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Documento inserito il: 1-5-2014

 

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Sommario

Da openmag.it 26 marzo 2014  Italiani di Crimea: storia di una comunità dimenticata di Silvia Di Pasquale

L’Espresso 5-3-2014  Noi, italiani di Crimea dimenticati dal governo di Stefano Vergine. 5

Il Giornale 14-3-2014  Gli ultimi italiani di Crimea: "Siamo in pericolo, aiutateci" Fausto Biloslavo. 7

 

 


 


 

Da openmag.it

Italiani di Crimea: storia di una comunità dimenticata

di Silvia Di Pasquale - 26 marzo 2014



Giorno-del-ricordo2

Il 18 maggio in Crimea è ufficialmente il giorno della memoria, che ricorda le vittime delle varie deportazioni avvenute il secolo scorso. Ma solo a cinque popoli spetta questo riconoscimento: tatari, tedeschi, armeni, bulgari e greci.

Nessun riferimento invece agli italiani che nel 1942 furono costretti ad abbandonare la penisola, venendo deportati in Kazakistan. Per decenni la comunità è stata totalmente abbandonata a se stessa da parte delle nostre autorità consolari. Oggi comincia però a riaffiorare la verità, nella speranza che l’attuale annessione della Crimea alla Russia non vanifichi gli sforzi operati finora da parte di questa piccola minoranza, che non vuole rinunciare alla propria identità.

La storia della comunità italiana in Crimea ebbe inizio nel 1830, quando gruppi di pugliesi provenienti da Bari, Bisceglie, Molfetta e Trani, ma anche napoletani e genovesi, di fatto ancora non italiani, partirono con l’idea di stanziarsi in questa parte dell’Impero russo, dopo essere venuti a conoscenza della fertilità delle sue terre e della pescosità del suo mare, sfruttabili in condizioni più favorevoli rispetto a quelle della madrepatria. Non emigrarono solo agricoltori con le loro famiglie, ma anche muratori ed architetti, figure necessarie al fine di edificare le zone interessate. Gli italiani si inserirono nel tessuto sociale locale senza troppi problemi. In poco tempo diedero vita ad una comunità fiorente e rispettata, costituita da piccoli imprenditori e liberi professionisti. Per il professor Giulio Vignoli, massimo esperto di minoranze italiane nell’est europeo, all’inizio del Novecento, nella provincia di Kerch, una cittadina situata tra il Mar d’Azov e il Mar Nero, gli italiani rappresentavano il 2% della popolazione. Altri erano a Feodosia, l’antica Caffa, in passato colonia genovese e a Simferopoli, per un totale di circa 5000 persone, anche se non si conosce con esattezza il numero.

Tutto procedette regolarmente fino all’arrivo del comunismo. La collettivizzazione forzata delle terre privò infatti gli italiani dei loro beni, depauperando i componenti della comunità e mettendo fine a quell’esperimento di convivenza felice all’interno dell’impero, che nemmeno la Guerra di Crimea del 1854/56 aveva inficiato, sebbene proprio un contingente militare piemontese avesse partecipato al conflitto, a fianco dell’esercito anglo-francese, dichiarando di fatto guerra alla Russia. Secondo alcune notizie disponibili nel sito delMovimento Irredentista Italiano: “La comunità venne posta sotto la supervisione di emigrati italiani antifascisti che cercarono riparo in Unione Sovietica, segnando l’inizio delle repressioni e delle persecuzioni. Su ITALIANI DI CRIMEA STUDIANO ITALIANOiniziativa degli antifascisti italiani venne subito chiusa la Chiesa, con l’accusa di propaganda antisovietica da parte del parroco, costretto a rimpatriare. La collettivizzazione dei mezzi di produzione e delle campagne, imposta dalla politica comunista, obbligò gli italiani a creare un kolchoz, intitolato a Sacco e Vanzetti. La pena comminata a chi si opponeva alla collaborazione al progetto era l’espropriazione di tutti gli averi ed il rimpatrio forzato”.

Alla fine degli anni Trenta, alcuni di questi italiani decisero di tornare in Italia, tra le mille difficoltà immaginabili che un tale tipo di rientro poteva comportare. Le famiglie che riuscirono ad espatriare, raggiunsero proprio la città di Trieste, dove si stabilirono e dove ancora oggi vivono i discendenti. La sorte peggiore toccò però a quelli che rimasero in Crimea. Per il solo fatto di essere italiani e con l’accusa di collaborazionismo con la Germania nazista, il 29 gennaio del 1942, in pieno inverno, furono rastrellati  tutti, dai bambini agli anziani, per essere deportati nelle steppe del Kazakistan, destinati ai campi di lavoro forzato, anche come ritorsione nei confronti dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte  L’ARMIR (L’Armata Italiana in Russia). Venne permesso loro di portare via solo un italiani di crimeasacco di oggetti propri che non doveva superare gli 8 chili di peso. Gli esiliati passarono dalle sopportabili temperature invernali della Crimea a quelle gelide dell’Asia Centrale. Dei circa 2000 che partirono, in pochi sopravvissero allo sterminio, che colpì molti di loro ancor prima di giungere a destinazione. Per Natale De Martino, uno dei  sopravvissuti, “fu la deportazione più crudele”, perché “si moriva di freddo, di fame, di stenti».

Nel dopoguerra circa 300 superstiti tornarono a Kerch, ma la situazione per questi ultimi era tutt’altro che favorevole: senza soldi, senza casa, senza lavoro e senza documenti, preferirono nascondere la loro origine, per paura di essere nuovamente penalizzati e additati come traditori,  restando di fatto ignorati anche dal nostro Paese. In epoca  gorbacioviana presero coraggio scrivendo tanto all’ambasciata italiana a Mosca, quanto a quella di Kiev, dopo che l’Ucraina divenne indipendente. Ma inizialmente non ricevettero risposta. Successivamente, tale risposta giunse dalle nostre autorità consolari, che però richiedevano ai sopravvissuti di fornire documenti che attestassero quanto dichiarato ai fini del riconoscimento dello status di deportati. Fatto impossibile, considerando che al momento della deportazione ne furono privati. Perciò, pur avendo nomi e cognomi palesemente italiani, non poterono dimostrare quanto richiesto. Mai nessun passo ufficiale è stato mosso dalle nostre autorità affinché i superstiti ottenessero dei minimi vantaggi economici come risarcimento per ciò che era ingiustamente avvenuto, oltre ad un eventuale conferimento della cittadinanza italiana.

CERKIO CRIMEADa anni i componenti della piccola comunità chiedono di poter ripristinare quel cordone ombelicale con le proprie origini, che in passato è stato staccato forzatamente. Ma è anche la fame di cultura italiana che spinge gli eredi dei deportati a pretendere di essere riconosciuti, non solo i motivi burocratici. Nonostante i decenni di abbandono, dal 2008 è nata a Kerch l’Associazione CERKIO (Comunità degli Emigrati nella Regione di Kerch – Italiani di Origine), il cui fine è quello di mantenere ancora vivo lo studio della lingua e delle tradizioni italiane in Crimea. “Noi non perdiamo la speranza, impariamo diligentemente l’italiano e, con l’aiuto di Dio, lavoriamo insieme per rendere eterna la memoria delle vittime”, queste le parole di Giulia Giacchetti Boico, italiana di Crimea, figlia di una deportata, nonché Presidentessa di CERKIO.

Oggi sono rimasti in 500 e non sappiamo quali saranno i loro nuovi rapporti con Mosca, giacché le loro sorti non dipendono più da Kiev. “La diaspora italiana non ha nulla da temere. Sotto Mosca verrà rispettata e vogliamo stringere rapporti con Bari da dove sono arrivati tanti vostri connazionali”, così si è espresso il sindaco di Kerch, Oleg Vladimirovich, secondo quanto riportato da Fausto Biloslavo, in un articolo su Il Giornale,  pubblicato venerdì 14 marzo 2014. Per anni questi italiani hanno rappresentato una spina nel fianco di chi non ha voluto dar loro voce. Non è difficile ipotizzare qualche possibile ragione politica, calcolando che nel dopoguerra una storia di questo tipo avrebbe probabilmente messo in crisi i rapporti tra il Partito comunista italiano e l’Unione Sovietica. Approfittando del fatto che i media di tutto il mondo sono attualmente focalizzati sulla questione dell’annessione della Crimea alla Russia, cogliamo l’occasione per non dimenticare le rivendicazioni di una piccola minoranza italiana, che non vuole in nessun modo rinunciare alla memoria del suo passato.

 

 


 

 

 

L’Espresso 5-3-2014

Noi, italiani di Crimea dimenticati dal governo

di Stefano Vergine

 

Nella città portuale di Kerch, snodo strategico della crisi ucraino-russa, vive fin dal 1800 una comunità italiana. Ora si appellano al paese d'origine per essere tutelati. Ma non avendo il passaporto del nostro Paese, rischiano di restare intrappolati. E hanno paura

 

E' l'ultimo avamposto della Crimea prima di entrare in territorio russo. Una città affacciata su un lembo di mare largo solo 4 chilometri. Da una parte territorio ucraino, dall'altra russo. Questa, almeno, era la situazione fino a pochi giorni fa, prima che militari senza mostrine prendessero controllo del porto di Kerch, snodo strategico per un'eventuale sbarco in massa dei soldati di Mosca nella penisola. Così, ora, ad avere paura dell'invasione russa ci sono anche 300 italiani. “La situazione è preoccupante: c'è aria di guerra”, dice al telefono, da Kerch, Giulia Giachetti Boico, presidente dell'associazione locale Cerkio.

In questa città della Crimea, per uno scherzo della storia, vive infatti la più grande comunità italiana d'Ucraina. Attirati nell'800 dalla zarina Caterina II, che dopo aver conquistato la Crimea volle ripopolarla con gente capace di coltivare la vite e lavorare sulle navi, giunsero nella regione migliaia di pugliesi, veneti, campani e liguri. Persone trasferitesi in Crimea con la prospettiva di un lavoro e di terra acquistabile a basso prezzo. Tutto vero. Peccato che poi a Mosca arrivarono i bolscevichi e a Roma prese il potere Mussolini. Russia e Italia divennero nemici: chi si trovava in mezzo rischiava grosso.

It Crimea 1Nella sola Kerch, il 29 gennaio del 1942, circa 3mila connazionali vennero prelevati dalle loro case per essere deportati. Privati del passaporto italiano, furono trasferiti al porto di Kerch, lo stesso gestito ora da militari che rifiutano di identificarsi, ma che parlano russo e viaggiano a bordo di veicoli con targhe della Federazione. “Le informazioni sono contrastanti – racconta Boico – C'è chi dice che al porto stiano sbarcando i blindati di Mosca, chi dice che i militari si limitino a controllare lo scalo. Di certo questo è il punto della Crimea più vicino alla Russia e noi abbiamo paura”.

Da quel porto, 72 anni fa, gli italiani furono imbarcati su un traghetto per attraversare lo Stretto di Kerch. Poi trascorsero due mesi in treno, sui carri bestiame, per raggiungere le steppe del Kazakistan, dove i superstiti furono costretti ai lavori forzati. Un limbo durato anni, fino alla morte di Stalin e l'avvento al potere di Kruscev. Fu proprio quest'ultimo a “regalare” la Crimea all'Ucraina e a permettere agli italiani sopravvissuti il graduale ritorno verso Kerch. Oggi i reduci sono pochissimi, tutti molto anziani, ma l'identità nazionale è stata tramandata alle nuove generazioni.

Giulia Giachetti Boico, figlia di deportati, ha creato l'associazione Cerkio proprio con questo obiettivo: mantenere vive le radici italiane, insegnare la lingua, tramandare una storia che altrimenti sarebbe già andata persa. “L'ambasciatore italiano in Ucraina mi ha chiamato in questi giorni. Mi ha detto che se la situazione peggiorerà – racconta Boico - lui sarà pronto ad aiutarci. Ma l'ambasciatore mi ha anche ricordato una cosa di cui noi tutti siamo consapevoli, e cioè che non avendo un passaporto italiano il suo margine d'azione è molto limitato”.

A differenza delle altre minoranze deportate dalla Crimea durante il regime stalinista, quella degli italiani non è infatti stata riconosciuta. Conseguenza pratica: non è mai stata restituita loro la cittadinanza italiana persa sotto l'Unione Sovietica. Di fronte alla stazione ferroviaria di Kerch, una piccola lapide nera ricorda i popoli vittime della furia di Stalin. Sono citati tedeschi, greci, armeni, bulgari e tatari.

Tutti tranne gli italiani. Una vicenda portata per la prima volta alla luce dal libro “L'Olocausto sconosciuto”, scritto dalla stessa Boico e da Giulio Vignoli, professore di Diritto Internazionale all'università di Genova. “In questi anni – dice Vignoli - ho scritto ai vari premier e ministri degli Esteri che si sono succeduti, ho scritto anche al presidente della Repubblica Napolitano per chiedere che a queste persone venga restituita la cittadinanza del Paese d'origine, fatto avvenuto ad esempio per tedeschi e greci deportati dalla Crimea.

Purtroppo, però, finora nessun membro delle Istituzioni si è speso per fare qualcosa”. Il 16 marzo in Crimea si terrà il referendum per decidere se gli abitanti della Penisola vogliono restare con l'Ucraina o diventare parte della Federazione russa. La vittoria di chi vuole passare sotto il controllo di Mosca appare scontata, visto che la Crimea è abitata in maggioranza da cittadini filo russi. Un'eventualità che allontanerebbe ulteriormente il sogno della comunità italiana di Crimea. “Se passassimo sotto la Russia”, conclude Boico, “le nostre possibilità di ottenere la cittadinanza italiana diventerebbero praticamente nulle”.

05 marzo 2014

 

 

 


 

 

 

Il Giornale 4-3-2014

Gli ultimi italiani di Crimea: "Siamo in pericolo, aiutateci"

Fausto Biloslavo Ven, 14/03/2014

I primi emigrarono 200 anni fa, furono deportati in Siberia e decimati da Stalin: "Se qui cominceranno a sparare i primi a farne le spese saremo noi"

 

Il Tricolore è tenuto come una reliquia da Giulia Giacchetti Boico, la presidente della comunità italiana della Crimea (guarda il video).

 

 

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«Abbiamo paura della guerra che potrebbe scoppiare fra Ucraina e Russia o con chi non accetterà l'annessione a Mosca» spiega la coraggiosa rappresentante dei connazionali più dimenticati dalla storia e dalla madrepatria.

«Per questo ci appelliamo alla politica e al governo di Roma. Chiediamo solo un cenno di solidarietà e protezione. Un aiuto in questo momento drammatico» a nome delle 500 anime di origine italiana perdute nei venti di guerra della Crimea (guarda il video). «Se cominceranno a sparare, come ai tempi della nostra deportazione nel 1942, i primi che verranno a cercare saranno le minoranze indifese» sottolinea Giulia. Gli italiani di Crimea, emigrati nella penisola oltre 200 anni fa, furono deportati in Siberia e decimati da Stalin, che li considerava una spina nel fianco durante la seconda guerra mondiale (guarda il video). «Solo due giorni fa ho sentito le strofe della canzone di Simone Cristicchi sull'esodo istriano ci chiamavano fascisti, ma eravamo italiani - racconta Giulia - Lo stesso è capitato a noi. Per questo abbiamo deciso che nel giorno del ricordo del nostro dramma la canteremo in riva al mare, dove iniziò la deportazione via nave» (guarda il video).


La cittadina è all'estremo lembo orientale della Crimea divisa dalla Russia da uno stretto (guarda la mappa ). Stalin non c'è più, ma Loretta la nonna di Giulia, raccontava sempre dei soldati con la stella rossa ed i mitra spianati arrivati a casa per intimare che avevano un'ora per partire e potevano portare solo 8 chilogrammi di roba.

 

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·        L'appello degli italiani in Crimea: "Non lasciateci soli"

«Era il 28 gennaio 1942 - racconta Giulia - Li imbarcarono sulle navi, come bestie nelle stive, al buio. Sentivano i bombardamenti della linea del fronte e pregavano Dio dicendo: Salvaci se fra noi c'è un solo bimbo innocente come Gesù”». Una nave naufragò ed il signor Ragno fu l'unico sopravvissuto. Il peggio, però, doveva ancora venire. A Novorossiysk gli italiani, che a Kerch erano 5mila, furono chiusi in carri bestiame, come gli ebrei dell'Olocausto. «Il viaggio verso la Siberia durò due mesi ed ogni giorno qualcuno moriva - spiega Giulia riportando le parole dei sopravvissuti - Paola Evangelista aveva tre figli maschi. Quando spiravano doveva lanciare i corpi fuori dal treno. L'ultimo decise di tenerlo in braccio, di far finta con le guardie che fosse ancora vivo per seppellirlo decentemente».


L'Nkvd, la polizia segreta di Stalin, come quella di Tito anni dopo, non guardava in faccia nessuno. Fra i deportati c'erano pure antifascisti riparati in Unione Sovietica. «Bruno, nome di battaglia Spartaco, non voleva obbedire agli ordini. Un giorno l'hanno portato via ed è sparito - rivela Giulia - La madre, Maria, è impazzita e ha fatto la stessa fine». Si veniva giustiziati per una sciocchezza: «Due fratelli ad una sosta avevano osato prendere del carbone della locomotiva per riscaldarsi. Li hanno fucilati». Natale De Martino, un sopravvissuto, ripete sempre che «fu la deportazione più crudele. Si moriva di freddo, di fame, di stenti».


Gli italiani dalla Liguria e soprattutto dalla Puglia, marinai o contadini, erano emigrati in Crimea ai tempi degli Zar. «Antonio Felice Garibaldi, lo zio dell'eroe dei due mondi costruì nel 1860 l'unica chiesa cattolica, che i comunisti hanno usato per anni come palestra - fa notare Giulia - (guarda il video). Volevamo un parroco da Roma che non è arrivato, ma il Padre nostro lo recitiamo in italiano». Lo stesso Giuseppe Garibaldi venne due volte in Crimea. I sopravvissuti alla deportazione di Stalin «non sono mai stati riabilitati, ma hanno cominciato a tornare in Crimea alla spicciolata dagli anni Cinquanta».


Anna e Vittoria sono due emozionate ventenni, che a fine mese partiranno per Roma «a migliorare l'italiano all'associazione Dante Alighieri» (guarda il video). Al piano terra della modesta abitazione-ufficio della presidente, una stanza con lavagna, bandiera e carta dell'Italia è adibita a classe. Su un foglio A4 c'è scritto: «Qui si parla italiano». Su un alberello in cartapesta sono appesi i cognomi della comunità: Simone, Binetto, Bassi, De Lerno, Fabiani (guarda il video).


Il sindaco di Kerch, Oleg Vladimirovich, non ha dubbi: «I concittadini al referendum di domenica voteranno per l'unione con la Russia. La diaspora italiana non ha nulla da temere. Sotto Mosca verrà rispettata e vogliamo stringere rapporti con Bari da dove sono arrivati tanti vostri connazionali». L'ambasciata italiana a Kiev è vicina alla comunità in questi giorni drammatici, che vedranno cambiare la carta dell'Europa. «La situazione è esplosiva» ed i superstiti della tragedia dimenticata chiedono a Roma «protezione umanitaria o un permesso di soggiorno di lunga durata. Gli anziani vorrebbero rivedere l'Italia ed i più giovani, se la situazione peggiorasse, potrebbero chiedere la cittadinanza».

Nella tempesta fra Est e Ovest gli ultimi italiani di Crimea sono in balia delle onde. Lo stesso mare che li ha visti deportati per i lavori forzati in Siberia oltre 70 anni fa. Igor Federov, che ha sposato Anna Porcelli, ci porta a vedere il molo delle vergogna dove vennero imbarcati. «Ogni anno veniamo a gettare in mare dei garofani rossi per chi non è più tornato. Adesso, che altri tempi bui sono alle porte, non abbandonateci». (guarda il video)

 

 


 

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