono posseduti dai proprietari. Il contadino paga in moltissimi luoghi fino a 8 lire per un mulo, o 5 lire per un asino, e il proprietario e il gabellotto non pagano nulla, o relativamente pochissimo, per centinaia di vacche o di bovi. La tassa comunale sulle bestie da tiro e da soma ammontava in Sicilia nel 1874 a 589,557 lire, mentre la tassa sul bestiame non era che di 146,493 lire.

E lo stesso fenomeno si presenta se esaminiamo le cifre del dazio consumo comunale, e quelle della sovrimposta comunale sui terreni. Si tenga in mente come in Sicilia la immensa maggioranza della popolazione delle città, e talvolta la quasi totalità, è composta di contadini e delle loro famiglie; e la cifra di L. 10,332,081 di provento del dazio consumo comunale (1874) di fronte a quella di L. 2,857,110 della sovrimposta sui terreni, diventa molto significativa.

Oppure, per meglio isolare il fenomeno, si paragonino le due tasse in Sicilia e in Toscana, prendendo soltanto come termini di paragone i Comuni rurali, i quali, se in Toscana contengono pure una numerosa classe cittadina raccolta nei centri di meno di 6000 anime, in Sicilia sono invece esclusivamente abitati da campagnuoli. In Toscana pei Comuni rurali, anno 1874, abbiamo 484,235 lire di dazio consumo comunale contro L. 5,058,140 di sovrimposta sui terreni, mentre la Sicilia ci dà L. 611,294 di dazio consumo comunale contro L. 1,097,173 di sovrimposta fondiaria. E ciò mentre i Comuni rurali in Toscana (1871) contano una popolazione di 1,562,294 abitanti, di cui una buona frazione non appartiene alla classe campagnuola, onde una gran parte del dazio consumo comunale non aggrava i contadini, e invece in Sicilia la popolazione dei Comuni rurali è di 779,514, quasi tutti agricoltori, i quali abitando nei centri pagano il dazio per ogni litro di farina che consumano. Non sono pochi i Comuni in Sicilia dove nulla si sovrimpone sulla fondiaria, e tutto invece si aggrava sul dazio consumo.

E che dire poi dell’imposta comunale sul macinato, che si riscuote da dieci anni in un Comune importante dell’Isola, con piena annuenza della prefettura; e valendosi per la riscossione dell’antico sistema delle bollette, usato prima del 1860 dal Governo borbonico!!

La cifra complessiva della tassa di famiglia non ci rivela nulla, ma se vorremo girare i singoli Comuni troveremo le stesse ingiustizie di repartizione tra le diverse classi. Il minimo e il maximum della tassa variano molto secondo i Comuni: qua l’imposta anderà da 2 lire a 50; là da L. 5 a 80, a 100; o anche da L. 10 a 80: ma dovunque troveremo una sproporzione nella repartizione. Il metatiere pagherà da 5 a 10 lire, o il giornaliere da 2 a 5, dove due o tre signori ricchissimi pagheranno il maximum di 50 o di 100 lire, e tutta la classe di borghesi e di proprietari agiati pagheranno 20 o 30 lire.

Quanto alle spese dei Comuni, poco si può ricavare dalle statistiche troppo generiche, ma chi giri ora la Sicilia rimane sorpreso del grande numero di teatri comunali stati eretti dal 1860 in qua, o che tuttora si stanno costruendo. È venuta dappertutto nei municipii la manìa, la furia delle spese di lusso, e specialmente di quella del teatro: si sente di migliaia di lire spese in costruzione e riparazione di teatri, e di ricche sovvenzioni annue pagate per rappresentazioni di opera e ballo da municipii, che mancano ancora quasi affatto di strade, o almeno son lontani dall’aver nemmen messo mano a tutte quelle che loro incombono per legge, e i quali difettano di cimiteri, e di medico condotto.

L’accentramento poi dei contadini nelle città rende difficile più che altrove la nettezza pubblica, e la rigida applicazione dei regolamenti municipali; e anche qui troviamo esempi del come alcune volte un progresso necessario ed imprescindibile arreca con sè danni gravi e senza compenso a numerose classi della popolazione. Così in molte città dell’Isola si è voluto togliere lo sconcio dei maiali che girano liberi per la strada, e si sono imposte gravi multe ai contravventori, onde il contadino il quale non ha che una stanza per abitazione e non può girare a cercare il nutrimento per il suo maiale, ha dovuto privarsi di allevarne, e ha così perduto, con grave sacrificio, una sorgente di guadagno. In altri luoghi invece i contadini hanno dovuto rinunziare a tenere il maiale per non aver potuto soddisfare ai forti depositi che si richiedevano da loro, come cauzione per il pagamento del dazio consumo al momento della vendita.

 

Opere pie.

Tutto ciò è triste; ma lo spettacolo diventa più doloroso ancora se dalle amministrazioni comunali, ci volgiamo a considerare le Opere pie, e le condizioni della beneficenza pubblica in Sicilia. I Monti frumentari sono diventati quasi dappertutto un mezzo nelle mani degli amministratori per esercitare l’usura per conto proprio e su più vasta scala. Questi prestano il grano del monte a sè medesimi per poi concederlo contro l’usura del 25% per sette mesi, o per meno ancora, ai contadini poveri, altri hanno già consumato anche il capitale, e non ci resta più nulla per nessuno.

Le Opere pie sono considerate in genere dalla classe che le amministra come un campo che deve sfruttare per suo proprio vantaggio([254]). Per gli onesti sono un mezzo d’influenza, e di favoritismo; per i meno onesti una sorgente di facili lucri e d’illeciti guadagni. Il popolo lo sa, mormora e freme; ma non può far nulla.

 

 

§ 57. — Diritti promiscui.

Le nostre libere istituzioni sono ordinate in modo da ribadire questo stato di cose, e le elezioni, la stampa, ecc. ecc. non sono attualmente che altrettante armi che abbiamo consegnate nelle mani di una classe, perchè possa seguitare a vivere e godere a spese delle altre.

Lo scioglimento dei diritti promiscui tra Comuni e baroni, e la soppressione graduale dei diritti di pascolo, di legna, ecc., posseduti in moltissimi Comuni e specialmente di montagna, da tutti i comunisti, sono state e seguitano ad essere gravi cause di depauperamento per la classe dei contadini. Per il contadino proprietario, il piccolo censuario, e anche il semplice lavorante, quei diritti erano una vera e propria ricchezza, ed una fonte di benessere tanto più preziosa in quanto non poteva disseccarsi per effetto delle crisi passeggiere, perchè quei diritti erano inerenti alla qualità di comunista ed inalienabili. Non è di alcun compenso per quella povera gente che i beni del Comune si possano meglio affittare e siano cresciuti di valore; giacchè nella realtà questi beni o vengono venduti, e il valore divorato dalla mala amministrazione della classe che ha in mano tutte le cose comunali, oppure vengono affittati, e il provento speso, più o meno onestamente, a pro della classe agiata.

 

Quotizzazione dei beni comunali.

E nemmeno le quotizzazioni di quelle proprietà comunali possono migliorare la condizione delle classi inferiori, giacchè ai più mancano i mezzi per coltivare la loro quota, e quindi dopo poco tempo e malgrado ogni disposizione contraria, quelle proprietà tornano a concentrarsi nelle mani di chi ha capitali; onde l’unico risultato ottenuto è quello di aver impoverito il Comune e di aver arricchito i ricchi coll’impoverire i poveri, poichè a mutare la condizione di questi non possono giovare affatto quelle poche lire di regalo che ricevono in compenso dei loro diritti inalienabili. È, sotto forma diversa, un fenomeno analogo a quello che accadde in Inghilterra su vasta scala nel secolo scorso.

 

Considerazioni generali.

A chi ben consideri tutto quanto siamo venuti dicendo, può forse destare maraviglia che i contadini, ignoranti, poveri e oppressi, siano ciecamente attaccati alle superstizioni che si ornano del nome di religione, e siano strumento cieco nelle mani del clero? — Al contadino siciliano la società non si presenta che sotto la veste del padrone rapace, oppure dell’esattore, dell’ufficiale di leva e del carabiniere. Il prete è la sola persona che si occupa di lui con parole di affetto e di carità; che almeno, se non lo aiuta, lo compiange quando soffre; che lo tratta come un uomo, e gli parla di una giustizia avvenire per compensarlo delle ingiustizie presenti. Nel culto religioso sta tutta la parte ideale della vita del contadino: all’infuori di quello, non conosce che fatica, sudori, e miseria: alla festa religiosa egli deve il riposo di cui gode.

La società moderna ha un bell’inveire contro l’ignoranza, contro i vizi, contro l’antipatriottismo e l’oscurantismo del clero. Se essa non saprà sostituirvi altro che le fredde teorie dell’Economia politica; se da una parte essa coi suoi ordinamenti crea delle oppressioni e delle sofferenze, e dall’altra non sa che raccomandare a chi ha fame ed a chi patisce, di studiare le opere degli economisti per impararvi che tutto quel che è doveva essere, la Chiesa dominerà sempre sulle masse; e la fede cieca, stupida e superstiziosa prevarrà sulla fede scientifica, mettendo sempre in forse ogni progresso della civiltà umana.

 

Medici condotti.

La società civile non ha saputo in Italia sostituire altro al prete che il medico condotto. Non dirò se questo possa parzialmente bastare; ma osserverò soltanto che in Sicilia la maggiore parte dei Comuni non hanno nemmeno medico condotto, e che il lavorante povero che ammali, è lasciato morire come un cane.

 

 

§ 58. — Zona alberata.

Le considerazioni che precedono, si applicano più generalmente a tutta la prima delle due zone maggiori, in cui abbiamo diviso la Sicilia. In alcune regioni della seconda zona, e più specialmente sul lato verso marina dei circondari di Trapani, di Patti, Castroreale, Messina, Acireale e Catania, la condizione sociale dei contadini si può ritenere come alquanto superiore a quella del resto dell’Isola. Economicamente, colla maggiore estensione e varietà delle colture legnose, il contadino ha una maggiore sicurezza del domani; e socialmente, le sue relazioni colle altre classi, se non cordiali, riposano però sopra un maggiore sentimento dell’eguaglianza civile. Qua la maggiore divisione della proprietà, e il genere delle colture che male si adattano ai fitti ed ai subaffitti, hanno contribuito a togliere la caterva degl’intermediari tra il proprietario e il contadino, e conducendo ad un maggior contatto tra le due classi, hanno temperato alquanto l’asprezza della lotta. La maggior cura inoltre che si richiede dall’agricoltore nell’esecuzione dei lavori intorno a piante preziose e delicate come l’agrume, l’olivo, la vite, ecc., e il maggior pericolo che corrono i proprietari nel vedersi esposti a rappresaglie e vendette, hanno contribuito a rendere alquanto più miti i rapporti tra essi e i contadini; sebbene la generalità sia ancora lontana dall’avere la dovuta coscienza della solidarietà e della comunanza d’interessi tra le varie classi agricole.

Dove poi nelle regioni di cui ora parliamo, vi sono centri in cui è numerosa una classe cittadina, di professionisti e piccoli commercianti che nulla o poco hanno di comune coll’agricoltura, ricomparisce in Sicilia, come nel resto d’Italia, la lotta nei Comuni tra l’elemento cittadino e quello campagnuolo, con generale disfatta di questo; e chi poi, in ultima analisi paga lo scotto, sono per lo più i contadini.

 

 

§ 59. — Vitto.

Un lato buono però vi è nella condizione del contadino siciliano, e specialmente se lo paragoniamo coll’ilota dei contadini italiani, col paisano della pianura bassa del Po. Il villano in Sicilia mangia pane di farina di grano, e salvo i casi di miseria, si nutre a sufficienza, mentre il contadino lombardo mangia quasi esclusivamente granturco, e soffre di fame fisiologica, anche quando abbia il corpo pieno. In Sicilia difatti non esiste quella terribile malattia che miete tante vittime nelle ricche contrade lombarde, la pellagra. È alla qualità del nutrimento che attribuiamo come prima ragione la vigoria fisica che si riscontra in generale nelle classi rurali della Sicilia, malgrado tutti i loro patimenti e la miseranda condizione sociale.

È sconfortante però il pensare che questo unico vantaggio il contadino siciliano lo deve in buona parte alla mancanza di strade e alla difficoltà di comunicazioni tra luogo e luogo nell’interno dell’Isola, condizioni che finora hanno reso tanto più difficile la esportazione dei prodotti, ed hanno quindi mantenuto basso il prezzo dei generi di produzione locale. A ciò si unisce il fatto che il granturco e la segale si coltivano pochissimo in Sicilia, e che la coltura del grano occupa presentemente i tre quarti dell’intiera superficie dell’Isola. Ma che sarà nell’avvenire, quando sarà costruita tutta la rete stradale, a cui da dieci anni si lavora con una certa alacrità, e quando i prodotti fini e di alto prezzo, come il grano, verranno facilmente esportati, ed aumenteranno quindi di valore? — Se la concorrenza dei contadini continuerà a tener bassi i loro guadagni al minimo necessario per la vita, e ciò non è soltanto probabile ma certo, il loro vitto peggiorerà necessariamente di qualità, poichè si esporterà il grano per importare granturco, segale, riso e farine di qualità inferiore.

Nè ci si dica, colle solite frasi ufficiali, che l’aumento di ricchezza migliorerà le condizioni generali del contadino, coll’aumento della concorrenza dei capitali. Il fatto dimostra altrove il contrario. L’aumento della ricchezza anderà tutto sotto forma di rendita fondiaria nelle tasche dei proprietari, i quali consumeranno le maggiori dovizie non in miglioramenti nelle campagne, che possano aumentare il bisogno di braccia, ma gozzovigliando e sciupando in città nuove importazioni di lusso dall’estero. E se qualche miglioramento si farà in campagna si guarderà bene che non sia tale da aumentare la parte del guadagno del lavorante, ma piuttosto da diminuire il bisogno di braccia; e in tutti i casi la concorrenza e l’imprevidenza dei contadini faranno il resto.

 

Lavoro delle donne.

Oltre la qualità del vitto evvi un’altra cagione importante della salute fisica del lavorante in Sicilia, malgrado la malaria e la povertà, ed è il quasi nessun lavoro delle donne in campagna e specialmente in tutta la prima zona da noi studiata. È forse questa quasi la sola buona conseguenza dell’accentramento della popolazione rurale nelle città, unito alla bassa condizione dell’agricoltura in tre quarti dell’Isola.

La donna siciliana è raramente sottoposta a quelle dure fatiche dei campi che soverchiano le sue forze, e che in molte altre parti d’Italia le rovinano così presto la salute, con grave iattura di quella delle generazioni avvenire. Certamente si potrebbe far contribuire molto più di quello che non faccia ora la donna siciliana alla produzione generale, e all’agiatezza delle famiglie; ed una maggiore istruzione ed un lavoro commisurato alle sue forze non potrebbero che elevarne la condizione morale e sociale, con vantaggio di tutti; ma se si dovesse scegliere tra i due eccessi, di ozio della donna come in Sicilia, o di soverchio lavoro come nella Lombardia bassa e montana, sarebbe certamente da preferirsi il primo, per il bene della società intiera.

 

Istruzione.

Poco c’è da osservare sullo stato dell’istruzione nella classe rurale. Tutto si riassume nel dire, che essa manca affatto. Se la statistica ci dà sulla popolazione complessiva della Sicilia l’87% di analfabeti (1871), certamente nella classe dei contadini la proporzione si avvicinerebbe molto al 100%. Le classi agiate non si preoccupano dello stato d’assoluta ignoranza in cui si trovano i contadini, e questo nonostante le facilità speciali per l’istruzione della infanzia e delle donne della classe rurale, che presenta la Sicilia in comune col Napoletano, per l’accentramento di tutta la sua popolazione nelle città e nei borghi. È forse questa trascuranza delle classi agiate solo effetto di spensieratezza e d’indifferenza, oppure non dipende piuttosto dalla istintiva coscienza che l’istruzione data al villano nelle condizioni attuali non farebbe che l’ufficio di lievito al malcontento, e potrebbe diventare uno stimolo allo spirito di ribellione, ed un fomite di futuri sconvolgimenti?

 

Considerazioni generali.

Qui ci par di vedere il lettore che freme inorridito, e protesta altamente contro apprezzamenti così antiliberali e regressivi. — Vorreste dunque, ci si griderà, che non si facessero le strade! vorreste inceppare il commercio! vorreste che non si diffonda l’istruzione nelle campagne! vorreste opporvi ai miglioramento dell’agricoltura! Profeti di sventure, vorreste forse arrestare il corso fatale della civiltà e del progresso! —

Lontana da noi ogni simile stoltezza. Noi desideriamo e vagheggiamo quanto altri mai, e le strade e il libero commercio, e l’istruzione universale, e i progressi dell’agricoltura. Vorremmo che tutto ciò si facesse e si facesse presto; — ma sosteniamo che tutto ciò non basta: che talvolta un progresso troppo parziale è cagione di dolori per una parte dell’umanità, e sorgente di gravi pericoli per l’avvenire: che noi da un lato vediamo peggiorare le condizioni di una classe importantissima della nostra popolazione, e dall’altro le forniamo i mezzi di aver più viva la coscienza della sua miseria e della sua abiezione, senza poi far nulla perchè da questa coscienza possa risultare un miglioramento della sua sorte, invece che lo scontento, la ribellione, e sventure per tutti. In altre parole, se sdegneremo di occuparci del benessere dei contadini in Italia, e sapremo soltanto, con la fantasmagoria di una libertà dottrinaria, impor loro sagrifizi a nome dello Stato, stringer loro i patti a nome dell’individuo, e per compenso insegnar loro unicamente a leggere e a scrivere, perchè essi sappiano bene che sono infelici e che la loro infelicità è effetto della libertà e del progresso, noi avremo seminato vento e raccoglieremo tempesta.

Ma l’esame di tali questioni rientra nella seconda e nella terza parte di questo lavoro.


 

 

 

 

PARTE SECONDA

 

 

 

 

CARATTERI ECONOMICI DEI CONTRATTI AGRICOLI SICILIANI

 

 

Capitolo I.

 

LA PARTECIPAZIONE DEL LAVORANTE AL PRODOTTO

 

 

 

§ 60. — Argomento e divisione della 2a parte.

In questa seconda parte ci prefiggiamo di esaminare brevemente alla luce dei principii generali dell’Economia politica, le varie forme di contratti agricoli praticate in Sicilia.

Abbiamo potuto vedere nella prima parte, quante varietà di forme di contratti agricoli si trovino nell’Isola, e come allo stesso tempo i contadini stiano male più o meno dappertutto, e abbiano ragione di temere danni maggiori per l’avvenire. Si dovrà dunque dire che la forma del contratto agricolo non abbia influenza sulla condizione del contadino, e che questa dipenda esclusivamente dalle condizioni del mercato riguardo all’offerta e alla domanda di capitale e di lavoro? — È questa la questione che dobbiamo studiare; se, cioè, e come le diversità di forma del contratto agricolo possano in sè presentare una guarentigia per il lavorante, nella lotta tra i diversi fattori della produzione. In altre parole dobbiamo esaminare, se l’ammontare del compenso che il lavorante ritrae dal suo lavoro, come pure tutta la condizione sua morale e sociale, non dipendano in buona parte dalle modalità contrattuali con cui questo compenso giunge nelle sue mani. E per ciò fare in modo pratico e senza allontanarci dal nostro argomento principale, analizzeremo di volo, nelle loro conseguenze economiche e sociali, le diverse forme di contratti che si praticano nell’industria agricola in Sicilia, fermandoci più specialmente sulle tre categorie maggiori, che si possono classare sotto le rubriche di — partecipazione, affitto e salario. Cominciamo dalla partecipazione.

 

 

§ 61. — Partecipazione del lavorante al prodotto.

La retribuzione data al lavoro sotto forma di partecipazione del lavorante al prodotto, è nell’industria agricola un fenomeno assai generale in Italia, e di cui si ritrovano esempi dappertutto, dalle Alpi fino al Lilibeo. Reputiamo quindi che qualunque studio intorno alle diverse modalità di tale partecipazione, abbia un interesse speciale per noi Italiani, a qualunque provincia si appartenga; ed inoltre che è in Italia, e precisamente dall’osservazione delle condizioni così varie delle nostre popolazioni rurali, che meglio si possono trarre delle illazioni scientifiche intorno ai vantaggi ed ai difetti di questa forma di retribuzione del lavoro; forma che tanto è stata da alcuni magnificata all’estero come panacea per tutti i mali della classe lavoratrice, e come chiave di tutte le questioni sociali, e da altri assalita come una innovazione inutile, inefficace e pericolosa.

La partecipazione del lavorante al prodotto è forse la forma più primitiva, e certamente la più semplice, di repartizione del valore del prodotto tra i diversi fattori della produzione. Il proprietario e il lavorante, oppure il capitalista e il lavorante, avendo messo in società per un determinato scopo di produzione rispettivamente la terra, il capitale o il lavoro, si dividono poi il prodotto in natura nella misura diversa della contribuzione di ciascuno verso il conseguimento del resultato comune. Abolita la schiavitù, era questa la forma più naturale di organizzazione industriale, e la vediamo difatti al cadere dell’Impero Romano diffondersi in tutta Europa, applicandosi specialmente all’industria agricola: ad essa invero si adattava più particolarmente, a cagione della poca parte che vi ha il capitale nei primi stadi dell’agricoltura, della minore necessità che vi è in essa di fronte alle altre industrie di una divisione del lavoro, e del potersi i prodotti agricoli consumare più direttamente dal lavorante, bastando a mantenerlo, anche indipendentemente da qualunque organizzazione commerciale. Ma col crescere delle industrie di ogni natura, col moltiplicarsi degli scambi che permetteva e richiedeva una maggiore divisione di lavoro, e quindi colla maggiore specificazione delle industrie che sempre più aumentava i rischi della produzione, la semplice repartizione in natura del prodotto tra il lavoro e il capitale non poteva più bastare come forma di organizzazione industriale, e fu necessario appigliarsi a nuovi sistemi, tra cui primeggia quello della retribuzione del lavorante per mezzo del salario. Parleremo poi più particolarmente del salario, ma possiamo fin da ora notare quali sono gl’inconvenienti maggiori che di fronte a esso presenta il sistema della partecipazione, nella sua forma semplice e primitiva.

 

 

§ 62. — Inconvenienti della partecipazione.

Considerata al punto di vista dello stesso benessere del lavorante, la partecipazione nel prodotto come unico modo di retribuzione del lavoro, presenta i seguenti inconvenienti:([255])

1° Il lavorante, sebbene privo di capitali, deve nonostante aspettare lungo tempo per il compenso al suo lavoro giornaliero. Nell’industria agricola questo inconveniente è spesso molto grave, perchè la produzione essendo subordinata alle stagioni, il lavorante dovrà campare e lavorare per un anno intiero prima di godere del frutto del suo lavoro. E di contro nelle altre industrie in genere, se la produzione è da un lato più continua, riesce però più grave l’altro inconveniente del dovere a produzione finita aspettare tutto il tempo che ci vuole per commerciare quel tanto del prodotto dell’industria, che non può essere consumato direttamente dal lavorante, affine di ottenere in iscambio le diverse cose necessarie alla vita.

Il lavorante quindi per campare nel frattempo è costretto, ove non possegga forti risparmi, a ricorrere al mutuo, ottenendolo sia dal padrone che ha prestato i capitali all’industria, sia da estranei. Egli con ciò viene a trovarsi continuamente in uno stato di dipendenza, e deve sottostare, nel momento dei suoi maggiori bisogni, alle condizioni mutevoli fattegli dal capitale, di fronte al quale resta senza armi, qualunque siano del resto le condizioni del contratto di partecipazione. E così, oltrechè trovarsi in una condizione di avvilimento morale e di soggezione sociale, viene per di più a perdere indirettamente tutti i vantaggi che avrebbe potuto, col sistema della partecipazione, ritrarre in fin d’anno da una ricca produzione o raccolta.

2° I rischi della produzione ricadono in gran parte sul lavorante privo di capitali. Questi invero non può in alcun modo assicurarsi contro il rischio; e basta una cattiva annata, o una crisi commerciale o industriale, per metterlo in una situazione disperata, e per renderlo passivo di debiti così gravi, da non potersene più liberare col lavoro di anni e anche di tutto il resto della vita.

Inoltre mentre il lavorante povero resta esposto ai rischi contrari della sua industria, egli può raramente profittare d’altra parte della buona fortuna, perchè, per le ragioni esposte nel 1° capolinea, i suoi bisogni nel corso dell’anno, per non parlar nemmeno dei suoi debiti di anni anteriori, lo costringono a sottostare alle condizioni che consente a fargli volta per volta il capitalista, il quale così riesce facilmente ad assicurarsi tutto il guadagno delle annate prospere.

3° Ma ciò non basta: e vi è ancora nella partecipazione un terzo inconveniente, spesso non meno grave degli altri per il lavorante. Occupato giornalmente nel suo lavoro egli non può avere nè i mezzi nè il tempo, come non ha neppure la capacità, per smaltire in modo conveniente i suoi prodotti; onde dovrà sempre alienarli alle condizioni più dure che voglia fargli il compratore in un mercato ristrettissimo, e rimarrà esposto senza difesa nè reazione possibile, a tutte le camorre e a tutte le pressioni che tendano a carpirgli una parte dei suoi sudati guadagni.

Questi inconvenienti del sistema di partecipazione si riscontrano in qualunque industria a cui esso venga applicato, non esclusa quella agricola, ed è questa la ragione principale per cui vi si è sostituito quasi dappertutto il salario, come quella forma di retribuzione del lavoro che va esente da tutti e tre quei pericoli. Il salario però come forma di retribuzione del lavoro presenta altri inconvenienti suoi propri, ed ha reso più acuti i sintomi della malattia sociale; onde di nuovo si torna generalmente a invocare la partecipazione come rimedio sicuro a tutti i mali, senza pesarne abbastanza i vantaggi e i difetti.

 

Partecipazione agli utili.

Finchè si tratti soltanto della compartecipazione del lavorante agli utili dell’impresa industriale, come un di più aggiunto ai salari ordinari, come uno stimolo ad un lavoro più strenuo e più accurato, e come mercede straordinaria in compenso di un lavoro straordinario, l’esperimento non è pericoloso, e può anche, date certe condizioni, riuscire di grande vantaggio per l’operaio; ma è questa una forma che si è finora tentata soltanto in piccolissima misura nelle industrie manifatturiere e minerarie, e quasi punto nell’industria agricola.

 

Partecipazione al prodotto complessivo.

Ma quando invece s’intenda parlare della partecipazione del lavorante nel prodotto come unica forma di retribuzione della sua fatica, ed escludendo ogni salario, almeno per quanto riguarda quel particolare lavoro in cui gli sia stata concessa la partecipazione; non si può più in questo caso fare astrazione dai tre gravi inconvenienti cui abbiamo accennato, e i quali bastano ad escludere per ora questa forma di retribuzione del lavorante da tutte le industrie manifatturiere e minerarie, e per limitarne assai la utile applicazione nell’industria agricola.

 

Sua applicazione all’agricoltura.

L’agricoltura invero è quasi la sola industria in cui sia dato di potere, in certe condizioni determinate, mantenere la partecipazione del lavorante ai resultati complessivi dell’impresa, senza necessariamente andare incontro ai mali accennati: e prova ne sono tutti quei luoghi dove troviamo fiorente la mezzadrìa sul tipo toscano, e in cui si vede a un tempo un’agricoltura ricca e progredita, e una condizione prospera del villano — due termini che la teoria dice sempre necessariamente conciliabili, e che la pratica invece ci mostra così spesso discordanti, da farli quasi ritenere per necessariamente contrapposti.

 

 

§ 63. — Condizioni per la riuscita.

Vediamo a quali precise condizioni la partecipazione applicata all’industria agricola dimostri col fatto di poter andare esente dai tre maggiori suoi difetti pratici, da noi or ora accennati.

Al primo inconveniente vien riparato, quando l’azienda rurale a cui si applica la partecipazione comprenda una tale varietà e molteplicità di colture, da far sì che il lavorante possa in epoche diverse dell’anno e ad intervalli non troppo lunghi, riscuotere un effettivo compenso alle sue fatiche, sia sotto forma di prodotti ch’egli possa volgere direttamente alla soddisfazione dei suoi bisogni, sia di altri ch’egli debba commerciare. È questa una condizione necessaria per la riuscita della partecipazione nell’agricoltura; e non solo per la ragione già detta, ma anche perchè mancherebbe altrimenti un’occupazione sufficiente per il lavorante agricolo in tutte le stagioni dell’anno. È carattere proprio dell’industria agricola di richiedere per ogni singola coltura — e per talune poi come la granicoltura a un grado altissimo — un gran numero di braccia in alcune determinate stagioni, senza poter poi fornire occupazione a quelle braccia nel resto dell’anno: onde la varietà delle colture diventa indispensabile per poter avere la continuità dell’occupazione, continuità che, come vedremo or ora, è sovrattutto necessaria perchè la partecipazione possa dare i suoi frutti. Nel Val d’Arno difatti troveremo che non si considera che un contadino possa prosperare sopra un podere, se questo, oltre tutte le colture di cereali, baccelline, leguminose, ecc. che entrino nella rotazione ordinaria, non è fornito di una dote di piante di olivi, di viti, o di castagni.

Anche a togliere il secondo degli accennati inconvenienti della partecipazione, si richiede necessariamente che essa abbracci contemporaneamente una varietà di colture, in modo che la deficienza nel prodotto dell’una venga generalmente compensata dall’abbondanza dell’altra. Insistiamo sulla necessità di questa varietà di colture da comprendersi simultaneamente nella partecipazione, perchè stimiamo questa essere condizione essenzialissima della riuscita di qualunque forma di mezzadrìa in agricoltura, e quella che spiega in gran parte la riuscita di questo contratto nella Valle dell’Arno.

Il terzo inconveniente della partecipazione è meno sensibile nell’industria agricola che in qualunque altra, e specialmente quando la partecipazione vi comprenda parecchi prodotti che siano direttamente applicabili al mantenimento dei lavoranti. In questo caso il numero dei prodotti che il lavorante deve commerciare è ristretto. Giova pure la molteplicità dei mercati che dappertutto si trovano per lo smercio dei prodotti agricoli. A liberare poi il piccolo trafficante dalla tirannia delle camorre, contribuiscono moltissimo le strade, le ferrovie, e tutti i mezzi che facilitano le comunicazioni tra luogo e luogo, e il cui primo effetto è di estendere i limiti del mercato aperto ad ogni venditore o compratore.

 

 

§ 64. — Necessità della consuetudine come barriera alla concorrenza.

Ma tutto ciò non basta. Il Mill ci ha già insegnato come il pregio maggiore del sistema della partecipazione del lavorante al prodotto in agricoltura, sia quello di rendere possibile l’impero della consuetudine, la quale osti come barriera insormontabile alla progressiva diminuzione della parte spettante al lavoro, col togliere l’azione della reciproca concorrenza dei lavoranti([256]). E difatti senza un tale ostacolo alla mutazione dei patti, senza una legge di opinione pubblica che impedisca al proprietario o all’affittuario di diminuire, ad ogni favorevole opportunità, la quota del lavorante nella repartizione del prodotto, la partecipazione, per quanto riunisca del resto tutte le condizioni già enunciate, non è al più che un ingegnoso strumento nelle mani del capitale, per poter ridurre facilmente il compenso del lavoro al di sotto di quanto, a concorrenza eguale di lavoranti, potrebbe ridursi col sistema dei salari.

E invero col salario, all’infuori del caso di una organizzazione dei lavoranti in apposite associazioni di guerra, domina assoluta la concorrenza, la quale porta in generale alla riduzione della retribuzione della gran massa del lavoro manuale, fino al puro necessario alla vita. E data la necessità della conservazione del lavoro come fattore della produzione, e data, in un determinato tempo e luogo, la misura della regola minore di vita — di quel minimo cioè di comodi della vita sotto il quale il lavorante non accetta di lavorare, anche a rischio di morire di fame, — quel salario minimo possibile sarà in ogni mercato la retribuzione che riceverà una giornata media di lavoro ordinario, senza presupporvi alcun zelo o intelligenza eccezionale.

All’incontro, la partecipazione, al pari del lavoro a fattura, fa sì che il lavorante nella speranza di un maggior guadagno si sforza fisicamente e intellettualmente a produrre quanto più gli è possibile. Ciò può realmente giovare al lavorante medesimo, non meno che alla produzione generale, quando — ed è condizione sine quâ non — sia esclusa la pressione della concorrenza: ma se invece la concorrenza seguita ad esercitare senza freno la sua azione, il guadagno medio del lavorante si ridurrà di nuovo al minimo necessario alla vita; quel minimo però non sarà più il compenso ad un lavoro ordinario, ma bensì ad un lavoro straordinario e soverchio per le forze dell’individuo. In altre parole, nessuno può far sì che il salariato lavori strenuamente mentre lavora, ed egli stesso non ha alcun motivo per sforzarsi, mentre ne ha molti per fare l’opposto; — colui invece che è retribuito colla partecipazione al prodotto, si sforzerà spontaneamente quanto più gli è possibile, e più di quanto possa sopportare la sua salute fisica o morale, e ciò farà nella speranza di guadagnare di più; ma ridotto progressivamente il suo guadagno per opera della mutua concorrenza, egli in fine non riceverà più di chi è salariato, mentre lavorerà di più; il che equivale a dire che in tal caso, a lavoro eguale, il salariato verrà ad essere pagato molto di più del mezzadro. E questa non è teoria, ma è in molti luoghi il puro fatto.

Di più, dato il dominio libero della concorrenza, il salariato potrà più facilmente migliorare la sua condizione, mediante il mutuo accordo tendente a restringere la mutua concorrenza, e questo è lo scopo delle Trades’ Unions inglesi, e di tutte in genere le Associazioni di mestiere; mentre invece ai mezzadri un’azione comune per ottenere un aumento nelle quote di divisione riesce nel fatto quasi impossibile; e ciò per la grande difficoltà di stabilire la vera media dei guadagni dei lavoranti mezzadri, data la grande varietà nella fertilità naturale o nell’effettiva produzione dei diversi terreni.

Da tutto questo appare come sia condizione assoluta per la buona riuscita della partecipazione a pro del lavorante, che la tradizione, la consuetudine o l’opinione pubblica oppongano una salda barriera ad ogni mutamento dei patti di divisione del prodotto tra il mezzadro e il proprietario.

 

 

§ 65. — Partecipazione alla rendita fondiaria.

Data questa consuetudine, con forza effettiva di legge, la mezzadrìa nell’agricoltura ci fornisce una pronta soluzione del problema, di come poter aumentare progressivamente la retribuzione del lavoro, senza un aumento nei prezzi dei prodotti, anzi malgrado una diminuzione di questi prezzi, e senza nemmeno esigere o attendere una diminuzione nei profitti del capitale applicato all’industria. Questa soluzione è resa possibile dall’esistenza della rendita fondiaria (la rent di Ricardo), alla quale, con la mezzadrìa, viene a partecipare progressivamente il lavoro; mentre invece con tutti gli altri sistemi di conduzione agricola, sia di affitto grande o piccolo, sia di opere salariate, tutta quanta la rendita fondiaria — ossia tutto quanto il guadagno progressivo che provenga dalla fertilità insita del suolo, o da altre doti di ubicazione del terreno, e dall’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli per effetto del crescere dei capitali e della popolazione — va invece al solo proprietario, meno soltanto quella parte che rimanga colpita dall’imposta fondiaria. E non vale nascondersi che sta qui il nodo di tutta la questione del pronto miglioramento della condizione dei contadini in Italia.

Se il maggiore guadagno per il lavorante si dovesse ottenere dalla diminuzione del profitto del capitale che si applica all’industria agricola, quel capitale, già troppo scarso, e allettato già pur troppo dagl’impieghi in rendita pubblica e in valori garantiti — in cui, col sistema delle ritenute, non si paga alcuna tassa — quel capitale, diciamo, rifuggirebbe affatto dall’agricoltura, con grave danno dei contadini, i cui guadagni per la mancanza di lavoro si ridurrebbero inevitabilmente di nuovo fino al di sotto del livello primitivo. Quando invece riesca di far godere il contadino di una parte della rendita fondiaria, la sua condizione migliorerà necessariamente ogni giorno più, senza che il profitto dell’industria agricola debba diminuire d’un centesimo.

Orbene, all’infuori del contadino proprietario, non vi è che il mezzadro — purchè la sua quota di partecipazione ai prodotti del suolo resti invariata, — il quale goda attualmente in parte del progressivo aumento della rendita fondiaria; — e qui sta tutto il segreto della prosperità dei mezzadri in Toscana.

 

 

§ 66. — Condizioni all’impero della consuetudine.

Ma quali sono le condizioni a cui si possa ottenere l’impero di una consuetudine come quella di cui parliamo, la quale opponendosi all’azione della concorrenza, renda possibile al mezzadro di godere progressivamente di una parte della rendita fondiaria, e faccia così della mezzadrìa un vero stadio di transizione dall’attuale latifondo alla piccola proprietà coi contadini proprietari? — Queste condizioni sono varie e complesse, e dipendono da molte circostanze di fatto. Ne enumereremo alcune delle principali:

 

Deve abbracciare tutta l’azienda rurale.

1° Che la partecipazione abbracci tutte quante le colture esistenti sopra il podere, e che queste colture siano abbastanza varie per offrire a esse sole lavoro e guadagno sufficiente al mezzadro nelle diverse stagioni dell’anno. La ragione è che ogni volta che all’infuori delle colture date in partecipazione, vi siano annesse al podere altre colture date a fitto, oppure lavori di una qualche importanza che il mezzadro debba eseguire a giornata, la concorrenza torna a farsi valere a danno della consuetudine, e coll’aumentare del fitto o colla riduzione dei salari pattuiti per quelle colture non comprese nella partecipazione, viene effettivamente a scemare la parte del lavorante anche nelle colture che vi sono comprese. Questo fenomeno non è ipotetico, ma accade realmente dovunque vi è un contratto misto di fitto e di mezzadrìa, come, per esempio, nell’alto Milanese, dove la produzione del suolo è affittata contro tante moggia di grano, mentre quella del soprassuolo è data al contadino in partecipazione. E lo stesso si riscontra pure dovunque il contratto di partecipazione va unito al patto che il contadino debba dare senza limite le sue giornate al padrone a un prezzo ridotto, e che nel fatto un gran numero di lavori agricoli si facciano così eseguire per conto padronale; come avviene, a mo’ d’esempio, in alcuni luoghi dell’alto Milanese, e più ancora nei contratti coi paisani in tutta la bassa pianura del Po.

Nell’alto Milanese difatti troviamo che coll’aumento del fitto in grano per il suolo, e coll’impiego di un gran numero di giornate del contadino a un prezzo infimo, i proprietari poterono ridurre effettivamente il guadagno del contadino per la sua metà dei bozzoli, quando questi aumentarono di prezzo, anche là dove non ardirono toccare alla quota di divisione. Là dunque la consuetudine mantenne il suo impero nella formale divisione del prodotto dei bozzoli, ma la partecipazione non essendo complessiva e non abbracciando tutta quanta l’azienda agricola, vi fu nella realtà un mutamento nei patti, e tale da riescire più grave ancora per il contadino che se si fosse mutata soltanto la quota di divisione; giacchè l’aumento delle prestazioni imposte al contadino è rimasto poi fisso, anche in quegli anni in cui i bozzoli sono tornati a rinviliare, o in cui ne è fallita la produzione.

Un fenomeno analogo si verifica nella bassa Lombardia, dove la partecipazione del paisano nella coltivazione del riso e del granturco, non rappresenta più la semplice retribuzione pel suo lavoro in quelle colture, ma deve inoltre compensarlo per l’insufficientissimo salario che gli vien pagato per le sue giornate in tutto l’anno — comunemente nell’estate di L. 0.66, e d’inverno L. 0.50, ma spesso pure d’estate di L. 0.50 e d’inverno L. 0.40 o anche L. 0.33: — donde risulta uno stato di cose in cui si vede il contadino che lavora tutto l’anno per conto del padrone per un salario insufficientissimo a mantenerlo in vita, e il quale riceve per colmare questa insufficienza una magra partecipazione in altre colture, ch’egli deve necessariamente condurre col lavoro delle sue donne.

Senza continuare più oltre questa esemplificazione, ci pare di aver detto abbastanza per convincere il lettore della necessità di una varietà di colture nell’azienda rurale condotta a colonìa parziaria, e della ulteriore necessità che la partecipazione si applichi a tutte quante queste colture, e fornisca per sè stessa il guadagno principale del contadino, e tale che basti alla sua sussistenza; senza che patti accessori di giornate a salario ridotto, o di un’infinità di altre piccole prestazioni, possano indirettamente e copertamente aprire il varco ai proprietari per profittare della concorrenza, all’effetto di operare una vera e propria riduzione della quota che spetta al contadino nella produzione complessiva. Sinchè questi patti accessori rimangono veramente tali, e di una entità minima nell’azienda complessiva, essi non presentano pericoli, e possono giustificarsi come quelli che mirano ad eguagliare in parte le condizioni così varie di fertilità e di produzione tra i diversi poderi; ma appena si veda in un luogo, che essi cominciano a crescere, e che tendono a prendere una vera importanza nel numero degl’introiti padronali, si può presagire che là la mezzadrìa non sarà più efficace a salvare il contadino dalla condizione misera e abbietta in cui giace la gran massa della popolazione rurale d’Italia.

 

Semplicità ed uniformità dei patti.

2° Dalle stesse considerazioni ora fatte, risulta pure la necessità di un’altra condizione nel contratto di mezzadrìa, perchè la consuetudine vi possa mantenere il suo impero; ed è quella della semplicità, e della uniformità dei patti di partecipazione. Non importa forse tanto per il benessere del lavorante che la sua parte sia di una metà oppure di un terzo del prodotto, quanto che quella quota qualsiasi di divisione sia generale e uniforme per tutte le colture che si trovano nel podere. È così soltanto che si escludono le rinnovate contrattazioni particolari tra contadino e proprietario, nelle quali riprende inevitabilmente il suo impero quello stiracchiare del mercato, che è, come c’insegna Adamo Smith, arbitro dei prezzi dove la concorrenza è libera.

Dove invece il patto di partecipazione è semplice ed uniforme per tutte le colture, nasce spontanea la consuetudine, la quale prende poi forza di legge per opera dell’opinione pubblica. La varietà inoltre delle colture fa sì che le sperequazioni, che per fatto delle quote uniformi di divisione possono avvenire nella repartizione del prodotto di una delle coltivazioni tra terra, capitale e lavoro, vengono a essere compensate dalle condizioni opposte di un’altra.

 

Permanenza sul podere.

3° Evvi una terza condizione indispensabile a che la concorrenza non eserciti la sua pressione continua sui patti della mezzadrìa; ed è quella di un’agricoltura che consenta al contadino di lavorare un anno dopo l’altro sugli stessi campi, e di vivere del prodotto di questi. Ove ciò non avvenga, ove al termine di ogni anno, o di ogni due o tre anni, il contadino debba trasferirsi con armi e bagagli, per le necessità dell’avvicendamento agricolo generale di un latifondo, da un appezzamento di terra ad un altro, sia pure restando nella stessa tenuta e sottoposto allo stesso proprietario, è inevitabile che il contratto a ogni scadenza si rinnuovi con condizioni diverse; che ogni volta vi siano nuove contrattazioni tra proprietario e contadino, le quali vengono a risentire necessariamente l’azione delle condizioni generali del mercato. Onde nel fatto ogni consuetudine generale viene esclusa, e il proprietario potrà prevalersi e si prevarrà delle necessità momentanee del colono per stringergli i patti, e togliergli per lo meno ogni partecipazione nella rendita fondiaria. Il che avverrà tanto più naturalmente, in quanto è intima opinione dell’universale che la rendita fondiaria debba tutta spettare per diritto divino al solo proprietario del suolo; senza che alcuno tenga conto del fatto che la proprietà privata territoriale nella sua forma quiritaria, è una creazione della legge, intesa soltanto a promuovere ed a sviluppare, nell’interesse universale, l’industria agricola, la quale non ha economicamente alcun rapporto necessario colla rendita fondiaria.

 

 

§ 67. — Durata del contratto.

Le anzidette condizioni sono pure in gran parte necessarie per la durata del contratto di mezzadrìa; anzi l’ultima enunciata quasi si confonde con questa. Senza la durata, la mezzadrìa perde non solo tutti i vantaggi che le sono particolari al punto di vista degl’interessi tanto economici che morali del lavorante, ma anche quelli sociali e politici che presenta di fronte alla società in genere. Non staremo qui a enumerare tutti questi vantaggi del contratto di mezzadrìa, quando si trovi applicato nella sua forma più riuscita; già il professor Caruso ha trattato questo argomento con somma perizia in un lavoro speciale([257]), e l’Accademia dei Georgofili in Firenze ne ha fatto più volte tèma ai suoi studi e alle sue dotte discussioni; onde non abbiamo che a rinviare il lettore alle relative pubblicazioni. Tutti però quei vantaggi particolari e generali della mezzadrìa spariscono, lo ripetiamo, ove manchi la durata del contratto, durata che non dipende necessariamente da stipulazioni a lunga scadenza, ma risulta invece nel fatto, malgrado l’uso generale del termine legale di un anno, dalla stessa esclusione della concorrenza dei lavoranti e dalla immutabilità dei patti di divisione per opera della consuetudine, onde vien tolto ogni movente per il proprietario di mutare di contadino, quando questi faccia semplicemente il suo dovere.

I limiti di questa monografia non ci permettono di estenderci più oltre intorno a questo argomento così interessante, e così vitale per noi Italiani. Scendiamo dunque senz’altro ad esaminare come e in quanto, le considerazioni fin qui svolte, ci possono illuminare nello studio di tutti quei contratti agricoli informati al principio della partecipazione, che abbiamo già veduto praticarsi in Sicilia. Saremo brevissimi, contentandoci di pochi appunti, e affidandone l’ulteriore svolgimento alla mente del lettore, al quale ora non mancano gli elementi necessari per giudicare della questione.

 

 

§ 68. — Metaterìe della 1a zona.

Cominciamo dalle metaterìe nella granicoltura, che abbiamo trovato dominanti in tutta la prima delle due maggiori zone studiate nella prima parte di questo scritto. In queste metaterìe osserviamo come la partecipazione presenti tutti quanti i suoi inconvenienti in tutta la loro pienezza, e senza che vi sia nessuna di quelle condizioni che, come abbiamo veduto, possono attenuarne i pericoli.

Qui difatti la coltura è quasi unica, quella del grano: una sola quindi la raccolta; donde la necessità per il lavorante di ricorrere normalmente alle anticipazioni o ai soccorsi. La misura minima di questi soccorsi può bensì in alcuni luoghi essere imposta al padrone dalla consuetudine, ma restano sempre mutevoli e arbitrari i patti e gli oneri con cui il soccorso vien prestato. Il padrone quindi, oppure un estraneo, quando il padrone non voglia o non possa fornire il soccorso, si prende una fortissima usura, generalmente il 50% all’anno, ossia il 25% per sei mesi, oltre la differenza di valore tra la qualità inferiore somministrata, e quella superiore del rimborso che vien preso sul raccolto. Questa usura insomma è tale da disinteressare quasi affatto il villano nel raccolto finale, poichè tra la restituzione del soccorso, i frutti da pagare, e gl’infiniti soprusi di diritti padronali sotto vari titoli, non gli resta più quasi nulla da sperare dalla sua quota del prodotto. Di qui pel contadino una condizione di continua dipendenza, la quale gli toglie ogni sentimento di dignità morale, e ogni speranza di migliorare la sua sorte col lavoro onesto e coll’economia. Egli quasi non tiene al contratto di partecipazione che per la sicurezza di ricevere soccorsi quando ne abbisogni, nè si cura del frutto che per questi gli venga imposto: non conta sul raccolto, quanto sulla garanzia che in vista del raccolto vi è qualcuno interessato a non lasciarlo morire di fame, e per questa ragione rinunzia con rassegnazione a un giusto compenso alle sue fatiche.

Il metatiere inoltre, seguendo il generale avvicendamento agricolo dell’intiero feudo, muta ogni anno o ogni due anni di podere. Quindi va perduto il vantaggio della mezzadrìa di affezionare il lavoratore al suolo, come fosse un piccolo proprietario; egli là è sicuro di non profittare mai di alcun lavoro a scadenza maggiore di un anno. Di più, quella metaterìa errante rende praticamente impossibile ogni consuetudine, o esclusione della concorrenza, giacchè i patti si rinnuovano ogni anno, e potendolo si moltiplicano. Appena se si conservano alcune grandi forme del contratto, mentre tutti i piccoli patti accessori sono variabilissimi.

Vi è poi nella realtà l’uso contemporaneo negli stessi luoghi dei contratti di metaterìa e di quelli di terratico o fitto in grano, sicchè la rinnovazione annua, e annua non soltanto di diritto ma di fatto, delle metaterìe, riduce i patti di queste allo stesso livello dei terratici, i quali, come vedremo quando parleremo degli affitti, sono esposti a tutta l’azione della concorrenza dei lavoratori.

Insomma, senza dilungarci più oltre, basta il fin qui detto per dimostrare come il metatiere sopporti tutti quanti i danni accennati al § 62, cioè: 1° necessità continua e normale di soccorsi, e come naturale conseguenza uno stato continuo di dipendenza; 2° esposizione a tutti i rischi dell’industria agricola, senza capitali per farvi fronte, e 3° difficoltà di smaltire i suoi prodotti, dovendo perciò subire passivamente tutto il despotismo delle camorre locali. Questo ultimo inconveniente è in Sicilia reso tanto più grave dalla scarsezza e difficoltà, e in alcuni mesi dell’anno dall’assoluta impraticabilità delle vie di comunicazione tra luogo e luogo.

La partecipazione dunque in questa forma di metaterìa porta soltanto alle seguenti conseguenze: che da un lato il contadino guadagna il minimo necessario alla vita, ed è esposto a tutti gli effetti della concorrenza dei suoi compagni, mentre che dall’altro la forma del suo contratto fa sì che vive la maggior parte dell’anno, non dei frutti giornalieri del suo lavoro, come il salariato, ma di mutui, di debiti, e quasi di carità, sottoposto a tutti i soprusi e a tutte le soperchierie, e felice se dopo aver lavorato e sudato per tutto l’anno, egli all’epoca della raccolta potrà arrivare a saldare le sue passività, senza dover vendere il mulo, o la casupola.

 

 

§ 69. — Mezzadrìe presso le Petralìe.

Nelle vicinanze delle due Petralìe, abbiamo veduto([258]) praticarsi una forma di contratto che va scevra da molti degl’inconvenienti suaccennati, e che si avvicina al tipo toscano della mezzadrìa; e difatti gli effetti sulla condizione dei contadini sono subito sensibili. Però anche qui troviamo l’inconveniente della mancanza di una legge di opinione pubblica che imponga come in Toscana l’uniforme divisione dei raccolti, poichè il prodotto della vigna si divide ora a metà e ora a terzi. Inoltre quei poderi sono in generale troppo piccoli per dare lavoro sufficiente alla famiglia colonica durante tutto l’anno.

Sarebbe però da ritenersi come un grande beneficio per la Sicilia, se quel tipo di mezzadrìa potesse estendersi: e gli ostacoli a ciò non dipendono da condizioni naturali avverse, ma dalle generali condizioni politiche e morali dell’Isola, e, diciamolo pure, sovrattutto dall’accidia, dall’indifferenza, dall’ignoranza, o dall’avidità della grande maggioranza dei proprietari.

 

Contratto misto.

Un altro tipo di contratto a partecipazione è quello che abbiamo trovato([259]) introdotto in un feudo della vallata di Castelbuono dal barone Turrisi, e che si ritrova pure praticato in vari siti della seconda zona dove dominano le colture legnose. Qui abbiamo un contratto misto, di fitto a grano per i prodotti del suolo, e di partecipazione per quelli del soprassuolo.

Sebbene in qualche singolo fondo tenuto da qualche ricco proprietario d’indole generosa, questa forma di contratto possa riuscire utile al contadino non meno che al padrone, non crediamo che, ove venisse più estesamente praticata, si potrebbe non andar incontro a molti tra gl’inconvenienti che abbiamo già segnalati come propri dei contratti di natura mista. Ed invero qui, oltre la mancanza di uniformità nei patti della partecipazione per le diverse colture, evvi la coesistenza dell’elemento di fitto, la quale espone il contadino a tutta la pressione della concorrenza, che inevitabilmente, se pure lentamente, ridurrà ogni giorno più in basso la sua condizione, e lo priverà di tutti i vantaggi propri della mezzadrìa. Il caso è precisamente analogo a quello già citato dell’alto Milanese. E come là così pure in questo contratto siciliano abbiamo tutti i danni che vedremo or ora esser propri del fitto piccolo, e più specialmente di quello con canone in generi.

 

Vigne.

Per la coltura delle vigne abbiamo veduto come la partecipazione del contadino al prodotto sia l’eccezione in Sicilia, e come la regola generale sia la conduzione per parte del proprietario a economia, sia direttamente con salariati, sia a estaglio cioè per mezzo di un cottimante dei lavori. Ma anche nei rari esempi in cui vi è vera mezzadrìa per la vigna, essa è limitata a questa sola coltura, onde rimane esposta a tutti i pericoli già segnalati per questo caso; e difatti abbiamo veduto come presso Alcamo bastasse un ribasso nei prezzi del vino, perchè si dovesse in gran parte abbandonare per i vigneti il sistema della mezzadrìa. Inoltre, nei casi isolati di mezzadrìa, tutto dipende quanto ai patti, dall’arbitrio e dall’apprezzamento del padrone, il quale rilascerà a volontà 1/2, 2/5 o 1/3 del prodotto al coltivatore; il solo limite minimo essendo quello sotto il quale cesserebbe l’interesse sufficiente per il contadino di curare zelantemente la coltura dei vitigni.

 

Raccolta delle olive, ecc.

Se poi si considerano le partecipazioni speciali per i lavori di raccolta delle olive, delle mandorle, o delle carrubbe, i quali si fanno in tutta l’Isola colla preventiva stima del frutto per opera del perito, e coll’assicurazione della sua quota al proprietario nella quantità stimata del perito stesso, è facile lo scorgere come qui la partecipazione non sia che una larva, e come si tratti di una specie di contratto di cottimo per i lavori di raccolta, in cui la misura del guadagno del cottimante dipende sovrattutto dalla maggiore o minore perizia o onestà del perito. S’aggiunga poi che il caso più comune è che quegli che prende a far la raccolta a gabella, ossia il cottimante, non sia un contadino, ma uno speculatore che impiega poi dei giornalieri per eseguire il lavoro. Nè quel poco di elemento di partecipazione che possa esservi in contratti siffatti presenta alcuna di quelle condizioni che valgano a frenare l’azione libera della concorrenza, la quale se non si mostrerà sempre quando si contratti con speculatori capitalisti, non mancherà di farsi valere ognivoltachè si tratti di semplici villani.

 

 

§ 70. — Mezzadrìe del Messinese.

All’incontro le mezzadrìe del Messinese ci presentano vari caratteri importanti, e tali da offrire una qualche garanzia di benessere al contadino; ma anche qui pur troppo non mancano le ombre al quadro. — In primo luogo, nella immensa varietà delle forme di conduzione agricola che si trovano nel Messinese, è molto più difficile che si possa mantenere l’impero di una consuetudine generale che escluda la concorrenza. Inoltre i patti di divisione per le varie colture vi sono molto diversi, e mutano pure per le stesse colture, secondo i padroni, i luoghi, e i terreni. La maggior parte poi delle colture legnose è comunemente sottratta alla mezzerìa, la quale si restringe più che altro ai soli prodotti del suolo. Gli agrumeti si coltivano a economia, come pure un grandissimo numero di vigne; e la partecipazione negli olivi spesso non è altro che quella nel raccolto, della natura della quale abbiamo già detto.

Tutto ciò è tanto più da deplorarsi, in quanto il Messinese e per la condizione della sua agricoltura, e per le tradizioni e gli usi locali — come quelli, per esempio, della soccida del bestiame, — si presterebbe moltissimo alla completa riuscita del contratto di mezzadrìa sul tipo toscano. L’attuale sparpagliamento però di quelle proprietà in tanti piccoli appezzamenti separati, presenta un grave ostacolo alla riuscita di qualsiasi forma di contratto agricolo, ed un inconveniente al quale non potrebbe porsi riparo che per opera della legge, la quale rendesse più facili e meno rovinose le permute.

 

Contribuzione dei coloni all’imposta fondiaria.

Nelle mezzadrìe del Messinese il colono paga una quota delle imposte prediali, eguale alla sua quota nella divisione del prodotto. Là come in molte altre provincie d’Italia, si fa per giustificare questa imposizione sul mezzadro di una parte della tassa fondiaria, il seguente ragionamento: — Poichè il mezzadro profitta per metà di tutte le entrate del podere, è giusto ch’egli contribuisca per metà alle gravezze che colpiscono quello stesso podere. —

Se per giustizia s’intende parlare di giustizia astratta, non vi è invero nulla che si possa chiamare economicamente ingiusto: i diritti del lavoro nella distribuzione del prodotto risultano da una convenzione libera tra due contraenti; si può dunque chiamare economicamente giusta qualunque retribuzione, per quanto minima, che al lavorante venga concessa, e ch’egli abbia consentito di accettare. Ma qui non si tratta di ciò.

Dato che la forma del contratto agricolo abbia una importanza sociale vera e propria nel regolare stabilmente la distribuzione della ricchezza tra il lavoro, il capitale e la terra, e dato che in questo ordinamento della distribuzione si miri non solo al vantaggio immediato ed esclusivo del proprietario, ma anche a scopi di utilità generale e di equità nelle relazioni tra le diverse classi, — diciamo che l’imporre al mezzadro una quota dell’imposta fondiaria corrispondente alla sua quota nella divisione dei prodotti, è cosa improvvida e contraria all’equità, perchè contraria alla volontà del legislatore nell’imporre la tassa fondiaria e alla medesima natura di questa tassa, e perchè contradicente all’essenza stessa del contratto di mezzadrìa, e tale da sovvertire e confondere le idee intorno ad essa. Qui dunque si tratta, se volete, di un’ingiustizia di forma, ma la forma, giova il ripeterlo, ha nella questione dei contratti agricoli, un’importanza tale da rappresentare in ultima analisi il benessere del contadino, e l’equità nei rapporti sociali.

Orbene, perchè si potesse in questo senso giustificare almeno in parte la contribuzione del mezzadro all’imposta fondiaria, bisognerebbe che il contadino godesse di una quota corrispondente della intiera rendita fondiaria del suo podere, essendo questa rendita l’obietto su cui cade l’imposta fondiaria; ma ciò non si avvera in alcun luogo e meno che mai nel Messinese, dove l’azione della concorrenza facendosi effettivamente sentire nei patti di divisione del prodotto di moltissime colture, il mezzadro non gode nemmeno di una parte degli aumenti progressivi della rendita fondiaria.

Ma supponendo pure per un momento che effettivamente accada ciò che non accade mai, nemmeno in Toscana, e che il mezzadro goda della metà della intiera rendita fondiaria del suo podere, oltre il compenso al suo lavoro e alla sua industria, non perciò sarebbe da ritenersi come cosa equa, nè come naturale conseguenza del patto generale di divisione a metà delle spese e dei guadagni, la contribuzione eguale del colono e del proprietario nel pagamento dell’imposta fondiaria, come essa è ora applicata in Italia.

Ed invero coll’attuale sistema di catasto, l’imposta fondiaria, e lo vedremo meglio in appresso, non colpisce soltanto nel suolo la rendita fondiaria, ma piuttosto tutta quella parte di ricchezza che risulta dal capitale che vi è stato impiegato per un termine più o meno lungo in opere, piantagioni, ecc.; il quale non va confuso coll’altro capitale annuo di esercizio, che resta colpito dalla tassa di ricchezza mobile pagata dall’affittuario o dal colono, e che per una strana, ma non rara inconseguenza delle nostre leggi, va immune da tassa quando il proprietario conduca da sè l’azienda rurale. In altre parole l’imposta prediale in Italia colpisce tutto quello che, astrazion fatta dalla pura fertilità naturale e potenziale della terra, si suol chiamare il capitale fisso dell’industria agricola. Orbene, il profitto di questo capitale fisso va tutto intiero al proprietario, il quale, secondo il nostro assurdo ma pur troppo reale sistema tributario, non paga per esso alcuna imposta di ricchezza mobile, ma invece una quota parte dell’imposta catastale. Che ciò sia, risulta evidente dal fatto dei catasti calcolati sulle colture effettive e quindi sulla presunta produzione effettiva del suolo, e non sulla sola fertilità naturale o sulle condizioni topografiche dei singoli appezzamenti, i quali termini soli darebbero la misura della vera rendita fondiaria dei terreni.

Ma se dunque è così, perchè mai dovrebbe il mezzadro, anche dato per comodo di ragionamento che godesse della metà dell’intiera rendita fondiaria, pagare una metà dell’imposta fondiaria, la quale per buona parte colpisce dei profitti industriali di cui egli non gode? — Egli già paga l’imposta di ricchezza mobile per i profitti della sua propria industria e del suo piccolo capitale d’esercizio. L’argomentazione apparirà più chiara quando avremo parlato della rendita fondiaria e dell’industria agricola, a proposito della perequazione dell’imposta fondiaria; ma ci pare che da questi pochi cenni risulti già abbastanza chiaro, come il caricare sul mezzadro il pagamento di una quota proporzionale dell’imposta fondiaria, non trovi alcuna giustificazione nel fatto.

Egli invero, lo ripetiamo, non gode nella migliore ipotesi che di una quota degli aumenti progressivi della rendita fondiaria a cominciare dall’epoca in cui furono fissati i patti più recenti che contenga il suo contratto; il che vuol dire che ne gode soltanto quando e dove una consuetudine locale ha reso per lungo tempo immutabili le forme anche più minute di quel contratto. Dove ciò non si avvera, si può affermare che il mezzadro non gode di nessuna parte della rendita fondiaria. Si aggiunga a ciò, che egli non gode dei profitti del capitale fisso dell’industria agricola, i quali vengono pure presi di mira dall’attuale imposta prediale; — e si otterrà per conseguenza, che dove regna sovrana la consuetudine, come in gran parte in Toscana, si potrebbe giustificare in teoria una piccolissima contribuzione del mezzadro al pagamento delle imposte prediali, la quale però non dovrebbe mai giungere a essere proporzionale alla sua quota di divisione dei prodotti del suolo; ma che in ogni altro caso qualunque contribuzione siffatta non può trovare altra giustificazione che nella volontà delle parti, ed è sempre un elemento pericoloso nel contratto di mezzerìa e che tende a falsarne l’indole e le conseguenze.

È poi abbastanza curioso il notare come sia invece soltanto in Toscana e in quei pochi luoghi dove domina quello stesso tipo di contratto, che il mezzadro comunemente non contribuisce al pagamento dell’imposta prediale, la quale vien sopportata tutta dal proprietario; mentre altrove, in Lombardia, nel Piemonte, ecc., si segue il sistema del Messinese.

Quando poi si voglia por mente alla destinazione che effettivamente vien data ai denari che frutta l’imposta fondiaria, e specialmente a quella parte di essi, che sotto forma di sovrimposta va nelle casse delle Autorità locali, apparirà sempre più come non si possa affatto invocare l’equità per far ricadere sul mezzadro il pagamento di una quota proporzionale della tassa fondiaria. E difatti basta dare uno sguardo ai bilanci comunali dell’Italia meridionale, per scorgere quanta parte del provento dell’imposta vada a beneficio esclusivo della classe dei proprietari, sotto forma di teatri, di bande, d’istituti d’istruzione secondaria o elementare superiore, di costruzioni ed abbellimenti nei quartieri nobili delle città, ecc. Per tutte queste spese fatte pei proprietari non è giusto che contribuiscano i contadini. Altrimenti ai proprietari converrebbe sempre di aumentare queste spese, poichè con ciò ridurrebbero effettivamente, in modo progressivo, e a proprio vantaggio, i patti della mezzadrìa.

Il lettore ci scuserà se ci siamo fermati su questo punto forse più di quel che non parrebbe meritare; l’abbiamo fatto perchè la questione è stata finora raramente avvertita, e perchè in parecchi tentativi fatti per applicare in diverse parti d’Italia la forma di mezzadrìa toscana, non è stato tenuto alcun conto di uno dei suoi caratteri più importanti, dell’esenzione cioè del mezzadro da ogni contribuzione all’imposta fondiaria.

 

 

§ 71. — Contratti a migliorìa.

Anche tutte quelle forme dei contratti siciliani a migliorìa, nelle quali il colono non paga un fitto per la terra, ma divide col proprietario il prodotto delle nuove piantagioni, presentano un elemento importante di partecipazione, e ricadono sotto l’azione dei principii generali di cui abbiamo parlato fin qui.

In questi contratti se a lungo termine, evvi almeno in certa misura quell’elemento di durata che è essenziale alla riuscita di qualunque forma di conduzione agricola; ma d’altra parte i difetti che presentano non sono pochi: — Primo, non abbracciano per lo più che una sola coltura alla volta, quella della vigna, o più raramente quella degli agrumi: anche la piantagione pattuita di altre piante fruttifere in mezzo alla vigna, come di olivi, di mandorli, di carrubbi, non può interessare seriamente il contadino, fuorchè in quei contratti che sono a termine molto lungo e superiore agli anni nove. In secondo luogo quasi tutto il capitale d’esercizio e le spese di piantagione, ecc., sono a carico del villano privo di capitali; mentre d’altra parte egli non può nei primi anni godere del frutto delle sue fatiche, onde è costretto a ricorrere alle anticipazioni e ai mutui, e a perdere preventivamente i maggiori beneficii del suo contratto. E quel che più importa è che ad ogni rinnovazione di questi contratti, la concorrenza è sola arbitra dei patti; onde viene issofatto eliminato il maggiore dei vantaggi delle mezzadrìe, e la condizione di questi coloni non può essere gran che diversa da quella di tutti gli altri contadini della stessa regione.

Quanto a quei contratti a migliorìa che hanno termine indefinito, come per esempio molti tra quelli a durata di vigna, essi in generale partecipano della natura dei censi, essendo il canone fisso e pagabile in denaro; oppure quando questo sia in natura e proporzionale ai raccolti si possono considerare come una forma di colonìa perpetua.

 

 

§ 72. — Colonìe perpetue.

Le colonìe perpetue del Messinese sono la migliore riprova dell’azione benefica per l’agricoltura e per gli interessi generali della società, oltrechè per quelli speciali del contadino, che esercita la forma di colonìa parziaria, quando trovi appena appena qualche condizione favorevole per poter attecchire. La sola sicurezza di quei coloni di poter godere indefinitamente di non altro che di meno della metà del frutto di tutti i miglioramenti che introducevano nel fondo, ha bastato perchè lande incolte fossero convertite in ricchi e ubertosi poderi dotati di vigne, di olivi, e di ogni sorta di coltivazione. E abbiamo detto avvertitamente «di meno della metà», perchè in quella metà che a loro doveva spettare è compresa pure la retribuzione del loro lavoro giornaliero in tutte le nuove colture introdotte.

Ma se da una parte queste colonìe presentano, di fronte al tipo più perfetto di mezzadrìa, il vantaggio di una più certa durata, assicurando così maggiormente al villano il godimento di una parte della rendita fondiaria, e avvicinandosi con ciò più alla forma di censo e al tipo ideale del contadino-proprietario, d’altra parte non mancano nemmeno i capi d’accusa. Sono principalmente i seguenti: — Mentre tutto il capitale da investirsi nel suolo deve essere sborsato dal contadino, il quale non ne abbonda, la maggior parte del profitto di questo capitale va ad ingrossare la quota di rendita fondiaria nelle mani del domino diretto, il quale nulla ha fatto per meritarsi tanta fortuna. Onde si viene alla conseguenza enorme, che dei prodotti dell’industria agricola, una metà va al domino diretto che non ci contribuisce per nulla, e l’altra al contadino il quale ha prestato tutto quanto il capitale di quell’industria, e tutto quanto il lavoro, così per il primo impianto come per il successivo e giornaliero esercizio dell’industria stessa. Sopra il colono ricade pure, se mal non ci apponiamo, il pagamento dell’imposta prediale, mentre dell’obietto di questa imposta, ossia della rendita fondiaria e dei profitti del capitale fisso impiegato nell’industria, egli non gode che di una parte minima. Per la qual cosa appariscono molto più seri per il colono perpetuo i pericoli risultanti dall’immutabilità della forte imposta prediale di fronte alla variabilità annua dei resultati dell’agricoltura, pericoli che già riescono così gravi per i piccoli proprietari.

Oltre tutto ciò evvi una condizione di fatto che ci sembra metter in continuo pericolo la durevole riuscita delle colonìe perpetue, come forma di conduzione agricola, ed è quella, che essendo la colonìa perpetua una vera proprietà per il colono, essa tende necessariamente per l’attuale legislazione a suddividere e a frazionare sempre più i poderi per mezzo delle successioni, e delle divisioni dei patrimoni. Questo pericolo la colonìa perpetua l’ha in comune colla piccola proprietà, ma nella prima il danno è meno evitabile, perchè il colono non ha a sua disposizione tutti i mezzi che ha il contadino proprietario per risparmiare qualche capitale onde evitare o riparare alla troppa suddivisione della terra. Se poi guardiamo ai fatti, vediamo come effettivamente nel Messinese l’eccessivo frazionamento delle colonìe perpetue ne ha reso quasi illusori i beneficii per la classe dei contadini, giacchè i poderi ridotti spesso a poche are di terra sono lungi dal bastare al sostentamento dei coloni.

Esaminate così brevemente nella loro natura e nei loro resultati le forme principali dei contratti che s’informano al principio della partecipazione, dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione alla seconda delle accennate categorie di contratti agricoli, ossia a quella degli affitti di ogni natura; e ciò faremo in un capitolo a parte.


 

 

Capitolo II.

 

IL FITTO

 

 

 

§ 73. — Fitto dei latifondi.

Distinguiamo prima di tutto il fitto grande, che il proprietario di una estesa tenuta contrae con uno speculatore o un industriale, per la conduzione dell’intiera proprietà, dal fitto più ristretto che abbraccia pochi ettari di terra, e in cui l’affittuario è un vero e proprio contadino, il quale coltiva da sè il suo podere.

Nella prima categoria intendiamo sovrattutto parlare delle grandi gabelle degli ex-feudi. Abbiamo veduto come spesso in Sicilia tra il proprietario e il contadino vi hanno parecchi intermediari, poichè il grosso gabellotto subaffitta la tenuta a un altro speculante, e questi alle volte subaffitta perfino di nuovo a un terzo, il quale soltanto è il vero impresario dell’industria agricola, e tratta direttamente coi contadini. Un caso così estremo è forse raro, ma quello di una prima subgabella non lo è tanto. I danni che provengono al contadino, al proprietario e all’agricoltura dall’esistenza di questa pluralità di inutili intermediari sono di per sè evidenti, e quindi ci basta avvertire il fatto senza fermarci a discuterlo.

Non tutti però hanno egualmente presenti i danni che risultano dalla esistenza anche di un solo intermediario tra il proprietario del suolo e il contadino, e specialmente là, come in Sicilia, dove lo stesso contadino, sia come subaffittuario, sia come metatiere, o sotto altra forma, è un vero e proprio impresario dell’industria agricola, sopportandone i rischi e anticipandone una buona parte delle spese. L’affittuario è un semplice industriale che tira ad ottenere il maggior profitto possibile dall’impiego del suo capitale, e a cui nulla importa nè della durevole feracità del terreno, nè della prosperità dei coltivatori di esso.

Finchè i proprietari affitteranno le loro tenute, non potranno mai ispirarsi al concetto che la proprietà territoriale è non soltanto un diritto, ma ancora un ufficio, e implica non pochi doveri verso la società in genere, e verso chi col suo lavoro fa fruttare la terra. Dove invece il proprietario si trova in relazioni dirette col contadino, e che si tratti dell’uso generale della contrada e non di singole eccezioni, sarà raro, perchè contrario agl’istinti di socievolezza insiti nel cuore umano, che quelle relazioni non s’ispirino in parte ai sentimenti di solidarietà e di carità reciproca. Se la grande proprietà privata può in propria difesa esibire alcuni vantaggi generali che le sono propri, tanto di fronte alla proprietà piccola, come a quella demaniale, vantaggi che non stiamo qui a enumerare giacchè tutti i trattati di Economia politica ne parlano, ciò è quasi soltanto a condizione che il proprietario si occupi da sè delle sue terre, e che non vi sia un industriale intermediario tra lui e il contadino. Se intermediario vi dovesse necessariamente essere, la proprietà di tutto il territorio in mano dello Stato sarebbe di gran lunga preferibile a qualunque forma di proprietà privata, all’infuori di quella sola del contadino-proprietario; la quale eccezione non farebbe che confermare la regola, poichè dove il coltivatore è il proprietario non vi è intermediario possibile.

 

 

§ 74. — Danni dei grandi affitti.

Al punto di vista della condizione della classe agricola, il danno economico maggiore proveniente dal sistema degli affitti è il seguente: La concorrenza degli affittuari riduce il loro guadagno al solo saggio del profitto corrente per i capitali impiegati nell’industria, calcolati di più i rischi e i disagi che siano speciali all’industria agricola; e tutta quanta la rendita fondiaria va al proprietario, come canone d’affitto. Non ci arresteremo a parlare della pressione che gli affittuari, per accrescere i loro guadagni o eventualmente per diminuire le loro perdite, naturalmente esercitano sui contadini affin di ottenere un aumento dei profitti industriali mediante la diminuzione della parte che spetta al lavoro. Basterebbe che il lavoro, per quanto ciò sia difficile a ottenere nella pratica, si trovasse in condizioni da poter lottare col capitale, perchè quella pressione non fosse temibile nè dannosa. Ma date le circostanze anzidette, e data l’attuale condizione dei contadini, che sfidiamo l’economista il più roseo, il più ottimista di trovare soddisfacente e tale che non si debba cercare di migliorarla, il sistema del fitto ci colloca nel seguente circolo di ferro:

Se in qualche modo, per mezzo di associazioni o di accordi espressi o taciti, o per emigrazione, o per amore o per forza, si aumentasse la parte che spetta al lavoro nel prodotto comune, o in altre parole si migliorasse la condizione del lavorante agricolo, questo aumento dovrebbe togliersi dai profitti dell’industria agricola, almeno per tutto il tempo residuo della durata degli affitti: di qui impoverimento dei capitalisti agricoltori, pregiudizio grave recato all’agricoltura, e diminuzione del capitale nazionale che s’impiega nella terra; e ciò sia con l’effettivo trasferimento di capitali dall’industria agricola ad altro impiego o al consumo improduttivo, sia colla cessazione di tutti quei nuovi impieghi di capitale nella terra, che altrimenti sarebbero avvenuti. E come conseguenza necessaria di tutto ciò, la concorrenza dei lavoranti ridurrebbe di nuovo il loro guadagno di tanto quanto sarebbe per lo meno necessario per elevare fino al punto di prima i profitti dell’industria agricola. In altre parole col sistema del fitto, il miglioramento della condizione del contadino non si potrebbe ora ottenere che col danno dell’agricoltura, e il danno arrecato all’agricoltura ripeggiorerebbe la condizione del contadino. Bisognerebbe dunque in tal caso disperare di ogni progresso.

È bensì vero che allo spirare degli affitti, e quando il lavoro sapesse continuare a far valere le sue esigenze, i proprietari sarebbero costretti per la diminuita concorrenza degli affittuari, a ridurre i canoni di affitto, e che così i profitti dell’industria agricola tornerebbero al livello ordinario, senza pregiudizio agli aumentati guadagni del lavoro, ma soltanto con diminuzione della rendita fondiaria che va in mano al proprietario. Ma d’altra parte quando gli affitti sono lunghi, e per varie ragioni è bene, anzi è necessario che siano tali, questo riadattamento dei canoni di affitto alle nuove condizioni imposte dal lavoro, non potrebbe essere che lento, e non si opererebbe che a grandi intervalli; e ciò è sufficiente perchè nel frattempo o il lavoro non possa mantenere le sue maggiori pretese contro la pressione della propria concorrenza, o l’agricoltura sopporti delle crisi violentissime e forse irreparabili.

Quando invece è il proprietario stesso che conduce l’industria agricola, ogni aumento della parte che spetta al lavoro non va necessariamente tolto, nemmeno per un solo istante, dai profitti di quell’industria, ma invece ricade immediatamente e ipso facto sulla rendita fondiaria percepita dal proprietario: onde il miglioramento della condizione del lavorante non è più un pericolo o una minaccia per l’agricoltura, ma soltanto l’effetto di una partecipazione del lavorante alla rendita fondiaria. E alla società non può che essere di vantaggio per più riguardi, e d’altra parte non importa alla condizione dell’agricoltura, se una parte anche notevole della rendita fondiaria va in mano del lavorante invece che del proprietario.

Ammettiamo bensì che teoricamente anche col sistema del fitto, un proprietario filantropo ed attivo possa, rinunziando volontariamente ad una parte della rendita fondiaria, imporre al suo affittuario con patti precisi che un valore eguale a quello a cui egli, proprietario, rinunzia, vada in aumento della parte che spetta al lavoro; ma nel fatto un tal fenomeno non accade e non accadrà, e perchè questa forma di abnegazione è troppo rara, e perchè anche trovandola, sarebbe quasi impossibile nella pratica di far sì che quella generosa rinunzia del proprietario non andasse semplicemente a finire nelle tasche dell’affittuario; ammenochè anche questi fosse animato da sentimenti di virtù e di carità, non meno vivi di quelli del suo principale.

Le predette considerazioni trovano tanto più la loro applicazione per quel che riguarda i grandi affitti della Sicilia, inquantochè là, a differenza di quanto accade negli affitti della bassa Lombardia, la maggior parte del territorio, e quella appunto che è coltivata per mezzo di affittuari, è priva quasi affatto di capitali che siano stati immobilizzati nel suolo, mediante piantagioni, costruzioni, allivellamenti o altro: onde la rendita pagata al proprietario mediante il canone di affitto, non contiene quasi alcun elemento di profitto di capitali che siano stati da lui impiegati stabilmente nel suolo, ma si compone unicamente di pura rendita fondiaria. E perciò nè direttamente nè indirettamente, l’aumento della parte del prodotto del suolo che va al lavoro, non potrebbe minacciare l’agricoltura, ognivoltachè riuscisse di toglierlo esclusivamente dall’attuale rendita dei proprietari.

È poi da osservare che le nostre leggi d’imposta favoriscono la conduzione diretta delle proprie terre per parte del proprietario, in quanto egli non paga a questo titolo tassa di ricchezza mobile, mentre la paga, e non lieve, l’affittuario; onde il proprietario che conduce da sè l’azienda rurale, percepisce, oltre il profitto che potrebbe fare un affittuario, per di più tutto l’ammontare della tassa di ricchezza mobile, ossia un aumento di circa un decimo.

Non abbiamo occasione di parlare a proposito della Sicilia, del contratto di affitto per le proprietà alberate, e dove già un grande capitale si sia immedesimato col suolo, poichè, come abbiamo già visto, queste proprietà non si affittano quasi mai, fuorchè nei casi voluti per legge, come quando si tratti di beni di Opere pie, ecc. La ragione n’è chiara. La conservazione di quel capitale che si è applicato alla terra — e che a torto, come osserva il Basile, vien chiamato capitale fisso, poichè nessun capitale è fisso all’infuori di quello che s’identifica colla fertilità naturale della terra, — la conservazione, diciamo, di quel capitale correrebbe grave pericolo nelle mani di un affittuario al quale nulla importa delle condizioni del fondo, al di là del termine del suo affitto. Egli tirerebbe a sfruttare ogni agente di produzione quanto più possibile e quanto più presto possibile, con grave danno del proprietario, dell’agricoltura e dei contadini. E questo è difatti quel che accade dappertutto in quei casi di affitto che vengono imposti dalla legge.

 

Conduzione diretta del proprietario.

Riassumendo diremo che dove e finchè si manterrà il sistema dei grandi affitti, riteniamo che poco o nulla vi sia da sperare per il miglioramento della condizione della classe agricola, e che auguriamo alla Sicilia, come a ogni altra provincia d’Italia, che i proprietari, persuadendosi che il lavoro e non l’ozio è vera fonte di dignità, si applichino alla amministrazione diretta dei loro beni, senza intermediari tra essi e i loro contadini: ciò facendo eviteranno nell’avvenire molti pericoli e molti danni a sè ed agli altri. Ma è sperabile che ciò avvenga? — Non lo crediamo, ove s’intenda che i più grandi proprietari attuali vogliano abbandonare la loro stolta vita di ozio e di abbrutimento fisico e morale, per mutarsi in membri utili della società; ma vi può essere all’incontro motivo di sperare che la classe più vigorosa, più intelligente e più energica dei grandi affittuari — parliamo specialmente di quelli della Lombardia e della Sicilia, che abbiamo potuto avvicinare da noi, e di cui abbiamo potuto apprezzare le molte e virili qualità — si sostituisca a poco a poco agli attuali proprietari, senza perdere le proprie abitudini di iniziativa, d’intelligenza e d’attività.

 

 

§ 75. — Fitti piccoli.

Scendiamo ora a considerare gli affitti piccoli che si contraggono in Sicilia direttamente col contadino, sia dal proprietario, sia, più comunemente, dal gabellotto. Qui distinguiamo i terratici, dai piccoli fitti in denaro.

 

Il terratico.

Il contratto di terratico è un vero fitto con canone pagabile in grano, e presenta tutti gli svantaggi propri di questa forma di contratto. Il terratico però presenta inoltre qualche carattere suo speciale in tutta quella parte del territorio dell’Isola dove domina la granicoltura; e ciò per le condizioni particolari dell’agricoltura siciliana. Difatti il terratichiere dei feudi dovendo per lo più conformarsi rigorosamente all’avvicendamento generale del latifondo, non è libero di coltivare il suo podere a modo suo, nemmeno al di là di quella parte del campo che si possa ritenere sufficiente per produrre il grano dovuto come terraggio o canone d’affitto: e per la stessa ragione il suo contratto è necessariamente, e non soltanto in diritto ma anche nel fatto, limitato a pochi anni, poichè quello stesso appezzamento di terra dovrà poi essere destinato al pascolo, mentre la parte del feudo che fino allora era a riposo viene a concedersi a terratico o a metaterìa. Questa particolarità dell’agricoltura dei feudi siciliani, è forse quella che ha contribuito a non sfruttare del tutto la fertilità della terra, e ad evitare una parte dei mali sociali a cui l’uso generale del piccolo fitto in grano avrebbe inevitabilmente condotto, ove questo contratto non vi avesse avuto forma e natura così errante e temporanea. Gravissimi nonpertanto sono gl’inconvenienti che presenta anche il terratico dei feudi siciliani.

Con questo contratto si rende assicuratore dei rischi di una coltura incerta, come quella dei cereali dovunque specialmente manca l’irrigazione, il piccolo coltivatore del suolo che difetta di capitali; e senza capitali non vi è possibile assicurazione di rischi. Ora perchè il contadino potesse formarsi un tal capitale di assicurazione per le annate meno buone, bisognerebbe che le condizioni del fitto fossero moderatissime, e che il canone fosse calcolato piuttosto sulle raccolte delle annate cattive che delle buone. Ma invece abbiamo già veduto che cosa accade. La forma del contratto lasciando aperto a doppio battente l’adito alla concorrenza dei lavoranti, i padroni ne approfittano per stringere i patti, ed elevare sempre più i canoni di affitto, riducendo fino all’ultimo limite e al di là, il compenso che può toccare al contadino per la prestazione della sua opera. E il Caruso, il Cattani, il Salamone([260]), c’informano fino a che punto incredibile si sia giunti su questa via.

Gli stessi inconvenienti si verificano in quei contratti di terratico in cui il contadino non è tenuto a seguire l’avvicendamento generale di un fondo più esteso del suo, ed ha una certa libertà di coltivare a modo proprio almeno una parte del suo terreno; come accade talvolta anche nei feudi quando il termine del contratto di terratico coincide col termine della gabella generale del feudo, e come accade sempre nelle tenute minori, e pei campi nudi che si trovano in mezzo alle colture alberate, e anche per il suolo coltivabile che rimane sotto agli alberi. Anzi in questi casi vi è un danno di più, proveniente dalla non interruzione del contratto di fitto, ed è quello dello sfruttare progressivamente la terra, coll’obbligare il contadino a coltivare sempre una porzione determinata del suo podere a cereali, per il pagamento del canone di grano, impedendogli così di fare quegli avvicendamenti che richiede una buona economia rurale, e a cui egli non può per difetto di capitali supplire con una forte concimazione.

 

 

§ 76. — Piccolo fitto in denaro.

Il fitto in denaro di piccoli appezzamenti di terra, fatto ai contadini direttamente dal proprietario o più spesso dal gabellotto di una tenuta, è sistema che, come già dicemmo, va da qualche anno generalizzandosi in alcune parti dell’Isola, e da parecchi Siciliani vien raccomandato come un mezzo efficace per migliorare la condizione del contadino, e insieme quella dei proprietari, coll’aumento della produzione agricola.

Le ragioni che si adducono a favore di questo sistema sono le seguenti: Maggiore libertà pel contadino nel regolare le colture secondo le minute diversità di suolo, di esposizione, ecc.; di qui rialzamento della sua condizione morale e intellettuale; accrescimento della produzione per lo stimolo del guadagno offerto al coltivatore; e conseguente aumento della rendita pel proprietario; e tutto ciò in maggior grado quando si riesca ad eliminare ogni intermediario tra il proprietario e il piccolo affittuario.

Noi siamo pronti ad ammettere che questi vantaggi si potrebbero in parte ottenere nei primi tempi in cui si sostituisca il sistema dei piccoli fitti alle grosse gabelle; ma non possiamo nascondere d’altra parte come quel sistema ci sembri gravido di pericoli per l’avvenire, e tale, quando venisse generalmente adottato, da condurre inevitabilmente a una questione agraria non meno minacciosa di quella che sorse negli ultimi anni in Irlanda.

Prima di tutto nulla c’induce a credere che la introduzione del piccolo fitto in denaro ai contadini debba elidere gli affittuari maggiori, che si fanno garanti di fronte al proprietario di ogni rischio d’insolventezza dei piccoli affittuari, liberandolo per di più dalle noie e dalle complicazioni di un’amministrazione minuta ed uggiosa. Ma che ciò avvenga o no, rimangono egualmente tutti i gravi difetti che presenta sempre il piccolo fitto, e di cui abbiamo or ora rilevato una buona parte parlando dei terratici. Il fitto in denaro ha poi il maggiore inconveniente che il contadino vi è obbligato a vendere i suoi generi per ottenere i contanti, e la concorrenza sul mercato in quello stesso momento di tutti i suoi compagni fa abbassare grandemente i prezzi, con grave danno dell’intiera classe. Nelle annate cattive non è che col contrarre debiti che il contadino affittuario può soddisfare al suo obbligo: onde essendo a suo carico tutto intiero il capitale d’industria, egli non potrebbe nè seminare nè concimare a dovere il suo podere per l’anno successivo, e posto una volta sulla china del debito, e caduto in mano agli usurai di campagna non si rileva mai più.

L’esempio dell’Irlanda ci sia d’ammaestramento. Col piccolo fitto l’azione della sfrenata concorrenza reciproca dei contadini ridurrà sempre fatalmente al più basso grado di miseria la classe agricola, con rovina delle proprietà e con pericolo grave per la società intiera. Il misero affittuario non può difendersi contro la concorrenza dei suoi simili, e contro la prepotenza e l’avidità dei proprietari e degli affittuari, in altro modo che colla violenza: e dobbiamo avvertire che in Sicilia le tradizioni locali e le condizioni politiche e naturali portano già troppo facilmente su questa via! Badiamo di non inasprire tanto la lotta per l’esistenza da far sì che più non si combatta che a minacce e a schioppettate. L’Irlanda non si è salvata dalla guerra sociale la più selvaggia che coll’emigrazione in massa di un quarto della sua popolazione.

Per tutto ciò riteniamo che la sostituzione del piccolo fitto in denaro agli attuali sistemi di metaterìa e di terratico errante, non migliorerebbe affatto a lungo andare la condizione del contadino, e rischierebbe di accrescere i pericoli sociali della situazione presente. Ed invero al contadino che tiene a fitto per lungo tempo un appezzamento di terra, e che acquista così quasi il sentimento di un certo diritto sopra quel suo podere, ogni aumento di fitto che gli venga fatto per effetto della concorrenza dei suoi compagni o del lavoro da lui impiegato a migliorare il fondo, gli apparisce più ingiusto e gli sa più di spogliazione, che non al metatiere o al terratichiere errante dei feudi una diversità di patti quando vien loro assegnato ogni due o tre anni un podere nuovo. Inoltre il piccolo affittuario stabile vede più facilmente che non il borgese attuale, nell’esercizio della violenza o della minaccia un mezzo efficace per conservare la sua terra a buoni patti, e per resistere a quelle che a torto o a ragione egli ritiene per usurpazioni e soprusi del proprietario legale.

 

Ricchezza mobile sui contadini affittuari.

Prima di lasciare questo argomento dobbiamo pure notare come l’attuale imposta di ricchezza mobile riesca rovinosa per i piccoli affittuari, verso i quali il legislatore non usa nessuno dei temperamenti che la legge dell’11 agosto 1870 ha ammesso per la classe dei coloni; e come inoltre questa condizione venga aggravata e resa insopportabile dal modo col quale viene dagli agenti delle tasse calcolato in Sicilia il reddito imponibile di quei piccoli affittuari. Siamo stati assicurati più volte in diverse parti dell’Isola e da persone di ogni classe sociale, che ai contadini affittuari l’imposta viene per lo più calcolata sopra un reddito molte volte maggiore dell’ammontare del canone di fitto, e ciò sulla presunzione che esista un capitale d’esercizio che tutti sanno che non esiste.

Il legislatore, quasi avesse preso a perseguitare a bella posta la classe dei contadini affittuari, li tratta, in materia d’imposte, peggio di qualunque altra classe d’industriali, e molto peggio della classe dei coloni. E difatti, «mentre per tutte le altre industrie è ammesso il difalco dal reddito, delle spese per l’opera prestata da famiglie associate o dai figli minorenni (art. 51 del Regolamento e decisione della Commissione centrale, n° 8107, fasc. I, pag. 125), per le colonìe ed affittanze agrarie non è ammessa separazione di sorta, ed esse sono considerate come un solo ed unico ente (art. 9 della Legge e 63 del Regolamento); è insomma tassato l’ente produttore, non chi ne fruisca i prodotti»([261]).

La diseguaglianza poi di trattamento che fa la nostra legge tra i contadini affittuari e i coloni parziari, è enorme e tale da parere incredibile: E difatti il colono per la legge dell’11 agosto 1870 paga per imposta di ricchezza mobile il 5% sull’ammontare della imposta fondiaria principale, mentre per gli affittuari vige la regola comune ed i loro redditi accertati e resi imponibili colle solite detrazioni e normalità, van soggetti alla solita tassa del 13.20%. Onde si viene nel fatto alle sproporzioni seguenti:([262])

Una masseria, poniamo, dell’estensione di 20 ettari, della rendita effettiva di L. 808.20, (40.41 per ettaro, media calcolata per la Sicilia) e censuaria di L. 422 (21. 10 per ettaro, media calcolata per la Sicilia), pagherebbe a titolo d’imposta fondiaria principale (in base all’aliquota 0,205) L. 86.51, per cui se data a colonìa farebbe, in ragione del 5% sull’imposta fondiaria, pagare al colono un’imposta di ricchezza mobile di L. 4.32: data invece in affittanza a corrispettivo fisso farebbe pagare al conduttore sul suaccennato reddito netto di L. 808.20 — imponibile L. 606.15 — un carico di annue L. 80, cioè diciotto volte e mezza più che al colono, e tanto quasi quanto paga all’erario per imposta fondiaria principale il proprietario del fondo. «E questa» soggiunge a ragione la Commissione consorziale di Piombino-Dese «è una condizione di cose assolutamente impossibile».

 

 

§ 77. — Censi.

Per completare la categoria dei contratti agricoli a corrispettivo fisso, ci resta a parlare dei contratti di censo o enfiteusi, tanto comuni in Sicilia, e di quelli di fitto a termine indefinito, o a termine lunghissimo.

«In Sicilia, dice il Corleo, per poco non è data la stessa aria in enfiteusi: dove è coltura ivi è enfiteusi, poichè i baroni non coltivarono mai a proprie spese»: — e se per coltura s’intende quella soltanto che presuppone l’impiego di un qualche capitale nel suolo, o qualunque coltura di alberi o arbusti fruttiferi o industriali, è certo che la massima parte delle colture siciliane si debbono alla grande diffusione del contratto di enfiteusi.

Dopochè però colla legislazione italiana si son resi affrancabili tutti i censi, la costituzione di nuove enfiteusi è divenuta fenomeno raro, anzi rarissimo, ed è questo un danno non indifferente per il progresso dell’agricoltura siciliana, e per il miglioramento delle condizioni della classe rurale. Non ci occupiamo qui dell’avvenuta censuazione dell’asse ecclesiastico, rimettendo di parlarne a quando diremo in generale dei rimedi e dei provvedimenti tentati o da tentarsi. La legge di affrancabilità delle enfiteusi se ha impedito la costituzione di nuovi censi, non ha però avuto ancora un’azione molto estesa nello scioglimento di quelli già esistenti. Chi possedeva capitali o poteva ottenerne a buoni patti, ha preferito impiegarli nell’acquisto di nuove terre demaniali o ecclesiastiche, anzichè nello sciogliere quelle già possedute dagli antichi vincoli. Del resto al nostro argomento non interessano tutti quei censi, e sono di gran lunga il maggior numero, che sono posseduti dalla classe agiata, e non dal vero e proprio coltivatore del suolo.

Certamente il contadino enfiteuta, ogni volta che non sia troppo alto il censo di fronte alle particolari condizioni di feracità e di situazione del terreno, si trova per alcuni riguardi in una condizione abbastanza simile a quella del contadino proprietario. Egli ha eguale stimolo al lavoro e al risparmio, e la sicurezza di godere dei frutti di ogni sua maggiore fatica. Però nelle condizioni attuali dell’agricoltura dell’Isola, è grave la disposizione legislativa della devoluzione del fondo, ove l’enfiteuta per soli due anni non soddisfaccia al pagamento del suo canone; ed i proprietari diretti abusano spesso di questa loro facoltà, lasciando a bella posta scorrere inavvertiti i termini fissati per il pagamento del canone, senza nulla chiedere, per poi poter esigere tutta insieme l’intiera somma dovuta per un paio di annate, e dietro l’impossibilità in cui il contadino naturalmente si trova di pagarla, rescindere dopo altri due anni l’enfiteusi, e riprendersi le terre, che tanto aumentarono di valore dall’epoca antica in cui furono concesse a censo.

Contuttociò è da deplorarsi che ora dai proprietari siciliani non si concedano quasi più i terreni a censo ai contadini, e riteniamo che nell’Isola la nuova riforma sia stata prematura, perchè troppo assoluta. Una legge che permettesse alle parti di convenire l’inaffrancabilità dell’enfiteusi per un termine di 30 o 40 anni dal giorno della costituzione del contratto, potrebbe, senza inceppare soverchiamente la proprietà, togliere una parte degli ostacoli che impediscono ora ai proprietari di valersi di questa forma di contratto agricolo, la quale vien troppo spesso considerata dagli uomini di Stato come un vecchio arnese medioevale adattato soltanto ai tempi feudali, e che potrebbe essere invece un mezzo di passare gradatamente dalla grande alla piccola proprietà, ed insieme uno strumento potente di miglioramento agricolo.

 

Fitti a termine indefinito o lunghissimo.

I contratti di fitto a termine indefinito rassomigliano troppo alla enfiteusi vera e propria, perchè vi sia nulla di particolare da osservare in proposito. Quanto a quelli a termine lunghissimo, i vantaggi che presentano sono della stessa natura di quelli del contratto di enfiteusi, ma diminuiti soltanto di grado.

I limiti poi del presente lavoro non ci consentono di esaminare minutamente tutte quelle forme minori di contratti agricoli dove i diversi elementi di partecipazione, di fitto e di salario si trovano mescolati, ed il lettore potrà facilmente caso per caso applicare quei principii che svolgiamo relativamente ai tipi principali in cui predomina l’uno piuttostochè l’altro di quegli elementi.


 

 

Capitolo III.

 

IL SALARIO

 

 

 

§ 78. — Categorie di salariati.

Volgiamoci ora alla terza categoria di contratti agricoli, a quella cioè delle diverse forme di salariato. Le principali di queste forme sono: 1° quella dei salariati ad anno o a lungo termine, ossia gl’impiegati delle fattorie; 2° i lavoranti a cottimo, sia che questo comprenda un determinato lavoro, oppure tutta una serie di lavori che si riferiscono a una coltura, come per esempio nella coltivazione delle vigne a estaglio o a baliaggio; 3° i giornalieri, i quali pure si suddividono in veri braccianti liberi, e in quelli che hanno per patto di lavorare tutto l’anno, o per altro dato termine, per un dato padrone e contro un dato salario ogni volta che vengano richiesti, come ad esempio i metatieri dei contorni di Patti, e quelli del Milazzese.

Una qualità comune a tutte queste e ad ogni altra forma di salario, è quella di esonerare il lavorante da ogni rischio nella riuscita dell’industria a cui presta la sua opera. Egli riceve semplicemente il compenso per il servizio che presta, e ciò via via che lo presta, e non ha più nessun interesse diretto nell’andamento dell’impresa. Questa particolarità della forma del salario ha il vantaggio di togliere per il salariato la necessità delle continue anticipazioni, e tende quindi a liberarlo dal debito. Ciò però a condizione che il lavoro sia continuo, e che il salariato non sia facilmente esposto a lunghi intervalli di sciopero. Per questo riguardo quindi sta meglio l’impiegato annuo di una fattoria, per quanto modesta ne sia la posizione, che non il giornataro o bracciante che loca l’opera sua a giornata, il quale non può mai avere la sicurezza del domani. E se questo è vero in generale, lo è tanto più in Sicilia, dove la poca varietà delle colture sopra tanta parte del territorio rende molto varie secondo le diverse stagioni dell’anno le condizioni del lavoro salariato.

 

 

§ 79. — I braccianti.

L’esclusiva coltura dei cereali in tutta l’aperta campagna della maggior parte dell’Isola, porta per naturale conseguenza che in alcune brevi epoche dell’anno il bisogno di braccia è estremo, e tale da non esser quasi mai completamente soddisfatto, mentre nel resto dell’anno, e specialmente nell’inverno, i lavori scarseggiano, e i braccianti non trovano da impiegarsi. A questo si aggiunga il fatto dell’accentramento della popolazione rurale nelle città, il quale fa perdere al bracciante una gran parte delle giornate in cui la stagione sia cattiva o minacciosa nelle sole prime ore del mattino, e ciò a causa della distanza che lo separa dal luogo dove deve lavorare: onde per lui non esiste quasi l’impiego della mezza giornata. Quella stessa distanza cagiona pure normalmente e a lui, e a chi lo impiega, e alla società in genere, la perdita del lavoro utile di, in media, una giornata sulla settimana. Queste considerazioni ci spiegano l’apparente contradizione tra un saggio medio di salario giornaliero abbastanza elevato e superiore a quello di una gran parte del resto d’Italia, e una condizione depressa della classe dei braccianti. Esse ci spiegano pure il perchè, malgrado l’elevatezza dei salari, si mantenga viva la concorrenza dei giornalieri per cercare di diventar metatieri o terratichieri.

Un’altra particolarità poi che spiega il perchè la concorrenza dei giornalieri non abbia ridotto di più il saggio dei loro salari in Sicilia, nonostante la scarsità del lavoro in buona parte dell’anno, è la seguente: Tutta l’economia agricola della maggior parte dell’Isola tende a rigettare il pagamento dei salari dei braccianti sulla stessa classe dei contadini. Sono difatti i contadini metatieri o terratichieri che devono pagare tutti i lavori necessari per la coltivazione dei loro poderi: e lo stesso si dica pei coloni nei contratti a migliorìa; pei mezzadri delle vigne; pei guardiani che lavorano i vigneti a estaglio, cioè a tanto per mille viti; e pei piccoli appaltatori del raccolto delle olive, delle mandorle, ecc. Tutte queste classi, e sovrattutto i metatieri e terratichieri, che sono il maggior numero, si trovano in condizioni tali che è loro impossibile di accordarsi in modo espresso o tacito, per lottare contro l’elevatezza dei salari in quelle epoche dell’anno in cui è grande il bisogno di braccia. Se essi per difendersi mostrassero di voler differire o sospendere i lavori, ci penserebbe subito il loro padrone o il suo campiere a fissare addirittura le ciurme dei lavoranti; e al padrone poco importa se il salario pagato è di qualche centesimo più o meno, poichè egli non fa che anticiparlo per conto del borgese. Spesso il medesimo contadino che lavorerà per un alto salario giornaliero alla mèsse nelle terre di marina, dovrà, pochi giorni dopo, per un pezzetto di terra ch’egli abbia a metaterìa nella regione più alta, pagare per la mèsse salari egualmente alti ad altri lavoranti venuti dal basso; e viceversa.

Una conferma di quanto sopra, si potrà trovare nel fatto che là dove i proprietari, o gabellotti che siano, coltivano a economia ossia direttamente per conto proprio una buona parte dei terreni, come accade nel Siracusano e nella marina di Patti, di Milazzo, ecc., la media dei salari giornalieri è subito molto più bassa; — e perchè mai? — Perchè i proprietari e i gabellotti possono, per mezzo del capitale, molto meglio difendersi e premunirsi contro i lavoranti, e prevalersi anzi della concorrenza reciproca dei lavoranti stessi per tener bassi i salari; onde vediamo i contratti di partecipazione introdotti per le raccolte dei frutti dell’olivo, del mandorlo, del carrubbio; vediamo i contratti che fissano un determinato salario a cui il bracciante si obbliga di lavorare in tutto l’anno o per un certo numero di mesi per chi lo ha impegnato; vediamo le caparre date ai lavoranti nel gennaio per obbligarli fin da allora a lavorare alla mèsse di giugno per un salario già determinato, oppure da determinarsi poi dal padrone stesso; vediamo i contratti a estaglio e a baliaggio, con cui, mediante la prestazione della casa e la partecipazione in qualche piccola coltura, i proprietari si assicurano da ogni eventuale pretesa dei lavoranti.

Nelle zone a colture alberate si può bensì voler spiegare in parte la relativa bassezza del salario dei giornalieri, di fronte alla regione interna, colla maggiore continuità di lavoro che offre la varietà delle coltivazioni, onde il lavorante è più sicuro di trovare impiego durante tutto l’anno; ma ciò ci darebbe piuttosto le ragioni per cui con un salario minore il bracciante delle regioni alberate stia meglio e non peggio di quello dell’interno dell’Isola, anzichè dirci perchè, malgrado l’aumentato bisogno di braccia, i salari nella zona alberata si mantengano relativamente bassi. Questa ragione inoltre non ci darebbe alcun lume intorno alle cagioni della bassezza del saggio dei salari in una gran parte del Siracusano, di fronte a quelli dell’interno della Sicilia.

Non è che sosteniamo che questa differenza si debba tutta quanta ascrivere al fatto che i gabellotti del Siracusano coltivano ancora una buona parte dei feudi a economia, imperocchè questo fatto può indubitatamente essere non solo causa ma anche effetto della bassezza dei salari. Altre cause influiscono pure a mantenere più alti i salari nelle provincie interne, come quella della ricca industria mineraria, della maggiore feracità generale del suolo, della scarsezza di comunicazioni tra provincia e provincia, e delle stesse condizioni di minore sicurezza pubblica, ecc. Però il fatto costante della elevatezza dei salari là dove il peso ne ricade esclusivamente sulla stessa classe dei contadini, ci può servire di illustrazione e di commentario all’asserzione comunemente ripetuta dagli economisti officiali — che la relativa altezza dei salari in Sicilia al di sopra della media generale del Regno sia cagione e prova delle condizioni prospere della popolazione rurale dell’Isola.

 

Salario in natura.

Il pagamento di una parte del salario in natura è per lo più una necessità in Sicilia, dove il contadino lavora lontano non solo dalla propria abitazione, ma da qualunque centro, villaggio, borgata o casa in cui possa trovare da mangiare, e dove resta spessissimo dal lunedì fino al sabato in mezzo ai campi. Vita ben dura è questa del giornaliero siciliano! Egli lavora l’estate sotto la sferza ardente di un sole tropicale, e l’inverno rimane esposto la notte a tutte le intemperie, col solo riparo di qualche tettoia provvisoria di canne o di frasche malamente costruita. Patisce, lavora, tace, e stenta la fame. Di quanta profonda compassione si riempie l’animo nostro quando sentiamo gl’infelici proprietari di più latifondi deplorare amaramente il caro dei salari! quando sentiamo i dilettanti di Economia politica spiegarci pieni di filantropia che l’alto prezzo del lavoro segna l’inevitabile rovina di un paese!

 

 

§ 80. — Impiegati dei feudi.

Sebbene alquanto meno dura e sovrattutto meno esposta alle incertezze e alle variazioni del mercato del lavoro, sia la vita degli impiegati delle grandi fattorie, non per questo è da considerarsi come molto prospera, per quanto riguarda specialmente i lavoranti di grado inferiore, i garzoni, i famuli e i bifolchi. Questi ultimi poi non hanno comunemente impiego che per 7 o 8 mesi nell’anno. Le abitazioni di questi impiegati inferiori, nei caseggiati dei feudi, sono indecentemente cattive: essi vivono inoltre la maggior parte dell’anno separati dalle loro famiglie; e i loro guadagni non si possono considerare come molto lauti. Non parliamo delle posizioni di fiducia, in cui le condizioni sono naturalmente subito molto superiori. Disgraziatamente i titoli per acquistare alcune di queste posizioni, e specialmente quella del campiere, che è il vero padrone del contadino, sono spesso, in gran parte della Sicilia, piuttosto la prepotenza, la violenza e la poca simpatia per le prescrizioni del Codice, anzichè la morigeratezza, l’onestà, l’intelligenza e la disciplina.

Anche per i salariati fissi dei feudi è indispensabile che una gran parte dello stipendio venga loro pagato in generi di consumo, giacchè vivendo essi in mezzo alla campagna, e lontani assai da ogni mercato, sarebbe loro impossibile acquistare da sè tutto quanto loro abbisogna; e sarebbero inoltre troppe le questioni e troppo facili i soprusi da una parte, o gl’inganni dall’altra, se l’impiegato dovesse volta per volta comprare dal padrone quanto gli è necessario per vivere.

 

 

§ 81. — Guardiani delle vigne.

La classe dei salariati che stia meglio nell’Isola è quella, in alcune regioni assai numerosa, dei guardiani delle vigne, sia che ricevano un vero e proprio salario annuo dal proprietario, sia che vengano pagati a un tanto per migliaio di viti che coltivano. Essi abitano sovente sul fondo stesso che coltivano, e ritraggono qualche guadagno dalla partecipazione nel prodotto delle piccole colture che è loro permesso di condurre in mezzo ai filari delle viti, e nel Messinese dall’allevamento di qualche animale in conto sociale col padrone o con terzi; onde il loro contratto è spesso di natura mista. Le relazioni dirette che essi hanno pure coi proprietari del fondo, giovano a rendere meno dure le condizioni del contratto: e, in una parola, essi non risentono così facilmente l’azione diretta della concorrenza, quanto gli altri salariati, sia annui, sia giornalieri. Lo stesso si dica per i guardiani salariati dei giardini di agrumi.

Abbiamo così percorso tutta la serie delle forme principali dei contratti agricoli praticati in Sicilia, esaminandoli ora alla luce della teoria, dopo averli nella prima parte esaminati nelle loro modalità di fatto. Ci resta ora da esporre la parte più subiettiva ed insieme la più difficile del presente lavoro, ossia quella in cui, dopo l’esame e l’analisi dei fatti attuali, si proponga il da farsi. È questa la parte che al pubblico preme di più, poichè tutti credono di conoscere i mali e vogliono sentir parlare soltanto dei rimedi. Noi crediamo invece che siano pochissimi quelli che veramente abbiano nozioni precise intorno alle condizioni in cui si trovano le classi agricole delle varie nostre provincie, e tanto meno della Sicilia; e che abbiano pure meditato alle ragioni intime dello stato presente delle cose. E siccome senza la diagnosi esatta della malattia, ogni discussione intorno alla cura è scientificamente impossibile, e qualunque tentativo di rimedi sarebbe puramente empirico, e tale da minacciar di peggiorare lo stato dell’infermo anzichè guarirlo; così riteniamo che, nelle condizioni attuali del nostro paese, il pregio maggiore di qualunque studio, economico, politico o sociale che sia, consista nel dire quello che c’è, nel divulgare i fatti, libero poi ognuno che scrive o che legge di trarne quelle conseguenze che vorrà. Se poi nella narrazione dei fatti, avessimo involontariamente sbagliato o tralasciato qualche elemento importante, speriamo che altri vorrà correggere i nostri errori e supplire alle nostre mancanze.

 

 


 

 

 

PARTE TERZA

 

 

 

 

 

RIMEDI E PROPOSTE

 

 

Capitolo I.

 

L’AZIONE DELLO STATO

 

 

 

§ 82. — Divisione dell’argomento.

L’argomento è complesso e intricato; e per meglio ordinare il nostro ragionamento, che per necessità non può che sfiorare brevemente le molte questioni che abbraccia, lo divideremo in tre parti, secondo la diversa missione che attribuiamo ai vari elementi costitutivi della società riguardo allo speciale obietto che ci preoccupa, cioè al miglioramento delle condizioni della classe agricola in Sicilia. Parleremo innanzi tutto dell’ufficio dello Stato, cioè dell’autorità sociale nelle varie sue forme; in secondo luogo dell’iniziativa individuale, indirizzandoci prima ai proprietari e all’opinione pubblica, e esaminando in ultimo i mezzi d’azione che possono avere gli stessi contadini. Molte delle cose che diremo possono naturalmente riferirsi non alla sola Sicilia, ma a tutta l’Italia, o almeno a parecchie regioni di essa; ma d’altra parte ci asterremo dall’esaminare qualunque questione, che per quanto interessante possa essere, non si riferisca direttamente alle condizioni dell’Isola.

 

 

§ 83. — Azione dello Stato.

Nel parlare della missione attuale dello Stato per il miglioramento della condizione dei contadini in Sicilia, non intendiamo occuparci di tutte quelle questioni astratte ed astruse sui limiti ideali dell’azione di uno Stato ideale, che tanto hanno agitato le menti in Italia in questi ultimi tempi, e con così poco profitto per chicchessìa; ma ci proponiamo invece di esaminare fino a che punto lo Stato italiano possa e debba, senza ledere nessun precetto dell’Economia politica, e in forza dei principii di questa scienza, giovare col suo intervento al miglioramento economico di una classe importante della popolazione; e di studiare dove esso abbia lo stretto dovere di riformare la sua azione presente, perchè contraria all’interesse generale.

Il campo dell’azione dello Stato è ristretto, non perchè essa sarebbe illegittima, anche se dovesse intaccare l’istituzione della proprietà privata territoriale nella sua forma attuale, ma perchè riescirebbe generalmente inefficace, e perchè gli ordinamenti e gli strumenti dello Stato nostro sono ancora di molto troppo imperfetti.

Teniamo però sgombra la mente da ogni preconcetto.

 

Proprietà privata del suolo.

La proprietà della terra è un monopolio, poichè la terra «esiste in quantità limitata, e non è suscettibile di aumento. Ora, quando lo Stato permette che un monopolio o naturale o artificiale cada nelle mani di privati, ha il diritto e l’imprescindibile dovere di sottoporre l’esercizio di quel monopolio a qualunque regola sia richiesta dal pubblico bene. Tale regola è più particolarmente necessaria, quando lo Stato ha permesso a persone private di appropriarsi la sorgente da cui l’umanità deriva, e deve necessariamente continuare a derivare la propria sussistenza»([263]).

Ammenochè si voglia far riposare il diritto sulla forza, la proprietà privata del suolo si fonda sul solo principio che l’interesse individuale sia lo stimolo più potente alla produzione, e che quindi la proprietà privata sia il mezzo più efficace per ricavare dal suolo quanto più possibile per il bene della comunità. «Ma questa teoria, sebbene abbia fondamento nella verità, non è però affatto vera in assoluto; e i limiti alla sua verità debbono essere i limiti alla sua pratica applicazione»([264]). E se dal punto di vista della stessa produzione fa difetto talvolta la coincidenza tra l’interesse privato dei proprietari, e l’interesse pubblico; tanto meno una tal coincidenza si ritrova costante per quel che riguarda la distribuzione.

Onde risulta che lo Stato ha il dovere di regolare quell’istituto della proprietà privata della terra da lui creato e sanzionato, in modo da renderlo consentaneo al fine stesso che solo può giustificarlo, cioè al bene generale. Ciò diciamo fin da ora, non per argomentarne come logica conseguenza che debbano necessariamente o possano utilmente introdursi importanti restrizioni al diritto della proprietà privata territoriale come ora esiste, ma per spazzare il terreno da quei preconcetti tanto comuni, i quali come per tanti altri privilegi, hanno creato una specie di diritto divino della proprietà privata del suolo.

 

 

§ 84. — Alienazione delle proprietà demaniali ed ecclesiastiche.

E ad un preconcetto simile si deve attribuire se in Italia vi fu una tale furia, anche in chi non mirava a scopi finanziari, ad alienare tutte le proprietà dello Stato e tutte quelle che lo Stato aveva tolte alla manomorta ecclesiastica, per sottoporre tutto quanto il territorio del Regno all’istituto della proprietà privata. È un preconcetto simile che fece ritenere per massima di un’evidenza indiscutibile, che nelle mani dei privati quei beni dovessero necessariamente venir coltivati meglio che quando erano di proprietà demaniale. E questa massima doveva esser vera anche là dove si sapeva che non è il proprietario che coltiva la sua terra e che v’impiega capitali, ma invece un semplice industriale che non ha che un interesse temporaneo nel suolo; doveva esser vera anche là dove basta un semplice sguardo per vedere che i privati nulla fanno per migliorare lo stato delle loro terre, e aspettano soltanto maggiori rendite dall’opera degli altri, ossia dell’incremento della pubblica ricchezza e dall’aumento della popolazione; oppur là dove le maggiori rendite del proprietario si tolgono non da una maggiore produzione, ma da una sempre più iniqua distribuzione dei prodotti del suolo, e dalla oppressione della classe più laboriosa, e, moralmente almeno, più sana della nazione.

Ma almeno si fosse badato, nell’alienazione di quella enorme massa di beni, di farla in quelle condizioni e con quei modi per cui potesse migliorarsi lo stato economico e morale di una buona parte della popolazione rurale; onde con ciò arrivare, con la forza dell’esempio, col risveglio di attività e di forze dormienti, e coll’impulso dato all’opinione pubblica, ad una lenta, pacifica e benefica rivoluzione sociale in tutta Italia, e più specialmente nelle provincie meridionali!

Nulla di tutto ciò. Si venda o si dia a censo, ma si faccia presto; il tesoro ha bisogno di milioni; la libertà e l’iniziativa privata faranno il resto. Che cosa importa agli economisti officiali che i beni vadano ad accrescere la grande proprietà! che cosa importa che si distrugga più di mezzo miliardo di capitale che poteva dedicarsi all’agricoltura! che non si migliori la condizione che dei camorristi delle aste! Che cosa importa se si rinunzia all’unico mezzo efficace di produrre una rivoluzione sociale ed economica in una metà d’Italia, e di far ciò senza mutamenti politici, senza disordini, nè odii, nè ingiustizie, ma con vantaggio di tutti e attirandosi le benedizioni di migliaia e migliaia di famiglie, che ora sono una minaccia continua per la stessa civiltà, e invece potevano diventare un appoggio sicuro per il nuovo ordine di cose, ed una forza per il paese! Tutte queste sono naturalmente ubbìe, sogni ideali di filantropi; — la pratica e la realtà sono che i capitalisti hanno fatto un buon affare; che i grandi proprietari hanno aumentato il numero dei loro latifondi; che molti terreni già beneficati e in buona condizione sono andati in rovina, poichè il pagamento delle rate si toglieva e si toglie dallo sfruttamento e dallo sperpero del podere; che un mezzo miliardo e più di capitale è sparito nella voragine del deficit finanziario; che i contadini stanno come prima e staranno peggio in avvenire; e che i piccoli proprietari vanno diminuendo.

Per nessun’altra regione d’Italia è tanto da deplorarsi lo sperpero fatto di quella immensa ricchezza che lo Stato aveva nelle sue mani, come per la Sicilia; e in nessun altro luogo poteva meglio adoperarsi quella ricchezza come strumento alla rigenerazione del paese, senza che per questo lo Stato ci rimettesse nulla, nè urtasse le suscettibilità del più permaloso tra gli economisti Smithiani.

Intendiamoci. Non sosteniamo la manomorta, nè la proprietà ecclesiastica territoriale. Lo Stato ha fatto indubbiamente bene ad avocare a sè tutti quei 230,000 ettari di terre ecclesiastiche in Sicilia che non erano state ancora censite dai titolari. E se ci avesse aggiunto i beni di molte confraternite laiche, dei collegi di Maria, ecc., avrebbe fatto anche meglio.

Ma in primo luogo crediamo che l’alienazione di tutte quelle terre diventate di proprietà pubblica sia stato un errore economico, poichè ha spogliato lo Stato, per farne dono ai privati, di tutto quell’aumento progressivo di ricchezza che sarebbe pervenuto a lui come proprietario di quella smisurata estensione di terreni, per il solo fatto del graduale incremento del capitale nazionale e della popolazione. Ed errore più grave, e quasi colpa, è stato l’aver fatto quell’alienazione in modi e in condizioni tali da portare piuttosto a un aggravamento delle attuali sproporzioni nella divisione delle terre. Se non si sapeva far meglio, se tanto col sistema delle aste come con quello delle quotizzazioni, non si sapeva come conseguire lo scopo di fare dell’operazione finanziaria il mezzo per iniziare una riforma agraria, si doveva soprassedere, e non compromettere l’avvenire. Ma inutile è oramai il ragionare su quello che si sarebbe potuto fare. L’argomento è doloroso quanto poco profittevole. Guardiamo piuttosto che cosa si fece([265]).

 

 

§ 85. — Censimento dell’Asse ecclesiastico.

La legge del 10 agosto 1862 ordinò la concessione a enfiteusi per mezzo d’incanto di tutti i beni rurali ecclesiastici esistenti in Sicilia, eccettuati i boschi, i fondi piantati in tutto o nella massima parte a vigneto o albereto di qualunque natura, e quelli ove esistevano miniere aperte o indizi evidenti di miniere. La legge del 7 luglio 1866 che soppresse le corporazioni religiose, e quella del 1867 per la liquidazione dell’asse ecclesiastico, mantennero la legge del 1862 per quanto riguardava la censuazione dei beni ecclesiastici, prescrivendo soltanto che si dovesse d’allora in poi farla nell’interesse e in confronto del Demanio. I beni colpiti dalla legge del 1862, esclusi quelli già censiti dai titolari ecclesiastici, ascendevano a circa 230,000 ettari, di cui circa 40,000 furono eccettuati, per i diversi titoli menzionati, dalla censuazione, e di questi una gran parte è stata venduta insieme coi beni demaniali.

Sono dunque stati concessi a enfiteusi circa 190,000 ettari nel termine di circa otto anni che durarono le operazioni. I lotti furono 20,300; e il Corleo, sopraintendente generale delle Commissioni circondariali, e quello stesso che promosse la legge, ci assicura che assai più di 20,000 proprietari furono da essa creati([266]). Anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Palermo del 1866, nella sua relazione, presentata alla Camera il 2 luglio 1867, arguiva dal fatto che una metà incirca dei 6882 lotti dati a censo a tutto dicembre 1866 non contavano più di ettari 10 per ognuno, che la maggior parte di essi avrebbe dovuto cadere nelle mani dei piccoli agricoltori. Osiamo mettere in dubbio la verità di queste deduzioni, e ci appelliamo a qualunque Siciliano perchè dica se nel suo Comune le cose andarono così. Abbiamo viaggiato i Comuni principali delle diverse provincie di Sicilia, interrogando e osservando: abbiamo un gran numero di risposte scritte da luoghi dove non ci fu possibile andare da noi. Da per tutto la risposta è una sola: — I beni ecclesiastici caddero quasi esclusivamente, e con rarissime eccezioni, in mano dei proprietari agiati e per lo più dei grossi proprietari, e ciò specialmente in quelle regioni dove la proprietà era meno divisa, e dove quindi era più urgente che una tal divisione si facesse. Nè poteva essere diversamente.

 

Camorre nelle aste.

I soli ricchi potevano amicarsi, e alcune volte organizzare le camorre, che dominavano assolute nelle aste. Il modo stesso in cui erano fatti gl’incanti rendeva impossibile ogni lotta contro quelle coalizioni, che avevano per mira di accaparrarsi i beni a modico prezzo, o di lucrare sull’asta facendosi pagare forti somme dai compratori. Se qualcuno non si sottoponeva alle esigenze della camorra, questa spingeva in su e senza limiti il prezzo dell’asta, e sapeva di non correre con ciò nessun pericolo. E difatti mandava a offrire agl’incanti qualche nullatenente, il quale rimasto padrone del podere lo sfruttava quanto più possibile, tagliando e abbattendo le piante che vi potevano essere, per pagare le prime spese dell’incanto: il Demanio poi doveva spesso aspettare due anni d’ineseguito pagamento del canone per potersi riprendere il terreno, giacchè difficilmente riusciva ad ottenere prima lo scioglimento dell’enfiteusi, e ciò per la difficoltà e la spesa della prova dei deterioramenti. Ma non è tutto. La camorra mandava all’incanto un procuratore legale, il quale poteva acquistare per persona da nominarsi; onde quando il prezzo fosse stato eccessivo, come era di certo ogni volta che la camorra doveva imporsi a qualche renitente, il procuratore dava il nome di un nullatenente come quello del suo mandante. E difatti, e ce lo dice lo stesso Corleo, mancò sempre ogni gara appunto per quei lotti dove era apparente che il prezzo d’asta era molto inferiore al vero. Per gli altri la camorra aveva meno armi con cui lottare, e non valeva nemmeno la spesa di impegnarcisi, perchè ristretto il margine del lucro. Non parliamo poi di tutte le connivenze tra i proprietari e i periti che dovevano preparare gli elementi per le aste. Come poteva il contadino o anche il piccolo proprietario lottare contro forze come queste! Appena se loro toccava ad alto prezzo qualche scarto di terra.

È triste il pensare di quale enorme ricchezza è stato defraudato lo Stato, senza che per questo si giovasse nè all’agricoltura nè alle classi bisognose, ma contribuendo soltanto a diminuire nelle menti di quelle popolazioni ogni rispetto per la legge, ogni concetto di equità e di onestà! E più triste ancora è il considerare gli effetti di quella censuazionc, fatta a rompicollo, quando si abbia in mente tutti i beneficii che si potevano ritrarre da quelle proprietà per la salute economica e morale di quelle provincie.

Ci si dirà forse che inutile sarebbe stato il tentativo di creare con quei beni una classe di contadini proprietari, perchè questi, privi affatto di capitali, non avrebbero potuto mantenersi. Ma non potevasi forse colla vendita di una parte delle terre, trovare i capitali per dotare le altre, e per costituire un fondo di prestito ai contadini proprietari — un fondo simile a quello che istituì l’Inghilterra colla legge del 1870 per gli affittuari Irlandesi? Per evitare poi le trasmissioni di proprietà, anche se mascherate sotto la forma di fitti, bastava dichiarare nullo per un termine di venti anni ogni patto di cessione o d’affitto sotto qualsiasi forma di quei terreni, che fosse fatto dal primo acquirente o dai suoi eredi senza il consenso espresso del Tribunale o di qualche altra autorità: nè questo avrebbe importato difficoltà maggiori che non la legge inglese per cui spetta al tribunale di decidere quando il fitto di un fondo si debba reputare eccessivo. Negli Stati Uniti poi esistono disposizioni analoghe per le terre incolte che gli Stati concedono a basso prezzo agl’immigranti.

 

 

§ 86. — Vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici.

Anche la vendita dei beni demaniali, e di quelli ecclesiastici che già erano stati beneficati e dotati di piantagioni, ha dato poco buon frutto. Molti di quelli che compravano facevano calcolo per il pagamento delle rate, sullo sfruttamento di quei terreni; e nell’insieme, l’agricoltura ha fino ad ora perduto anzichè guadagnato per quel passaggio delle terre nelle mani dei privati. Speriamo meglio per l’avvenire, ma non ci lusinghiamo colla vana illusione, che là dove giacciono incolti o malamente lavorati tre quarti dei terreni che son già posseduti ab antico da privati, il solo accrescimento di quelle proprietà debba necessariamente condurre i proprietari a coltivare meglio o di più.

 

Buoni delle Opere Pie.

Facciamo voti, ma con poca speranza di vederli esauditi, perchè almeno per i beni delle Opere pie non si faccia in Italia quel che si è fatto per quelli demaniali ed ecclesiastici, e che almeno si trasmetta intatto il patrimonio dei poveri ai nostri nipoti, perchè possano usarne meglio di noi.

 

Quotizzazioni dei beni comunali.

L’azione dello Stato può pure esser tuttora efficace per impedire che si proseguano le quotizzazioni dei beni comunali. Queste si fanno ora sempre in condizioni tali che non riescono ad altro che ad accrescere in un breve tratto di anni le grandi proprietà, danneggiando stabilmente le classi inferiori.

 

 

§ 87. — Tutela sulle amministrazioni locali.

Se fin qui abbiamo dovuto piangere specialmente su ciò che avrebbe potuto fare lo Stato, e che non può più fare, da ora in poi invece intendiamo esaminare fino a che punto si possa ancora invocare utilmente la sua azione in avvenire. E prima di tutto l’invochiamo riguardo ai tanti mali che abbiamo lamentato nelle Amministrazioni locali. Invochiamo cioè in primo luogo l’intervento del Legislatore, perchè riformi molti degli ordinamenti amministrativi — per esempio, la legge elettorale amministrativa, onde ottenere una migliore rappresentanza ed una conseguente tutela degl’interessi agricoli in genere, e di quelli più specialmente della classe misera ed oppressa dei contadini. E in secondo luogo invochiamo l’intervento del Governo, perchè eserciti più efficacemente il suo diritto di tutela sulle amministrazioni locali, e impedisca tutti quegli abusi che direttamente o indirettamente gravitano sulle classi inferiori, quali sarebbero a mo’ d’esempio, la sproporzione nella imposizione delle varie tasse locali che colpiscono le classi diverse della popolazione; lo sperpero dei denari pubblici in spese di lusso o utili solamente a una classe; la mala amministrazione delle Opere pie, ecc. ecc. Tutto questo il Governo può fare anche colle leggi attuali: è questione di volere, e di scegliere il suo personale in modo che la volontà si traduca in atto.

 

Ordinamento amministrativo.

Meno facili però e meno probabili ci appariscono le riforme che abbiamo accennate necessarie negli stessi ordinamenti amministrativi. La nostra legge elettorale politica esclude dal Parlamento ogni rappresentanza della classe dei coltivatori del suolo: è naturale quindi, anzi è inevitabile che gl’interessi di quelle classi siano trascurati. «Gli uomini e le classi governanti — come ben si esprime il Mill — mentre sono costretti a tenere in conto gl’interessi e i desideri di chi ha il suffragio, hanno la scelta di farlo o no per chi ne è escluso; e, comunque siano ben disposti, sono in generale troppo intieramente occupati da cose a cui debbono attendere, per essere in grado di accordare fra i loro pensieri un posto a quelle che possono con impunità trascurare». E quasichè non fosse ancora sufficiente l’attuale sproporzione nella distribuzione del potere politico, tra la classe cittadina e quella agiata da una parte, e la classe rurale dall’altra, una Commissione Reale nominata per studiare le modificazioni da introdursi nella legge elettorale politica, propone ora come riforma liberale, e coll’adesione di un Ministero progressista, la estensione del suffragio a chi paghi 20 lire di censo, o abbia fatto gli studi della quarta elementare; il che significa chiaramente l’assoluta esclusione della classe dei contadini dal corpo elettorale, coll’ammissione presente o eventuale di tutte le altre classi.

Che cosa evvi dunque da sperare attualmente nelle progettate riforme amministrative, che possa giovare alla classe rurale? — Nulla. La Commissione nominata per lo studio delle riforme amministrative propone — lo dicono tutti i giornali — che si liberino da ogni tutela governativa tutti quei Comuni la cui popolazione oltrepassa i 4000 abitanti; il che significa la totale esenzione da ogni vigilanza di 190 Comuni sopra 360 nella sola Sicilia; 190 Comuni che sono dominati dalla classe agiata, ed abitati quasi esclusivamente da contadini. Il sopprimere ogni ingerenza governativa sopra Comuni posti in queste condizioni, significa il voler dare quelle migliaia di contadini in piena balìa dei proprietari, dei gabellotti, e degli strozzini di campagna; e ciò perchè, per quanto si voglia a giusto titolo ritenere che la migliore guarentigia per i cittadini è quella che ritraggono dalla propria attività e specialmente dal proprio voto, bisogna pur tenere in mente che la proporzione degli analfabeti nella classe dei contadini è in Sicilia del 100%, onde tutta intiera quella classe rimarrà per ora senza rappresentanza legale, qualunque sia la cifra a cui si riduca il censo elettorale amministrativo. Nè si creda che questa sia una condizione che tenda a sparire fra poco, poichè le classi che si trovano il potere in mano si guardano bene, e si guarderanno ancora meglio in avvenire, dall’istruire i contadini, per non perdere i loro attuali privilegi. Se in Italia non diamo alla persona civile un interesse positivo ed immediato all’istruzione e all’educazione del contadino, si potrà legiferare, decretare e regolamentare a tutto spiano, senza ottenere con ciò alcun miglioramento nella cura dell’analfabetismo nelle campagne.

È bensì vero che d’altra parte come campione di tutela governativa potremmo citare quanto ci diceva un Sottoprefetto di uno dei più ricchi circondari della Sicilia. Egli deplorava il caro dei salari, e le esigenze eccessive dei lavoranti in certe epoche dell’anno, in cui «giungono perfino a chiedere 2.50 a 3 lire il giorno». Per curare un tanto male, egli, il Sottoprefetto, aveva consigliato a parecchi Municipi, di fare «dei regolamenti per frenare quegli eccessi, imponendo un maximum ai salari». E scusate se è poco. Questo stesso funzionario illuminato trovava che le spese comunali per la costruzione dei teatri e per le sovvenzioni annue per gli spettacoli, erano spese giustificate, e inoltre produttive, perchè «fanno lavorare».

Questi esempi però sono fortunatamente rari. La tutela governativa è troppo spesso più teorica che di fatto, ma potrebbe, quando si volesse, esercitarsi molto più efficacemente con regolari ispezioni ordinate dalle Prefetture, alle quali non mancano ora i mezzi legali per ridurre a dovere i Municipi recalcitranti.

 

 

§ 88. — Finanza.

Lo stato della finanza pubblica ha pure una potente influenza sulla condizione delle classi lavoratrici, e in Italia su quella specialmente della classe agricola, poichè l’agricoltura è l’industria nostra meglio impiantata, più sicura e più prospera. È quindi anche con una buona amministrazione finanziaria che lo Stato può giovare, e sovrattutto può evitare di nuocere, come fa, ad un progressivo miglioramento della situazione economica dei contadini.

A parte la questione della gravità delle imposte, che inceppa così evidentemente il libero sviluppo dell’industria nazionale, e che è conseguenza di una improvvida gestione del danaro pubblico, ogni imprestito fatto dallo Stato, dalle Provincie, o dai Comuni, e con ogni garanzia d’interessi che faccia lo Stato direttamente o indirettamente in favore di alcune imprese particolari, sono altrettanti interventi illegittimi in favore del capitale nella lotta tra esso e il lavoro. Lo Stato interviene col ritirare altrettanto capitale dalla concorrenza dei capitali nel mercato; e mantenendo artificialmente alto il saggio dell’interesse, nuoce alla società e dal punto di vista della produzione e da quello della distribuzione; da una parte rovina ogni industria e danneggia così indirettamente il lavoro col togliergli impiego, e dall’altra rende impossibile ogni efficace azione dei lavoranti per ridurre coll’accordo il saggio dei profitti del capitale, ad aumento della retribuzione del lavoro. Finchè si continuerà a ritirare forti somme dalla concorrenza sul mercato col garantir loro interessi elevati, quale sarà il capitale che vorrà darsi alle industrie, le quali sempre importano un grave rischio, mentre potrà fruttare comodamente e sicuramente col semplice impiego in valori pubblici o garantiti, in cui non pagherà imposte di sorta? E il sole che riscalda il nostro suolo è, come fu detto, il carbon fossile d’Italia; e la maggior parte dei capitali tolti all’industria sono tolti all’industria agricola.

Del resto l’influenza della buona finanza sulle condizioni della classe rurale è per tante ragioni così evidente, che non ci fermiamo a maggiormente spiegare questo punto, e passiamo a discorrere di tutti quei modi in cui a quelle condizioni si potrebbe giovare con riforme nella nostra legislazione. L’argomento è così vasto, che non possiamo che accennare di volo alle questioni principali, ai dubbi, alle riforme che si propongono e a quelle che reputiamo inefficaci o inaccettabili. E procedendo con ordine diremo prima delle leggi d’imposta, quindi di quelle sui contratti, e in terzo luogo delle Opere pie.

 

 

§ 89. — Perequazione dell’imposta fondiaria.

In fatto d’imposte la prima questione che si presenta, e una delle più gravi riguardo tanto all’agricoltura come alla condizione dei coltivatori del suolo, è quella che si riferisce alla imposta prediale e alla progettata sua perequazione periodica. L’argomento è stato già trattato da molti, e poco potremmo dire di nuovo intorno alle varie ragioni addotte a sostegno delle diverse tèsi, ma è tale la importanza della questione di fronte alle condizioni della classe agricola, che non possiamo tralasciare di dar qualche brevissimo cenno della nostra opinione in proposito.

I nostri catasti colpiscono l’industria agricola anzichè la rendita fondiaria; colpiscono cioè il profitto dei capitali impiegati nel suolo, anzichè la fertilità naturale del suolo stesso e tutti quei vantaggi che esso ritragga da condizioni indipendenti dall’opera di chi lo possiede, ossia tutta quella ricchezza che venga al proprietario all’infuori di qualunque opera sua dal solo incremento del capitale nazionale e dall’aumento della popolazione. I nostri catasti difatti prendono per base della imposta prediale la «rendita per ettaro calcolata sui prodotti d’ordinaria coltivazione, il che significa, le stime dei prodotti presuntivi ricavabili dagli alberi e dalle erbe esistenti all’epoca della catastazione»([267]).

Ogni perequazione dunque fatta su questa stessa base colpisce i miglioramenti eseguiti nei fondi, ossia il capitale impiegato nel suolo dal tempo dell’ultima catastazione, con la quota dell’imposta prediale, cioè in media con una tassa effettiva (calcolata l’imposta principale e le sovrimposte) di circa il 20% sull’entrata vera, mentre ogni altra industria è gravata del 9.90% (calcolata la detrazione di 2/8 sulla rendita imponibile gravata del 13.20); e d’altra parte tale perequazione lascia esente affatto da ogni aumento d’imposizione, e anzi giunge talvolta a sgravare la rendita fondiaria che si sia accresciuta nelle mani del proprietario senza alcun merito di lui. Con questo sistema dunque si darebbe un vero premio a chi trascura i propri fondi, e colla minaccia di una forte ammenda periodica a chi impieghi capitali nel suolo, si collocherebbero ogni 10 o ogni 30 anni — a ogni termine insomma in cui si farebbero le perequazioni — i proprietari in una posizione simile a quella di un affittuario cui scade il fitto, il quale per ottenere buoni patti per il nuovo fitto ha un interesse a deteriorare quanto più può il fondo, e a non fare miglioramenti stabili; colla sola differenza, che mentre sull’affittuario vigila il proprietario il quale può pure, affin di ottenere lo stabile miglioramento del fondo, offrire condizioni speciali al conduttore, sul proprietario invece non vigila nessuno, ed egli dallo Stato non può sperare abbuoni, nè può con esso patteggiare.

Se in Italia si credesse davvero alla minacciata perequazione, non vi sarebbe più un proprietario così pazzo da spendere in miglioramenti agricoli, per vedersene poi portar via dall’esattore tutto il frutto. Se qualcosa si continua a fare, è perchè i più non credono alla possibilità pratica di un provvedimento che, nella forma in cui è stato proposto al Parlamento([268]), sarebbe un colpo gravissimo arrecato alla prosperità nazionale; oppure perchè ognuno spera, nella complicanza delle formalità prescritte per la sua esecuzione, di trovare il modo di essere esentato a danno del prossimo.

Gli argomenti che ci sembrano più forti tra quelli che adducono i sostenitori della perequazione, sono i seguenti: — Principio fondamentale di ogni sistema tributario che non sappia di oppressione e di confisca anzichè di equità e di eguaglianza, è quello, che ogni cittadino debba pagare in ragione dei suoi averi. Perchè si dovrebbe dunque vedere un proprietario di un ricco fondo pagare 10 di tassa, per ciò solo che il catasto fu fatto in un momento in cui quel fondo era male coltivato e di poco valore, mentre un altro proprietario di un terreno vicino che non vale la metà del primo, continuerà a pagare 20 di tassa, perchè all’epoca del catasto quel terreno era dotato di ricche piantagioni che non esistono più? È questa forse la giustizia che invocate? Sia pure — essi dicono — che questo difetto dipenda, come voi sostenete, dall’essere stati fatti male i catasti, poichè si volle in essi tener conto della produzione effettiva del suolo, e non della fertilità insita della terra, e delle condizioni estranee all’opera del proprietario le quali aumentano il valore del fondo; ma oramai la cosa è fatta; si applicò l’imposta tenendo conto del capitale fisso impiegato nell’industria agricola; non vorreste voi ora dunque tener conto anche dei mutamenti avvenuti nell’impianto di quella industria, e aggiungere nell’imponibile i nuovi capitali impiegati, e detrarre quelli che sono scomparsi in tutto o in parte? E per quanto vogliate esser teneri dell’industria agricola, non sarebbe voler andare fino all’ingiustizia, l’esentare da ogni imposta i capitali che si dànno a quella industria, impiegandosi nella terra, mentre ogni altro capitale e ogni altra industria aggravate del 13.20 o almeno del 9.90%?

Non è però difficile di rispondere a queste ragioni. Bisogna risalire un po’ indietro.

L’imposta prediale è per sua natura un’imposta sul capitale; ma ha questo di speciale a differenza di molte altre imposte sul capitale: mentre quelle sono una vera e propria confisca a beneficio dello Stato, di una ricchezza prodotta dal possessore del capitale o da coloro da cui l’ebbe in dono o in via di successione, l’imposta fondiaria invece colpisce una ricchezza che non è frutto del lavoro particolare di nessuno, ma è un effetto della progressiva variazione nella proporzione tra il capitale e la popolazione da un lato, e dall’altro la quantità limitata di quella parte di terra che sia posta in certe condizioni più favorevoli, o contenga in sè delle speciali qualità di fertilità naturale. Questa ricchezza speciale della terra va generalmente aumentando in ogni paese che progredisce; e non vi è quindi in teoria nulla che sia contrario all’equità o all’istituzione della proprietà privata territoriale, nell’aumento progressivo dell’imposta che la colpisce. Le difficoltà qui vertono piuttosto sul modo pratico di ottenere questo aumento dell’imposta sulla rendita fondiaria, senza che essa degeneri in tassa sull’industria agricola, oppure colpisca come aumentata una rendita fondiaria che nel caso particolare può essere scemata. Quando si potesse in pratica ottenere che l’imposta prediale non graviti che sulla rendita fondiaria, non vi sarebbe nulla da obiettare ad una periodica revisione, o perequazione che si voglia chiamare, dell’imposta stessa, onde seguire quei mutamenti che si verificano nel valore dei vari terreni, a industria eguale, e indipendentemente dall’opera dei rispettivi proprietari. E il prof. Basile, il quale ci propone un mezzo ingegnoso di applicazione dell’imposta prediale sulla sola rendita fondiaria, ammette difatti anch’egli la revisione ventennale delle mappe catastali, onde mantenere per tutti la medesima proporzione tra l’imposta e la rendita.

Ma tutto ciò non implica affatto la conseguenza che si debba gravare, come si propone di fare col progetto Minghetti, il capitale che si applica stabilmente all’industria agricola in modo diverso da qualunque altro capitale che s’impieghi in qualunque altra industria. Qui sarebbe il caso di applicare un’imposta sulla rendita, ossia l’imposta sulla ricchezza mobile, e non un’imposta sul capitale, la quale tenderebbe ad impoverire il paese.

Il nostro sistema tributario ci dà i seguenti controsensi: — A, B, e C hanno un capitale di un milione per uno. A lo impiega nell’industria; B compra rendita dello Stato al saggio corrente d’interesse sui valori, e C compra un fondo pure al saggio corrente d’interessi, il quale saggio in questo caso sarà alquanto meno che nell’impiego di B, per la maggiore sicurezza del capitale e per la previsione delle maggiori rendite che la terra dà ogni anno in un paese di civiltà progrediente. A paga sulle entrate della sua industria il 9,90%: — B non paga alcuna imposta, poichè egli ha comprato in Borsa tanti titoli, su cui c’era stampata una cifra di 100 lire come capitale nominale e una promessa di pagamento annuo di 5 lire, ma che egli ha pagato 75 lire, sapendo che il frutto annuo era di L. 4.34 e facendo così un impiego al saggio di 5.78%; nè ha mai più sentito parlare di esattore: — C nemmeno non paga imposta se si calcola una media di più anni, poichè egli ha comprato al 5%, detratta l’imposta fondiaria, calcolando le rendite del fondo sulla media del decennio. Egli paga, è vero, una somma annua a titolo d’imposta fondiaria, così come pagherebbe i frutti di una parte del prezzo che non avesse sborsata al venditore, ma questo pagamento non tocca in alcun modo le sue entrate che sono state calcolate all’infuori di esso. È vero che se viene un’annata cattiva e in cui manchino tutte o buona parte delle raccolte, egli dovrà pagare egualmente l’imposta fondiaria, ma anche questo caso era preveduto, giacchè egli fece i calcoli sulle raccolte medie di un decennio. Sicchè con questo bellissimo ordinamento delle nostre imposte il capitale non paga che quando si dà alle industrie, cioè quando più si rende utile al paese.

Ma ora supponiamo che C, che è uomo intraprendente, impieghi altre 100,000 lire sul suo fondo in parecchie piantagioni che secondo i suoi calcoli dovranno aumentare in media le sue entrate di 4000 lire all’anno, oltre una quota di ammortamento delle 100,000 lire computato sulla probabile durata delle piantagioni fatte. È questo un nuovo impiego industriale che non paga alcuna imposta; «ed ecco — grideranno gli avversari, — la riprova della necessità della perequazione». Adagio, signori. Quella nuova esenzione da ogni imposta delle 100,000 lire impiegate nell’industria agricola, è, non v’ha dubbio, una nuova ingiustizia di fronte ad A, da aggiungersi alle altre già menzionate. Ma supponiamo ora che si faccia la perequazione secondo il sistema proposto dal Minghetti. C non pagherà col nuovo catasto, non più che col vecchio, alcuna imposta sul milione impiegato nella compera del fondo; ma gli verrà invece applicato un aumento d’imposta fondiaria per quelle vigne e quegli oliveti ch’egli avrà creato coll’impiego delle 100,000 lire, e queste verranno quindi tassate in media per lo meno al 20% della rendita effettiva, ossia pagherà circa 800 lire annue di più per punirlo dell’aver pensato ad impiegare un capitale nel suo fondo e della sua presunzione di voler migliorare il suolo del suo paese. E si sarà commesso, in nome di non sappiamo bene che cosa, una nuova ingiustizia, gravando quel capitale di C del 20%, invece che del 9,90 come ad A; e ciò soltanto perchè si tratta d’industria agricola invece che manifatturiera. Il che appare tanto più strano e inconcepibile quando si pensi come la ragione fondamentale dell’istituzione della proprietà privata territoriale sia appunto quella di promuovere maggiormente l’industria agricola. — O non sarebbe più giusto il gravare A, B, e C, ognuno sulle sue rendite complessive, coi criteri della ricchezza mobile, o piuttosto della nostra tassa di famiglia comunale, qualunque sia la fonte da cui quelle rendite provengano, e lasciando soltanto per di più sul fondo di C l’imposta prediale depurata da ogni elemento di tassa industriale? —

 

 

§ 90. — L’imposta fondiaria e la piccola proprietà.

Molto avremmo ancora da dire sulle incongruità del nostro sistema d’imposte, ma non vogliamo dilungarci dall’argomento principale. Quanto al modo di ordinare l’imposta prediale in guisa da colpire solamente e progressivamente la rendita fondiaria, il sistema proposto dal Basile, alla cui opera rimandiamo il lettore([269]), ci sembra ingegnoso, e tale da soddisfare con sufficiente approssimazione le esigenze della teoria. Egli dimostra pure con logica stringente come il nostro metodo attuale di catastazione sia contrario alla piccola proprietà, e tenda ad accrescere il numero dei latifondi.

Il piccolo proprietario, più intraprendente ed industrioso, coltiva diligentemente il suo fondo, e quindi risente tutta la gravezza di un’imposta che colpisce la sua industria cogli stessi criteri con cui colpisce il fondo stesso. Dicemmo già che il proprietario non risente il peso dell’imposta prediale che aggrava il suo fondo, sia ch’egli abbia acquistato quel fondo per compera, sia che lo abbia ricevuto da altri in dono o in eredità, e ciò perchè quell’imposta avendo la stessa natura di un livello colpisce piuttosto il capitale che la rendita, onde il proprietario non paga, computata la media dei raccolti che è quella che dà il valor capitale al fondo, nessuna imposta. Ma se ciò è verissimo in teoria e in pratica per il grande proprietario, il quale può calcolare le sue entrate sulla media dei raccolti, e può anche assicurarsi questa media per mezzo del fitto del latifondo per epoca non breve, non è nella pratica egualmente esatto riguardo al piccolo proprietario, e specialmente al contadino proprietario, il quale altra risorsa non ha che quella dei prodotti del suo fondo; imperocchè per questi l’imposta prediale diventa negli anni cattivi una terribile realtà, e tale da costringerli al debito, e talvolta da ridurli a doversi lasciar espropriare il fondo. Essi non possono assicurarsi dalle cattive annate coi proventi delle buone; per essi spesso non monta che la media dei raccolti sia superiore al pagamento fisso che debbono sborsare ogni anno, giacchè per rovinarli irrimediabilmente basta che per uno o due anni di cattive raccolte non vi sia un margine sufficiente nei prodotti del fondo al di là dell’imposta fondiaria. Anche il piccolo proprietario che non coltivi il proprio, può difficilmente ricorrere al fitto per assicurarsi dai rischi, poichè quelle stesse colture ch’egli avrà introdotte nel fondo con piantagioni di olivi, vigne, ecc., rendono troppo pericolosa ogni forma di fitto tanto per la conservazione del capitale come per le rendite avvenire.

 

I grandi proprietari.

È poi tendenza naturale del grande proprietario d’impiegare i suoi capitali nell’acquisto di nuove terre, anzichè nel migliorare quelle che già possiede([270]). Egli ottiene così parecchi vantaggi: 1° quello di aumentare la sua importanza sociale e la sua potenza politica; 2° quello di potersi meglio assicurare da ogni variazione di rendita, coll’affitto dei nuovi fondi come dei vecchi, il che gli sarebbe più difficile ove tendesse soltanto a migliorare questi ultimi; 3° egli si assicura da ogni eventuale aumento di gravezze per il fatto di qualsiasi nuova perequazione dell’imposta fondiaria, mentre nell’altro caso il suo capitale impiegato in miglioramenti avrebbe dovuto sopportare, oltre i maggiori rischi dell’impiego, un forte difalco ad ogni nuova catastazione. E inoltre, col lasciare le sue terre quasi incolte e prive di capitali, egli si assicura pure da un altro pericolo, vagamente intraveduto, ma che da un momento all’altro potrebbe diventare molto più immediato e sensibile; egli cioè evita di offrire presa a tutte quelle pressioni che i lavoranti potessero mediante l’accordo, l’emigrazione o altro, voler esercitare sui proprietari, per partecipare anch’essi al godimento della rendita fondiaria. Il proprietario che abbia forti capitali impiegati nella industria agricola si trova in ogni lotta simile contro il lavoro, in una posizione inferiore a quella di chi nulla ha speso per il suo fondo; il primo, di fronte alla pressione dei lavoranti, fosse pure esercitata col solo sciopero, rischia non soltanto una parte delle sue entrate, ma spesso anche l’esistenza dei suoi capitali, mentre il secondo rischia colla resistenza soltanto una parziale e temporanea diminuzione di entrate, rischio ch’egli incontra volentieri, poichè lo salva da una minacciata diminuzione duratura.

Tutto questo però è dannoso alla società, e contrario allo stesso fine della istituzione della proprietà privata territoriale, onde apparisce quanto gravi sono i danni di una catastazione che non riposi sopra principii scientifici e quanto peggio diventerebbero ad ogni perequazione che s’informasse ai concetti del progetto di legge stato presentato al nuovo Parlamento. Non lasciamoci illudere dalle parole; quella di «perequazione» suona lusinghiera e riparatrice di torti e di ingiustizie, ma essa può invece, come nel caso attuale, diventare il mezzo di premiare i maggiori nemici della società, l’ozio e il vizio, e di punire l’operosità utile e l’onesto lavoro.

 

 

§ 91. — Imposta fondiaria sulle case rurali.

Argomento di controversia è stato pure l’ultimo capoverso dell’art. 5 del progetto Minghetti, con cui si determina che le costruzioni rurali saranno soggette all’imposta sui fabbricati, ed esenti da quella sui terreni. Il Basile si mostra favorevole a questa disposizione; mentre Giorgio Sonnino([271]) la critica vivamente: considerando le costruzioni rurali come strumenti indispensabili alla coltura dei fondi, egli le vorrebbe esenti da ogni tassazione. Le ragioni pro e contro hanno un certo valore; ma è indubitato che nella attuale scarsezza di convenienti fabbricati rurali, tanto per abitazione dei contadini come per gli usi agricoli, il disposto dell’art. 5 presenterebbe il pericolo d’impedire le nuove costruzioni. E la questione delle case coloniche, e specialmente nelle provincie meridionali che tanto ne difettano, è questione sì grave e che interessa talmente, oltrechè l’agricoltura, la sicurezza pubblica nelle campagne, la moralità e il benessere delle popolazioni, che ogni ostacolo frapposto ad un miglioramento delle condizioni presenti non può essere considerato che come cosa improvvida e pericolosa: e ciò tanto più, ove si ponga mente che la coltura media e piccola, risultati della piccola proprietà, e sovrattutto la forma della mezzadrìa, richiedono, come bene osserva Giorgio Sonnino, un maggior numero di fabbricati che non la coltura in grande, onde risentirebbero più gravemente gli effetti delle disposizioni contenute nell’art. 5 del progetto Minghetti.

 

 

§ 92. — Ricchezza mobile.

Abbiamo già accennato a vari difetti della imposta sulla ricchezza mobile, e a quello specialmente che concerne la forte ineguaglianza sanzionata dalla legge, e aggravata dagli esecutori di essa, nell’applicazione di questa imposta al contadino affittuario e al colono([272]). Sarebbe necessario e di pura giustizia il trovare per il primo un qualche temperamento eguale a quello adottato colla legge dell’11 agosto 1870 per il secondo.

 

Giornate obbligatorie per le strade.

In Sicilia i contadini sono pure aggravati da una tassa speciale, e che sopra il povero gravita molto più duramente che sul ricco; è dessa quella delle giornate obbligatorie che deve prestare ogni comunista per la costruzione delle strade comunali. Le poche lire che pagano in sostituzione le classi agiate, non possono venir paragonate al danno che risente il lavorante dalla perdita di una o due giornate di lavoro nell’anno.

 

Macinato.

La tassa poi sul macinato ricade molto più gravemente sui contadini mezzadri o metatieri, che su qualunque altro ordine di lavoranti: le difficoltà di ottenere dal padrone un aumento della loro quota di partecipazione nei prodotti del podere, sono molto maggiori per loro, che non per gli altri di ottenere un aumento di salario o una riduzione di fitto. Qui come in alcuni altri casi già citati, la stessa legge di consuetudine che dovrebbe essere il maggior vantaggio della mezzadrìa, torna invece a danno del colono, il quale riceverà sempre la stessa quantità di grano sul raccolto. Egli sente poi tanto più la tassa, in quanto la paga in blocco sui sacchi di grano che fa macinare a lunghi intervalli. L’avversione inoltre che ha il contadino ad ogni affare o pagamento in denaro, fa sì che i mugnai, facendosi pagare in grano, abusano indegnamente colle loro esazioni della loro posizione privilegiata, la quale in Sicilia, colla difficoltà delle comunicazioni e la mancanza di commercio interno, rasenta molto spesso il monopolio.

 

Tassa di registro.

Infine la tassa di registro sui trasferimenti di fondi da un proprietario a un altro è evidentemente di grave ostacolo ai miglioramenti agricoli, poichè ogni inceppamento alla libera trasmissibilità delle proprietà private tende a conservare la terra nelle mani di chi è meno atto o meno in grado di ben coltivarla. Ma dove l’attuale tassa di registro è più dannosa ancora all’agricoltura, e diventa in alcuni luoghi, come nel Messinese, un ostacolo alla stessa riuscita di qualsiasi forma utile di contratto agricolo, è nel gravare che fa così duramente le permute dei terreni: poichè con ciò impedisce all’iniziativa individuale di porre riparo a quel crescente sparpagliamento degli appezzamenti di terra, che minaccia di diventare uno dei mali più seri della nostra economia agricola, dovunque la proprietà sia alquanto divisa. Ci contentiamo di accennare la questione senza approfondirla, poichè essa è già stata discussa nei giornali e nel seno di Commissioni parlamentari.

Senza andare fino agli eccessi di chi, sopra esempi germanici, vorrebbe imporre forzatamente ai proprietari la permuta degli appezzamenti divisi, ci sembra che per togliere o diminuire di molto i lamentati inconvenienti, basterebbe un temperamento che attenuasse l’attuale gravezza della tassa di registro, in guisa da farla ricadere sulla sola differenza di valore che intercede fra i due terreni permutati. Con ciò si evita pure il caso, che sotto la maschera di permute si simulino vendite vere e proprie di fondi, con danno dell’erario pubblico. Un temperamento siffatto non potrebbe venir opposto da nessuno, nè creerebbe disuguaglianze di sorta, poichè nella permuta di due terreni di valore eguale non è possibile riscontrare una base giusta di tassazione, e ciò senza parlare dell’interesse che ha l’intiera società a che tali permute avvengano il più possibile. Le difficoltà a qualunque provvedimento di questo genere possono bensì essere di applicazione; ma non vi è ragione per crederle insuperabili.

 

Tributi locali.

Riguardo alle tasse locali concesse alle Provincie e ai Comuni, l’azione dello Stato può, come già abbiamo detto altrove, rendersi utile col vigilare più strettamente sulla loro equa e proporzionale applicazione per parte delle autorità locali. Però nelle provincie meridionali il criterio per giudicare della giusta proporzionalità tra le diverse imposte dev’essere alquanto diverso che nelle altre provincie d’Italia, e ciò per la ragione che il dazio consumo nelle prime vien pagato per massima parte dalla classe agricola agglomerata nelle città, mentre nelle seconde questa classe ne va ordinariamente esente. A questo proposito sarebbe impossibile dar regole generali che guidassero le autorità prefettizie in tutto il Regno nella loro vigilanza sui bilanci comunali: quella stessa imposta che qua è giusta, là invece è esorbitante e iniqua; ciò dipende dalle varie condizioni sociali, non solo delle diverse regioni o provincie, ma anche di Comuni diversi nello stesso circondario. L’elevatezza delle stime catastali, la varietà dei contratti agricoli, l’accentramento o no delle case rurali, sono altrettanti termini che vanno tenuti in conto in ogni singolo caso.

Anderebbe però meglio studiata la questione, se la stessa legge non potesse impedire dei casi enormi come quelli di Comuni con esteso territorio che gravano il solo dazio consumo, e niente la sovrimposta fondiaria; ovvero di altri dove ci sono numerose mandrie, e che impongono la sola tassa sulle bestie da tiro e soma, e non quella sul bestiame: come pure sarebbe necessario qualche regolamento della tassa di famiglia che rendesse impossibili le gravi ineguaglianze che, come già vedemmo, si verificano ora nella sua applicazione([273]).

 

 

§ 93. — Esazione delle imposte.

Fin qui abbiamo detto dell’imposizione delle tasse: ora scendendo ai metodi di esazione, vorremmo additare ai nostri uomini di Stato e agli studiosi di Finanza, un inconveniente speciale che presentano i nostri sistemi di esazione delle imposte dirette, di fronte al piccolo agricoltore che non è munito di forti capitali. Si tratta, è vero, di un inconveniente difficile ad evitarsi del tutto nella pratica; ma può però essere utile di rilevarlo, onde cercare se non sia possibile di attenuarlo in una certa misura, senza che ne venga danno all’erario.

Le nostre tasse dirette colpiscono tanto più duramente il piccolo agricoltore, per l’epoca inopportuna e dunque uniforme della loro esazione. La tassa ideale per l’agricoltore sarebbe quella la cui esazione corrispondesse coll’epoca dei raccolti principali del luogo: così, per esempio, in un distretto vinicolo, come a Marsala o a Mazzara, sarebbe molto meno risentita quella tassa che si esigesse dopo la vendemmia; e invece in un distretto dell’interno della Sicilia dove la coltivazione principale fosse del grano, quella che dovesse pagarsi dopo la trebbiatura. Ogni riscossione invece che si faccia in altra epoca dell’anno, e specialmente nei mesi più lontani dall’ultima raccolta, trova il contadino privo di capitali, e stentando la vita per arrivare fino al momento della nuova raccolta, la quale dovrà compensarlo delle fatiche di tanti mesi, e saldare tutte le pratiche di debito ch’egli ha dovuto incontrare per mantenersi durante il tempo dei lavori. Per pagare dunque l’esattore delle tasse quel contadino dovrà incontrare maggiori debiti e sottoporsi perciò a qualunque usura; oppure gli verranno sequestrati i miseri capitali che gli sono necessari per poter ottenere in fin d’anno quel raccolto sul quale deve vivere, e dal quale deve in fin dei conti pagare la tassa. È vero che gli stessi esattori potrebbero in parte rimediare a questo inconveniente col concedere dilazioni al pagamento; ma nel fatto essi non vogliono quasi mai consentire a ciò, e in ogni modo non lo potrebbero fare senza esigere anch’essi un qualche interesse sui capitali che debbono anticipare.

Tutto ciò non ha una grande importanza là dove per la varietà delle colture frammischiate negli stessi poderi, il contadino ha vari cespiti d’entrata che gli fruttano in epoche diverse; ma nei luoghi invece in cui, come in gran parte di Sicilia, la coltura è quasi unica, l’accennato inconveniente dell’esazione rateale e bimestrale delle imposte dirette diventa più grave. Queste considerazioni servono pure a spiegare in parte lo strano fenomeno che ognuno avrà potuto osservare, di quanto maggiore sia il malumore che crea nel contadino un’imposta governativa, per quanto tenue sia l’importare, a confronto di quello che in lui risvegliano il sopruso, l’usura e la ruberìa ch’egli abbia a sopportare per mano del privato, o a mo’ d’esempio, la tassa effettiva che da lui esigono il cappuccino questuante o il malandrino. Ciò si potrebbe, diciamo, attribuire in parte al fatto che l’imposta governativa vien spesso richiesta quando il lavorante non ha più nulla o quasi nulla; mentre se fosse presa, come le esazioni private, al momento in cui egli si trova possessore di un piccolo fondo per le raccolte fatte, per il pagamento ricevuto, ecc., lo disgusterebbe molto meno. E la stessa considerazione vale pure a spiegarci come minore potesse essere il malcontento cagionato dalle antiche decime pagate dal coltivatore al barone o alla Chiesa, di quello destato ora da gravezze minori.

 

 

§ 94. — La mezzadrìa secondo il Codice Civile.

Abbiamo finito colle imposte. Ora volgendoci alla legislazione civile, diremo prima succintamente di alcune piccole mende che ci sembra presentare il nostro Codice civile nelle sue disposizioni intorno alla colonìa o mezzadrìa, ed all’enfiteusi; e quindi studieremo tutte quelle più radicali proposte che sono state fatte riguardo a innovazioni nei contratti agricoli, da imporsi per legge ai proprietari.

Fu grave torto del nostro Legislatore di aver preso per tipo del contratto di colonìa quella forma che è praticata in Piemonte e in Lombardia, e che più s’informa al concetto di vero e proprio fitto che a quello di mezzadrìa, ossia di società([274]). Negli articoli del Codice difatti si parla sempre di locatore e di conduttore; — si applicano in generale alla colonìa le regole della locazione, e in particolare quelle della locazione di fondi rustici (art. 1647), sicchè il colono resta libero di dirigere a modo suo l’economia agricola del suo podere; — si suppone in mancanza di consuetudini locali o di convenzioni espresse, che tutto il bestiame e gli strumenti agricoli debbano appartenere al colono (art. 1655). Nel capitolo successivo sulla società si prescrive che «se il bestiame è perito, o il suo valore primitivo diminuito senza colpa del conduttore, la perdita è a carico del locatore», (art. 1675).

Orbene, tutte queste disposizioni non solo non rispondono alle consuetudini locali della più gran parte d’Italia, ma nemmeno a quelle principali dell’Italia centrale, dove la mezzadrìa è meglio riuscita sotto ogni riguardo. Benchè il Codice non presuma regolare il contratto di colonìa nei suoi particolari, laddove vi siano consuetudini locali, pure le regole generali sulla locazione sono dettate in modo imperativo, e vi è inoltre l’inconveniente anche per le altre, di istituire una tendenza ad avvicinare la pratica generale alle disposizioni legislative, il che per molte provincie sarebbe un danno, con buona pace dell’avv. Ercolano Ercolani([275]), il quale, innamorato della sapienza del legislatore, non sa rendersi ragione della passiva resistenza degli agricoltori a conformarsi a tutti quanti i dettami anche facoltativi del Codice.

Perchè non prendere per tipo del contratto colonico, anzichè quello adottato dal Codice Albertino, l’altro del Valdarno, regolato dalle leggi leopoldine e dalla successiva giurisprudenza toscana? Avremmo anzichè un contratto di locazione, uno di società, e il bestiame verrebbe dato dal proprietario, e per conto metà profitti e perdite. Col diritto nel proprietario di aver voce nella coltivazione del fondo, si rendono possibili i progressi nell’agricoltura; e col bestiame prestato dal proprietario e in conto metà, si assicura al fondo una sufficiente concimazione, si salva il contadino da tutti quei cambiamenti nel contratto che sarebbero resi facili dal mescolarvi un elemento di fitto, e si distribuisce egualmente tra i due soci, il proprietario e il contadino, ogni spesa e ogni profitto del podere. Si noti che anche nel Bergamasco, dove esiste una mezzadrìa sul tipo di quella considerata dal nostro Codice, i proprietari più intelligenti cercano, e per ora invano, di mutare gli usi locali, e d’introdurre il sistema del bestiame per conto metà.

 

 

§ 95. — L’enfiteusi secondo il Codice.

Quanto al contratto di enfiteusi abbiamo già accennato come in Sicilia, se non in tutta Italia, potrebbe essere opportuno di limitare l’assoluta affrancabilità delle enfiteusi, col permettere che le parti possano convenire la non affrancabilità per un termine di dicasi 30 o 40 anni dal giorno della primitiva costituzione dell’enfiteusi, come pure la stipulazione che per lo stesso termine o per altro minore l’enfiteuta non possa cedere ad altri il suo diritto senza il consenso del domino diretto. In questo modo, senza derogare a quelle ragioni d’interesse pubblico che consigliano a togliere quanto più è possibile i vincoli feudali alla libera proprietà della terra, potrebbesi evitare in parte l’attuale danno di veder abbandonata affatto dai proprietari una forma di contratto che già è stata cagione del maggior bene che abbia avuto l’economia agricola in Sicilia, e che potrebbe ancora arrecare tanti beneficii in avvenire per la coltura più intensiva di vaste zone ora quasi incolte, per la diffusione delle case nella campagna, e per il miglioramento della condizione economica e sociale di quella popolazione agricola. Il costituire ora un’enfiteusi a basso canone sopra un fondo incolto equivale ad una vendita di quel fondo a bassissimo prezzo, poichè qualunque capitalista può per pochi soldi acquistare dall’enfiteuta il suo diritto, e quindi affrancare il fondo.

Per evitare pure le presenti arti usate dai domini diretti per riprendersi a buon mercato i fondi già concessi in enfiteusi, anderebbe modificato il secondo alinea dell’art. 1566 del Codice, in cui si prescrive che nel caso di devoluzione avvenuta per colpa dell’enfiteuta, il compenso dovuto a questi per i miglioramenti fatti nel fondo si debba computare nella minor somma tra lo speso ed il migliorato al tempo del rilascio del fondo. Questa disposizione avvantaggia ingiustamente il domino diretto, poichè spesso le spese che si possono computare per un miglioramento fatto sono minime di fronte al profitto positivo che se ne può ricavare: così per un oliveto già cresciuto, le spese che si possono calcolare per la piantagione son ben lontane dal rappresentare l’aumentato valore della proprietà. Il compenso pei miglioramenti dovrebbe sempre calcolarsi sul valore dei miglioramenti stessi, o tutto al più si potrebbe ammettere il disposto del secondo alinea dell’art. 1566, colla limitazione «e purchè la somma dello speso non sia minore dei quattro quinti del valore dei miglioramenti, chè in questo caso il compenso sarà dovuto fino alla concorrenza dei quattro quinti di questo valore». Opportuna ci parrebbe pure una disposizione di legge che limitasse a soli tre anni il termine della prescrizione di ogni credito di canone d’enfiteusi non stato regolarmente reclamato dal domino diretto.

 

 

§ 96. — Disposizioni limitatrici della libertà di contrattare.

Esaminate così alcune piccole riforme che si potrebbero facilmente introdurre nella nostra legislazione, e che diciamo piccole non perchè le crediamo poco importanti, ma perchè non potrebbero sollevare alcuna questione di principii, giacchè non importano alcuna maggiore limitazione alla libertà dei contratti, dobbiamo ora accennare a varie proposte state fatte di provvedimenti più radicali, con cui in qualche modo il legislatore a nome dell’interesse pubblico verrebbe a limitare di più la libera disposizione, il jus abutendi se non quello utendi, della proprietà privata del suolo, o la libertà delle contrattazioni.

Nessuno contesta il diritto nel legislatore di introdurre tali limitazioni, e non vi è titolo del Codice che già non ne contenga, come per esempio quando si vieta il patto di non affrancabilità delle enfiteusi, oppure si annulla nel contratto di soccida qualunque convenzione per cui il conduttore abbia nella perdita una parte più grande del guadagno, ecc. La sola questione che si possa fare è sulla opportunità, sull’utilità pratica e sull’efficacia di tali disposizioni limitative. E portata la questione in questo campo, non vi è elemento di fatto nelle condizioni generali di un paese, che non abbia valore per determinare se e in quanto il legislatore debba nell’interesse generale limitare con speciali provvedimenti la libertà delle contrattazioni private relative alla coltivazione del suolo. Ciò ben intendono gl’Inglesi, ai quali non reca alcuna maraviglia, che una legge decretata per l’Irlanda a nome della giustizia e dell’equità, non venga estesa pure all’Inghilterra, per la sola ragione che questa si trova in condizioni di fatto diverse; e ciò benchè i mali dell’Irlanda dipendessero in gran parte da quella stessa legislazione economica che vige tuttora in Inghilterra. E questo non intendono generalmente gl’Italiani, ai quali sembra che l’unità politica debba necessariamente condurre ad una presunzione juris et de jure che i bisogni e i mali economici e sociali delle diverse provincie siano identici, e debbano curarsi cogli identici rimedi. I nostri legislatori potrebbero in ciò spesso rassomigliarsi a un medico, che chiamato in una famiglia a curare uno dei membri di essa, e accorgendosi che l’ammalato ha bisogno di un salasso, si credesse in dovere, per non rallentare i legami di famiglia, di cavare qualche oncia di sangue a tutti quanti di casa. Ma veniamo all’esame delle singole riforme state proposte da vari scrittori. Diremo soltanto delle principali, e nell’ordine seguente: 1° della proibizione della coltura delle risaie; 2° dell’imposizione per legge di determinate forme di contratto agricolo, sia di fitto, sia di mezzadria; 3° della dichiarazione per legge del diritto del coltivatore al compenso per i miglioramenti da esso introdotti nel fondo; 4° dei provvedimenti speciali da adottarsi per l’attuazione delle riforme.

 

 

§ 97. — Risaie.

Se in Lombardia la questione industriale può far esitare il legislatore al bandire d’un tratto dai territorio del Regno la coltura malefica delle risaie irrigate, la stessa ragione non potrebbe addursi contro un simile divieto in Sicilia, dove questa coltura si fa tuttora in piccole proporzioni; e ci sembra che qua non dovrebbe esservi esitazione al proibire recisamente tale coltivazione pestifera, dovunque non vi siano paduli naturali([276]). Non dovrebbesi lasciar la decisione di tanta questione ai Consigli provinciali, in cui facilmente predomina chi ha interesse a far fruttare maggiormente i propri terreni, e poco si occupa se le lire di più che gli vengono in tasca costano dolori e miserie infinite a centinaia e migliaia di contadini, e danno alla patria.

Quanto poi agli attuali regolamenti provinciali che determinano le condizioni in cui si possano coltivare le risaie, e ne regolano i metodi di coltura, non esitiamo a dire che sono tanta carta straccia fatta per darla ad intendere ai forestieri, o per calmare gli scrupoli di qualche consigliere provinciale. A chi ne voglia la prova, raccomandiamo di fare un breve giro nella provincia della cosiddetta capitale morale d’Italia, dove vedrà come tutte le disposizioni regolamentari sulle risaie, meno quella dei 5 chilometri dall’abitato — perchè interessa alla città e non ai contadini, — sono puramente e scandalosamente lettera morta.

 

 

§ 98. — Norme legislative pei contratti.

La questione diventa più grave e più difficile, riguardo alle norme da fissarsi dal legislatore pei contratti agricoli. Il prof. Villari([277]) reclama dei provvedimenti in questo senso, e cita a sostegno della sua tèsi gli esempi della Russia, della Prussia e dell’Inghilterra; ma non precisa quali sarebbero le riforme che desidererebbe, all’infuori di quella che dichiarasse nulla ogni rinunzia per parte dell’affittuario al compenso pel valore dei miglioramenti. La questione non è stata ancora discussa in Italia, e richiederebbe quindi troppo ampio svolgimento, perchè ci sia possibile di qui trattarla a fondo. Ci restringeremo ad additarne i punti principali, che potrebbero riferirsi più direttamente alle condizioni siciliane.

Per quanto concerne gli esempi esteri, e più specialmente la legislazione agraria in Russia e in Prussia, il lettore potrà trovare ampi ragguagli nell’interessante volume pubblicato nel 1870 dal Cobden Club, e ristampato in edizione economica nel 1876, System of Land Tenure in various Countries([278]); e riguardo alle riforme inglesi, l’articolo di Emile de Laveleye, nel numero del 15 giugno 1870 della Revue des Deux Mondes, basterà a dargli un concetto riassuntivo assai esatto.

Non resistiamo anzi alla tentazione di presentare al lettore il breve sunto che ci dà il Laveleye della legge inglese sull’Irlanda del 1° agosto 1870 (Landlord and tenant Act (Ireland) 1870), la quale è forse il provvedimento più radicale nel suo genere che sia ancora stato promulgato in un paese civile: —

«Il bill comincia col dare forza di legge alla consuetudine del tenant-right là dove è ancora in vigore, nell’Ulster ed anche nelle altre provincie([279]). Un tribunale speciale, che è istituito per mettere in esecuzione il land-bill, avrà dunque ad esaminare in che consista la consuetudine su tal proprietà data, e poi dovrà farla rispettare dal proprietario. La specie di comproprietà di cui l’affittuario godeva per tolleranza gli è così riconosciuta come un diritto....

«Pei casi in cui l’affittuario non ha nè tenant-right nè contratto lungo, il bill gli viene in aiuto, multando, per così dire, il proprietario che vuole evincerlo. Lo scopo è di proteggere il fittaiuolo contro quello spaventoso male della insecurità, che è, come lo dice energicamente il signor Gladstone, il mostruoso flagello dell’Irlanda. Questa multa diminuisce a misura che la terra affittata è più importante. Per una locazione inferiore a 10 lire st. (250 fr.) può elevarsi al valore di sette anni di fitto; da 10 a 30 lire st. a cinque anni, e così diminuendo fino a non equivalere più che un anno di fitto, quando la terra sia affittata più di 100 lire st. Ogni stipulazione per la quale il locatario rinunzierebbe a questo diritto è considerata come non avvenuta, ammenochè il fitto non sorpassi 100 lire st. Il bill ammette che il piccolo coltivatore non è libero quando contratta col proprietario; bisogna dunque proteggerlo anche contro le esigenze alle quali sarebbe stato forzato a consentire. Più la sua industria è piccola, più è forte la protezione che la legge gli accorda. Il locatario che subaffitta o che non paga il canone non ha più diritto a indennità....

«Finora tutti i miglioramenti e costruzioni si presumevano fatti dal proprietario, il quale rimandando il fittaiuolo poteva impadronirsene. Da qui innanzi, fino a prova in contrario, apparterranno al fittaiuolo, e il proprietario dovrà rimborsare il valore secondo la valutazione del tribunale. Qui ancora la libertà dei contratti non è rispettata, perchè se nel contratto il locatario rinunzia al diritto di migliorare o di domandare un compenso per questo capo, questa stipulazione sarà considerata come non fatta volontariamente, e quindi sarà senza effetto.

«Se il proprietario vuole sfuggire alle clausole precedenti, lo può, ma soltanto accordando un fitto di trentun’anno a condizioni che il tribunale giudicherà eque. Per mettere un termine alle esigenze esagerate dei proprietari ai rack-rents, il tribunale può decidere che il non pagamento di un canone troppo elevato non dà il diritto di domandarle l’evizione dell’affittuario. Esso può considerare tali esigenze ingiuste come arrecanti un turbamento all’occupazione del fittaiuolo, e accordare quindi a questo una indennità.

«Un’altra parte del bill ha per scopo di facilitare ai fittaiuoli l’acquisto delle terre che occupano. Il tesoro è autorizzato ad anticipar loro i due terzi del prezzo di compra, che sono tenuti a rimborsare in trentacinque anni, mediante un’annualità del 5%. Il tribunale rilascerà loro un titolo legale, e questo è un punto importantissimo, perchè è l’incertezza dei titoli che è uno dei principali ostacoli alla diffusione della proprietà».

 

 

§ 99. — Disposizioni intese a prolungare i termini degli affitti.

Diremo prima delle disposizioni intese a ottenere la lunga durata dei fitti, e di quelle con cui si volesse prescrivere ai proprietari l’adozione di qualche forma determinata di contratto agricolo; e in secondo luogo di quelle relative ai compensi pei miglioramenti.

È certo che se il sistema dei piccoli affitti a termine breve si generalizzasse in Sicilia, diventerebbe pure necessaria una qualche disposizione legislativa sul genere di quella inglese, affin di esercitare una pressione sui proprietari per il prolungamento dei termini di affitto. Anche ora per le stesse gabelle dei latifondi, il termine di 4 a 6 anni può considerarsi come un ostacolo positivo ad ogni eventuale progresso agricolo, poichè non è supponibile che gli affittuari vogliano mai spendere in miglioramenti di cui non potrebbero poi godere i frutti; e ciò in un paese dove i grandi proprietari, meno pochissime ed onorevoli eccezioni, nulla fanno essi stessi in questo senso. Però esitiamo a credere che un provvedimento legislativo sul genere di quello inglese, gioverebbe ora molto in Sicilia, dove nulla sta a indicarci che i gabellotti dei feudi farebbero effettivamente con un fitto a termine lungo più di quel che facciano ora nè essi nè i proprietari.

Anche nel caso dei piccoli affitti, temiamo che sarebbe tuttora troppo facile per i proprietari di eludere le prescrizioni della legge, con la stipulazione di fitti altissimi e superiori a quanto veramente esigerebbero o potrebbero esigere; imperocchè in questo modo l’affittuario indebitato e insolvente potrebbe sempre esser privato dei suoi diritti. Vero è bensì che la legge inglese dà ai tribunali specialmente istituiti la mansione di determinare per i fitti piccoli — minori di 375 lire l’anno, — se il canone di affitto sia esagerato, e che nel caso affermativo il non pagamento del canone non basta a giustificare l’evizione dell’affittuario; ma, considerando lo stato presente dell’opinione pubblica in Italia, che dà sempre torto al contadino, avremmo ben poca fiducia nell’azione di simili tribunali che s’istituissero da noi, e ciò senza parlare delle difficoltà speciali del determinare per ogni singolo podere che cosa si debba considerare come un canone giusto di fitto. Bisogna pure osservare che la legislazione speciale per l’Irlanda è resa necessaria in gran parte dal sistema generale della legislazione inglese sulla proprietà territoriale, e che da noi, dove la proprietà è libera da tutte quelle pastoie di fidecommessi, di dotazioni, ecc., vi possono essere pure altri mezzi di salvezza meno radicali e insieme più equi e più conformi allo spirito generale delle nostre istituzioni civili.

 

Imposizione della mezzerìa per legge.

Molti chiedono l’imposizione forzosa della mezzerìa ai proprietari siciliani: ma ci permetteremo di dirigere ai proponenti alcune domande. Noi abbiamo veduto come la mezzerìa non possa riescire vantaggiosa al contadino, e con lui al paese, che in alcune determinate condizioni. Orbene, chi creerà queste condizioni? Forse lo Stato? Ma con quali mezzi? O forse i proprietari? Ma se essi desiderano la mezzadrìa, a nulla serviranno le disposizioni legislative; e se essi non la vogliono come potrete ottenere che vi aiutino a proprio dispetto? Vorremmo inoltre che si definisse meglio, di quale mezzerìa si intende parlare, se di quella del Codice, o di quella toscana, o di altra. E poi, se togliete al proprietario la facoltà di licenziare il mezzadro, la vostra sarà una espropriazione vera e propria, poichè i proprietari sarebbero certi di non riscuotere più nulla: in tal caso però preferiremmo il metodo più semplice e più leale della confisca semplice, a uso rivoluzione francese. Se invece lasciate al proprietario la facoltà di licenziare il mezzadro, la vostra legge resterà illusoria. Badiamo che qui non si tratterebbe come in Irlanda, di fitto, in cui il canone è determinato e fisso, ma invece del pagamento da farsi al proprietario, di una quota di prodotti la cui quantità muta ogni anno. E inoltre, chi costruirà le case rurali, indispensabili alla riuscita della mezzadrìa? Forse lo Stato? Ma con che denari? E a chi apparterrebbero le case costruite dallo Stato sui fondi privati? Perchè lo Stato non le costruisce piuttosto sulle proprie terre prima di metterle in vendita? Le fabbricheranno i proprietari? Ma qui si ricade nel dilemma già accennato: o i proprietari vogliono la mezzadrìa, e la legge è inutile, o non la vogliono, e allora non costruiranno nulla. Forse i contadini? Ma su quale terreno? E con che denari? E chi farà sì, ed è questa la difficoltà più grave, che il mezzadro accettato dal proprietario non sia un uomo di paglia, e che il vero coltivatore non resti precisamente nello stato in cui è ora? —

Non diciamo che molte di queste difficoltà non sarebbero superabili; crediamo anzi di sì; ma abbiamo voluto accennarle per mostrare che la questione è tutt’altro che semplice o facile, e non può essere risoluta in astratto. Facciamo però voti che l’opinione pubblica se ne occupi, e che da una discussione ampia ed animata si possa rilevare quali siano nelle varie regioni d’Italia le innovazioni che si potrebbero utilmente introdurre nella nostra legislazione agraria.

 

Codici Agrari.

Provvidissima del resto ci pare fin da ora la proposta di formulare per quelle diverse regioni, varie leggi o codici agrari([280]), che informandosi ad alcuni principii generali e ad alcune regole principali, uniformi per tutto lo Stato, tenessero conto delle diversità locali di sistemi di coltura, di consuetudini e di tradizioni, e regolassero minutamente tutti quegl’infiniti rapporti tra proprietari e coltivatori, tanto diversi da luogo a luogo, i quali non possono venir compresi in una legislazione generale, e che ora quindi non sono regolati che da consuetudini troppo incerte e mutevoli. Nell’introdurre poi innovazioni forzose quanto alla forma stessa del contratto agricolo occorre sempre procedere coi piedi di piombo, ricordandosi che là dove non vi è un’opinione pubblica che la sostenga e la sospinga, l’azione dello Stato riesce quasi sempre inutile, e talora dannosa.

 

 

§ 100. — Del diritto ai miglioramenti introdotti nel fondo.

Quanto alla questione se la legge debba con disposizione tassativa ordinare che il coltivatore, alla scadenza del suo contratto, abbia sempre diritto a ricevere un compenso per i miglioramenti da lui introdotti nel fondo, crediamo che il bisogno di una qualche riforma in questo senso si manifesti assai generalmente in Italia. Più volte in Lombardia ci furono raccontati dagli stessi proprietari, casi di affittuari che si erano quasi rovinati per migliorare i loro fondi, e che poi alla scadenza del loro contratto si sono visti aumentare fortemente il canone d’affitto, per il fatto stesso di altri affittuari concorrenti; e ciò al punto, che hanno dovuto abbandonare il fondo per mancanza di mezzi sufficienti, e lasciare che altri godesse dell’opera loro, insieme col proprietario che nulla fece per meritarsi quell’aumento di ricchezza. Non vi è qui vera spogliazione, sanzionata dalla legge? Gli stessi fatti, in proporzioni più o meno serie, accadono dappertutto, e non sarebbe quindi che di pura giustizia che la legge provvedesse in qualche modo.

 

Proposta Jacini.

Il Jacini([281]), esaminando questa questione dei miglioramenti, a proposito degli affitti all’asta dei beni delle Opere pie, propone l’adozione del sistema seguente che egli trovò in vigore in Francia nelle vicinanze di Chartres, e che là aveva prodotto ottimi risultati: —

«Le locazioni hanno una breve durata, cioè di sei, di sette, di nove anni al più. Alla scadenza, se il conduttore propone di rinnovare il contratto alle stesse condizioni di prima, rimane libero al locatore di accettare o no, come dovunque suol avvenire. Ma se il conduttore propone di rinnovare il contratto con aumento di prezzo, allora si fa luogo ad un patto il quale si usa di prevedere in ogni strumento, e che entrambe le parti sogliono accettare volentieri. Questo patto è come segue: Nel caso che il conduttore offra di rinnovare l’affitto con aumento di prezzo, il locatore può ancora accettare o rifiutare, ma se rifiuta è obbligato a pagare al conduttore una somma corrispondente al triplo dell’aumento propostogli da questo, e ciò per una volta tanto. Per esempio, se un conduttore pagava 80 franchi per ettaro, e al giungere della scadenza offre di rinnovare l’affitto aumentando il prezzo con 5 franchi per ettaro, il locatore, se si rifiuta di accettare deve assoggettarsi a sborsare per una volta tanto, una somma di 15 franchi per ogni ettaro, ed a permettere che l’altro trattenga tal somma sull’ultima annata di affitto, per cui in quell’annata non gli pagherà che 65 franchi». — E l’autore seguita a dimostrare l’utilità e la giustizia di questo patto, e a confutare alcune obiezioni che vi si fanno.

Nulla impedirebbe che un tal patto, libero là dove l’osservò il Jacini, potesse anche imporsi per legge in Italia o in quelle regioni di essa dove più se ne manifestasse il bisogno. Il sistema si fonda sulla presunzione che l’aumento che offre il fittabile dipenda dai miglioramenti che ha intrapresi; ed è inteso a garantirgliene in parte il godimento.

Si possono però muovere contro una tale proposta altre obiezioni oltre quelle di cui parla il Jacini.

Supponiamo che in un fondo affittato per 1000 lire l’anno per un termine non lungo, l’affittuario abbia speso 2000 lire in miglioramenti stabili. Se questi denari sono stati bene spesi — con un impiego, diciamo, del 5% — quel fondo potrà procurare al proprietario, in un nuovo contratto, un canone annuo di 1100 lire. Facciamo ora diverse ipotesi:

1° Il primo affittuario, alla scadenza del primo contratto, non offre aumenti, giacchè a lui par cosa ingiusta di non dover godere egli solo di tutti quanti i frutti del capitale speso nei miglioramenti, e di doverli dividere col proprietario. Egli non avrebbe quindi, secondo il sistema Jacini, alcun diritto a compenso, e verrebbe scacciato dal proprietario, che così si locupleterebbe a danno di lui di 2000 lire nette. Dove è qui la giustizia?

2° L’affittuario rinunzia a voler godere nel secondo affitto di tutto quanto il frutto delle 2000 lire da lui spese, e contentandosi di una metà, offre al proprietario un aumento di fitto di 50 lire l’anno. Se il proprietario, supponendolo uomo di buona pasta, accettasse, egli si sarebbe a ogni modo locupletato ingiustamente di un valor capitale di 1000 lire. Ma invece, puta caso, si presenta un altro candidato, il quale calcolando sul saggio corrente di profitto industriale, offre 100 lire d’aumento di fitto. Il proprietario paga al primo affittuario una somma di 150 lire, ossia tre volte l’aumento da lui offerto, e accetta il nuovo concorrente. Dov’è anche qui la giustizia? Da una parte il proprietario ha guadagnato 1850 lire nette, e dall’altra l’affittuario ne ha ricevute 150 in compenso di 2000 spese con vantaggio effettivo del fondo. — Ma, si dirà, il primo affittuario sapendo che l’aumento che offriranno gli altri concorrenti sarà di 100 lire, dovrebbe offrirle egli stesso. — E allora, domandiamo noi, dove e come godrebbe egli dei miglioramenti da lui fatti, quando dovesse pagarne annualmente l’intiero frutto al proprietario?

Tutto il più che potrà fare l’affittuario, col sistema proposto dal Jacini, per fruire il massimo possibile dei suoi miglioramenti, sia che il proprietario lo licenzi o rinnuovi con lui l’affitto, è di offrire precisamente quella somma, al di sotto della quale al proprietario converrebbe di pagargli tre volte l’aumento per accettare la nuova offerta delle 100 lire che gli farebbe qualunque altro affittuario, e al disopra della quale al proprietario ciò non converrebbe più, ma l’affittuario d’altro canto rinunzierebbe senza ragione, nella rinnovazione dell’affitto, ad una parte del frutto dei miglioramenti da lui fatti.

Supponendo che nelle condizioni del mercato in un dato momento, a rappresentasse quell’aumento di fitto annuo di fronte al fitto precedente, che qualunque affittuario offrirebbe per avere il fondo migliorato, n il numero di volte per cui si moltiplica l’aumento offerto dal primo affittuario onde ottenere la somma che deve restituirgli il proprietario nel caso di non accettazione della sua offerta, e c la cifra del saggio corrente d’interesse per cento nella piazza; — per trovare la cifra che si ricerca, ossia l’x che rappresenti la massima offerta che possa fare l’affittuario a proprio vantaggio, bisognerebbe fare la seguente operazione di calcolo:

x n c/100 = a – x; e s’avrebbe che x = 100 a/(100 + n c)

E nel caso citato a essendo 100, n essendo eguale a 3, e supponendo che c fosse 5 (al saggio corrente del 5%), x = 86,95; il che significa, a mo’ d’esempio, che se il primo affittuario offre 85 lire d’aumento, al proprietario converrà di accettare piuttosto le 100 lire d’aumento offerte da un terzo, e di pagare al primo affittuario 255 lire; e che invece se questi ne offrirà 88, egli perderà più del necessario sul profitto dei miglioramenti da lui fatti. Il compenso quindi che il sistema in discorso procurerebbe al primo affittuario sarebbe di L. 13.05 di frutto annuo, oppure del valor capitale corrispondente (al 100 per 5: L. 261), di fronte a 2000 lire di spesa.

Insomma a – x rappresentando precisamente il frutto effettivo annuo, di cui il metodo proposto dal Jacini lascia il godimento all’affittuario, 100(a – x)/c rappresenterebbe esattamente quella parte del capitale da lui speso nel fondo, della quale egli continuerebbe a godere i frutti in un nuovo affitto, mentre 100 a/c rappresenta l’effettivo valore dei miglioramenti arrecati nel fondo. — Orbene, perchè questi due termini fossero eguali, il che significherebbe che il compenso ricevuto dall’affittuario equivarrebbe ai miglioramenti effettivi da lui fatti nel fondo, x dovrebbe essere eguale a zero; e conseguentemente quanto più diminuirà x, tanto più prossimo sarà il compenso al valore aumentato del fondo. Ma avendo noi già stabilito la formola x n c/100 = a – x; ed essendo a e c termini fissi, e non dipendenti dalla volontà del legislatore, altro modo non vi è per ridurre l’importare di x, che quello di aumentare il valore di n, ossia, in altre parole, di aumentare il numero delle volte per cui il proprietario, nel caso che rifiuti gli aumenti offerti dal primo affittuario, dovrà moltiplicare la cifra di questi aumenti, per ottenere la somma che gli deve a titolo di compenso. Così, supponendo che n, invece di rappresentare la cifra 3 come nella proposta Jacini, figurasse invece quella di 20, avremmo, tenute ferme le altre cifre dell’esempio già adottato, x = 50; e 100(a – x)/c = 1000; mentre 100 a/c sarebbe sempre 2000: onde il compenso effettivo che otterrebbe l’affittuario sarebbe della metà del valore dei miglioramenti, l’altra metà andando a profitto del proprietario; in altre parole, l’affittuario avendo impiegato capitali nel fondo in miglioramenti che rendono effettivamente il 5%, riscuoterà invece durante il termine del secondo fitto il 2 1/2% sullo speso. Ma ciò non basta.

Alla scadenza del secondo affitto, supposto per comodo di ragionamento che nessun nuovo miglioramento sia stato fatto nel fondo, il medesimo affittuario dovrebbe, o con nuove offerte di aumento di canone rinunziare ad una nuova parte del suo capitale impiegato durante il primo fitto, e di più ai frutti di quel capitale, oppure perdere tutto quanto, capitale e frutti, sia ritirandosi dinanzi ad altri concorrenti, sia offrendo un canone equivalente all’intiero aumento di valore del fondo. Di questo caso il Jacini non parla, ma esso non ci pare dissimile dal primo, e non vediamo ragione per cui all’affittuario non si debba accordare in un secondo rinnovamento del fitto quel compenso che gli si sarebbe accordato al primo, e ciò per il solo fatto che il suo primo affitto gli sia stato già una volta riconfermato. Bisognerebbe dunque — per non cadere negli stessi danni e nelle stesse ingiustizie che si vorrebbero evitare — conservare nel medesimo affittuario il diritto, finchè resta sullo stesso fondo, di ottenere dal proprietario, a qualunque rinnovamento del suo fitto in cui non venissero accettate le sue offerte di aumento, o a qualunque scadenza del fitto in cui, senza sua colpa e per volontà del proprietario, dovesse lasciare il fondo, di ottenere, diciamo, un compenso in una somma equivalente a n volte qualunque aumento di canone da lui offerto per l’avvenire, contando come aumento ogni differenza in più che corra tra il nuovo canone offerto, e il primo canone del suo primo affitto di quello stesso podere. Inoltre n dovrebbe rappresentare una cifra molto superiore a quella di tre volte, come proposta da Jacini; giacchè anche portata a 20, non importerebbe, al saggio corrente d’interesse del 5%, che un compenso della metà del valore aumentato del fondo. D’altra parte, considerando che l’aumento di valore della terra è spesso indipendente da qualunque opera o fatto dell’affittuario, e che non vi è alcuna ragione perchè un aumento di tal natura debba andare all’affittuario, anche per il tempo al di là del termine del suo fitto, anzichè al proprietario sul quale gravano le imposte fondiarie, che quell’aumento prendono di mira, crediamo che sarebbe provvedimento abbastanza equo il fissare che n dovesse rappresentare da 10 a 15 volte l’aumento offerto dall’affittuario.

Con queste modificazioni ci sembra che il sistema proposto da Jacini([282]) raggiunga abbastanza lo scopo, e che esso meriterebbe la sanzione legislativa. In tal caso il legislatore dovrebbe naturalmente anche prescrivere che qualunque rinunzia preventiva che l’affittuario facesse del proprio diritto, e qualunque stipulazione contraria al disposto della legge, dovessero considerarsi come nulle e non avvenute. Il diritto speciale poi concesso dalla legge all’affittuario potrebbe in certe determinate condizioni esser reso anche trasmissibile ai terzi, per vendita, donazione o successione. Beninteso che dovrebbe esser sempre lasciata libera al proprietario la scelta di pagare all’affittuario, invece che una somma eguale a 10 o 15 volte l’offerta maggiore da lui fatta, semplicemente il valore integrale dei miglioramenti lasciati nel fondo, da stimarsi con perizia; a questo modo si evitano possibili tranelli ed ingiustizie.

Però non basterebbero forse nemmeno tali disposizioni a compensare sufficientemente l’affittuario per quelle spese più forti che talvolta si richiedono per la regolare coltivazione di un fondo, come quelle per la costruzione di caseggiati, per lo scasso di terre incolte, per la condotta delle acque, onde prosciugare il terreno o renderne possibile la regolare irrigazione, ecc. Per questi casi speciali, e segnatamente per quello delle costruzioni, la legge dovrebbe prescrivere tassativamente le norme che regolassero i compensi dovuti dal proprietario; le quali norme dovrebbero pure assicurare i proprietari dalle spese soverchie o di lusso che volessero fare gli affittuari, e stabilire un maximum oltre il quale non fosse mai dovuto compenso di sorta per miglioramenti eseguiti senza espressa convenzione; giacchè lo scopo del legislatore deve esser più che altro quello di garantire dall’ingiustizia il piccolo affittuario povero e debole, e non il ricco capitalista che sa quello che fa, e il quale non è costretto da alcuna necessità ad impiegare i suoi denari e la sua fatica in un modo piuttostochè in un altro.

 

 

§ 101. — Credito agricolo e fondiario.

Perchè però tali riforme, o ogni altra intesa a scopi simili, potessero attuarsi e dar veramente tutti i resultati utili di cui sono capaci, sarebbe necessaria tanto per i proprietari come per i coltivatori una migliore organizzazione del credito agricolo e di quello fondiario. Il Jacini, il Villari e in genere tutti quelli che hanno trattato queste questioni, sono concordi su questa necessità. Il legislatore bavarese, quello prussiano e quello inglese hanno pure provveduto a questo bisogno, affin di completare le riforme agrarie.

In Baviera colla legge del 4 giugno 1848 si istituivano le Casse governative (Ablösungskassen), che accordano facilitazioni straordinarie ai contadini per l’affrancazione dei loro beni da ogni censo, diritto dominicale, decima o prestazione feudale. Col pagamento della Cassa per 38 anni, dell’ammontare completo di un’annualità equivalente al primitivo censo dovuto, il contadino rimane proprietario libero della terra da lui occupata. — In Prussia colla legge del 1850 vennero istituite le Banche governative (Rentenbanken), da cui il contadino può ottenere il capitale necessario per ricomprare il dominio diretto della terra da lui occupata. Col solo pagamento poi del 5% sulla somma ottenuta, si libera completamente nel termine di 41 anni da ogni debito verso la Banca; questi frutti vengono regolarmene esatti dal percettore delle tasse, insieme colle altre imposte. — Per la legge inglese del 1870 per l’Irlanda, lo Stato anticipa al coltivatore le somme necessarie per migliorare il fondo, ed eventualmente per ricomprarlo; il debito si estingue completamente nello spazio di 35 anni col pagamento annuo del 5% sulla somma prestata. Lo Stato fa pure anticipazioni alle stesse condizioni ai proprietari, perchè possano alla scadenza degli affitti pagare agli affittuari i miglioramenti eseguiti da questi nei fondi.

Perchè qualcosa di simile fosse possibile in Italia, e specialmente per le anticipazioni da farsi ai proprietari per rimborsare i miglioramenti, bisognerebbe cominciare col semplificare il nostro sistema ipotecario; e sul modello del sistema tabulario germanico, fare del catasto un vero registro di stato civile della proprietà. Ma premessa una tale riforma, non sarebbe possibile in Italia una organizzazione migliore del credito fondiario, e sovrattutto di quello agricolo, indipendentemente dalla azione diretta dello Stato? — Che ciò si possa fare per opera dei privati, lo crediamo per ora impossibile. Finchè la rendita pubblica rende più del 5%, è assurdo pensare che vi sia chi voglia impiegare i suoi denari ad un interesse minore, in operazioni così scabrose e difficili come sono quelle di credito agricolo. Si metteranno su banche agricole, e non si mancherà di costituire delle Direzioni; ma o saranno imprese fittizie e che mirano soltanto al giuoco di borsa, o falliranno necessariamente in breve termine, oppure faranno tutt’altre operazioni che quelle di credito agricolo. L’esperienza ha già dimostrato la verità di queste asserzioni. Istituti di credito autonomi, senza azionisti, e che hanno la natura di Opere pie, come il Banco di Sicilia e quello di Napoli, potrebbero sì disimpegnare questo ufficio importantissimo, molto più e meglio di quel che non facciano ora, e servire di strumento all’effettuazione di qualunque riforma agraria si volesse introdurre per via di legislazione. Su questo obietto vorremmo attirare l’attenzione degli specialisti, i quali meglio di noi potranno giudicare dei diversi modi pratici di utilizzare anche a scopi sociali quelle ingenti forze. Certamente il Banco di Sicilia gioverebbe più all’Isola e risponderebbe meglio al suo scopo, facendo mutui ai contadini a modico interesse e ammortizzabili a rate, che non coll’imprestare milioni per sorreggere imprese pericolanti, come recentemente alla Società di navigazione La Trinacria.

Qualunque cosa si faccia però, converrebbe premunirsi dall’eventualità molto probabile, e che già si verifica per molte Opere pie destinate a sovvenire ai bisogni dei contadini, di vedere la classe agiata approfittarsi, per far meglio l’usura a proprio vantaggio e a danno dei contadini, di quegli stessi mezzi che lo Stato o gl’istituti di credito fornirebbero allo scopo di sollevare le condizioni delle classi rurali, e di cui fossero a lei affidate l’amministrazione e la distribuzione.

 

Magistratura speciale.

Un’altra misura che dovrebbe accompagnare ogni riforma della legislazione agraria, è quella della creazione di una magistratura speciale, che munita di un esteso potere discrezionale vegliasse sull’attuazione delle nuove leggi, e giudicasse con procedura sommaria e con poche spese per le parti, di qualunque vertenza civile tra padroni e contadini. Anche in Germania e in Inghilterra si ritenne necessaria la istituzione di una magistratura speciale come complemento delle riforme agrarie; e il Jacini e il Villari ne reclamano l’urgenza. Dobbiamo però riconoscere, che in Sicilia, come in gran parte d’Italia, non sarebbe tanto facile ottenere che una magistratura siffatta riuscisse animata dallo spirito della nuova legislazione, e presentasse nella pratica sufficienti garanzie d’imparzialità. Là dove domina assoluta e prepotente la classe agiata, bisognerebbe premunirsi attentamente dal pericolo di veder accaparrata da lei la nuova istituzione, la quale nelle sue mani diventerebbe un nuovo strumento di potere e di oppressione; onde l’azione della legge verrebbe resa vana per opera dello stesso magistrato locale destinato a farla rispettare.

 

 

§ 102. — Opere pie.

Un largo campo all’utile intervento dello Stato a pro delle classi bisognose, è pure offerto dalla condizione presente delle Opere pie. Molte tra esse non rispondono più affatto agli scopi di carità per cui vennero istituite; altre hanno attualmente un’azione sociale perniciosa e atta a peggiorare la piaga della miseria anzichè alleviarla: le più poi sono amministrate talmente da ridurle a essere soltanto sorgente d’illeciti guadagni per le classi agiate. Qui la missione dello Stato è varia: — dovrà trasformare secondo le nuove esigenze del secolo, e le alterate condizioni sociali, quegl’istituti che minacciano di diventare, invece che opere pie, opere di distruzione sociale: e dovrà meglio vigilare su tutte quante le amministrazioni. Nelle istituzioni con carattere misto di culto e di beneficenza, le quali pullulano in Sicilia, dovrebbesi restringere l’abuso attuale di spendere la maggior parte delle rendite per il solo culto. Stimiamo poi che non sarebbe nè ingiusto, nè improvvido, ma invece un’opera santa, il convertire forzosamente a scopi d’istruzione e di ben intesa beneficenza tutte le rendite delle Opere pie ora destinate al culto.

Già dicemmo quali abusi si verificano nelle amministrazioni dei Monti frumentari destinati a prestare grano a modiche condizioni ai contadini, per la sementa dei loro campi e anche per loro nutrimento. Questi istituti potrebbero ancora arrecare gran beneficio alla classe rurale in Sicilia, dove senza di essi il contadino è costretto a prendersi il grano dai privati a condizioni gravosissime e non inferiori al 25%; ma attualmente, essendo amministrati da quegli stessi che lucrano sulle necessità del contadino, non giovano che ai loro amministratori; e questi in molti casi non si sono soltanto contentati delle rendite, ma hanno consumato anche il capitale dell’Opera pia.

In queste condizioni parrebbe naturale che lo Stato, coll’appoggio di tutti quelli che s’interessano alle condizioni delle classi inferiori, cercasse di riparare al male col mutare i sistemi di amministrazione, e col chiedere stretto e severo conto agli amministratori dell’uso fatto del denaro dei poveri durante la loro gestione. Invece di ciò non si pensa ora che alla conversione dei Monti frumentari in Banche agricole, in Casse di risparmio, e in Casse di prestanze per i coloni e per gli operai, come se con ciò si facesse qualcosa per evitare le malversazioni, e invece non si aggravasse spesso il male. Le Banche, le Casse di risparmio, ecc., saranno in avvenire amministrate dalle stesse classi e probabilmente anche dalle stesse persone che finora disponevano dei Monti frumentari: la sola differenza sarà che questi amministratori potranno speculare più comodamente per conto proprio coi denari degl’istituti. Ci pare poi un’amara ironia il convertire in Casse di risparmio degl’istituti destinati a sovvenire chi, anzi che da risparmiare, non ha nemmeno da mangiare nè da sementare il proprio campo: tali Casse potranno giovare agli operai delle città, e più ancora alla piccola borghesia, ma pei contadini rappresentano la confisca pura e semplice di un patrimonio che fin qui era destinato, almeno in diritto se non in fatto, a loro esclusivo beneficio.

I gravi inconvenienti che provengono all’agricoltura e ai contadini dall’obbligo che impone la legge di affittare all’asta le proprietà delle Opere pie, si eviterebbero in parte coll’adozione, almeno per queste, del metodo di rimborso pei miglioramenti commisurato sulle maggiori offerte dell’affittuario, di quel metodo cioè che abbiamo raccomandato come sistema generale al § 100, sulla scorta del Jacini, il quale anzi nella sua proposta non ebbe altro in mira che di evitare questi speciali danni che presenta il sistema delle aste per l’affittanza dei fondi dei corpi tutelati. Egli così consiglia di procedere:([283]) «Un anno prima della scadenza del contratto verrebbe invitato il fittabile di dichiarare se sia o non sia disposto a rinnovare la locazione, e in caso che lo sia, se acconsenta o no ad offrire un aumento; ottenuta la dichiarazione del fittabile si passerebbe ad invitare pubblicamente chiunque abbia desiderio di aspirare allo stesso fondo, di presentare un’offerta in iscritto, e di aggiungere però le prove della propria idoneità ad assumere le condizioni richieste dal capitolato. Riunite tutte le proposizioni avanti che scada il primo semestre dell’ultimo anno, siano esse comunicate al fittabile che sta per cessare, nel caso che egli abbia offerto di rinnovare il contratto al prezzo di prima, o nel caso che gli aumenti da lui proposti siano ancora meno vantaggiosi al locatore di qualcuna delle proposizioni insinuate da altri concorrenti; e decida allora il fittabile stesso se sia disposto di accrescere ancora la sua offerta in modo da meritare la preferenza. Prima che termini il penultimo semestre, se acconsente, sia con lui rinnovato il contratto, altrimenti sia questo stipulato col miglior offerente». Ciò tenendo fermo, che in quest’ultimo caso al primo affittuario si dovrà pagare una somma eguale a 10 o 15 volte l’aumento da lui offerto sul primitivo affitto.

 

 

§ 103. — Strade.

Abbiamo accennato ai diversi modi di cui lo Stato può con opportune riforme nell’amministrazione, nella finanza e nella legislazione, ed una più vigile azione in ogni ramo di tutela governativa, contribuire al miglioramento delle condizioni della classe rurale in Sicilia, per non dire in tutta Italia; e ciò senza escire dal campo legittimo della sua attività, e senza invadere quello più esteso riserbato all’iniziativa individuale, alla quale non si toglierebbe alcuno stimolo, e la cui forza di azione non s’indebolirebbe in nessun modo. Ma vi sono, oltre quelli già detti, molti altri mezzi con cui il nostro Stato può contribuire in modo e diretto e indiretto a togliere i mali sociali che affliggono gran parte del bel paese; e se li accenniamo in ultimo non è perchè li crediamo meno importanti o meno efficaci, ma perchè si tratta di quei provvedimenti di cui tutti riconoscono l’urgente necessità, e che da tutti sono già stati reclamati ad alta voce. Diciamo delle strade, e dell’istruzione; e a queste si potrebbero aggiungere i provvedimenti riguardanti l’emigrazione; quelli che colla creazione di colonie lontane tendono a rendere l’emigrazione più proficua alla intiera nazione, e ad aumentare i mercati per lo smercio dei prodotti nazionali; e tutti infine gli atti di politica commerciale.

La necessità del miglioramento delle condizioni deplorevolissime di viabilità della Sicilia è così patente e così universalmente riconosciuta, che non importa che qui ci tratteniamo a discorrerne: già molto si è fatto in questa via, ma molto più resta ancora da fare. Se da un lato, come già dicemmo, le facilitate comunicazioni da luogo a luogo possono avere la tendenza di alzare i prezzi di alcuni generi, che ora si consumano sui luoghi per le difficoltà e le spese del trasporto, dall’altro però esse liberano il coltivatore dalle pressioni delle camorre locali nella vendita dei suoi prodotti, aprono più vasto il mercato al suo lavoro, tolgono l’incubo delle carestie locali, facilitano l’emigrazione sì temporanea che permanente, agevolano il frazionamento delle grandi aziende agrarie, avviando così alla coltura piccola e media, e promuovono potentemente l’incremento dell’agricoltura, e l’impiego dei capitali nel suolo, ossia quelle condizioni di fatto che, se non bastano da sè sole ad assicurare il benessere del contadino, sono però un termine necessario perchè quel benessere si possa con qualunque altro mezzo raggiungere e mantenere.

 

 

§ 104. — Istruzione.

Altro fattore potente di civiltà e di progresso per qualunque ordine di cittadini è l’istruzione; e in questa via si è fatto finora pochissimo, anzi nulla per le campagne: onde allo Stato incombe speciale obbligo di curare con qualunque mezzo a che la classe agricola non resti esclusa affatto dal movimento generale di progresso. Non basta decretare l’istruzione elementare obbligatoria, non basta l’istituire o l’incoraggiare i corsi di agricoltura: o lo Stato prenda la cosa nelle proprie mani, sostituendosi alle Provincie, ai Comuni e ai privati, e ciò è più facile a dire che a fare; oppure ordini le sue leggi in modo, che le altre classi, e specialmente quella dei proprietari, abbiano un interesse positivo ed immediato all’istruzione della classe agricola.

L’azione che può avere l’istruzione a beneficio dei contadini è multiforme. In primo luogo essa aumenta la produttività del loro lavoro, e ciò può riuscire di gran giovamento alla loro condizione ognivoltachè per fatto di una legge, di una consuetudine, o di un accordo, venga talmente frenata la mutua loro concorrenza, da impedire che perdano subito, a vantaggio dei soli proprietari, il maggior prodotto ottenuto dalle loro fatiche. Questo primo effetto dell’istruzione non è unicamente da riferirsi alla istruzione tecnica, ossia specialniente agricola, ma anche a quella elementare.

In secondo luogo l’istruzione, col togliere un ostacolo, altrimenti insormontabile, al passaggio del lavoro da un gruppo industriale ad un altro, generalizza in certo modo la concorrenza tra tutti i gruppi sociali, e con ciò ne attenua gli effetti dannosi; poichè tende a togliere l’attuale sproporzione tra il compenso dato al lavoro manuale o inesperto, e quello del lavoro esperto. La concorrenza ora non è effettiva che nell’interno di ciascun gruppo industriale, ma da un gruppo a un altro vi sono barriere di fatto e di tradizione quasi insormontabili([284]); e ciò nuoce specialmente alle classi inferiori.

L’istruzione e l’educazione giovano al contadino col rialzare in lui il sentimento della dignità umana, e col dargli qualche nozione d’igiene; onde egli curerà più la pulizia e la ventilazione nella sua abitazione, e approfitterà di ogni occasione per migliorarne le condizioni. E più che tutto potrebbero esse giovargli col facilitargli l’accordo e l’associazione coi suoi compagni per scopi di classe, ossia per lottare più efficacemente contro i proprietari o contro gli affittuari. Col render possibili le associazioni di contadini, e col facilitarne la emigrazione, l’istruzione li mette in grado di servirsi degli unici mezzi che loro resterebbero per aiutarsi da sè, quando nessun altro li volesse aiutare. Ma di associazione e di emigrazione dovremo ancora tornare a discorrere nel penultimo capitolo di questo lavoro.

 

 

§ 105. — Emigrazione.

Diremo ora soltanto che ogni impedimento che lo Stato opponga alla libera emigrazione dal Regno, equivale a un ingiustificato intervento a danno del lavoro, nella lotta — giusta finchè pacifica — fra esso e il capitale. Riteniamo perciò come atto altamente lodevole il ritiro, recentemente avvenuto per fatto del Ministero di Sinistra, della circolare Lanza del 18 gennaio 1873, la quale esigeva dagli emigranti la prova — che essi abbiano i mezzi, oltrechè per fare il viaggio, anche per provvedere alla propria sussistenza durante il tempo che può presumersi necessario e non breve per trovar lavoro nel luogo ove intendono recarsi, e che presentino persona solvente la quale si obblighi per iscritto a pagare, occorrendo, il viaggio di ritorno([285]); e ciò pel caso che essi avessero ad essere rimpatriati a spese dei Consolati italiani. Si esigeva insomma dall’emigrante che provasse di possedere un capitale, la mancanza del quale è il motivo principale per cui emigra! Gli effetti di quella disposizione erano stati in primo luogo di rovinare il nostro nascente commercio di trasporti marittimi a cui toglieva tutta la emigrazione svizzera e della Germania del Sud, e di più di ricacciare i contadini nella casa da cui li cacciò la miseria e la disperazione, oppure di spingerli all’emigrazione clandestina. E gli emigranti clandestini che s’imbarcano nei porti di Francia, vanno incontro a ogni inganno e ad ogni sopruso, ignoranti come sono della lingua del paese e timorosi di reclamare presso i Consoli italiani perchè sanno di aver violato le patrie leggi. Stivati a centinaia nei bastimenti a vela, si fan loro soffrire la fame ed ogni più crudele patimento; e per colmo di sciagura vengono spesso sbarcati nell’America del Nord, mentre era stato pattuito di trasportarli a Buenos Ayres, o in qualche altro porto dell’America del Sud. Quell’intervento dello Stato nostro nell’emigrazione era una vera iniquità, e violava uno dei diritti più preziosi del libero cittadino([286]).

Si faccia, sì, una legge di tutela per gli emigranti, ma una legge di vera tutela, e non una legge restrittiva dell’emigrazione. Lo Stato intervenga pure, e a nome dell’umanità, con provvedimenti intesi a impedire gl’inganni e i soprusi cui vanno soggetti i nostri poveri emigranti per opera degl’incettatori, delle agenzie, dei capitani di veliere, e anche dei Governi di oltremare; e vi aggiunga consigli e informazioni; e tuteli nelle lontane spiaggie i nostri connazionali; e, ove voglia che la nostra emigrazione rechi il maggior utile al paese, provveda pure colonie italiane a cui dirigere la corrente degli emigranti. Questi sono interventi dello Stato che nessuno troverà ingiusti, nè contrari ai precetti dell’Economia politica.

 

 

§ 106. — Autorità provinciali e comunali.

Tracciata così di volo la lunga serie di provvedimenti e di riforme con cui lo Stato può contribuire al miglioramento delle condizioni della classe agricola, dovremmo ora parlare della missione analoga delle autorità provinciali e comunali; ma per non tediare il lettore con inutili ripetizioni, diremo soltanto che una parte di quelle misure di cui abbiamo parlato fin qui come di spettanza governativa, potrebbero esser rese superflue da un intervento energico ed imparziale delle autorità provinciali e comunali a pro delle classi bisognose. Questo renderebbe se non altro superflua ogni maggiore e più vigile tutela dello Stato sui corpi locali, giacchè la necessità di siffatta tutela dipende intieramente da una questione di fatto — dal verificarsi cioè o no certi disordini e certe oppressioni, e dall’avere o no le autorità locali il potere o la volontà di mettervi riparo.

Le nostre leggi attuali dànno pure ai Consigli provinciali una missione di tutela e di alta sorveglianza sui Comuni, la quale potrebbe bastare ad evitare molte magagne, quando le autorità provinciali fossero veramente animate da uno spirito più elevato ed imparziale di quel che non siano ora. Ad esse inoltre competono ora la sorveglianza sulle Opere pie, le disposizioni intorno alle risaie, ecc. Dai Comuni poi dipendono i regolamenti per la macerazione del lino, causa di tanta malaria in Sicilia, l’istruzione elementare, l’ordinamento delle tasse comunali, le strade, e in gran parte le quotizzazioni dei beni comunali, ecc. Noi quindi non potremmo qui che sfogarci in vane esortazioni a tutte queste autorità, onde facciano ciò che non fanno, e non facciano molte cose che fanno.

Qualunque mutamento sì radicale nello spirito che informa le amministrazioni locali, non potrebbe essere che il risultato di un mutamento generale degli animi, di un risveglio della classe agiata alla coscienza dei suoi doveri, oppure di un’azione più efficace, perchè più minacciosa, delle classi inferiori, diretta ad ottenere il rispetto dei loro diritti. È dunque a tutte queste classi che ci dirigeremo direttamente, e soprattutto a quella civile; e ciò non colla speranza di ottenere un grande ascolto, ma per indicare possibilmente la via a coloro, fossero anche pochissimi, i quali resistendo alla corrente, e non abbandonandosi allo scoraggiamento, credono al progresso umano, e virilmente vi agognano, e la patria e l’umanità mettono innanzi agli interessi individuali o di classe.


 

 

Capitolo II.

 

L’AZIONE DEI PROPRIETARI

 

 

 

§ 107. — Azione dei proprietari.

Entrando ora nel campo di azione riservato all’iniziativa individuale, cominceremo dal rivolgerci ai proprietari. Essi forse avranno l’animo alquanto irritato contro di noi, per qualche verità detta loro troppo crudamente in queste pagine; ma non temiamo che una tale irritazione possa indurre mai coloro che sentono nobilmente a chiudere volontariamente gli occhi alle sciagure che li attorniano, o far sì che essi non pesino con imparzialità ogni consiglio e ogni proposta che miri a togliere o a diminuire quei mali.

Chi cresce in mezzo a un ambiente di oppressione e di dolori è troppo incline a considerare quelle condizioni come una fatalità ineluttabile; e se di animo sensibile, sfugge talvolta quei contatti che l’addolorano, oppure rivolge tutta la sua energia a lenire particolari sofferenze individuali, senza sognare alla possibilità di una cura più radicale e più energica delle malattie sociali, intesa a prevenire il male, anzichè ad alleviarlo. Agli animi miti, fiacchi, che sentono vivo l’amor proprio, e a cui non bastando l’approvazione della propria coscienza, riesce quasi di necessità la lode dei compagni; a tali nature che pullulano ora nel nostro paese, ripugna di farla da novatori, di lanciarsi in vie nuove e spinose, in cui dovrebbero perseverare in mezzo a mille disgusti, a difficoltà finanziarie, e andando incontro per giunta al biasimo di tutti quelli che li circondano.

Non è a questi che ci rivolgiamo; ma invece a quei proprietari, e ve ne sono in Sicilia come altrove, che deplorando i mali bramano di adoperarsi con tutte le loro forze per apporvi un rimedio; e pei quali basta che venga loro additato dove sta veramente la piaga, e quali sono i mezzi più atti per guarirla, perchè non esitino un momento a esporre e riputazione e averi per la causa dell’umanità. Noi non parleremo loro, come è moda oggigiorno, in nome del solo tornaconto individuale; non diremo che le riforme da introdursi debbano necessariamente accrescere le loro rendite, nè che basti sempre di cercare il proprio vantaggio, perchè ne risulti il vantaggio di tutti. Ciò potrebbe esser vero in parte, e in parte no. È il falso supposto che il loro tornaconto personale armonizzi sempre necessariamente, fatalmente, coll’interesse sociale, che ha spinto tante nature generose ed energiche ad occuparsi esclusivamente in agricoltura della questione della produzione, senza darsi pensiero delle forme di distribuzione della ricchezza prodotta. Invochiamo l’istinto della socievolezza, e non quello dell’egoismo; ed è nel nome del dovere, che spesso implica il sagrifizio, che supplichiamo i proprietari di occuparsi della condizione dei loro contadini, e non per far loro la carità, ma per regolare i propri rapporti con essi in modo che di carità non ci sia bisogno fuorchè in via eccezionale e straordinaria. E siccome la legge morale è la legge sociale, osiamo predire, senza pretenderla a profeti, che se questo faranno, ne verrà gran bene al paese, e se no, tutti ne soffriranno, gli oppressori come gli oppressi. Ma torniamo alle forme umili del nostro ragionamento.

 

 

§ 108. — Abitazioni rurali.

Il primo mezzo con cui i proprietari potrebbero giovare efficacemente e con certezza di pronti resultati alla condizione dei contadini in Sicilia, è colla costruzione sulle loro proprietà di convenienti abitazioni rurali. La questione delle abitazioni della classe povera e che vive del lavoro delle sue braccia, è una delle più gravi dell’epoca nostra, e che in Sicilia ha una urgenza speciale. Con essa difatti si collegano ivi strettamente quelle dell’agglomeramento della popolazione agricola nelle città, e della solitudine delle campagne, che rendono così difficile la tutela della sicurezza pubblica, e sono cagione di tanti danni e all’agricoltura e agl’interessi morali ed economici dei contadini.

Al bisogno urgente di case coloniche convenienti e sparse nelle campagne, non possono provvedere efficacemente che i proprietari. A questo riguardo ogni sanzione legislativa resterebbe sicuramente lettera morta. Lo Stato non può qui che togliere ogni ostacolo di legge o d’amministrazione, e colla costruzione delle strade render più facile ai proprietari di provvedere senza che debbano andar incontro necessariamente a gravi sagrifizi e al rischio di sprecare i loro denari senza effetto sensibile. Invece l’art. 5° del progetto di perequazione dell’imposta fondiaria che sta ora dinanzi al Parlamento, presenterebbe molto inopportunamente, come già si disse, un grave ostacolo alla costruzione di buone case coloniche.

È questa, giova il ripeterlo, una questione di vero interesse pubblico. Inutile è la scuola diurna, serale o domenicale, inutile ogni insegnamento, ogni educazione, ogni libro, ogni esempio, ogni culto religioso, ogni catechismo di morale o di religione, inutile tutto per elevare la condizione morale ed intellettuale di una classe, fintantochè a questa non sia possibile provvedersi di abitazioni decenti. A che valgono prediche, a che ragionamenti, esempi o precetti, quando il giovane lavorante dovrà vivere e dormire in una stessa stanza con cinque o sei altre persone di diverso sesso e di ogni età; quando nello stesso letto con lui dormono sorelle grandi e piccole; quando in quella stessa stanza ha luogo ogni operazione della natura? Dove potranno albergare la modestia, la decenza, la delicatezza del sentire, la pulizia, l’igiene, là dove padre, madre, fratelli, sorelle, cognate, fanciulli, dormono tutti insieme, e quasi sempre in compagnia di qualche animale, del maiale, della capra, dell’asino o del mulo, in mezzo al sudiciume e al lezzo, tali da rendere impossibile ad una persona civile il solo entrare in uno di quei tuguri? —

Migliorare le abitazioni — ecco il primo obiettivo a cui dovrebbero tendere gli sforzi di tutti coloro che non sono insensibili alle miserie dell’umanità. E questa è cosa a cui i poveri non possono provvedere da sè. O ci provvederanno i ricchi, o lo Stato, e sarebbe impresa difficile e pericolosa, o nessuno. I contadini potranno in alcuni momenti strappare al proprietario o all’affittuario un salario più alto, ma potranno ben difficilmente, nelle attuali loro condizioni, costringere il proprietario a far costruire una casa sulle sue terre, o a riparare quella già esistente: e s’aggiunga che lo stato di abbrutimento a cui vengono degradati, fa che essi non sentono nemmeno il bisogno di abitazioni migliori, e sacrificano queste a qualunque altro comodo. In Sicilia sarebbe tanto più facile per i proprietari di rimediare a un tale difetto di case coloniche, inquantochè le costruzioni nella maggior parte dell’Isola costano relativamente pochissimo, e ciò per la grande abbondanza di pietra, di sassi, di calce e di gesso.

Non entreremo qui nell’esame delle particolari condizioni che dovrebbe presentare una casa colonica, perchè si possa non dire indegna di servire di abitazione ad esseri umani in un paese civile; nè discuteremo la questione se proprio sia vero che in Sicilia la costruzione di un primo piano nelle abitazioni rurali debba riguardarsi come un lusso ed uno spreco inutile, come sostiene il prof. Basile: tanto la disposizione degli ambienti da abitarsi, come il numero loro potrebbero dipendere molto dal sistema diverso di economia agricola che si adottasse nelle varie zone. Là dove vige o dove venisse introdotta la mezzadrìa converrebbe inoltre spargere i caseggiati per le campagne, dotando ogni podere di una casa, con la sua stalla e le sue capanne: nei luoghi invece in cui si mantenessero la grande coltura e le vaste aziende agricole, si potrebbero forse più opportunamente aggruppare le case dei salariati annui intorno al fabbricato principale della fattoria([287]). La questione dunque del come debbano volta per volta regolarsi le costruzioni da ogni singolo proprietario, si collega strettamente con l’altra delle riforme dei sistemi attuali di conduzione agricola, della quale dovremo or ora occuparci.

Non v’ha dubbio che la costruzione di case decenti di abitazione per i contadini non importi spesso immediatamente un grave sacrificio per i proprietari, e che essi non abbiano diritto a considerarla in molti casi come una spesa economicamente improduttiva; è quella però la condizione prima ed imprescindibile di ogni pronto ed efficace miglioramento delle condizioni della classe agricola nell’Isola; e riteniamo che i vantaggi ne sarebbero subito così sensibili in ogni ordine di rapporti sociali, che i proprietari, come classe e come individui, ne trarrebbero ben presto un largo compenso per il primo sacrifizio incontrato. Il rialzo poi dei salari, e in genere dei guadagni del contadino, potrebbe in avvenire rendere meno improduttive pei proprietari le spese fatte per costruzioni, col render possibile il pagamento per parte dei contadini di canoni maggiori di affitto. E allora forse anche gli stessi lavoranti potrebbero essere progrediti in modo, da volere e da poter esigere quella maggiore decenza nelle loro abitazioni, della cui mancanza soffrono ora senza nemmeno averne coscienza. Chiuderemo questo argomento col dire che la questione delle abitazioni rurali è talmente importante, che crediamo si possa affermare senza tema d’errare, che chi riuscisse a dotare la Sicilia di un numero sufficiente di buone case da contadini sparse nella campagna, avrebbe issofatto risoluto la metà di tutte le questioni siciliane, tanto economiche, che politiche o morali.

 

 

§ 109. — Modificazioni nei contratti agricoli.

Eccoci ora al grande problema: — quali sono le modificazioni nei contratti agricoli e nei sistemi di conduzione agraria, che i proprietari potrebbero utilmente introdurre in Sicilia? — La questione è stata già esaminata implicitamente in tutta la seconda parte di questo lavoro, nella quale abbiamo cercato di dimostrare i difetti principali delle forme di contratto ora esistenti nell’Isola, difetti che in alcuni luoghi sono rimediabili con piccole innovazioni di patti, ma che in altri richiederebbero una trasformazione completa della presente economia rurale. Per non cadere dunque in inutili ripetizioni, noi non ci occuperemo che della prima delle due grandi zone di cui abbiamo già descritte le condizioni presenti, come quella dove i mali sono più acuti e generali, ed un rimedio radicale più urgentemente richiesto. Negli altri luoghi sarà facile a chiunque, sulla scorta delle critiche contenute nella Parte seconda, e delle osservazioni che dovremo ancora fare, di giudicare dei mezzi che possano volta per volta ritenersi utili pel miglioramento delle condizioni della classe agricola. Quando si fossero curate le piaghe che travagliano la società siciliana nell’interno dell’Isola, non vi sarebbe più ragione a dubitare di un completo risanamento del corpo sociale in tutte le sue parti; e l’immaginazione non arriva a figurarsi quali potrebbero essere in tal caso i limiti della prosperità avvenire del giardino d’Italia.

 

Soppressione degl’intermediari.

Un primo mezzo per migliorare le condizioni agrarie di almeno tre quarti dell’Isola, sarebbe quello di sopprimere tutti gl’inutili intermediari tra il proprietario del suolo e il coltivatore. Non diciamo soltanto della caterva di affittuari e subaffittuari che non son altro che speculatori, e nulla si curano dell’industria agricola; ma anche di tutti quegli affittuari o gabellotti che ora conducono i feudi per coltivarli a terzerìa, ossia concedendo via via ai contadini, coi contratti di terratico o di metaterìa, tutta la parte del latifondo destinato alla immediata coltura dei cereali. La conduzione diretta del fondo per parte dei proprietari, sarebbe un immenso passo verso una trasformazione delle condizioni agrarie dell’Isola: e se la maggioranza dei grandi proprietari siciliani continuerà a non volersi occupare affatto dei propri fondi, non rimane da sperare che nella progressiva sostituzione della classe attiva ed energica dei gabellotti attuali, a quella infingarda, boriosa, egualmente ignorante e più corrotta, degli attuali proprietari. Ma non ci tratteniamo su questo punto, perchè già ce ne siamo occupati nella Parte seconda ai §§ 73 e 74. Siccome poi ammettiamo che vi siano dei casi eccezionali in cui possa essere inevitabile l’affitto dei latifondi, ci rivolgiamo nelle seguenti pagine, in cui discorriamo delle riforme nei contratti, oltrechè ai proprietari anche ai grandi gabellotti, almeno per quei casi in cui sia ammissibile che un affittuario possa, dietro la stipulazione di un affitto lungo, o di patti simili a quello da noi raccomandato per i miglioramenti([288]), mutare radicalmente l’economia agricola nel fondo locato, senza incorrere in perdite gravissime.

Diremo prima della mezzerìa; quindi degli affitti ai contadini, e in terzo luogo delle grandi aziende rurali con salariati annui.

 

 

§ 110. — Introduzione della mezzadrìa.

Già da molti è stata proposta l’introduzione nell’interno della Sicilia del contratto di mezzadrìa, colla conseguente divisione dei poderi e delle colture, come rimedio ai mali economici, morali, politici e sociali che affliggono quel paese. Il Rubieri, il Villari, e molti altri minori, ne hanno fatto argomento principale dei loro studi diligenti e coscienziosi. D’altra parte vi sono pure molti e non di poco valore, che oppongono che le condizioni telluriche e climatologiche della Sicilia contrastano all’utile introduzione di questa forma di contratto, e che la coltura piccola e la mezzana dovrebbero là considerarsi piuttosto come un pericolo da evitarsi, anzichè un ideale cui tendere con tutte le forze. Fu il dubbio che in noi destarono opinioni così discordi, il motivo principale che ci spinse a imprendere un viaggio in Sicilia, affin di poter studiare la questione sui luoghi, con quanta più diligenza ci fosse possibile. Molte cose ci pare di avervi imparate, e tra le altre quella di meglio apprezzare quanto sia naturale l’irritazione che nell’animo di molti Siciliani, uomini di mente e di cuore, desta la leggerezza con cui senza punto studiare le condizioni dell’Isola, «ogni villan che parteggiando viene» pretende, valendosi delle solite frasi e dei luoghi comuni triti e ritriti, di dettare sentenze, e regalar consigli sulle questioni più ardue e più complesse che vi si agitano. Avversi ai preconcetti, e diffidando delle impressioni che potevamo aver portate con noi dagli studi fatti sulla mezzerìa toscana, abbiamo cercato di vagliare ogni dubbio, e di esaminare minutamente le molte difficoltà pratiche che in Sicilia come dappertutto si oppongono a qualunque riforma radicale. Ma dopo tutto ciò, dichiariamo schiettamente che parteggiamo col Rubieri e col Villari nell’invocare l’introduzione, come regola generale, del contratto di mezzerìa, secondo il tipo dell’Italia centrale, nei latifondi dell’interno della Sicilia. Abbiamo detto «come regola generale», perchè ammettiamo che in molti luoghi, sia per deficienza di acqua, sia per la malaria persistente e generale, sia per la immediata vicinanza delle zolfare, ogni coltura media o piccola darebbe risultati molto inferiori a quelli che si potrebbero attendere dalla coltivazione in grande: ma per quanto l’area compresa da tali eccezioni possa essere realmente estesa, non crediamo si possa valutare a più di un quarto di quella che utilmente potrebbe trasformarsi colla progressiva e graduale introduzione del contratto di mezzadrìa.

Abbiamo già detto quali sono le condizioni che debbono accompagnare la mezzadrìa, perchè essa possa veramente dare utili risultati sociali, come forma di distribuzione della ricchezza prodotta dal suolo. Di quelle condizioni, la maggior parte dipende dalla volontà dei proprietari, come, per esempio, quella della partecipazione eguale del contadino a tutti quanti i prodotti, e l’altra che i patti accessori non siano mai tali da aprire il varco ad una progressiva diminuzione della parte del lavoro nella repartizione del prodotto comune.

Vi sono però due condizioni capitali tra quelle avvertite, le quali talvolta non dipendono che in piccola parte dalla volontà dei proprietari o di chicchessia, e sono — quella di una varietà di colture sullo stesso podere, e che le colture arborescenti vi si uniscano a quelle dei cereali o delle leguminose; e l’altra, che vien quasi come conseguenza della prima, che vi sia lavoro continuo in tutto l’anno sul podere, onde possa pure esservi la fissità del colono sullo stesso appezzamento di terra.

Orbene, la Sicilia si presta in modo tutto particolare nella maggior parte del suo territorio a soddisfare a queste condizioni. La varietà delle colture è resa facile da un clima e da un suolo in cui crescono rigogliosi, secondo i vari terreni e le diverse esposizioni, l’olivo, l’agrume (limone, arancio, mandarino), il mandorlo, il frassino mannifero, il gelso, il fico d’India, il carrubbio, il nocciuolo, il pistacchio, e quasi ogni varietà di albero da frutta, la vite, la canna; e come piante industriali, il sommacco, il riscolo sodifero, la canapa, il lino, il tabacco; ogni sorta di biade e di civaie, tra cui specialmente i grani di ogni qualità, le fave, i piselli, i ceci, ecc.; e come foraggi l’orzo, l’avena, la sùlla, il trifoglio, l’erba medica; senza parlare del riso, del cotone, del granoturco, ecc. ecc. Non vi è pezzetto o qualità di terreno che non sia utilizzabile con più insieme di queste colture, tutte ricchissime ed appropriate alle condizioni generali dell’Isola; onde certamente quanto alla varietà delle colture, la Sicilia nulla ha da invidiare a nessun’altra regione d’Italia, per non dire del mondo intiero.

Molte però di queste colture, ci si osserverà, e specialmente di quelle legnose, non esistono attualmente nell’interno dell’Isola, e ci vogliono capitali e un lasso di anni perchè si possano attivare, e perchè se ne possa ritrarre un qualche frutto. Quest’obiezione avrebbe un gran peso contro chi credesse di poter introdurre nel termine di un anno la mezzadrìa in tutto il paese, e se ne attendesse subito grandi risultati; ma non prova nulla contro la possibilità di un’introduzione graduale della mezzeria nelle campagne ora deserte, con un movimento progressivo che partendosi, come da base di operazione, dalle città e dai grossi villaggi, andasse allargandosi in circoli eccentrici, fino a coprire di case e di ricche piantagioni l’intiero paese.

Nè perciò si richiederebbero grandi capitali. Bastano a dimostrare il contrario le colonìe perpetue introdotte in passato dai conventi e dai monasteri, e per cui terre prima incolte si ricoprirono subito per opera dei poveri villani, e quasi per incanto, di rigogliose piantagioni di alberi d’ogni specie. Lo dimostrano pure i contratti a migliorìa della costa settentrionale, di quella orientale, e del Siracusano, dove vediamo poveri villani creare vigne, oliveti, mandorleti e carrubbeti, soltanto perchè il prodotto delle loro fatiche è assicurato loro per un certo numero di anni. Essi debbono talvolta, è vero, prendere qualche anticipazione dal proprietario, affin di mantenersi in vita durante i lavori di preparazione del terreno e di piantagione, ma ciò accade specialmente nei contratti a termine meno lungo, poichè negli altri, se qualcosa prendono a mutuo lo restituiscono via via e con usura. E citeremo pure come prova del nostro assunto, i terreni dati a censo nelle vicinanze delle città, dove pure sono state introdotte piantagioni di ogni specie da poveri contadini, soltanto perchè erano sicuri della durata del godimento che avrebbero potuto ritrarre dai resultati delle loro fatiche. Anzi in alcuni luoghi i censuari, e in altri i coloni perpetui, hanno potuto costruire per di più le case coloniche.

Ci sembra che tali fatti servano a dimostrare praticamente come sarebbe facile per i proprietari, ove veramente volessero introdurre la mezzerìa nelle loro terre, di ridurle con pochi sacrifizi a quelle condizioni di coltura che abbiamo supposto necessarie per la completa riuscita di quella forma di contratto. Basterebbe a questo intento che stipulassero coi coloni dei contratti lunghi in modo da assicurar loro il giusto frutto dei loro sforzi; che concedessero loro per i primi anni alcune condizioni più larghe di repartizione dei prodotti; e di più che li aiutassero nella costruzione delle case, e nel provvedersi di qualche strumento agricolo un po’ meno primitivo di quelli attuali; e li sovvenissero con qualche soccorso senza interessi, o a un frutto modico, e col dar loro possibilmente qualche capo di bestiame a soccida, perchè possano meglio lavorare e concimare i poderi, e ritrarre qualche guadagno dall’allevamento.

Sappiamo invero che molti proprietari non sono in condizioni da poter far subito nemmeno questo, ma d’altra parte ve ne sono pure tanti altri per cui la formazione ogni anno di uno o due nuovi poderi muniti di tutta la dote occorrente per l’attivazione di una mezzadrìa, sarebbe cosa facilissima, e che non implicherebbe altro sagrifizio che quello di voler prendere una decisione; ovvero per alcuni la rinuzia a un cavallo di lusso, o a un palco al teatro, o a qualche giorno di più di visita alle bagnature dell’estero: e, diciamo il vero, il pensiero di tali sagrifizi non ci commuove, e tanto meno se pensiamo che essi non rappresentano altro che la rinunzia a un godimento immediato in vista di un vantaggio avvenire; che equivalgono insomma a mettere danari a frutto.

Quanto alla questione della coltura grande e di quella piccola, non ci è dato di qui discuterla in tutti i suoi aspetti, chè non basterebbe un volume apposito; ma osserveremo a tal riguardo che tutte le ragioni che sono state addotte in teoria, e che si sono dimostrate valide in pratica, per consigliare la piccola coltura nella maggior parte della Francia, e specialmente nelle provincie sue meridionali, valgono a fortiori per la Sicilia, dove è maggiore la varietà delle colture, e maggiore il profitto di quelle colture legnose, che, come l’olivo, la vite, ecc., richiedono maggior cura, e in genere di tutte quelle coltivazioni in cui la qualità del lavoro ha un’importanza non minore della sua quantità. Il Leslie poi osserva con ragione che «quelle precise produzioni per cui la piccola coltura è specialmente adatta, sono le cose che acquistano nuovi mercati ad ogni nuova ferrovia, strada, manifattura o miniera, o ad ogni nuovo aumento della ricchezza nazionale»([289]); e cotesta acuta osservazione viene confermata dal fatto della graduale estensione della piccola coltura in Francia coll’aumento del numero dei contadini proprietari. E la mezzadrìa nel suo tipo toscano raggiunge in gran parte i vantaggi del sistema francese del contadino proprietario, poichè eleva egualmente il morale del contadino, esercitandone l’intelligenza nella direzione della coltura del podere; lo affeziona al suolo; gli fornisce lavoro in tutti i mesi dell’anno; assicura alle colture più delicate, lo zelo e le cure assidue di chi ha interesse diretto nella prosperità del fondo; e per di più unisce le varie classi sociali in relazioni di mutua benevolenza, per gl’interessi che dà loro in comune; ed assicura il contadino coi capitali del proprietario — e ciò non fa la piccola proprietà — dopo una serie non interrotta di annate cattive, dalla perdita di ogni capitale d’industria necessario per il mantenimento del fondo.

Vi è chi teme che l’introduzione della mezzadrìa possa essere un ostacolo invincibile al trar profitto dall’applicazione della meccanica all’agricoltura, ma l’esperienza dimostra che la piccola coltura non è per sè inconciliabile coll’uso delle macchine agricole. Si senta quel che ne dice il Cliffe Leslie, il cui giudizio in siffatti argomenti ha grande valore, avendo egli studiato attentamente e sui luoghi l’economia rurale dell’Inghilterra, della Francia e del Belgio. «Esempio notevole della tendenza della piccola coltura a prevalersi delle forze della meccanica è il fatto, che le più recenti statistiche agricole ci dimostrano l’esistenza di un maggior numero di macchine da mietere e da trebbiare nel Bas Rhin, dove la piccola coltura è spinta al massimo grado, che in nessun altro dipartimento. Chi abbia percorso i distretti rurali della Francia non può aver mancato di osservare che la piccola coltura ha creato in questi ultimi anni due nuove industrie sussidiarie, quella del costruttore di macchine da un lato, e dall’altro quella dell’entrepreneur, il quale dà fuori le macchine a nolo; ed ora uno s’imbatte costantemente, perfino in piccole città e villaggi, per ogni altro riguardo arretrati e apparentemente stagnanti, nella vista e nel romore di macchine, che lo stesso grande fittaiuolo non possiede che da poco tempo. Ammettendo quindi pienamente, (è sempre il Leslie che parla) una verità importante nell’osservazione di Wren Hoskyns, che “la dottrina delle macchine — maggior prodotto col minor lavoro — è, in quanto si applichi al suolo, la dottrina della fame per il lavorante e dello spossessamento per il piccolo proprietario; e invece di appartenere ad uno stadio avanzato della scienza, è un regresso verso il tempo medioevale, in cui il feudo di un cavaliere comprendeva il possesso di tutto un circondario, ed un conte era signore territoriale di una contea”([290]); considerando, col Wran Hoskyns, le macchine come fatte per l’uomo, e non l’uomo per le macchine, e la felicità e la prosperità di una grande popolazione rurale come il vero oggetto dell’agricoltura e dei sistemi di occupazione (tenure) della terra, non vediamo alcuna ragione per credere che il progresso della meccanica sia incompatibile col mantenimento della piccola coltura, e tanto meno con quello della piccola proprietà in Francia»([291]).

Il Leslie, come si vede, si riferisce più specialmente alla piccola coltura come esercitata dai contadini-proprietari in Francia, ma il suo ragionamento vale tanto più per una piccola coltura condotta da mezzadri, giacchè in essa abbiamo un proprietario capitalista che può più facilmente fare l’ufficio dell’entrepreneur o locatore di macchine.

Nella maggior parte della Sicilia, anche supponendovi ridotta la viabilità alla maggior perfezione, la stessa conformazione del paese si oppone all’uso generale degli aratri a vapore, delle grandi macchine da mietere e delle potenti trebbiatrici a vapore, le quali macchine più utilmente si adopreranno per l’appunto in quei luoghi per i quali abbiamo escluso l’opportunità dell’introduzione della mezzadrìa; e all’incontro non vi è nulla nella forma della mezzadrìa che si opponga all’uso di buoni aratri, di macchine da seminare, e delle trebbiatrici di piccola mole, quali si adattano a un paese montuoso, e in cui le colture arborescenti dovranno predominare su quelle di piante annue.

Quanto alla questione dell’allevamento del bestiame, e di una maggiore coltivazione di foraggi, la piccola coltura non offre alcun ostacolo ad ogni progresso in questo senso, ed essa anzi si è mostrata in Francia, nelle Fiandre, in Svizzera, in Germania e in varie parti d’Italia, come la forma generalmente più atta ad accrescere il numero dei capi di bestiame per ogni ettaro di terreno, col conseguente vantaggio di tutte le colture, per la maggiore concimazione resa possibile. L’incremento della coltura dei foraggi, che deve accompagnare ogni razionale coltura intensiva, dipende più che da ogni altra causa dalla diffusione dell’istruzione agricola; la quale non mancherà dovunque i proprietari abbiano interesse di promuoverla, e i contadini siano in condizioni tali da poterne profittare non solo nell’interesse altrui, ma anche nel proprio.

 

 

§ 111. — Obiezioni alla introduzione della mezzadrìa.

Ci resta ancora da esaminare talune delle principali difficoltà pratiche che secondo il parere di alcuni si oppongono invincibilmente all’introduzione della mezzadrìa nella maggior parte della Sicilia. Esse sono: lo stato della pubblica sicurezza, la mancanza di acqua potabile, la malaria, e, per alcune provincie, la vicinanza delle zolfare, dove i gas che emanano dai calcaroni nella fusione dello zolfo, nuocciono entro una certa cerchia ad ogni coltura, e specialmente a quella di piante arborescenti.

Diremo innanzi tutto di quest’ultima circostanza. In primo luogo si potrebbe studiare il modo di evitare l’attuale sprigionamento dei gas durante la fusione degli zolfi, o almeno di diminuirlo di molto, con non piccolo risparmio del minerale. Inoltre la cerchia di terreno resa attualmente in parte improduttiva per siffatta ragione non è di una grande estensione, e tutti i campi posti in tali condizioni speciali si potrebbero anche comprendere nella categoria di quelle terre dove l’introduzione della forma di mezzerìa non è da consigliarsi, senza che perciò si dovessero attendere effetti generali minori dalla riforma proposta per la maggior parte dell’Isola.

In risposta alle altre obiezioni relative alle condizioni della sicurezza pubblica, alla mancanza di acqua, e alla malaria, riprodurremo qui per comodo del lettore l’argomentazione del Rubieri, giacchè non sapremmo esprimere meglio gli stessi concetti con parole diverse([292]). «Si dice prima di tutto che la mezzerìa non può stabilirsi in Sicilia per la mancanza di pubblica sicurezza. Ma lasciando da banda che tal mancanza deriva appunto, almeno in parte, da quella campestre solitudine che non esisterebbe se esistesse la mezzerìa, io voglio concedere che sarebbe imprudente il cominciare dallo stabilirla in luoghi affatto remoti dall’abitato: potrebbesi bensì senza rischio cominciare dallo stabilirla a contatto di quella zona adiacente alle città dove il sistema delle case sparse e de’ piccoli poderi già vige, e passare ad estenderla di mano in mano, serbando sempre una congiunzione non interrotta tra i poderi già istituiti e quelli da istituirsi....

«Si dice che anche la mancanza di acqua potabile fornirebbe un impedimento. Ma anche su questo punto ritengo che l’acqua vi sia, che la mancanza si riscontri piuttosto ne’ lavori atti ad assicurarne l’uso, e che la mezzerìa facendo sentire il bisogno di tali lavori ne farebbe cessare la mancanza. Infatti ricordo ottimamente che nel percorrere la Sicilia trovai nelle campagne difetto di pozzi perchè difetto di case, ma abbondanza grandissima di corsi d’acqua». E qui il Rubieri cita a sostegno degli scritti del professore Inzenga e del professore Spagna, e quindi seguita: «Pare infatti che quel che in Sicilia più si deplori sia il non aver sempre abbastanza comoda e copiosa l’acqua di fontana, e che vi si consideri come un peso il dover cercare talora un succedaneo nella costruzione dei pozzi.... In tal caso i Siciliani sono molto più fortunati di noi Toscani che, se vogliamo acqua, dobbiamo costruire il proprio pozzo in ciascuna delle case nostre e de’ nostri mezzaiuoli, e talora siamo costretti a invocar quella del cielo, perchè non v’è pozzo che basti a farcene trovare una goccia sotterra». Non sono molti difatti i luoghi in Sicilia dove escavando a qualche metro sotterra, non si trovi acqua; e ciò diciamo sull’autorità delle risposte dateci da un numero grandissimo di proprietari, gabellotti, e agricoltori di ogni parte dell’Isola.

«Ma si dice finalmente, (seguita il Rubieri) che la malsanìa è quella che le fa paura (alla mezzeria). È infatti assiomatico esser la scarsità della popolazione che produce il difetto di coltura, e questo che produce la insalubrità del clima. In pochissimi casi la malsanìa può esser tanto predominante e incorreggibile da impedir tali effetti. Uno di tali casi è certamente quello delle toscane maremme. Eppure anche in queste la malsanìa è andata restringendosi in ragione diretta dello estendersi della coltura e della popolazione, e si è arrivati al punto che.... ha già potuto in buona parte stabilirvisi anche la mezzerìa, la quale, non vi ha dubbio, coadiuverà molto e presto l’opera del sanicamento. E in Sicilia non vi son casi identici a quello delle maremme toscane. I soli luoghi che un poco ad esse somigliano sono le lagune di Mondello presso Palermo e le saline di Trapani. Ma il loro terreno è limitatissimo e facilmente bonificabile, come già si è sperimentato. Gli altri luoghi infetti da malsanìa sono tutti entro terra, e perciò le cagioni della loro infezione hanno radice non fissa nella mischianza di acque marine, ma precaria nel difetto di popolazione e di coltura. Basta infatti consultare gli agronomi siciliani a persuadersene. Essi sono i primi a riconoscere che quella stessa cattiva giurisprudenza la quale mal provvede al regolare corso delle acque, necessariamente contribuisce anche alla malsanìa per lo impaludamento di quelle([293]); che causa della infezione dell’aria è la incuria nel porre a profitto le acque([294]), che eguali effetti sono prodotti dalla viziosa coltivazione, la quale non preparando idonei scoli alle acque produce il loro ristagno([295]).... Ora, immaginate che la Sicilia invece di essere, com’è, una irregolare distesa di campi su cui si spande un contadiname nomade e venturiere a far semente e ricolte e poi sparire, fosse una regolare spartizione di poderi muniti de’ rispettivi fossetti di scolo, e continuamente vegliati da coloni che avessero un interesse a mantenerli sani ed asciutti, e ad astenersi perciò dagli abusi e dalle imprevidenze proprie, e ad impedire quelle de’ vicini: ciò basterebbe perchè le prime cagioni della malsanìa si dileguassero. La fissa popolazione e la buona coltura farebbero il resto». E alle cause della malaria enumerate dal Rubieri aggiungeremmo quella assai grave nell’Isola, della macerazione del lino durante i mesi caldi nelle pozzanghere d’acqua lasciate dai torrenti, al che si potrebbe provvedere, come già fecero altre nazioni, con disposizioni di legge, o almeno con rigorose prescrizioni nei regolamenti municipali, o con la introduzione dei processi chimici e industriali per la macerazione tanto del lino come della canapa, o con la costruzione di maceratoi a vasche presso il mare sul modello di quello di Acireale.

Osserviamo in ultimo che le case coloniche dovrebbero, come si usa anche in Toscana, costruirsi sempre di preferenza nei punti più alti e più ariosi della campagna. In un paese di superficie ineguale, tutto colline, poggi, o montagne, come la Sicilia, la divisione dei poderi in modo che in ognuno vi fosse un punto elevato su cui poter costruire la casa colonica, non presenterebbe generalmente alcuna difficoltà. La malaria in Sicilia domina specialmente nei bassi, e nel fondo delle vallate; onde le case in vetta alle colline, o sul pendìo dei poggi più alti si troverebbero quasi sempre in un’atmosfera più sana. Anche dal punto di vista della necessaria sorveglianza del colono sul proprio podere, conviene collocarne la casa, per quanto sia possibile, sopra punti elevati del terreno, da cui egli possa dominare collo sguardo sopra un’ampia estensione di campagna, e specialmente sui campi affidati alle sue cure.

 

 

§ 112. — Affitti delle grandi aziende rurali.

Ma supponendo che per una ragione o per un’altra alcuni proprietari non vogliano o non possano introdurre il contratto di mezzadrìa nelle loro proprietà — e per un certo numero di terre abbiamo anche noi ammesso la convenienza di non farlo — non vi sarà dunque là nulla da fare allo scopo di migliorare gli attuali sistemi di conduzione agricola? — Certamente che sì.

Supponiamo pure che si seguiti a mantenere il fitto in grande, e specialmente là dove la malaria, come nella piana di Catania, o la scarsità dell’acqua, o altre cagioni richiedano una vasta coltura a latifondo. I proprietari potrebbero, sia con affitti lunghi, sia colla volontaria stipulazione di patti per i miglioramenti, quali li proponemmo (§ 100) nel trattare dell’azione dello Stato, assicurare l’esecuzione nei loro fondi di tutti quei lavori che potessero migliorarli, e più specialmente la costruzione di convenienti caseggiati rurali tanto per scopi agricoli, come per abitazione dei lavoranti. Tali miglioramenti si potrebbero stipulare espressamente nei contratti di affitto. Agli affittuari in questo caso spetterebbe di mutare i sistemi attuali di coltivazione, sostituendovi la lavorazione del fondo a economia, con salariati fissi o giornalieri. Di questi diremo or ora.

 

Fitti ai contadini.

Quando invece di ciò si estendesse il sistema degli affitti piccoli fatti direttamente dai proprietari ai contadini, diventerebbe di suprema necessità l’introdurre la consuetudine di stipulare cogli affittuari, sia dei patti per i miglioramenti come cogli affittuari maggiori, sia una forma di «tenant-right», o diritto di affittuario, sul genere di quello introdotto in Irlanda dal Land Act del 1870, che garantisse il coltivatore della lunga durata del suo contratto, oltre il compensarlo delle spese fatte nel fondo e dei danni di ogni capricciosa evizione per parte del proprietario (§ 98).

 

 

§ 113. — Le grandi aziende condotte direttamente dai proprietari.

Prendiamo ora un terzo caso, che vorremmo certo preferire a quelli già supposti; ed è quello che il proprietario voglia condurre a economia o a mano la coltivazione del proprio latifondo, sia attendendovi da sè, e sarà il meglio, sia per mezzo di un fattore intelligente e di fiducia. Del resto, quel che diremo qui, può valere pure in parte per il caso del grosso affittuario di cui nel paragrafo precedente.

In questi casi, lo ripetiamo, ove il proprietario non veda nell’industria agricola da lui esercitata che un modo qualunque di far denari, senza sentire i doveri che gli incombono per la stessa sua posizione privilegiata di proprietario, oltrechè come uomo e come cittadino, e senza apprezzare tutti i vantaggi morali e sociali che deriverebbero a tutti da un rialzamento della condizione generale dei contadini, è indubitato che i guadagni e la posizione di questi saranno determinati esclusivamente dalla mutua concorrenza, sempre forte, dei lavoranti agricoli, di fronte a quella dei proprietari, sempre minima fuorchè in alcuni mesi dell’anno, e sempre frenata dal tacito accordo.

Ma vogliamo ora supporre che i proprietari si risolvano, per considerazioni morali o economiche, o mossi da paura di futuri sconvolgimenti, ad ordinare nel modo migliore i loro rapporti coi contadini, senza perdita propria, senza far doni nè elemosine, nè incontrar sacrifizi, ma considerando il contadino come un uomo e non come un mero strumento di lucro, e desiderando di togliere per quanto sia possibile l’attuale discordanza tra l’interesse del lavorante e quello del proprietario o capitalista: in qual modo dovrebbero essi regolare i patti colonici nei latifondi che conducessero da sè? — Per poter rispondere con sicurezza a un tal quesito, occorrerebbe aver dinanzi a sè i risultati di una inchiesta agricola minuziosa e completa che abbracciasse tutte le regioni d’Italia, inchiesta che è nel voto di molti, ma che probabilmente non si farà per un gran tempo ancora. Noi non possiamo qui che indicare sommariamente e a guisa di appunti, alcune idee in proposito.

Nel nostro supposto, la forma generale del contratto agricolo dovrebbe esser quella del salariato; ma la questione può presentarsi diversamente di fronte ai diversi ordini di salariati, che possiamo distinguere in: 1° salariati fissi per tutto l’anno con dimora stabile sul fondo; 2° braccianti liberi che ricevono volta per volta la loro giornata, e che abitando non lontanissimi dal fondo vengono impiegati con una certa regolarità nelle diverse stagioni dell’anno; 3° braccianti avventizi che immigrano da lontano durante i mesi dei grandi lavori, finiti i quali se ne tornano ai loro paesi. Diremo prima di questi ultimi.

 

Immigrazioni temporanee di braccianti.

L’industria agricola, e più particolarmente quando sia condotta su vasta scala, presenta la difficoltà speciale del dover conciliare il grande bisogno di braccia in alcuni mesi dell’anno, colla scarsità dei lavori nelle altre stagioni. A questo si ripara ora colle regolari immigrazioni temporanee di braccianti; e dove si mantenesse nella maggior parte dell’Isola la grande coltura, non v’ha dubbio che queste immigrazioni sarebbero sempre una necessità, benchè riducibili a proporzioni minori. Di fronte a questi immigranti nulla vi può essere da osservare relativamente ai contratti; non vi è per loro altro sistema possibile che il salario, e la sola diversità può essere il lavoro a cottimo, invece del lavoro a tempo. Ai proprietari però incombe il dovere solenne di costruire senza indugio caseggiati atti a riparare convenientemente durante la notte quella gente avventizia, e di così togliere subito almeno una delle cause di patimenti, di degradazione, di malattia e di morte per quegl’infelici.

Al guaio proprio della grande coltura, della sproporzione nel bisogno di braccia nelle diverse stagioni dell’anno, riparerà efficacemente in avvenire la progressiva sostituzione nei lavori agricoli delle forze meccaniche a quelle muscolari dell’uomo; e non sarà questo il minore tra i benefizi di quella grande vittoria dello spirito sulla materia, di quel progressivo asservimento della natura alla soddisfazione dei bisogni umani, che toglie ogni necessità storica all’asservimento dell’uomo all’uomo. Dovremo però riparlare più qua della questione delle macchine.

Date le immigrazioni temporanee di lavoranti per i lavori straordinari, dobbiamo supporre che la popolazione agricola che risiede stabilmente sopra un territorio sia all’incirca proporzionata ai lavori ordinari che vi si richiedono tutto l’anno.

In ogni fattoria poi si dovrà impiegare in modo fisso, concedendogli dimora stabile sul fondo, quel numero di lavoranti cui si potrà dar lavoro continuo durante tutto l’anno sul fondo stesso; questi lavoranti chiameremo, per comodo di ragionamento, salariati fissi([296]). Ma all’infuori di questi, vi sarà un certo numero di braccianti che potrà trovare impiego continuo durante la maggior parte dell’anno nello stesso territorio, ma mutando di fattoria in fattoria secondo i diversi bisogni locali, e questi, che chiameremo semplicemente giornalieri, comprendono tutti quei braccianti che dimorando nelle borgate e nei villaggi locano attualmente l’opera loro a giornata.

Supponendo ora che i proprietari si ponessero a coltivare a economia i loro latifondi, il numero dei salariati fissi aumenterebbe di molto di fronte a quello attuale degl’impiegati dei feudi, giacchè ora una grandissima parte dei lavori di coltivazione sono eseguiti per mezzo dei metatieri e dei terratichieri: ma non sparirebbe perciò la classe dei giornalieri, una gran parte dei quali inoltre troverebbe occupazione in alcune stagioni dell’anno nelle colture più minute e più intensive dei pressi delle città.

 

 

§ 114. — I salariati fissi.

Cominciamo dai salariati fissi. La prima regola che qui si potrebbe stabilire, è quella, che una parte del salario debba esser data in generi e il resto in denaro. Ciò è da consigliarsi come regola generale; ma quando poi, e sarà il caso più comune, il latifondo disti alquanto da ogni grosso centro abitato e quindi da ogni mercato, diventa allora un assoluto bisogno per il salariato fisso che i generi di consumo di prima necessità gli siano forniti dal padrone. E non converrebbe affatto il sistema di pagare tutto il salario in denaro, facendosi poi il proprietario venditore volta per volta al lavorante delle derrate necessarie per il suo mantenimento; giacchè si cadrebbe in tutti i guai del «truck-system», stato così giustamente condannato in Inghilterra. Vorremmo però che come parte del salario si dessero in natura al lavorante soltanto quei generi di consumo di prima necessità di cui egli non potesse senza disagio fare acquisto da sè nei mercati lontani, e quelli di cui le variazioni nel prezzo potessero rendere sempre troppo incerta e instabile la di lui sorte. Così apparisce opportuno che riceva dal padrone l’abitazione, il grano e le fave o il riso, che formano la base del suo nutrimento, come pure le medicine e le cure mediche quando cada ammalato.

Non ripeteremo quanto abbiamo già detto intorno alla necessità primaria della costruzione di abitazioni decenti per i lavoranti. Ogni famiglia dovrebbe naturalmente avere abitazione distinta, con annesso un appezzamento di terreno per uso di orto, dove potesse coltivare da sè una parte dei prodotti necessari per il proprio sostentamento, come ortaglie, patate, rape, ecc., e allevare un maiale, e talvolta anche un vitello. La lavorazione di questi appezzamenti di terra potrebbe anche farsi cogli animali del padrone. È cosa assai importante per il benessere morale non meno che economico del salariato, che egli abbia così una piccola azienda rurale in proprio, dove poter impiegare il suo lavoro nelle ore libere concessegli dal padrone, e più ancora il lavoro della sua famiglia, Egli con ciò non solo profitta di tutte le forze proprie e della famiglia per accrescere i suoi guadagni complessivi, ma inoltre impara ad esercitare il proprio criterio nella direzione delle colture nel suo piccolo podere, e dall’allevamento di qualche animale può ricavare un utile molto maggiore di quel che non costi di sacrifizio al padrone il permetterglielo, o anche il somministrargli qualche mangime([297]).

A questo modo lo stipendio complessivo del salariato fisso si comporrebbe di tre elementi; 1° di una somma di denaro; 2° di alcuni generi di prima necessità fornitigli direttamente dal padrone; 3° del terreno e degli aiuti necessari perchè egli possa coll’impiego del proprio lavoro e di quello della sua famiglia accrescere di un poco i suoi guadagni, e procurarsi una relativa agiatezza.

 

 

§ 115. — Partecipazione agli utili.

Ma è questo forse tutto? Non vi sarebbe modo di valersi anche nella grande industria agricola dei vantaggi morali, economici e sociali dell’elemento di partecipazione del lavorante ai risultati dell’impresa? — Sappiamo che la partecipazione agli utili è stata più volte introdotta utilmente nelle industrie manifatturiere, e anche in quelle estrattive: non sarebbe forse questa la forma che potrebbe pure applicarsi con speranza di buoni effetti alla grande industria agricola? —

Noi crediamo fermamente di sì. La cosa del resto è già stata provata in Germania, e a quanto ci dicono quegli scrittori, i risultati ottenuti sono stati soddisfacenti([298]). Qui, si noti bene, non si tratta più affatto, come quando si parlava di piccola coltura, della partecipazione del lavorante al prodotto lordo dell’azienda, come forma di retribuzione ordinaria al suo lavoro, ossia in altre parole di una forma qualunque di mezzadrìa, in cui due soci, il lavorante e il proprietario, mettono in comune rispettivamente il lavoro e la terra coi relativi capitali, per dividersi poi il prodotto in determinate proporzioni: si tratta invece di una partecipazione concessa al lavorante salariato, come un di più aggiunto al suo salario, in quegli utili dell’impresa che si suppongono prodotti dal maggior zelo e dalla maggiore operosità del lavorante stesso; zelo e operosità che hanno per stimolo e per motivo la speranza appunto del lavorante di partecipare al guadagno che ne risulterà.

Il principio su cui riposa la partecipazione industriale, ossia la partecipazione agli utili, è, come si esprime il Thornton, «che i lavoranti possono, colla promessa condizionale di una maggiore rimunerazione, essere stimolati ad una maggiore attività e attenzione, i prodotti materiali e gli accompagnamenti morali delle quali saranno un compenso del tutto equivalente alla maggiore rimunerazione promessa»([299]). Onde «se per amor di un premio eventuale gli operai vorranno lavorare in modo da lasciare i profitti del loro principale, dopo levato il premio, altrettanto alti quanto sarebbero stati senza il sistema dei premi, o anche se, senza elevar assolutamente di tanto i suoi profitti, essi lo compensano della diminuzione delle sue entrate in moneta col miglioramento della loro condotta generale, può non esservi alcuna ragione perchè un impiegante che ha una volta adottato il sistema abbia poi ad abbandonarlo. E se gli operai vanno più oltre, e nel loro desiderio di un premio aumentato creano con l’attività maggiore un fondo d’avanzo maggiore, grande abbastanza perchè il loro padrone vi partecipi non meno che essi, vi sarà un’eccellente ragione perchè l’esempio del loro principale sia seguito da altri principali, ed eventualmente da tutti coloro che si trovino in tali circostanze da essere in grado di applicare il medesimo principio con la prospettiva di un simile effetto»([300]).

Il Thornton parla qui in generale, ma le condizioni ch’egli suppone necessarie alla riuscita della partecipazione industriale, si verificheranno tanto più nell’industria agricola, dove l’innalzamento del livello morale del lavorante, e le condizioni di reciproca benevolenza e di solidarietà d’interessi tra lui e il proprietario, hanno per quest’ultimo ben altra importanza che non le condizioni morali e i sentimenti degli operai per un industriale manifatturiero.

Le perdite poi di cui sono attualmente cagione nelle imprese agricole l’ignoranza, la trascuranza, la infingardaggine, e anche il malvolere dei lavoranti, sono molto maggiori di quanto si concederebbe mai ai lavoranti come partecipazione al prodotto netto. Colla partecipazione agli utili dell’impresa, il lavorante agricolo viene a toccar con mano di quanto vantaggio possono essere per lui, oltrechè pel padrone, la sua operosità e diligenza: e si creano inoltre degl’interessi in comune tra salariato e proprietario, giacchè l’uno e l’altro saranno animati dagli stessi timori e dalle stesse speranze pei resultati generali dell’azienda agricola. «E ciò che poi serve di più, è l’essere ogni individuo non meno interessato a vigilare che le virtù industriali siano praticate dai suoi compagni, che a praticarle egli stesso. L’efficacia dell’occhio del padrone è proverbiale.... Ma l’occhio del padrone non può essere dappertutto.... Quando il capitale si associa al lavoro, ogni lavorante nel diventare socio, diventa anche partecipe dei motivi che ha il padrone per esercitare la vigilanza»([301]). E in Sicilia è ingente nelle grandi aziende rurali lo spreco di capitale e di lavoro, che si fa attualmente per la sola sorveglianza.

La partecipazione agli utili nell’industria agricola dovrebbe regolarsi in modo, che dal prodotto complessivo debbano prima essere pagati e i salari per intiero di tutti i lavoranti, e un tanto per cento sul capitale impiegato nell’azienda; e quindi ogni di più debba dividersi tra i lavoranti e il proprietario, in certe proporzioni definite anticipatamente e che resterebbero sempre fisse. Il determinare queste proporzioni dipende, è vero, dal beneplacito dei proprietari, sulla cui buona fede riposa pure ogni giusta liquidazione a fin d’anno; ma sarebbe ben cattivo consiglio nei proprietari di voler ingannare i loro dipendenti sia col prometter loro partecipazioni minime in benefizi irrealizzabili, sia con falsi regolamenti di conti. Perchè la partecipazione possa dare i suoi frutti, deve esser tale da ispirare al lavorante la ragionevole speranza in un aumento effettivo dei suoi guadagni, meno il caso di anni eccezionalmente cattivi, come pure è necessario ch’egli sia convinto della buona fede del suo padrone nel regolamento dei loro reciproci rapporti.

L’introduzione poi della partecipazione agli utili ha, di fronte a qualunque altra forma di aumento di salario, questo precipuo vantaggio per il proprietario, di non aggravarlo di alcun nuovo peso, e di non obbligarlo a metter fuori nuovi capitali, giacchè l’aumento di guadagno che viene al lavorante dalla partecipazione è tolto unicamente dai maggiori guadagni straordinari di tutta l’azienda, e previa deduzione del profitto ordinario pel capitale in essa impiegato. I proprietari potrebbero non sborsare subito al lavorante tutto quanto l’ammontare della sua parte negli utili dell’azienda, ma invece depositarne una quota fissa, la metà o i due terzi, in una Cassa di risparmio a benefizio dello stesso lavorante, il quale dovrebbe obbligarsi per patto espresso a non ritirare quelle somme prima di un certo tempo. La partecipazione di ogni singolo lavorante di fronte agli altri suoi compagni, dovrebbe esser regolata in proporzione del salario che riscuote; ma la partecipazione complessiva del lavoro agli utili dell’azienda dovrebbe esser sempre una quota fissa.

Fin qui abbiamo inteso parlare della partecipazione di tutti i salariati fissi agli utili complessivi dell’azienda agricola; la cosa poi è ancora più semplice quando si tratti di partecipazione agli utili di una particolare industria, concessa ai lavoranti che sono ad essa specialmente addetti; come per esempio della partecipazione dei pastori ai guadagni del gregge.

Non pretendiamo del resto di aver fatto più che accennare qui alla questione della partecipazione agli utili applicata alla grande industria agricola, nella speranza di attirarvi sopra l’attenzione di altri più competenti di noi.

 

 

§ 116. — I giornalieri.

Quanto abbiamo fin qui detto riguardo ai salariati fissi di una fattoria non può applicarsi ai giornalieri che vi vengano impiegati. Si potrà bensì dar loro in natura una parte del salario giornaliero o settimanale, ma soltanto sotto la forma del vitto somministrato loro direttamente dal padrone. Ciò diventa anzi indispensabile per tutto quanto il nutrimento del giornaliero, là dove la sua abitazione disti talmente dal luogo del lavoro da dover egli trattenersi nella fattoria più giorni di seguito, senza tornare a casa. Dove invece egli possa tornarvi ogni sera, sarà meglio che il padrone gli dia in natura non più di quanto sia necessario per quei pasti che deve prendere durante le ore del suo lavoro, e che il resto del salario gli sia pagato in denaro: si evitano così molte questioni, e molto scontento.

Per questi giornalieri non può più essere questione di introdurre alcuna forma di partecipazione ai risultati complessivi dell’azienda. Per la condizione loro però, come in genere per quella di tutti i contadini, molto potrebbe farsi dai proprietari, col facilitare ai loro lavoranti l’acquisto di una piccola proprietà di terra. I grandi proprietari siciliani potrebbero, ove il volessero, operare una vera rivoluzione nelle condizioni economiche e sociali della popolazione agricola, col promuovere spontaneamente la formazione di una classe di giornalieri proprietari, con abitazioni sparse nelle campagne, sui limiti dei latifondi. Già ora esiste qua e là una classe siffatta, che possiede, per lo più nelle vicinanze delle città, qualche piccolissimo terreno a censo, su cui impiega il proprio lavoro quando non trova da locare fuori la giornata: attualmente però questi giornalieri censuari abitano tutti nelle città, dove possiedono spesso una casuccia. Si tratterebbe invece nella nostra proposta del seguente progetto:

I grandi proprietari di latifondi, prefiggendosi di ottenere nella prossimità delle loro tenute lo stabilimento fisso di un certo numero di lavoranti agricoli, e di togliere così tutti i danni che vengono all’agricoltura dall’attuale agglomeramento della popolazione rurale nelle città, procurano la formazione sui limiti dei loro latifondi di un numero di piccole proprietà nelle mani dei contadini, proprietà di cui ognuna non sia tanto grande da bastare da sè al sostentamento di una famiglia, ma nemmeno tanto piccola da non avere un’influenza sensibile sulla condizione generale del lavorante che la possiede. Il metodo da seguirsi potrebbe essere il seguente([302]): A tutti quei lavoranti aventi famiglia, che vengono impiegati usualmente in una fattoria — e vi si potrebbero comprendere anche alcuni dei salariati fissi — e che hanno sempre dato prova di operosità e di buoni costumi, si concedono a fitto con canone bassissimo, per lo spazio di quattro anni, o di altra epoca da fissarsi, ma con facoltà nel padrone di disdire ogni anno, tanti appezzamenti di terreno di buona qualità, di circa un ettaro ognuno, da scegliersi di preferenza sui lembi del latifondo. I vari appezzamenti saranno contigui, in modo da poter formare in seguito colla riunione di più abitazioni tanti piccoli casali sparsi qua e là nella campagna. Su questi piccoli poderi gli affittuari dovranno costruire le loro case, aiutati in ciò dal proprietario, il quale si obbliga a rimborsare all’affittuario l’intiero valore delle opere fatte, nel caso che entro i quattro anni, o alla fine di questo termine, lo mandasse via dal podere. I proprietari debbono pure vigilare a che queste case si costruiscano sopra un modello decente, e non su quello ordinario delle attuali case coloniche in Sicilia. Annesso a queste case deve costruirsi il porcile, e, dove sia possibile, la stalletta per il vitello o per la mucca. Se durante i quattro anni il lavorante non dà mai motivo di lamento al proprietario, e dimostra di essere in grado di profittare della nuova posizione che gli verrà fatta, al termine di quell’epoca il piccolo podere da lui lavorato gli vien concesso a enfiteusi perpetua, con modico canone, e col diritto di affrancarsi a rate. Quest’affrancazione dovrebbe anzi essere resa più facile, col determinare che il lavorante possa volendo liberarsi entro un certo numero di anni, mediante il pagamento annuo di una piccolissima somma da aggiungersi al canone enfiteutico a titolo di ammortizzazione del capitale. E a facilitare sempre più ai contadini l’affrancazione di questi censi, potrebbe giovare moltissimo l’aiuto degl’istituti di credito fondiario e agricolo di qualunque specie.

Col detto sistema, di cui ci basta di aver qui tracciato i contorni generali, si potrebbe, ove venisse generalmente adottato, trasformare affatto in poco tempo e senza che alcuno abbia da fare grandi sacrifizi, l’aspetto di gran parte delle campagne siciliane; si sparpaglierebbe la popolazione agricola nelle campagne, collocandola vicino ai campi che lavora: si renderebbero più facili, più continue e più cordiali le relazioni tra i proprietari e i lavoranti; e colla creazione di una numerosa classe di piccoli proprietari si toglierebbe ogni carattere acuto alla questione agraria, facendo sì che il contadino difenda come propria la causa della proprietà privata del suolo. Lo stesso spirito animerebbe pure quei lavoranti che rimanessero esclusi dalla proprietà, giacchè ognuno avrebbe la speranza di poter un giorno col lavoro e col risparmio, entrare nella schiera dei privilegiati: tutti sappiamo come un soldato si esponga più volentieri alla morte, quando abbia la segreta speranza di un giorno diventare maresciallo. Gli effetti inoltre sulla stessa condizione morale ed intellettuale dei lavoranti sarebbero grandissimi; e tutto ci fa credere che il contadino-proprietario siciliano non resterebbe affatto indietro nè al francese, nè allo svizzero, nè al fiammingo.

L’agricoltura, come ben osserva il Von der Goltz, ha questo di speciale di fronte alle altre industrie, che in essa la piccola industria può esistere utilmente a lato della grande, nè ha da temerne la concorrenza; e ciò specialmente in un paese come la Sicilia, nel quale la coltura piccola, laddove è stata applicata, ha dimostrato di avere dei grandi vantaggi in suo favore; come accade generalmente dovunque prosperano le colture arborescenti. Anche riguardo ai buoni costumi le conseguenze di una riforma come quella in discorso, non potrebbero essere che altamente benefiche, giacchè si toglierebbe la necessità attuale delle lunghe separazioni degli uomini dalle loro famiglie.

Economicamente poi i proprietari e i lavoranti guadagnerebbero insieme di netto il valore di quella giornata circa per settimana che attualmente va perduta nel percorso che deve fare il lavorante dalla sua abitazione al luogo del lavoro e viceversa, sia che ciò avvenga soltanto ogni lunedì e ogni sabato, sia ogni mattina e sera. Pei proprietari riescirebbe pure di vantaggio il minor bisogno che ci sarebbe di aumentare il numero dei salariati fissi della fattoria, giacchè avrebbero sempre sottomano un certo numero di lavoranti a loro disposizione. Le minute cure della coltura intensiva di un piccolo podere rimedierebbero pure in gran parte alle temporanee deficienze di lavori agricoli nelle grandi aziende vicine; e il lavorante con la sua famiglia potrebbero trovarvi un modo come impiegare utilmente ogni momento di libertà, o di sciopero involontario. L’introduzione pure in queste piccole aziende di qualche industria domestica, potrebbe contribuire a dare occupazione costante durante tutto l’anno alle forze dei vari membri della famiglia, e ad aggiungere ai loro guadagni complessivi un non piccolo elemento di agiatezza. I nuovi vincoli poi che legherebbero il lavorante al suolo, presenterebbero una sicura garanzia contro ogni pericolo avvenire di una soverchia corrente di emigrazione oltremare, corrente che nelle attuali condizioni migratorie e instabili del contadino siciliano, può facilmente cominciare da un momento all’altro, e che una volta avviata potrebbe anche assumere in poco tempo proporzioni molto maggiori di quanto ora si creda generalmente possibile.

Naturalmente non ci è dato di esaminare qui in tutti i suoi particolari la questione dell’applicazione pratica di un tale sistema; ma ci sembra che esso non debba presentare nulla di molto nuovo, di difficile, o di pericoloso alla mente dei grandi proprietari siciliani, visto che non si propone loro che di imitare in piccolo quello che fecero ripetutamente su più vasta scala i loro antenati, i baroni feudali dei secoli scorsi. Essi difatti nell’intento di attirare una maggiore popolazione sulle loro terre, sia per promuoverne la produzione e accrescere così le proprie rendite, sia per aumentare col numero dei vassalli la propria potenza, offrivano concessioni di terre a enfiteusi a chi stabilisse la propria dimora in alcuni punti determinati della loro giurisdizione; e con questo mezzo poterono ripopolare alcuni distretti, dissodare ampi territori incolti, e creare un gran numero di nuove città e villaggi([303]). Si tratterebbe dunque ora soltanto di ripetere lo stesso fenomeno più in piccolo, ma con maggiore diffusione, onde disseminare di più la popolazione sul territorio, e formare allo stesso tempo una nuova classe di piccoli proprietari, interessata all’ordine, e valido sostegno degli attuali ordinamenti sociali.

 

Affitti dei latifondi a società di contadini.

Oltre i già detti, vi è ancora un altro mezzo pei proprietari siciliani di giovare alla condizione dei coltivatori dei latifondi, mezzo che potrebbe tentarsi almeno in via provvisoria da quella persone più timide, che temono di nulla innovare nei punti più essenziali dei sistemi ora usati. Intendiamo accennare agli affitti dei feudi fatti direttamente dai proprietari, e secondo le forme attuali, ai contadini riuniti in associazioni. Ma di questo argomento parleremo più qua, quando tratteremo specialmente delle varie associazioni di contadini; accennando pure allora al concorso che possono prestare i proprietari ad ogni forma utile di siffatte società.

 

 

§ 117. — Istruzione.

I mezzi potentissimi con cui i proprietari possono promuovere l’istruzione tanto elementare che agricola della classe dei contadini sono di per sè tanto evidenti, che crediamo inutile l’insistervi sopra. È tale, come già dicemmo, l’importanza del concorso dei proprietari nell’istruzione dei contadini, che osiamo affermare che nello stato attuale della economia agricola siciliana, non si potrà ottenere nessun sensibile miglioramento delle deplorevoli condizioni d’ignoranza e d’analfabetismo di quelle popolazioni rurali, se prima in un modo o nell’altro non si procurerà che i proprietari, mossi da amor di patria o da spirito di umanità, da calcoli di tornaconto economico o da terrore delle tempeste dell’avvenire, dal desiderio di maggiore influenza politica o dal timore delle pene sanzionate dalla legge, prestino il loro efficace concorso alla diffusione dell’istruzione. È a questo fine, giova il ripeterlo, che debbono mirare gli sforzi del legislatore; e se questo si trascurerà, non servirà a nulla tutto il rigore con cui si comminino pene agli analfabeti o alle loro famiglie.

Uno degli scopi poi a cui dovrebbe tendere l’istruzione impartita al contadino nella scuola, nei libri, o nella piazza, dovrebbe esser quello di ispirargli quell’istinto della proprietà territoriale, che tanto distingue il contadino francese; di svegliare cioè in lui l’aspirazione di diventare un giorno, a forza di lavoro e di risparmio, possessore di un lembo di quella terra su cui fatica tutta la sua vita. Quando ciò si facesse, e quando d’altra parte i singoli proprietari o associazioni apposite si adoperassero attivamente ad agevolare in vari modi al contadino l’acquisto della proprietà del suolo, si sarebbe fatto un gran passo verso la remozione definitiva di ogni pericolo di un risveglio violento delle questioni sociali o agrarie in Sicilia.

 

 

§ 118. — Progressi dell’agricoltura.

Il lettore avrà forse notato con qualche sorpresa come nel trattare dei mezzi con cui per opera dei proprietari si potrebbe migliorare in avvenire la condizione dei contadini, noi non abbiamo ancora quasi fatto parola di quello da tutti vantato come il rimedio principale, cioè del progresso dell’agricoltura. È credenza generale che la maggiore produzione implichi necessariamente aumento di benessere per tutti quanti i produttori; ed è tale credenza che ha spinto moltissimi tra gli stessi economisti a dar soverchia importanza ai soli fenomeni della produzione, escludendo dal numero degli oggetti propri degli studi economici tutte le leggi della distribuzione, oppure contentandosi della formula generale ed elastica della legge dell’offerta e della domanda, come della sola regolatrice di ogni distribuzione, intendendola come un Dio Fato che determini implacabilmente e sempre allo stesso modo il dare e l’avere di ciascuno. La legge dell’offerta e della domanda, o, per dirla col Cairnes, della «reciproca domanda», è indubbiamente vera, ma essa non ci dà ragione delle tante cause che alterano l’offerta effettiva e la domanda effettiva nei singoli casi, e non esprime al più che una tendenza, fondata sopra uno solo degl’istinti dell’animo umano quello del proprio interesse economico immediato. Ogni varietà però di istituzioni, di leggi, di costumi, di cognizioni e di passioni, altera sensibilmente gli effetti dell’azione di quella legge economica: non è, ben s’intende, la legge economica che può essere mutata, chè sarebbe lo stesso che dire che si muti la legge di gravità: quello che si modifica, ognivolta che molte forze siano fatte giuocare nello stesso tempo, è la direzione ultima che imprimerebbe una sola di quelle forze quando agisse isolata.

E tornando al nostro argomento, crediamo che per tutto quanto ha attinenza coll’agricoltura, una migliore distribuzione — sia essa regolata da leggi o da consuetudini, oppure la resultante della libera concorrenza più o meno modificata dall’accordo — possa generalmente esser cagione di una miglior produzione; e che in Sicilia lo sarebbe senza alcun dubbio; ma d’altra parte neghiamo in modo categorico che una miglior produzione debba per sè sola condurre necessariamente, e in Sicilia nemmeno parzialmente, ad una migliore distribuzione della ricchezza prodotta, o che ai lavoranti agricoli debba venirne una parte nè relativamente nè assolutamente maggiore di quella che loro non tocca ora. Con ciò non intendiamo affatto di attenuare l’importanza grandissima per la società umana di ogni aumento di produzione, e nel caso nostro di ogni progresso dell’agricoltura; sarebbe cosa assurda; ma sosteniamo che gli aumenti di ricchezza e di benessere che ne provengono, possono, nello stato attuale dei rapporti economici che passano tra i proprietari del suolo e i coltivatori, non giovare affatto a questi ultimi, e che anzi la condizione loro può nello stesso tempo peggiorare. E per dirla in altre parole crediamo vera la regola, — misero podere, misero contadino; ma non la reciproca, — misero contadino, misero podere. Se Tizio lavora dieci ettari di terra di proprietà di Caio, è evidente che Tizio dovrà patire se da quei dieci ettari non può ritrarre abbastanza per il proprio sostentamento; ma è pure evidente che anche se quel suo podere producesse venti volte tanto, gli non sarebbe perciò affatto più ricco, quando Caio prendesse per sè tutta la differenza, e che egli non potesse in nessun modo impedirglielo.

È per queste considerazioni che ci siamo specialmente occupati in questo scritto delle forme della distribuzione del prodotto agricolo; e ciò tanto più, in quanto nella questione della produzione non potremmo aggiungere nulla agli studi ampi e diligenti fatti in Sicilia da tanti e tanti molto più competenti di noi. Tutte le questioni riguardanti l’agricoltura vengono ora discusse e studiate con ardore in Sicilia, e le numerose pubblicazioni che ne trattano, e l’attività altamente lodevole di alcuni tra quei Comizi agrari, e l’Istituto agrario di Castelnuovo presso Palermo, e le colonie agricole come quella di Caltagirone, e le Società di acclimazione, e gli Orti botanici, e i numerosi corsi speciali, ci sono arra dello splendido avvenire dell’agricoltura siciliana. Non manca neppure chi si preoccupi della condizione dei coltivatori, ma ogni rimedio si attende dallo sviluppo dell’agricoltura; e vi è perciò pericolo che il progresso sia unilaterale, e quindi monco, inarmonico e insufficiente a diminuire i mali che affliggono quella bellissima contrada.

 

 

§ 119. — Regolamento delle acque.

Non neghiamo però che vi siano alcuni miglioramenti agricoli che, ove venissero attuati, avrebbero una azione diretta e immediata sulle condizioni generali dei contadini in Sicilia. Tra questi noteremo in prima quelli che riguardano il corso delle acque, e quindi gli altri relativi all’applicazione delle macchine all’agricoltura.

È indubitato che ogni migliore regolamento del corso delle acque in Sicilia, sarebbe un beneficio netto per tutta la popolazione; a cominciare dalla costruzione delle grandi opere per i corsi maggiori d’acqua, giù giù fino al tracciato delle piccole fossette che segnano i limiti dei campi, o anche alla direzione dei solchi nei terreni in pendìo. Si toglierebbe la cagione principale della malaria estiva che infesta tutta l’Isola, e non vi è classe di cittadini che non avrebbe da rallegrarsene.

 

Le macchine in agricoltura.

Riguardo alle macchine agricole il fenomeno non è tanto semplice. Avendo esse specialmente per oggetto di sostituire le forze brute della natura a quelle vive dell’uomo, uno degli effetti ordinari dell’introduzione delle macchine in agricoltura è quello di diminuire il bisogno di braccia, e quindi di diminuire i guadagni della classe dei lavoranti; e ciò accade soprattutto, e in grado più immediatamente sensibile, per quelle macchine, come le mietitrici e le trebbiatrici, che compiono i lavori agricoli la cui urgenza in alcuni momenti dell’anno è cagione di forti aumenti di salari dovunque debbono ancora eseguirsi a braccia d’uomo. Sicchè quando l’introduzione delle macchine in agricoltura toglie il lavoro a un certo numero di persone, è indubitato che l’effetto della macchina è stato direttamente nocivo a quella gente, e di più a tutti quegli altri della loro classe i quali dovranno risentire l’azione dell’aumentata concorrenza dei compagni. Questo effetto però non verrà sentito senonchè in modo transitorio nei seguenti casi: 1° quando coll’introduzione delle macchine, per la conseguente diminuzione delle spese di coltivazione, si sia resa profittevole la coltura di terre fino allora incolte affatto o imperfettamente coltivate, e si apra così un nuovo campo all’impiego di quel lavoro stato spostato dalle macchine; 2° quando, e il caso è analogo a quello precedente, il capitale maggiore reso libero o prodotto dall’uso delle macchine, ritorni al suolo con l’introduzione di nuove colture più intensive e che impieghino un maggior lavoro, — per esempio, con piantagioni di agrumi, viti, ecc.; 3° quando lo sviluppo di altre industrie nelle città o nelle campagne, siano esse industrie manifatturiere, minerarie, o di trasporto, impieghi via via il lavoro che riman libero nell’industria agricola; 4° quando si verifichi l’emigrazione pura e semplice delle braccia cui si sono sostituite le macchine.

Quando non accada alcuna di queste quattro cose, o che il trasferimento del lavoro in uno dei detti modi si faccia troppo lentamente — per circostanze speciali di luogo, o di attitudini fisiche, morali o intellettuali dei lavoranti, — è indubitato, per quanto possa esser cosa lamentevole, che la condizione economica dei contadini risente effetti tristi dall’introduzione delle macchine nell’agricoltura. Questa verità però non deve scoraggiarci. È ben difficile che non si verifichi nessuna delle quattro eventualità supposte; e spesso invece si avverano in proporzioni tali che i loro effetti sorpassano di molto quelli contrari risultanti direttamente dall’applicazione della meccanica ai lavori agricoli. È anzi tendenza di quelle medesime cause generali, cioè il progresso nell’istruzione, le facilitate comunicazioni e l’aumento del capitale nazionale, le quali spingono all’introduzione delle macchine in agricoltura, di accrescere allo stesso tempo in un’infinità di rami l’aumento della domanda di braccia, e di facilitare pure il loro trasferimento da un impiego all’altro, e da luogo a luogo. L’introduzione inoltre delle macchine in agricoltura non si effettua in generale che lentamente, e in modo da evitare ogni crise; la quale di fatto non si verifica che quando, come avvenne nei Highlands della Scozia, si sostituisca a un tratto e in vasta scala un sistema generale di coltivazione ad un altro già esistente, la pastorizia per esempio alla coltivazione dei cereali.

Fin qui abbiamo parlato dei danni possibili che dall’uso delle macchine agricole, risparmiatrici di lavoro, possono derivare alla classe rurale: ora accenneremo pure ai benefizi che se ne possono attendere per quella stessa classe, e ciò all’infuori della questione generale dell’aumentata produzione, di cui non è nostro intento di qui occuparci.

Le sofferenze della classe agricola possono dipendere in tèsi generale da tre cause: 1° dai cattivi alloggi; 2° dalla insufficienza dei guadagni; 3° dalla durezza dei lavori che deve eseguire([304]). Dei rimedi alle prime due abbiamo parlato finora: all’ultima non è dato rimediare che col prevalersi dei grandi trovati della meccanica per sostituire ai muscoli e ai tendini umani, le forze insensibili della natura. Finchè certi lavori durissimi e inconciliabili colla salute fisica e anco morale dell’uomo, non potranno eseguirsi per forza di leve, di ruote e di congegni meccanici, vi saranno sempre delle classi d’uomini serve ed oppresse. Ogni nuova invenzione meccanica può considerarsi come un passo che fa la società nelle vie della libertà e verso l’elevamento della dignità umana; ed è qui che la scienza si dimostra la vera redentrice dell’uomo. Può esser lecito discutere talvolta sul beneficio che arrechi allo Stato e alla società una macchina che si sostituisca soltanto al lavoro ordinario del coltivatore nei campi, ma non vi è dubbio intorno al vantaggio universale che deriva dall’applicazione della forza meccanica al compimento di tanti lavori da bestie eseguiti ora pur troppo da esseri umani.

 

 

§ 120. — L’opinione pubblica.

Abbiamo finito di rivolgerci specialmente ai proprietari. Non ad essi soli però, ma a tutti quanti i cittadini spetta il dovere di adoperarsi per il miglioramento della condizione delle classi rurali, poichè a tutti quanti è dato di far valere la pressione dell’opinione pubblica, e sulle pubbliche amministrazioni onde mettano riparo ai molti abusi, e sui singoli proprietari ed affittuari per indurli a migliorare le abitazioni rurali, a riformare i contratti agricoli, e ad essere più umani verso i coltivatori quando li soccorrono nelle loro necessità.

Ci resta ora un ultimo tèma da esaminare. Data la condizione presente dei contadini in Sicilia, e facendo astrazione da ogni azione diretta dello Stato o dei proprietari, quali mezzi d’azione restano alla classe dei contadini per ottenere colle proprie forze e senza aiuti estranei il miglioramento del loro stato attuale, escluso, ben s’intende, ogni mezzo violento o illegale? — Sarà questo l’argomento del prossimo capitolo.


 

 

Capitolo III.

 

MEZZI D’AZIONE DEI CONTADINI

 

 

 

§121. — I mezzi d’azione dei contadini.

Ogni azione dei contadini intesa a migliorare la loro sorte deve seguire una di queste direzioni — o deve tendere all’aumento dei loro guadagni, oppure al migliore impiego dei guadagni stessi. Tra i mezzi che tendono al primo intento, e che sono alla disposizione dei contadini, i soli legittimi e che possono essere durevolmente efficaci sono l’associazione e l’emigrazione. Al secondo fine servono l’istruzione, e anche l’associazione, ma con natura e forme diverse da quando essa abbia per iscopo precipuo l’aumento della parte del lavoro di fronte a quella del capitale. Anche ai due mezzi enumerati nella prima categoria si potrebbe aggiungere quello dell’istruzione, quando la forma consuetudinaria del contratto agricolo, oppure l’azione stessa di uno di quei primi due mezzi accennati, potessero garantire al contadino il continuato godimento di quell’aumento di produzione che risulterebbe indubbiamente dalla sua maggiore istruzione; nello stato attuale però delle relazioni tra il lavoro e il capitale non vi è ancora ragione, ammenochè si tratti di contadini proprietari, di sperare che alcuna parte di un tale aumento possa toccare al lavoro agricolo. Si dovrà per ciò prima attendere che le condizioni attuali siano state modificate per l’azione di qualcuna delle altre forze da noi enumerate.

L’istruzione insomma può servire ora ai contadini siciliani, considerati nel loro insieme, piuttosto come uno strumento che renda loro più facile di prevalersi dell’associazione o dell’emigrazione, anzichè come un mezzo diretto per aumentare i propri guadagni. Ma anche ridotta a questo più umile ufficio di sola preparazione, l’importanza dell’istruzione resta grandissima, poichè senza di essa ogni azione pensata e conscia di sè, della classe dei contadini, è resa del tutto impossibile; onde questa si vede privata affatto dell’arme potente dell’associazione, e vede spuntarsi nelle mani oppure rivolgersi contro di lei l’altra dell’emigrazione.

Saremo brevissimi. L’argomento è ingrato, perchè sappiamo di parlare al vento. I contadini non sono in grado di apprezzare consigli; questi anzi non possono ora nemmeno giungere ai loro orecchi. Potremmo, è vero, appunto perciò parlare più chiaro, senza timore di destare nessuno spirito di ribellione in quegli animi abbrutiti e ancora in gran parte inconsci della propria abiezione; ma a che sfiatarsi quando nessuno vi ascolta! Non vorremmo nemmeno d’altra parte creare dei fantasmi che impauriscono quella gente timida e nervosa, che allarmata ai primi segni di bollore, vorrebbe sempre stringere a forza il coperchio sulla caldaia, credendosi più sicura quando la tiene chiusa ermeticamente. Procederemo per ordine, cominciando dalle associazioni dei contadini che siano dirette ad aumentare la parte del lavoro di fronte a quella del capitale, nella repartizione dei prodotti dell’industria agricola.

 

 

§ 122. — Associazioni cooperative di produzione.

Tali associazioni possono essere di due specie: 1° le associazioni cooperative di produzione; 2° le associazioni dirette a restringere artificialmente la mutua concorrenza dei contadini, col sostituirvi l’accordo.

Di vere associazioni cooperative di produzione composte di contadini e applicate alla condotta di una vasta azienda rurale, non potremmo citare che un solo esempio fortunato, che fu iniziato in Inghilterra fin dal 1830 sopra una sua tenuta da un grande proprietario, il signor Gurdon di Assington Hall nel Suffolk([305]). I risultati ottenuti in quel primo esperimento furono splendidi, e tali da indurre il signor Gurdon nel 1854 a estenderne l’applicazione ad una seconda tenuta. Sono nell’insieme 57 famiglie di lavoranti agricoli che da uno stato di miseria hanno potuto elevarsi colla cooperazione ad una condizione di relativa agiatezza, e sono arrivate a possedere in comune un capitale d’industria di circa 60,000 lire. Eccellenti sono pure stati gli effetti sulla condizione morale ed intellettuale di quella gente([306]).

Non ci fermiamo però su questo unico esempio di vera associazione agricola cooperativa di produzione, perchè riteniamo che una tale forma di associazione sia per ora inapplicabile in Sicilia, fuorchè forse in proporzioni minutissime. Per la riuscita di siffatte associazioni ci vorrebbe nella classe dei contadini tale una misura di accortezza, d’istruzione, di prudenza e di abnegazione, quale non è dato sperarla in un avvenire che non sia lontanissimo: oppure i proprietari dovrebbero con sagrifici di denaro e di tempo anticipare ai contadini i capitali necessari per una vasta azienda agricola, e di più logorarsi un buon po’ a regolare l’andamento dell’azienda, e la repartizione dei profitti tra i soci. Tutto ciò è teoricamente possibile che avvenga, ma temiamo che in pratica non sia per molto tempo il caso di discorrerne. Dobbiamo avvertire però che un’associazione di natura simile fu tentata qualche anno fa a Valledolmo; essa si prefiggeva, a quel che ci fu riferito sui luoghi, di prendere in affitto un feudo per poi coltivarlo con forme quasi cooperative; ma malgrado un forte mutuo fornitole dal presidente, il signor M..., possidente di quei dintorni, sembra che la società non arrivasse a poter fornire il feudo affittato dei capitali necessari, oltre la garanzia da darsi al proprietario, onde si dovè subaffittare il tutto a un gabellotto, e la società si sciolse, con perdita di parecchie spese incontrate.

Havvi però un’altra forma di associazione, che ha stretta attinenza con quella anzidetta, e della quale esiste già qualche esempio in Sicilia([307]). Parliamo delle associazioni composte di un numero di contadini che riuniscono i loro mezzi e il loro credito per poter prendere in affitto diretto dal proprietario un latifondo, onde poi dividerlo tra i soci in tanti poderi distinti e divisi in proporzione dei mezzi di ognuno. Qui non si tratta tanto di vera associazione di produzione che conduca cooperativamente una vasta azienda rurale, quanto della sostituzione della responsabilità collettiva e solidale di un numero di famiglie coloniche, a quella del gabellotto capitalista, e ciò all’intento di far godere i contadini di tutti i guadagni che ora vanno a quell’intermediario tra essi e il proprietario.

A Sanfratello già da molti anni un’associazione di circa trenta borgesi e pastori tiene in affitto alcune terre di proprietà del duca di Terranuova. Una o due persone compariscono di fronte al proprietario, ma esse sono legate per contratto con gli altri soci. Si determina in comune la divisione generale delle colture, e quindi si divide la terra da coltivarsi in tanti appezzamenti quanti i membri della società. Questi lavorano pure la terra da sè, facendosi aiutare da salariati([308]).

Anche a Mistretta si è costituita da un anno, sopra un modello simile a quello dell’associazione di Sanfratello, una Società di massari che ha preso un feudo in affitto. Promotori della società sono stati due ricchi proprietari mistrettesi. È questa del Mistrettese difatti la regione dove più vivo è lo spirito di associazione nelle popolazioni rurali, e prova ne sono tutte le varie associazioni pastorali di cui abbiamo fatto cenno nella prima parte di questo lavoro, le quali pure sono altrettante vere e proprie associazioni cooperative (§§ 4 e 5). Non ripeteremo qui quanto già dicemmo allora, ma ricordiamo al lettore come le società pastorali dette alla mistrettese o per le spese, prendano talvolta in affitto per conto sociale intiere proprietà, riconcedendo poi quella parte che va coltivata a grano ai villani, coi soliti patti di metaterìa o di terratico. Qui dunque la cooperazione vi è soltanto nella costituzione della società per l’affitto del feudo, e nella industria pastorale, ma per quanto riguarda la coltivazione dei campi i contratti sono i soliti. Lo stesso si dica della forma ora disusata di associazione pastorale detta mandra della perfetta società, la quale differiva dalla mandra alla mistrettese in ciò che ogni azione sociale, invece di essere costituita da ogni capo di animale, era calcolata sul valore degli animali che ogni socio contribuiva al fondo comune([309]).

In tutte però le dette forme di associazioni cooperative, compresa quella citata del signor Gurdon, il principio cooperativo non è stato che imperfettamente applicato, giacchè tutti i profitti dell’impresa vanno intieramente al capitale, e il lavoro non vi partecipa affatto, ma vien retribuito esclusivamente coi salari convenuti. Perchè la cooperazione possa dare tutti i suoi frutti, bisogna che contenga sempre l’elemento della compartecipazione del lavoro agli utili, in modo che i profitti dell’impresa industriale vadano, dopo prelevazione dell’interesse corrente sul capitale, divisi proporzionalmente tra il capitale e il lavoro come rappresentato dalla somma dei salari.

Quello che diversifica poi l’associazione cooperativa di produzione come introdotta dal signor Gurdon, da quelle di cui abbiamo trovato qualche esempio in Sicilia, è che in queste ultime la effettiva coltivazione delle terre prese in affitto non si fa secondo il principio cooperativo, riunendo tutte le forze individuali in un’impresa comune e condotta su vasta scala, ma invece quei terreni si dividono volta per volta tra i singoli interessati; dimodochè la cooperazione non è attiva che nella costituzione della società con tanti piccoli capitali riuniti, e nell’industria pastorale, oppure talvolta anche nel regolamento in comune dell’avvicendamento agricolo su tutta la estensione del latifondo.

Nei contadini siciliani è assai vivo lo spirito di associazione; essi mancano però dell’istruzione e dell’educazione morale necessarie per poter ritrarre dall’associazione tutti i frutti che essa è capace di dare. Anche in occasione della censuazione dei beni ecclesiastici, vi furono esempi di associazioni formate dai contadini per presentarsi all’asta e fare acquisto in comune di grossi lotti di terreno, onde poi repartirli tra i soci in lotti minori([310]).

È dunque lecito lo sperare che in avvenire la cooperazione possa pure esser uno dei mezzi utili per sollevare la condizione del contadino in Sicilia, e ciò specialmente ove si sappia includervi il principio della compartecipazione: quando ciò potesse avvenire, si sarebbe attuata quella forma di soluzione della questione sociale, che i più chiari ingegni ci additano come la sola veramente efficace e che non presenti gravi pericoli per la civiltà. Ma per giungere a tanto ideale, bisognerebbe che prima, coll’introduzione di tutte le forme minori di associazioni di previdenza, si potessero gradatamente educare i contadini a poter tentare utilmente le forme più alte di associazione, sviluppando a poco a poco in loro le necessarie qualità di prudenza, di risparmio e di abnegazione per una causa comune, ed elevandoli ad un certo grado d’istruzione. È evidente poi la necessità del benevolo concorso dei proprietari perchè le associazioni cooperative di produzione di contadini, di qualunque forma esse siano, possano per ora, non che prosperare, nemmeno cominciare.

Qualche esperimento si sarebbe potuto tentare sulle proprietà demaniali, quando alcuna parte di queste si fosse riservata allo Stato per promuovervi qualche istituzione a benefizio delle classi povere; il che, trattandosi di beni già ecclesiastici, non sarebbe stato che di pura equità. Oramai di beni demaniali o ecclesiastici non è più il caso di discorrere; però restano sempre i beni delle Opere pie. La minacciata alienazione di questi, lo ripetiamo, sarebbe a nostro parere una nuova follìa, e che rasenterebbe l’ingiustizia; ed è nel timore che essa abbia luogo, che reputiamo attualmente pericolosa e dannosa ogni avocazione della proprietà di quei beni allo Stato, in cambio di altrettanta rendita da destinarsi agli Istituti pii. Ma avvenga o non una tale avocazione, le proprietà territoriali delle Opere pie non debbono sprecarsi per colmare i deficit del bilancio italiano: esse sono un capitale prezioso con cui, senza perdita per nessuno, si potrebbe iniziare un movimento di completa trasformazione delle condizioni economiche e sociali delle classi agricole, cioè di più di metà della popolazione d’Italia.

L’indole di questo lavoro non ci consente di qui analizzare la natura e i vantaggi della cooperazione, non dovendo noi fare un trattato di Economia sociale, e non potendo d’altra parte supporre il lettore affatto digiuno di tali studi.

 

 

§ 123. — Trades’ Unions di contadini.

Scendiamo dunque senz’altro alla seconda forma di associazione, a quelle che potremmo chiamare associazioni di guerra, e di cui abbiamo il tipo nelle Associazioni di mestieri già note in Italia, e nelle potenti Trades’ Unions inglesi. Queste associazioni, qualunque sieno le forme speciali che rivestano, hanno per primo scopo l’aumento dei guadagni del lavoro, colla forzata diminuzione dei profitti del capitale, o quando prendano per mira l’industria agricola, della rendita del proprietario. L’arme di guerra è sempre lo sciopero organizzato e sostenuto coi denari dell’associazione. La lotta quindi è veramente di capitali contro capitali; ma benchè il capitale dei lavoratori sia evidentemente minimo di fronte a quello dei capitalisti e degl’industriali, non è però da disprezzarsi, perchè tutto quanto destinato al combattimento.

L’azione utile di tali associazioni è stata da molti magnificata, da altri considerata come nulla; ma i migliori scrittori consentono a restringerla ai tre punti seguenti: 1° di poter ottenere dei rialzi di salari — e per salari s’intenda qui qualunque retribuzione del lavoro, sotto qualsiasi forma — qualche tempo prima di quel che non sarebbe avvenuto per la sola forza della concorrenza, spesso lenta nella sua azione; 2° di far profittare i lavoranti di tutti quei rialzi temporanei di profitti del capitale, che avvengono in alcuni rami d’industria di fronte ad altri; 3° di farli profittare dei vantaggi speciali di tutte quelle industrie che godono di un monopolio per circostanze naturali e artificiali, il che, riferito all’industria agricola, significa di far partecipare i lavoranti alla rendita fondiaria.

L’arme comune, come dicemmo, è lo sciopero, la cui azione è resa efficace mediante il raffrenamento della concorrenza, per effetto dell’accordo dei lavoranti nell’associazione: e perchè la concorrenza non venga dal di fuori, le varie associazioni concordano la loro azione, unendosi in consorzi, che possono essere regionali, nazionali e anche internazionali. Le Trades’ Unions — chè così chiameremo queste associazioni, poichè è in Inghilterra che ci si presentano nel loro tipo più perfetto, e colla maggior varietà di applicazioni — le Trades’ Unions possono colla potente loro organizzazione modificare, rispetto al lavoro, le condizioni dell’offerta e della domanda in una regione o anche nell’intiero paese, e ciò sia temporaneamente coll’accordo e col mantenimento di un certo numero di lavoranti a spese dell’associazione, sia permanentemente col promuovere e regolare la emigrazione dei lavoranti: quest’ultima è l’arme più difficile a maneggiarsi, ma più terribile nei suoi effetti.

Noi qui non intendiamo occuparci delle questioni generali intorno all’opportunità e ai pericoli delle vaste organizzazioni dei lavoranti nelle Trades’ Unions, ma ci partiamo naturalmente in tutto il nostro discorso dall’idea fondamentale, che sembra ammessa dal nuovo progetto di Codice penale come approvato dal Senato, non esservi nulla d’ingiusto([311]) nel desiderio del lavorante di ottenere una lira e dieci invece di una lira al giorno per dar da mangiare alla sua famiglia, e nulla di delittuoso nel ricusare ch’egli faccia di lavorare a meno della somma richiesta; purchè, ben inteso, non commetta alcun atto incriminabile, e non adoperi violenze o intimidazioni per ottenere il suo intento o per far scioperare i suoi compagni.

 

Unioni agricole.

Il primo tentativo di una Unione agricola fu fatto a Londra nel 1837 da un contadino di nome George Lowloss; egli però fu messo in prigione, e l’associazione venne disciolta dalle autorità. Nel 1872, mutata la legislazione inglese e le tendenze dell’opinione pubblica riguardo alle società operaie, Giuseppe Arch potè costituire sopra solide basi la Unione Nazionale dei Lavoranti Agricoli, che nel 1874 contava già 86,214 soci paganti, ed aveva un’azione che si estendeva molto al di là di questo numero, e tale che il Cox([312]), per tutte le contee dell’Inghilterra all’infuori di quelle settentrionali, valuta due lavoranti sopra tre come sottoposti all’influenza diretta dell’Unione. A circa 40,000 inoltre ascendeva il numero dei lavoranti agricoli facenti parte della Unione Federale dei Lavoranti, che comprende operai e contadini nelle sue file. Nello stesso 1874 queste Unioni sostennero contro gli affittuari delle due contee di Suffolk e di Cambridge, che coalizzati insieme volevano con un «lock-out» generale schiacciarle per sempre, una lotta di più mesi, mantenendo a spese della cassa sociale migliaia di lavoranti privi di lavoro. La lotta finì, è vero, colla parziale vittoria degli affittuari, riguardo alle questioni speciali delle ore di lavoro e dei salari, ma le Unioni non furono schiacciate, e stanno riorganizzandosi con mezzi più potenti. In quell’occasione esse promossero l’emigrazione per l’America di un grande numero di lavoranti agricoli. Anche in Irlanda esiste una Società Nazionale dei Lavoranti Irlandesi, a cui sono ascritti in gran numero i contadini.

In Italia non sono del tutto ignoti gli scioperi di contadini. Nell’inverno del 1872 avveniva uno sciopero di contadini nel Mantovano: e nel giugno dell’anno scorso (1875) vi furono, per causa della malattia del brusone venuta al riso, per cui i contadini disperavano di nulla ricevere in fin d’anno in compenso delle loro fatiche, numerosi scioperi nel basso Milanese e nel Pavese. In quell’occasione gli affittuari dovettero cedere in gran parte alle richieste dei contadini; si ebbe pure a lamentare qua e là qualche disordine, e non mancarono le indebite pressioni delle autorità sugli scioperanti, con arresti e minacce, per farli recedere dalle loro domande. Questi scioperi però non erano organizzati da alcuna associazione, ma sono sintomi di cui si avrebbe torto di non tener gran conto.

In Sicilia abbiamo di più. Nel settembre 1875 si formò ad Alia e Valledolmo, ma col centro specialmente in quest’ultimo luogo, un’associazione di contadini, che aveva per suo vero scopo d’impedire a tutti gli affiliati di accettare patti gravosi dai gabellotti o dai proprietari. Vi furono però alcuni contadini che cedettero ai padroni, non resistendo alla tentazione di avere così il vantaggio di poter per i primi scegliersi qualche buon appezzamento di terra da coltivare. Di qui minacce e anche qualche violenza per parte di quelli rimasti fedeli all’associazione. Allora intervennero le autorità e l’associazione fu sciolta. Così il movimento finì per allora, avendo pure i proprietari ceduto in alcuni particolari. Negli statuti dell’associazione non si potè trovare nulla d’incriminabile; e i processi si fecero soltanto per i singoli atti di violenza avvenuti. Causa di questo movimento erano stati i patti gravosissimi che i gabellotti imponevano ai contadini, per rifarsi dei forti aumenti di fitto che avevano dovuto sopportare. L’agitazione si estese pure fino a Villalba, dove i contadini si associarono allo scopo di far migliorare i patti, convenendo che dovesse pagare una multa chi prendesse terre a coltivare dai proprietari del luogo. Anche là intervennero le autorità.

Questi fatti sono parziali, e per il momento non hanno una grande importanza pratica, ma non se ne può disconoscere il valore come indizio dell’avvenire, poichè ci mostrano come cominci a nascere nei contadini siciliani la coscienza della loro forza quando operino in comune, e la persuasione di dover aiutarsi da sè e coi mezzi legali. Del resto non vi sarebbe nulla che dovesse spaventarci in un movimento dei contadini che tendesse per mezzo delle associazioni ad ottenere un miglioramento della loro sorte. Se lo Stato e i proprietari non vorranno adoperarsi efficacemente per mutare le condizioni attuali, non resta altra speranza per l’avvenire che in un simile movimento dei contadini stessi; e finchè non si escisse dai limiti della legalità — e la cura di ciò spetta all’autorità giudiziaria — nulla vi sarebbe di illegittimo o di dannoso per il paese in una organizzazione dei lavoranti agricoli onde provvedere alla propria difesa. Crediamo anzi che, per quanto la cosa possa dispiacere a coloro che temono di risentirne qualche diminuzione nelle loro rendite, una tale organizzazione sia l’unico mezzo efficace per persuadere la maggioranza dei proprietari a occuparsi della condizione di chi coltiva le loro terre. Certamente le associazioni di contadini dovrebbero, come qualunque Trade’s Union, esser sempre pronte allo sciopero; e lo sciopero indubitabilmente può sempre produrre un grave danno agli scioperanti, oltrechè ai padroni, e tale che forse qualunque vittoria, qualunque rialzo di salari non basterebbe poi a compensare: ma lo sciopero è come la guerra; è la minaccia di essa che per lo più fa ottenere il vantaggio desiderato; ma perchè la minaccia sia efficace bisogna pure che dietro di essa vi sia la prontezza dell’azione.

 

 

§ 124. — L’emigrazione.

Oltre l’associazione, abbiamo additato l’emigrazione come uno dei mezzi di cui possono valersi i contadini per ottenere un aumento dei loro guadagni, e in genere un miglioramento della loro condizione.

L’emigrazione può aver un’azione molteplice sullo stato economico della classe lavoratrice in un paese: — può diminuirvi permanentemente la concorrenza del lavoro, e così alterarne l’offerta di fronte alla domanda fattane dal capitale, facendo nascere la concorrenza tra capitale e capitale, tra proprietario e proprietario; può colla semplice minaccia di una tale diminuzione indurre gl’industriali capitalisti, e a molto più forte ragione i proprietari, a rinunziare ad una parte di profitti, o rispettivamente di rendita fondiaria, onde non perdere il resto; e può col ritorno degli emigranti che abbiano raccolto qualche gruzzolo di denaro all’estero, e che l’impieghino nell’acquisto di terra, essere il mezzo di creare una classe di contadini proprietari, o per lo meno di formare una classe intermedia tra proprietari e contadini, composta di piccoli commercianti e industriali, per l’azione della quale l’usura anderebbe diminuendo.

Non meno importanti poi degli effetti economici sono quelli morali dell’emigrazione. Essa muta affatto l’ambiente morale per l’emigrante. Se torna, torna uomo, sentendo la propria dignità nel lavoro. Egli ha visto altri climi, altre coltivazioni, altre civiltà; non vive più nell’atmosfera medioevale di prima, e ha il coraggio di lamentarsi e di invocare la giustizia se gli vien fatto un torto. Egli vede uno scampo all’oppressione al di fuori del brigantaggio, dell’assassinio e della ribellione; ed aiuta i compagni ad emigrare e a farsi un peculio col lavoro perseverante.

La questione dell’emigrazione italiana è già stata ampiamente trattata da vari scrittori di vaglia, ma i pareri non furono sempre concordi. Il Virgilio, il Cerruti, il Franchetti, il Tesi ecc., vedono nell’emigrazione il mezzo più sicuro di migliorare le condizioni del lavorante, con vantaggio pure dell’universale, e anche l’Ellena si schiera piuttosto da questa parte. Il Florenzano invece, il Winspeare ed altri, spaventati dalle sofferenze cui spesso vanno incontro gli emigranti, gettano un grido di allarme al vedere l’onda crescente dell’emigrazione italiana. Il Carpi ci ha dato uno studio diligente sull’argomento; che fu pure oggetto di discussione al Congresso degli Economisti che ebbe luogo in Milano nel gennaio del 1875. Il Ministero Minghetti pochi giorni prima della sua caduta, presentò al Senato una legge, con cui si sarebbe data al Governo perfino la facoltà di impedire l’emigrazione, oltre il vincolarla in vari modi; e finalmente una Commissione nominata dal Ministero Depretis, col mandato di studiare l’argomento, concluse che non vi era nulla di nuovo da fare. Si è pure costituita recentemente, con sede centrale a Roma, una «Società di patronato degli emigranti», promossa dagli onorevoli Torelli e Luzzatti e intesa a tutelare, come lo indica il nome stesso dell’associazione, in ogni modo possibile gl’Italiani che emigrano per l’estero, col promuovere inchieste, col reclamare provvedimenti legislativi o governativi sui luoghi di destino degli emigranti.

In questi giorni (settembre 1876) l’apparizione a Genova di più centinaia di contadini colle loro famiglie, che, ingannati da agenti di compagnie o da false notizie, venivano dal Mantovano privi di ogni mezzo di sussistenza, colla lusinga di poter partire per il Brasile, e che dovettero essere rimpatriati a spese delle autorità, ha attirato di nuovo l’attenzione generale sulla questione dell’emigrazione. Abbiamo già detto (§ 105) quale ci pare essere l’ufficio dello Stato e il limite della giusta sua ingerenza di fronte all’emigrazione. Quanto poi alla questione se questa giovi o no alla condizione dei contadini in Italia, già dall’anno scorso([313]) avemmo occasione di dichiararci in tèsi generale per l’affermativa.

In alcuni punti della Basilicata, e del Novarese, nell’alto Comasco, e nel Varesotto, l’emigrazione dei contadini ha già contribuito sensibilmente ad elevare le condizioni della classe agricola; e in queste due ultime regioni a creare una classe numerosa di contadini proprietari.

Nella Valtellina poi l’emigrazione dei contadini ha prodotto una vera rivoluzione sociale. Dalla bella Memoria del Jacini: Sulle condizioni economiche della provincia di Sondrio, scritta nel 1858, si può rilevare a quali tristissime condizioni era ridotta quella regione per l’azione di varie cause, e specialmente per l’imposizione del nuovo censo austriaco, e per la crittogama che aveva rovinato i vitigni. Tutta la classe dei proprietari, che prima viveva di rendita, era rovinata, e i contadini morivano letteralmente di fame. Cominciò allora, per le relazioni di alcuni Valtellinesi con degli Svizzeri, l’emigrazione dei contadini per l’Australia, ed andò poi progressivamente aumentando. Arrivati in Australia quei contadini vivevano sobriamente, e accumulavano in pochi anni qualche migliaio di lire: allora tornavano in patria, e pagavano i loro debiti, restituendo i denari che avevan presi in prestito per poter emigrare. Quindi ripartivano per l’Australia, e riunito di nuovo un piccolo capitale, se ne ritornavano nuovamente in Valtellina, dove compravano le terre che vendevano i proprietari rovinati. Dapprima i prezzi delle terre erano bassi, ma sono sempre andati crescendo: i contadini però badano poco al prezzo, e siccome si prefiggono di lavorare sul proprio, non distinguono nei profitti sperati il salario dal frutto dei capitali, onde impiegano volentieri i loro denari anche all’uno per cento. Si è così formata una classe molto numerosa di contadini proprietari, e la Valtellina sotto questo riguardo somiglia ora in gran parte a un cantone della Svizzera. È accaduta insomma in pochi anni una liquidazione generale, che mediante l’emigrazione oltremare ha salvato quella provincia da una crisi funestissima.

I fatti recenti dell’emigrazione dal Mantovano e dal basso Veronese hanno fatto gridare a molti: — che lo Stato deve provvedere; che convien esigere delle garanzie dagli agenti di emigrazione, e d’altra parte informare gli emigranti di tutti i pericoli e i guai cui vanno incontro; e che società private debbono pure formarsi per meglio tutelarli e dirigerli. — Tutte queste sono cose buone e sante, ma vorremmo che qualcuno si occupasse pure della condizione di quegli infelici nella loro patria, e studiasse le cause che li muovono ad andar incontro a tanti pericoli, e a tanti patimenti. La condizione del contadino del basso Mantovano e del basso Veronese, è delle più infelici; è indegna di esseri umani: — che meraviglia dunque se egli presta l’orecchio ad ogni voce lusinghiera che gli parla di paesi lontani, in cui lavorando potrà guadagnarsi da vivere decentemente, e se va dietro ad ogni più ingannevole miraggio! E quegli uomini egregi che domandano tanti provvedimenti per parte dell’autorità, perchè non vigilano essi a far meglio rispettare le disposizioni dei regolamenti provinciali sulle risaie, a costituire società, a promuovere pubblicazioni che abbiano per iscopo e per obietto di svergognare quei proprietari e quegli affittuari delle più ricche terre d’Italia, che permettono che i coltivatori di esse dormano in abitazioni di fronte alle quali sono palazzi le stalle e perfino i porcili delle loro fattorie? —

Finora in tutta la bassa vallata del Po si osservava come i contadini benchè infelici non emigrassero([314]), e questo fatto veniva addotto a prova che essi erano contenti della loro sorte, e che quella sorte non poteva quindi essere tanto infelice; mentre invece esso altro non dimostra, senonchè lo stato di abiezione e di abbrutimento a cui è ridotta quella povera gente. Ora comincia il movimento nel Mantovano, e Dio voglia che si estenda a tutta la Valle del Po, e in proporzioni tali da costringere i nostri profondi politici a lasciare per un momento le bizantine questioni di organizzazione dei partiti nella Camera, per rivolgere la loro attenzione a quelle che riguardano la salute morale e fisica di milioni di Italiani; e da obbligare i proprietari piemontesi, lombardi e veneti ad occuparsi attivamente della sorte dei loro contadini, quand’anche perciò dovesse apparire qualche equipaggio elegante di meno in Piazza d’Arme o sui bastioni di Porta Nuova, o qualche palco rimanesse chiuso al Teatro della Scala.

 

Emigrazioni periodiche.

Oltre le emigrazioni permanenti, vi hanno le numerose emigrazioni periodiche, anche al di là dei confini del Regno, le quali arrecano tanto giovamento alle popolazioni di parecchie provincie dell’Alta Italia, e specialmente agli abitanti delle Alpi e delle prealpi. La sola provincia di Udine contava nel 1872 circa 22,000 persone le quali andavano a lavorare durante l’estate all’estero per poi tornare a passar l’inverno presso le loro famiglie, che nutrivano coi risparmi guadagnati fuori. Nella provincia di Belluno l’emigrazione periodica per l’estero sommava in quello stesso anno a circa 10,000 individui; in quella di Como a più di 5000, di Torino a circa 7000, di Bergamo a circa 2000([315]). Se il Governo volesse in qualunque modo inceppare l’emigrazione, come potrebbe distinguere quella periodica e di breve durata da quella a lungo termine o permanente? E inceppando la prima ridurrebbe alla disperazione una numerosa popolazione che vi trova regolarmente i mezzi di sussistenza, e toglierebbe allo Stato una larga fonte di ricchezza.

Come apprezzamento generale sull’emigrazione dei contadini italiani, ci contentiamo di riportare il giudizio che ne dà una mente acuta, spassionata e temperata come quella dell’Ellena([316]). Egli così scrive: «Guardando particolarmente all’Italia, l’emigrazione può esser considerata con favore, anche per un altro rispetto. Abbiamo avvertito che le relazioni tra i proprietari di terre ed i fittaiuoli da una parte, e i lavoratori dall’altra, sono stabilite talvolta in maniera poco umana e non senza ragione s’invocano leggi che, a somiglianza di quelle adottate per l’Irlanda, allontanino i pericoli che da questa condizione di cose possono scaturire. Ma quando udiamo i proprietari di terre lagnarsi della mancanza di braccia cagionata dall’emigrazione e alcune rappresentanze (le Camere di commercio di Catanzaro e di Foggia ad esempio) chiedere che si impedisca l’emigrazione, noi intravediamo in essa la possibile risoluzione di un problema gravissimo. E ci pare che, se i proprietari cominceranno a temer davvero di perdere i servi della gleba, si indurranno a mostrarsi più generosi». Ed altrove([317]): «Del resto quel pubblico che forma la sua opinione con la lettura dei giornali, non bada che alle sciagure dell’emigrazione di cui si ingemmano i Fatti diversi; ma raramente pondera se sian l’eccezione o la regola. Invece le classi che forniscono più largo contingente all’emigrazione si fondano, quando non sono sedotte da disonesti agenti d’emigrazione, sulle notizie personali degli emigrati e, diciamolo pure, sono meglio informate».

 

 

§ 125. — Emigrazione dalla Sicilia.

Ma veniamo alla Sicilia. Si calcolava che nel 1871, degli Italiani all’estero soltanto il 3,36% fossero Siciliani([318]); e il Bodio ritiene che su 100 abitanti della Sicilia non si avesse che la proporzione di 0.54 emigrati. Inoltre su 100 emigrati siciliani egli calcolava che 26,46 fossero sparsi in Europa, 8,40 in America, 3,26 in Asia, 61,12 in Africa, 0,76 in Oceania. L’emigrazione dalla Sicilia pel Levante e per l’Egitto si fa più specialmente dal porto di Messina, quella per Tunisi e l’Algeria da Trapani, e per l’America del Nord da Palermo e da Messina. Gli emigranti per l’America del Sud, che si potranno valutare a circa un decimo dell’intiero numero, passano per Genova. Da Palermo nel 1871 emigravano per l’America del Nord, con passaporto regolare, 277 persone; nel 1872, 139; nel 1873, 200; nel 1874, 41; nel 1865, 164([319]). Nei registri del Porto non si tien conto nè della professione, nè del sesso, ma si può ritenere approssimativamente che quattro quinti degli emigranti dal Porto di Palermo siano contadini provenienti dall’isola di Ustica, da Contessa e da altri paesi dell’interno, ed un quinto operai e artigiani di Palermo. Anche dal porto di Trapani l’emigrazione è composta per la maggior parte di contadini; mentre in quella da Messina predominano di molto gli artigiani ed operai delle città([320]).

I contadini non emigrano sempre colle loro famiglie, e soltanto un sesto del numero sarà di donne. Quelli che vanno in Tunisi e nell’Algeria portano spesso seco l’aratro ed altri arnesi campestri. L’emigrazione per gli Stati Uniti d’America che parte da Palermo, si dirige specialmente alle città di Nuova Orleans, Louisville ed altre degli Stati del Sud.

Per il 1872 il Carpi valuta a 1300 gli emigranti con passaporto regolare dalle sette provincie di Sicilia. A questa cifra bisognerebbe pure aggiungere quella dell’emigrazione clandestina, a precisare la quale ci manca ogni dato.

Da ciò apparisce abbastanza come l’emigrazione dei contadini siciliani si mantenga ancora in proporzioni minime; ma nulla ci assicura che la corrente non abbia a crescere nell’avvenire. Basta considerare come la provincia di Potenza, che nel 1869 non forniva in tutto che 369 emigranti, nel 1871 già ne dava 1439, compresavi l’emigrazione clandestina, e nel 1872 fino a 5654 di soli emigrati con passaporto regolare, oltre gli emigrati clandestini, i quali già nel 1870 si valutavano a 416 individui([321]). Nè ci pare buona la ragione che si dà di solito per negare la possibilità di un forte aumento dell’emigrazione dalla Sicilia, quella cioè dell’attaccamento speciale degl’isolani per la terra che li vide nascere. Guardate l’Inghilterra che ha colonizzato Continenti intieri; guardate l’Irlanda che in pochi anni vide diminuire la sua popolazione di circa un quarto pel solo fatto della emigrazione; e se volete un esempio siciliano, guardate l’isola d’Ustica, dove l’emigrazione per le Americhe cominciata circa 25 anni fa, dà ora un contingente di circa 80 persone all’anno sopra una popolazione complessiva di 1446 abitanti([322]).

Non crediamo affatto improbabile che da un momento all’altro si vegga nascere una forte corrente di emigrazione per l’estero nel contadiname dell’interno della Sicilia; e una volta avviata nessuno potrebbe predire in quali limiti si conterrebbe. Ma dato che ciò si verifichi, sarà un male o un bene per l’Isola in generale, e per la classe agricola in particolare? Non havvi il pericolo che i proprietari, vedendo crescere smisuratamente il prezzo della mano d’opera in conseguenza dell’emigrazione, non lascino incolte le loro terre, anzichè sottostare alle soverchie esigenze dei lavoranti? —

Certamente il nostro catasto, come già avemmo occasione di dire, tende a dare un premio al proprietario che coltiva male i suoi fondi, aggravando invece chi v’impiega stabilmente i propri capitali: certamente le condizioni del suolo di una gran parte della Sicilia, sono, per la mancanza appunto di ogni capitale che vi sia stato impiegato in modo fisso, tali da render eccezionalmente facile ai proprietari la lotta contro i lavoranti; poichè essi sono sicuri di nulla perdere al di là della rendita annua per il tempo in cui durano le ostilità, nè hanno grandi capitali esposti e soggetti a perire per ogni temporanea sospensione di lavoro: — tutto ciò è vero, ma riteniamo nonostante che l’emigrazione riuscirebbe nel fatto un’arme efficace per migliorare le condizioni del lavoro, senza che si dovesse temerne l’abbandono delle colture per parte dei proprietari.

Perchè un tale abbandono si verificasse, non diciamo come cosa temporanea e come arme di guerra, ma in modo durevole, bisognerebbe che il rincaro del prezzo del lavoro giungesse a tanto da coprire tutta quanta la rendita fondiaria, che ora va al proprietario all’infuori del profitto dell’industria agricola esercitata dal gabellotto. Finchè ciò non avvenga vi sarà sempre il profitto ordinario per l’industria agricola e quindi vi saranno pure tutte le ragioni per cui debba convenire ai proprietari di coltivare i loro fondi. Essi e gli affittuari cercheranno bensì di introdurre tutti quei sistemi di coltivazione e tutte quelle macchine, che possano rendere meno urgente il bisogno delle braccia nell’agricoltura, ma da ciò non ne verrà alcun danno alla produzione, anzi il contrario.

L’emigrazione, come arme di guerra per i contadini, ha di fronte ad ogni loro associazione che abbia per iscopo di limitare artificialmente la concorrenza, questo speciale vantaggio — che mentre l’associazione perde una gran parte delle sue armi là dove, come nei latifondi siciliani, non vi è quasi alcun capitale fisso che possa deperire per effetto della sospensione dei lavori, onde i proprietari possono facilmente e con piccola perdita resistere a qualunque sciopero, essendo di loro interesse il rinunziare alla rendita di qualche mese, piuttostochè compromettere l’avvenire; l’emigrazione invece col modificare permanentemente o almeno per lungo tempo la concorrenza dei lavoranti, toglie ogni ragione per cui i proprietari non abbiano a cedere subito tutto quanto possono cedere: essi anzi avranno interesse diretto a cedere quanto più presto potranno, onde opporre subito un argine al crescere dell’emigrazione. Naturalmente ove l’emigrazione aumentasse in Sicilia, la prima cosa che farebbero i proprietari sarebbe non di cercar di migliorare la sorte dei contadini per tenerli a casa, ma invece, come si comincia a vedere in Lombardia, di gridare che il paese va in rovina, e di reclamare dallo Stato che provveda a salvare i loro interessi e a frenare la corrente dell’emigrazione; ma poi, esaurito questo primo mezzo senza aver ottenuto nulla, provvederebbero da sè ai casi loro, col migliorare le condizioni dei coltivatori delle loro terre.

 

 

§ 126. — Associazioni di previdenza.

Detto così dei mezzi che possono avere i contadini per aumentare i loro guadagni, ci resterebbe ora da parlare dell’istruzione e dell’associazione, come i mezzi con cui essi potrebbero far meglio valere i guadagni stessi.

Dell’istruzione abbiamo già parlato più volte, e l’argomento è di per sè stesso così chiaro che non crediamo necessario di aggiungere qui altre parole in proposito.

Le associazioni di cui qui si tratterebbe sono tutte quelle di previdenza, come le società di mutuo soccorso per mancanza di lavoro, per malattia, o per vecchiaia, le casse di risparmio, le assicurazioni mutue dalle perdite nel bestiame, le assicurazioni dal fuoco, e di più tutte le associazioni cooperative di credito e di consumo. L’argomento, come si vede, è vasto; ma noi non ci tratterremo sopra di esso, non perchè manchiamo di apprezzarne tutta l’importanza, ma perchè non potremmo dire in proposito nulla che avesse tratto più specialmente alla Sicilia che a qualunque altro luogo, onde preferiamo rinviare il lettore a tutte quelle pubblicazioni che trattano ex professo di codeste questioni([323]).

In Sicilia il terreno è adatto all’introduzione delle varie forme di associazioni di previdenza: lo spirito di associazione è vivo, e già in parecchi luoghi si trovano società operaie con scopi di mutuo soccorso: ad esse sono spesso pure ascritti dei lavoranti agricoli. Ci è parso però di rilevare dalle informazioni che potemmo raccogliere in proposito, che un difetto generale di codeste società è quello di non aver fatto bene i calcoli nel proporzionare le entrate alle spese eventuali, e di promettere imprudentemente ai soci più di quanto sarà possibile di sempre mantenere. Questo difetto però non sarebbe proprio delle sole società siciliane, e lo crediamo comune alla maggior parte delle società di mutuo soccorso esistenti in Italia.

La maggior parte delle accennate forme di associazioni di previdenza potrebbe attuarsi anche ora, senza che perciò si richieda una preventiva trasformazione radicale delle condizioni dei contadini: alcune però, come per esempio le società di assicurazione contro le perdite nel bestiame, e in certa misura anche le casse di risparmio presuppongono delle circostanze di fatto che non esistono fuorchè in alcuni luoghi.

Alla creazione in Sicilia di tutte siffatte società di contadini, e specialmente di quelle cooperative di consumo, come pure delle biblioteche popolari, può giovare moltissimo l’attuale agglomeramento della popolazione agricola nelle città, nei borghi, e nei grossi villaggi, ossia quella stessa condizione che abbiamo tante volte e per tanti riguardi avuto occasione di deplorare nel corso dei nostri studi. La pratica effettuazione però di tali istituti, e le loro probabilità di vita prospera, dipendono ora quasi del tutto dal benevolo concorso dei proprietari e delle persone appartenenti alla classe civile; — ecco qui dunque aperto a tutti gli uomini di mente e di cuore, un largo campo dove possono adoperare la loro attività a pro dei loro concittadini, sicuri allo stesso tempo di giovare a sè ed al paese; senza correr rischio alcuno di vedersi affibbiare la taccia di sognatori, di rompicolli, o di socialisti di cattedra o di pancaccio.


 

 

Capitolo IV.

 

CONCLUSIONE

 

 

 

§ 127. — Argomento.

Siam giunti al termine del cómpito prefissoci. Abbiamo descritto la condizione dei contadini siciliani; abbiamo analizzato gli effetti economici dei contratti agricoli; ed abbiamo infine accennato ai principali rimedi di cui possono e dovrebbero valersi lo Stato, i proprietari, i contadini stessi. Aggiungeremo poche considerazioni generali intorno alla questione agraria in Sicilia e in tutta Italia, prima di prendere commiato dal cortese lettore.

 

Il feudo e il diritto di proprietà privata del suolo.

Quando in Germania fu abolita la feudalità si provvide per legge nella maggior parte degli Stati a che la proprietà del suolo restasse ai coltivatori che l’occupavano da secoli, facilitando loro, con opportune disposizioni legislative e con speciali istituzioni di credito, l’affrancamento delle terre da ogni prestazione già dovuta al feudatario.

In Francia accadde un fenomeno simile nell’ultimo decennio del secolo scorso, ma colla differenza che la sostituzione del contadino al feudatario come proprietario del suolo, fu operata per mezzo di una confisca generale fatta dallo Stato di tutti i beni feudali.

In Inghilterra e in Irlanda la cosa andò diversamente. I signori restarono padroni della terra, legati sì nella loro proprietà da moltissimi vincoli, ma pur proprietari. La conseguenza n’è stata la condizione infelicissima della classe dei contadini, condizione che in Irlanda era perfino divenuta cagione di gravi pericoli per lo Stato. Il Land Act per l’Irlanda del 1870 è stato un primo passo fatto dall’Inghilterra sopra una via opposta a quella seguìta fino allora; e tende apertamente a dare al coltivatore almeno un diritto di proprietà limitata sulla terra che lavora.

In quelle provincie d’Italia dove più viva si era mantenuta la tradizione medioevale, e specialmente nella Sicilia dove l’ordinamento feudale durò intiero e rigoglioso fino al 1812, l’abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perchè i feudi, all’infuori delle sole terre che erano state regolarmente date in enfiteusi, furono lasciate in libera proprietà agli antichi Baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo, che prima era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì come altrove l’altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggior schiavitù di prima per effetto della propria miseria.

Si deplora in generale che la rivoluzione francese non abbia fatto sentire il suo soffio vivificatore in Sicilia, e il pensiero è giusto, ma quel che è quasi più ancora da deplorarsi è che la Sicilia abbia iniziato le sue riforme liberali sotto l’influenza inglese in un momento in cui in tutta Europa risorgeva più potente lo spirito di reazione, e il medioevo sembrava dover rivivere. L’atmosfera era già viziata, quando i petti siciliani si allargarono ai primi respiri di libertà, e le maggiori riforme civili furono introdotte nell’Isola per opera di un Borbone, in tempo di completa reazione. Che maraviglia dunque se le oppressioni di classe su classe si mantennero! e se nel 1860 vi trovammo con leggi moderne, costumi e tradizioni medioevali!

 

 

§ 128. — Effetto delle istituzioni libere dopo il 1860.

E quel che trovammo nel 1860, dura tuttora. La Sicilia lasciata a sè troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione, e l’immensa ricchezza delle sue risorse. Una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi, Italiani delle altre provincie, impediamo che tutto ciò avvenga. Abbiamo legalizzato l’oppressione esistente; ed assicuriamo l’impunità all’oppressore.

Nelle società moderne ogni tirannia della legalità è contenuta dal timore di una reazione all’infuori delle vie legali. Orbene, in Sicilia colle nostre istituzioni, modellate spesso sopra un formalismo liberale anzichè informate a un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l’oppressione di fatto che già prima esisteva, coll’accaparrarsi tutti i poteri mediante l’uso e l’abuso della forza che tutta era ed è in mano sua; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla, che, a qualunque eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può essere, poichè la legalità l’ha in mano la classe che domina.

 

Sintomi minacciosi.

Eppure nel 1860, in mezzo a tutto l’entusiasmo della riscossa nazionale, accaddero qua e là in Sicilia fatti che avrebbero dovuto insegnarci dove era più profonda la piaga, e dove quindi conveniva far convergere l’azione dei rimedi. Le cruente sollevazioni di Pace, di Collesano, di Bronte e di molti altri luoghi, dove al grido di Abbasso i sorci, le turbe di contadini davano addosso ai proprietari e a chiunque apparteneva alla classe agiata, avevano un carattere sociale abbastanza spiccato, per essere indizio di un male profondo, e che meritava d’essere preso in maggior conto. Si fece bene in allora di reprimere violentemente quei moti violenti, ma, ristabilito l’ordine, conveniva pensare a curare il male nel suo germe, e ciò non fu fatto punto. La censuazione dell’asse ecclesiastico, il solo provvedimento tra quelli presi che poteva giovare al contadino siciliano, fu un’operazione finanziaria, fatta con scopi finanziari, e che perciò non mutò affatto l’economia agraria dell’Isola: il resto è polvere negli occhi.

I sintomi del morbo non mancano. Nel 1865 vi furono disordini a Canicattini: e nel marzo di quest’anno (1876), a Grammichele, uno stuolo di contadini dètte l’assalto al Casino dei «galantuomini», e uccise e ferì parecchi tra questi. La causa occasionale del movimento fu la voce che i signori si fossero messi d’accordo per l’appalto del dazio consumo a danno dei contadini; ma la ragione vera erano l’odio e la mutua diffidenza tra le due classi. E come indizi dell’avvenire, più rassicuranti di quelli già riferiti, ma pur pericolosi, si possono citare i fatti a cui accennammo di Valledolmo e di Villalba, e l’associarsi di quei contadini per meglio organizzare la lotta contro il capitale.

E più si spargerà l’istruzione nella classe dei contadini, e più acuto diventerà il male, e più urgente sarà il bisogno di rimediarvi, imperocchè coll’istruzione il contadino acquista una più chiara coscienza della sua condizione, senza poterla perciò mutare da solo, fuorchè con mezzi lenti e incerti.

 

 

§ 129. — Doveri della classe agiata.

Spetta dunque alla classe agiata di mostrarsi veramente la più civile e la più colta, con lo studiare attentamente le questioni sociali, e coll’informare sempre la propria condotta, nei rapporti colla classe che vive del lavoro delle proprie mani, ai sentimenti di equità e di rispetto della dignità umana. Sarebbe questa la via più sicura per arrivare ad una soluzione graduale di ogni questione sociale, ma disgraziatamente non vi ha gran ragione di sperare che sia questa la via che verrà seguìta.

Le nostre classi agiate sono corrotte: — parliamo di tre quarti d’Italia e non della sola Sicilia. La corruzione si ritrova pure in basso negli strati inferiori della società, ma là si tratta di materia grezza; è la barbarie dei popoli primitivi. In alto invece troviamo la corruzione della decadenza e della decrepitezza, di una civiltà vecchia ed infeconda come quella del Basso Impero; ed ora il popolano che si elevi isolatamente ad un gradino più alto della scala sociale, entra pur troppo in un ambiente più corrotto di quello che ha lasciato.

È folle impresa il voler fondare una civiltà sul solo sentimento dell’interesse individuale, e ciò per quanto si voglia far la distinzione sottile di un interesse individuale ben inteso, il quale si sostituisca ad ogni istinto di socievolezza: si avrà un aggregato d’individui senza cemento alcuno tra le parti, e pronto a sfasciarsi alla minima scossa; non si avrà mai una società. Nell’animo umano due sono gl’istinti dominanti: l’uno puramente individuale, l’io puro e semplice; l’altro un istinto di socievolezza, che subordina il piacere proprio al benessere altrui, e che spinge al sacrificio di sè per gli altri. Il Cristianesimo volle, per reazione contro l’utilitarismo pagano, fondare la società umana sul solo sentimento del sacrificio; e fu un sogno: ma sogno è pure il volerle dare per unica base l’egoismo individuale. Ogni progresso dipenderà dalla conciliazione di questi due termini. Quando si esageri, come si fa ora, l’importanza sociale dell’egoismo individuale, nasce da sè, per l’istinto di conservazione della società umana, il bisogno di affidare, come correttivo, alle mani di qualche potente istituzione accentratrice, come già la Chiesa ed ora lo Stato, la cura di vigilare sugli interessi comuni e di salvare la società dallo sfacelo: — ma ogni simile correttivo è insufficiente a dar vita ad un corpo che si decompone, poichè siffatte istituzioni, per quanto potenti, sono macchine anzichè organismi, e non potranno mai sostituirsi all’azione dell’individuo. Se questa manca, se tra gl’individui non vi è che lotta ed inimicizia, nello Stato non vi può essere altra pace che quella dell’immobilità e della morte.

 

 

§ 130. — La questione sociale in Italia.

E non ci si dica che in Italia una questione sociale non esiste nelle campagne. Senza fermarci sulla condizione abiettissima del contadino della Valle del Po, del contadino della Campagna romana, di quello della Basilicata e degli Abruzzi, e dell’interno della Sicilia, non esitiamo a dichiarare, che dovunque e fintantochè l’esistenza materiale delle famiglie dedite all’agricoltura dovrà trovarsi costantemente in pericolo e alla mercè delle altre classi, per qualunque ordinario difetto di raccolte o disgrazia che avvenga, e che d’altra parte questi difetti e queste disgrazie siano avvenimenti che si possono considerare come normali e periodici, poichè si ripetono costantemente in un breve periodo di anni, la questione sociale c’è; e deve formare obietto dei nostri studi, ammenochè l’Economia politica si voglia trasformare da scienza della ricchezza, a scienza per la ricchezza([324]).

 

 

§ 131. — L’Economia politica e le questioni Siciliane.

Ma chiediamo scusa al lettore di questa digressione, e torniamo alla Sicilia. Se insistiamo sulla necessità di provvedervi ad una più equa distribuzione della ricchezza tra le varie classi, e al miglioramento della condizione dei contadini, non è che noi crediamo che quando si fosse provveduto a questo soltanto, si dovesse perciò subito veder mutare i costumi e le tradizioni; che i delitti, gli odii e le mafie sparirebbero, e che sarebbe per tornare il rispetto della legge per parte dei grandi come dei piccoli, dei forti come dei deboli. Molto però si sarebbe ottenuto in questo senso; e al resto dovrebbe provvedere e l’aumento della produzione generale, e le riforme in altri rami del vivere civile.

L’Economia politica non ha mai preteso di spiegare tutto. Il desiderio della ricchezza non è il solo movente delle azioni umane, e per mutate circostanze di un altr’ordine lo stesso istinto produttore, che risulta dall’azione del libero interesse individuale, può trasformarsi in istinto predatore([325]). La scienza sociale deve tener conto, per spiegare i fenomeni che presenta la società umana, di ogni elemento più vario che può far deviare l’azione di una stessa forza. Così l’Economia politica potrebbe, dal solo esame delle condizioni economiche locali, arguire che nell’agro palermitano le condizioni di sicurezza, ecc., debbano essere migliori che nel Siracusano; eppure altre forze potrebbero invertire come in realtà invertono il risultato; ma non per questo l’Economia politica avrebbe avuto torto o sarebbe da ritenersi come studio inutile. Così vediamo paesi in cui, come in Inghilterra, la legislazione è per alcuni riguardi patentemente cattiva, e contraria nelle sue tendenze alle condizioni generali della civiltà nazionale, eppure esser quegli stessi paesi molto più avanzati e sanamente costituiti di altri dove le leggi sono buone: ma non si potrebbe perciò dire che ogni scienza delle leggi sia falsa o inutile. In ogni applicazione pratica dei principii di una sola delle scienze morali non si potrà mai giungere a spiegare tutti quanti i fenomeni sociali; vi rimarrà sempre, come nel crogiuolo del chimico, un residuo non spiegato: e per analizzare questo residuo, prodotto dall’azione di altre forze, dobbiamo aver ricorso ad altre scienze, ad altri principii. La legislazione, l’amministrazione, l’istruzione, l’educazione, debbono pure adattarsi meglio in Sicilia alle condizioni locali, e possono giovare a ridestare energie nascoste, e a meglio dirigere quelle esistenti.

Abbiamo finito. Per quanto noi potessimo illuderci sull’utilità pratica degli studi intrapresi, non ci potremmo del resto mai lusingare di ottenere, neanche nella stretta cerchia economica, resultati immediati e sensibili. Con buona pace del poeta, i libri non rifanno la gente; e se col nostro fossimo giunti ad attirare sulle questioni che abbiamo trattate l’attenzione di un solo pensatore, se a persuadere un solo proprietario a introdurre dei miglioramenti nei suoi contratti coi contadini, o a costruire una sola casa colonica di più, non riterremo sprecata l’opera nostra([326]).


 

 

Capitolo supplementare.

 

IL LAVORO DEI FANCIULLI NELLE ZOLFARE SICILIANE

 

 

 

§ 132. — Argomento.

Non tratteremo nelle seguenti pagine delle zolfare siciliane dal punto di vista puramente economico o industriale, ma da quello umanitario, dicendo più specialmente del lavoro dei fanciulli che vi sono impiegati. Il nostro intento è soltanto di recare una testimonianza di più a schiarimento dei termini di fatto di una questione già stata dibattuta nei giornali, e che il maledetto spirito di partito, che tutto infesta in Italia, ha fatto il possibile per intorbidare. Siamo giunti a questo; di vedere un partito che si dice progressista e democratico, adoperarsi a tutt’uomo a soffocare una questione umanitaria, e ciò per la buona ragione che prime ad inalzar la voce a difesa degli oppressi furono persone appartenenti al partito politico opposto. Esporremo soltanto e senza commenti i fatti che abbiamo veduto coi nostri occhi in parecchie miniere grandi e piccole situate in luoghi diversi delle due provincie di Girgenti e di Caltanissetta, fatti che possiamo attestare a quei partigiani esagerati della scuola economica che prende nome da Adamo Smith, i quali per amore dei principii assoluti ed a priori, negano che avvenga o che sia nemmeno possibile che avvenga, quello che avviene ogni giorno in centinaia di miniere al cospetto di tutti, e che in Sicilia non è ignorato da nessuno.

 

Le zolfare in Sicilia.

Le miniere di zolfo in Sicilia variano moltissimo le une dalle altre per il numero, la lunghezza e la profondità delle gallerie di estrazione, a seconda delle grandi varietà di giacimento degli strati del minerale, e anche dello sminuzzamento della proprietà del suolo alla superficie. I metodi però di estrazione dello zolfo sono simili in quasi tutte le miniere, ed eguale è pure la condizione dei minatori, tanto uomini che ragazzi, così nelle zolfare grandi come nelle piccole. Solo in alcune poche e grandissime, si sono scavati pozzi verticali di estrazione per tirar fuori il minerale con macchine di vario genere; e talvolta pure vi si vede qualche rara galleria a leggiero declivio, per cui si estrae il minerale sopra carrette che corrono su rotaie, e che sono o spinte a braccia, o mosse per trazione funicolare da argani situati alla bocca della miniera.

 

Impiego dei fanciulli.

Però anche nelle zolfare dove l’estrazione del minerale fino alla bocca della miniera si faccia in tutto o in parte con mezzi meccanici, il lavoro dei fanciulli si adopera per il trasporto dello zolfo dalle gallerie di escavazione fino al punto dove corrisponde il pozzo verticale o la galleria orizzontale; come pure sopra terra per il trasporto del minerale dal luogo ove resta ammucchiato in casse, fino al calcarone, ossia la fornace dove vien fuso. In moltissime gallerie però di queste stesse grandi miniere, e in genere in tutte le altre zolfare della Sicilia, il lavoro di fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena, del minerale in sacchi o ceste, dalla galleria dove viene scavato dal picconiere, fino al luogo dove all’aria aperta si fa la basterella delle casse dei diversi picconieri, prima di riempire il calcarone([327]).

 

Contratti coi picconieri.

Il lavoro dei picconieri, cioè dei minatori che col piccone rompono la roccia che contiene lo zolfo, viene pagato a fattura, ossia a tanto per cassa, il picconiere dovendo consegnare il minerale sopra terra nella prossimità dei calcaroni, e ammucchiato sul luogo che gli vien designato dai capimastri della zolfara. Nelle zolfare maggiori l’amministrazione tratta però generalmente non coi singoli picconieri, ma con dei capipartito o partitanti; i quali alla loro volta stipulano patti diversi coi singoli picconieri. A questi partitanti si concede pure talvolta oltre il prezzo convenuto per le casse di minerale, una compartecipazione nello zolfo che si ritrarrà da quelle casse, finita la fusione nel calcarone. Ciò si fa per poter diminuire le spese di sorveglianza ed evitare le frodi, sia nella qualità del minerale di cui si formano le casse, sia nel modo di ammucchiarlo per aumentarne apparentemente la quantità. Il partitante dà ai singoli picconieri lo stesso acconto che riceve lui sulle casse di minerale, riservando per sè il guadagno della compartecipazione nello zolfo fuso; o più spesso dà loro qualcosa di meno anche sul prezzo delle casse; oppure li paga a giornata, ma calcolando questa a tanti viaggi di ragazzo. Con quest’ultimo mezzo egli può meglio sindacare la quantità e la qualità del minerale che produce ogni picconiere, poichè volta per volta esamina la cesta del ragazzo, e lo rimanda indietro quando il contenuto non sia di sua soddisfazione: è poi naturalmente il ragazzo quello che ne busca.

 

 

§ 133. — Il lavoro dei carusi.

Comunque sia di ciò, o che il padrone della miniera tratti direttamente coi picconieri, oppure coi partitanti, è sempre il picconiere che pensa a provvedere i ragazzi necessari per eseguire il trasporto del minerale da lui scavato, fino a dove si formano le casse. Ogni picconiere impiega in media da 2 a 4 ragazzi. Questi ragazzi detti carusi, s’impiegano dai 7 anni in su([328]); il maggior numero conta dagli 8 agli 11 anni.

Essi percorrono coi carichi di minerale sulle spalle le strette gallerie scavate a scalini nel monte, con pendenze talora ripidissime, e di cui l’angolo varia in media dai 50 agli 80 gradi. Non esiste nelle gallerie alcuna regolarità negli scalini; generalmente sono più alti che larghi, e ci posa appena il piede. Le gallerie in media sono alte di circa metri 1.30 a metri 1.80, e larghe da metri 1 a metri 1.20, ma spesso anche meno di metri 0.80([329]); e gli scalini alti da metri 0.20 a 0.40; e profondi da metri 0.15 a 0.20.

I fanciulli lavorano sotto terra da 8 a 10 ore al giorno, dovendo fare un determinato numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalla galleria di escavazione fino alla basterella che vien formata all’aria aperta. I ragazzi impiegati all’aria aperta lavorano 11 a 12 ore. Il carico varia secondo l’età e la forza del ragazzo, ma è sempre molto superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età, senza grave danno alla salute, e senza pericolo di storpiarsi. I più piccoli portano sulle spalle, incredibile a dirsi, un peso di 25 a 30 chili; e quelli di sedici a diciotto anni fino a 70 e 80 chili([330]).

Ogni viaggio comprende l’andata e il ritorno. Il numero dei viaggi che fa ogni ragazzo in un giorno varia molto, secondo le profondità così diverse delle miniere e delle gallerie. Citiamo un esempio, che togliamo a caso dai molti che abbiamo appuntati. A G.... visitammo una galleria di 44 metri di profondità verticale sotto il livello della bocca d’entrata. Per portar fuori il minerale i ragazzi percorrono 100 metri sotto terra, e 50 metri all’aria aperta. La discesa è in alcuni punti ripidissima, la galleria stretta, e gli scalini dei più incomodi. Un ragazzo fa in media 29 viaggi al giorno. La miniera essendosi incendiata([331]), il calore dell’aria nel punto dove si raccoglie lo zolfo è di 38° Réaumur. Assai spesso però la lunghezza del percorso giornaliero è molto superiore a quella che appare da questo esempio, nel quale l’altezza della temperatura nell’interno della miniera rende la fatica maggiore.

Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni sarà di L. 0.50, dei più piccoli e deboli L. 0.35; i ragazzi più grandi, di sedici e diciotto anni, guadagnano circa L. 1.50, e talvolta anche L. 2 e 2.50.

La vista dei fanciulli di tenera età, curvi e ansanti sotto i carichi di minerale, muoverebbe a pietà, anzi all’ira, perfino l’animo del più sviscerato adoratore delle armonie economiche. Vedemmo una schiera di questi carusi che usciva dalla bocca di una galleria dove la temperatura era caldissima; passava i 40° Réaumur. Nudi affatto, grondando sudore, e contratti sotto i gravissimi pesi che portavano, dopo essersi arrampicati su, in quella temperatura caldissima, per una salita di un centinaio di metri sotto terra, quei corpicini stanchi ed estenuati uscivano all’aria aperta, dove dovevano percorrere un’altra cinquantina di metri, esposti a un vento ghiaccio.

Altre schiere di fanciulli vedemmo che lavoravano all’aria aperta trasportando il minerale dalla basterella al calcarone. Là dei lavoranti empivano le ceste e le caricavano sui ragazzi, che correndo le traevano alla bocca del calcarone, dove un altro operaio li sorvegliava, gridando questo, spingendo quello, dando ogni tanto una sferzata a chi si muoveva più lento.

Ma lasciamo di dire di tali scene dolorose che pur si rinnuovano ad ogni passo, e torniamo alle cifre e ai fatti generali.

Un picconiere guadagna in media da 3 lire a 3.50 al giorno, pagate tutte le spese che a lui competono, di illuminazione, di salari ai ragazzi, ecc. In generale i partitanti anticipano un centinaio di lire ad ogni picconiere, il quale non essendo mai in grado di renderle, rimane sempre in uno stato di soggezione e di dipendenza di fronte al suo creditore. I picconieri alla lor volta nell’impegnare i ragazzi anticipano loro spesso una trentina di lire che vengono prese dalle famiglie, le quali pure non sono mai in grado di restituirle, onde il ragazzo rimane nelle mani del picconiere in una vera condizione di schiavitù. Se scappa, vien ripreso e riconsegnato al suo padrone, il quale può farne quello strazio che crede. Di quello che accade poi d’immoralità e di turpitudini in condizioni siffatte, in mezzo a gente viziata, corrotta e brutale come la classe degli zolfatari, non diciamo parola, perchè ci ripugna fermarci sopra il pensiero; il lettore potrà figurarselo da sè.

Alcuni ragazzi sono figli degli zolfatari: sono questi i meglio trattati, e guadagnano più degli altri. Molti sono orfani o figli naturali, e sono i peggio trattati, perchè privi di ogni difesa. Gli altri sono figli di contadini.

Nelle miniere lontane dai paesi gli operai dormono sopra luogo da lunedì a sabato in appositi stanzoni, coricandosi sulla paglia; uomini e bambini insieme. I ragazzi non mangiano che pane solo: soltanto quando vanno a casa vi ricevono qualche minestra. Portano con sè da casa il pane per mezza settimana; e il quarto giorno tornano a casa a prendersi il pane, partendosi la mattina prima dell’alba per non perdere la giornata.

Da vari capimastri, assistenti, e dagli zolfatari stessi siamo stati assicurati che un gran numero di bambini si ammala, e molti crescono su curvi e storpi: vanno specialmente soggetti alle ernie, e non è da meravigliarsene, visti i pesi che portano. Avendo noi chiesto a un picconiere, un bell’uomo robusto, che ci confermava questi fatti, come mai egli avendo lavorato da bambino nelle zolfare, si fosse conservato sano e vigoroso, ci rispose che essendo figlio unico di uno zolfataro, aveva lavorato presso suo padre, il quale aveva sempre avuto qualche riguardo per lui.

Spesso l’aria nelle gallerie è viziata dall’idrogeno solforato e da altri gas deletèri o irrespirabili; ogni lavoro continuato in quegli ambienti poco ventilati, diventa allora assai nocivo alla salute degli operai.

Naturalmente di scuola o d’istruzione elementare di qualsiasi specie, non vi è il più lontano sentore, e non più nelle zolfare grandi che nelle piccole.

 

 

§ 134. — La questione industriale del lavoro dei carusi.

Accennati così sommariamente i fatti principali relativi al lavoro attuale dei ragazzi nelle zolfare, sorge spontanea la domanda: Vi è modo di rimediare a tanto male, senza rovinare l’industria mineraria in Sicilia? — Noi non siamo competenti quanto alla questione tecnica; accenneremo soltanto alle opinioni diverse che udimmo pronunziare sulla questione da parecchi direttori ed amministratori di grandi zolfare, e da alcuni capimastri, i quali se mancano di studi tecnici hanno però spesso tal copia di cognizioni pratiche da renderli competentissimi a dare un giudizio sulle quistioni minerarie.

Da una parte un amministratore di una vastissima zolfara si lamentava che il nuovo progetto di legge presentato al Parlamento, il quale mira a regolare il lavoro dei fanciulli nelle miniere, porterebbe infallibilmente alla rovina dell’industria degli zolfi. Qualunque miglioramento, egli diceva, s’introduca nei metodi di estrazione, il lavoro dei fanciulli sarà sempre indispensabile per portare il minerale dal luogo di escavazione al punto dove sbocca il pozzo di estrazione o la ferrovia inclinata. Di più sarebbe impossibile, per la spesa, di fare pozzi d’estrazione nelle miniere poco profonde, non essendovi il tornaconto. Il numero dei ragazzi essere ora insufficiente al bisogno. Non essere possibile l’istituzione di scuole in prossimità delle miniere. Gli stessi genitori poi dei ragazzi si opporrebbero a qualunque diminuzione delle ore di lavoro, che portasse ad una diminuzione dei loro guadagni. La corruzione e la scostumatezza dei lavoranti nelle miniere esser cose deplorevoli, ma inevitabili.

Notiamo in parentesi che questo stesso amministratore osava affermare che i fanciulli attualmente non lavorano mai più di 4 o 5 ore al giorno, e non sono impiegati che dai dodici anni in su; e ciò diceva sulla bocca della sua zolfara. A parte l’inconseguenza del lamentarsi di disposizioni di legge che richiedono in fin dei conti quel che egli asseriva già esistente di fatto nelle zolfare siciliane, potemmo mezz’ora più tardi convincerci, nella visita di quella stessa sua miniera, dell’assoluta insussistenza delle notizie forniteci intorno alle ore di lavoro, e all’età dei ragazzi.

D’altra parte però siamo lieti di poter contrapporre l’opinione di parecchie persone competenti, e tra le altre del capo ingegnere di una delle maggiori zolfare dell’Isola. I filoni, egli ci diceva, delle miniere di zolfo, sono analoghi a quelli delle miniere di carbon fossile, ma con maggiori irregolarità di giacimento. Egli credeva che si potesse benissimo far di meno quasi del tutto del lavoro dei ragazzi, con un sistema bene ordinato di gallerie inclinate, unite al pozzo di estrazione mediante alcune gallerie orizzontali. Egli riteneva che il risparmio nel salario dei ragazzi compenserebbe largamente la maggiore spesa delle gallerie. Però nel caso di deviazioni forti nella direzione dei filoni, o di altri ostacoli, bisognerebbe talvolta per evitare una troppa spesa, fare delle gallerie irregolari come le attuali; e per quei tratti, converrebbe sempre adoperare il lavoro dei ragazzi, che resterebbe soltanto in via di eccezione, come accade nelle miniere di carbon fossile. La nuova legge quindi non gli faceva nessuno spavento([332]).

 

 

§ 135. — Lavoro di mezza giornata.

Certo è che anche se tali provvedimenti o altri simili non bastassero a togliere del tutto il lavoro dei fanciulli nelle miniere, diminuirebbero però di assai il numero necessario per l’andamento di una zolfara; onde sparirebbe la principale difficoltà, che, secondo quel che dicono alcuni, s’incontra attualmente all’adottare sia per legge, sia volontariamente, il sistema del lavoro di mezza giornata per i ragazzi, ossia il half-time, che per effetto della legislazione tutelatrice dei fanciulli è già stato introdotto in tutte le industrie inglesi. Intendiamo parlare del sistema di far corrispondere al lavoro di 10 ore degli adulti, due schiere di ragazzi di cui ognuna lavori sole 5 ore, l’una nelle ore del mattino, l’altra in quelle pomeridiane. È all’introduzione di siffatto sistema in Italia che dovrebbe mirare il legislatore nel dettare le prescrizioni intorno alle ore di lavoro dei fanciulli, tanto nelle miniere che nelle industrie manifatturiere. Con questo sistema si riparerebbe allo sconcio attuale, tanto nelle grandi miniere, come in quelle piccole, in cui spesso non sarebbe possibile di sostituire con opere grandiose la forza meccanica al lavoro umano. Con qualunque provvedimento meccanico che diminuisca il bisogno generale di ragazzi nelle zolfare, si ottiene inoltre il vantaggio di poter senza difficoltà elevare il minimo dell’età che la legge richiede per l’impiego dei fanciulli nelle miniere.

Per queste ragioni ci sembra che anche considerata la questione dal solo punto di vista industriale — poichè per ogni altro riguardo una legge tutelatrice dei fanciulli è non solo utile, ma indubbiamente necessaria e indispensabile — una legge che determinasse il minimum dell’età a cui si possano impiegare i bambini nelle zolfare, e regolasse le ore di lavoro in modo da costringere gl’industriali a introdurre per i ragazzi il sistema inglese del lavoro alternativo, non produrrebbe gravi sconcerti nell’industria siciliana. E se pure per effetto di essa si rallentasse alquanto la produzione, o se ne arrestasse il movimento ascendente, non ne verrebbe perciò un gran male all’Isola, visto che la quantità dello zolfo scavabile è una quantità fissa, e che minaccia, con le proporzioni attuali di produzione annua, di non durare più in là di altri 70 o 80 anni([333]).

Non vi è poi ragione alcuna per cui non si abbia ad imporre, almeno alle amministrazioni delle grandi zolfare, l’istituzione di scuole che i ragazzi dovrebbero frequentare per un dato numero di ore al giorno, sotto pena di forti multe da imporsi alle amministrazioni stesse.

 

Questione umanitaria.

Quanto poi alla ragione umanitaria che troviamo sempre in bocca degl’industriali, quella cioè che gli stessi genitori dei fanciulli si opporrebbero ad ogni intromissione dell’autorità a tutela di questi, la quale potesse diminuire i loro guadagni, non sappiamo annettervi nessuna importanza. I genitori non hanno il diritto di rovinare la salute fisica e morale delle loro creature per guadagnare di più, e nemmeno per campare: se si ammettesse una tal massima si sovvertirebbe ogni principio morale, poichè si dovrebbe ammettere pure che genitori facciano qualunque più turpe mercato o strazio dei loro bambini, se ne possono ricavare un guadagno, e il legislatore non dovrebbe mai averci che vedere.

 

Irregolarità nel pagamento dei salari.

Non diremo qui dei gravi sconci che si verificano nelle zolfare siciliane, riguardo al pagamento dei salari ai minatori. Il salario convenuto è spesso più nominale che reale; l’imprenditore della miniera paga gli operai quando più gli piace, ogni quindicina, ogni venti giorni, o ogni mese, e si fanno continue partite di conto. E nemmeno ci fermeremo sopra alcuni altri inconvenienti che pur si riscontrano in qualche zolfara, dove l’amministrazione tiene una cantina, presso la quale gli operai debbono provvedersi di tutto. Non è forse questa talvolta l’ultima ragione per cui tanta parte dei guadagni dei minatori va spesa in vini e liquori. Si verificano insomma i soliti danni del truck-system di cui si sono occupate in Inghilterra tante Commissioni d’inchiesta, e la cui repressione è stata oggetto speciale delle cure di quel Parlamento([334]).

 

Responsabilità del padrone della miniera.

Quello che non ci sembra poter dar luogo ad ombra di dubbio è che la legge dovrebbe stabilire chiaramente e seriamente la responsabilità del padrone della miniera per ogni danno che nell’esercizio di essa avvenga agli operai, qualunque sia la loro età([335]). Con ciò non solo si provvederebbe più efficacemente che coi regolamenti e colle ispezioni preventive, ad assicurare i minatori dalle frane e dalle altre disgrazie che avvengono per l’imperizia e la trascuranza degli imprenditori, e che nelle zolfare siciliane sono di una frequenza che fa spavento; ma si provvederebbe pure in parte a garantire anche i ragazzi dai maltrattamenti, giacchè il padrone della zolfara per coprire la propria responsabilità sarebbe costretto a vigilare a che i picconieri, o altri operai, non carichino pesi soverchi sui fanciulli da loro impiegati.


 

 

 

 

 



([1]) Lettere e monografia vennero pubblicate anche in un solo volume nel 1875 dalla Tipografia della Gazzetta d’Italia.

([2]) Su quella gestione ho pubblicato nel 1873 un volume che poi nel 1906 il prof. Mario Cermenati, già Sottosegretario al Ministero di Agricoltura in una sua Relazione che leggesi negli Atti della Commissione Consultiva della Pesca della sessione febbraio-marzo di quell’anno, volle dire «fra i più interessanti della Biblioteca Comacchiese pel valore intrinseco delle considerazioni, delle notizie e dei documenti». Egli volle anche ricordare i vari tentativi miei per dar vita ad industrie locali e togliere al furto del pesce la popolazione che vi trovava il solo possibile alimento con irreparabile danno della conduzione.

([3]) G. Borsani, Presidente; G. Alasia, N. Cusa, C. De Cesare, P. De Luca, L. Gravina, F. Paternostro, C. Verga, e R. Bonfadini relatore.

([4]) Quando presi questa decisione, i miei due amici volevano tuttavia mettere il mio nome al posto di un terzo autore. Fui io a pregarli di non insistere, e da Rio Janeiro mi dolsi quando trovai che nella prefazione vi avevano supplito con cortesi parole di rimpianto e col cordiale saluto inviatomi al di là dei mari. Leopoldo Franchetti il 23 marzo 1877 con la sua fedele amicizia mi rispose: «Com’era possibile sopprimere il fatto che eravamo stati in tre e non in due a viaggiare, a interrogare, a fissare in memoria le cose sentite, a discuterle poi? A questa soppressione non ho mai voluto acconsentire».

([5]) La si voleva di 300,000 uomini, ma per gli sforzi intelligenti dell’Orsino, comandante siciliano di una delle compagnie dei Mille, la si ridusse a 40,000.

([6]) Roma, Tip. Eredi Botta, 1879.

([7]) Fascicolo del 1° gennaio 1894.

([8]) La Commissione era composta dei deputati Chimirri Presidente, Arcoleo, Cancellieri, De Bernardis, Faina, Fortis, Gianturco, Guelpa, Landucci, Maiorana Calatabiano, Nitti, Orlando, Parenzo; dei professori Cogliolo, Salvioli, Schupfer, Tammeo, del Direttore Generale della Statistica (comm. Bodio), del Direttore Generale dell’Agricoltura (comm. Miraglia) e dello scrittore di queste pagine.

([9]) Più tardi l’Alongi, siciliano e già Commissario di P. S. in Sicilia, nella prefazione al suo volume «La mafia», ebbe a scrivere: «La stampa siciliana, ancora irritata dalla gazzarra sollevatasi, in Parlamento e fuori, a proposito dei provvedimenti eccezionali, vide oltraggio e disprezzo là dove era uno studio coscienzioso, esatto e minuto delle nostre condizioni sociali; e una crociata lunga, clamorosa, accanita fu l’unico compenso agli illustri autori.

([10]) Nel 1906 i due volumi furono tradotti in tedesco da C. S. e pubblicati a Dresda nel 1906 dall’editore Tittman.

([11]) Vol. 2° n. 12 del 22 sett. 1878, p. 188.

([12]) Zingali, Lezioni di statistica economica, pag. 247, Catania, 1924.

([13]) Ing. Emirico Vismara: La Sicilia nell’Economia dell’Italia quale è oggi e quale potrebbe essere. Milano 1924, Tipolit. Turati, Lombardo e C., 1924.

([14]) I latitanti colpiti di mandato di cattura erano il 1° gennaio 1875 in tutta la Sicilia 1368, cioè: provincia di Palermo, 573; provincia di Caltanissetta, 112; provincia di Catania, 201; provincia di Girgenti, 106; provincia di Messina, 184; provincia di Siracusa, 50; provincia di Trapani, 142. (Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Documenti relativi al progetto e legge sui provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza, n° 24 bis, pag. 33, allegato K).

([15]) Non abbiamo prove di questo fatto, il quale è uno di quelli che vengono da molti narrati in Sicilia come tipici. Però, vero o falso, la compiacenza con cui è raccontato dai Siciliani è caratteristica quanto potrebbe esserlo il fatto stesso.

([16]) «Egli è mestieri, o signori, che una buona volta sien rotti codesti vincoli, che, come la trista genia dei bravi ligava un tempo ai Don Rodrigo, così questa dei mafiosi, che son qui de’ bravi i successori camuffati a foggia de’ tempi nuovi, stringe a talune delle classi abbienti dell’oggi. È mestieri che cessino codesti rapporti di patronato e di clientela, pe’ quali è agli uni assicurata protezione per quando hanno a far conti colla giustizia, agli altri l’opera del braccio, e quel potere d’intimidazione, per cui si procaccia rispetto alla persona ed agli averi, e spesso aiuto di suffragi, se del voto popolare è mestieri ad attingere alcun seggio ne’ pubblici consessi» (Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 1873 letta nell’Assemblea generale della Corte d’appello di Palermo il 5 gennaio 1874 dal procuratore generale comm. Vincenzo Calenda, pag. 46).

([17]) Gli ammoniti nel distretto della Corte d’appello di Palermo nel 1874 erano 1888, in quello della Corte d’appello di Messina 590; in quello della Corte d’appello di Catania, 365 (Relazione della Giunta per l’inchiesta sulle condizioni della Sicilia, nominata secondo il disposto dell’articolo 2 della legge 3 luglio 1875. Allegato D). Gl’inviati a domicilio coatto erano il 31 dicembre 1874, per la provincia di Palermo, 308; per quella di Caltanissetta, 49; per quella di Catania, 42; per quella di Girgenti, 358; per quella di Messina, 131; per quella di Siracusa, 16; per quella di Trapani, 21 (Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Docum. n° 24-A. Allegato n° 6).

([18]) Vedi: Resoconto del processo di Angelo Pugliese, per l’avvocato Antonino Ajello. Atto di accusa del sostituto procuratore generale Vincenzo Noce, pag. 14 e seg. Palermo, 1868.

([19]) «.... I fratelli Di Lorenzo di Gibellina e i signori Militello da Montemaggiore furono assassinati per aver chiuso la porta in faccia ai briganti. Il signor Mancuso di Palazzo Adriano fu ricattato per aver negato ai briganti alcuni mantelli» (Il Brigantaggio in Sicilia. — CauseRimedi. Di autore anonimo. Palermo, tip. Dolcemascolo, 1876).

([20]) Vedi la descrizione vivace e pittoresca che fa del campiere facinoroso il Cattani nella sua pregevolissima opera sull’Economia agraria in Sicilia, vol. I, pag. 103 e seg.

([21]) Vedi, a pag. 37, l’opuscolo: Il brigantaggio in Sicilia, di autore anonimo. Palermo, 1876.

([22]) Al principio del 1875 v’erano in Sicilia 578 guardie di pubblica sicurezza, fra cui 382 continentali, il rimanente siciliani (Camera dei Deputati. Documenti n° 24-A. Allegato n° 19).

([23]) «I distaccamenti di truppa comandati in servizio di pubblica sicurezza devono in oggi essere mutati in ogni trimestre; affinchè i Comuni non abbiano diritto a ricusare la somministrazione degli alloggi. Mutando ad ogni tre mesi, la spesa non varia per i municipi, e il servizio che si ottiene è necessariamente men buono» (Relazione dell’on. Gerra sull’attuazione in Sicilia dei provvedimenti di pubblica sicurezza, ordinati con istruzioni ministeriali 1° settembre 1874. Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Documenti n° 24-bis, pag. 46, col. 1).

([24]) «E non vi sarà forse discaro il sapere come la esecuzione delle sentenze penali sia stata fra i precipui scopi della procura generale. Avvegnachè, non parrà vero, ma pure è assai spesso per lo passato intervenuto; che dopo un lavorìo durato mesi ed anni, correndo dai pretori ai tribunali, alle corti d’appello e alla Cassazione per ottenere una sentenza di condanna, quando il giudicabile non era già detenuto, se ne rimanesse tranquillo a casa, e la condanna restasse obliata negli archivi delle cancellerie, rimettendoci lo Stato pur le spese del processo, fosse desidia o altro peggior malanno nei cancellieri o altri più bassi ufficiali di giustizia». Discorso inaugurale del 5 gennaio 1874 della Procura generale di Palermo, citato nella relazione Depretis sul progetto di legge per i provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza (Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Documenti n° 24-A, pag. 20 e 21).

([25]) «Formavano un’associazione ben costituita. Si spacciavano galantuomini che facevano guerra al Governo, esercitavano in quelle contrade ove avevano stanza, un bizzarro e crudele dispotismo. Tenevano un capo, avevano spie e contabili, imponevano tasse ai fornaciai, ai legnaiuoli, ai mugnai, ai pastori, accordando in cambio la loro alta protezione contro chi bisognasse.... E coloro che venivano tassati per questa speciale protezione si rivalevano a loro volta danneggiando le altrui proprietà, sicuri d’essere, al bisogno, difesi. La facevano da giudici, e sotto la condizione che nulla si rivelasse alla giustizia; placavano gli offesi col denaro che facevano sborsare agli offensori, sotto pena della legge del taglione; facevano restituire le cose rubate e risarcire il danno cagionato. Impedivano che si contraessero matrimoni che non andavano loro ai versi, e per converso facevano stringere quelli che loro piacevano per qualche secondo fine. La facevano da pacieri intromettendosi fra padre e figlio, fra marito e moglie, fra fidanzati, e, col timore, li rappattumavano. La facevano da custodi, costringendo i proprietari di quelle contrade a pagare loro un tanto per custodia di frutti, i quali, per soprassello da loro stessi venivano rubati.... Si godevano le donne, e poi le davano in moglie, colla forza, a chi loro piaceva». (Gazzetta d’Italia, 1875, n° 360-361). «A commettere i furti molti giovanotti erano tratti per forza». (Ibid., 1876, n° 2-3). Vedi l’intero resoconto sommario del processo della banda Cucinotta nella Gazzetta d’Italia, anno 1875, n. 360-361 e 362; anno 1876, nn. 2-3, 4, 5, 6, 9, 11, 12, 13, 15, 17, 19, 33, 39.

([26]) Vedi: Orlando, Il feudalismo in Sicilia, pag. 158, Palermo, 1847. — Su tale argomento però quest’opera contiene una contraddizione almeno apparente. Mentre a pag. 158 l’autore dichiara esplicitamente, appoggiandosi ai documenti, che i monopolii, le tasse e servizi feudali erano dovuti dai borgesi, in virtù di un diritto «nascente non dalla proprietà materiale delle terre feudali, ma dal dominio eminente della Signoria tramandato dalla concessione del Principe»: più sotto, a pag. 273, dice che «i borgesi erano i semplici cittadini, i quali tranne la soggezione del Governo e delle leggi comuni, vivevano nella piena libertà delle loro persone e delle loro proprietà, senza dipendenza feudale». Ma, poichè l’autore, ad appoggio di questa sua seconda asserzione non cita che documenti i quali si riferiscono a Palermo, città demaniale, è lecito conchiudere che ciò che dice in questo secondo passo si riferisce ai borgesi delle città demaniali, mentre ciò che dice a pag. 158 si riferisce ai borgesi possessori di beni allodiali, ma compresi nei territori sottoposti a Signori feudali.

([27]) Vedi: Orlando, op. cit., cap. VII, §§ 2, 3, 4, 5, 6 e specialmente a pag. 171.

([28]) Vedi: La Lumia, La Sicilia sotto Carlo V imperatore (Studi di Storia Siciliana, vol. II, pag. 76). — Ciò che ivi dice l’autore si riferisce agli ultimi del secolo XV. Ma la politica dei sovrani sempre meno energica di fronte ai Signori feudali non permette di supporre che l’azione della giustizia regia sia stata in seguito resa più efficace.

([29]) Vedi: Orlando, op. cit., cap. VII, §§ 7, 8; specialmente a pagg. 193, 194. — Vedi pure: Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, pag. 65. Losanna, 1847.

([30]) Palmieri, op. cit., pag. 69.

([31]) Mongitore, Parlamenti generali del Regno di Sicilia, vol. I, pag. 58. Palermo, 1749.

([32]) Mongitore, loc. cit.

([33]) Mongitore, loc. cit.

([34]) Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 59.

([35]) Orlando, Commento storico alla Costituzione Siciliana del 1848, pag. 38.

([36]) Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 66.

([37]) Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 67.

([38]) Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 70.

([39]) Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 76-77.

([40]) Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, pag. 72.

([41]) La Lumia, La Sicilia sotto Carlo V imperatore (Studi di Storia Siciliana, vol. II, pag. 69). Palermo, 1870.

([42]) Mongitore, op. cit. vol. I, pag. 77.

([43]) Vedi gli Studi di Storia siciliana di La Lumia, vol. II, pag. 69, nel saggio intitolato: La Sicilia sotto Carlo V imperatore. E vol. II, pag. 571, nel saggio intitolato: Il vicerè Domenico Caracciolo. — Difatti i donativi ordinari che ciascun Parlamento soleva fare e che erano al solito: il donativo al Re per farne ciò che volesse, e quelli per le fortificazioni del Regno (cioè dell’Isola) per i RR. Palazzi del Regno, per i Ponti, per le Torri, per le RR. galere e pei Ministri del Consiglio Supremo d’Italia a Madrid (vedi Mongitore, op. cit., passim; e specialmente vol. I, pagg. 200, 275, 349, 441, 453) non gravavano sui baroni. Gravavano bensì sul braccio militare, ma con questa denominazione erano indicate le università e terre sottoposte a baroni non i baroni stessi, tanto è vero che il Parlamento provvede che le gabelle da imporsi per fornire il donativo non siano, nelle terre baronali, «in pregiudizio delle gabelle dei baroni» (cioè delle gabelle imposte alle medesime dai baroni) (Mongitore, vol. I, pag. 271), e più oltre, che tali gabelle debbano pagarsi da tutti nemine exempto etiam li feudatari che non sono obbligati al servizio militare (Mongitore, loc. cit.). I quali sono chiamati anche feudatari di beni burgensatici (Mongitore, vol. I, pag. 200 e Orlando, Il feudalismo in Sicilia, pag. 268, nota 8), il che esclude che vi dovessero contribuire i feudatari astretti al servizio militare. Nei donativi straordinari poi, che si rinnovavano quasi ogni anno, il Parlamento deliberava volta per volta che vi dovessero contribuire i titolati colla riserva però sempre ripetuta in termini identici «e questo, per questa volta tantum e senza che mai si possa portare a conseguenza per altra simile urgente e propria necessità», la quale riserva non è fatta per le altre categorie di persone tassate. La proporzione poi di questi donativi che si assumevano i nobili era minima e fuor di proporzione colla loro ricchezza, e variava, almeno dal secolo XVII in poi, da 1/4 a 1/10 dell’intero donativo. (Mongitore, op. cit., passim; e specialmente vol. II, pagg. 41-86).

 

 

([44]) Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, pag. 69.

([45]) La Lumia, op. cit., vol. II, pag. 73. — Orlando, op. cit., pag. 169 e passim.

([46]) Mongitore, op. cit., vol. I, pag. 85.

([47]) Vol. II, pag. 71. — Vedi pure Palmieri, op. cit., pag. 72.

([48]) Mongitore, op. cit., vol. I, pagg. 84 e 85.

([49]) La Lumia, op. cit., vol. II, pagg. 71-73. — Vedi pure: Starrabba, Il Conte di Prades e la Sicilia. Palermo, 1872. — Palmieri, op. cit., pag. 64.

([50]) Palmieri, op. cit., pag. 72.

([51]) Palmieri, loc. cit.

([52]) La Lumia, op. cit., vol. II, pag. 69.

([53]) Palmieri, op. cit., pag. 72.

([54]) Palmieri, loc. cit.

([55]) Vedi La Lumia, Il vicerè Domenico Caracciolo, § 3 (Studi di Storia Siciliana, vol. II, pag. 555 e seguenti).

([56]) Colle lettere circolari del 1785 «fu vietata ancora un’altra volta quella esorbitante riscossione di dazi e prestazioni che i baroni facevano senza titolo espresso: fu permessa la estrazione di generi di agricoltura dalle terre baronali per cui fino allora era stato bisogno il permesso del barone o del suo delegato, che talvolta arbitrariamente lo negava: fu data agli abitanti delle baronie la libertà di vendere come e a chi meglio lor piacesse, i prodotti della loro industria: fu data ai medesimi la facoltà, anzi fu restituito il diritto di panizzare come anche di macinare le loro olive dovunque lor piacesse senza esser costretti più oltre di fare il pane e l’olio nei forni e nei trappeti (frantoi) dei baroni: fu tolta finalmente a questi ultimi la ingerenza che si avevano arrogato sull’amministrazione delle municipalità». (Orlando, op. cit., pagg. 172-173).

Le circolari del 1785 soppressero pure «ogni sorta di dazi, d’imposte, di diritti privativi e proibitivi che inceppavano il commercio. Vi fu vietata quella esorbitante esazione di diritti che facevano i baroni sulla estrazione dei prodotti d’industria e d’agricoltura da un luogo ad un altro...., fu restituito a tutti ugualmente il diritto di vendere i propri generi quando e come lor piacesse senza che fossero tenuti di venderli forzosamente al Barone a un determinato prezzo, o di non esporli al mercato, se non dopo che il Barone avesse venduto i suoi. Nelle istruzioni del 1787 fu ordinato che dovessero sciogliersi tutti i diritti di pascere e di legnare che gli abitanti dei Comuni esercitavano sulle terre di qualunque particolare, lasciandole libere da questi pesi o servitù, onde trovarsi meglio nella possibilità di esser coltivate. Fu ordinato del pari che le terre proprie delle università fossero concesse in enfiteusi per frazioni ai singoli delle medesime, considerando maggiormente i più poveri, e disponendo che le frazioni lontane dall’abitato riunissero un numero di coltivatori atti a costituire delle nuove popolazioni». (Orlando, op. cit., pag. 258).

([57]) Vedi: Tocqueville, L’ancien Régime et la Révolution, Paris, 1866. livre II, chap. I, intitolato: Pourquoi les droit féodaux étaient devenus plus odieux au peuple en France que partout ailleurs; specialmente a pag. 38.

([58]) «La premura con cui spesso (il Caracciolo) avocava o faceva al suo cospetto trattare le cause, il noto abborrimento per le prepotenze dei baroni ed il noto favore per la sorte dei vassalli, avevano nei magistrati infuso nuovo coraggio e nuova alacrità quanto a decidere i litigi tra popolazione e signori. Que’ litigi, d’ordinario impediti e soffocati in addietro, si risvegliavano e si moltiplicavano ora sotto gli auspici del Governo». — La Lumia, Il vicerè Domenico Caracciolo, pag. 572. Vedi pure Ibid. pag. 578.

 

([59]) Vedi: La Lumia, Il vicerè Domenico Caracciolo, passim; e specialmente pag. 583. — Palmieri, op. cit., pag. 70, giunge però a dire che per opera del Caracciolo «in pochi anni la feudalità in Sicilia si era ridotta a un vuoto nome». Ma egli è pur troppo dai fatti obbligato a contraddirsi fin dalla pagina seguente, quando dice: «Tale era l’avvilimento della Nazione, che non attaccandosi più veruna importanza al diritto di avere una rappresentanza in Parlamento ecc.». — Vedasi pure: Orlando, op. cit., pag. 173, ove dice «che non vennero mai meno tutte le riscossioni abusive. Quando il Parlamento del 1811 pronunziò la solenne abolizione della feudalità, bisognò dichiarare espressamente lo scioglimento di tutti questi supposti diritti che riguardò come tutt’allora sussistenti ed in permanenza. Le espressioni usate dal Parlamento furono le seguenti: Le angarie e perangarie introdotte soltanto dalla prerogativa signorile restano abolite senza indennizzazione. E quindi cesseranno le corrispondenze di gallina, di testatico, di fumo, di vetture, le obbligazioni a trasportare in preferenza i generi del barone, di vendere con prelazione i prodotti allo stesso e tutte le opere personali e prestazioni servili provenienti dalla condizione di vassallo a signore. Sono ugualmente aboliti senza indennizzazione i diritti privativi e proibitivi per non molire i cittadini in altri trappeti o molini fuori che in quello dello in avanti barone, di non cuocer pane se non nei forni dello stesso, di non condursi altrove che nei di lui fondachi, alberghi ed osterie; i diritti di sagato per non vendere commestibili o potabili in altro luogo che nella taverna baronale e simili, qualora fossero semplicemente stabiliti dalla semplice prerogativa signorile e forza baronale», ed anche a pag. 259. — Vedi pure: Petitti, Repertorio amministrativo del Regno delle due Sicilie, vol I, pag. 728-29-30. Napoli, 1856.

([60]) La Storia parlamentare di Sicilia dal 1810 al 1815 è raccontata minutamente nel libro intitolato: Sull’Istoria moderna del Regno di Sicilia. Memorie segrete dell’abate Paolo Balsamo. Palermo, anno primo della rigenerazione. — L’autore fu uno dei principali attori del dramma.

([61]) Vedi: Balsamo, op. cit., cap. III.

([62]) Vedi nell’opera del Balsamo (pag. 65) l’ignoranza e leggerezza del principe di Aci, uno dei ministri, intorno ad uno dei punti fondamentali della costituzione.

([63]) Il braccio baronale votò la soppressione dei diritti angarici, ma aggiungendo che i possessori dovessero essere pienamente indennizzati (Balsamo, op. cit., pag. 66). Il braccio baronale rigettò l’abolizione dei fidecommessi (ibid., pag. 84).

([64]) Balsamo, op. cit., pag. 115; vedi pure pagg. 129 e 255.

([65]) I baroni amavano di levare l’amministrazione della rendita pubblica al Re, e darla al Parlamento perchè non volevano perdere quei favori che loro si compartivano dalla Deputazione del Regno nell’esazione dei tributi o donativi (Balsamo, op. cit., pag. 67). Infatti, i soli a votar contro l’attribuzione al Re dell’amministrazione della Rendita pubblica furono i baroni. (Ibid., pag. 76).

([66]) Balsamo, op. cit., pagg. 3 e 7.

([67]) Balsamo, op. cit. pag. 86.

([68]) Balsamo, op. cit., pag. 115.

([69]) Balsamo, op. cit., capitoli V, VI, VII, VIII, passim; e specialmente pagg. 119, 124, 125, 129, 142, 145.

([70]) La Lumia, Il vicerè Domenico Caracciolo, § 7 (Studi di Storia Siciliana, vol. II, pagg. 579, 580).

([71]) Balsamo, op. cit., capitoli V, VI, VII, VIII; e specialmente pagg. 115, 129, 255.

([72]) Balsamo, op. cit., passim; e specialmente pagg. 87, 129, 140.

([73]) Vedi: Balsamo, op. cit., passim; e specialmente alla fine del cap. IV come Bentinck impedisse colla forza a re Ferdinando di riprendere l’esercizio del potere regio già delegato al principe ereditario.

([74]) Erano elettori tutti coloro che avevano una rendita annua di onze 18 pari a L. 229.50 circa. (Costituzione del 1812, tit. T, cap. VIII, § 1). Se pure di tali elezioni si deve rendere responsabile il popolo siciliano, il quale non sappiamo fino a qual punto realmente vi partecipasse. Se anche ora, le elezioni politiche sono effetto esclusivamente d’influenze personali, che cosa dovevano essere allora, quando le cagioni che ora fanno tali elezioni erano più potenti di adesso?

([75]) Balsamo, op. cit., pagg. 61 e 120.

([76]) Balsamo, op. cit., pag. 108.

([77]) Balsamo, op. cit., pagg. 252, 253. — Conviene però dire che prima il Re aveva presentato al Castelnuovo un progetto di riforma della Costituzione, che sotto colore di migliorarlo ne distruggeva i fondamenti. (Balsamo, op. cit., pag 150).

([78]) Balsamo, op. cit., pag. 256.

([79]) Bracci, Memorie storiche intorno al Governo della Sicilia, pag. 21. Palermo, Pedone Lauriel, 1870.

([80]) Vedi: Petitti, Repertorio amministrativo, vol. I, pag. 730.

([81]) Per i particolari intorno a questo argomento, vedi il libro II del presente lavoro: I contadini in Sicilia, per Sidney Sonnino.

([82]) Vedi il libro II, § 26.

([83]) Sul quasi assoluto isolamento della Sicilia sulla fine nel secolo scorso. — Vedi: La Lumia, Il vicerè Domenico Caracciolo, § 3 (Studi di Storia Siciliana, vol. II, pag. 555).

([84]) I litigi fra popolazione e signori erano d’ordinario impediti e soffocati in addietro (cioè prima del vicerè Caracciolo). — Vedi: La Lumia, Il vicerè Caracciolo, pag. 572.

([85]) Vedi: La Mantia, Storia della Legislazione civile e criminale di Sicilia, comparata con le leggi italiane e straniere, vol, II, pagg. 295 e 325. Palermo, 1874.

([86]) Legge del 2 agosto 1818. — Vedine il sunto in La Mantia, op. cit., vol. II, pag. 297, nota 2. Vedi pure nel Codice Civile delle Due Sicilie (sanzionato con R. Decreto 26 marzo 1819) articoli 946-963, le disposizioni relative ai maioraschi, le quali, pure ammettendoli, ne limitano l’istituzione in modo da toglier loro gran parte della loro importanza economica e sociale (vedi specialmente gli articoli 953 e 954).

([87]) La vita milizia, consisteva in una rendita vitalizia che l’erede del feudo era per le leggi feudali tenuto a fornire ai suoi fratelli (Orlando, op. cit., pag. 213). — Il diritto di esigerne il valore capitale in terre ed in piena proprietà fu a questi concesso dalla legge del 3 agosto 1818. (Vedi: Petitti, Repertorio amministrativo, vol. I, pag. 731).

([88]) Legge citata del 3 agosto 1818. La dote di paraggio o paragio era quella rendita che l’erede del feudo era per leggi feudali tenuto d’assicurare a titolo di dote alle proprie sorelle e zie. Questa, secondo le leggi feudali passava ai discendenti loro e all’estinzione della linea delle dotate doveva restituirsi al feudo per nove decimi, rimanendo un decimo a libera disposizione di chi la possedeva. (Orlando, op. cit., pag. 213).

([89]) R. Decreto 11 settembre 1825, proemio e articoli 13 e 18 (Petitti, op. cit., vol. I, pag. 735). — Rescritto del luogotenente generale in Sicilia del 30 aprile 1827. (Petitti, op. cit., vol. I, pag. 739).

([90]) R. Decreto 11 settembre 1825, citato. Articoli 2 e 9.

([91]) Vedi: Disposizioni parlamentari del 1812 sui diritti e pesi feudali, cap. III, § 4 (Petitti, op. cit., vol. I, pag. 730).

([92]) Vedi: Balsamo, Memorie segrete, pag. 13. — Vedi pure il passo del Palmieri citato a pag. 77 [§ 40. Nota per l'edizione elettronica Manuzio].

([93]) In Sicilia, la voce delle leggi è debole e regna una generale insubordinazione (Balsamo, Memorie segrete, pag. 82). — Il Balsamo morì nel 1816.

([94]) Vedi: Orlando, Commentario storico alla Costituzione Siciliana del 1848, passim; e specialmente pag. 35. Palermo, 1848.

([95]) Vedi il libro secondo del presente lavoro: I contadini in Sicilia, per Sidney Sonnino.

([96]) «Questa crisi e questo abuso tornano soprattutto a rimprovero e a responsabilità del maggiore istituto, di quel banco di Sicilia che, provvisto di un capitale proprio e non obbligato a trarre dalle sue operazioni lucro per azionisti, avrebbe potuto esercitare sull’intera Sicilia in proporzioni diverse quella salutare influenza che esercita sulle province lombarde la Cassa di Risparmio di Milano. Invece, l’azione sua fu tutt’altra. Riordinato col decreto reale del 10 gennaio 1869, come istituto di deposito, di circolazione e di sconto a breve scadenza (per termini non maggiori di mesi quattro secondo gli articoli 4 e 5 dello statuto) si voltò a ben diverse operazioni, fece mutui di grossissime somme a lunghe scadenze e sopra ipoteche assai contestabili; trasse ed accettò cambiali di comodo a beneficio degli stessi amministratori e commissari di sconto, restrinse ai pochissimi invece di largheggiare ai molti, i benefizi di una istituzione che a nome e nell’interesse dei molti era stata creata». (Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, pagine 34 e 35).

([97]) Nell’interno dell’Isola gli ammazzamenti seguono in proporzioni spaventose. (La Farina, Epistolario, vol. II, pag. 344).

([98]) Negli ultimi secoli del regime feudale in Sicilia, la legislazione conteneva due principii contrastanti fra di loro. L’uno, che segnava la transizione fra il diritto feudale e il moderno, proibiva talune violenze, non riconosceva le guerre private, conteneva come un barlume del concetto dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla giustizia, ed affidava allo Stato la guardia di questa. Era un oscuro ed inconscio sentimento del diritto moderno che si manifestava con alcune leggi sconnesse fra di loro, non ispirate da un concetto complessivo, ma piuttosto provocate ad una ad una da fatti che principiavano ad essere dallo Stato considerati come disordini. Questo principio non aveva organi efficaci per imporsi. Le poche leggi che s’informavano ad esso, si rinnovavano ogni tanto, sempre ugualmente inosservate. Si appoggiavano sopra una istituzione inefficace; la Gran Corte regia di giustizia. Era insomma diritto esclusivamente teorico. L’altro principio era quello del diritto feudale vero e proprio. Appoggiato sopra un organismo completo ed efficacissimo, perchè costituito dalle forze sociali realmente esistenti, sancito e completato dal diritto consuetudinario in vigore, il quale spesso era in contraddizione perfino col diritto feudale teorico, prevaleva sull’altro non solo nel fatto e negli animi delle popolazioni, ma anche in quelli dei governanti. Era, salvo pochi casi eccezionali ed isolati, il solo osservato. Ed a questo solo intenderemo di alludere ogniqualvolta nel corso del nostro ragionamento parleremo del diritto positivo in vigore in Sicilia nel tempi feudali.

([99]) Vedi sopra, pagg. 96, 97 [§ 45 Nota per l'edizione elettronica Manuzio].

([100]) Vedi sopra, § 27.

([101]) Vedi sopra, § 50.

([102]) Vedi sopra, pag. 88 [§ 44 Nota per l'edizione elettronica Manuzio]..

([103]) Vedi sopra, § 48.

([104]) «....e quanta virtù occorra per resistere impavidi alle malevole insinuazioni, agli articoli dei gazzettieri e alle pressioni di amici e parenti e protettori d’imputati de’ quali non ci ha mai penuria, anco tra persone rivestite di pubblico ufficio». (Relazione sull’amministrazione della giustizia nel 1872 nel distretto della Corte d’appello di Palermo, del comm. Vincenzo Calenda, reggente la Procura generale, pag. 51).

([105]) Vedi il fatto già raccontato di esercenti mulini costretti ad entrare nelle società dei mulini e della posa.

([106]) Vedi sopra, pag. 116 [§ 50 Nota per l'edizione elettronica Manuzio]..

([107]) Vedi: Resoconto del processo di Angiolo Pugliese, per l’avvocato Antonino Ajello, pag. 68, col. 1.

([108]) Vedi sopra, pag. 40 [§ 23 Nota per l'edizione elettronica Manuzio]..

([109]) Vedi sopra, § 23.

([110]) Non riporteremo qui i già fatti ragionamenti e gli esempi già addotti i quali ci persuadono che la ripugnanza dei Siciliani a fare denuncie non proviene da un sentimento di onore bene o male inteso, ma pure spontaneo e non cagionato nè direttamente nè indirettamente da forza estranea all’individuo. Però all’esempio di calunnie giudiziarie già citato nel corso di questo lavoro, ne aggiungeremo un altro non meno caratteristico, e che si riproduce non di rado: è quello della calunnia intesa a procurare l’ammonizione giudiziale di un nemico. Per modo che le informazioni cui il pretore attinge per precetto di legge sulle persone da ammonirsi sono «spesso inquinate da quella lue dei piccoli paesi ch’è il feroce spirito di parte». — Vedi la già citata Relaz. del proc. gen. comm. Calenda, pronunciata il 3 gennaio 1873, pag. 60.

([111]) Legge di Pubblica Sicurezza, del 20 marzo 1865, art. 9.

([112]) Codice di Procedura Penale, art. 56.

([113]) Legge di Pubblica Sicurezza, art. 1.

([114]) Codice di Procedura Penale, art. 57.

([115]) Riguardo ai requisiti necessari perchè le guardie campestri e municipali in genere, siano considerate come agenti di pubblica sicurezza, vedi: Legge di Pubblica Sicurezza, articoli 7, 8; — Decisione del Ministero dell’Interno 28 dicembre 1865; — Circolare del medesimo 15 ottobre 1873; — Regolamento 18 maggio 1865 per l’esecuzione della Legge di Pubblica Sicurezza, articoli 12, 13, 14, 15, 16.

([116]) Legge di Pubblica Sicurezza 1865, art. 1, capov. 2; art. 4; art. 6, capov. 1.— Cod. Procedura Penale, art. 57, capov. 2 e seg. — Il Codice di Procedura Penale non menziona fra gli ufficiali di polizia giudiziaria i questori ed ispettori di Pubblica Sicurezza. Ma essi sono implicitamente compresi nella legge essendo superiori gerarchici dei delegati ed applicati; e del resto, nella pratica sono considerati come ufficiali di polizia giudiziaria. Non è qui luogo di menzionare coloro che in circostanze speciali ed eccezionali posso essere rivestiti della qualità di agenti di pubblica sicurezza. (Vedi: Legge di Pubblica Sicurezza, art. 6, capov. 2).

([117]) Vedi il Codice di Procedura Penale, articoli 71 e 79.

([118]) Se il Pretore istruisce una causa per delegazione del giudice istruttore (Codice di Procedura Penale, art. 81, capov. 2) ha piena facoltà di spiccare mandati di cattura, ecc. Se principia l’istruzione in sua qualità di Pretore (Codice di Procedura Penale, art. 75) ha bensì potere di spiccare mandati di comparizione per i testimoni, ma non può spiccar mandati di cattura nè di comparizione contro il reo, se non ha fondati motivi di sospettare che l’imputato sia per darsi alla fuga. (Codice di Procedura Penale, art. 74). Avremo occasione di tornare sull’argomento della competenza de’ pretori a rilasciar mandati, quando ragioneremo dell’ordinamento di polizia attuale in quanto applicato in Sicilia.

([119]) Legge di Pubblica Sicurezza. art. 15 e seg. — Codice di Procedura Penale, art. 57, capoverso ultimo.

([120]) Codice di Procedura Penale, art. 56.

([121]) Legge di Pubblica Sicurezza, art. 6, capov. 3 e art. 9, capoverso 1.

([122]) Codice di Procedura Penale, articoli 182, 142, 256, capov. 2; art. 437, capov. 2 ecc.; e art. 75.

([123]) Codice di Procedura Penale, articoli 60 e 64, capov. ultimo.

([124]) Vedi: Rapporto in data del 1° settembre 1874 del prefetto di Palermo al Ministro dell’Interno (Camera dei Deputati, Sessione 1874-75. Documenti relativi al progetto di legge per provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza n° 24 ter, pag. 25, col. 1).

([125]) La Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia (pag. 139) propone che colla riforma dei militi a cavallo, si sottomettano «ad una regola più severa di quella che oggi rispettano, senza però che la fisionomia del loro corpo diventi rigidamente militare; giacchè allora si perderebbero molti di quei vantaggi che abbiamo pur sopra (a pag. 136 della Relazione) enumerati. Bisogna insomma che la disciplina del milite si accosti più a quella della guardia di questura che a quella dei soldati o carabinieri; una disciplina piuttosto morale che casermiera, ecc.». Qualunque sia il modo in cui la Commissione intende la traduzione nella pratica di questo suo concetto generale, crediamo che si debba senza esitazione sacrificare nel corpo dei militi, qualunque vantaggio di mobilità, elasticità, facilità d’informazione, alla costituzione di un robusto spirito di corpo, che permetta loro di resistere alle influenze locali, giacchè a questa sola condizione cesseranno di esser nocivi e sarà conveniente mantenerli. Ora, per l’indole stessa di queste influenze locali e del servizio dei militi, questo spirito di corpo in regola generale non può esser ottenuto che con una disciplina molto rigida, anche «casermiera» analoga a quella dei carabinieri; atta ad imporsi agli animi dei gregari in modo da dirigerli nel loro servizio isolato lontano dalla sorveglianza dei superiori. Crediamo che una disciplina «morale» senza quella materiale rigidissima, sarebbe pei carabinieri, difficile, pei militi impossibile ad ottenersi.

([126]) Atti della Camera. Sess. 1874-75. Progetto di legge e relazioni, n° 24 bis. Allegato Q e documento aggiunto, n° 4.

([127]) Vedi la nota a pag. 191 [la seconda nota di questo § 70 Nota per l'edizione elettronica Manuzio]..

([128]) Questo argomento è dottamente ed acutamente svolto nella Relazione della Commissione d’inchiesta a pag. 138-139; rinviamo a quella il lettore.

([129]) Vedi ciò che dice sulle guardie campestri del mandamento di Misilmeri la già citata Relazione del procuratore generale del Re in Palermo, comm. Calenda, sull’amministrazione della giustizia per l’anno 1873, letta il 5 gennaio 1874, pagg. 48 e 49.

([130]) Vedi la già citata Relazione del procuratore generale Calenda, letta in Palermo il 5 gennaio 1874, pag. 48.

([131]) Intorno ai campieri vedi la relazione della Commissione d’inchiesta, pagg. 142-143. Le sue proposte sono meno radicali delle nostre.

([132]) Non è da gran tempo che si è adottato il sistema d’inviare in Sicilia funzionari di valore, e le conseguenze del sistema opposto, bisogna pur confessarlo si scorgono palesi. Relazione dell’on. Gerra, segretario generale del Ministero dell’Interno, in data del 31 ottobre 1874 (Camera dei Deputati, Sessione 1874-75. Documenti relativi al progetto di legge sui Provvedimenti straordinari di Pubblica Sicurezza, n° 24 bis, pag. 46, col. 1). — Vedi pure gli apprezzamenti del personale che ha attinenza colla Pubblica Sicurezza nella relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, pag. 140 e seg.

([133]) È opinione «che finora ha avuto in queste province il valore di assioma...., che senza la mafia non può farsi buona polizia nella città e nelle campagne. Io non so quanto l’applicazione di questo sistema nell’amministrazione della pubblica sicurezza che ha durato a Palermo da Maniscalco al questore Albanese (Albanese fu questore sotto la prefettura militare), e che deve oggi assolutamente abbandonarsi, possa aver fatto talvolta buona prova.... ecc.». — Relazione del prefetto di Palermo Rasponi in data del 1° settembre 1874 (Camera dei Deputati, Sessione 1874-75, documenti relativi al progetto di legge come sopra n° 24 ter., pag. 5 col. 2).

([134]) Vedi la citata Relazione del prefetto Rasponi, del 10 settembre 1874, pag. 3, col. 2.

([135]) Vedi sopra, pag. 179 e seg. [§ 68 Nota per l'edizione elettronica Manuzio].

([136]) Vedi, fra le altre, la Relazione già citata dal prefetto Rasponi in data del 1° settembre 1874, pag. 3, col. 2.

([137]) Codice di Procedura Penale, art. 47: «È flagrante reato il crimine o delitto che si commette attualmente, o che è stato poco prima commesso.

«Sono riputati flagrante reato il caso in cui l’imputato viene inseguito dalla parte offesa o dal pubblico clamore, ed il caso in cui sia stato sorpreso con effetti, armi, stromenti, carte, od altri oggetti valevoli a farnelo presumere autore o complice, purchè in questi casi, ciò sia in tempo prossimo al reato».

([138]) Cod. Pen., art. 427.

([139]) Vedi nella Relazione della Commissione d’inchiesta a pagg. 141 e 142, gli straordinari risultati ottenuti per mezzo delle qualità personali di taluni funzionari.

([140]) Camera dei Deputati, Sessione 1874-75. Documenti per il progetto di legge sui Provvedimenti eccezionali di Pubblica Sicurezza, n° 24 bis, pag. 34 e seg. — Vedi pure le due note del Mistero dell’Interno relative all’applicazione di dette istruzioni in data del 9 e 24 settembre 1874 (ibid. pagg. 37 e 38).

([141]) «§ 3. Spetta al comandante generale di assegnare a ciascuna zona la forza militare da impiegarsi nel servizio di repressione del malandrinaggio, e di ordinare quindi quelle traslocazioni di truppa da zona a zona che ravviserà opportune.

«§ 4. Ciascun comandante di zona ripartisce nel territorio della medesima la forza assegnata a mente del paragrafo precedente, e può variare questo ripartimento ogniqualvolta lo giudichi conveniente.

«§ 8. Ai comandanti delle zone e sotto-zone è esclusivamente affidata la direzione esecutiva delle operazioni ordinate dal comandante generale o divisate dalle commissioni di Sicurezza pubblica, che debbono essere eseguite col concorso sia della truppa, sia delle squadriglie in servizio di pubblica sicurezza.

«Sempre quando il comandante di una zona o sotto-zona stimasse necessario di modificare od anche di non seguire in quanto ha tratto all’esecuzione le deliberazioni delle commissioni di cui egli fa parte, potrà farlo sotto la propria responsabilità informandone il prefetto e l’autorità militare da cui dipenda.

«§ 14. I delegati di pubblica sicurezza nei comuni, i comandanti delle sezioni dei militi a cavallo, le stazioni dei reali carabinieri, i drappelli dei militi a cavallo e delle guardie di pubblica sicurezza distaccati nei comuni, conservando la loro dipendenza ordinaria dalle autorità locali, si presteranno a tutte le richieste della forza operante.

«§ 21. I comandanti di zona e di sotto-zona avranno cura che nelle operazioni intraprese per scopi prestabiliti che implichino atti di polizia giudiziaria, la forza militare operante sia sempre assistita da un ufficiale di pubblica sicurezza o da graduati dei reali carabinieri per la legalità degli atti stessi e per la efficacia dei conseguenti verbali».

([142]) Camera dei Deputati. Documenti citati, n° 24 bis, pag. 37, col. 2.

([143]) Relazione del segretario generale, on. Gerra, al Ministero dell’Interno in data del 31 ottobre 1874. — Documenti citati, n° 24 bis, pag. 42, col. 1.

([144]) Siffatto risultato, del resto, era previsto da chi attuò i provvedimenti in discorso. — Vedi la già citata Relazione dell’on. Gerra del 31 ottobre 1874, pag. 43.

([145]) Il mandamento è indicato anche dall’esperienza come l’unità territoriale più adattata per il servizio di pubblica sicurezza. Difatti, i prefetti delle quattro province di Sicilia più infestate dai malfattori, riuniti per proporre rimedi intorno alla pubblica sicurezza propongono unanimemente l’invio di un delegato di pubblica sicurezza per ogni mandamento. (Documento citato, n° 24 bis, pag. 24, col. 1).

([146]) Codice di Proc. Pen., art. 57.

([147]) Cod. di proc. Pen., art. 30.

([148]) Cod. di Proc. Pen., art. 56. — Vedi pure: Legge di Pubblica Sicurezza 20 marzo 1865, art. 6, cap. 3.

([149]) Cod. di Proc. Pen., art. 75.

([150]) Cod. di Proc. Pen., art. 75, capov. 2.

([151]) Cod. di Proc. Pen., art. 74.

([152]) Cod. di Proc. Pen., art. 75.

([153]) Intorno a questo argomento non possiamo far meglio che riferire le parole del Procuratore Generale del Re comm. Calenda nella sua già citata Relazione pronunziata il 5 gennaio 1874 sulla amministrazione della giustizia per l’anno 1873 nella giurisdizione della Corte di Appello di Palermo, pag. 55 e segg. — Ivi: «Oramai è il fatto d’ogni giorno questo, che la più parte delle istruzioni per crimini o per delitti di competenza dei tribunali vanno per delegazione istruite dai pretori, e basta a convincersi ch’io dica delle 14,190 istruzioni compiute, i pretori averne iniziate nell’anno 1873, 5564 per crimini, 8425 per delitti, e compiute per delegazione 3570 delle prime, 3660 delle seconde. E frattanto, se togli il caso di un arresto avvenuto in flagranza, o disposto dal pretore per tema di fuga, egli non può per siffatti reati spedire neanco un mandato di comparizione contro l’imputato, quindi non interrogarlo, nè procedere a quegli altri atti dipendenti dall’interrogatorio, diretti ad assodar la verità dei fatti, la quale tanto più agevolmente si consegue, quanto più son celeri e continuate le indagini, quanto meno agio si dà agli opposti interessi di agitarsi per ottenebrarle, e sottrarre il delinquente all’azione repressiva della legge. Invece egli deve fermarsi nel bel mezzo dell’opera sua, inviare gli atti al pubblico ministero, e questi all’istruttore che a volta sua presane cognizione, quando fra la gran massa di processi che ha sul tavolo gli vien fatto di gettarvi su l’occhio, li rimanda al pretore non foss’altro che per ispedire il mandato di comparizione, e procedere, udito l’imputato, alle ulteriori indagini.... Ma tutto ciò è assai più prestamente detto che fatto, perciocchè innanzi che il processo si riabbia dal pretore con la delegazione dello istruttore, passano talvolta dei mesi.... e il tempo trascorso, come importa pel pretore un maggiore studio a riannodare le fila della tela processuale, così più tardo e difficile rende il rinvenir quelle prove, che forse spontanee gli si sarebbero offerte se tutto di seguito avesse indagato, interrogato l’imputato, istruito sull’interrogatorio. Se così invece fosse, il più delle volte i 15 giorni assegnati dall’art. 75 del Codice di procedura penale sarebbero sufficenti non alle prime indagini soltanto, ma assai spesso a completare la istruzione del processo; e non parrà di conferirsi per cosiffatta guisa un eccessivo potere a’ pretori, se pure a costoro per temuta fuga (ed essi soli, notisi, ne son giudici e nessuno chiede lor conto della realtà o fallacia di cotesto pericolo) è consentito ordinare l’arresto dell’imputato, che è l’atto ora circondato delle maggiori garanzie, non permettendo la legge spedirsi nel corso della istruzione mandato di cattura senza le precedenti requisitorie del pubblico ministero, e disponendo la conferma di esso per parte delle Camere di consiglio non appena l’imputato sia tratto in arresto. Infine, io credo, o Signori, che se al pretore, senza bisogno di delegazione, tutti si dessero i poteri dell’istruttore, salvo ben inteso a costui il diritto di avocare a sè in ogni studio la istruzione, non escluso quello di spedire mandato di cattura, si farebbe cosa certamente utile alla speditezza dei procedimenti, e si otterrebbe così quella pronta e locale giustizia che è nel desiderio di tutti».

([154]) Calenda, Relazione citata del 5 gennaio 1874, pag. 12.

([155]) Ibid., pag. 28.

([156]) Ibid., pag. 37. — Le preture nel circondario della Corte d’Appello di Palermo sono 115.

([157]) Ibid., pag. 52.

([158]) Cod. di Proced. Pen., art. 30.

([159]) Vedi la già citata relazione dell’on. Depretis, pag. 18, col. 2 (Camera dei Deputati 1874-75, Doc. 5, n° 24-A).

([160]) Si noti che qui parliamo dell’istruzione solamente, non del dibattimento pubblico. Quando ragioneremo di questo, avremo luogo di proporre quei provvedimenti che, a parer nostro, toglierebbero in parte gl’inconvenienti della pubblicità data alle denuncie durante il dibattimento, ed esporremo come un’azione efficace della giustizia toglierebbe in un tempo non molto lungo il pericolo per chi facesse rivelazioni anche palesi. Ad ogni modo osserveremo fin d’ora che molte rivelazioni e non delle meno importanti, non hanno necessità di venir manifestate nel dibattimento pubblico. Tale sarebbe, per esempio, quella di colui che insegnasse all’autorità il ricovero di un malfattore già ricercato.

([161]) Vedi le proposte della Commissione d’inchiesta dirette a render più rapide le istruzioni. (Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, pag. 156 e 157). Vedi pure la già citata relazione del procuratore generale comm. Calenda per l’anno 1873, a pag. 57. Ivi: — «e ciò senza addentrarci in quelle più ampie investigazioni sulla convenienza di limitare il numero de’ rinvii dei processi alla Sezione d’accusa, bastando l’opera delle Camere di consiglio in taluni casi,... ecc.».

([162]) Vedi pure sul giurì in Sicilia, il giudizio della Relazione della Commissione d’inchiesta, pag. 153 e seg.

([163]).... «E più di tutto me lo indica un recente rapporto riservato del signor prefetto di Caltanissetta, il quale, riferendomi di alcuni gravi reati commessi in un Comune della sua provincia, mi si dichiara impotente a colpirne gli autori perchè le persone che sarebbero in grado di addurne le prove, protestarono che, chiamate nanti l’autorità giudiziaria, avrebbero negata anche l’esistenza dei fatti. Su di che interpellato anche il rappresentante del pubblico ministero, ha dovuto egli pure riconoscere la inutilità di ogni azione dopo la infelice riuscita di altre procedure per la medesima reticenza dei testimoni». (Camera dei Deputati, sessione 1874-75. Documenti intorno al progetto di legge per i provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza, n° 24 bis, pag. 10, col. 2. Relazione del Ministro Cantelli alla Camera).

([164]) Camera dei Deputati, Documenti citati, n° 24 bis, pag. 18, col. 2. Relazione del prefetto di Catania al Ministro dell’Interno.

([165]) L’opinione contraria è eloquentemente e dottamente difesa nella relazione dell’on. Depretis sul progetto di legge per i provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza. (Camera dei Deputati, sessione 1874-75, Documenti: n° 24-A, pag. 13 e seg.).

([166]) Cod. di Proc. Pen., art. 423.

([167]) Vedi in proposito la già citata Relazione dell’on. Gerra. Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Documenti, n° 24 bis, pag. 45, col. 1.

([168]) La proposta è già stata fatta dall’on. Gerra nella sua già citata Relazione, pag. 45, col. 1.

([169]) Questi argomenti sono in alcune loro parti trattati con profonda dottrina nella già citata Relazione dell’on. Depretis sulla proposta di legge per i Provvedimenti eccezionali di Pubblica Sicurezza. (Camera dei Deputati. Documenti citati 1874-75, n° 24-A, pag. 10, col. 2, e pag. 11, 12).

([170]) Legge di Pubblica Sicurezza, art. 105.

([171]) «Art. 47. L’ammonizione consiste nel riprendere il reo sopra un fatto, un detto od uno scritto riprovato dalla legge con diffidamento che in caso di recidiva incorrerà nella pena più grave dalla legge stabilita».

([172]) Non parleremo della legge del 3 luglio 1875 sui Provvedimenti straordinari di Pubblica Sicurezza, che era specialmente destinata alla Sicilia, perchè il Governo non si è valso della facoltà di applicarla.

([173]) Per la definizione dell’oziosità e vagabondaggio, vedi il Codice Penale, articoli 435 e 436.

([174]) Cod. Pen., articoli 437, 438.

([175]) Legge di Pubblica Sicurezza, art. 76, capov. 2, e art. 106, capov. 2.

([176]) Vedi: Sentenza della Corte di Cassazione di Palermo 9 settembre 1873. (Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Documenti già citati, n° 24 bis, pag. 86 e seg.). Vedi pure le Sentenze di varie Corti di Cassazione citate in seguito alla relazione Depretis sulla legge dei Provvedimenti eccezionali. (Camera dei Deputati. Documenti citati n° 24-A, allegati, numeri 8, 10, 12).

([177]) Vedi le due Sentenze delle Corti di Cassazione di Torino e Palermo fra loro contraddicenti. (Camera dei Deputati. Documenti citati, n° 24-A. allegati 14, 15).

([178]) Legge di Pubblica Sicurezza, art. 70, capov. 1; — Art. 98, capov. 1; — Art. 106, capov. 1.

([179]) «...il pretore.... lo ammonisce a darsi immediatamente a stabile lavoro, e di farne constare nel termine che gli prefigge ordinandogli nel tempo stesso di non allontanarsi dalle località ove trovasi, senza preventiva partecipazione all’autorità di pubblica sicurezza». (Legge di Pubblica Sicurezza, art. 70, capov. 1).

([180]) Vedi: Sentenza della Corte di Cassazione di Firenze 1° febbraio 1873. (Camera dei Deputati. Documenti citati, n° 24-A, allegato, n° 9).

([181]) «La sorveglianza speciale della polizia consiste nell’obbligo imposto al condannato di presentarsi all’autorità che gli viene indicata, e render conto di sè nei modi stabiliti dalla legge di pubblica sicurezza. — In caso di disobbedienza, il trasgressore sarà arrestato e la pena sarà convertita in quella del carcere per un tempo che potrà estendersi sino a quello stabilito per la sorveglianza con che non ecceda il termine di anni due, fermo stando però, se vi è luogo, il tempo restante della sorveglianza». (Codice Penale, art. 44).

([182]) Legge di Pubblica Sicurezza, lib. II, cap. 4. Sezione 1.

([183]).... «se un tale che è pur vigilato e scrutato in ogni suo atto dalle autorità tutrici della pubblica quiete a causa di sua depravata condotta, non ottenesse spesso dei plebisciti in suo favore tanto più ricchi di firme di nomi rispettabili, quanto è più egli temuto pel suo misterioso potere, costituendo così il magistrato nella distretta morale di far cosa, ammonendo, nella sua parvenza contraria a giustizia....» (già citata Relazione del commendator Calenda per l’amministrazione della giustizia nell’anno 1873, pag. 48).

([184]) Vedi sopra, pag. 229 [questo stesso § 82 Nota per l'edizione elettronica Manuzio]..

([185]) L’indole di questo lavoro non ci permette di entrare nelle infinite quistioni che solleva il nostro Codice di Procedura Penale, specialmente riguardo al problema di rendere più pronti i giudizi e più brevi le istruzioni. Accenneremo solamente alla sperimentata utilità della citazione diretta nei tribunali correzionali specialmente per il porto d’anni vietate e la contravvenzione all’ammonizione, sulla quale appoggia il procuratore generale commendator Calenda nelle sue Relazioni. — Vedi: Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto della Corte d’Appello di Palermo pel 1872, pag. 57. Relazione pel 1873, pag. 70.

([186]) Vedi in proposito ciò che è detto intorno alla mafia del circondario di Acireale in Adernò e in Biancavilla nella Relazione della prefettura di Catania al Ministero dell’Interno in data del 16 settembre 1874. (Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Documento citato, n° 24 bis, pag. 18, 19).

([187]) Non senza grande esitazione ci azzardiamo di fronte ad un’autorità qual’è quella della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, ad esprimere sul fatto della divisione della proprietà in Sicilia un giudizio, se non in contradizione col suo, almeno alquanto diverso. (V. Relaz. della Commissione d’inchiesta, pag. 16 e 17). Nel secondo libro di quest’opera l’argomento sarà trattato più distesamente. Per adesso diremo solamente come malgrado la grande competenza delle persone sull’opinione delle quali la Commissione ha fondato il suo giudizio, non possiamo dividere il suo apprezzamento intorno alla divisione della proprietà fondiaria in Sicilia. Riguardo alla provincia di Palermo, nei circondari di Termini e di Cefalù, tolta una parte delle marine, una strettissima cerchia di terreno intorno alle città, e qualche valle, abbiamo visto il latifondo non solo predominare, ma occupare quasi esclusivamente il terreno. Nel circondario di Corleone, ed in genere in tutta la parte centrale e meridionale della provincia, a tutte le nostre domande sui contratti agricoli, abbiamo sentito uniformemente rispondere col distinguere due specie di coltura; quella dei fondi di piccola estensione, limitata per lo più all’immediata vicinanza delle città e ristrettissima; e quella dei feudi vastissima, e che cuopre quasi l’intero territorio. Nella provincia di Messina domina il latifondo non solo nel circondario di Mistretta ma nella parte montana di tutta la provincia tolta quella striscia di terreno che confina colle falde dell’Etna. Nella provincia di Catania se si tolgono le due larghe zone delle marine a settentrione della città e intorno all’Etna, se si tolgono alcuni punti delle marine a mezzogiorno della città ed alcuni altri nell’interno, domina nel resto il latifondo, il quale occupa esclusivamente la vasta piana di Catania, e domina nei circondari di Caltagirone e Nicosia. Domina il latifondo nudo intorno a Siracusa, nella maggior parte del territorio fra Siracusa e Noto, nella parte alta del circondario di Modica. Di più una gran parte dei terreni alberati nei circondari di Noto e Modica fanno pure parte di latifondi. Per modo che non possiamo fare a meno di conchiudere che, qualunque possa essere l’importanza della coltura e della proprietà media e piccola, la caratteristica generale della Sicilia è tuttora un grandissimo concentramento della proprietà, tale da determinare le condizioni generali economiche e sociali.

([188]) Vedi libro secondo, § 84, 85, 86.

([189]) Vedi sopra, pag. 93, nota 1 [seconda nota del § 45 Nota per l'edizione elettronica Manuzio].

([190]) Vedi, in proposito, la Statistica sulla progressiva produzione dello zolfo nella Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, a pag. 28.

([191]) Vedi sopra, pag. 103, § 46 nota v. libro secondo.

([192]) Nel 1865, se non erriamo, i contadini del comune di Canicattini in provincia di Siracusa, si sollevarono e chiesero la distribuzione delle terre sulla voce corsa che l’Italia e il Governo italiano fossero andati in fascio.

([193]) Vedi sopra, § 45, nota v. Balsamo.

([194]) Balsamo, op. cit., pag. 81.

([195]) Questo argomento essendo trattato nel libro secondo del presente lavoro, ne riproduciamo qui, per comodo del lettore, il brano che vi si riferisce:

«§ 56. — La classe dei cosiddetti galantuomini ha in mano tutte le amministrazioni comunali, e inoltre la gestione di tutto il denaro delle Opere pie.

«Quanto al modo in cui si vale delle amministrazioni comunali a suo profitto, ed a danno dalla classe dei contadini, basterebbe esaminare Comune per Comune i ruoli delle imposte per averne qualche idea. Così noi troveremo generalmente imposta in modo gravissimo la tassa sulle bestie da tiro e soma, ossia principalmente sui muli e sui cavalli, che sono la proprietà maggiore dei contadini; e invece raramente e in proporzioni minime la tassa vera sul bestiame, ossia sulle vacche e sui bovi, perchè questi sono posseduti dai proprietari. Il contadino paga in moltissimi luoghi fino a 8 lire per un mulo, o 5 lire per un asino, e il gabellotto e il proprietario non pagano nulla, o relativamente pochissimo, per centinaia di vacche o di bovi. La tassa comunale sulle bestie da tiro e da soma ammontava in Sicilia nel 1874 a 589,557 lire, mentre la tassa sul bestiame non era che di 146,493 lire.

«E lo stesso fenomeno si presenta se esaminiamo le cifre del dazio consumo comunale, e quelle della sovraimposta comunale sui terreni. Si tenga in mente come in Sicilia la immensa maggioranza della popolazione delle città, e talvolta la quasi totalità, è composta di contadini e delle loro famiglie; e la cifra di lire 10,332,081 di provento del dazio consumo comunale (1874) di fronte a quella di lire 2,857,110 della sovrimposta sui terreni, diventa molto significativa.

«Oppure, per meglio isolare il fenomeno, si paragonino le due tasse in Sicilia e in Toscana, prendendo soltanto come termini di paragone i Comuni rurali, i quali, se in Toscana contengono pure una numerosa classe cittadina raccolta nei centri di meno di 6000 anime, in Sicilia sono invece esclusivamente abitati da campagnuoli. In Toscana pei Comuni rurali, anno 1874, abbiamo 484,235 lire di dazio consumo comunale contro L. 5,058,140 di sovrimposta sui terreni, mentre la Sicilia ci dà L. 611,294 di dazio consumo comunale contro L. 1,097,173 di sovrimposta fondiaria. E ciò mentre i Comuni rurali in Toscana (1871) contano una popolazione di 1,562,294 abitanti, di cui una buona frazione non appartiene alla classe campagnuola, onde una gran parte del dazio consumo comunale non aggrava i contadini, e invece in Sicilia la popolazione dei Comuni rurali è di 779,514, quasi tutti agricoltori, i quali abitando nei centri, pagano il dazio per ogni litro di farina che consumano. Non sono pochi i Comuni in Sicilia dove nulla si sovrimpone sulla fondiaria, e tutto invece si aggrava sul dazio consumo.

«E che dire poi dell’imposta comunale sul macinato, che si riscuote da dieci anni in un Comune importante dell’Isola, con piena annuenza della prefettura; e valendosi per la riscossione dell’antico sistema delle bollette, usato prima del 1860 dal Governo borbonico!!

«La cifra complessiva della tassa di famiglia non ci rivela nulla, ma se vorremo girare i singoli Comuni troveremo le stesse ingiustizie di repartizione tra le diverse classi. Il minimo e il maximum della tassa variano molto secondo i Comuni: qua l’imposta anderà da 2 lire a 50; là da lire 5 a 80, a 100; o anche da lire 10 a 80: ma dovunque troveremo una sproporzione nella repartizione. Il metatiere pagherà da 5 a 10 lire, o il giornaliere da 2 a 5, dove due o tre signori ricchissimi pagheranno il maximum di 50 o di 100 lire, e tutta la classe di borghesi e di proprietari agiati pagheranno 20 o 30 lire.

«Quanto alle spese dei Comuni, poco si può ricavare dalle statistiche troppo generiche, ma chi giri ora la Sicilia rimane sorpreso del grande numero di teatri comunali stati eretti dal 1860 in qua, o che tuttora si stanno costruendo. È venuta dappertutto nei municipii la manìa, la furia delle spese di lusso, e specialmente di quella del teatro: si sente di migliaia di lire spese in costruzione e riparazione di teatri, e di ricche sovvenzioni annue pagate per rappresentazioni di opere e ballo da municipii, che mancano ancora quasi affatto di strade, o almeno son lontani dall’aver nemmen messo mano a tutte quelle che loro incombono per legge, e i quali difettano di cimiteri, e di medico condotto.

«L’accentramento poi dei contadini nelle città rende difficile più che altrove la nettezza pubblica, e la rigida applicazione dei regolamenti municipali; e anche qui troviamo esempi del come alcune volte un progresso necessario ed imprescindibile arreca con sè danni gravi e senza compenso a numerose classi della popolazione. Così in molte città dell’Isola si è voluto togliere lo sconcio dei maiali che girano liberi per la strada, e si sono imposte gravi multe ai contravventori, onde il contadino il quale non ha che una stanza per abitazione e non può girare a cercare il nutrimento per il suo maiale, ha dovuto privarsi di allevarne, e ha così perduto, con grave sacrificio, una sorgente di guadagno. In altri luoghi invece i contadini hanno dovuto rinunziare a tenere il maiale per non aver potuto soddisfare ai forti depositi che si richiedevano da loro, come cauzione per il pagamento del dazio consumo al momento della vendita».

([196]) Vedi la nota precedente. Non abbiamo bisogno di spiegare come ci sia impossibile dividere, riguardo alle spese edilizie di lusso, il sentimento della Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, dove sono considerate come segno di «un moto di trasformazione civile» al pari delle spese realmente utili (Vedi la Relazione, a pag. 8).

([197]) Vedi in proposito: Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, pag. 44 e seg.

([198]) Vedi in proposito il libro secondo, § 56, Opere Pie, e la Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, pag. 84 e seg.

([199]) Riguardo agli abusi e disordini di ogni genere nelle amministrazioni comunali, vedi la Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, pag. 93 e seg.

([200]) Vedi sopra, pag. 48 [§ 28 Nota per l'edizione elettronica Manuzio]. Il fatto è pure citato nella Relazione della Commissione d’inchiesta, pag. 94.

([201]) Legge del 3 agosto 1862 sulle Opere pie, articoli 14 e 15.

([202]) Legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, titolo III, capo 4.

([203]) Id., titolo II, capo 7.

([204]) Difatti, il progetto di legge per il riordinamento delle tasse comunali, presentato dalla Commissione nominata con R. decreto 12 marzo 1871 non provvede ad assicurare un’equa distribuzione delle gravezze municipali sulle varie classi della popolazione per mezzo delle varie tasse comunali, se non nell’interesse della proprietà fondiaria, eccessivamente gravata in molte parti d’Italia, ma non in Sicilia. (Vedi: Relazione, allegati e progetto di legge, seconda edizione. Roma, Stamperia Reale, 1876, sotto il titolo di Progetto di legge sulle tasse dirette comunali e sulle quote di concorso a favore delle province). All’infuori dei provvedimenti che pongono un limite massimo, ma non minimo alla proporzione in cui può venire imposta dai municipi la proprietà fondiaria (titolo I, capo X), la proporzione nella quale debbono imporsi le varie tasse non è stabilita che col fissare un minimo nella tariffa per ogni tassa, nè potrebbe esserlo con maggiore precisione.

([205]) Sui funzionari governativi, vedi: Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, pag. 95 e seg.

([206]) Riproduciamo in appendice il tratto della Relazione della Commissione d’inchiesta che si riferisce alle opere pubbliche.

([207]) Vedi specialmente § 98.

([208]) Vedi sopra, pagg. 264, 265 [§ 94 Nota per l'edizione elettronica Manuzio].

([209]) Vedi la già citata Relazione dell’on. Gerra in data del 31 ottobre 1874. (Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. — Documenti n° 24 bis, pag. 46).

([210]) Vedi sopra, pag. 195 [§ 71 Nota per l'edizione elettronica Manuzio].

([211]) Vedi sopra, § 77.

([212]) Riguardo alla quistione dei Porti e alla loro importanza speciale in un’isola, vedi sotto a pag. 314 della Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia, riportato nella Appendice del presente volume.

([213]) Vedi nella Relazione della Commissione d’inchiesta per la Sicilia a pag. 23, gli effetti in Sicilia della legge sulla tassa per l’alcool. — Vedi pure a pag. 100 e segg. ciò che vi è detto sulla riscossione delle tasse.

([214]) Nel riprodurre il giudizio contenuto in quest’ultimo paragrafo non intendiamo farlo nostro. Il lettore potrà vedere da sè in quanta parte lo dividiamo.

([215]) Studi di Amministrazione rurale per la Sicilia, estratti dal fascicolo IV degli Annali di Agricoltura Siciliana. Palermo, 1852, da pag. 28 a 71.

([216]) Manuale teoricopratico d’agricoltura e pastorizia, del sacerdote Gaetano Salamone. Mistretta, 1872, da pag. 238 a 245.

([217]) Vedi: Studi sulla industria dei cereali in Sicilia e le popolazioni che la esercitano, del prof. Girolamo Caruso. Palermo, 1870.

([218]) Vedi: Sulla Economia agraria praticata in Sicilia; nozioni, costumi e usi della sua grande agricoltura, di Pietro Cattani. Palermo, 1873.

([219]) Vedi sopra § 5.

([220]) Le parole inquilinaggio, inquilino, vengono usate generalmente in Sicilia e specialmente nella parte più meridionale, per indicare tanto il terratichiere, o terraggiere, come il metatiere; alcune volte però s’intende per inquilino il solo terraggiere, ed altre il solo metatiere. È così in Sicilia di molte espressioni che si riferiscono alle occupazioni agricole. La parola borgese che nel Palermitano indica il contadino sia terratichiere o metatiere, in quasi tutto il resto della Sicilia ha un senso più generico ed indica qualunque agricoltore che ha capitali, comprendendo anche il ricco gabellotto; anzi talvolta è specialmente usata in quest’ultimo senso. Così della parola massaro, che indica le condizioni le più varie, dal massaro dei pressi di Trapani che è l’affittuario di una tenuta media, ch’egli coltiva tutta a economia, al massaro del Catanese, che è un semplice guardiano dei giardini di agrumi. Così il metatiere del Milazzese e di Patti non è che un guardiano delle vigne, con salario convenuto per tutto l’anno. Il metatiere nel senso in cui l’usiamo nel testo, vien pure detto in una gran parte della Sicilia paraspolaro e paraspolo l’appezzamento di terra ch’egli conduce. Così della parola curatolo che indica ora il capoguardiano degli armenti, ora un custode delle vigne; e così pure di tante altre espressioni.

Abbiamo voluto avvertire questi doppi sensi per evitare che prenda leggermente equivoco chi abbia udito adoperare una di queste parole in una sola delle provincie siciliane.

([221]) 1 salma di grano = ettolitri 2.75.

([222]) 1 salma di terra = ettari 1.746.

([223]) 16 tumoli = 1 salma.

([224]) Vedi op. cit., pagg. 24, 25, 26.

([225]) Vedi op. cit., pag. 405.

([226]) Vedi op. cit., pagg. 89 e 90.

([227]) Vedi: Niccolò Palmieri, Somma della Storia di Sicilia. Palermo, 1856, pag. 266. — Vi è citato il caso di un vasto tenimento dato a terratico a quei d’Eraclea da Federigo II imperatore.

([228]) Il lettore che desideri più ampi ragguagli, ne troverà specialmente nel Caruso, op. cit., pag. 29 e seguenti.

([229]) 17 litri.

([230]) Ettaro 1.746

([231]) 1 salma = ettolitri 2.75.

([232]) Ettaro 1.746.

([233]) Queste imposizioni molteplici vendono chiamate dai contadini del Bivonese con voce espressiva, «i diritti di Santa Barbara».

([234]) Vedi: Cattani, op. cit., pag. 84.

([235]) Vedi op. cit., da pag. 103 a 106.

([236]) Vedi pure Salamone, op. cit., pagg. 240, 241.

([237]) Vedi sopra, § 5.

([238]) Coll’espressione «fondo seminativo», intendiamo sempre i terreni nudi seminativi e privi di ogni coltura arborescente; in Sicilia si dicono fondi «a seminerio».

([239]) Vedi sopra § 4.

([240]) Un quartuccio = litri 0.86.

([241]) Vedi sopra, § 10.

([242]) Sulle società dei sensali di grano vedi le notizie interessanti che fornisce il Cattani, op. cit., pag. 253 a 258. — Egli vi aggiunge che queste società, se sono «a carico del piccolo commercio, fruttano alle influenze locali».

([243]) Fucilata di chiacchierìa si dice a Palermo quella fucilata che un fattore licenziato o un affittuario fa tirare al padrone a due palmi dalla testa senza fargli male, e soltanto per inculcargli le proprie ragioni, o come dolce ammonimento di aver giudizio e di non insistere in qualche sua pretesa.

([244]) Il prof. Villari asserisce dietro la fede di un corrispondente palermitano, che quattro decimi dei contadini della Conca di Palermo sono piccoli proprietari, e che nel territorio che si dice della Sala di Partinico, o meglio quella parte della costa che si bagna nel golfo di Castellammare, gli otto decimi dei contadini sono proprietari. Non sapremmo spiegarci quest’asserzione senonchè intendendo la parola proprietari come usata per censuari, e anche in questo senso ci pare che vi sia qualche esagerazione. Non ci sembra poi molto esatto il classare i contadini censuari tra i proprietari: si tratta inoltre quasi sempre, quando si parli di contadini, di censi di pochissime are di terra. I censuari maggiori, che vengono considerati assolutamente come proprietari, appartengono alla classe agiata e per lo più affittano i loro terreni. I borgesi poi di cui parla lo stesso corrispondente, e che sono i gabellotti dei feudi, non si possono dire affatto contadini, ma bensì industriali agiati. — Vedi: Pasquale Villari, Lettere Meridionali al Direttore dell’«Opinione». Roma, 1875. Lettera II, pagg. 34, 35.

([245]) La media della rendita pel proprietario di un ettaro in Sicilia è di L. 40.41. Vedi: Atti della Commissione per la perequazione della rendita fondiaria. Torino, 1863. — E in questi calcoli non entravano i beni dell’asse ecclesiastico, per cui la rendita media generale per ettaro sarebbe anche minore.

([246]) Vedi: op. cit. Lettera 11, pag. 3739.

([247]) Il Rinaldi è stato ucciso nell’agosto di questo anno (1876).

([248]) Dobbiamo questi dati alla cortesia del signor Luigi Zangla, segretario del Comizio agrario di Castroreale.

([249]) Vedi: Simone Corleo, Storia della Enfiteusi dei Terreni Ecclesiastici di Sicilia. Palermo, 1871, pag. 157.

([250]) Dobbiamo per molte di queste notizie ringraziare la cortesia del signor Sebastiano D’Amico Lapiana, di Catania.

([251]) Vedi sopra, § 19 in fine.

([252]) Vedi sopra, § 48.

([253]) Secondo le cifre ufficiali che riporta il prof. Basile, il numero dei proprietari in Sicilia, che all’epoca dell’attuazione del catasto, dal 1835 al 1852, era di 608,601, sarebbe sceso al 1° gennaio 1871 a 549,957.* E per non farsi illusioni bisogna tenere in mente che le statistiche ufficiali sono ben lungi dal darci il vero numero dei proprietari siciliani, poichè debbono «per necessità di compilazione notare moltissimi poderi come divisi mentre in fatto sono uniti, e notare un maggior numero di proprietari mentre in fatto è meno»; giacchè ogni nuova aggiunta o trasferimento di proprietà conserva nei registri del catasto un numero a sè; oltrechè quando un medesimo proprietario possiede terre in più Comuni, la statistica catastale calcola altrettanti proprietari quanti sono i Comuni in cui egli possiede. — Michele Basile, I catasti d’Italia e l’Economia agraria in Sicilia. Messina, 1875, pagg. 78 e 112-113.

* Questa cifra però nella Relazione della Giunta per l’Inchiesta sulle condizioni della Sicilia (a pag. 16), comparisce ora di 583,788.

([254]) Citiamo come un esempio tra molti, un caso curioso narratoci da un egregio corrispondente molto pratico della materia e sulla cui buona fede ed imparzialità non può cadere il menomo dubbio. — Il principe Carlo Cottoni di Castelnuovo, una delle più belle e nobili figure della storia siciliana, quello stesso che istituì e dotò l’Istituto agrario che tuttora prospera presso Palermo, e il quale morente legava la somma di 500,000 lire a chi avrebbe indotto il Sovrano a ridare la costituzione del 1812 alla Sicilia, volle pure istituire per testamento (1829) a beneficio del comune di X.... in provincia di Caltanissetta, un ospedale, una casa di educazione per le fanciulle, ed una scuola elementare. La disposizione testamentaria comincia così: «Quantunque non abbia ricevuto che dispiaceri dal comune di X.... e non isperi che quella popolazione sia per mutar costume, pure avendola amata sempre, lego ecc.». Lasciava inoltre una cospicua somma perchè servisse alla costruzione di strade che unissero quel paese con gli altri vicini. E continuava: «Siccome non conosco altra persona onesta che il tal di tale, lo delego come amministratore, vita durante». Lui morto, doveva amministrare il capo dell’Amministrazione comunale, sotto la sorveglianza dell’Intendente della provincia.

L’ospedale fu fatto, e lo cominciò il primo amministratore. Vi sono direttori, economi, cappellani, segretari, farmacisti, inservienti, tutto fuorchè ammalati: esisteva perfino tempo fa, un incaricato a Firenze per riscuotere la rendita sul Debito Pubblico intestata, e riceveva per questo lire 1200 di stipendio annuo. Di strade non si parlò per 40 anni, e non si fecero nemmeno gli studi preparatorii: le rendite servirono ad altri usi, e ci volle un vero colpo di mano per portar via dalle casse del Comune, sei anni addietro, i valori che rimanevano, per cominciare finalmente ad impiegarli al fine voluto dal testatore.

([255]) S’intende che noi qui non parliamo della «partecipazione agli utili», forma che è benissimo conciliabile col salariato, ma invece della partecipazione al prodotto come unica e sola retribuzione al lavoro: è questa la sola forma che sia stata ancora usata in Italia nei contratti agricoli informati al principio della partecipazione.

([256]) Vedi: J. S. Mill, Principj di Economia Politica, lib. II, cap. IV, § 2, e cap. VIII, passim. «La consuetudine è, — egli così si esprime, — il protettore più potente dei deboli contro i forti; il loro unico protettore dove non vi siano nè leggi nè governo che bastino all’intento».

([257]) Vedi: I sistemi d’amministrazione rurale e la questione sociale, per il prof. Girolamo Caruso, Pisa, 1874, e negli Atti dei Georgofili i resoconti delle diverse conferenze sulla colonìa parziaria, di cui le ultime tenute nel 1872, ed un gran numero di Memorie, che sarebbe troppo lungo di qui enumerare. — Vedi per molte indicazioni sui lavori più antichi in proposito: Marco Tabarrini, Degli studi e delle vicende della R. Accademia dei Georgofili. Firenze, 1856, pagg. 266 a 268.

L’autore pure del presente lavoro ha trattato brevemente la questione in un opuscoletto intitolato: La Mezzerìa in Toscana. Firenze, 1875.

([258]) Vedi sopra, § 18.

([259]) Vedi sopra, § 39.

([260]) Vedi le citazioni a pag. 31, in nota.

([261]) Queste parole sono tolte dall’importante «Indirizzo al deputato Maurogónato, della Commissione consorziale per la risoluzione dei reclami concernenti le imposte dirette, di Piombino Dese e Trebaseleghe», pubblicato nell’Economista di Firenze del 25 giugno 1876, sotto il titolo: L’imposta sui redditi di ricchezza mobile in rapporto ai lavoratori del suolo.

([262]) Togliamo l’esempio dall’Indirizzo citato nella nota precedente sostituendo soltanto alle cifre delle medie generali a tutto il Regno, che esso riporta, quelle generali alla sola Sicilia, come risultano dagli Atti della Commissione per la perequazione dell’imposta fondiaria. Torino, 1863.

([263]) Sono parole del Mill. Vedi: Dissertations and Discussions. Londra, 1875, vol. IV, pag. 88.

([264]) Mill, loc. cit., pag. 89.

([265]) Vedi per notizie riguardanti la censuazione dell’Asse ecclesiastico la diligentissima Storia dell’Enfiteusi dei Terreni Ecclesiastici di Sicilia, per Simone Corleo. Palermo, 1871.

([266]) Vedi: op. cit., pag. 284.

([267]) Michele Basile: I Catasti d’Italia e l’Economia Agricola in Sicilia. Messina, 1875, pag. 41. — Tutta questa questione è trattata nel lavoro del Basile con molto acume e con chiarezza. Concordiamo nelle conclusioni del dotto professore messinese; ma vorremmo aggiungervi una clausola sola. Ci pare che il Basile, nella foga dell’impeto contro chi vorrebbe tassare con l’imposta fondiaria i frutti del lavoro e del capitale applicati al suolo, vada all’eccesso opposto di voler esentare da qualunque imposta tutta quella parte di capitale che impiegandosi nel suolo sotto forma di miglioramenti, serve pure di base all’industria agricola, e non può nonostante essere colpita dall’attuale imposta di ricchezza mobile sul coltivatore che non sia proprietario.

Il ragionamento stesso del Basile, che troviamo giustissimo, porta a nostro credere, logicamente a queste conseguenze: — Abolito ogni sistema di ritenuta nell’esazione dell’imposta di ricchezza mobile, questa dovrebbe convertirsi in una vera imposta sulle rendite o entrate (income tax), qualunque sia la fonte da cui esse provengono. L’imposta prediale dovrebbe poi colpire — secondo il sistema proposto dal Basile, o altro che si adotti purchè informato agli stessi principii — la sola rendita fondiaria. A questo modo anche i proprietari, come qualunque altro cittadino, contribuirebbero all’imposta in proporzione dei loro averi, e l’industria agricola non sarebbe colpita che da quella stessa tassa che colpisce qualunque altra industria. Supponendo per esempio che un proprietario non conduca da sè il suo fondo, ma conceda la sua terra a un affittuario, il capitale fisso impiegato nella terra verrebbe colpito dalla tassa di ricchezza mobile pagata dal proprietario, e il capitale annuo d’esercizio da quella pagata dall’affittuario.

Volendo introdurre però questo ordinamento delle imposte, bisognerebbe forse — per non cadere in un sistema di confische, e non aggravare troppo a un tratto la condizione dei proprietari — calcolare la nuova imposta prediale da applicarsi, non sul totale dell’imposta attuale, ma su quanto ne rimane dopo detratta tutta quella parte che vi ha in essa di vera imposta di ricchezza mobile, ossia, volendo prendere per esempio le medie generali del Regno e restringendosi alla sola imposta prediale principale, da ogni 205 d’imposta prediale principale bisognerebbe togliere 132 a titolo di ricchezza mobile, e misurare quindi la nuova imposta prediale sulla somma del residuo. Gli altri 13,20 per 100 lire d’entrata verrebbero pagati dal proprietario a titolo di ricchezza mobile.

A noi sembra che sia appunto la confusione che attualmente si fa nell’imposta prediale, dei due concetti di tassa sulla rendita fondiaria, ossia tassa sul capitale, e di tassa di ricchezza mobile, ossia tassa sulle entrate, che porti a chiedere delle periodiche perequazioni dell’imposta prediale che tengano conto dei soli prodotti, ossia del grado di coltivazione del terreno; poichè informandosi al concetto della ricchezza mobile da un lato, e dall’altro ad un vago concetto del diritto che ha lo Stato di appropriarsi una parte della rendita fondiaria, non si bada a ciò che la nuova imposta secondo l’attuale sistema di catastazione colpirebbe, come diciamo nel testo, la sola industria agricola, e non gli aumenti effettivi di rendita fondiaria.

([268]) Vedi: Progetto di legge sulla Perequazione dell’Imposta fondiaria, presentato alla Camera dei Deputati dal Ministro delle finanze (Minghetti) nella tornata del 21 maggio 1874.

([269]) Vedi: op. cit., pag. 63 e seguenti.

([270]) Vedi: Basile, op. cit., pag. 79.

([271]) Vedi: Giorgio Sonnino, Il catasto e la perequazione dell’Imposta fondiaria. Firenze, 1875, pagg. 67 a 70.

([272]) Vedi sopra, § 76.

([273]) Vedi: Parte prima, § 56.

([274]) Riguardo a tutta questa questione vedi: Sulle Disposizioni Legislative intorno alla mezzadrìa: reclami e proposte del Comizio agrario di Ravenna. — Non concordiamo in tutte le conclusioni dello scrittore (dottor Pietro Santucci, presidente di quel Comizio), ma questo ci sembra un lavoro informato a concetti molti più pratici e seri, che non le critiche fatte ai proprietari toscani dall’avv. Ercolani; vedi: Della locazione e conduzione dei fondi rustici e della Società colonica secondo il disposto del patrio Codice Civile. Siena, 1875, pag. 134-139. — Il dotto Avvocato si maraviglia che tutti i proprietari non s’affrettino a seguire le disposizioni del Codice regolatrici del contratto colonico, anche là dove sono assai diverse le consuetudini locali. Così egli vorrebbe che il bestiame fosse tutto di proprietà del colono, come pure i foraggi per l’inverno e gli strumenti agricoli, e per strumenti agricoli (pag. 167) l’Avvocato intende l’aratro, i carri, i trebbiatoi, e tutto quanto altro occorre per le aziende agricole. È facile il comprendere quanto vantaggio ne verrebbe all’agricoltura nostra, se nelle condizioni attuali dei coloni in Italia non si dovessero coltivare i fondi che col bestiame e cogli arnesi agricoli che essi potessero acquistare e mantenere. L’ideale da lui vagheggiato per questa parte della colonìa, l’avv. Ercolani lo potrà ritrovare nelle metaterìe siciliane, dove il mulo o l’asino che tira l’aratro è di proprietà del contadino o da questi preso in affitto, e così pure l’aratro stesso che si compone di due pali e un chiodo, e che si carica comodamente sull’asino che trasporta il contadino al lavoro.

Ma supponiamo per un momento che le disposizioni del Codice si adottassero tutte nell’Italia centrale, là dove la mezzerìa dà ora indubbiamente i suoi migliori risultati agricoli e sociali; che cosa ne verrebbe? — Ove il colono possedesse tutto il bestiame bisognerebbe che avesse una parte del podere a fitto, poichè altrimenti darebbe a mangiare alle bestie del foraggio che è proprietà comune, e avrebbe un interesse troppo forte ad aumentare sempre più la parte del podere da coltivarsi a foraggio, visto che i guadagni del bestiame sarebbero suoi, mentre i guadagni sui prodotti del suolo vanno divisi a metà. Ecco quindi che entra subito nella mezzadrìa un elemento di fitto, e questo, lo abbiamo già dimostrato, è una minaccia grave per la condizione generale e dei contadini e dell’agricoltura, e ciò specialmente là dove, come nella maggior parte d’Italia, non vi è in ogni podere un appezzamento distinto che si possa irrigare e coltivare permanentemente a prato, onde darlo in affitto al colono, come si fa spesso in Piemonte. In questo ultimo caso, la cosa è meno dannosa: il bestiame e il fitto del prato formano come un’industria distinta dalla coltivazione del podere, e l’unico danno per il colono è quello che sopra di lui solo ricade il peso di tutta la lavorazione e della concimazione del podere. Ma dove invece l’elemento di fitto occupa tutto il suolo come nell’alto Milanese, oppure alternativamente un campo dopo l’altro seguendo la rotazione agricola, come in alcuni punti del Bergamasco e anche del Messinese — specialmente in alcuni terreni bassi dei circondari di Patti e di Castroreale che sono coltivati a mezzadrìa e in cui s’avvicenda la sulla col grano, — la condizione del colono tende gradatamente a peggiorare, perchè il canone d’affitto può facilmente venir aggravato e in modo da non corrispondere più al solo foraggio del bestiame, ma da riescire alla diminuzione effettiva della parte del contadino anche nella divisione dei prodotti di quella frazione del podere che rimane coltivata a mezzadrìa. E se il bestiame è del colono, che interesse avrà il proprietario alle buone stalle? e come potrà assicurarsi di una conveniente concimazione del fondo? E alla prima annata cattiva, come si lavorerà più il fondo, come si concimerà? Dovrà forse il proprietario anticipare il denaro al contadino perchè si comperi del nuovo bestiame? Ma allora sparisce l’unica ragione per cui — ed è questo che l’avv. Ercolani non ha tenuto a mente — in ogni contratto agricolo che abbia forma di fitto conviene che il coltivatore possieda del bestiame; ed è quella di fornire al proprietario una garanzia per l’esatto adempimento del contratto, e un pegno che lo assicuri da qualunque deterioramento del fondo per parte dell’affittuario. Il contratto poi di colonìa prenderebbe tanto più necessariamente il carattere di fitto, coi danni conseguenti del fitto piccolo, quando, a norma degli articoli del Codice, la direzione della coltivazione del podere, ossia l’uso della cosa locata, spettasse al colono o conduttore. Sono queste due cose che si tengono strette — direzione della coltura dal colono, e fitto: l’una conduce necessariamente all’altra. E il concedere l’esclusiva direzione del fondo al colono sarebbe attualmente in Italia di grave ostacolo ai progressi dell’agricoltura. Anche alla mezzerìa sul tipo toscano si riscontra un serio ostacolo ai miglioramenti agricoli nella riluttanza del mezzadro o consocio, il quale ha necessariamente una voce in capitolo in un’industria di cui deve godere la metà dei risultati: che cosa sarebbe poi ove le disposizioni del Codice civile diventassero la regola generale? —

Si persuada dunque l’avv. Ercolani che non è soltanto l’attuale «inopia» dei coloni dell’Italia centrale, che rende impraticabili o inopportune le sapienti disposizioni dettate dai nostri legislatori; e che essi, per dettarle, avrebbero fatto meglio, anzichè «rovistare su vecchie leggi, e su dotte carte», d’informarsi un po’ più di quel che si faceva nelle varie provincie d’Italia.

([275]) Vedi nota antecedente.

([276]) Vedi a questo proposito le belle considerazioni del Basile: — Il caseggiato delle aziende rurali. Messina, 1876, pag. xxxiii e 113.

([277]) Vedi op. cit., Lettera IV.

([278]) Vedi pure per le riforme agrarie in Baviera: Das bayerische Grundlasten-Ablösungs-Gesetz vom 4 Juni 1848, erläutert von Dr. J. Pözl, Erlangen, 1852.

([279]) Ecco come lo stesso Lavaleye (pag. 980) descrive questa consuetudine esistente generalmente nella provincia irlandese dell’Ulster: «Il proprietario non avendo esatto tutto il canone che la concorrenza gli avrebbe fatto ottenere, il fittaiuolo gode di una parte della rendita naturale del suolo, e questo vantaggio egli crede di poterlo vendere. È come una specie di comproprietà. È inteso che non può essere espulso finchè paga esattamente il fitto. Non è interdetto al proprietario di aumentare il canone; ma non può farlo che nella misura in cui i benefizi del fittaiuolo aumentano, di maniera a non diminuire il valore del diritto di questo. In caso di vendita del tenant-right, l’acquirente deve essere approvato dal proprietario; ma questi non deve ricusare il suo consenso senza buoni motivi. Se gli è dovuto un arretrato sul fitto, può prelevarlo sul prezzo pagato dall’acquirente. Questo prezzo varia estremamente; esso dipende evidentemente dalla moderazione delle esigenze del proprietario e dalla parte della rendita che abbandona al locatario. Esso si eleva talvolta fino a 500 fr. l’acre. Meno il proprietario è esigente, più il diritto di occupare il suo podere ha valore. In ciò che il fittaiuolo paga entrando, una parte rappresenta il prezzo dei miglioramenti effettuati; il resto è per il good-will, per la «buona volontà» del fittaiuolo uscente, che permette all’altro di occupare il suo posto».

([280]) Vedi: Villari, op. cit., lettera IV, e Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia. Milano, 1854, pag. 252.

([281]) Vedi: op. cit., pagg. 212 a 216.

([282]) Veramente il Jacini non sembra proporlo che alle Amministrazioni delle Opere pie, come un modo di fare a meno del sistema rovinoso delle aste; noi abbiamo discussa la questione più in generale, estendendo la proposta a qualunque ordine di proprietà territoriali.

([283]) Vedi op. cit., pag. 215.

([284]) Questo punto è benissimo trattato dal Cairnes: Di alcuni principii fondamentali dell’Economia politica. Versione italiana. Firenze, 1877, cap. III. — Egli distingue i valori in due classi: 1° quelli il cui prezzo è determinato dal costo di produzione; 2° quelli nella determinazione del cui prezzo entrano altre condizioni, e specialmente di monopolio. Tutte le merci nella produzione delle quali vi è libera concorrenza, hanno il loro valore determinato dal costo di produzione: ma libera concorrenza non vi è che nell’interno degli stessi gruppi industriali; da un gruppo a un altro evvi una barriera, sia di perizia, di pregiudizio, — anticamente di legge, — o d’altro, che toglie la concorrenza. In questi casi il valore non è più determinato dal costo di produzione, ma dalla reciproca domanda, ossia dalla quantità di merci che ognuno dei gruppi industriali ha da offrire agli altri come domanda delle merci di quegli altri. Onde mentre nell’interno di ogni gruppo industriale il preciso valore relativo di ogni classe di merci prodotte da quel gruppo, verrà determinato dal costo di produzione, di fronte invece agli altri gruppi il livello medio generale dei prezzi delle merci di quel gruppo, sarà determinato dalla quantità di merci che esso offre allo scambio con gli altri. Ora nel costo di produzione due sono i termini — sagrifizio del lavoro, e astinenza del capitale. Maggiore dunque la durezza del lavoro, maggiore dovrebbe essere il valore della merce, e questo si verifica effettivamente, ma soltanto nell’interno di ogni gruppo industriale. Sicchè, perchè possa alzarsi il valore delle merci prodotte dal lavoro manuale inesperto, di fronte alle merci degli altri gruppi industriali, ossia del lavoro esperto di qualunque genere, è necessario che l’educazione e l’istruzione generalizzandosi accrescano la quantità delle merci che il lavoro esperto ha da cambiare di fronte a quello inesperto — che cresca quindi l’effettiva domanda dei prodotti del lavoro inesperto.

È dunque soltanto colla diffusione dell’istruzione e dell’educazione, e col renderle accessibili a tutti, che si può trovare un rimedio al grandissimo sconcio degli ordinamenti sociali presenti, nei quali il lavoro più duro è il meno retribuito.

([285]) Vedi: Ellena, Dell’emigrazione e delle sue leggi, nell’Archivio di Statistica. Anno I, fasc. 1. Roma, 1876, pag. 67.

([286]) Uno dei primi e più lodevoli atti del Ministero di Sinistra creato dal voto del 18 marzo 1876, fu, come abbiamo detto, il ritiro della circolare Lanza. È però da deplorarsi che ai primi fatti che hanno turbato l’opinione pubblica, alla notizia cioè dell’emigrazione in massa di molti contadini dal Mantovano, perchè privi affatto di mezzi di sussistenza, il Ministro dell’interno si sia lasciato indurre a recedere alquanto dai principii più liberali, con una circolare ai prefetti, in data del 20 settembre di quest’anno (1876). In essa, difatti, dopo molte proteste di rispetto per la libertà dei cittadini, si fanno distinzioni piuttosto sottili e pericolose tra emigrazione naturale ed emigrazione artificiale, dichiarando di voler rispettare quella, ed opporsi con tutti i mezzi a questa; e infine si prescrive ai prefetti, calcando le orme dell’abrogata circolare Lanza, di non rilasciare il passaporto a nessun emigrante, senza prima convincersi che il medesimo abbia i mezzi per sostenere le spese del lungo viaggio e per far fronte ai primi bisogni della vita nei primi giorni del suo arrivo nel nuovo Stato in cui vorrebbe recarsi. Questa disposizione è una nuova violazione pura e semplice della libertà dei cittadini, che la circolare asserisce di voler rispettare; ed è inoltre il mezzo più sicuro di spingere all’emigrazione clandestina, oppure a far prendere agli emigranti per le Americhe la via di Trieste o di Francia.

([287]) Vedi più avanti § 116 per quanto riguarda le case dei giornalieri nelle grandi fattorie; e per una minuta trattazione di alcune di queste questioni il lavoro già citato del Basile: Il caseggiato delle aziende rurali, passim.

([288]) Vedi sopra, § 100.

([289]) Vedi: Cliffe Leslie, The land system of France, pubblicato nel volume già citato del Cobden Club, pag. 296 della seconda ristampa.

([290]) Land in England, Land in Ireland, and Land in other Lands, di Chandos Wren Hoskyns, M. P.

([291]) Vedi op. cit., pag. 303. — Il Leslie si appoggia pure in questi apprezzamenti sull’opinione della prima autorità francese in fatto di economia rurale, M. Léonce de Lavergne, e sui resultati dell’ultima Inchiesta agricola in Francia.

([292]) Vedi: Ermolao Rubieri, Sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia e della Maremma Pisana. Firenze, 1868, pag. 16 e seguenti.

([293]) Spagna: Studi sulla economia delle acque in Sicilia negli Annali di Agricoltura Siciliana, seconda serie, anno X, pag. 236.

([294]) Ivi pag. 234.

([295]) Ivi, anno XI, pag. 108.

([296]) Vedi: Basile, I caseggiati rurali, pagg. 36-38, e 40-42, e per un’ampia discussione delle questioni generali il bel lavoro di Von der Goltz, Die ländliche Arbeiterfrage und ihre Lösung. 2.te Auflage. Danzig, 1874, da pag. 164 a 306. — È peccato che manchi ancora una versione italiana di quest’opera.

([297]) Vedi: Von der Goltz, op. cit., pag. 169.

([298]) Vedi: Von der Goltz, op. cit., da pag. 250 a 277, e gli altri autori ivi riportati.

([299]) Vedi: Thornton, Del lavoro. — Versione italiana. Firenze, 1875, pag. 437.

([300]) Vedi: Thornton, op. cit., pag. 438.

([301]) Thornton, op. cit., pag. 440.

([302]) Vedi pure su tali questioni: Von der Goltz, op. cit., da pag. 278 a 299.

([303]) Vedi: Diego Orlando, Il feudalismo in Sicilia, pagg. 55, 56; e Corleo, op. cit., pag. 11.

([304]) Un vetturale che ci trasportava l’anno scorso da Lodi a un villaggio vicino, dopo averci comunicato le sue impressioni sulla sorte dei contadini in quelle parti, riassumeva in fine il suo giudizio, con questa frase, che ci è rimasta impressa: «I païsan stan mal perchè guadagnen poch — stan mal perchè lavoren trop — stan mal perchè dormen minga ben».

([305]) Vedi pei particolari nel Thornton, op. cit., pag. 544 e seg., e Von der Goltz, op. cit., pag. 301.

([306]) Un altro esempio di cooperazione agricola di produzione troviamo nel Viganò: La fratellanza umana, Milano, 1873, a pag. 172 e seg., ed è quello avvenuto a Ralahine nella contea di Clare in Irlanda per iniziativa del proprietario Vandeleur, e del suo agente Craig. Però sembra che l’esperimento cominciato nel 1830, non continuasse al di là del 1833. — Nell’altro esempio citato dal Viganò, come promosso dal Von Thünen nelle sue terre di Tellow nel Meclenburgo, non si tratta di associazione cooperativa di produzione, ma di semplice partecipazione dei lavoranti al prodotto dell’azienda condotta per conto del proprietario. Vedi su ciò Von der Goltz, op. cit., pag. 257 e seg., dove si trova pure la narrazione di un altro esempio importante di partecipazione introdotta nei suoi beni dal signor Neumann, grande proprietario di Posegnick.

([307]) Anche in Lombardia, e specialmente in una tenuta del marchese Parravicino a Greco, presso Milano, e in altra del marchese Soncino in Castello di Lecco, abbiamo riscontrato esempi di associazioni di coloni sul genere di quelle descritte nel testo. La forma non era precisamente la stessa, vista la diversità delle colture locali, ma vi era l’elemento comune della responsabilità solidale, di fronte al proprietario, di un numero di contadini affittuari, la quale si era sostituita a quella dell’affittuario capitalista. Nel numero del Politecnico di Milano dell’agosto 1871 troviamo pure una Memoria dell’ingegnere Giorgio Manzi, in cui dà conto di un esperimento simile, iniziato nel 1864 dalla Congregazione di Carità di Milano, sopra un podere di 57 ettari posto in Lazzate, il quale fu affittato direttamente a una società di contadini. L’esperimento fu coronato da un pieno successo. Il Manzi cita pure altri quattro esempi di affitti simili, avvenuti in Brignano, in Rovellasca, in Cirimido, e in Lazzate.

([308]) Non potremmo garantire l’assoluta esattezza di questi dati, non avendo potuto recarci sul luogo per verificarli, ma ci sono stati forniti da persona molto bene informata, abitante a Mistretta, e alle cui informazioni abbiamo ogni ragione di prestare fede completa.

([309]) Vedi: Turrisi, op. cit., pagg. 49 e 50.

([310]) Vedine esempi in Corleo, op. cit., pag. 285. Non bisogna però credere che in tutti i casi di cui parla il Corleo si trattasse veramente di contadini; spesso erano anche società di proprietari e di capitalisti minori.

([311]) Vedi il discorso del Ministro Vigliani nella tornata del Senato del 12 aprile 1875, in occasione della discussione sull’art. 318 del nuovo Codice Penale. L’onorevole Guardasigilli d’allora vi parla del «reato dello sciopero» e di uno «scopo ingiusto, quale sarebbe quello di alzare i salari».

([312]) Vedi il suo articolo: Power of the Labourers: nella Fortnightly Review, 1874, vol. II, pag. 122.

([313]) Vedi: lettera al giornale La Nazione nel n° del 13 aprile 1875.

([314]) Nel 1870 non fuvvi emigrazione alcuna dalla provincia di Mantova, nel 1871 non sorpassò le 214 persone, e nel 1872 scese a una cinquantina. Vedi: Leone Carpi, Delle Colonie e dell’Emigrazione d’Italiani all’estero. Milano, 1874, pagg. 18 e 31, e quadro A in fondo al primo volume.

([315]) Vedi per alcuni curiosi particolari su tali emigrazioni periodiche: L. Bodio, L’Italia Economica nel 1873. Roma, 1873, a pagina 656 in nota.

([316]) Vedi: Dell’Emigrazione e delle sue leggi, nell’Archivio di Statistica. Roma, 1876, anno I, fasc. 1° a pag. 42.

([317]) Vedi loc. cit., pag. 32.

([318]) Vedi: Bodio, op. cit., pagg. 681, 682.

([319]) Queste cifre sono tolte dai registri del Porto, e li dobbiamo alla cortesia del signor Mario Corrau, Capitano del Porto di Palermo.

([320]) Vedi per l’emigrazione dal Messinese: Basile, I catasti d’Italia, pagg. 95 e 96.

([321]) Vedi: Carpi, op. cit., pagg. 19, 21 e quadro A.

([322]) Vedi: Carpi, op. cit., pag. 41.

([323]) Vedi per alcune delle forme di associazione a cui accenniamo nel testo, e specialmente in quanto interessano i lavoranti agricoli, quel che ne dice il Von der Goltz, op. cit., da pag. 202 a 250; e anche a pag. 157 dove tratta delle biblioteche popolari.

([324]) L’espressione è del Leslie.

([325]) Vedi: Leslie, Land systems and Industrial Economy of Ireland, England, and Continental countries. Londra, 1870, pag. 123.

([326]) Queste pagine e quelle che seguono sulle zolfare, erano già pronte per la stampa, quando potemmo prender cognizione della Relazione della Giunta per l’Inchiesta sulle Condizioni della Sicilia, in data del 3 luglio passato, ma pubblicata soltanto in questi giorni (settembre 1876). Non abbiamo creduto di dover nulla mutare a quanto avevamo scritto. Gli apprezzamenti degli onorevoli componenti la Giunta intorno alla questione agraria in Sicilia sono molto diversi da quelli che abbiamo espressi nel nostro lavoro. Essi anzi escludono l’esistenza di una qualunque questione sociale in Sicilia, fondandosi specialmente sulla ragione che molti dei mali che possono affliggere il contadino siciliano si riscontrano pure in altre provincie italiane (vedi pagg. 47-49 della Relazione). Noi non neghiamo il fatto, ma non ci sembra che se ne possa trarre la conseguenza che ne trae la Commissione. La questione sociale esiste, viva e minacciosa, oltrechè in Sicilia, nelle campagne di una buona metà d’Italia. Essa però in Sicilia come pure in una parte del Napoletano ci presenta questo di particolare, che benchè non sia causa unica dello stato di insicurezza pubblica e di corruzione civile esistente in quelle regioni, vi entra però per tanta parte, che la sua soluzione totale o parziale è la condizione imprescindibile della durevole riuscita di qualunque riforma da introdursi negli altri ordini del vivere civile. Del resto non possiamo che rimetterci al giudizio del pubblico.

Quanto a quelle differenze che corrono tra alcune notizie di fatto da noi date, e quelle esposte dalla Giunta, non possono esserne giudici che i Siciliani. I dati da noi riportati sono tratti dall’osservazione propria sui luoghi, da un grandissimo numero di appunti presi pure sui luoghi dietro le informazioni forniteci da ogni classe di gente, da risposte ad un nostro questionario scritte da persone competentissime, e infine dalle opere più pregevoli che trattano delle condizioni agricole della Sicilia, e di cui abbiamo citato alcune nel corso di queste pagine.

([327]) Calcarone si chiama la fornace in forma di conca che serve per fondere lo zolfo e così separarlo dalla pietra, e dalle altre sostanze con cui si trova unito. S’ammucchia il minerale nel calcarone, quindi si ricuopre questo ermeticamente; e vi si dà il fuoco. È lo zolfo stesso che brucia e fa da combustibile, onde lo spreco del prezioso minerale è tuttora enorme. Quando lo zolfo è fuso, si apre un foro nella parte inferiore del calcarone e si fa colare il minerale in apposite forme, dove si lascia freddare. Casse si dicono i mucchi (in media di circa 2 metri di lato per 1 di altezza) di minerale grezzo, che vengono formati sopra terra col minerale scavato da ogni picconiere, e che formano l’unità di misura sulla quale viene stipulato il prezzo che l’amministrazione della zolfara paga ad ogni picconiere. La basterella è formata dalla riunione di più casse.

([328]) Siamo stati più volte assicurati dagli zolfatari o dagli assistenti nelle miniere, che s’impiega pure un gran numero di ragazzi di 5 e di 6 anni, ma noi non ne abbiamo mai trovati di così piccoli. Naturalmente desumevamo l’età dei ragazzi da quello che ci dicevano essi stessi e i loro compagni: del resto i dati che ci fornivano erano confermati da quanto ci dicevano i soprastanti, i capimastri e gli assistenti che ci accompagnano nelle nostre discese.

([329]) Il Parodi, nella sua bella Relazione Sull’estrazione dello zolfo in Sicilia, Firenze, 1873, a pag. 26 dice che alle gallerie si dà una larghezza di metri 2 a 2.50, e che l’altezza varia, ma egli fa supporre che sia in generale di circa 2 metri. Ciò sarà l’ideale a cui si dovrebbe arrivare, ma possiamo attestare de visu che nel fatto il maggior numero delle gallerie non supera le misure riportate nel testo.

([330]) Per queste cifre ci siamo riportati a quello che ci hanno detto gli stessi direttori, capimastri e inservienti, tutti interessati ad attenuare i fatti relativi al lavoro dei ragazzi, anzichè ad esagerarli. Del resto ci siamo più volte provati a sollevare le ceste di minerale caricate sulle spalle dei ragazzi di 10 e di 11 anni, e le portavamo a stento: non potevano avere un peso inferiore ai 35 chili.

([331]) L’incendiarsi di una zolfara non impedisce generalmente che si continui a lavorarla. L’incendio viene circoscritto; e tutto il banco di zolfo diventa un immenso calcarone dove lo zolfo si fonde da sè. Dai fori poi che si praticano in alcuni punti, cola fuori lo zolfo purissimo. A Sommatino evvi così tutta una montagna che brucia internamente. Il calore però in alcune di queste miniere è fortissimo.

([332]) Abbiamo riportato le opinioni udite sui luoghi, non perchè possano in questa forma avere alcuna importanza tecnica, ma per mostrare come anche fra i direttori di zolfare vi sia chi desidera e crede attuabili le prescrizioni della legge sul lavoro dei fanciulli nelle miniere. Per tutta la trattazione della parte tecnica della questione, il lettore non ha che da consultare la già citata Relazione dell’ingegnere Parodi, e specialmente a pag. 36 e seguenti.

([333]) Vedi: Parodi, loc. cit., pag. 16.

([334]) Vedi: Comte de Paris, De la situation des ouvriers en Angleterre. Paris, 1873, pagg. 268-280.

([335]) A questo proposito raccomandiamo ai nostri legislatori i quattro articoli seguenti della legge dell’Impero Germanico, del 7 giugno 1871, che citiamo in francese, sulla fede della traduzione del signor Lyon-Caen, pubblicata nell’Annuaire de Législation étrangère pel 1872, pag. 264:

«Art. 2. — Celui qui exploite une mine, une carrière ou une fabrique, doit, lorsque son mandataire, son représentant, une personne chargée par lui de diriger ou de surveiller l’exploitation ou un de ses ouvriers cause par sa faute, dans les fonctions auxquelles il est employé, la mort ou la blessure d’un individu, payer la réparation du préjudice causé.

«Art. 3. — Les dommages-intérêts, dans les hypothèses des art. 1 et 2 comprennent:

«1° En cas de mort, les frais occasionés par les soins donnés au blessé et les frais d’enterrement; en outre la réparation du préjudice pécunaire souffert par le mort durant sa maladie par suite de son incapacité de travail totale ou partielle. Lorsque la personne morte était, au moment de sa mort, tenue d’une obligation alimentaire légale, le créancier des aliments, peut réclamer une indennité, si la mort du débiteur lui fait perdre sa pension;

«2° En cas de blessure, les dépenses nécessitées par le traitement et la réparation du préjudice pécuniaire causé au blessé par son incapacité de travail totale ou partielle, temporaire ou permanente.

«Art. 5. — Les entrepreneurs désignés aux art. 1 et 2 n’ont pas le droit d’exclure par avance ni de limiter à leur avantage (par un réglement ou une convention spéciale) l’application des dispositions contenues aux art. 1 à 3. Les clauses contraires a cette prohibition n’ont aucun objet legal.

«Art. 9. — La présente loi ne déroge pas aux lois particulières en vertu desquelles les entrepreneurs d’établissements désignés aux art. 1 et 2 ou toute autre personne sont tenus, à raison d’une faute personelle, de réparer le préjudice causé par les morts ou les blessures occasionnés par leur exploitation.

«Les prescriptions des art. 3, 4, 6 à 8 s’appliquent aussi dans ces hypothèses, pourtant sans préjudicier aux dispositions des lois particulières qui permettent à la personne lésée d’obtenir une indemnité plus forte».