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JOHN LOCKE

 

di François Duchesneau

 

[ Da La filosofia dell’Illuminismo a cura di F. Chatelet]

 

 

La filosofia di Locke non è una filosofia puramente speculativa; essa deriva direttamente da preoccupazioni pratiche e mira alla soluzione di problemi pratici. L'opera maggiore di Locke, l'Essay on Human Understanding (Saggio sull'intelligenza umana), è indissociabile, nella sua ispirazione, dalle Lette'rs on Toleration (Lettere sulla tolleranza) e dai Two Treatises 01 Government (Due trattati sul governo), come pure dalle sue riflessioni sull'educazione, sull'economia e sulla reli­gione. Con l'Essay ha inizio però un nuovo tipo di analisi filosofica, che caratterizzerà !'intera critica della conoscenza nel Settecento. Sus­siste perciò la tendenza a iSOlare l'opera dalle preoccupazioni «em­piriche» del suo autore e a considerarla l'esposizione di una «teoria» del sapere. Di fatto Locke è un filosofo dell'esperienza, profondamente estraneo alle speculazioni « a priori» dei dogmatici. L'esame delle fon­ti del suo empirismo consente, a nostro avviso, di comprendere tutta la sua riflessione filosofica.

 

LE FONTI DELL'EMPIRISMO DI LOCKE

Nell'Epistola al lettore che funge da prefazione al Saggio sull'intelli­genza umana, Locke definisce l'oggetto proprio della sua analisi in re­lazione alla scienza, quale è illustrata dai lavori di Boyle, di Sydenham, di Huygens e di Newton: egli si propone di «sgombrare e ripulire un po' di terreno, e gettar da parte un poco delle vecchie rovine che s'in­contrano sul cammino della conoscenza ». In verità, però, Locke non si riferisce mai effettivamente alle teorie di Huygens e di Newton; a Boyle e a Sydenham egli deve, per contro, l'ispirazione primaria della sua filosofia.

Fu !'interesse di Locke per la medicina a farlo incontrare con Tho­mas Sydenham e a fargIi allacciare col famoso autore della Methodus curandi febres [Metodo per curare le febbri] una lunga e stretta colla­borazione. L'incontro si situa a Londra nel 1667. La Methodus curandi febres era apparsa l'anno precedente. Locke l'aveva letta con passione. Da iatrochimico qual era a Oxford, era divenuto un assertore convin­to di Sydenham. Medico e segretario di Lord Ashley, Locke entrò in contatto personale con Sydenham, col quale si legò d'amicizia, e col: laborò alle sue ricerche. Locke e Sydenham prepararono insieme un trattato sul vaiolo che sarà parte integrante della nuova versione del­la Methodus, le Observationes medicae [Osservazioni mediche] del 1676. Essi progettarono anche una grande opera di metodologia me­dica che non vide mai la luce, tranne due preziosi frammenti mano­scritti di Locke: l'Anatomie [Anatomia] (1668) e il De arte medica [Sull'arte medica] (1669).

Il metodo di Sydenham si definisce come un tentativo di determi­nare le specie delle malattie in funzione della loro c storia ., nel senso che il termine aveva in Francesco Bacone: si tratta di osservare, senza alcun preconcetto, i sintomi della malattia quali si manifestano diret­tamente all'esperienza sensibile nella loro concatenazione naturale. Sydenham impone il rifiuto delle ipotesi come condizione fondamen­tale di una medicina scientifica: al fine di scoprire il senso stesso dei fenomeni della natura, occorre escludere dalla nostra ricerca tutte le spiegazioni a priori della ragione, le quali non corrisponderebbero di fatto se non a finzioni dell'immaginazione. Quest'empirismo baco­niano è associato d'altra parte a una concezione della natura ereditata da Ippocrate. La malattia non è concepita come uno sforzo disordi­nato della natura alle prese con qualche entità patologica misteriosa ma è il processo ordinato mediante il quale la natura tende a correg­gere da sé gli eccessi o le carenze che si riscontrano nel funziona­mento normale del corpo. Il medico deve accontentarsi di seguire, nei sintomi osservabili direttamente, le indicazioni di trattamento che gli fornisce questa natura, principio d'ordine dei fenomeni. Infine, l'em­pirismo baconiano, associato al naturalismo ippocratico, comporta uno scetticismo caratteristico nei confronti delle ricerche causali in tutta l'estensione della filosofia naturale. Il nostro intelletto è ordinato in effetti alla sola comprensione dei fenomeni nelle loro correlazioni di­rettamente osservabili: da un lato, l'osservazione dei fenomeni al li­vello dell'esperienza sensibile immediata è sufficiente ai fini dell'instau­razione di una methodus medendi (metodo di trattamento) razionale, poiché la natura agisce con costanza e regolarità nella produzione di tutti i fenomeni, ivi compresi i fenomeni patologici; dall'altro, il prin­cipio dell'ordine naturale sfugge a ogni ricerca intellettuale, essendo questa necessariamente limitata alla correlazione dei dati sperimen­tali. Noi percepiamo gli effetti della teleologia naturale, ma la filosofia è impotente a raggiungerne le cause prime. Lungi dallo spingersi fino alla restaurazione dei diritti del provvidenzialismo teologico, Syde­nham, da uomo di scienza, si rifiuta di prestare assenso a qualsiasi metafisica a priori delle cause prime. La sua posizione non è priva di analogie con l'atteggiamento c pragmatistico. che adotterà, negli ul­timi decenni dell'Ottocento, il filosofo americano Ch. S. Peirce.

Locke è sydenhamiano nel De arte medica, dove rifiuta le ipotesi a priori, c teoremi, assi orni, principi fondamentali., dei sistemi filo­sofici che costituiscono la medicina degli antichi, per sostituire ad essi l'analisi dei soli dati dell'esperienza sensibile, seguendo il fenomeni­smo più rigoroso. Caratteristico è il fatto che gli errori dell'intelletto sono assimilati ai disordini dell'immaginazione; l'idea diventa un dato dell'esperienza sensibile, forse priva di un rapporto necessario con la costituzione essenziale delle cose.

Locke è sydenhamiano anche nel mirabile testo dell'Anatomie, che la maggior parte dei commentatori ha votato all'oblio perché Locke vi appare come uno spirito retrogrado, ostile alle spiegazioni degli anatomici e alle ricerche compiute con l'aiuto del microscopio. L'elemento di maggiore interesse di questo testo consiste nella doto trina dei fenomeni che Locke vi propone. Certo dobbiamo supporre l'esistenza di un meccanismo elementare di tipo corpuscolare, tale che possa produrre gli effetti sensibili che percepiamo. La dissezione de­gli elementi materiali non ci permetterà però mai di scoprire in che modo la natura compia le funzioni vitali, né con quali strumenti essa operi. Per quanto innanzi possiamo spingere l'analisi sperimentale non abbiamo mai a che fare se non con l'apparenza sensibile dell~ realtà naturali. Il meccanismo intimo del reale supera i limiti di ogni esperienza possibile. Ne segue che l'intelletto non può tentare di con­cepirlo se non formulando ipotesi fondate sulle sole analogie del­l'esperienza. L'intero campo della filosofia naturale si trova soggetto a una tale critica della conoscenza. Ma, correlativamente al fenome­nismo radicale ereditato da Sydenham, Locke non cessa tuttavia di affermare come un dato di fatto la razionalità del reale poiché l'esperienza, nella malattia stessa, ci rivela la legge di armonia che regge le correlazioni fenomeniche. L'anatomia produce una modifica­zione artificiale delle condizioni di osservazione naturalmente impar­tite all'uomo; essa è una scienza vana se spera di scoprire la spiega­zione causale dei fenomeni corporei. L'osservazione microscopica, per parte sua, non fa che allontanare dalla scoperta delle correlazioni fenomeniche direttamente osservabili. Ora, soltanto queste correla­zioni ci forniscono l'indicazione di una terapia razionale nel caso del­le malattie. L'esperienza sensibile è la sola fonte di conoscenze ra­zionali aventi un valore oggettivo. Metodo appropriato a cogliere la razionalità immanente alla concatenazione dei fenomeni, il plain hi­storical method è l'unico che consente all'intelletto di comprendere il reale nei limiti delle sue capacità naturali 'e di agire sul corso dei fenomeni modificandolo.

Un esempio ci consentirà di comprendere meglio la concezione sydenhamiana dell'origine empirica del sapere: supponiamo che si tratti di determinare l'essenza o la forma di una malattia epidemica come il vaiolo: 1) questa malattia non ha l'autonomia sostanziale di una realtà vera: la sua esistenza dipende dalla struttura anatomica del corpo; 2) cause immediate, prossime e concomitanti assai diverse possono concorrere alla sua produzione: condizione dell'atmosfera modificazione degli umori, contagio diretto. Ne segue che è impossi: bile scoprire l'essenza reale che produce la malattia. L'intelletto deve accontentarsi di riunire i sintomi caratteristici, quali si manifestano all'esperienza sensibile, e di costituirne un'c essenza. fenomenica necessariamente relativa alle condizioni dell'osservazione e a una discriminazione più o meno spinta rispetto alle specie vicine.

Sul piano filosofico .si affaccia una nuova forma di empirismo, che troverà la sua espressIOne compiuta nel Saggio sull'intelligenza uma­na. Oggi, d'altra parte, non è più possibile nutrire dubbi sull'influenza esercitata da Sydenham nell'elaborazione della dottrina delle idee propostaci da Locke. Segnaliamo che i due abbozzi più antichi del Saggio in nostro possesso risalgono al 1671. Ora, il De arte medica e l'Anatomie sono assai anteriori a questi abbozzi, e la stretta collabo­razione fra Locke e Sydenham proseguirà fino al 1675, quando Locke intraprenderà il suo grande viaggio in Francia.

Se lo studio dell'empirismo medico di Sydenham è il vero preambolo alla filosofia di Locke, occorre anche ricordare il giudizio di Leibniz che all'inizio dei Nouveaux essais (Nuovi saggi, libro I, cap. 1): ricoÌIega Locke alla setta dei gassendisti. In verità, prima ancora di incontrare Sydenham, Locke lavorò con Robert Boyle. Ora, il principale rappresentante della experimental philosophY era un fautore della fisica corpuscolare, quale era esposta da Gassendi nel suo Syntagma philosophicum [Composizione filosofica]. D'altra parte, du­rante il suo soggiorno in Francia (1675-1679), Locke ebbe molti con­tatti con gassendisti, e particolarmente col viaggiatore e medico Fran­çois Bernier, che nel 1678 pubblicò il suo Abrégé de la philosophie de Gassendi [Compendio della filosofia di Gassendi]. Attraverso Boyle e Bernier, Locke considererà sempre la fisica corpuscolare di tipo mec­canicistico e l'analisi delle facoltà della conoscenza proposte da Gas­sendi come ipotesi di filosofia naturale molto probabili. Egli se ne ser­virà implicitamente nel Saggio per sostenere la sua analisi storica delle idee; da Gassendi egli deriva, a quanto pare, la sua teoria cor­puscolare della visione e la sua teoria dell'astrazione. L'analisi lockia­na presenta nondimeno caratteri originali, che è importante indivi­duare nella loro specificità. È l'empirismo sydenhamiano ad aprirci veramente la comprensione dell'analisi della conoscenza propostaci da Locke.

 

 

L'ANALISI DELLE IDEE MEDIANTE IL METODO «STORICO»

 

 

Il Saggio sull'intelligenza umana del 1690 comprende quattro libri, i quali trattano rispettivamente dell'inesistenza di princìpi e idee in­nati, delle idee come materia della conoscenza, delle parole come segni di idee, della conoscenza e della probabilità. Si pone cosi il problema dell'unità dell'opera. Il fine del Saggio è quello di far vedere, da un lato, come lo spirito acquisti le nozioni che possiede sulle varie realtà, e dall'altro in che cosa consista e fin dove si estenda il sapere certo e quali possano essere i fondamenti dei nostri giudizi probabilistici. Si tratta di assegnare all'intelletto dell'uomo i limiti all'interno dei quali la sua attività può impegnarsi legittimamente e, a tal fine, di de­terminare in che modo si costruiscano le nostre conoscenze. La natura del sapere deve spiegarsi mediante la sua origine per lo spirito.

Il metodo di analisi è "storico ». Locke si propone di descrivere i dati a partire dai quali lo spirito costruisce la conoscenza, e anche di illustrare come lo spirito operi a partire dalla ricezione iniziale di questi dati. In tal modo vengono studiati, in definitiva, i fenomeni ti­pici dello spirito dell'uomo, quando egli compie l'atto della conoscenza. Una tale analisi deve definire nei suoi caratteri la comprensione dalla razionalità del sapere umano. La riflessione filosofica di Locke si fonda sull'idea che la conoscenza si riduca a fenomeni osservabili e che questi fenomeni della conoscenza siano legati gli uni agli altri se­condo correlazioni esse stesse osservabili. Al di là dell'esperienza di­retta di questi fenomeni della conoscenza, non ci sono altro che ipo­tesi arbitrarie sui fondamenti del sapere. Di qui la ragion d'essere del primo libro del Saggio, che si presenta come una critica delle metafisiche che spiegano la costituzione del sapere mediante l'esi­stenza, nello spirito, di idee o di principi innati.

Ci si è chiesti spesso contro chi fosse diretta questa critica delle idee innate. Contro Descartes, contro i neoplatonici di Cambridge, contro gli ultimi difensori della filosofia scolastica? Domanda vana, indubbiamente. L'unica opera menzionata da Locke è il De veritate di Herbert di Cherbury (1624). Era questo un avversario troppo fa­cile da distruggere, e Gassendi se ne era occupato prima di Locke. Di fatto Locke si erge contro ogni spiegazione a priori, e quindi me­tafisica, della ragione e dei suoi princìpi. Il carattere innato di un principio o di un'idea presuppone la sua immanenza in una sostanza, di modo che noi ne abbiamo, sin dall'origine del nostro essere, una sorta di conoscenza virtuale. Per Locke, postulare un tale carattere innato al punto di partenza di un'analisi della conoscenza equivale a distruggere in anticipo ogni comprensione delle correlazioni reali tra le nostre idee, nella misura in cui ne siamo direttamente coscienti. Il metodo "storico:o implica il rifiuto delle ipotesi: è questa l'esigen­za prima di una filosofia propriamente analitica. Locke non ammette più il compromesso di Gassendi, di Descartes e di Malebranche con una concezione dogmatica della ragione; per lui è lo spirito dell'uo­mo a elaborare le sue proprie nozioni, anche le più astratte, secondo i dati forniti dalla sua esperienza sensibile. È cosi per l'idea di Dio (libro I, cap. 3) come per le massime cosiddette universali della mo­ralità (I, 2) come per i principi primi della ragione, i principi di identità e di non contraddizione (I, 1). Sotto il loro aspetto più astrat­to, si tratta di prodotti della riflessione prolungata dell'uomo sulle idee che gli sono fornite direttamente dalla sua esperienza sensibile. La critica delle idee innate è destinata a orientarci verso l'analisi " storica:o delle idee, contenuta nel secondo libro del Saggio.

Per idea, Locke intende "tutto ciò che è oggetto della nostra in­telligenza quando pensiamo» (introduzione, § 8). In conseguenza del­la sua posizione fenomenistica, ciò che egli si propone di analizzare successivamente sono le idee a partire dalle quali lo spirito costruisce il sapere, considerate unicamente in quanto dati della coscienza. Egli rinuncia a studiare il processo fisico o la causalità metafisica che produce le idee nella coscienza. Egli ammette però implicitamente due postulati: innanzi tutto, che le idee sono l'effetto nella coscienza di processi corpuscolari che hanno luogo negli organi di senso e nel cervello; in secondo luogo, che le idee hanno un rapporto oggettivo col reale. A priori, l'idea è considerata simile alla cosa; Locke si libe­rerà di questa nozione per correggere la teoria dell'idea-rappresenta­zione quando essa si rivelerà insufficiente. Occorre capire innanzitut­to che il punto di vista di Locke si ricollega all'analisi delle modifica­zioni delle idee a opera del lavoro dello spirito che le mette in rela­zione le une con le altre.

Ora, tutta questa analisi si fonda su una constatazione sperimen­tale: tutte le nostre idee provengono da due fonti: la sensazione e la riflessione (II, 1, §§ 2-5). Per sensazione Locke intende la funzione della coscienza che ci permette di cogliere impressioni provenienti dal mondo esterno; per riflessione intende l'atto mediante il quale lo spi­rito conosce le sue proprie operazioni. Di qui l'esistenza di due tipi di idee semplici: le une di sensazione, le altre di riflessione. Per idea semplice, Locke intende dati irriducibili all'analisi, nel senso che si impongono alla coscienza nell'esperienza sensibile, senza che lo spi­rito ne sia propriamente la causa produttrice. A partire da questa materia prima della conoscenza, lo spirito esercita un'attività di cor­relazione che sfocia nella costituzione di idee complesse. Queste idee complesse sono di tre tipi: si tratta delle idee di modi, di sostanze o di relazioni. Le idee di modi sono rappresentazioni che lo spirito si dà componendo insieme idee semplici. Quando lo spirito combina in­sieme idee semplici dello stesso tipo, si ottengono idee di modi sem­plici (II, 12): tali sono le idee delle varie modalità dell'estensione (Il, 13) o del tempo (II, 14). Lo spazio, di conseguenza, non appare in Locke come la natura stessa delle realtà materiali, bensì come il dato sensibile con l'aiuto del quale perveniamo a concepire, mediante com­binazioni diverse, l'insieme dei rapporti di estensione e di luogo. Quanto al tempo, esso trae la sua origine dall'esperienza cosciente stessa, nella misura in cui l'idea della successione dei nostri stati d'animo ne è il dato costitutivo iniziale. La descrizione genetica delle idee di tempo e di spazio permette a Locke di ridurre l'idea di infi­nito ai dati dell'esperienza cosciente che la costituiscono (II, 17). Psicologicamente, quando pensiamo all'infinito, non abbiamo in effetti l'idea di una realtà positiva, ma solo la rappresentazione di una certa quantità di spazio o di tempo, di un certo numero cui possiamo ag­giungere indefinitamente una quantità della stessa natura, senza pervenire mai a un limite ultimo. Il solo infinito che possiamo con­cepire è un infinito numerico, il quale mette in evidenza i limiti del nostro intelletto piÙ che non rappresenti la perfezione di un essere trascendente l'esperienza sensibile. Su questo punto Locke si oppone nettissimamente alla metafisica cartesiana.

Ma l'attacco più notevole a questa metafisica consegue all'analisi dell'idea di sostanza operata da Locke. Partiamo dalle idee semplici che abbiamo delle realtà che ci circondano. Queste idee semplici sono idee di qualità sensibili: colore, sapore, odore, figura, solidità, mobi­lità ... Ora, troviamo che una distinzione si impone allo spirito quando esso analizza queste qualità sensibili (Il, 8). In effetti, l'analisi fisica può modificare il colore, il sapore e le altre proprietà analoghe del­l'oggetto. Queste qualità appaiono relative alla condizione del sogget­to della percezione. Ma, per opposizione a queste qualità dette secon­de o secondarie, altre sembrano appartenere fondamentalmente alle realtà materiali; si tratta delle cosiddette qualità primarie: estensio­ne, figura, solidità, moto o quiete. In qualunque modo noi concepia­mo la realtà materiale, essa non è mai priva di tali proprietà. Di fatto, non perveniamo mai a pensare un corpuscolo materiale, per quanto piccolo, che ne sia privo. Locke si rifiuta nondimeno categori­camente di pensare, come fanno invece i cartesiani, che !'idea di estensione ci fornisca la concezione dell'essenza delle realtà materiali. Egli ammette una fisica corpuscolare di tipo gassendiano solo a tito­lo di ipotesi di filosofia naturale. Ne inferisce nondimeno che le idee di qualità seconde, per il soggetto della conoscenza, dipendono dalle qualità primarie delle particelle elementari della materia. Le idee di qualità secondarie sono pertanto le idee delle cose e sono tali che la loro apparenza sensibile risulta da fenomeni meccanici che hanno luogo al livello degli atomi. Ora, per stabilire il legame fra idee di qualità primarie e idee di qualità secondarie, Locke fa intervenire l'idea di potere (Il, 8, § 23). Nelle realtà, quali esistono, sarebbero presenti poteri di produrre rappresentazioni di qualità seconde a par­tire da qualità primarie di cui sono dotate le particelle elementari di materia.

La nozione di potere e la sua origine pongono a Locke un proble­ma fondamentale, che determina tutta la sua concezione della sostan­zialità e della causalità. «Lo spirito» egli afferma «venendo infor­mato ogni giorno dai sensi dell'alterarsi di quelle semplici idee che esso osserva nelle cose esteriori; e osservando come l'una venga a finire e cessi di essere, e comincia ad esisterne un'altra che non c'era prima; e riflettendo anche su ciò che accade dentro di sé, e osservan­do un mutare costante delle sue idee, talvolta per l'impressione che fanno sui sensi gli oggetti esterni, e talvolta per sua propria scelta e determinazione; e concludendo, da ciò che ha osservato accadere con tanta costanza, che in avvenire saranno operati gli stessi cam­biamenti nelle cose da agenti consimili, e seguendo la possibilità che una delle sue idee semplici cambi, e in un'altra la possibilità di ope­rare quel cambiamento; e in tal modo giunge a quell'idea che chia­miamo potere» (II, 21, § 1 [In questa e nelle altre citazioni dal Saggio utilizziamo la traduzione di C. Pellizzi cito in Bibliografia.]). Quest'idea di potere è tratta evidentemente dall' esperienza psicologica che si ha quando il soggetto della percezione percepisce la variazione delle sue idee di sensazione e di riflessione. Inferendo che gli effetti percepiti siano causati nella coscienza da fenomeni oggettivi, Locke afferma la razionalità della nostra rappresentazione del reale e l'ordine dei fenomeni. Anche se la causa formale dei mutamenti fenomenici pro­vati e percepiti dalla coscienza ci è irrimediabilmente inaccessibile, non è meno vero che i fenomeni della conoscenza, le idee di cui lo spirito percepisce le correlazioni, si iscrivono in un ordine finale. Anche se critica i il realismo meta fisico degli scolastici e di De­scartes, Locke si rifiuta di dubitare della realtà oggettiva delle idee, scetticismo che conduce alla posizione di Berkeley. Le idee, nelle loro correlazioni, quali sono pensate dallo spirito, sono comprese in una finalità naturale che si deve ammettere, al modo stesso in cui il medico ippocratico ammette la razionalità dei sintomi quali si ma­nifestano direttamente all'osservazione. La concezione sydenhamiana che Locke si fa dell'idea di potere permette di interpretare in modo esatto la sua analisi critica dell'idea di sostanza.

Locke prende l'avvio, in effetti, dalle idee di sostanza quali ci sono fornite dall'esperienza sensibile. Ora, egli scopre che, riducen­dole ai dati forniti dalla sensibilità, si limitano di fatto le sostanze a non essere più se non aggregati di qualità sensibili che l'esperienza ci presenta sempre associate nello stesso modo (Il, 23). Siffatte con­figurazioni di fenomeni ci consentono d'altra parte di ordinare l'espe­rienza sensibile ricollegando a realtà distinte i poteri che lo spirito è indotto a concepire per giustificare le variazioni delle sue impressioni sensibili. Osserviamo nondimeno che Locke non fa dell'abitudine, come Hume, il principio della correlazione dei fenomeni in realtà di natura sostanziale. In Locke la ripetizione delle medesime configu­razioni di fenomeni non serve se non a orientare lo spirito verso la percezione della razionalità propria dei fenomeni. Ma per quanto l'esperienza attesti la validità della nostra sperimentazione delle so­stanze concrete, !'idea astratta di sostanza sfugge alla presa dell'in­telletto, essendo questo limitato ai soli dati della conoscenza forniti dall'esperienza sensibile. L'idea della sostanza in sé è la nozione oscura di un qualche cosa che servirebbe di fondamento, di sostrato, alle qualità sensibili e ai poteri che vengono attribuiti a tale o tal altra sostanza. Di conseguenza, questo principio di sostanza che ser­viva alla metafisica di Aristotele e a quella di Descartes per giusti­ficare la razionalità del reale, diventa un termine di riferimento mi­sterioso, senza alcun fondamento in relazione ai dati dell'esperienza sensibile. Locke introduce perciò al fenomenismo filosofico.

Ora, vale per il principio di causalità quel che si è detto per il principio di sostanza. La relazione causale ha a che fare in effetti, per Locke, con connessioni costanti di fenomeni nel tempo, connes­sioni che si spiegano in riferimento alle modalità delle idee semplici di poteri. La causa reale delle modificazioni che si osservano nei fe­nomeni non si trova più nell'essenza delle realtà; la relazione causale trova invece il suo fondamento nell'esperienza psicologica di questi fenomeni. Ne consegue che la ricerca delle cause non ha più senso al di là delle indicazioni fornite dai fenomeni stessi (II, 26, § 1).

Con le idee di causa e di effetto, abbiamo affrontato, di fatto, l'esa­me della terza categoria di idee complesse, quelle di relazione. Un aspetto le caratterizza tutte: esse si fondano unicamente sulle con­nessioni percepite dallo spirito fra le sue idee, ossia fra i fenomeni quali si manifestano alla coscienza. Così le relazioni di tempo, di luogo, di estensione cessano di essere concepite come assoluti legati all'essenza delle realtà in questione, per diventare semplici congiun­ture di fenomeni. Ma un tale punto di vista minacciava il principio metafisico di identità. Locke si senti costretto di conseguenza ad ag­giungere, nella seconda edizione del Saggio, un intero capitolo sul­l'identità e la diversità (II, 27). Questo capitolo apre prospettive filo­sofiche originali. L'identità è sempre atte stata da un confronto di una qualche cosa, che esiste in un tempo e in un luogo determinati, con se stessa, in un altro tempo e in un altro luogo. Di qui la conside­razione dell'inizio dell'esistenza della cosa considerata, considerazione che sola consente di stabilirne l'identità.

L'esperienza dell'identità, secondo Locke, non può essere sempre la medesima, mutando a seconda della nozione delle cose a cui l'ap­plichiamo. Non è possibile dunque un problema dell'identità in rife­rimento alla nozione di Dio, che è eterno, inalterabile e immenso. Ma per gli spiriti finiti, come per le particelle di materia, si pone il problema di determinarne !'identità, poiché essi hanno un inizio nella loro esistenza. Ora, !'individuazione è una conseguenza dell'esi­stenza stessa di un essere, esistenza che lo determina a essere in un tempo e in un . luogo i quali sono incomunicabili a due esseri di uno stesso tipo. D'altra parte, l'applicazione del principio dipende dalla natura dei composti: così l'identità degli esseri viventi dipende dalla permanenza della loro organizzazione, non dall'identità delle mede­sime particelle di materia costitutiva. Da questo punto di vista, l'idea è accordata alla categoria di essere alla quale è applicata. Locke di­stingue così fra !'identità di un uomo e l'identità di una persona, la prima consistendo nella congiunzione di uno spirito razionale e di un corpo avente una forma particolare, la seconda nell'esistenza di un essere pensante, capace di ragione e di riflessione e avente coscienza di sé in quanto distinto da altri. Ne segue che, per Locke, l'esperienza psicologica della persona differisce dalla conoscenza dell'uomo come essere sostanziale e che pertanto, come realtà sostanziale, l'uomo può diventare indefinibile nella sua essenza, pur restando dotato di identità personale nella misura in cui possiede la coscienza di sé.

L'analisi storica delle idee sfocia incontestabilmente nella distru­zione della metafisica di tipo cartesiano. È interessante osservare che, in uno scritto del 1693, An Examination of P. Malebranche's Opinion of Seeing All Things in God [Esame dell'opinione del P. Ma­lebranche sulla visione di tutte le cose in Dio], in cui mira a confu­tare la dottrina malebranchiana della percezione e 'delle idee, Locke attacca direttamente Malebranche. Questi distingue fra sentimento e idea: mediante il sentimento, l'anima conosce se stessa e conosce le impressioni sensibili che la modificano; al di là di quest'esperienza sensibile Malebranche situa la conoscenza vera, che ha luogo per mezzo delle Idee, ossia attraverso la visione degli archetipi intelligi­bili delle realtà materiali nell'intelletto di Dio, il quale le rivela di­rettamente al nostro intelletto nel suo Essere infinito. Locke rifiuta la distinzione fra sentimento e idea e riconduce !'idea di ogni realtà al­l'immagine che ne viene percepita dallo spirito a partire dai dati del­l'esperienza sensibile. Diviene così inaccessibile la conoscenza dell'es­senza reale delle sostanze materiali così come delle sostanze spiri­tuali poiché i dati che lo spirito ne possiede sono fenomeni ci. Descar­tes riteneva che l'essenza o la natura dell'anima ci fosse nota diretta­mente nell'esperienza del cogito; quanto alle realtà materiali, l'idea di estensione ce ne fornisce l'archetipo intelligibile. Malebranche ren­de il cogito c sensibile,. e non più c intelligibile,. ma mantiene l'in­telligibilità dell'essenza delle realtà materiali nell'intelletto divino. Locke riduce ogni conoscenza dell'anima alla sola esperienza psico­logica delle operazioni della coscienza; quanto alle realtà materiali, esse si riducono ai soli fenomeni che i nostri sensi ce ne rivelano, in quanto l'intelletto ne coglie le relazioni costanti in funzione delle sole indicazioni dell'esperienza. In Locke le idee non hanno più una realtà metafisica fuori dello spirito che le pensa. Locke cl conduce a un vero psicologismo delle idee che nei cartesiani era appena abboz­zato. Non si può non riconoscere l'originalità delle opinioni esposte nei libri III e IV del Saggio sul linguaggio e la conoscenza.

 

 

L'ANALISI DELLA CONOSCENZA A OPERA DELLA SEMIOTICA

Riprendendo la distinzione stoica degli oggetti del sapere, Locke sta­bilisce la divisione delle scienze in tre branche (IV, 21). La prima è la fusikη’, o filosofia naturale, che studia le realtà corporee e spiri­tuali nel loro essere e nelle loro proprietà. La seconda è la praktikη’, che concerne l'applicazione delle nostre capacità naturali nell'azione in vista del bene e dell'utilità. L'etica ne è l'elemento essenziale. Locke pone infine una terza branca del sapere, che egli chiama sηmeiotikη’, il cui oggetto proprio corrisponde precisamente alle analisi della co­noscenza eseguite nel Saggio. Ecco la definizione che egli dà di questa ricerca: c Il terzo ramo può esser chiamato sηmeiotikη’, ossia la dot­trina dei segni; e poiché la parte più consueta di essa è rappresentata dalle parole, assai acconciamente essa viene anche nominata logikη’, ossia logica. Il suo compito è di considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l'intendimento delle cose, o per trasmettere ad altri la sua conoscenza. Poiché, le cose che la mente contempla non es­sendo mai, tranne la mente stessa, presenti all'intelletto, è necessario che qualcos'altro, come un segno o una rappresentazione della cosa che viene considerata, sia presente allo spirito; e queste sono le idee. E poiché la scena delle idee, che costituisce i pensieri di un dato uomo, non può venire esposta all'immediata visione di un altro, né essere accumulata altrove che nella memoria, che non è un deposito molto sicuro, ne consegue che per comunicare ad altri i nostri pen­sieri, nonché per registrarli a uso nostro, sono altresì necessari dei segni delle nostre idee: e quelli che gli uomini hanno trovato più convenienti a tale scopo, e di cui perciò fanno uso generalmente sono i suoni articolati. Perciò, la considerazione delle idee e delle parole, in quanto sono i grandi strumenti della conoscenza, non costituisce davvero una parte secondaria della contemplazione di chi voglia esa­minare la conoscenza umana in tutta l'estensione sua. E forse, se esse venissero distintamente pesate e debitamente considerate, ci forni­rebbero un'altra specie di logica e di critica, diverse da quelle che fin qui abbiamo considerato". In definitiva, per Locke, fare l'analisi del sapere al fine di determinare la natura e i limiti delle nostre co­noscenze equivale essenzialmente ad analizzare i segni costitutivi di questo sapere, segni naturali e segni artificiali, idee e parole. È no­tevole che Locke situi questo studio sotto il vocabolo di «semiotica»; egli si serve del termine della medicina greca che designava l'osser­vazione dei sintomi e la loro correlazione al fine di spiegare la ma­lattia. In ultima analisi, invece di definire la conoscenza in riferi­mento diretto a una concezione metafisica della realtà, Locke ci pro­pone l'analisi del sapere nella sua propria organizzazione. Occorre osservare innanzi tutto che non c'è scienza senza l'interposizione del linguaggio fra le idee e lo spirito che concepisce le loro correlazioni, e che la funzione della parola è quella di assicurare la stabilità e la comunicabilità dell'idea.

Di fatto, Locke prende l'avvio dal principio che il linguaggio, co­me strumento di conoscenza, ha un'origine puramente convenzionale e volontaria. Egli sottolinea però che il senso delle parole diviene re­lativo alle idee che lo spirito pensa in correlazione ai segni linguistici: ciò ci indica in che modo le parole possano diventare fonti d'errore, in quanto gli uomini le utilizzano per rappresentare idee indetermi­nate o diverse da un soggetto cosciente all'altro. Ci sono addirittura casi in cui pensiamo senza avere veramente idee: di qui, sul piano pratico, l'esigenza di determinazione del linguaggio, che prevale nella costituzione di ogni sapere oggettivo (III, 9-11).

Ma la valutazione che Locke dà del linguaggio nella costituzione del sapere dipende per intero dalla sua concezione dell'idea generale e dalla distinzione che egli stabilisce fra essenze reali ed essenze no­minali. «Le parole ", ci insegna Locke, c diventano generali per il fatto che ne facciamo i segni di idee generali; e le idee diventano ge­nerali mediante la separazione da esse delle circostanze di tempo e di luogo, e di qualunque altra idea che possa determinarle nel senso di questa o quella esistenza particolare. Con questo mezzo dell'astra­zione esse vengono rese capaci di rappresentare più individui, ognuno dei quali, avendo in sé una conformità con quell'idea astratta, è (come noi diciamo) di quella specie» (I II, 3, § 6). L'idea generale esiste propriamente solo nello spirito e non rimanda direttamente a un ar­chetipo esistente nella realtà. Lo spirito, concependo una relazione astratta fra idee semplici, si dà da sé un significato che va oltre ogni immagine mentale percepita. Certo l'idea generale ha un probabile fondamento nella realtà poiché la percezione sensibile ci rivela fra realtà naturali similitudini, le quali permettono allo spirito di sta­bilire classificazioni generiChe degli oggetti percepiti (III, 3, § 11); Locke insiste però a lungo sul fatto che un nome generale, qualifi­cando ad esempio un tipo di sostanza, rappresenta soltanto l'idea astratta concepita dall'intelletto. Il nome è indispensabile d'altra parte per significare l'atto di astrazione dello spirito, che si distacca da ogni rappresentazione particolare per costituire un tipo semplicemente in­telligibile.

Di qui la distinzione fra essenza nominale ed essenza reale per lo spirito che s'i rappresenta qualche realtà naturale. L'essenza nomina­le della sostanza in questione è l'idea complessa astratta corrispon­dente al termine generico che si applica a questa sostanza; quest'idea complessa si rifà «storicamente» a un aggregato di idee semplici che l'intelletto ha riunito e a cui ha dato un significato astratto assegnando loro un nome. L'essenza reale può corrispondere, per parte sua, a due concezioni filosofiche distinte della realtà: « Una è l'opinione di coloro che, usando la parola essenza senza saper cosa possa significare, sup­pongono l'esistenza di un certo numero di quelle essenze, secondo le quali tutte le cose naturali sarebbero formate, e delle quali ciascuna di esse parteciperebbe in modo esatto, così venendo a far parte di questa o quella specie" (III, 3, § 17). Questa concezione scolastica delle essenze cade sotto il colpo infertole dalla critica dell'idea astrat­ta di sostanza operata da Locke: l'esame stoico delle idee ha distrutto definitivamente la concezione metafisica a priori delle realtà sostan­ziali. «L'altra, e più razionale, opinione" prosegue Locke “è di co­loro che considerano tutte le cose naturali avere una costituzione reale, ma sconosciuta, delle loro parti insensibili; dalla quale discen­dono quelle qualità sensibili che ci servono a distinguerle fra loro, via via che abbiamo occasione di classificarle nelle specie, sotto co­muni denominazioni" (III, 3, § 17). Quest'opinione è evidentemente quella di Gassendi e di Boyle, i quali fanno derivare le distinzioni specifiche nella natura da varie combinazioni di corpuscoli materiali, ipotesi di filosofia naturale che Locke ammette implicitamente, ope­rando, come abbiamo visto, la distinzione fra qualità primarie e se­condarie ma alla quale assegna solo un valore di probabilità. Ne segue che, per Locke, la concezione di un'essenza ha un valore ogget­tivo solo quando rimanda all'idea stessa nello spirito. Così, quando lo spirito concepisce la specie di un'idea semplice o di un'idea di modo, l'essenza nominale corrisponde all'essenza reale, poiché questa ha come archetipo intelligibile l'idea qual è pensata dallo spirito. c Così, una figura che include uno spazio fra tre linee è l'essenza reale non­ché nominale di un triangolo: essendo essa, non soltanto una idea astratta cui si attribuisce il nome generale, ma la vera e propria essentia, o essere, della cosa stessa" (III, 3, § 18). Ma quando lo spirito si rappresenta una sostanza particolare, ad esempio un anello d'oro, l'essenza reale di tale sostanza sarebbe la costituzione delle sue parti impercettibili, dalla quale dipendono le sue qualità sensibili: colore, peso, fusibilità, costanza; l'essenza nominale, in funzione della quale si identifica questa realtà come oro, è solo la correlazione costante di tali qualità, correlazione di cui lo spirito si è formato un'idea astratta, applicabile genericamente alle realtà che producono gli stessi effetti sensibili per la percezione. Nel caso delle idee di sostanze particolari c'è una distinzione radicale fra essenza nominale ed essenza reale, delle quali solo la prima ci è propriamente accessibile. Possiamo concluderne che il linguaggio è un fattore costitutivo della nostra concezione astratta delle cose, che dobbiamo passare dall'apprendimento semplice delle idee alla conoscenza vera e al sapere. Così il libro III  del Saggio. appare indispensabile per capire le analisi del libro IV. “ La conoscenza, dunque» afferma Locke “altro non mi sembra che la percezione del legame e concordanza, o della discordanza e contra­sto, tra idee nostre quali che siano.» (IV, 1, § 2). Conoscere equivale dunque ad apprendere la relazione delle nostre idee fra loro o diretta­mente nell'intuizione o indirettamente per il tramite di idee interme­die, come avviene nella dimostrazione. A prima vista, l'analisi della conoscenza sembra presentarcisi secondo il modello carte siano delle Regulae ad directionem ingenii [Regole per la direzione della mente], che Locke aveva potuto leggere durante i suoi soggiorni sul continen­te. Locke si spinge sino ad affermare che la certezza per lo spirito deriva dall'evidenza con cui esso percepisce le relazioni intelligibili fra le sue idee (IV, 2, § 1). In realtà il punto di vista di Locke è fon­damentalmente diverso da quello di Descartes. Per l'autore del Sag­gio sull'intelligenza umana il sapere si fonda sulla connessione imme­diata delle idee come segni naturali della razionalità del reale. Egli concepisce la derivazione delle nostre conoscenze da una certezza al­l'altra non secondo l'ordine dei ragionamenti come avviene nel caso delle dimostrazioni geometriche ma seguendo un ordine di idee simile all'ordine naturale dei fenomeni quali si presentano al medico ippo­cratico. Per Locke, in effetti, il legame delle evidenze dipende sempre, per il suo fondamento, dall'esperienza sensibile, interna nel caso della riflessione, esterna in quello della sensazione.

Certo lo spirito che considera le proprie idee astratte può coglierne la relazione nell'intuizione; la dimostrazione stessa, per condurre lo spirito a un sapere certo, dev'essere formata da una catena ininter­rotta di intuizioni. Esiste però un sapere sensibile che fornisce, nel suo ordine, certezze di esistenza: così, attraverso le idee che i sensi ce ne forniscono, percepiamo con evidenza l'esistenza di esseri finiti fuori di noi. Locke si rifiuta, in effetti, di sottomettere al dubbio cartesiano la certezza di una causalità esterna produttrice delle idee di qualità sensibili in noi: “Ma se poi vi sia qualcosa di più, nel nostro spirito, di quella semplice idea; se possiamo da essa con certezza inferire l'esistenza di cosa alcuna fuori di noi, che corrisponda a quel­l'idea, questo è un punto su cui alcuni ritengono si possa disputare; poiché gli uomini possono avere siffatte idee nel loro spirito anche quando non esistono cose di quel genere, quando nessun oggetto consimile agisce sui loro sensi. Qui, tuttavia, credo ci sia dato un ele­mento di prova che ci libera da qualunque dubbio» (IV, 2, § 14). Non possiamo immaginarci di sognare continuamente quando riceviamo impressioni sensibili dal mondo esterno, altrimenti - e l'osservazione è interessante - tutti i nostri ragionamenti diventerebbero vani; la ve­rità e la certezza sarebbero impossibili. Che cosa significa ciò se non che dalla razionalità propria dell'esperienza sensibile deriva la razionalità cosiddetta a priori delle conoscenze astratte di tipo matema­tico? È proprio dall'evidenza imperfetta del sapere sensibile che de­riva l'evidenza, perfetta nel suo ordine, dell'intuizione e della dimo­strazione, quando l'intelletto contempla la connessione delle sue idee astratte.

Di fatto Locke distingue fra le idee quattro tipi di rapporti, nei quali si esauriscono tutte le nostre conoscenze: 1) identità e diversità; 2) relazione; 3) coesistenza o connessione necessaria; 4) esistenza reale (IV, 1, § 3). Egli pone il problema seguente: per quali di questi rapporti e a quali condizioni lo spirito può raggiungere la certezza? Egli esclude dalla certezza le relazioni di connessione fra qualità sen­sibili per tutte le sostanze che lo spirito può rappresentarsi, poiché l'essenza reale di tutte le sostanze, corporee come spirituali, ci è inaccessibile. Rimane il fatto che lo spirito può formulare proposi­zioni generali, aventi un valore universale di certezza, quando con­sidera le sue idee quali esistono nello spirito, per identificarle (iden­tità e diversità) o per metterle a confronto (relazione). Così le ma­tematiche o la scienza delle idee morali possono costituirsi sotto for­ma di conoscenze universali. Si tratta di casi in cui lo spirito pone egli stesso gli archetipi intelligibili che costituiscono i fondamenti del suo sapere. Quanto all'affermazione dell'esistenza reale, essa non si applica ad alcuna idea generale e non può di conseguenza costituire, a rigore, una proposizione universale. Essa costituisce però un'esigenza legata all'operazione stessa dello spirito nell'atto di co­noscere. Così lo spirito ha, quando pensa, l'intuizione della propria esistenza (IV, 9), ha il sentimento dell'esistenza di realtà finite, cau­se delle proprie sensazioni (IV, 11) e scopre mediante la ragione l'esistenza di Dio. Ora, si impongono due osservazioni: 1) il cogito lockiano è l'intuizione che lo spirito ha della sua esistenza fenome­nica; l'essenza della sostanza spirituale rimane al di là di quest'espe­rienza c psicologica» di sé; 2) la dimostrazione dell'esistenza di Dio ha un significato che è opportuno ben mettere in chiaro (IV, 1O). Es­sendo lo spirito sprovvisto di idee innate, è sulla base dell'esperienza di sé e di tutte le realtà sensibili che esso concepisce la necessità del­l' esistenza di una causa produttrice originaria, esistente da tutta l'eter­nità. Poiché la percezione e la conoscenza sono le proprietà del nostro essere, se ne può dedurre che la causa prima di ogni cosa è princi­pio dell'intendere, come fenomeno naturale. Di fatto, la prova del­l' esistenza di Dio si presenta in Locke come un rifiuto dell'ipotesi materialistica, la quale si contraddice da sé postulando la produzione del­l' intelligenza da parte della realtà materiale; il Dio di Locke non è più, nondimeno, un principio di intelligibilità delle essenze delle so­stanze stesse: esso è solo il principio di armonia richiesto per giu­stificare l'ordine fenomenico. Il Dio lockiano, principio creatore della Natura e ragione dell'ordine che vi si manifesta nell'esperienza sensibile, preannuncia il Dio dei deisti del Settecento.

È notevole d'altra parte che gli ultimi capitoli del Saggi  insistano particolarmente sui limiti dell'intelletto umano, fissando, nell'evidenza delle relazioni esistenti fra le nostre idee, il principio delle conoscen­ze certe. Al di là si estende il campo del giudizio, che si fonda sul grado di probabilità di opinioni non fondate in modo certo. Senza im­pegnarvisi veramente, Locke ha l'aria, per certi aspetti, di preannunciare una teoria probabilistica della ragione. L'atteggiamento più co­stante di Locke rimane nondimeno quello di definire la ragione come la facoltà di cogliere l'ordine vero delle nostre idee nelle loro corre­lazioni multiple. Egli non dubita mai del fatto che queste correla­zioni razionali si fondino sull'ordine immanente della natura. Dio giustifica tale ordine, benché lo spirito non possa andare, nella con­cezione del reale, oltre le idee fornite dall'esperienza sensibile.

 

 

MORALE E POLITICA

 

 

La riflessione morale e politica di Locke sull'uomo è solidale con la sua filosofia della conoscenza. A più riprese egli sottolinea la possi­bilità di una scienza certa della morale, fondandosi sullo studio delle idee di modi e di relazioni morali quali sono costituiti nello spirito dell'uomo: la moralità, in queste condizioni, avrebbe la medesima cer­tezza delle matematiche. L'uomo può, di fatto, giudicare sulla retti­tudine o meno delle proprie azioni in funzione di tre tipi di regole (Il, 28, § 7): 1) la legge divina; 2) la legge civile; 3) la legge dell'opi­nione e della reputazione. La legge divina sarebbe la legge promul­gata da Dio agli uomini nel lume naturale o secondo la voce della ri­velazione. La legge civile è stata istituita dall'uomo e dipende dal po­tere legislativo di ogni Stato politico. La legge d'opinione fissa norme variabili della virtù e del vizio, seguendo le disposizioni di spirito particolari degli individui che formano la società. Un fatto primordiale caratterizza d'altra parte l'uomo: si tratta della coscienza del proprio potere, che gli fornisce l'idea della propria libertà. È evidente che l'uomo non può avere idee se non in funzione dei dati della propria esperienza sensibile: in definitiva, tutti i suoi princìpi morali non pos­sono dunque esistere se non a partire dai dati della propria sensibilità. Egli ha nondimeno la possibilità di ascoltare in sé e nella natura la voce della ragione, la quale si manifesta infatti nell'ordine dei feno­meni naturali.

Ne segue che la sua valutazione del bene è a un tempo empirica e universale: empirica in quanto dipende dai dati dell'esperienza sen­sibile; universale in quanto si riferisce all'ordine nei fenomeni e alla libertà del giudizio nell'uomo, libertà che gli consente di riconoscere la legge di natura. In funzione della nozione dell'esistenza di Dio, che troviamo nel Saggio (IV, 10), viene spiegata in effetti la nozione di legge promulgata da Dio alla ragione dell'uomo: non si tratta affatto di un qualche principio innato dell'intelletto, anteriore all'esperienza, e, si potrebbe dire, anteriore all'esistenza stessa. Solo sulla base delle idee fornite dalla sensazione e dalla riflessione l'uomo può darsi una linea di condotta morale, in virtù della sua possibilità di intuizione razionale e della sua libertà d'azione; secondo il Saggio, infatti, l'uo­mo, facendo l'esperienza della propria libertà, può scoprire nell'ordine razionale delle sue idee la regola universale del bene. La felicità esiste solo per l'essere umano cosciente della sua libertà e perseguente nel­la sua azione il compimento di una legge di natura, la quale si rivela alla riflessione sull'esperienza. In Locke non c'è più una giustifica­zione metafisica a priori della legge di natura; al massimo egli crede che l'esperienza morale dell'uomo ragionevole sia conforme alla rivelazione del cristianesimo.

Le riflessioni politiche di Locke procedono dalla stessa fonte. Esse formano d'altronde un corpo di dottrina notevolmente coerente, che è esposto soprattutto nei Two Treatises 01 Government (1690). Il primo di questi trattati è una confutazione dell'opera di Sir Robert Filmer Patriarcha, la quale esponeva una teoria del potere assoluto dei monarchi sui loro sudditi. Il secondo trattato è intitolato An Essay concerning the True Original, Extent and End 01 Civil Government [Saggio concernente la vera origine, estensione e fine del governo]. Locke vi definisce le condizioni del potere politico in conformità alla vera nozione dell'uomo come agente morale, e dunque come essere li­bero; egli parte da una concezione dello stato di natura conforme al­l'esperienza che l'uomo ha dei suoi poteri naturali. Ora, c gli uomini si trovano naturalmente in uno stato di perfetta libertà di ordinare le loro azioni e di disporre dei loro beni e della loro persona come ritengono più utile, nei limiti della legge di natura, senza aver biso­gno dell'autorizzazione di altri uomini e senza dipendere dal loro buon volere» (cap. 2, § 4). «Questo è anche uno stato di uguaglianza, nel quale ogni potere, ogni giurisdizione sono reciproci, in quanto nessuno ha più di un altro» (cap. 2, § 4). Per Locke, in effetti, gli uomini, in quanto creature della medesima specie, hanno tutti la medesima relazione ai vantaggi della natura e hanno l'uso delle me­desime facoltà: ciò implica l'assenza di una subordinazione dell'uno rispetto all'altro. Perciò, nell'ordine naturale, la vita di ogni individuo è un bene proprio, che è importante conservare; e i rapporti fra gli uomini sono governati da un principio di autonomia: la punizione in­terviene al fine della salvaguardia del bene fondamentale, la persona umana, o della riparazione dei danni subiti dalla persona. Ogni uomo detiene dunque di fatto il potere esecutivo corrispondente all'ordine morale fondato sulla legge di natura. Lo stato di natura non si con­cepisce pertanto se non governato da una legge "di ragione: la ragio­ne, in effetti, è questa legge che c insegna a tutta l'umanità, per poco che essa l'abbia consultata, che, essendo tutti gli uomini uguali e in­dipendenti, nessuno deve recar danno alla vita, alla salute, alla liber­tà, alle proprietà di altri» (cap. 2, § 6). Ora, si pone il problema di sapere in che modo la legge di natura legittimi la proprietà ricollegan­dola alla persona del possessore.

È certo che la terra e tutte le creature inferiori appartengono, in­nanzitutto, a tutti gli uomini; altrettanto evidente è che l'uomo è na­turalmente proprietario della propria persona. Partendo da queste premesse si può affermare che, attraverso il lavoro, l'uomo stacca, dal possesso comune, l'elemento che assimila alla propria persona: «a tut­to ciò che egli ritira dallo stato istituito dalla Natura, e in cui essa lo aveva lasciato, egli ha mescolato la sua fatica, vi ha aggiunto qual­cosa che gli appartiene in proprio e ne fa perciò la sua proprietà» (cap. 5, § 27). Locke insiste nondimeno sul fatto che la legge dell'ap­propriazione naturale esclude lo spreco: in particolare, per quanto concerne il possesso della terra, i limiti dell'utilizzazione individuale permettono di stabilire una divisione equa. A partire dal momento in cui il denaro diviene l'equivalente di beni consumabili, la proprietà si modifica ed esce dai limiti previsti dall'ordine naturale.

È pertanto in ragione della legge di natura che viene concepito il contratto che istituisce il potere politico. Di fatto, gli uomini si uni­scono per costituire un tale potere al solo scopo di portar rimedio alle lacune dello stato di natura, e principalmente all'insicurezza e alla soggettività nell'applicazione della legge naturale. Nell'atto di co­stituzione del potere politico, che è un atto di libera adesione, gli uo­mini che si uniscono rinunciano alla loro prerogativa di poter inter­pretare e applicare la legge di natura, rimettendo questa prerogativa alla comunità. Al di fuori della libertà di ricercare soddisfazioni inno­centi, l'uomo, allo stato di natura, possedeva invero due poteri: “il primo potere, quello di fare tutto ciò che riteneva appropriato alla propria preservazione e a quella del resto dell'umanità, viene a essere regolato dalle leggi fatte dalla società, alla quale egli lo affida nella misura in cui lo richiedano la preservazione di se stesso e della parte restante di tale società; queste leggi della società limiteranno in molte cose la libertà che egli aveva in virtù della legge di natura » (cap. 9, § 129). In secondo luogo, egli rinuncia interamente al potere di pu­nire e impegna la sua forza naturale a sostegno del potere esecu­tivo della società, come sarà richiesto dalla legge (cap. 9, § 130).

impensabile, per Locke, che il potere politico abbia altri fini che non siano la pace, la sicurezza e il benessere del popolo. Da questo obiettivo, come dalla ragione stessa del contratto di' associazione ri­sulta che i poteri politici diversificati e gli organi che li incarnano devono essere subordinati secondo un ordine naturale, benché la loro autonomia relativa sia indispensabile al buon funzionamento dello Stato. In primo luogo viene il potere costituente del popolo, il quale crea lo Stato politico stesso ma se ne differenzia sempre, potendolo modificare se non risponde più alle norme della legge di natura; vie­ne poi il potere legislativo, il quale incarna, a partire dalla costitu­zione politica fondamentale, la legge morale in decisioni generali miranti al bene pubblico; da questo si distingue, e gli è subordinato, il potere esecutivo, il quale applica la legge seguendo la regola del­l' equità e conserva sempre la prerogativa di poter adottare decisioni particolari a seconda delle circostanze; il potere esecutivo diventa po­tere federativo quando è incaricato della salvaguardia della società po­litica nei suoi rapporti con l'estero, ossia con ogni elemento ester­no allo Stato. Occorre segnalare che, secondo Locke, al popolo rimane la possibilità permanente di ricusare i suoi governanti quando que­sti, mediante le loro azioni o addirittura le loro intenzioni, si collo­cano al di fuori dell'ordine morale istituito dal contratto: si ricade allora nelle condizioni dello stato di natura e la rivoluzione diviene legittima, in quanto il popolo ritrova per intero il suo potere morale di dare esecuzione alla legge di natura. “ La legge, nella sua vera ac­cezione» afferma Locke “ non è tanto costrizione quanto indicazione data a un agente libero e intelligente per il suo proprio interesse. Essa non prescrive nulla che vada oltre l'intenzione del Bene generale di coloro che si trovano a esser soggetti alla legge» (cap. 6, § 57).

In verità il relativismo, teorico e pratico, della filosofia di Locke, è solo apparente: si tratta sempre di una riflessione sull'esperienza, al fine di scoprirvi la razionalità capace di orientare l'azione dell'uo­mo verso il Bene. Certo, il punto di partenza della riflessione lockiana è un empirismo ereditato da Sydenham, il quale fissa, nelle sequenze osservabili dei fenomeni, l'ordine e la finalità della natura. Ma Locke applica il metodo c storico» di analisi alle idee, come materia delle

nostre conoscenze. L'analisi filosofica diventa così lo studio dei segni costitutivi delle nostre conoscenze, al fine di determinare le loro cor­relazioni certe. Locke lega la ragione dell'uomo, come principio del sapere, all'esperienza della sensazione e della riflessione. Perciò il Saggio sull'intelligenza umana inaugura la filosofia critica della co­noscenza come sarà praticata nel Settecento. Esso contribuisce a creare le condizioni di una riflessione moderna sullo spirito dell'uo­mo, riflessione che tende a liberarsi degli c a priori» metafisici. In direzioni divergenti, Berkeley, Condillac e Hume gli devono la loro prima ispirazione; egli annuncia inoltre, per molti aspetti, Rousseau e Kant.

 

 

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