PRIVILEGIA NE
IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
DOCUMENTI SULLA INQUISIZIONe
I VOLONTEROSI CARNEFICI DEL PAPA
MANUALE DELL'INQUISITORE - A.D. 1376
"Santa" l'Inquisizione? La Chiesa chiede scusa
Il Tribunale dell'Inquisizione
L'INQUISIZIONE E GLI ITALO-GRECI
La «Santa Inquisizione» e le Streghe
Le Crociate di ieri, quelle di oggi
Una Chiesa di martiri. Cause delle persecuzioni. L’IMPORTANZA
DELLE CATACOMBE
UNA DICHIARAZIONE DI FONTE CATTOLICA
"IL TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE" (1487 – 1782)
Apichati e abrusciati a Roma dal 1553 al 1761
Si riporta di
seguito una recensione degli Atti del convegno svoltosi in Vaticano fra il 29 e
31 ottobre 1988, e pubblicati solo nel Giugno 2004 La recensione e' a cura
dello Studioso di Storia Adriano Petta ed e' stata pubblicata sull'inserto
"ALIAS" del "Manifesto" l' 11/09/2004. Si Ringrazia
l'Autore ed il "Manifesto" per l'autorizzazione alla diffusione sulla
rete delle reti del documento.
L'articolo
viene riproposto per diffondere conoscenza e verità, e come omaggio personale a
tutti coloro che credono che l'Inqusizione sia stata una "Storia
Nera"
Ringrazio
Adriano Petta per la collaborazione e la disponibilita'
(articolo apparso sull’inserto ALIAS del «Manifesto» dell’11
settembre 2004)
A SEI ANNI DAL SIMPOSIO INTERNAZIONALE SULL’INQUISIZIONE,
SVOLTOSI IN VATICANO NEL 1998, UN IMPONENTE VOLUME DI QUASI 800 PAGINE NE
RACCOGLIE GLI ATTI, CHE CONFERMANO LA CINICA SPIETATEZZA DI QUEL SISTEMA DI
DOMINIO E ANNIENTAMENTO. UN METODO E UNA IDEOLOGIA CHE CONTINUANO A SEMINARE
DOLORE E MORTE
L’impero del male
di Adriano Petta*
Martedì 15 giugno scorso nella Sala Stampa della Santa Sede i
cardinali Georges Cottier e Roger Etchegaray, assieme al bibliotecario ed
archivista di S. Romana Chiesa Jean-Louis Tauran, hanno presentato gli atti del
simposio internazionale sull’Inquisizione che si tenne in Vaticano dal 29 al 31
ottobre del 1998. Questi atti sono stati presentati e illustrati anche dal
curatore dell’opera professor Agostino Borromeo, sotto la forma di un volume
imponente di ben 788 pagine dal titolo L’Inquisizione – Atti del Simposio
Internazionale edito nella collana “Studi e Testi” dalla Biblioteca
Apostolica Vaticana nel 2003. IL Simposio era stato voluto da papa Wojtyla
perché, in occasione del Giubileo del 2000, intendeva chiedere perdono «per le
forme di antitestimonianza e di scandalo» praticate nell’arco della storia dai
figli della Chiesa (cosa che fece il 12 marzo 2000 nella «Giornata del
perdono»). Ma prima di chiedere perdono, era necessario avere una conoscenza
esatta dei fatti. La Commissione teologico-storica del comitato giubilare aveva
quindi invitato una cinquantina di professori specializzati nel campo, storici
che abbiano dismesso i panni del giudice e si siano proposti solo di
comprendere il passato (i testi in corsivo sono stati estratti dagli atti
del simposio. Ndr.).
Mercoledì 16 giugno scorso quasi tutti i giornali hanno
riportato la notizia della presentazione del volume, accompagnata da tabelline
e commenti che riassumevano più o meno acriticamente le parole del professor
Borromeo e dei cardinali che avevano presentato il libro: il numero degli
eretici mandati al rogo dalla Santa Inquisizione non giungeva nemmeno a 100:
erano stati solamente 99, e veniva così ristabilita la verità storica che
finalmente sfatava la leggenda nera sull’Inquisizione, creata ad arte dalla propaganda
anticattolica, come sottolineava esultante il principe dei giornali cattolici L’Avvenire:
«tanto appassionante quanto ricco di scoperte si rivela l’imponente volume nel
negare la «leggenda nera». Il card. Georges Cottier (Pro-teologo della Casa Pontificia)
ha ribadito, infatti, che «una domanda di perdono che la Chiesa deve fare a
riguardo dei propri errori del passato, non può riguardare che fatti veri e
obiettivamente riconosciuti. Non si chiede perdono per alcune immagini diffuse
all’opinione pubblica, che hanno più del mito che della realtà».
Ma una domanda nasceva spontanea: come mai erano trascorsi oltre
sei anni per la pubblicazione degli atti del simposio? E come mai il comitato
organizzatore si è premurato di assicurare che le cause stavano solo in motivi
di salute di alcuni studiosi…? Occorreva leggere questo librone. I 60
euro sono stati ben spesi perché il risultato è stato effettivamente ricco di
scoperte… ma non nel senso sbandierato dall’Avvenire o lasciato
immaginare da gran parte della stampa (e dai numerosissimi siti cattolici di
mezzo mondo) nei giorni successivi alla presentazione.
Innanzitutto la struttura di questo imponente volume. Dei 50
partecipanti al simposio, solo 30 hanno lasciato testi scritti, in italiano,
inglese, spagnolo e francese (e note in portoghese e latino). Ognuno dei
partecipanti aveva ricevuto un tema da trattare (origini, strutture
territoriali, procedure, inquisizione romana e le scienze, l’inquisizione e le
streghe etc.): molti testi sono ossequiosi nei confronti della Chiesa
cattolica, testi blandi, ambigui… ma ci sono anche testi durissimi, con molte
scoperte o fatti poco noti.
Papa Wojtyla e il comitato organizzatore del Simposio sapevano
fin dall’inizio ch’era praticamente impossibile mettere nero su bianco una
cifra esatta del numero delle vittime. L’Inquisizione cercò di far sparire
quanti più archivi poté dei processi e delle sentenze. Non solo. Occorre tener
presente che nel corso dei 600 anni di funzionamento di questo apparato
repressivo, responsabile dei più grandi crimini collettivi della storia
dell’umanità, spesso accadeva che il popolo terrorizzato ed esasperato
assaltava i tribunali dell’Inquisizione distruggendo gli archivi che
contenevano non solo la lista dei condannati, ma anche quella dei sospettati.
Napoleone, poi, quando conquistò l’Italia, portò con sé tutti gli archivi
dell’Inquisizione che purtroppo non furono ben conservati e solo una piccola
parte è ancora intatti a Parigi. Nella capitale francese i pezzi erano 7900
circa, di cui 4148 volumi di processi e 472 di sentenze fino al 1771; nella
seconda metà dell’800 in concomitanza con situazioni politiche “pericolose” (Garibaldi,
porta Pia) i funzionari della
Congregazione del Santo Uffizio operarono distruzioni nella documentazione processuale
degli anni 1772-1810 che non era stata portata a Parigi e in quella prodotta in
seguito. Dopo l’abolizione dell’Inquisizione in Spagna, il popolo bruciò
quasi tutti gli archivi con i dati dei processi e delle condanne. Il
governo illuminista del viceré Domenico Caracciolo fece bruciare tutti gli
archivi di Palermo per mettere una pietra sopra quella storia di orrori e per
tutelare le migliaia di persone segnalate, esattamente come accadde in tutte le
terre portoghesi, come ad esempio il viceré del Portogallo conte di Sarzedas, a
Goa, la capitale delle Indie.
Per avere un’idea delle proporzioni di quella macchina
infernale, occorre ricordare che solo all’Inquisizione di Palermo lavoravano
25.000 persone! In un altro capitolo del librone risulta che le sentenze
capitali eseguite a Roma dal 1500 al 1730 furono «solo» 128. Ma questi dati
sono stati ottenuti da 11 dei 39 registri originari, quindi con una semplice
proporzione è lecito pensare che le esecuzioni furono come minimo 453. Ma
questi sono dettagli, le vittime innocenti dell’Inquisizione furono almeno
cinquecentomila, senza contare i 100-150 mila presunti catari, uomini, donne e
bambini, scannati vivi in poche ore a Béziers il 22 luglio 1209. Questa
faccenda dei numeri è comunque fuorviante: l’orrore vero consisteva nel fatto
che tutti, nessuno escluso, poteva essere sospettato, imprigionato, perdere
tutte le proprietà ed essere arso vivo in quanto l’Inquisizione non giudicava
dei crimini, ma le idee. Bastava un gesto, una parola, un litigio con un
parente o un vicino di casa, il volersi liberare di qualcuno scomodo per essere
denunziati o per denunziare.
Alcuni quotidiani hanno pubblicato la stessa tabellina che, nel
librone, fa parte dell’articolo di Gustav Henningsen scritto in spagnolo.
Alcuni nell’alto della tabellina hanno scritto correttamente «Caccia alle
streghe», mentre sotto «le vittime dell’Inquisizione nel Seicento». S’immagini
ora un qualunque lettore: prima riga, in Irlanda l’Inquisizione ha bruciato
vivi solo due eretici; seconda riga, in Portogallo solo 7… ma allora è proprio
vero che questa leggenda nera dell’Inquisizione è stata tutta un’invenzione! Da
notare la finezza: la tabellina inizia con Irlanda e Portogallo, di cui non si
conoscono i dati, mentre poteva cominciare con quelli della Polonia (10.000
creature accusate di stregoneria, bruciate vive, su una popolazione di
3.400.000… solo nel Seicento!). Senti come cambia la musica di morte? Altri
quotidiani hanno compiuto veri e propri «capolavori» d’involontario depistaggio
pubblicando la stessa tabellina ma intitolandola «Le esecuzioni in Europa»
(esecuzioni generiche, quindi totali, mentre la tabellina in questione si
riferiva solo ai condannati di stregoneria e solo al Seicento!). Occorre
ricordare che la Riforma di Lutero in pratica aveva rigettato tutto del
cattolicesimo, tranne la caccia alle streghe. Comunque tutta la stampa (sia
cartacea che sul web) ha riassunto i dati forniti direttamente dal curatore
dell’opera Agostino Borromeo, secondo i quali le condanne al rogo comminate dai
tribunali ecclesiastici sono state – in Italia, Spagna e Portogallo – 99.
È lecito pensare che i quotidiani abbiano fatto esattamente quello che il
papa e il comitato organizzatore del Simposio si erano prefissi sei anni fa:
hanno abboccato all’amo pubblicando dati che nulla hanno a che vedere con le
proporzioni apocalittiche di quello ch’è accaduto in mezzo mondo per quasi 600
anni. E non è nemmeno vero che in questi atti ci sia una volontà sfacciata di
negare la «leggenda nera»: è l’insieme della vicenda ch’è subdolo, ma tanto la
gente non leggerà mai l’imponente volume, mentre quello che scrivono i giornali
sì.
Non è tuttavia da escludere quell’effetto boomerang tanto temuto
dai vescovi e cardinali più prudenti, che per sei anni si sono opposti alla
pubblicazione degli atti del Simposio: sapevano che rimestando nello sterco del
demonio poteva sprigionarsi qualche zaffata. E infatti in questo librone si
possono cogliere parecchie «noterelle», come la storia dell’Inquisizione
spagnola e portoghese in centro-sud America e nelle Indie. Il pretesto che
innescava le denunzie e i processi erano nella grande maggioranza dei casi le
proprietà. Per appropriarsi dei beni della gente, la Chiesa, il Comune, la
Città e lo Stato hanno accusato di eresia via via catari, valdesi, apostati,
convertiti, apostolici, ebrei, ebrei neri, ebrei bianchi, musulmani,
protestanti, marrani, nestoriani, induisti, blasfemi, sodomiti, streghe,
illuse, illudenti, bigami, superstiziosi, anabattisti, criptogiudei,
criptomusulmani, pagani, illuminati, scismatici, peccatori di magia, sortilegi,
divinazione, abuso di sacramenti, disprezzo delle Chiavi, studiosi, medici,
alchimisti, atei, oppositori politici, filosofi, matematici, scienziati… e li
mandavano al rogo, perché l’eretico non può possedere beni, che invece sono
della Chiesa la quale non lo spoglia ma si riprende ciò che è suo… anche in
presenza di figli cattolici; per questo l’Inquisizione fu una macchina
che macinò un’enorme massa di capitali finanziari e l’immanitas
tormentorum spingeva gli accusati innocenti ad autoaccusarsi per sfuggire alla
sofferenza: il risultato era che non vi si difendeva la pietas religiosa, ma se
ne faceva pretesto per impadronirsi dei beni altrui. Vale la pena riportare
una sola frase del Manuale degli inquisitori di Nicolau Eymerich (il
«vangelo» dell’Inquisizione per secoli): «Bisogna ricordare che lo scopo
principale del processo e della condanna a morte non è salvare l’anima del reo,
ma… terrorizzare il popolo».
In genere la ripartizione dei beni depredati era 1/3 agli
inquisitori, 1/3 alla Chiesa e un terzo al comune, alla città o allo stato. A
Viterbo e a Roma, sedi papali, 1/3 al comune e 2/3 agli inquisitori.
Oltre allo scopo primario (minimizzare la quantità dei bruciati
vivi) il Simposio aveva altri due intenti. Quello di parlare di numerose
inquisizioni, di fenomeni differenziati, diversi d’epoca in epoca e di stato in
stato e di far risaltare che la più umana fu – guarda caso – quella romana; e
quello di addossare agli stati (soprattutto quello spagnolo e portoghese) la
responsabilità di aver esagerato con la tortura e i roghi. L’ossequioso Adriano
Garuti scrive, infatti, che la stessa carcerazione in S. Ufficio è forse
stata soffusa da un alone eccessivamente tetro… non mancavano però normative o
prassi che ne attenuavano il rigore: non si carceravano facilmente le donne,
specie se nobili… e la capacità del soggetto ad essere sottoposto alla tortura
era vagliata e confermata da un medico… L’inquisitore si faceva assicurare
da un medico se l’eretico era forte e se si poteva divertire a sazietà.
Significative sono alcune pagine di Henningsen quando racconta che quasi la
metà dei 200 processi di stregoneria li portarono a compimento due inquisitori
tedeschi: Jacob Sprenger (1436-1495) e Heinrich Institoris (1432-1492). La loro
fanatica persecuzione delle streghe nel sud della Germania si scontrò con
l’opposizione delle autorità civili ed ecclesiastiche. Allora i due inquisitori
si lamentarono col papa Innocenzo VIII che il 5 dicembre 1484 emanò la bolla
“Summis desiderantes affectibus” con cui dette ai due l’appoggio di cui avevano
bisogno, elencando dettagliatamente quello che combinavano le streghe:
«uccidono il bambino nel ventre della madre, così come i feti delle mandrie e
dei greggi, tolgono la fertilità ai campi, mandano a male l’uva delle vigne e
la frutta degli alberi; stregano gli uomini, donne, animali da tiro, mandrie,
greggi ed altri animali domestici; fanno soffrire, soffocare e morire le vigne,
piantagioni di frutta, prati, pascoli, biada, grano e altri cereali; inoltre
perseguitano e torturano uomini e donne attraverso spaventose e terribili
sofferenze e dolorose malattie interne ed esterne; e impediscono a quegli
uomini di procreare, e alle donne di concepire…».
All’inizio del sec. XVI gli inquisitori di Germania, Francia e
Italia intrapresero una violenta campagna di persecuzione verso la setta
delle streghe con la completa approvazione del Vaticano grazie alle
circolari papali emesse da Alessandro VI, Giulio II, Leone X e Adriano IV. Nel
1501 papa Alessandro VI scrive all’inquisitore della Lombardia Angelo da Verona
raccomandandogli di procedere più duramente contro le tante streghe della
zona che rovinano le persone, gli animali ed i raccolti. Il senato di Venezia
protestò verso l’Inquisizione che aveva bruciato vive 70 streghe in Valcamonica
e di sospettare che altre 5.000 facessero parte della setta satanica… ma papa
Leone X nel 1521 scrisse una bolla violenta nella quale autorizzava gli
inquisitori a scomunicare le autorità civili che dovessero opporsi ai roghi
delle streghe condannate dal Santo Ufficio. In soli 10 anni vennero
bruciate vive 3.000 «streghe».
Nella stampa populista si continua ad incontrare una cifra di
nove milioni di vite sacrificate durante la persecuzione delle streghe di
quell’epoca. Oggi si stima che il numero di processi di stregoneria in
quell’epoca è di
Come se quei tribunali civili e vescovili non fossero emanazione
diretta del potere della Chiesa che tutto permeava in quei secoli bui. Con
questa operazione del Simposio, papa e cardinali hanno provato a mischiare le
carte, a introdurre distinguo, a confondere, a scaricare responsabilità che
sono state e resteranno sempre di coloro che crearono e mantennero vivo quel
sistema di sterminio: la Chiesa cattolica, i suoi vertici.
Nel 1600 l’inquisitore don Alonso de Salazar Frías girò
in lungo e in largo per tutto il Paese Basco spagnolo portando un Editto di
Grazia alla setta delle streghe. 2000 persone si presentarono davanti
all’Inquisizione chiedendo che fosse loro concessa l’amnistia promessa alle
streghe. Le suddette 2000 streghe denunziarono altre 5000. Quel clima apocalittico
era stato alimentato dalle bolle papali. Soprattutto la bolla di Innocenzo
VIII, più di nessun altro, legalizzò la persecuzione delle streghe. Scrive
Adriano Prosperi: A partire dal 1559 e per volontà di Paolo IV, in maniera
sistematica e capillare, tutti i cristiani che si recarono a fare la
confessione dei loro peccati furono interrogati su eventuali loro reati o
semplici conoscenze di reati di eresia o lettura di libri proibiti; e se
qualcosa emergeva, vennero rinviati al tribunale dell’inquisizione. Se la
violenza della tortura e del patibolo spezzava i corpi, la violenza morale
esercitata attraverso la subordinazione della confessione all’inquisizione
spezzò le coscienze: e lo fece su tutta la popolazione in età di confessione.
Due anni prima lo stesso Paolo IV aveva investito tutta la
travolgente irruenza del suo carattere nella trasformazione di un tribunale (della
Santissima Inquisizione) spesso interlocutorio e prudente, incline a
interrogarsi su se stesso, frenato e intralciato da altri centri di potere, in
un’arma affilata di repressione e annientamento conferendogli (il 29 aprile
1557) per mezzo della minuta «Pro votantibus» licenza e facoltà di
emettere voti e sentenze che comportassero tortura, mutilazioni e
spargimento di sangue, fino alla morte inclusa, senza per questo incorrere in
censura o in irregolarità. Il 28 ottobre dispensò tutti i cardinali e
inquisitori del Santo Ufficio dall’irregolarità in cui incorrevano
infliggendo tortura reiterata. Lo stesso papa, il 5 novembre dell’anno
prima, aveva reso solenne e consacrato il rogo che sarebbe avvenuto la domenica
successiva concedendo l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che avrebbero
assistito allo spettacolo.
L’uso della tortura nell’Inquisizione fu introdotto da papa
Innocenzo IV il 15 maggio 1252, con la bolla Ad extirpanda, mentre
Innocenzo III, con la bolla del 25 marzo 1199 Vergentis in senium, aveva
modificato il reato d’eresia da religioso a crimine contro lo stato,
coinvolgendo così accanto alla Chiesa tutti gli stati.
Le rare volte che ci fu un tentativo di evangelizzazione senza
violenza, venne puntualmente stroncato dal papato. Charles Amiel nel suo
intervento L’inquisizione di Goa (capitale delle Indie portoghesi)
racconta l’esperienza missionaria di due famosi gesuiti italiani, Matteo Ricci
in Cina e Roberto De Nobili a Goa, nel 1605. De Nobili si stabilisce a
Madurai nel paese tamil ove esercita il suo apostolato per 40 anni, adottando
lo stile di vita degli eremiti brahmanici. Pratica l’ascesi e la maniera di
vita di questi eremiti, opta per i loro costumi, si orna la fronte di ceneri
simboliche, porta il cordone rituale e apprende il sanscrito, il tamil e il
telegu. Entrambi furono prigionieri dell’accomodatio, il metodo di
evangelizzazione che cercò di adattare la pratica cristiana agli usi e costumi
degli autoctoni. Una missione gesuita francese creata da Luigi XIV prolunga e
rivivifica nel Carnate nella prima metà del sec. XVIII l’operato di Roberto De
Nobili. Ma la bolla Omnium sollicitudinum di Benedetto XIV nel 1774
scaccia definitivamente i rischiosi accomodamenti che avevano alimentato la
querelle dei riti… e si tornò al metodo tradizionale della tabula rasa:
l’induismo era percepito come un’accozzaglia di superstizioni e di culti
demoniaci che non meritavano nemmeno il nome di religione.
Ventisette anni prima che a Goa sbarcasse Roberto De Nobili, il
25 novembre 1578 l’inquisitore del tribunale di Goa, Bartolomé de
Fonseca, scrive: «Mi hanno consegnato un tribunale pacifico, senza processi,
prigioni con pochi prigionieri (una sola nuova cristiana, che si rifiutava di
confessarsi, che non cedette in nulla e morì in quello stato); nel paese
segretamente infiltrata questa gentaccia di nuovi cristiani, tranquilli e a
riposo. Io ho reso il tribunale piegato sotto il peso dei processi, le prigioni
sono riempite al massimo di prigionieri: ce ne sono stati di più in questo solo
anno che nei tredici anni in cui lavoravano congiuntamente un arcivescovo e due
inquisitori. Il paese è pieno di fuoco e di cenere dei cadaveri degli eretici e
degli apostati, ed io vengo considerato più come uno sposo di sangue che come
uno sposo di pace, odiato da tutti quelli che tengono nascosti i loro interessi
con questa gentaccia, e sono numerosi.» In effetti, aggiunge il relatore
dell’articolo Charles Amiel, i roghi dal 1578 al 1579 sono i più micidiali del
XVI secolo per gli ebrei: 43 alla volta. Soprattutto per gli ebrei non c’era
scampo: si convertivano dappertutto ma, con la conversione, conservavano almeno
le proprietà. Ed erano queste a cui davano la caccia papi e re. E allora
bastava solo mettere in marcia la macchina infernale delle delazioni, arresti,
incarcerazioni, processi, torture, moniti, giudizi, roghi…
Ma c’era qualcosa di peggio dei roghi, i forni, l’orrore
apocalittico dell’inquisizione: los «quemaderos» di Siviglia. Erano così tanti
gli eretici condannati al rogo, che furono costretti a inventarsi qualcosa di
speciale che consumasse meno legna dei tradizionali autodafé: costruirono uno
accanto all’altro quattro enormi forni circolari sopra una piattaforma di
pietra ognuno dei quali poteva contenere fino a quaranta «dannati». Accendevano
un po’ di legna sotto la piattaforma, buttavano dentro le povere creature e le
cocevano a fuoco lento: occorrevano dalle 20 alle 30 ore per crepare.
Funzionarono ininterrottamente per oltre tre secoli. 300 anni. Vennero chiusi
da Napoleone Bonaparte nel 1808. Questo è riuscito a fare la Santa
Inquisizione, sublime spettacolo di perfezione sociale (come scrive
Adriano Prosperi citando un numero di La Civiltà Cattolica del 1853).
L’operazione di minimizzare l’operato dell’Inquisizione ha
toccato, naturalmente, anche il conflitto fede-ragione, fede-scienza: tra
1559 e 1707 il numero delle opere scientifiche proibite dall’Inquisizione di
Spagna per questa regione superò la somma di quelle proibite per ogni altra e
lo stesso è quasi certamente vero per l’Indice romano, per il quale uno studio
quantitativo non esiste ancora. Vale la pena ricordare che il cardinale
Bellarmino – il carnefice di Giordano Bruno e Galileo Galilei – non venne fatto
santo all’epoca dei fatti, nel ’600, bensì pochi anni fa, nel 1930: ovverosia,
nel 1930 la Santa Sede avallò tutto l’operato di Urbano VIII e dello spietato
inquisitore Bellarmino!
L’Inquisizione depredava anime, coscienze, proprietà.
Giustificava i genocidi. Il 90% degli indios del centro-sud America venne
sterminato con il permesso e la giustificazione degli inquisitori. I
conquistadores spagnoli e portoghesi depredavano le terre in nome del Bene, di
Cristo. Protestanti e Anglicani del nord Europa impararono il metodo e
anch’essi presero a colonizzare, depredare, sterminare popolazioni autoctone
come gli indiani del nord America e gli aborigeni dell’Australia.
Oggi, come allora, gli Stati Uniti continuano a depredare in
nome del bene, in nome di Dio, torturando i prigionieri per il solo piacere di
torturare, dopo aver ammazzato le loro famiglie, bombardato le loro città,
depredato le loro terre, le loro proprietà, i loro prodotti.
Questo è il metodo e l’insegnamento che l’Inquisizione ha
lasciato in eredità al mondo cristiano, a questo feroce e spietato Primo Mondo
che detiene il potere economico, politico e militare. L’embrione del
capitalismo era lì, nel fine e nel metodo dell’Inquisizione: appropriarsi di
tutto, terre, proprietà, boschi, mari, col pretesto di diffondere la civiltà,
usando qualsiasi metodo, spietati e indifferenti verso qualsiasi altra cultura,
altra religione, provocando insanabili disastri umani e ambientali.
Lo stato della Germania, senza perdere tempo a indire simposi
sul numero esatto degli ebrei massacrati nei campi di concentramento, ha eretto
al centro di Berlino un importante museo sulla storia e gli orrori del
nazismo, come monito al mondo intero e alle future generazioni tedesche.
La Santa Sede mistifica e minimizza il ruolo devastante
dell’Inquisizione, invece di stigmatizzare la portata culturale e politica di
quell’infernale sistema.
Aurelio Lepre
Nel 1486 Heinrich Institor von Kraemer e Jacob Sprengher, che il pontefice
Innocenzo VIII aveva nominato inquisitori per la Germania, pubblicarono a
Strasburgo un’opera intitolata Malleus maleficarum («Il martello delle
streghe»), che nei due secoli successivi fu edito numerose volte e costituì il
testo fondamentale al quale attinsero gli investigatori e i giudici per i
processi alle streghe. Nell’opera erano ricordate, tra molte altre cose, le
ragioni che rendevano il numero delle streghe molto più alto di quello degli
stregoni. All’origine c’era il fatto che la prima donna «era stata fatta con
una costola curva, cioè una costola del petto ritorta come se fosse contraria
all’uomo». Da ciò derivavano i difetti delle donne, che le rendevano facilmente
prede del demonio: la credulità; la maggiore sensibilità, che le faceva essere
molto virtuose o, al contrario, molto cattive; la malizia; la debolezza
d’intelletto e infine la carnalità. Era soprattutto quest’ultima a preoccupare
i due autori e quasi a ossessionarli. Nel Martello delle streghe c’è una
misoginia assoluta, che lo storico Gregory Zilboorg ha definito «tanto tipica
quanto spietata e incontrollabile» e che dà all’opera un posto di rilievo anche
nella storia delle donne. Essa rifletteva una convinzione diffusa negli
ambienti ecclesiastici: senza le donne il demonio avrebbe potuto portare a
termine solo una minima parte delle sue imprese. Gli effetti di questa
misoginia durarono a lungo.
Nel 1631 un gesuita, Friedrich von Spee, anche lui tedesco come
Sprengher e Kraemer, dopo averla fatta circolare manoscritta, pubblicò a
Rinteln sul Weser un’opera anonima, Cautio criminalis (il nome dell’autore
sarebbe apparso soltanto in un’edizione del 1731, quando la grande stagione
della caccia alle streghe era ormai finita). La Cautio criminalis è ora
ripubblicata dall’editore Salerno, con una bella prefazione di Anna Foa
(Friedrich von Spee, I processi alle streghe, Salerno Editrice, pagg. 377, euro
18), che in un altro recentissimo lavoro (Eretici. Storie di streghe, ebrei e
convertiti, Il Mulino, pagg. 145, euro 10,80) ha efficacemente ricostruito
alcune vicende romane di diavoli e di streghe, oltre che di ebrei (e non vi
mancano i riferimenti alla Cautio criminalis).
In quest’opera Spee osservava: «Ormai in Germania le prigioni
sono piene di detenute», denunciate per stregoneria e costrette con la tortura
a rivelare i nomi delle loro complici, in una tragica catena che non sembrava
dovesse mai interrompersi, a causa delle zelo degli inquisitori. Le detenute
erano considerate dai giudici «spergiure, simulatrici, subdole»: in nessun caso
bisognava prestare loro fede. Von Spee non nascondeva la sua indignazione:
«Forza, inquisitori, arrestate le denunciate, non c’è alcun dubbio che siano
colpevoli! Torturatele e seviziatele finché non confessino! Se non lo fanno,
bruciatele vive come ostinate! infatti, sono colpevoli: lo ha detto il demonio
e ha parlato sotto tortura!». L’autore della Cautio criminalis conosceva
benissimo la situazione, perché aveva confessato molte presunte streghe prima
che fossero avviate al supplizio. La caccia alle streghe aveva contaminato
perfino il sacramento della confessione: Spee denunciava duramente l’attività
di un altro confessore, che aveva accompagnato al rogo quasi duecento donne e
che si rifiutava di assolvere chi non si fosse riconosciuta colpevole,
confermando in confessione tutto ciò che avevano detto ai giudici sotto
tortura. Spee, ad ogni modo, che, nello spirito dei tempi, ammetteva l’uso
della tortura quando era necessaria e non può perciò essere ritenuto un
precursore degli illuministi, non si limitava alle denunce, che avrebbero avuto
un’efficacia relativa, ma offriva con la «cautio» ai difensori delle donne e ai
giudici più onesti un trattato giuridico, contrapposto a quelli di cui si
servivano gli inquisitori più duri.
Dal 1618 al 1648 infuriò in Germania la guerra dei Trent’anni,
devastando la società tedesca con battaglie, saccheggi e pestilenze, che
crearono un’atmosfera favorevole alla persecuzione delle streghe. Ma questa
continuò per tutto il secolo in altri luoghi e in altre situazioni. Il più
celebre processo alle streghe si sarebbe svolto nel
Mano a mano che le confessioni a Salem aumentavano, Cotton
Mather si convinse sempre più che «un esercito di Demoni aveva fatto
orribilmente irruzione» nella cittadina e fece il possibile per convincercene i
cinque giudici, tre dei quali erano suoi amici. All’origine di tutto c’era
l’attività dello Spirito del Male. Certo, erano altri tempi, ma erano poi così
lontani? A giudicare dai recenti episodi di satanismo, no. E sembra esserne
persuaso anche padre Gabriele Amorth, esorcista ufficiale della Chiesa, che,
proprio ricordando la critica spietata del modo di condurre i processi fatta
nel 1631 da Friedrich von Spee, ha tuttavia osservato, in polemica con quella
parte della Chiesa che non sembra credere all’influenza del diavolo: «La
reazione fu più radicale: si era giunti a demonizzare tutto, e ora, dal secolo
XVIII in poi, si negò ogni esistenza del demonio, che tutt’al più fu visto come
un pupazzo o come l’idea astratta del male. A questo brusco passaggio contribuì
la cultura laica, l’ateismo predicato alle masse, il razionalismo scientifico e
culturale» (Inchiesta sul demonio. Marco Tosatto incontra Gabriele Amorth, il
più autorevole esorcista d'Italia, Piemme, pagg. 219, euro 14,90). Secondo
padre Amorth, tutto sarebbe andato meglio, se alla tortura si fosse sostituito
l’esorcismo. Per le «streghe» certamente sì, ma non per chi crede nella forza
della ragione. E, a quanto sostiene Amorth, nemmeno per molti teologi. Ma la
Chiesa non sembra avere ancora raggiunto l’unanimità. Il recentissimo «mea
culpa» di Giovanni Paolo II sull’Inquisizione è accompagnato dalle sottili
distinzioni degli studiosi cattolici sulle condanne a morte comminate dai
tribunali ecclesiastici (che furono poche) e su quelle dei tribunali «dei
prìncipi». Ma le une e le altre avevano la stessa giustificazione: a essere
condannato, era in fondo, il Demonio. E questo è il punto fondamentale sul
quale ancora non viene fatta chiarezza.
La verità sull'Inquisizione spagnola
di Thomas F. Madden
Articolo in lingua originale comparso in Crisis, Vol. 21, n. 9 Ottobre 2003
La scena è una stanza disadorna con una porta alla sinistra. Un
giovane di bell'aspetto, infastidito da domande tediose ed irrilevanti esclama,
con tono frustrato, "non mi aspettavo una specie di Inquisizione
spagnola". Improvvisamente la porta si spalanca, rivelando il cardinale
Ximinez, affiancato dal cardinale Fang e dal cardinale Biggles. "Nessuno
si aspetta l'Inquisizione spagnola! - urla Ximinez - La nostra arma principale
è la sorpresa ... sorpresa e paura ... paura e sorpresa ... Le nostre due armi sono
paura e sorpresa ... ed efficienza spietata ... Le nostre tre armi sono paura,
sorpresa ed efficienza spietata ... ed una devozione quasi fanatica al papa ...
I nostri quattro ... no ... Fra le nostre armi ... nel nostro armamento ...
elementi come paura, sorpresa ... Farò un'altra entrata".
Chiunque non abbia vissuto sotto una pietra, negli scorsi 30
anni, probabilmente riconoscerà questa scena dal Flying Circus di Monty
Python. In questi sketch tre inetti inquisitori vestiti di rosso torturano le
loro vittime con strumenti come cuscini e imbottiture di poltrone. La cosa è
divertente perché il pubblico sa bene che l'Inquisizione spagnola non era né
inetta né morbida, ma spietata, intollerante e letale. Non c'è bisogno di avere
letto Il pozzo e il pendolo di Edgar Allan Poe, per avere qualche
nozione delle buie prigioni sotterranee, degli ecclesiastici sadici e delle
torture spietate dell'Inquisizione spagnola. Il cavalletto, la vergine di ferro
e i roghi ai quali la Chiesa cattolica condannò i suoi nemici sono tutte icone
dell'Inquisizione spagnola ormai familiari, saldamente impresse nella nostra
cultura.
Questa immagine dell'Inquisizione spagnola è utile per coloro
che non nutrono molto amore verso la Chiesa cattolica. Chiunque desideri
colpire la Chiesa non tarderà molto ad afferrare i due bastoni favoriti: le
Crociate e l'Inquisizione spagnola. Chi scrive ha già trattato le Crociate in
un numero precedente di Crisis (vedi "La vera storia delle crociate",
aprile 2002). Esaminiamo ora l'altro bastone.
Per capire l'Inquisizione spagnola, che ebbe inizio sul finire
del 15° secolo, dobbiamo dare una rapida occhiata alla sua antesignana,
l'Inquisizione medievale. Prima di farlo, tuttavia, è importante premettere che
il mondo medievale non era il mondo moderno. Per la gente del Medio Evo la
religione non era qualcosa da sbrigare solo in chiesa. Era la loro scienza, la
loro filosofia, la loro politica, la loro identità e la loro speranza di
salvezza. Non era una preferenza personale del singolo, ma una indiscutibile
verità universale. L'eresia, quindi, colpiva al cuore quella verità. Inoltre
dannava l'eretico, metteva in pericolo chi gli stava accanto e lacerava il
tessuto della comunità. Gli europei medievali non erano soli, sotto questo
profilo. Il loro atteggiamento era condiviso da tante culture, in tutto il
mondo. La moderna pratica della tolleranza religiosa è relativamente nuova e,
in ogni caso, solo occidentale.
Le autorità secolari ed ecclesiastiche dell'Europa medievale
affrontarono l'eresia in modi diversi. Il diritto romano equiparava l'eresia al
tradimento. Perché? Perché la sovranità era tale per delega divina, dimodoché
all'eresia era inerente una sfida all'autorità reale. Gli eretici dividevano il
popolo, fomentando agitazioni e disordini. Nessun cristiano dubitava del fatto
che Dio castigasse una comunità la quale permetteva all'eresia di radicarsi e
di crescere. Sia il re che il cittadino comune perciò avevano le loro buone
ragioni per cercare e distruggere gli eretici dovunque li avessero scovati. E
lo facevano con piacere.
Uno dei miti più durevoli dell'Inquisizione è il suo essere uno
strumento di oppressione imposto su europei maldisposti da una Chiesa
ambiziosa. Nulla potrebbe essere più sbagliato. In realtà l'Inquisizione portò
ordine e giustizia, impedendo le esecuzioni sommarie degli eretici. Quando gli
abitanti di un villaggio acciuffavano un sospettato d'eresia e lo portavano di
fronte al signore locale, come sarebbe stato possibile un giudizio? Come
avrebbe potuto un laico analfabeta definire le credenze dell'accusato eretiche
o no? E in che modo i testimoni sarebbero stati ascoltati e vagliati?
L'Inquisizione medievale data dal 1184, anno in cui Papa Lucio
III inviò un elenco di eresie ai vescovi dell'Europa e ordinò loro di assumere
un ruolo attivo nel determinare se gli accusati di eresia fossero
effettivamente colpevoli. Piuttosto che contare su corti secolari, signori
locali o addirittura rischiare linciaggi a furor di popolo, i vescovi erano
invitati a verificare le accuse di eresie nelle loro stesse diocesi, tramite
l'esame di ecclesiastici competenti che sapessero servirsi del diritto romano.
In altre parole, che sapessero condurre un'"inchiesta" (donde il
termine "inquisizione").
Dalla prospettiva dell'autorità secolare, gli eretici erano
traditori di Dio e del re e pertanto meritavano la morte. Dalla prospettiva
della Chiesa, invece, gli eretici erano pecorelle smarrite, allontanatesi dal
gregge. In quanto pastori, il papa e i vescovi avevano il dovere di ricondurre
quelle pecore all'ovile, così come il Buon Pastore aveva comandato loro.
Quindi, laddove i sovrani tentavano di salvaguardare i loro regni, la Chiesa
cercava di salvare anime. L'Inquisizione offrì agli eretici una scappatoia per
evitare la morte e far ritorno alla comunità.
La maggior parte degli accusati di eresia dall'Inquisizione
medievale o fu assolta o la loro sentenza sospesa. A quelli trovati colpevoli
di errori gravi fu permesso di confessare il loro peccato, fare penitenza ed
essere ripristinati nel Corpo di Cristo. L'assunto fondamentale
dell'Inquisizione era che, in quanto pecore smarrite, gli eretici avevano
semplicemente deviato. Tuttavia, se un inquirente avesse stabilito che una
determinata pecora si era volontariamente rivoltata contro il gregge, non ci
sarebbe stato più nulla da fare. Gli eretici impenitenti od ostinati furono
scomunicati e consegnati alle autorità secolari. Ad onta del mito popolare, la
Chiesa non bruciò alcun eretico. Era l'autorità secolare a considerare l'eresia
meritevole della pena capitale. Il fatto puro e semplice è che l'Inquisizione
medievale salvò innumerevoli migliaia di innocenti (ed anche di non esattamente
innocenti) che sarebbero altrimenti finiti arrostiti dai signori locali o
trucidati sommariamente dai popolani.
Col crescere del potere dei papi medievali crebbe l'estensione e
la sottigliezza dell'Inquisizione. L'introduzione dei francescani e dei
domenicani, agli albori del 13° secolo, fornì al papato un corpo religioso
dedicato, che votò le vite dei suoi componenti alla salvezza del mondo. Poiché
il loro ordine era stato creato espressamente per combattere gli eretici e
predicare la fede cattolica, i domenicani si fecero particolarmente attivi
nell'Inquisizione. In accordo alla legge più progressista del tempo la Chiesa,
nel 13° secolo, eresse tribunali inquisitivi dipendenti da Roma, piuttosto che
dai vescovi locali. Per garantire rispetto dei diritti ed uniformità di
trattamento, furono scritti manuali per gli inquisitori. Bernardo Gui, oggi
meglio conosciuto come il fanatico e crudele inquisitore de Il nome della
rosa, scrisse un manuale molto influente, all'epoca. Non c'è nessuna
ragione di credere che Gui fosse qualcosa di simile al suo ritratto romanzato.
Dal 14° secolo, l'Inquisizione poté vantare le migliori
competenze legali disponibili sulla piazza. Gli ufficiali dell'Inquisizione
erano laureati e specializzati in legge e teologia. Le procedure erano simili a
quelle usati nelle indagini secolari (noi le chiamiamo "inchieste"
oggi, ma - come si diceva - è la stessa parola).
Il potere dei re aumentò drasticamente nel tardo Medio Evo. I
sovrani sostennero con forza l'Inquisizione, perché la reputavano un modo
efficiente di conservare la salute religiosa dei loro regni. Addirittura alcuni
re biasimarono l'Inquisizione, per la sua eccessiva clemenza nei confronti
degli eretici. Come in altre aree di pertinenza ecclesiastica, le autorità secolari
del tardo Medio Evo presero ad appropriarsi dell'Inquisizione, sottraendola al
controllo papale. In Francia, per esempio, furono ufficiali reali, assistiti da
studiosi legali dell'Università di Parigi, a farsi carico dell'Inquisizione
francese. I re giustificavano questo atteggiamento col dire che la loro
conoscenza degli eretici, nei loro stessi regni, era migliore di quella di un
papa lontano.
Queste dinamiche potrebbero aiutare ad inquadrare l'Inquisizione
spagnola, ma ce ne sono ben altre. La Spagna differiva sotto molti aspetti dal
resto dell'Europa. Conquistata dalla guerra santa (il jihad) musulmana
nell'ottavo secolo, la penisola iberica era stata un continuo teatro di guerra.
Poiché i confini tra musulmani e cristiani si spostavano rapidamente nel corso
dei secoli, era preciso interesse legislativo applicare un equo livello di
tolleranza verso altre religioni. La capacità di vivere insieme di musulmani,
cristiani ed ebrei (detta "convivencia" in spagnolo) era una rarità,
nel Medio Evo. Effettivamente, la Spagna era il luogo più eterogeneo e
tollerante di tutta l'Europa medievale. L'Inghilterra espulse tutti i suoi
ebrei nel 1290. La Francia fece altrettanto nel 1306. Invece in Spagna gli
ebrei prosperavano ad ogni livello sociale.
Ma forse era inevitabile che le ondate di antisemitismo che
spazzarono l'Europa medievale travolgessero anche la Spagna. L'invidia,
l'avidità e la fraudolenza condussero a tensioni crescenti tra cristiani ed
ebrei, nel 14° secolo. Durante l'estate del 1391 nutriti gruppi di facinorosi
irruppero nei quartieri ebrei di Barcellona e di altre città simili,
costringendo gli abitanti a scegliere tra il battesimo o la morte. La maggior
parte accettò il battesimo. Il re d'Aragona, che aveva fatto del suo meglio per
fermare queste incursioni, consapevole della non validità di un battesimo
forzato, decretò che ogni ebreo battezzato in alternativa alla morte avrebbe
potuto tornare alla propria religione.
Ma molti di questi neoconvertiti ("conversos")
decisero di rimanere cattolici. C'erano molte ragioni per questo. Alcuni
pensavano che l'apostasia li avesse resi inidonei al giudaismo. Altri si
preoccupavano dell'evenienza per cui il ritorno alla loro religione precedente
li avrebbe resi vulnerabili ad aggressioni future. Altri ancora ritennero il
loro battesimo un modo per evitare l'aumento di restrizioni e di tasse imposto
agli ebrei. Col passar del tempo i conversos si assestarono nella nuova
religione, finendo col diventare giusti e pii come gli altri cattolici. I loro
bambini venivano battezzati al momento della nascita e crescevano come
cattolici. Ma l'ambiente culturale restò ibrido. Sebbene cristiani, numerosi
conversos ancora parlavano, vestivano e mangiavano come gli ebrei. Molti
rimasero nei quartieri ebrei per poter essere vicini agli altri membri della
famiglia. In definitiva, la presenza dei conversos sortì l'effetto di
cristianizzare il giudaismo spagnolo. Ciò, a sua volta, accrebbe il numero
delle conversioni volontarie al cattolicesimo.
Nel 1414 si ebbe un dibattito, nella città di Tortosa, tra
autorità cristiane ed ebree. Lo stesso papa Benedetto XIII intervenne. Da parte
cristiana c'era il medico papale, Jerónimo de Santa Fe, convertitosi
recentemente dal giudaismo. Il dibattito provocò un'ondata di nuove conversioni
volontarie. Nella sola Aragona 3.000 ebrei ricevettero il battesimo. Tutto ciò
causò non poca tensione tra coloro che rimasero ebrei e quelli che si fecero
cattolici. I rabbini spagnoli che, dopo il 1391, consideravano i conversos
ebrei a tutti gli effetti, in quanto costretti al battesimo, dal 1414 li
ritennero autentici cristiani, che avevano lasciato volontariamente il
giudaismo.
Dalla metà del 15° secolo, una cultura giudaico-cristiana
interamente nuova fiorì in Spagna, ebrea di sangue, ma cattolica di spirito. I
conversos, neoconvertiti o discendenti di convertiti che fossero, ebbero un
peso enorme in questa cultura. Alcuni di loro si consideravano addirittura
migliori dei "vecchi cristiani", perché legati da vincoli di sangue a
Cristo stesso. Il vescovo, convertito, di Burgos, Alonso de Cartagena, pregando
la Beata Vergine, avrebbe detto con orgoglio "Santa Maria, Madre di Dio e
parente mia, prega per noi peccatori".
Lo sviluppo in ricchezza e potenza dei conversos spagnoli
condusse a più d'una frizione, particolarmente fra i vecchi cristiani
aristocratici e borghesi, che ebbero a risentirsi dell'arroganza dei conversos,
invidiandone i successi. Cominciarono a circolare scritti che mostravano come
ogni nobile lignaggio in Spagna fosse ormai inficiato dalla presenza dei
conversos. La psicosi della cospirazione semitica dilagava. I conversos, si
diceva, facevano parte di una trama ebrea elaborata per infiltrarsi tra la
nobiltà spagnola e la Chiesa cattolica, distruggendole entrambe. I conversos,
secondo questa logica, non erano cristiani veri, ma ebrei camuffati.
Studi recenti hanno definitivamente mostrato che, come tante
ipotesi di cospirazione, tutto ciò era pura immaginazione. La stragrande
maggioranza dei conversos era composta da buoni cattolici, semplicemente
orgogliosi della loro eredità ebrea. Sorprendentemente molti scrittori moderni
- molti scrittori ebrei, per la verità - hanno abbracciato queste fantasie
antisemitiche. È abbastanza comune, oggi, sentir dire che i conversos erano
davvero ebrei, in segreto, che lottavano per preservare la loro fede sotto la
tirannia del cattolicesimo. Anche l'American Heritage Dictionary traduce
"converso" con "ebreo spagnolo o portoghese convertitosi
esteriormente al cristianesimo, nel tardo Medio Evo, per evitare la
persecuzione o l'espulsione, pur continuando a praticare il giudaismo in
segreto". Questo è semplicemente falso.
Ma il ripetersi delle accuse convinse re Ferdinando e la regina
Isabella della necessità di investigare, quanto meno, sulla questione degli ebrei
segreti. Rispondendo alla loro richiesta, papa Sisto IV emanò una bolla, il 1°
novembre del 1478, che autorizzava la Corona a formare un tribunale inquisitivo
consistente in due o tre ecclesiastici, la cui età non fosse inferiore ai 40
anni. Come era costume, i monarchi avrebbero avuto piena autorità e sugli
inquisitori e sull'Inquisizione. Ferdinando, che aveva a corte molti ebrei e
conversos, inizialmente non fu per nulla entusiasta della cosa. Lasciò
trascorrere due anni, prima di nominare due inquisitori. E così cominciò
l'Inquisizione spagnola.
Re Ferdinando sembra aver creduto che l'Inquisizione non avrebbe
funzionato granché. Aveva torto. Come una bottiglia molotov lanciata su un
pagliaio, il risentimento di coloro che odiavano i conversos - cristiani ed
ebrei insieme - divampò nelle lingue di fuoco della denuncia lungo tutta la
Spagna. Ma l'istigazione all'odio proveniva, essenzialmente, dall'invidia e
dall'opportunismo. Ciò nonostante, il volume puro e semplice delle accuse
sommerse gli inquirenti, che chiesero e ricevettero più assistenti. Ma, più
grande si faceva l'Inquisizione, più accuse riceveva. Alla fine anche
Ferdinando si convinse che il problema degli ebrei segreti era concreto.
In questa fase iniziale dell'Inquisizione spagnola, gli ebrei ed
i vecchi cristiani usavano i tribunali come un'arma, contro i conversos loro
nemici. Finché l'obiettivo dell'Inquisizione era investigare sui conversos, i
vecchi cristiani non avevano niente da temere. La loro fedeltà alla fede
cattolica non era sotto indagine (anche se fosse stata lontana dall'esser
pura). Come gli ebrei, erano immuni dall'Inquisizione. Si ricordi che lo scopo
dell'Inquisizione era trovare e correggere la pecora smarrita del gregge di
Cristo. Non aveva giurisdizione sugli altri greggi. Quelli che imparano la
storia dalla Storia del Mondo di Mel Brooks, Parte 1a, saranno
forse sorpresi di sapere che tutti quegli ebrei che sopportarono varie torture
nelle prigioni sotterranee dell'Inquisizione spagnola non sono nulla più di un
prodotto della fertile fantasia di Brooks. Gli ebrei di Spagna non avevano
nulla da temere dall'Inquisizione spagnola.
All'inizio, nel veloce sovrapporsi degli eventi, c'era gran
confusione. Si verificarono abusi. Molti dei conversos accusati vennero
assolti, ma non tutti. Qualche rogo ben pubblicizzato - per lo più dovuto a
false testimonianze - spaventò comprensibilmente i conversos. Chi temeva
qualche inimicizia abbandonava la sua città prima di poter essere denunciato.
Dovunque guardassero, gli inquisitori trovavano accusatori. Quando
l'Inquisizione esplose in Aragona, il livello di isteria toccò altezze
inusitate. Papa Sisto IV tentò di porre un freno. Il 18 aprile 1482 scrisse ai
vescovi della Spagna:
In Aragona, Valenza, Maiorca e Catalogna, l'Inquisizione è stata
talvolta mossa non da zelo per la fede e per la salvezza delle anime, ma da
avidità di ricchezza. Molti veri e fedeli cristiani, sulla base della
testimonianza di nemici, rivali, schiavi ed altri individui d'infima
condizione, sono stati, senza alcuna prova legittima, gettati in prigione,
torturati e condannati come eretici recidivi, privati dei loro beni e delle
loro proprietà e consegnati al braccio secolare per essere giustiziati,
mettendo a repentaglio le anime, offrendo un esempio pernicioso e generando
disgusto in molti.
Sisto ordinò che i vescovi assumessero un ruolo diretto in tutti
i tribunali futuri, a garanzia che le norme di giustizia stabilite dalla Chiesa
(l'accusato poteva disporre di un avvocato ed aveva diritto di appellarsi a
Roma) venissero rispettate.
Nel Medio Evo i comandi del papa sarebbero stati rispettati. Ma
quei giorni se n'erano andati. Re Ferdinando si sentì oltraggiato, nel sentir
parlare della lettera. Scrisse a Sisto, insinuando che l'oro dei conversos
avesse corrotto anche Roma:
Mi sono state riferite cose, Santo Padre, che, se vere,
sembrerebbe meritare il più grande stupore. [...]. A queste dicerie, comunque, noi non abbiamo dato
credito, sembrando cose che in nessun modo possano provenire da Sua Santità,
che ha il dovere dell'Inquisizione. Ma se, per caso, alcune concessioni sono
state fatte, grazie alla tenace ed astuta persuasione dei conversos, io non
intendo in alcun modo permetter loro di avere effetto. Faccia perciò attenzione
a che la questione non proceda oltre, revochi eventuali concessioni e ci affidi
interamente la cura di questo problema.
Fu la fine del ruolo del Papato nell'Inquisizione spagnola, che
sarebbe stata d'ora innanzi un braccio della monarchia spagnola, indipendente
dall'autorità ecclesiastica. È strano, quindi, che l'Inquisizione spagnola
venga oggi così spesso descritta come uno dei grandi peccati della Chiesa
cattolica. La Chiesa cattolica, in quanto istituzione, non ebbe pressoché
niente a che farci.
Nel 1483 Ferdinando nominò Tomás de Torquemada inquisitore
generale sulla maggior parte della Spagna. Era compito di Torquemada stabilire
le regole dell'evidenza, nella procedura per l'Inquisizione, unificando la
prassi con diramazioni nelle città principali. Sisto confermò la nomina,
sperando che avrebbe riportato all'ordine la situazione.
Sfortunatamente il problema precipitò. Il che era una
conseguenza diretta dei metodi adottati dalla prima Inquisizione spagnola, che
aveva deviato significativamente dagli standard imposti dalla Chiesa. Quando gli
inquisitori arrivavano in una zona, annunciavano l'Editto di Grazia, un periodo
di 30 giorni durante il quale gli ebrei segreti potevano farsi avanti,
confessare il loro peccato e fare penitenza. Era anche un periodo utile per
acquisire informazioni sui cristiani che praticavano il giudaismo in segreto.
Quelli trovati colpevoli, allo scadere dei 30 giorni, potevano essere bruciati
sul rogo.
Per i conversos, sicché, l'arrivo dell'Inquisizione segnò un
tracollo psichico. Quasi tutti avevano molti nemici, ciascuno dei quali
difficilmente avrebbe esitato a testimoniare il falso. O forse le loro pratiche
cultuali e culturali erano sufficienti per la condanna? Chissà? La maggior
parte di loro o fuggì o finì per confessare. Quelli che lo fecero non
rischiarono un'Inquisizione in cui era accettabile, a mo' di prova, ogni sorta
di diceria.
L'opposizione all'Inquisizione spagnola, nella gerarchia della
Chiesa cattolica, continuava ad aumentare. Molti ecclesiastici si indignarono
nel segnalare come fosse contrario a tutte le prassi ormai consolidate il
bruciare un eretico senza fornirgli le istruzioni basilari della fede. Se i
conversos erano colpevoli, ciò era dovuto solo ad ignoranza, non ad eresia
recidiva. Numerosi esponenti del clero, anche dei livelli più alti, si
lamentarono con Ferdinando. L'opposizione all'Inquisizione spagnola crebbe
anche a Roma. Il successore di Sisto, Innocenzo VIII, scrisse due volte al re
per invocare la più grande compassione, misericordia e clemenza per i
conversos. Invano.
Nel vortice crescente dell'Inquisizione spagnola, a questo
punto, prese piede una nuova sindrome, quella per cui gli ebrei di Spagna
stavano attivamente operando per ricondurre i conversos nella loro vecchia fede.
Era un'idea sciocca, non più vera delle precedenti teorie di cospirazione. Ma
Ferdinando ed Isabella ne furono influenzati. Entrambi i monarchi avevano amici
e confidenti ebrei, ma pensarono loro dovere, nei confronti dei cristiani,
rimuovere il pericolo. A partire dal 1482, espulsero gli ebrei dalle aree in
cui la loro influenza sembrava maggiore. Nella decade successiva la pressione
per rimuovere tale minaccia aumentò ancora. L'Inquisizione spagnola, fu
argomentato, non sarebbe mai riuscita a ricondurre i conversos nell'ovile,
mentre gli ebrei sabotavano il suo lavoro. Il 31 marzo 1492, finalmente, i
monarchi pubblicarono un editto che espelleva tutti gli ebrei dalla Spagna.
Ferdinando ed Isabella si aspettavano - e non avevano torto -
che il loro editto avrebbe spinto alla conversione la maggior parte degli ebrei
rimasti nel regno. Infatti molti ebrei dei ceti più abbienti, inclusi quelli
introdotti nella corte reale, accettarono immediatamente il battesimo. Nel 1492
la popolazione ebrea di Spagna contava approssimativamente 80.000 unità. Una
buona metà fu battezzata, col che mantenne la proprietà ed il relativo
sostentamento. Il resto partì, sebbene molti facessero poi ritorno in Spagna,
dove ricevettero il battesimo e riottennero la loro proprietà. Per quanto si
voglia risalire lungo la storia dell'Inquisizione spagnola, l'espulsione degli
ebrei dimostra che il problema era rappresentato solo dai conversos.
I primi 15 anni dell'Inquisizione spagnola, sotto la direzione
di Torquemada, furono i più mortali. Circa 2.000 conversos furono dati alle
fiamme. Dal 1500, tuttavia, l'isterismo prese a calare. Il successore di
Torquemada, il cardinale arcivescovo di Toledo Francisco Jiménez de Cisneros,
si prodigò per riformare l'Inquisizione, rimuovendo le mele marce e aggiustando
le procedure. Ad ogni tribunale fu assegnata una équipe formata da due
inquisitori domenicani, un consulente legale, un conestabile, un accusatore ed
un gran numero di assistenti. Con l'eccezione dei due domenicani, tutti erano
laici ufficiali reali. L'Inquisizione spagnola consistette fondamentalmente
nelle confische, ma si trattò di confische né frequenti né ingenti. Anche al
suo culmine, cercava soprattutto di non strafare, di quadrare i conti.
Dopo le riforme, l'Inquisizione spagnola subì pochissime
critiche. Fornita di personale legale esperto e colto, era uno dei corpi
giudiziari più efficienti e più compassionevoli d'Europa. Nessuna corte europea
di rilievo giustiziò meno persone dell'Inquisizione spagnola. Erano tempi, dopo
tutto, in cui danneggiare arbusti in un giardino pubblico, a Londra, comportava
la pena di morte. Lungo tutta l'Europa le esecuzioni erano eventi di ogni
giorno. Non fu così con l'Inquisizione spagnola. Nei suoi 350 anni di vita non
più di 4.000 persone furono messe al palo. Si paragoni ciò con le cacce alle
streghe che infuriarono in tutto il resto d'Europa cattolico e protestante,
nelle quali furono arrostite 60.000 persone, per lo più donne. La Spagna fu
risparmiata da questo isterismo perché l'Inquisizione spagnola lo fermò al
confine. Quando le prime accuse di stregoneria cominciarono a levarsi, nella
Spagna settentrionale, l'Inquisizione spedì i suoi ispettori per controllare.
Questi esperti legali non trovarono alcuna evidenza credibile per il sabba
infernale, la magia nera o il sacrificio umano. Fu altresì riportato che i rei
confessi di stregoneria mostravano una singolare incapacità di volare
attraverso il buco della serratura. Mentre gli europei si dedicavano al lancio
delle donne sui falò, l'Inquisizione spagnola sbarrò la porta a questa
alienazione mentale (per inciso, neppure l'Inquisizione romana permise alla
fobìa delle streghe di infettare l'Italia).
E le oscure prigioni sotterranee? E le camere di tortura?
L'Inquisizione spagnola possedeva prigioni, naturalmente. Ma non erano né
particolarmente oscure, né sotterranee. In realtà, dato lo standard delle
prigioni dell'epoca, erano considerate addirittura le migliori d'Europa. Si può
citare l'esempio dei criminali, nella stessa Spagna, che bestemmiavano a bella
posta per poter essere trasferiti nelle prigioni dell'Inquisizione. Circa
l'altro argomento, come tutte le corti d'Europa, anche l'Inquisizione spagnola
si servì della tortura. Ma lo faceva molto meno spesso delle altre corti. I
ricercatori moderni hanno scoperto che l'Inquisizione spagnola applicò la
tortura nel solo due per cento dei suoi casi. Che ogni sessione di tortura fu
limitata ad un massimo di 15 minuti. Che solo nell'un per cento dei casi la
tortura fu ripetuta due volte e mai per una terza volta.
La conclusione inequivocabile è che, visti i tempi,
l'Inquisizione spagnola va vista sotto una nuova luce. E tale era la luce sotto
cui era vista dai più degli europei, fino al 1530. Fu da allora in poi che
l'Inquisizione spagnola volse la sua attenzione dai conversos alla nuova
Riforma protestante. La gente di Spagna e i suoi monarchi si impegnarono a che
il Protestantesimo non si infiltrasse nel loro paese, come aveva fatto in
Germania e in Francia. I metodi dell'Inquisizione non cambiarono. Esecuzioni e
torture rimasero rare. Ma il suo nuovo obiettivo avrebbe cambiato la sua
immagine per sempre.
Nella metà del secolo sedicesimo, la Spagna era il più ricco e
il più potente stato d'Europa. Re Filippo II considerò se stesso ed i suoi
contadini difensori fedeli della Chiesa cattolica. Meno ricche e meno potenti
erano le aree protestanti dell'Europa, compresi i Paesi Bassi, la Germania
settentrionale e l'Inghilterra. Ma avevano un'arma nuova e potente: la pressa
tipografica. Anche se i protestanti fossero stati sconfitti dagli spagnoli sul
campo di battaglia, avrebbero vinto la guerra di propaganda. Furono quelli gli
anni in cui venne forgiata la famosa "Leggenda Nera" della Spagna.
Innumerevoli libri, opuscoli e pamphlet si riversarono dalle stamperie
settentrionali accusando l'Impero spagnolo di inumane depravazioni e di
orribili atrocità nel Mondo Nuovo. L'opulenta Spagna fu dipinta come un luogo
di oscurità, ignoranza e perversione. Per quanto gli studiosi moderni abbiano
già da tempo ripudiato la Leggenda Nera, ancora ne rimane moltissimo, oggi.
Basta fare un rapido test: "pensa ad un buon conquistador".
La propaganda protestante contro l'Inquisizione spagnola ha
attinto a piene mani dalla Leggenda Nera. Ma disponeva anche di altre fonti.
All'inizio della Riforma, i protestanti avevano non poche difficoltà nello
spiegare i motivi della frattura tra l'istituzione di Cristo della Sua Chiesa e
la fondazione delle chiese protestanti. I cattolici naturalmente insistevano su
questo tasto, accusando i protestanti di avere creato una chiesa nuova,
separata da quella di Cristo. I protestanti ribattevano col dire che era la
loro chiesa quella creata da Cristo, e che era stata la Chiesa cattolica a
costringerla nei sotterranei delle 'catacombe'. Dimodoché, come l'Impero romano
aveva perseguitato i cristiani prima del Medio Evo, così il suo successore, la
Chiesa Cattolica Romana, continuava a perseguitarli durante il Medio Evo. Non
essendo purtroppo reperibili esemplari di protestanti, nel Medio Evo, gli
autori protestanti li scovarono sotto le mentite spoglie di vari eretici
medievali (che, tutto sommato, vivevano nelle 'catacombe' della latitanza).
Vista così, l'Inquisizione medievale non era che un tentativo di schiacciare la
nascosta, vera chiesa. E l'Inquisizione spagnola, ancora attiva ed estremamente
efficiente nel tenere i protestanti alla larga dalla Spagna, non era che
l'ultima versione di questa persecuzione. Si mescoli il tutto, a volontà, con
la Leggenda Nera, e si ottiene ciò di cui si ha bisogno per confezionare
l'orrendo ritratto dell'Inquisizione spagnola. È quanto fu fatto.
Gli spagnoli amavano la loro Inquisizione. Ecco perché durò così
a lungo. Era una sentinella eretta a guardia contro l'errore e l'eresia, a
tutela della fede della Spagna e a garanzia del favore di Dio. Ma il mondo
stava cambiando. Il potere della Spagna si affievoliva. La ricchezza ed il
potere si trasferivano nel nord, in particolare in Francia e in Inghilterra.
Nel tardo 17° secolo, le idee nuove sulla tolleranza religiosa cominciavano a
lievitare nelle bolle iridescenti dei caffè e dei salotti europei.
L'Inquisizione, cattolica e protestante, appassiva. Gli spagnoli caparbiamente
insistevano, con la loro, e perciò venivano ridicolizzati. I philosophes
francesi alla Voltaire vedevano nella Spagna il prototipo del Medio Evo:
debole, barbaro, superstizioso. L'Inquisizione spagnola, ormai catalogata come
una belva assetata del sangue della persecuzione religiosa, era derisa dai
pensatori illuministi come arma brutale dell'intolleranza e dell'ignoranza.
Un'Inquisizione spagnola inedita, fittizia, virtuale, fu quella romanzata dai
nemici della Spagna e della Chiesa cattolica.
Essendo professionale ed efficiente, l'Inquisizione spagnola
stilava resoconti molto ben curati. Archivi enormi ne sono stipati. Questi
documenti erano tenuti segreti, sicché non c'era motivo, per gli scrivani, di
omettere qualcosa, nella registrazione accurata di ogni azione inquisitoria.
Rappresentano una miniera d'oro, per gli storici moderni, che vi si sono immersi
avidamente. Il frutto di tali ricerche è l'aver fatto piazza pulita: il mito
dell'Inquisizione spagnola non ha assolutamente nulla a che vedere con la
realtà.
Thomas F. Madden è professore associato e preside della cattedra
di Storia della Saint Louis University. È autore di numerosi lavori, tra i
quali "Storia concisa delle Crociate" (Rowman & Littlefield,
1999) e "Enrico Dandolo e l'ascesa di Venezia" (John Hopkins
University Press, 2003).
Copyright Crisis Magazine © 2001 Washington DC, USA 1 ottobre
2003
I sistemi
di tortura della Chiesa
(da www.eretico.com)
"Io voglio scrivere su tutti i muri ovunque siano muri
[...] Io chiamo il cristianesimo unica grande maledizione, unica grande intima
perversione, unico grande istinto di vendetta [...] Io lo chiamo unico
imperituro marchio d'abbominio dell'umanità...".
FONTE: F.W. Nietzsche, L'Anticristo, TEN, 2a ediz., 1992,
pag. 92-93.
Ecco alcuni strumenti e sistemi di tortura che la Chiesa ha utilizzato per
commettere i suoi efferati "crimini contro l'umanità" durante la
Santa Inquisizione. Crimini rimasti impuniti!
Il Topo
Tortura applicata a streghe ed eretici. Un topo vivo veniva inserito nella
vagina o nell'ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e
spesso, l'apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via
d'uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati. Chissà come
i disgraziati riuscissero a sopportare il terrore provocato alla sola vista del
topo che da li a poco sarebbe entrato nel suo corpo.
Dissanguamento
Era una credenza comune che il potere di una strega potesse essere annullato
dal dissanguamento o dalla purificazione tramite fuoco del suo sangue. Le
streghe condannate erano "segnate sopra il soffio" (sfregiate sopra
il naso e la bocca) e lasciate a dissanguare fino alla morte.
Il Rogo
Una delle forme più antiche di punizione delle streghe era la morte per mezzo
di roghi, un destino riservato anche agli eretici. Il rogo spesso era una
grande manifestazione pubblica. L'esecuzione avveniva solitamente dopo breve
tempo dall'emissione della sentenza. In Scozia, il rogo di una strega era
preceduto da giorni di digiuno e di solenni prediche. La strega prima veniva
strangolata e poi il suo corpo (In stato di semi-incoscienza) era scaricato in
un barile di catrame prima di venire legato a un palo e messo a fuoco. Se la
strega, nonostante tutto, riusciva a liberarsi e a tirarsi fuori dalle fiamme,
la gente la respingeva dentro.
Le Turcas
Questo mezzo era usato per lacerare e strappare le unghie. Dopo lo strappo,
degli aghi venivano solitamente inseriti nelle estremità delle falangi.
La Fanciulla di Ferro o Vergine di Norimberga
L'idea di meccanizzare la tortura è nata in Germania; è li che ha avuto origine
"la Vergine di Norimberga". Fu così battezzata perchè, vista
dall'esterno, le sue sembianze erano quelle di una ragazza bavarese, e inoltre
perchè il suo prototipo venne costruito ed impiantato nei sotterranei del
tribunale segreto di quella città. Era una specie di contenitore di metallo con
porte pieghevoli; il condannato veniva rinchiuso all'interno, dove
affilatissimi aculei trafiggevano il corpo dello sventurato in tutta la sua
lunghezza. La disposizione di questi ultimi era così ben congegnata che, pur
penetrando in varie parti del corpo, non trafiggevano organi vitali, quindi la
vittima era destinata ad una lunga ed atroce agonia.
Pulizia Dell'Anima
Era spesso creduto, nei paesi cattolici, che l'anima di una strega o di un
eretico fosse corrotta, sporca e covo di quanto di contrario ci fosse al mondo.
Per pulirla prima del giudizio, qualche volta le vittime erano forzate a
ingerire acqua calda, carbone, perfino sapone. La famosa frase "sciacquare
la bocca con il sapone"' che si usa oggi, risale proprio a questa tortura.
Il Triangolo
Altro terribile strumento di tortura analogo alla "pera" e
all'"impalamento". L'accusato veniva spogliato e issato su un palo
alla cui estremità era fissato un grosso oggetto piramidale di ferro. La
presunta strega veniva fatta sedere in modo che la punta entrasse nel retto o
nella vagina. Alla fine alla poveretta venivano fissati dei pesi alle mani e ai
piedi...
Immersione Dello Sgabello
Questa era una punizione che più spesso era usata nei confronti delle donne.
Volgarmente sgradevole, e spesso fatale, la donna veniva legata a un sedile che
impediva ogni movimento delle braccia. Questo sedile veniva poi immerso in uno
stagno o in un luogo paludoso. Varie donne anziane che subirono questa tortura
morirono per lo shock provocato dall'acqua gelida.
Impalamento
Questo strumento, riservato per lo più ai sospetti di stregoneria o agli
eretici, era realizzato in tre diverse versioni. La prima consisteva in un
blocco di legno a forma di piramide, mentre la seconda, meno letale, aveva
l'aspetto di un cavalletto a costa tagliente.
In ambedue i casi, l'indiziata veniva posta a cavalcioni di tale strumento sino
a far penetrare la punta, nel primo caso, o lo spigolo nel secondo,
direttamente nelle carni, squassando in modo spesso permanente, gli organi
genitali. Quasi sempre poi venivano aggiunti dei pesi alle caviglie e sistemati
scrupolosamente dei braceri o delle fiaccole accese sotto ai piedi. La terza
versione è una delle più rivoltanti e vergognose torture concepite dalla mente
umana. Veniva attuata per mezzo di un palo aguzzo inserito nel retto della
presunta strega, forzato a passare lungo il corpo per fuoriuscire dalla testa o
dalla gola. Il palo era poi invertito e piantato nel terreno, così, queste
miserabili vittime, quando non avevano la fortuna di morire subito, soffrivano
per alcuni giorni prima di spirare. Tutto ciò veniva fatto ed esposto
pubblicamente.
La Strappata
Una delle più comuni e anche una delle tecniche più facili. L'accusato veniva
legato a una fune e issato su una sorta di carrucola. L'esecutore faceva il
resto tirando e lasciando di colpo la corda e slogando, così, le articolazioni.
Lo Squassamento
Era una forma di tortura usata insieme alla 'strappata'. L'accusato qui veniva
sempre issato sulla carrucola, ma con dei pesi legati al suo corpo che andavano
dai 25 ai 250 chili. Le conseguenze erano gravissime.
La Culla Della Strega
Questa era una tortura a cui venivano sottoposte solamente le streghe. La
strega veniva chiusa in un sacco poi legato a un ramo e veniva fatta continuamente
oscillare. Apparentemente non sembra una tortura ma il dondolìo causava
profondo disorientamento e aiutava a indurre a confessare. Vari soggetti hanno
anche sofferto durante questa tortura di profonde allucinazioni. Ciò
sicuramente ha contribuito a colorire le loro confessioni.
Mastectomia
Alcune torture erano elaborate non solo per infliggere dolore fisico ma anche
per sconvolgere la mente delle vittime. La mastectomia era una di queste: la
carne delle donne era lacerata per mezzo di tenaglie, a volte arroventate. Uno
dei più famosi casi che si conosca in cui fu usata questa tortura era quello di
Anna Pappenheimer. Dopo essere già stata torturata con lo strappado, fu
spogliata, i suoi seni furono strappati e, davanti ai suoi occhi, furono spinti
a forza nelle bocche dei suoi figli adulti... Questa vergogna era più di una
tortura fisica; l'esecuzione faceva una parodia sul ruolo di madre e nutrice
della donna, imponendole un'estrema umiliazione.
Annodamento
Questa era una tortura specifica per le donne. Si attorcigliavano strettamente
i capelli delle streghe a un bastone. Quando l'inquisitore non riusciva ad
ottenere una testimonianza si serviva di questa tortura; robusti uomini
ruotavano l'attrezzo in modo veloce provocando un enorme dolore e in alcuni
casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto.
La Garrotta
Non è altro che un palo con un anello in ferro collegato. Alla vittima, seduta
o in piedi, veniva fissato questo collare che veniva stretto poi per mezzo di
viti o di una fune. Spesso si rompevano le ossa della colonna vertebrale.
Il Forno
Questa barbara sentenza era eseguita in Nord Europa e assomiglia ai forni
crematori dei nazisti. La differenza era che nei campi di concentramento le
vittime erano uccise prima di essere cremate (Ma non sempre).
Il Supplizio Del Trono
Questo attrezzo consisteva in una specie di seggiola gogna, sarcasticamente
definita "trono". L'imputata veniva posta in posizione capovolta, con
i piedi bloccati nei ceppi di legno. Era questa una delle torture preferite da
quei giudici che intendevano attenersi alla legge. Difatti la legislazione che
regolamentava l'uso della tortura, prevedeva che si potesse effettuare una sola
seduta, durante l'interrogatorio della sospetta. Malgrado ciò, la maggioranza
degli inquisitori ovviava a questa normativa, definendo le successive
applicazioni di tortura, come semplici continuazioni della prima. L'uso di
questo strumento invece, permetteva di dichiarare una sola effettiva seduta,
sorvolando sul fatto che questa fosse magari durata dieci giorni. Il
"trono", non lasciando segni permanenti sul corpo della vittima, si
prestava particolarmente ad un uso prolungato. E' da notare che, talvolta,
unicamente a questo supplizio, venivano effettuate, sulla presunta strega,
anche le torture dell'acqua o dei ferri roventi.
La Pressa
Anche conosciuta come pena forte et dura, era una sentenza di morte. Adottata
come misura giudiziaria durante il quattordicesimo secolo, raggiunse il suo
apice durante il regno di Enrico IV. In Bretagna venne abolita nel 1772.
La Cremagliera
Era un modo semplice e popolare per estorcere confessioni. La vittima veniva
legata su una tavola, caviglie e polsi. Rulli erano passati sopra la tavola (E
in modo preciso sul corpo) fino a slogare tutte le articolazioni.
La Pera
La Pera era un terribile strumento che veniva impiegato il più delle volte per
via orale. La pera era usata anche nel retto e nella vagina. Questo strumento
era aperto con un giro di vite da un minimo, a un massimo dei suoi segmenti.
L'interno della cavità in questione era orrendamente mutilato e spesso
mortalmente. I rebbi costruiti alla fine dei segmenti servivano meglio per
strappare e lacerare la gola o gli intestini. Quando applicato alla vagina i
chiodi dilaniavano la cervice della povera donna. Questa era una pena riservata
a quelle donne che intrattenevano rapporti sessuali col Maligno o i suoi
familiari.
Sedia Delle Streghe
La sedia inquisitoria, comunemente detta sedia delle streghe, era un rimedio
molto apprezzato per l'ostinato silenzio di talune indiziate di stregoneria.
Tale attrezzo, pur universalmente diffuso, fu particolarmente sfruttato dagli
inquisitori austriaci. La sedia era di varie dimensioni, diverse forge e
fantasiose varianti; tutte comunque chiodate, fornite di manette o blocchi per
immobilizzare la vittima ed, in svariati casi, aveva il pianale di seduta in
ferro, così da poterlo arroventare. Vengono riportate notizie di processi dai
quale risulta come l'uso di questo strumento potesse venir prolungato, sino a
trasformarsi in vera e propria pena capitale.
La Ruota
In Francia e Germania la ruota era popolare come pena capitale. Era simile alla
crocifissione. Alle presunte streghe ed eretici venivano spezzati gli arti e il
corpo veniva sistemato tra i raggi della ruota che veniva poi fissata su un
palo. L'agonia era lunghissima e poteva anche durare dei giorni.
Tormentum Insominae
Consisteva nel privare le streghe del sonno. La vittima, legata, era costretta
a immersioni nei fossati anche durante tutta la notte per evitare che si
addormentasse.
Ordalia Del Fuoco
Prima di iniziare l'ordalìa del fuoco tutte le persone coinvolte dovevano
prendere parte a un rito religioso. Questo rito durava tre giorni e gli
accusati dovevano sopportare benedizioni, esorcismi, preghiere, digiuni e
dovevano prendere i sacramenti. Dopodiché si veniva sottoposti all'ordalìa: gli
accusati dovevano trasportare un pezzo di ferro rovente per una certa distanza.
Il peso di questo peso era variabile: si andava da un minimo di circa mezzo
chilo per reati minori, fino a un chilo e mezzo. Un altro tipo di ordalìa del
fuoco consisteva nel camminare bendati e nudi sopra i carboni ardenti. Le ferite
venivano coperte e dopo tre giorni una giuria controllava se l'accusato era
colpevole o innocente. Se le ferite non erano rimarginate l'accusato era
colpevole, altrimenti era considerato innocente. Si poteva aver salva la vita,
però, corrompendo i clerici che dovevano officiare la prova: si poteva fare in
modo che ferro e carboni avessero una temperatura sufficientemente tollerabile.
Ordalia Dell'Acqua
In questo tipo di ordalìa l'acqua simboleggia il diluvio dell'Antico
Testamento. Come il diluvio spazzò via i peccati anche l'acqua 'pulirà' la
strega. Dopo tre giorni di penitenze l'accusata doveva immergere le mani in
acqua bollente, alla profondità dei polsi. Spesso erano costrette a immergerle
fino ai gomiti. Si aspettava poi tre giorni per valutare le colpe dell'accusata
(Come per l'ordalìa del fuoco). Veniva messa in pratica anche un'ordalìa
dell'acqua fredda. Alla strega venivano legate le mani con i piedi con una
fune, in modo tale che la posizione non fosse certo propizia per rimanere a
galla. Dopodiché veniva immersa in acqua; se galleggiava era sicuramente una
strega in quanto l'acqua 'rifiutava' una creatura demoniaca, se andava a fondo
era innocente ma difficilmente sarebbe stata salvata in tempo.
L'Inquisizione, dichiarata Santa da Santa Romana Chiesa come lo
sono state le Crociate, anche se nei fatti esisteva già dagli inizi dell'anno
1000, fu ufficialmente riconosciuta e legittimata sotto Papa Gregorio IX nel
1215 allorché la sua gestione fu affidata all'ordine dei domenicani fondato da
Domenico da Guzman (anche lui santo) il quale perseguitò gli eretici con un
cinismo tale da essere ricordato dalla storia come uno dei più sanguinari
carnefici di tutti i tempi.
Qualche cenno esplicativo:
Eretico era considerato chi con scritti o con parole si opponeva
alle norme dettate dalla Chiesa.
Abiura: L'abiura era la ritrattazione delle proprie convinzioni, quasi sempre
estorta sotto tortura, che un eretico scriveva in forma solenne davanti al
consiglio dell'inquisizione. Le abiure a cui era sottoposto un eretico erano
sempre due perché alla prima ne doveva seguire per legge una seconda di
conferma. Normalmente il tempo che intercorreva tra le due era di un anno.
L'eretico che rifiutava di firmare la seconda abiura, considerato "relapso",
cioè eretico irriducibile, veniva bruciato vivo.
Gli argomenti che maggiormente determinarono le eresie furono la Santissima
Trinità, la verginità della Madonna e la sua attribuzione di madre di Gesù che
fu fortemente contestata da quei credenti che seguitavano a sostenere ciò che
era stato affermato nei primi secoli della Chiesa da una gran parte dei teologi
i quali ritenevano impossibile che Dio avesse concesso un tale privilegio ad
una donna allorché le donne venivano considerate così immonde da essere
ritenute prive di anima.
L'altro motivo che determinò gli eretici furono le contestazioni rivolte alla
Chiesa per la sua lussuria e la sua ingordigia.
Tra le innumerevoli vittime della Chiesa nel periodo precedente
all'avvento dell'Inquisizione istituita da Innocenzo III, rimaste purtroppo
nella maggior parte anonime per via di mancanza di documenti, giganteggia la
figura di Arnaldo da Brescia bruciato vivo nel 1155 sotto il pontificato di
Adriano IV per aver denunciato l'immoralità della Chiesa.
I papi che seguirono Adriano IV (1154-1159), promettendo ai
persecutori degli eretici le stesse indulgenze riservate ai crociati, spinsero
i cattolici ad eseguire delle vere e proprie stragi come quelle volute da
Innocenzo III che si servì delle milizie di Simone de Monfort per distruggere
città intere, come Carcassonne, Tolosa e Beziers, perché gli abitanti si erano
rifiutati di consegnare i seguaci di Valdo (Valdesi). Soltanto a Beziers furono
massacrati oltre 7.000 dei suoi abitanti. Le milizie cattoliche entrarono in
queste città e senza curarsi di selezionare gli eretici dai non eretici,
eseguirono le carneficine al grido: <<Uccideteli tutti perché Dio
saprà poi riconoscere i suoi!>>.
Da ricordare che Innocenzo III nell'ultimo anno del suo pontificato fece votare
dal Concilio Lateranense IV una legge che obbligava gli ebrei a vestire di
giallo perché fossero sottoposti al pubblico ludibrio... e ci si chiede ancora
da dove originino i campi di stermino nazisti!
Sotto il Papa Innocenzo IV, successore di Innocenzo III, le leggi inquisitorie
furono confermate e aggravate. Chiunque fosse stato dichiarato eretico veniva
automaticamente imprigionato e condannato a morte con la confisca dei beni se
non avesse abiurato. Come conseguenza di questa legge, che considerava la
confisca del beni, molti furono i figli che furono potati all'infamia di
accusare i propri genitori di eresia pur di salvare le proprietà di cui erano
eredi.
Delle centinaia di processi terminanti con condanne a morte, l'unico che ci è
pervenuto è quello contro Paolo Gioacchino dei Rusconi che fu torturato e
bruciato vivo quale relapso.
I nomi dei martiri riportati qui di seguito nei vari pontificati
che si susseguirono, essendo tratti dai pochi documenti rimasti, non sono che
una minima parte di quanti furono in realtà uccisi da Santa Madre Chiesa.
Nell'elenco ci sono anche tre martiri uccisi per aver celebrato la messa da
spretati (si trovano sottolineati
nei pontificati di Paolo VI - Urbano VIII - Clemente XIII).
— Papa Clemente V
Fra Dolcino, per nulla intimorito dalle minacce
dell'Inquisizione, si scaglia contro Clemente V accusandolo di immoralità.
Ridotto a brandelli il suo corpo viene bruciato al rogo. 13 marzo 1307
Suor Margherita e Frate Longino insieme ad oltre mille seguaci dell'eretico
Dolcino, bruciati al rogo. 1307.
Soppressione dei Templari con stragi di massa con "torture
inimmaginabili" perché accusati di eresia. Molay, Gran Maestro, fu arso
vivo a Parigi dopo anni di atroci torture.
— Papa Benedetto XII (beatificato)
Francesco da Pistoia, Lorenzo Gherardi, Bartolomeo Greco,
Bartolomeo da Bucciano, Antonio Bevilacqua e altri dieci frati Francescani,
arsi vivi per predicare la povertà di Cristo - Venezia 1337.
Stessa sorte a Parma per Donna Oliva anch'essa perché seguace di S. Francesco.
— Papa Clemente VI
Migliaia di vittime dell'inquisizione delle quali ci sono
pervenuti soltanto i processi di:
Francesco Stabili, detto Cecco d'Ascoli, il quale fu arso vivo per aver detto,
a proposito delle tentazione di Gesù, che non è possibile vedere tutta la terra
da una montagna per quanto alta fosse stata come veniva affermato da vangelo.
Pietro d'Albano, medico, bruciato vivo perché accusato di
stregoneria.
Domenico Savi condannato al rogo come eretico per aver eretto un ospedale senza
la benedizione della Chiesa.
— Innocenzo VI
Tra le numerose vittime di Santa Madre Chiesa da ricordare i
frati Pietro da Novara, Bernardo da Sicilia, Fra Tommaso vescovo d'Aquino e
Francesco Marchesino vescovo di Trivento accusati di appartenere ai fraticelli
di S.Francesco. Torturati e bruciati vivi.
— Gregorio XI
Intere città furono teatro di stragi perché avevano ospitato gli
eretici. Nelle piazze di Firenze, Venezia, Roma e Ferrara fu un continuo
accendersi di roghi.
Belramo Agosti, umile calzolaio, torturato e bruciato vivo per aver bestemmiato
durane una partita a carte: 5 giugno 1382.
Menelao Santori perché conviveva con due donne: 10 ottobre 1387.
Lorenzo di Bologna costretto sotto tortura a confessare di aver rubato una
pisside. Reso moribondo dalle torture, fu accompagnato al rogo a colpi frusta.
1 novembre 1388.
La descrizione dei moltissimi decapitati, impiccati e squartati
dall'Inquisizione sotto Gregorio XI è riportata in un libri scritto da Mastro
Titta.
— Gregorio XII
Dopo il periodo di tregua passato sotto Urbano VI, con Gregorio
XII riprendono le stragi e i roghi in una maniera estremamente spietata. La
città che fu particolarmente colpita fu Pisa. Un certo giovane di nome Andreani
fu torturato e bruciato vivo insieme alla moglie e alla figlia perché aveva
osato deridere i Padri Conciliari. I cardinali appartenenti al concilio
assistettero in massa alle esecuzioni per il piacere di veder morire insieme
alla sua famiglia colui che essi "avevano condannato per solo
sentimento di vendetta". 1413.
Jean Hus e Gerolamo da Praga macellati e bruciati vivi per aver detto che la
morale del vangelo proibisce ai religiosi di possedere beni materiali. 1414.
— Papa Eugenio IV
Giovanna d'Arco, bruciata viva accusata di stregoneria (1431).
Merenda e Matteo, due popolani, bruciati vivi dall'Inquisizione per rendere un
favore alle famiglie dei Colonna e dei Savelli delle quali avevano parlato
male.
Ripetute stragi in Boemia contro gli Hussidi (seguaci di Jean
Hus), per le rimostranze fatte in seguito alla uccisione del loro maestro. Una
delle stragi fu eseguita facendo entrare gli Ussidi in un fienile al quale
dettero fuoco dopo aver chiuso le porte. Il fatto fu così commentato da uno
scrittore cattolico: <<Appena entrati, si chiusero le porte e si appiccò
il fuoco; e in tal modo quella feccia, quel rifiuto della razza umana, dopo
aver commesso tanti delitti, pagò finalmente tra le fiamme la pena del suo
disprezzo per la religione>>.
Ma il peggio verrà allorché la Chiesa dovrà difendersi
dall'avvento del Rinascimento.
— Papa Sisto IV(Per conoscere l'immoralità di questi papi
consultare: Le Léman Hérétique , scritto in inglese, francese, italiano).
In Spagna eccelse per la sua crudeltà il domenicano Tommaso
Torquemada il quale, confiscando i beni degli accusati di eresia e di
stregoneria, era arrivato ad accumulare tante ricchezze da essere temuto dallo
stesso Papa che lo obbligò a versargli la metà del bottino. Quando costui
arrivava in un paese come inquisitore, la popolazione fuggiva in massa
lasciando tutto nelle sue mani.
Nell'impossibilità di elencare tutte le vittime di Torquemada mi limiterò a
dire che in
18 anni della sua inquisizione ci furono:
800.000 ebrei allontanati dalla Spagna, con confisca dei beni, sotto pena di
morte se fossero restati.
10.200 bruciati vivi.
6.860 cadaveri riesumati per essere bruciati al rogo in seguito a processi
(terminati tutti con la confisca dei beni) celebrati "post mortem"
(dopo la morte).
97.000 condannati alla prigione perpetua con confisca delle proprietà.
E intanto che Torquemada faceva il macellaio in Spagna, a Roma l'inquisizione
accendeva roghi in tutte le sue piazze per bruciare gli eretici i cui patrimoni
venivano automaticamente requisiti per conto del Papa dalla confraternita di
San Giovanni Decollato.
— Papa Alessandro VI
Gerolamo Savanarola bruciato vivo in Piazza della Signoria a
Firenze. 23 maggio 1498 insieme ai suoi due suoi discepoli Domenico da Pescia e
Sivestro da Firenze.
Tre ebrei arsi vivi in campo dei Fiori a Roma. 13 gennaio 1498
Gentile Cimeli, accusata di stregoneria arsa viva a campo dei Fiori 14 luglio
1498
Marcello da Fiorentino arso vivo in piazza S. Pietro. 29 luglio 1498.
— Giulio II
4 donne giustiziate per stregoneria a Cavalese (Trento). 1505.
Diego Portoghese impiccato per eresia. 14 ottobre 1606.
30 persone bruciate vive a Logrono (Spagna) per stregoneria.
Fra Agostino Grimaldi giustiziato per eresia. 6 agosto. 1507
15 cittadini romani massacrati dalle guardie svizzere per eresia.1513.
Orazio e Giacomo di Riffredo, giustiziati per eresia. 30 aprile 1513.
— Leone X (Il Papa che ha dichiarato la non esistenza di Cristo)
30 donne accusate di stregoneria arse vive a Bormio. 1514.
Martino Jacopo giustiziato per eresia a Vercelli. 18 febbraio 1517.
80 donne bruciate vive in Valcamonica per stregoneria. 1518.
5 eretici arsi vivi a Brescia. 13 aprile 1519.
Baglione Paolo da Perugia decapitato per eresia alla Traspontina. 4 giugno
1520.
Fra Camillo Lomaccio, Fra Giulio Carino, Leonardo Cesalpini strangolati in
carcere per eresia.
8 luglio 1520.
— Clemente VII
Anna Furabach, giustiziata per eresia. 9 maggio 1524.
Migliaia di protestanti Anabattisti decapitati, arsi vivi, annegati e torturati
a morte. 1525.
Una donna accusata di stregoneria arsa viva in Campidoglio. 30 settembre 1525
Claudio Artoidi e Lerenza di Pietro giustiziati per eresia. 16 maggio 1526.
Rinaldo di Colonia giustiziato per eresia. 26 agosto 1528.
Lorenzo di Gabriele da Parma e Tiberio di Giannantonio torturati e giustiziati
per eresia. 9 sett. 1528.
Berrnardino da Palestrina Burciato vivo per eresia. 20 novembre 1529.
Giovanni Milanese bruciato vivo per eresia. 23 novembre 1530.
— Paolo III (Un altro Papa ateo che ha affermato la non
esistenza di Cristo. Gli altri lo sanno come lui ma non li dicono).
Uccisi tutti gli abitanti della città di Mérindol (Francia) per
aver abbracciato la fede dei protestanti Evangelici. I loro beni furono
confiscati e la città rimase deserta e inabitabile.1540.
Tutti gli Anabattisti della città di Munster (Germania) furono massacrati.
Giovanni di Leida, loro capo, fu ucciso dopo essere stato sottoposto "a
orrendo supplizio". 4 aprile 1535.
Martino Govinin giustiziato nelle carceri di Grenoble. 26 aprile 1536.
Francesco di Giovanni di Capocena ucciso per eresia. 1538.
Ene di Ambrogio giustiziato per eresia. 1539.
Galateo di Girolamo giustiziato nelle carceri dell'Inquisizione per eresia. 17
gennaio 1541.
Giandomenico dell'Aquila. Eretico, bruciato vivo. 4 febbraio 1542.
Federico d'Abbruzzo ucciso per eresia. Il suo corpo fu portato al supplizio
trascinato da un cavallo. Quello che rimase del suo corpo fu appeso alla forca.
12 luglio 1542.
2.740 Valdesi furono massacrati dai cattolici in Provenza (Francia). Aprile
1545.
Girolamo Francese impiccato perchè luterano. 27 settembre 1546.
Baldassarre Altieri, dell'Ambasciat inglese, fatto sparire nelle carceri
dell'Inquisizione. 1548
Federico Consalvo, eretico, giustiziato. 25 maggio 1549.
Annibale di Lattanzio giustiziato per eresia. 25 maggio 1549.
— Giulio III
Fanino Faenza impiccato e briciato per eresia. 18 febbraio 1550.
Domenico della Casa Bianca, luterano. Decapitato. 20 febbraio 1550.
Geronimo Geril Francese, Impiccato per eresiae poi squartato. 20 marzo 1550.
Giovanni Buzio e Giovanni Teodori, impiccati e bruciati per eresia. 4 settembre
1553.
Francesco Gamba, decapitato e briciato vivo per eresia. 21 lugio 1554.
Giovanni Moglio e Tisserando da Perugia, luterani. Impiccati e bruciati vivi. 5
settembre 1554.
— Paolo IV
Istituzione del Ghetto a Roma con restrizioni contro gli ebrei
ancor più severe del ghetto di Venezia.
Cola Francesco di Salerno, giustiziato per eresia. 14 giugno 1555
Bartolomeo Hector, bruciato vivo per aver venduto due Bibbie. 20 giugno 1555.
Golla Elia e Paolo Rappi, protestanti, bruciati vivi a Torino. 22 giugno 1555.
Vernon Giovanni e Labori Antonio, evangelisti, bruciati vivi. 28 agosto 1555.
Stefano di Girolamo, giustiziato per eresia. 11 gennaio 1556.
Giulio Napolitano, bruciato vivo per eresia. 6 marzo 1556.
Ambrogio de Cavoli, impiccato e bruciato per eresia. 15 giugno 1556.
Don Pompeo dei Monti, bruciato vivo per eresia. 4 luglio 1556.
Pomponio Angerio, bruciato vivo per eresia. 19 agosto 1556.
Nicola Sartonio, luterano, bruciato vivo. 13 maggio 1557.
Jeronimo da Bergamo, Alessandra Fiorentina e Madonna Caterina, impiccati e
bruciati per
omosessualità. 22 dicembre 1557.
Fra Gioffredo Varaglia, francescano, bruciato vivo per eresia. 25 marzo 1558.
Gisberto di Milanuccio, eretico, bruciato vivo. 15 giugno 1558.
Francesco Cartone, eretico, bruciato vivo. 3 agosto 1558.
14 protestanti bruciati vivi a Siviglia in Spagna. 1559.
15 protestanti bruciati vivi a Valadolid in Spagna. 1559.
Gabriello di Thomaien, bruciato vivo per omosessualità. 8 febbraio 1559.
Antonio di Colella arso vivo per eresia. 8 febbraio 1559.
Leonardo da Meola e Giovanni Antonio del Bò, impiccati e bruciati per eresia. 8
febbr.1559.
13 eretici più un tedesco di Augsburg accusato di omosessualità arsi vivi. 17
febbraio 1559.
Antonio Gesualdi, luterano, giustiziato per eresia. 16 marzo 1559.
Ferrante Bisantino, eretico, arso vivo.24 agosto 1559.
Scipione Retio, eretico, uccico nelle carceri della Santa Inquisizione. 1559.
— Papa Pio IV
I monaci dell'Abazia di Perosa (Pinerolo) si divertirono a
briciare vivi a fuoco lento un prete evangelico insieme ai suoi fedeli.
Dicembre 1559.
Carneficina di Valdesi in Calabria per opera di bande di delinquenti assoldate
da Santa Madre Chiesa (uomini, donne, vecchi e bambini atrocemente torturati
prime di essere uccisi su diretto ordine del Papa). Dicembre 1559.
"A Santo-Xisto, alla Guardia, a Montalto e a Sant'Agata si fecero cose
inaudite: gente sgozzata, squartata, bruciata e orrendamente mutilata. Pezzi di
resti umani furono appesi alle porte delle case come esempio alle genti. Quelli
che fuggirono sulle montagne furono assediati fino a che morirono di fame.
Molte donne e fanciulli furono ridotti in schiavitù". I559. (Da "La
Santa Inquisizione di Maurizio Marchetti. Ed. La Fiaccola).
4000 valdesi massacrati su ordine di Santa Madre Chiesa. 1560.
Giulio Ghirlanda, Baudo Lupettino, Marcello Spinola, Nicola Bucello, Antonio
Rietto, Francesco Sega, condannati a morte perchè sorpresi a svolgere una
funzione religiosa in una casa privata officiante la messa uno spretato. 1560.
Giacomo Bonello, bruciato vivo perché evangelista. 18 febbraio 1560.
Mermetto Savoiardo, eretico, arso vivo. 13 agosto 1560.
Dionigi di Cola, eretico, bruciato vivo. 13 agosto 1560.
Aloisio Pascale, evangelista, impiccato e bruciato. 8 settembre 1560.
Gian Pascali di Cuneo, bruciato vivo per eresia. 15 settembre 1560.
Stefano Negrone, eretico, lasciato morire di fame nelle prigioni della Santa
Inquisizione.
15 settembre 1560.
Stefano Morello, eretico, impiccato e bruciato. 25 settembre 1560.
Bernardino Conte, bruciato vivo per eresia. 1560.
300 persone a Oppenau, 63 donne a Wiesensteig e
Macario, vescovo di Macedonia, eretico, bruciato vivo. 10 giugno 1562.
Cornelio di Olanda, eretico, impiccato e bruciato. 23 g3nnaio 1563.
Franceso Cipriotto, inpiccato ebruciato per eresia. 4 settembre 1564.
Giulio Cesare Vanini, panteista, bruciato vivo dopo avergli strappato la
lingua.
Giulio di Grifone, eretico, giustiziato.
— Pio V(elevato dalla Chiesa agli onori degli altari).
Con bolla papale viene imposta a Roma la chiusura di tutte le
sinagoghe.
Muzio della Torella, eretico, giustiziato. 1 marzo 1566.
Giulio Napolitano, eretico, bruciato vivo. 6 marzo 1566.
Don Pompeo dei Monti, decapitato per eresia. 3 luglio 1566.
Curzio di Cave, francescano, decapitato per eresia. 9 lugio 1566.
17.000 (diciassettemila) protestanti massacrati nelle Fiandre da cattolici
spagnoli.
Giorgio Olivetto arso vivo perché luterano. 27 gennaio 1567.
Domenico Zocchi, ebreo, impiccato e bruciato a Piazza Giudia nel Ghetto di
Roma. 1 febbraio 1567.
Girolamo Landi, impiccato e bruciato per eresia.. 25 febbraio 1567.
Pietro Carnesecchi, impiccato e bruciato per eresia. 30 settembre 1567.
Giulio Maresco, decapitato e arso per eresia. 30 settembre 1567.
Paolo e Matteo murato vivo per eresia. 30 sett.1567.
Ottaviano Fioravanti, murato vivo per eresia. 30 sett. 1567. .
Giovannino Guastavillani, eretico, murato vivo. 30 settembre 1567.
Geronimo del Puzo, murato vivo per eresia. 30 settembre 1567.
Gerolamo Donato con altri suoi confratelli dell'Ordine degli Umiliati, vengono
giustiziati su ordine di Carlo Borromeo (santo), vescovo di Milano, dopo lunghe
ore di torture, per eresia. 2 agosto 1570.
Macario Giulio da Cetona, decapitato e bruciato per eresia. 1 ottobre 1567.
Lorenzo da Mugnano, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1668.
Matteo d'Ippolito, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1568.
Francesco Stanga, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1568.
Donato Matteo Minoli, lasciato morire nelle carceri dopo avergli rotto le ossa
e bruciato i piedi. 27 maggio 1568.
Francesco Castellani, eretico, impiccato. 6 dicembre 1568.
Pietro Gelosi, eretico, impiccato e bruciato. 6 dicembre 1568
Marcantonio Verotti, eretico, impiccato e bruciato. 6 dicembre 1568.
Luca di Faenza, eretico, bruciato vivo. 28 febbraio 1568.
Borghesi Filippo, decapitato e bruciato per eresia. 2 maggio 1569.
Giovanni dei Blasi, impiccato e bruciato per eresia. 2 maggio 1569.
Camillo Ragnolo, impiccato e bruciato per eresia. 25 maggio 1569.
Fra Cellario Francesco, impiccato e bruciato per eresia. 25 maggio 1569.
Bartolomeo Bartoccio, bruciato vivo per eresia. 25 maggio 1569.
Guido Zanetti, murato vivo per eresia. 27 maggio 1569.
Filippo Porroni, eretico luterano, impiccato. 11 febbraio 1570.
Gian Matteo di Giulianello, giustiziato per eresia. 25 febbraio 1570.
Nicolò Franco, impiccato per aver deriso il papa con degli scritti. Impiccato.
11 marzo 1570.
Giovanni di Pietro, eretico, impiccato e bruciato. 13 maggio 1570.
Aolio Paliero, eretico, impiccato e bruciato su espreso desiderio di Papa Pio V
(santo).3 luglio1570.
Fra Arnaldo di Santo Zeno, eretico, bruciato vivo. 4 novembre 1570.
Don Girolamo di Pesaro, Giovanni Antonio di Jesi e Pitro Paolo di Maranzano,
giustiziati per eresia. 6 ottobre 1571.
Francesco Galatieri, pugnalato a morte dai sicari pontifi perché eretico. 5
gennaio 1572.
Madonna Dianora di Montpelier, eretica, impiccata e bruciata. 9 febbraio 1572.
Madonna Pellegrina di Valenza, eretica impiccata e bruciata. 9 febbraio 1972.
Madonna Girolama Guanziana, eretica impiccata e bruciata. 9 febbraio 1572
Madonna Isabella di Montpelier, eretica impiccatae bruciata. 9 febbraio 1572.
Domenico della Xenia, eretico impiccato e bruciato. 9 febbraio 1572.
Teofilo Penarelli, eretico impiccato e bruciato. 22 febbraio 1572.
Alessandro di Giulio, eretico impiccato e bruciato.
— Gregorio XIII
Alessandro di Giulio, impiccato e bruciato per eresia. 15 marzo
1572.
Giovanni di Giovan Battista, impiccato e bruciato perchè eretico. 15 marzo
1572.
Girolamo Pellegrino, impiccato e bruciato per eresia. 19 luglio 1572.
10.000 (diecimila) eretici massacrati in Francia per ordine del Papa (strage
degli Ugonotti- Notte di S. Bartolomeo). 24 agosto 1572.
500 eretici massacrati in Croazia per ordine del vescovo cattolico Juraj
Draskovic. 1573.
Nicolò Colonici eretico impiccato e bruciato.
Giovanni Francesco Ghisleri, strangolato nelle carceri dell'Inquisizione. 25
ottobre del 1574.
Alessandro di Giacomo, arso vivo. 19 novembre 1574.
Benedetto Thomaria, eretico bruciato vivo. 12 Maggio 1574.
Don Antonio Nolfo, eretico giustiziato. 29 luglio 1578.
Giovanni Battista di Tigoni, eretico giustiziato. 29 lugio 1578.
Baldassarre di Nicolò, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Antonio Valies de la Malta, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Francesco di Giovanni Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Bernardino di Alfar, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Alfonso di Poglis, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Marco di Giovanni Pinto, eretico impiccato e bruciato.13 agosto 1578.
Girolamo di Giovanni da Toledo, eretico impiccato e bruciato 13 agosto 1578.
Gasparre di Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Fra Clemente Sapone, eretico impiccato e bruciato. 29 novembre 1578.
Pompeo Loiani, eretico impiccato e briciato. 12 giugno 1579.
Cosimo Tranconi, eretico impiccato e bruciato. 12 giugno 1579.
222 (duecentoventidue) ebrei bruciati al rogo per ordine della Santa
Inquisizione. 1558.
Salomone, ebreo impiccato per aver rifiutato il battesimo. 13 marzo 1580.
Un inglese bruciato vivo per aver offeso un prete. 2 agosto 1581.
Diego Lopez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Domenico Danzarelli, impiccato e bruciato per eresia. 18 febbraio 1583.
Prospero di Barberia, eretico impiccato e bruciato. 18 febbraio 1583.
Gabriello Henriquez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Borro d'Arezzo, bruciato vivo per eresia. 7 febbraio 1583.
Ludovico Moro, eretico arso vivo. 10 lugio 1583.
Fra Camillo Lomaccio, Fra Giulio Carino, Leonardo di Andrea strangolati nel
carcere di Tor Nona per eresia. 23 luglio 1583.
Lorenzo Perna, arrestato per ordine del cardinale Savelli per eresia, si ignora
la sua fine. 16 giugno
1584.
<<La Signora di Bellegard>>, arrestata per eresia, si ignora la sua
fine. ottobre 1584.
Giacomo Paleologo, decapitato e bruciato. 22 marzo 1585.
I fratelli Missori decapitati per aver espresso il diritto alla libertà di
stampa. Le loro teste furono lasciate in esposizione al pubblico. 22 marzo
1585.
(Il corpo di Gregorio XIII, di questo carnefice, viene onorato e riverito dai
cattolici nella sua monumentale tomba in S.Pietro a Roma).
— Papa Sisto V
Questo Papa fece impiccare uno spagnolo per aver ucciso con una
bastonata un soldato svizzero che lo aveva ferito con l'alabarda.
Respinta la richiesta di sostituire la forca con la mannaia, Sisto V assisteva
gioiosamente alle esecuzioni facendosi portare da mangiare perchè "questi
atti di giustizia gli accrescevano l'appetito". Dopo l'esecuzione di una
sentenza disse: << Dio sia benedetto per il grande appetito con cui ho
mangiato>>.
Pietro Benato, arso vivo per eresia. 26 aprile 85.
Pomponio Rustici, Gasparre Ravelli, Antonio Nantrò, Fra Giovanni Bellinelli,
impiccati e
bruciati vivi per eresia. 5 agosto 1587.
Vittorio, conte di Saluzzo, giustiziato per eresia. 9 dicembre 1589.
Valerio Marliano, eretico impiccato e bruciato. 16 febbraio 1590.
Don Domenico Bravo, decapitato per eresia. 30 marzo 1590.
Fra Lorenzo dell'Aglio, impiccato e bruciato.13 aprile 1590.
— Gregorio XIV
Fra Andrea Forzati, Fra Flaminio Fabrizi, Fra Francesco
Serafini, impiccati e bruciati.
6 febbraio 1591.
Giovanni Battista Corobinacci, Giovanni Antonio de Manno Rosario, Alexandro
d'Arcangelo, Fulvio Luparino, Francesco de Alexandro, giustiziati. Giugno 1590.
Giovanni Angelo Fullo, Giò Carlo di Luna, Decio Panella, Domenico Brailo,
Antonio Costa, Fra Giovanni Battista Grosso, l'Abate Volpino, insieme ad altri
seguaci di Fra Girolamo da Milano, arrestati dalla Santa Inquisizione, si
ignora la loro fine... 1590.
( Totto questo in un solo anno di Santo Pontificato!).
— Clemente VIII
Giordano Bruno, bruciato vivo per eresia il 17 febbraio 1600.
Quattro donne e un vecchio bruciate vive per eresia. 16 febbraio 1600.
Francesco Gambonelli, eretico arso vivo. 17 febbraio 1594.
Marcantonio Valena e un altro luterano, arsi vivi. agosto 1594.
Graziani Agostini, eretico impiccato e bruciato. 1596.
Prestini Menandro, eretico impiccato ebruciato. 1596.
Achille della Regina, se ne ignora la fine. Giugno 1597.
Cesare di Giuliano, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Damiano di Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Baldo di Francesco, impiccato e bruciato per eresia. 1957.
De Magistri Giovanni Angelo, eretico impiccato e bruciato.1597.
Don Ottavio Scipione, eretico, decapitato e bruciato.1597.
Giovanni Antonio da Verona e Fra Celestino, eretici bruciati vivi. 16 settembre
1599.
Fra Cierrente Mancini e Don Galeazzo Porta decapitati per eresia. 9 novembre
1599.
Maurizio Rinaldi, eretico bruciato vivo. 23 febbraio 1600.
Francesco Moreno, eretico impiccato e bruciato. 9 giugno 1600.
Nunzio Servandio, ebreo impiccato. 25 giugno 1600.
Bartolomeo Coppino, luterano arso vivo. 7 aprile 1601.
Tommaso Caraffa e Onorio Costanzo eretici decapitati e bruciati. 10 maggio
1601.
— Papa Paolo V
Giovanni Pietro di Tunisi, impiccato e bruciato. 1607.
Giuseppe Teodoro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Felice d'Ottavio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Rossi Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Antonio di Jacopo, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fortunato Aniello, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Vincenti Pietro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Umberto Marcantonio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fra Manfredi Fulgenzio, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Lucarelli Battista, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Emilio di Valerio, ebreo, impiccato e bruciato. 1610.
Don Domenico di Giovanni, per essere passato dal cristianesimo all'ebraismo,
impiccato. 1611.
Giovanni Milo, luterano impiccato. marzo 1611.
Giovanni Mancini, per aver celebrato la messa da spretato impiccato e bruciato.
22 ottobre 1611
Jacopo de Elia, ebreo impiccato e bruciato. 22 gennaio 1616.
Francesco Maria Sagni, eretico impiccato e bruciato. 1 luglio 1616.
Arrestato un negromante zoppo, arso vivo per stregoneria. 1617.
Lucilio Vanini, arso vivo per aver messo in dubbio l'esistenza di Dio. 17
febbraio 1618.
Migliaia di eretici trucidati dai cattolici nei Grigioni in Valtellina. 1620.
(La Chiesa, rimasta nella convinzione che in Valtellina ci siano ancora
tendenze religiose eretico-pagane, mantiene tutt'oggi la regione sotto
controllo tramite la "Missione Rezia", affidata ai cappuccini,
dipendenti direttamente da "Propaganda Fidei") ... e il Santo Padre Gian
Paolo II chiede perdono!!!
— Urbano VIII
Galileo Galilei, torturato e condannato al carcere perpetuo
quale eretico per aver affermato che la Terra gira intorno al Sole. 1633.
Ferrari Ambrogio, eretico impiccato. 1624.
Donna Anna Sobrero, morta di peste in carcere dove era stata condannata a vita.
1627. (nei mesi che seguirono, tutti coloro che passarono per quel carcere,
morirono di peste).
Frate Serafino, eretico, inpiccato e bruciato. 1634.
Giacinto Centini, decapitato per aver offeso la sovranità papale. 1635.
Fra Diego Giavaloni, eretico impiccato e bruciato. 1635.
Alverez Ferdinando, bruciato vivo per essersi convertito all'ebraismo. 19 marzo
140.
Policarpo Angelo, impiccato ebruciato per aver celebrato la messa da spretato.
19 maggio 1642.
Ferrante Pallavicino, eretico impiccato e bruciato. 1644.
Fra Camillo d'Angelo, Ludovico Domenico, Simone Cossio, Domenico da
Sterlignano, giiustiziati per eresia. 1644.
— Papa Innocenzo X
Brugnarello Giuseppe e Claudio Borgegnone, impiccati e bruciati
per aver falsificato alcune lettere apostoliche. 1652. ( Se questo Papa applicò
in prevaleza condanne di carceri a vita ciò dipese dal fatto che in quegli anni
ricorreva l'anno Santo).
— Papa Alessandro II
Fello Giovanni, sacerdote, decapitato per eresia. 1657.
1.712 Valdesi massacrati dai cattolici nelle Valli Alpine. 1655.
— Papa Innocenzo XI (santificato)
20 ebrei condannati al rogo. 1680.
Vincenzo Scatolari, per aver esercitato la professione di giornalista senza
autorizzazione di Santa Madre Chiesa. Decapitato. 2 agosto 1685.
2.000 (duemila) Valdesi massacrati dai cattolici nelle Valli Alpine per ordine
diretto del Papa. Maggio 1686.
24 protestanti uccisi dai cattolici a Pressov in Slovacchia. 1687.
— Papa Innacenzo XII
Martino Alessandro, morto in carcere per torura. 3 maggio 1690.
37 ebrei bruciati vivi. 1691. (poi si cercano le cause che hanno generato
l'antisemitismo!).
Antonio Bevilacqua e Carlo Maria Campana, cappuccini, decapitati perchè seguaci
del Quietismo di Molinos. 26 marzo 1695.
— Clemente XI
Filippo Rivarola, portato al patibolo in barella per le torture
ricevute, decapitato. 4 agosto 1708.
Spallaccini Domenico, impiccato e bruciato per aver bestemmiato a causa di un
colpo di alabarda ricevuta da una guardia papalina. 28 luglio 1711.
Gaetano Volpini, decapitato per aver scritto una poesia contro il Papa. 3
febbraio 1720.
— Clemente XII
Questo Papa, ripristinando la "mazzolatura" (rottura
delle ossa a colpi di bastone), si dimostrò uno dei più cinici sostenitori
dell'arte della tortura.
Pietro Giarinone, filosofo e storico, morì sotto tortura per aver sostenuto la
supremazia del re sulla curia romana. 24 marzo 1736.
Enrico Trivelli, decapitato per aver scritto frasi di rivolta contro il Papa.
23 febbraio 1737.
Le numerose vittime di questo Papa sono rimaste sconosciute perchè egli
peferiva più uccidere sotto tortura nella carceri dell'Inquisizione che
giustiziarle nelle pubbliche piazze.
L'EUROPA COMINCIA A RISENTIRE DEL BENFICO EFFETTO
DELL'ILLUMINISMO CHE SI MANIFESTA LIMITANDO L'ALTERIGIA DELLA CHIESA CHE RIDUCE
LE SUE PERSECUZIONI RELIGIOSE ORINTANDOSI VERSO DELITTI POLITICI, CRIMINI
COMUNI OPPURE REATI RIGUARDANTI GLI ORDINAMENTI INTERNI ECCLESIASTI. QUELLO CHE
PER LEI CONTA SOPRA OGNI COSA È L'IMPORRE IL SUO POTERE ATRAVERSO IL TERRORE.
— Clemente XIII
Tommaso Crudeli, condannato al carcere a vita per massoneria. 2
agosto 1740.
Giuseppe Morelli, impiccato per aver celebrato l'Eucaristia da spretato.
22 agosto 1761.
Carlo Sala, eretico, giustiziato. 25 settembre. 1765. (Carlo Sala è l'ultimo
martire ucciso dalla Chiesa per eresia).
I massacri, non più di carattere religioso, continuarono contro i cospiratori
politici, i giornalistI e tutti quei progressisti che intendevano rovesciare
l'immoralità dell'oscurantismo religioso attraverso una rivoluzione armata.
Le atrocità furono come nel passato. Tagli di teste, torture con mazzolature,
impiccaggioni e sevizie che spesso portavano allo squartamento degli accusati.
Pur di mantenere il terrore venivano puniti di morte anche i delitti meno gravi
come i semplici furti.
— Pio VI
Nei suoi quattro anni di pontificato ci furono soltanto cinque
esecuzioni capitali per reati comuni, anche se la sua lotta si intensificò
aspramente contro gli ebrei che furono costretti, tra le tante umiliazioni e
minacce che subiro, a indossare vestiti di colore giallo perchè fossero
pubblicamente oltraggiati.
— Pio VII
Gregorio Silvestri, impiccato per cospirazione politica. 18
gennaio 1800.
Ottavio Cappello, impiccato perchè patriota rivoluzionario. 29 gennaio 1800.
Giovanni Battista Genovesi, patriota squartato e bruciato. La sua testa fu
esposta al pubblico. 7 febbr. 1800.
Teodoro Cacciona, impiccato e squartato per furto di un abito ecclesiastico. 9
febbraio 1801.
Paolo Salvati, impiccato e squartato per aver derubato un corriere del Papa. 11
dicembre 1805.
Bernardo Fortuna, impiccato e squartato per furto ai danni di un corriere
francese. 22 aprile 1806.
Tommaso Rotilesi, impiccato per aver ferito un ufficiale francese.
161 furono le esecuzioni capitali per reati comuni nei 15 anni del pontificato
di questo vice Dio in terra che prese il mite e devoto nome di Pio.
— Leone XII
Leonida Montanari, decapitato per aver offeso pubblicamente il
Papa. 23 novembre 1825.
Angelo Targhini, decapitato per aver ferito una spia papalina. 23 novembre
1825.
Luigi Zanoli, decapitato per aver ucciso uno sbirro papalino. 13 maggio 1828.
Angelo Ortolani, impiccato per aver ucciso guardia papalina. 13 maggio 1828.
Gaetano Montanari, squartato per tentato omicidio dell'emissario papalino Rivolta.
1828
Gaetano Rambelli, impiccato per aver ferito emissario papalino. 1828.
Le esecuzioni capitali, oltre queste sopra elencate, furono 29 e sempre per
reati comuni.
— Pio VIII
In un anno di Pontificato eseguì 13 condanne capitali per reati
comuni.
— Gregorio XVI
Impose divieto assoluto ad ogni libertà di parola o di
espressione scritta che non seguisse i dettami di Santa Madre Chiesa. Dietro le
minacce più gravi obbligò gli ebrei di non esercitare nessuna attività fuori
del Ghetto.
Giuseppe Balzani, decapitato per offese la Papa. 14 maggio 1833.
Luigi Scopigno, decapitato per furto di oggetti sactri. 21 luglio 1840.
Pietro Rossi, decapitato per piccolo furto. 9 gennaio 1844.
Luigi Muzi, decapitato per piccolo furto. 19 gennaio 1844.
Giovanni Battista Rossi, decapitato per piccolo furto. 3 agosto 1844.
Oltre a queste ci furono sotto il pontificato di questo Santo Padre altre 110
condanne a morte per reati comuni.
— Pio IX (santificato da Gian Paolo II, chiamato metro cubo di
merda da Garibaldi)
Romolo Salvatori, decapitato per aver consegnato ai Garibaldini
l'Arciprete di Anagni.
10 settembre 1851.
Gustavo Paolo Rambelli, Gustavo Marloni, Ignazio Mancini, decapitati per aver
ucciso tre preti.
24 gennaio 1854.
Antonio de Felici,decapitato per aver attentato al Cardinale Antonelli.
Per comprendere la criminalità di questo Papa (santo), basta
dire che quando i patrioti dell'unificazione italiana entrarono nelle carceri
pontificie per liberare alcune decine di prigionieri che vi vivevano incatenati
da così lungo tempo da aver perso la vista e l'uso delle gambe, trovarono in
quei sotterranei mucchi di scheletri e di cadaveri in decomposizione in un
misto di tonache di frati e di monache, di vestiti civili di uomini e di donne,
divise militari e scarpe come quando furono liberati i campi di sterminio
nazisti. Vi furono trovati anche giocattoli di bambini morti insieme ai loro
genitori.
SE QUESTI SONO I SANTI, CHI SONO ALLORA I DEMONI?
Siamo dunque al tragico quadro penale e psichiatrico
dell’Inquisizione cattolica (“universale”), come atroce “risposta” ecclesiale
all’onda dei tempi nuovi, della secolarità, della laicità, della modernità
incipiente: tutte offese minacciose alla sua dogmatica arcaica. O magari solo
come una conferma tronfia e sanguinosa del sommo potere giudiziale,
dell’anticipato esercizio universalmente punitivo, raramente premiale
(santificale), e solo all’interno delle sue strutture e in funzione
auto-celebrativa, di questa ecclesia onnisciente e onnipotente che incombe
sulle sorti dell’Occidente sventurato, brutalmente pervasiva nella esistenza e
coscienza di ogni singolo uomo. Questa chiesa si è arrogata dai primi secoli
anche il diritto “divino” più dispotico, illimitato di competizione e
collaborazione con quel primigenio diritto all’esercizio criminale (rapina e
assassinio), che pare privilegio tacito non solo della “regali-tà” riconosciuta
o comunque vittoriosa, ma di ogni aspirante al potere, al “comando”, al
“dominio” sull’uomo, che tenti di praticarne la violenza organizzata della
conquista.
Ma nessuna organizzazione imperiale mai, a nostra scienza
storica, fu così accuratamente preordinata, per comando divino, e non per
analogia ma per identità effettuale, nella storia umana, così totalitariamente,
così capillarmente, con tale gigantesca impostura, con tale resistenza e
durata, per il possesso totale, vitale e oltrevitale, dell’uomo “peccatore”,
della sua intera vita dal concepimento alla morte, e della sua preventivata
destinazione oltremondana, finanche “eterna”. Eresia, inquisizione, torture,
roghi allora non sono che sequenze derivate, momenti e fasi di una prassi
autoritaria globale, programmata canonicamente e perfino meticolosamente
regolamentata, secondo il vanto di recenti storici militanti cattolici. Tutto
fu sempre nelle regole. Quali? certo quelle inquisitorie, istruttorie,
poliziesche del sistema penale, che la santa chiesa dell’amore, dell’agàpe, dello
“Spirito Santo” si è dato, e che ha perfezionato con l’assistenza
ininterrompibile della “grazia di Dio”. Perché nella sacralità rituale e
cerimoniale artificiosa della chiesa cattolica, più che in qualunque altra
istituzione “profana”, per quanto macchinosa, tutto è realmente regolato da
“sacre procedure”, anche l’Inquisizione.
Qualche anno fa (1998) la stracattolica Piemme ha pubblicato un
famoso Manuale dell’inquisitore A.D. 1376, dovuto alla competenza
collaudata del domenicano Nicolau Eymerich, inquisitore generale di Aragona:
“ad uso degli inquisitori per consigliarli nel loro lavoro quotidiano e
soprattutto aiutarli a districarsi tra le regole della minuziosa procedura”. In
pratica, “come riconoscere un eretico, come istruire un processo per eresia,
quale domanda-tranello porre per smascherare la malafede di teologi in odore di
eresia, da quali segni riconoscere negromanti, adoratori del diavolo e streghe,
quando richiedere l’intervento del boia per torturare…”. Sono voci dell’indice
compendiate sulla fascetta editoriale, per invogliare il sensibile lettore
odierno: e spigolarvi dentro potrebbe dilettarci di diletto macabro (nero), a
cominciare dall’Avvertenza. Vi è naturalmente un curatore clericale,
R.Cammilleri, un davvero mediocre pubblicista cattolico, che adempie nel modo
più plateale e volgare il mandato ecclesiastico di tradurre la “leggenda nera”
dell’Inquisizione cattolica, data sùbito falsamente per “smantellata da tempo
dagli storici”, in una svergognata – tutta cattolica – “leggenda rosa”. Che può
chiudere con l’asserzione irresponsabile, appena attenuata da un “forse”
parentetico: “molto rumore per nulla” (p.14)!
E’ la storia criminale, la Kriminalgeschichte del cristianesimo
ovvero della sua chiesa, che continua in tutto il Medioevo e nei primi secoli
“moderni”. In stile ecclesiastico, oltretutto il libro è una mistificazione
editoriale, che sconfina nella frode, perché non pubblica affatto il testo
originale indicato con firma, ma è per intero una confezione arbitraria, una
specie di sunto-parafrasi-plagio del detto “curatore”, che sfrutta
dichiaratamente un compendio francese del manuale, nell’edizione cinquecentesca
commentata da F.Peña, canonista aragonese: un autentico pasticcio,
inutilizzabile filologicamente, quindi da prendere o lasciare, seppure
difficilmente rinunziabile per le molte informazioni, che dovrebbero essere “di
prima mano”, e per le sconcertanti risposte agli interrogativi impliciti e
espliciti in cui il libro si articola, relativi al mestiere e alle pratiche
giudiziali di un inquisitore ecclesiastico. Un ampio e squallido prospetto, a
cominciare dal campionario di vergogne, qui esibite come titoli di legittimo e
probo esercizio applicativo del diritto canonico.
Precede una sintesi minima della storia dell’inquisizione
medioevale, spiegata come ritorsione nongià dell’ecclesia ma dei poteri
“civili”, per la repressione del catarismo nongià come “eresia” ma in quanto
“sovversione sociale”, o dell’eresia stessa nongià come deviazione teologica
dall’ortodossia dogmatica, come “errore” così qualificato e blasfemia
demoniaca, ma come sovversione dell’ordine costituito nella società intera: da
qui per es. la legittimità “civile” della ventennale crociata, ossia guerra di
coalizione, contro gli albigesi sovversivi sanguinari. Ma questa non è che la
volgarizzazione plebea di alcuni interventi storici “revisionistici” di
militanti cattolici, “prudenti” fino all’impudenza. Vi è un caso di fortuna
editoriale prolungata o rilanciata, quello dello storico francese J.B.Guiraud,
che in un paio di libelli proto-novecenteschi, su L’Inquisizione medievale
(tr.it. Corbaccio 1933) professava la più grande “obbiettività”, intesa
all’accertamento della verità storica sull’Inquisizione, quindi a rettificare
gli errori e le esagerazioni correnti, dettati da ostilità verso la chiesa,
povera santa sempre malgiudicataa, calunniata, aggredita proditoriamente.
Malintesa pure nelle sue tradizionali manifestazioni così limpide, così serene
di superiore giustizia ecclesiastica, come la millenaria lotta alle eresie e la
“santa inquisizione” (un tribunale beatifico), col concorso libero di stati e
governi politici.
E realmente una grande imparzialità ispirava Guiraud, se si
considera che questo testo libello era la voce Inquisition del grande Dictionnaire
apologétique de la foi catholique, “contenant les preuves de la
verité de la réligion et les réponses aux objections tirées des sciences
humaines”, diretto dal gesuita A.D’Alès: una “voce” sicuramente graziata dallo
“Spirito Santo”! Bè oggi lo stesso pubblicista Cammilleri, su “invito alla
lettura” del più noto suo collega V.Messori, coronato di largo successo
editoriale, ripropone con la più scoperta oscenità la traduzione dell’altra
voce-libello coeva del medesimo autore, tratta dal medesimo Dictionnaire,
che viene intitolata sfacciatamente Elogio della Inquisizionne (Leonardo
1994), molto aldilà della prospettiva pure apologetica, cioè difensiva,
riduttiva, omissiva, giustificativa dello “storico” cattolico. Era lui, nato e
vissuto nella Francia del sud, a incentrare sul catarismo, che caratterizzava tout
court come manicheo, i suoi studi sulla Inquisizione medioevale, alla quale
la clemente ecclesia alla fine si decise a malincuore, dopo lunga tolleranza (tolérance),
anzi addirittura con un “eccesso di tolleranza”!
L’aggancio sicuro al manicheismo non era casuale, poiché
permetteva di caricare già sulle remote repressioni di Diocleziano, che
colpirono anche i Manichei, la responsabilità originaria, e direi metodologica
e tipologica, dell’inquisizione politico-religiosa; e inoltre consentiva di
arretrare di molti secoli l’origine e la diffusione e permanenza della grave
“eresia”, così a lungo “tollerata” dall’ecclesia santamente tollerante. Altro
espediente era quello, imitato oggi dagli italiani, di puntare su singoli casi
anomali (un folle di Châlons, il sobillatore di Utrecht, il bretone che crede
di essere un “eone”), come estremi di agitazione e asserita violenza
sovversiva, là dove si parla di un vasto “movimento” cataro, amplificato
in alternativa terroristica come invasione di un’orda di barbari nel regno dei
cieli ecclesiale cattolico.
Un criterio generale di rilettura “storica”, già evidente in
questa sorta di protòtipo primo-novecentesco di “risposta cattolica”
all’assalto critico pluri-secolare, che si fa risalire al protestantesimo,
patito dalla chiesa della tolleranza calunniata, è quello tattico-strategico di
associare strumentalmente agli interessi “spirituali” della chiesa gli
interessi economico-politici dei prìncipi, degli stati, dei governi professanti
“cristiani”. S’intende specialmente la responsabilità esecutiva del cosiddetto
“brac-cio secolare”, essendo tuttavia sempre la chiesa la “mente” sovrana di
questo “brac-cio”, oltretutto in molti casi riluttante. Lo “storico” sembra
però dimenticarlo, o meglio rimuoverlo troppo spesso, tanto da mettere spesso
paradossalmente in competizione handicappata col loro “braccio secolare”,
il vescovo o il papa, quasi fossero impotenti o impediti a esercitare
nobilmente e con diritto “divino” prioritario la “santa inquisizione” canonica:
oltre a mettere anche il “popolo contro gli eretici”, in una generale
revulsione della intera società cristiana. E’ l’augusta ecclesia che, decidendo
di “cambiare sistema”, dopo avere troppo a lungo tollerato, dice basta! ai
catari sovversivi e nel 1139 – si esprimeva così lo storico cattolico – “ordina
al potere civile di reprimere l’eresia con pene temporali” (Elogio
dell’Inquisizione, pp.27ss.). Tanto più che i prìncipi scalpitano, vogliono
punire a ogni costo quei lazzaroni pericolosi: e qui ci si riferisce con
distacco “spirituale” agli eventi drammatici della condanna di Abelardo e di
Arnaldo morto acciso.
La formulazione e la formula sono esattamente queste del
concilio Laterano (1139 appunto) di Innocenzo II, canone 23: “Gli eretici che
condannano il matrimonio, rigettano i sacramenti del corpo e del sangue del
Signore, il battesimo dei bambini, il sacerdozio e gli altri ordini, siano
espulsi dalla Chiesa di Dio come eretici, noi li condanniamo e ordiniamo al
potere civile di reprimerli. Includiamo nella stessa sentenza chiunque prenderà
le loro difese” (cit. ivi, pp.27-28). E ancora minacciosamente nel concilio di
Reims del 1148, presieduto dal papa Eugenio III: “Nessuno – dice – deve
difendere o proteggere i Catari; nessun signore deve accoglierli sulle sue
terre, dietro pena di scomunica e di interdizione” (L’Inquisizione medievale,
p.67). Ma ciò nonostante, lo storico militante continuava a mistificare,
scrivendo poi che “i papi si impegnarono sempre più in questa via repressiva
che era stata loro così ben tracciata dai principi. Al concilio Lasterano del
1179 Alessandro III, pur continuando a ricordare che il clero aveva in orrore
il sangue, chiedeva al potere secolare sanzioni penali contro i Catari (…). Il
papa lanciò l’anatema contro di loro, contro i loro protettori e chiunque li
avesse ricevuti nella propria casa o sulle proprie terre, o avesse avuto
commercio con loro. Ma c’è di più: egli chiamava alle armi contro l’eresia e i
prìncipi e i popoli…” (Elogio dell’Inquisizione, p.32).
E’ la solita ipocrisia falsificante di sole parole, che si
smaschera nell’evidenza degli atti, ma non basta allo storico nonché uomo di
verità cristiana Guiraud, che riassumendo il capitolo poteva concludere con
tranquilla impudicizia clericale: 1) ripugnando da principio le pene temporali
e limitandosi a quelle spirituali, la Chiesa sottopose l’eresia a castighi
materiali solo alla fine del XII secolo; 2) essa fu portata a tale
recrudescenza non soltanto da re pii e sottomessi alla sua direzione come Luigi
VII, ma anche da principi in frequente rivolta contro di essa, come Enrico II
d’Inghilterra e l’imperatore Federico Barbarossa; 3) l’inquisizione era pressoché
universalmente praticata dall’autorità civile già prima che intervenisse a
istituirla ufficialmente nel mondo cristiano una decisione ecclesiastica
(p.35). Asserzioni tutte smentite dai suoi stessi dati, ma soprattutto
inauditamente fuori di ogni seria ragione etico-religiosa che non siano i
retoremi della tradizione ecclesiastica.
Come potrebbe nel XII secolo l’eventuale priorità del potere
“civile”, in subordine preteso e conclamato del potere ecclesiastico, potrebbe
non dico legittimare ma anche solo motivare un apparecchio inquisitoriale e
altamente terroristico e penalmente rovinoso, deltutto coerente con la pratica
dogmatica, esclusiva autoritaria totalitaria, di un millennio di caccia
aberrante e di lotta senza quartiere alle cosiddette “eresie”, cioè a ogni
altra libera interpretazione del “messaggio cristiano”? A misurare il suo
livello di inattendibilità storica, si noti come nell’altro libello su L’Inquisizione
medievale Guiraud componeva, per il XII secolo di Bernardo e di Innocenzo
III, incredibili quadri provinciali francesi di una chiesa fragile e
“perseguitata” (pp.56ss.). La rappresentazione demonizzante che lo “storico”
dava degli “eretici”, nella sua ottica ecclesiastica eusebiana, è quella di
facinorosi esagitati semi-demoniaci, anarcoidi antisociali disposti a ogni
violenza, non escluso l’assassinio, il cui scopo era di “di-struggere la
società”, nei confronti di un clero bòno, “perseguitato” (nel colmo Medioevo!),
inerte, impotente, scoraggiato, passivo senon complice della “eresia”.
Guiraud raccoglie ogni diceria, ogni aneddoto, ogni racconto o
leggenda di parte clericale, mescolando “eretici” e banditi, anzi identificando
quelli con questi: “Man mano che si propagavano le predicazioni ereticali, si
moltiplicavano le bande che, in nome delle nuove dottrine, portavano la
devastazione in un gran numero di regioni dell’Europa cristiana. Nei primi anni
del regno di Filippo Augusto il centro della Francia fu messo e ferro e fuoco
da forsennati che venivano chiamati, a seconda dei luoghi, Coteraux,
Routiers, Paliarii, Arriens, Patarins. Il cronista contemporaneo Rigord ce
li mostra intenti a saccheggiare e bruciare le chiese, a profanare l’Eucarestia
e i vasi sacri, a sottoporre a trattamenti sacrileghi e crudeli i preti, che
facevano non di rado morire tra i più atroci tormenti. Calpestavano coi piedi
le ostie consacrate e facevano coi corporali oggetti da toilette per le loro
amanti…” (Elogio dell’Inquisizione, p.59). Al contrario, della storia
dell’inquisizione medioevale, come esemplarmente nella lunga crociata contro
gli albigesi, si compone qui una storia tutta extra-ecclesiastica di prìncipi,
re e capi militari in guerra fra loro e contro gli “eretici”, in cui la chiesa
ha una partecipazione laterale: ma la “Santa Inquisizione” chi l’avrebbe
santificata senon l’eccclesia santa?
Quasi a smentita fattuale di quella prospettiva
de-responsabilizzante, lo stesso storico Guiraud assicurava, che “quando
l’Inquisizione fu organizzata, nella prima metà del XIII secolo, ebbe la
missione di combattere le varie sette di estrazione manichea; estese poi la sua
azione a tutte quelle altre eresie che avevano, come i Valdesi, affinità con le
prime. Infine, colpì non solo quelli che predicavano e praticavanoo apertamente
queste dottrine anticristiane e antisociali, ma anche quelli che ne favorivano
in qualunque maniera la diffusione” (ivi, p.115). Piccole transizioni della
“tolleran-za” ecclesiastica, che tranquillizzano il lettore cristiano male
informato o fuorviato da letture tendenziose sulla reale “mitezza
dell’inquisizione”, sulla “vigilanza” e sulla “mansuetudine” della “Santa
Sede”, virtù ecclesiastiche arcinote, sebbene spesso misconosciute. E sempre
senza l’obbrobrio di una chiesa cristiana, e in realtà di una gerarchia di
potere politico-economico letteralmente criminale che, con sprezzo tradizionale
dell’uomo, organizzava una tale mostruosa macchina poliziesca e penale per la
soppressione di critici, dissenzienti e oppositori politico-religiosi.
Sicché lo “storico” cattolico, da piccolo servitore cieco della
sua chiesa, poteva concludere sordamente, senza accorgersi della tragica
enormità dei suoi enunciati, come in un laconico orrido-cinico verbale di
servizio: “L’Inquisizione riuscì a soffocare il Catarismo. Il numero degli
adepti perseguiti diminuì considerevolmente nel primo quarto del XIV secolo,
dopo il 1340 non si incontra che qualche caso isolato. Schmidt dichiara che nel
XIV secolo ‘la setta sparì senza lasciare traccia nelle nostre province
meridionali’. Stessa constatazione per la Spagna: ‘Nel 1292 troviamo le ultime
tracce dell’eresia catara in quelle province. Il re Giacomo II, i vescovi
adunati in assemblea a Tarragona e gli inquisitori si riunirono per farle
scomparire del tutto: a partire da quel momento in Spagna non se ne sente più parlare’.
In Italia l’Inquisizione scovò ancora Catari fino alla fine del XIV secolo; si
erano rifugiati nelle valli remote delle Alpi e nelle inestricabili macchie
della Corsica. In questa isola ‘i rifugiati abitavano per la gran parte nelle
foreste e nelle montagne; per contenerli fu creata una linea di fortezze
ecclesiastiche sotto forma di residenze di francescani’” (pp.149-50). Degna
clausola di questo infame “elogio”!
Tale maestro e modello, autore inoltre di una più ampia Histoire
de l’Inquisition in due volumi (Paris 1934), e di cui si ristampa ancora in
Francia anche l’altro libello su L’Inquisition médiévale (Paris 1978),
ha avuto ovvio seguito pure indichiarato, specialmente negli ultimi decenni del
secolo e millennio trascorso. Si noti però che il tema è deltutto rimosso anche
nelle maggiori storie della chiesa (da quella di Saba a quella collettanea
diretta da Jedin, dove si parla di eresie e di eretici, non di inquisizione), e
nelle storie del cristianesimo (da quella di Buonaiuti, vol.II Evo Medio
(Dall’Oglio 1943) all’ultima diretta da Filoramo e Menozzi). E’ pure escluso
nella Enciclopedia delle religioni americana, diretta da Eliade, e
minimizzata in quella italiana, in cui Msurilio Adriani se ne esce in questa
speciosa definizione: perifrastica: “Se d’Inquisizione si può parlare
genericamente come di quell’atteggiamento proprio dell’autorità religiosa
costituita (e quindi anche e soprattutto della Chiesa) in quanto depositaria
dell’ortodossia e incline dunque a cercare, prima ancora di constatare e di
reagire, le forme e le figure aberranti, le ‘eresie’ letteralmente intese, il
senso più preciso del termine si determina come linea metodica,
sistematicamente perseguita sul piano religioso e su quello giuridico,
attraverso la quale si provvede a difendere la ‘verità’ – il dogma, la fede, il
costume - attraverso un’azione tanto preventiva quanto repressiva, intesa
evidentemente a conservare o a ripristinare l’ortodossia di fondo. Ed è anche
da notare che l’Inquisizione sia sempre e comunque segno di una unicità almeno
tendenziale del regime spirituale, e quindi si trovidi fatto associata e talora
immedesimata nell’intolleranza, sacra e civile che vessa sia” (vol.III,
col.1171).
Nei volumi IX/2 e X della grande Histoire de l’Église
cattolica, si dedicano due brevo capitoli a “La lotta contro l’eresia”, in cui
si esprime quasi sorpresa nel “constata-re quanto poco la Chiesa si sia curata
di determinare e punire il delitto di eresia. Al riguardo non esisteva né una
dottrina chiaramente formulata, né una procedura determinata, né sanzioni
sicuramente stabilite. Questa negligenza si spiega col fatto che, in Occidente
almeno – fatta eccezione per le antiche eresie represse dal potere civile –
nessuna eresia aveva conosciuto uno sviluppo inquietante prima della
penetrazione delle correnti neo-manichee” (vol.IX/2, p.864). Il finto candore
meriterebbe varie precisazioni, ma presto comunque la casta chiesa riorganizzò
nel XIII secolo, specialmente per la promozione indefessa di Innocenzo III;
così che in un’altra decina di pagine in Appendice del vol.X p.Mariano d’Alatri
illustra l’impiego dei francescani in rinforzo inquisitorio ai domenicani, e
l’accurata “ripartizione di tutto il territorio nazionale in zone o province
inquisitoriali” (pp.683ss.). Primizie organizzative di quello che qui è
chiamato “l’ufficio della fede”.
Ma l’imitazione del modello francese si può constatarla più
largamente in libri firmati dallo stesso p.Mariano d’Alatri, come Eretici e
inquisitori in Italia (dal duecento al quattrocento), voll.2, Istituto
Storico Cappuccino, 1986-87); in cui è rilevante la sentenza che
“L’Inquisizione è una pagina della storia della Chiesa; ma essa costituisce
forse, addirittura un capitolo della storia della civiltà occidentale”. Vedremo
quanto ciò sia purtroppo verificabile. Odierni prodotti cattolici minori
possono indicarsi nel libello-saggio di J.P.Dedieu, L’Inquisizione
(1987, tr.it. ed. Paoline 1990), che rivendica “una visione da storico”,
revisionando la “leggenda nera” del-l’inquisizione; o capitoli ripetitivi come
quello di F.Pappalardo, “Lo scandalo del-l’Inquisizione”, nella raccolta
collettanea citata, a cura di F.Cardini, Processi alla Chiesa (Piemme
1994). Un esteso indirizzo di “revisionismo” cattolico ha in genere puntato,
più difficilmente, sulla Storia dell’inquisizione spagnola dal XV al XIX
secolo, come il libro collettaneo francese diretto da B. Bennassar (1979,
tr.it. Rizzoli 1980); ma preferibilmente sulla tarda inquisizione
contro-riformistica “romana”, come i testi dell’italo-americano John Tedeschi,
per es. Il giudice e l’eretico. Studi sull’inquisizione romana,
recentemente tradotto (Vita e Pensiero 1997).
Così che pure il vaticanista “laico” dell’“Espresso”
(18/6/1998), Sandro Magister, mettendo a frutto come altri il suo mestiere
ambiguo, a cavallo fra critica e propaganda clericale, raccoglieva le
enfatizzazioni mistificanti dei fogli cattolici, che hanno azzardato a parlare
finanche di “rivoluzione copernicana” negli studi sull’inquisi-zione
ecclesiastica, e a esporre con soddisfazione e gaudio onanistico i pretesi
nuovi dati più recenti sui processati e condannati dell’inquisizione spagnola,
anti-ebraica e anti-musulmana, fra XVI e XVIII secolo. Solo 44.000 processati,
appena 11.000 condannati, di cui 820 giustiziati cioè mandati al rogo, nemmeno
l’1,9 per cento, una miseria che smaschera la colossale speculazione
anti-ecclesiastica otto-novecente-sca! Nella inquisizione romana
anti-protestantica poi, nel medesimo periodo – lo riferisce Tedeschi, non so su
quale calcolo –, dal “sacro tribunale” furono decise solo 97 condanne a morte,
un’attività davvero fallimentare! Questi ineffabili storici e pubblicisti
cristiani non sembrano minimamente chiedersi che colpe reali avevano, senon di
opinione o di pretesa “stregoneria”, quegli uomini e quelle donne, per essere
coinvolti a migliaia nello spaventoso sistema inquisitorio ecclesiastico,
sempre minaccioso e incombente, e per subire condanne le più diverse, comunque
angoscianti, dolorose e infamanti.
Nessuno si accorge della relativa coordinazione istituzionale di
tali “rivelazioni” studiose, fra le quali si registrano, a proposito di
inquisizione romana, tanto prudente e ponderata e normativa, anche libri come Inquisitori,
esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma di G.Romeo
(Sansoni1990), su cui avremo occasione di ritorno, nella parte terza, in tema
di caccia alle streghe, di esorcismi ecc. Si direbbe una nobile gara se non
all’assoluzione alla ridimensione dell’immagine pubblica della santa giustizia
cattolica Si arriva a esprimere lieta sorpresa cristiana, perché una
gentildonna ebrea a nome Anna Foa avrebbe scoperto che “dal punto di vista
giuridico non vi sono dubbi che il processo a Bruno [inquisito per otto anni,
la cui atroce storia e la sua eroica e tragica fine sul rogo sono arcinote] si
sia svolto nel più rigoroso rispetto delle norme, senza abusi o volontà
precostituite di condanna. Il tribunale non nega a Bruno nessuna possibilità di
difesa. Si ha addirittura l’impressione che facesse di tutto per ottenere da
lui una ritrattazione, e quindi salvarlo”. “Non solo – riferisce Magister senza
vergogna – Anna Foa si chiede, in conclusione, ‘se gli inquisitori non fossero
partecipi ben più di Bruno, in quell’inizio del XVII secolo, di una mentalità
moderna’”. Non conosco e non leggerò questo ennesimo Giordano Bruno (Il
Mulino 1998), ma vorrei chiedere all’autrice se lei consentirebbe che
altri usi criteri analoghi ai suoi, nella “revisione” storica dei genocidi di
ebrei. fra l’altro della stessa Inquisizione.
Ma intanto, nel libro collettaneo citato Storia
dell’Inquisizione spagnola, documentato e spesso di una onesta
intelligenza, rilevo dati e punti di vista interessanti, anche sotto un profilo
generale. D.Peyre parla di “politica della presenza”, s’intende del potere
ecclesiastico e monarchico, nel senso del “controllo politico e sociale”
(pp.41ss.), scrivendo fra l’altro che per questo il “Santo Uffizio” mirava in
Spagna al controllo totale di ogni “categoria sociale” e dell’intero
territorio, vi sia riuscito o meno. Bennassar poi tratta espressamente di una
“Pedagogia della paura”, rifacendosi a valutazioni del citato canonista Peña,
per il quale il nobile scopo reale dei processi e delle condanne non era la
dichiarata “salvezza dell’anima” del reo presunto, ma quello di “terrorizzare
il popolo”, E Bennassar commenta: “E’ vero: per tre secoli, l’Inquisizione ha
dominato mediante la paura. L’ordine che ha ispirato era la misura stessa della
paura. Gli inquisitori più coscienziosi si sono augurati di ottenere questo risultato:
la paura doveva innalzare il più insormontabile degli ostacoli sui sentieri
dell’eresia” (p.95).
Non importano le attenuazioni, che riguardano le ovvie
somiglianze con le procedure ordinarie d’epoca, e le concordanze d’interessi
dei poteri politico-religiosi, che per noi erano scontati all’origine,
nell’organizzazione ecclesiastica e in quella della monarchia cattolica
spagnola. Perciò non importa affatto che l’inquisizione ecclesiastica sia stata
sfruttata massimamente dalla monarchia, com’è nella logica del potere, e come
insiste con vano fervore Bennassar anche alla fine (pp.325ss.). Essa fu sempre
inquisizione ecclesiastica, una istituzione accurata e complessa programmata e
controllata dal “Santo Uffizio”, e tanto peggio se fu asservita a prevalenti
interessi politici monarchici, convergenti con quelli pontifici.
Ma qui interessano molto più le conclusioni oneste dello storico
cattolico Bennassar, su tale capitolo fondamentale dell’inquisizione spagnola,
riassunta nei seguenti dati: la quasi totale occupazione territoriale, la rete
di collaboratori e di informatori, hanno assicurato, per almeno due secoli, un
controllo sociale perfetto, rafforzato dal prestigio dell’istituzione e dal
sacro terrore che essa ispirava, poiché il prestigio e il terrore suscitavano
spesso le confessioni spontanee e la delazione, protette qui come altrove dal
segreto delle testimonianze” (p.341). Per cui “pensare è diventato pericoloso e
migliaia di spagnoli l’hanno imparato a proprie spese” (p.344). Ma ancora di rilievo
maggiore è la conclusione etico-culturale che ne trae: “Il peccato contro lo
spirito non si limita a questo soffocamento della riflessione creatrice. E’
anche di natura religiosa. La Chiesa cattolica del Rinascimento, poi il
Concilio di Trento hanno affermato contro Lutero il libero arbitrio dell’uomo,
la maggiore libertà dell’uo-mo, quella di salvarsi o di perdersi, per
l’eternità. L’Inquisizione, componendo un unico modello di fede, sottoponendo
ogni individuo alla sorveglianza permanente di un’opinione pubblica
condizionata, ha distrutto le possibilità autentiche di esercitare il libero
arbitrio, ha fatto morire in Spagna l’idea stessa della libertà religiosa”
(pp.344-45).
Si deve a B. e L. Bennassar pure la ricostruzione di un’altra
storia quasi inedita, quella dei cristiani convertiti all’Islàm (circa
300.000), volontari o costretti in prigionia (ma con lusinghe), e colpiti dalle
Inquisizioni spagnola, portoghese e veneziana, in 1550 processi fra XVI e XVII
secolo, una inezia trascurabile (I cristiani di Allah, tr.it. Rizzoli
1991). Qui si ha la non-sorpresa – per quanto ci riguarda – di avere conferma
che “la società musulmana dell’epoca è molto più aperta e accogliente di quella
cristiana” (p.15): ma perché parlare ancora di “società”, per nascondere che si
tratta sempre di gerarchie e “autorità” politico-religiose, e insomma della
solita atroce ecclesia inquisitoria e giudiziale, che li condanna quei
“convertiti” come “apostati” e “rinnegati”?
Ma si direbbe che il vero punto di forza dei “revisionisti”
cattolici sia il ponderoso libro di G.Prosperi, Tribunali della coscienza,
edito da Einaudi nel 1996, pluri-citato pure dai pubblicisti cattolici, è
difficile capire perché, essendo un’opera seriamente lavorata e costrutta di
uno storico di mestiere; ma la spiegazione di superficie può trovarsi nella
prima parte del libro, intitolata “L’Inquisizione”, in parte debitamente
fraintesa o amplificata, profittando delle ambiguità del testo. Lo storico
Prosperi sembra affrontare la storia della chiesa nell’età moderna, come se
questa fosse un qualunque stato moderno, e infatti parla di “Stato della
Chiesa”, e addirittura curiosamente di “agenzie” all’americana (agency),
per le sue istituzioni storiche fondamentali come appunto l’inquisizione e la
propaganda missionaria, che lui dice paradossalmente “incaricate della
conquista culturale” (p.XVIII): conquista di quale cul-tura? E’ una sorta di
promozione storica della chiesa contro-riformistica a organizzazione moderna,
che non può nemmeno integrare metodologie pragmatiche di azione tradizionali,
senon sotto il profilo e le prassi organizzative della conservazione proterva e
della concreta applicazione resa in parte flessibile nelle situazioni reali:
promozione moderna che però sicuramente resta impropria e finanche stridente
sotto il profilo essenziale dei contenuti etico-religiosi dogmatici, e quindi
della “cultura” più anacronistica.
Quindi insistere sulla presenza dominante, ancora egemonica
della chiesa nella “Italia moderna”, aldilà del fondamento storico avalla
l’idea di una sottintesa o sospettabile equivalenza della “Italia moderna” con
una “chiesa moderna” Ma al contrario fornisce le motivazioni storiche della
assai tardiva e stenta modernizzazione secolare nella lungamente disarticolata
nazione italiana. La generale arretratezza della società italiana è il prodotto
storico di quella divisione, prolungata dalla politica pontificia, che ha
perpetuato fino a ieri e fino a oggi questa antica e sempre attiva e
appropriativa e invadente e ancora minacciosa “presenza” politico-religiosa.
“Tri-bunali della coscienza”? “Conquiste di coscienze”, che non comporterebbero
solo prepotere inquisitorio ma anche “persuasione”? Lo storico trascura, per
grave sotto-valutazione, che non si tratta del difficile governo di uno stato
moderno, ma si parla della chiesa cristiana, di una potente e capillare
organizzazione millenaria, auto-pre-posta alla gestione magico-suggestiva di
mistificate “verità” etico-religiose, che investono non solo gli interessi
economici e i diritti civili, ma l’intera esistenza e il “destino” dell’uomo. E
nelle cui operazioni realizzative predomina dalle origini la suscitazione
irrazionale della “paura”, della illusione, della speranza, e per questo
ovviamente della più facile “persuasione” emotiva, e del controllo reale delle
“co-scienze”. Sarebbe questa una “conquista culturale”?
Ma questo è l’originario fondamento (“arcaico”) di ogni
religione, e nella chiesa cattolica con la più larga invasività e possessione
“coscienziale”: è solo questo che spiega la sua durata che sconfina oltre gli
imperi e i tracolli del suo stesso imperialismo politico, la sua perpetuazione
illimitata sul dolore e il terrore sempre alimentati, sull'illusione e la
speranza sempre risuscitate, dell’uomo solo: la cui “coscienza” si vuole
eteronoma, irresponsabile, dipendente da quelle sovrane “autorità” (obbedienza,
umiltà ecc.) e dalle loro “agenzie” strumentali. Ecco la pretesa “nuova
inquisizione” dunque, quella contro-riformistica romana (pontificia), quindi e
comunque storicamente e direi geograficamente delimitata, ma comprendente pure
la famigerata “caccia alle streghe” europea. Non interessa qui seguire lo
storico nelle sue continue accortezze revisionistiche, con cui molto
probabilmente, movendo da intenti storiografici con attenzione alla realtà
storica molteplice, relativamente diversificata nel tempo e nello spazio, non
si rende però conto di prestarsi (anche fuori di questo libro, in articoli come
quello citato e ricitato dai pubblicisti cattolici, “L’inquisizione? verso una
nuova immagine”, in “Critica storica”, n.25 1988) a speculazioni ecclesiastiche
e comunque clericali, pure volgari.
Quale “nuova immagine” può sortire da una infamia sistematica
totale, organizzata e gestita per secoli dalla chiesa cattolica, per sua aberrazione
fondativa originaria, di proporsi cioè come religione unica e vera, nel senso
più esclusivo e impositivo, con l’unica “conquista” demonicamente ossessiva dei
pretesi poteri “soprannaturali” (“divini”), e realmente
politico-amministrativi, polizieschi e giudiziali, per l’e-sercizio della più
dispotica e tetra “autorità” di oppressione dell’uomo? Si potrebbe chiedere
cosa vuole salvare o riscattare lo storico Prosperi, cattedrato di “storia
moderna” nella tradizionalmente laica università di Pisa: il moderno “Stato
della Chiesa” contro-riformistico, a beneficio di questa ecclesia disonorata
nei millenni, e per “l’eterno”? Cosa può dimostrare col sottotitolo “La crudele
Inquisizione”, poi in parte smentito dal testo che ne corregge la tradizionale
interpretazione “liberale e democratica”, con l’interrogativo retorico interno:
“lo era veramente?” (pp.155ss.), e la risposta assai malfondata che erano più
crudeli i tribunali ordinari d’epoca? Risposta isolata e carpita dai miseri
militanti cattolici, ma già nella tradizione della loro propaganda
ecclesiastica, in un auto-confronto vergognoso nel solo pronunciarlo, da parte
di falsi detentori di “poteri spirituali”, distinti e contrapposti alla
violenza reale del loro stesso “potere temporale”.
Ma se si fa attenzione, questa speculazione ecclesiastica è pure
denunciata dallo storico nel medesimo contesto da cui è estratto quel
confronto: “In realtà, le cose andavano molto diversamente da come
quell’immagine di facciata voleva far credere. Da un lato, sul piano pratico,
le autorità dell’Inquisizione non lasciarono mai niente di intentato per
ottenere che gli eretici scomunicati venissero mandati a morire con la massima
sollecitudine e nella maniera più clamorosa; dall’altro, la giurisprudenza
inquisitoriale trattò esplicitamente la questione di come si potessero
costringere vle autorità laiche a mandare a morte gli eretici”. Il ‘braccio
secolare’ aveva una sua autonomia in materia, per cui non era infrequente il
caso di sentenze di scomunica che tardavano a trasformarsi in condanne
capitali. Ma la giurisprudenza inquisitoriale aveva le sue astuzie poliziesche:
le autorità renitenti potevano sempre essere accusate di sospetta amicizia con
gli eretici e sottoposte a loro volta a processo inquisitoriale” (pp.156-57).
In realtà Prosperi fa perlopiù opera di storico, e questo
dovrebbe rappresentare la sua linea di novità relativa, descrivendo in
opposizione con scrupolo puntiglioso i due punti di vista antagonistici, le
denunce particolareggiate delle atrocità subìte dalle vittime, i protestanti
luterani e calvinisti anche italiani come Fanino Fanini qui citato, e le
tetragone difese ecclesiastiche. Infatti, “dinanzi a questo fuoco di fila di
accuse l’ostinazione inquisitoriale appare inflessibile e come arroccata nelle
sue certezze” (p.158). Con “equilibrio” o equilibrismo quindi Prosperi descrive
i pubblici spettacoli dell’orrore e del macabro, della cui regìa l’ecclesia si
compiace, ai suoi santi fini “pedagogici” della paura persuasiva: “così come i
tribunali criminali del-l’epoca,, quello dell’Inquisizione credeva necessario
sfruttare al massimo lo spettacolo dei corpi martoriati e bruciati per
spaventare e dissuadere. Per questo poteva servire non solo l’esecuzione
capitale, ma anche la scena della pubblica abiura”. E’ falso che a Roma questo
non si facesse: “Il gusto tutto spagnolo della ‘processione d’ignominia’, come
momento essenziale di una religione militante capace di unire saldamente la
società, trovò in Italia echi favorevoli solo nei rituali romani” (p.170). Sì,
e “lo scenario doveva essere imponente e terribile” (p.172).
Seguono “imparzialmente” le giustificazioni ecclesiastiche,
raccolte nell’esibizione delle stesse sentenze, l’istituzionale, connaturale,
raccapricciante ipocrisia del sacro dovere da compiere, per mandato e alto
esempio di Paolo apostolo (San Paulo), per debellare, punire, cancellare gli
eretici seminatori di divisioni, di disordine e di scandalo nell’unità
dell’eletto popolo cristiano, governato vigilato, posseduto e difeso
dall’ecclesia divina. Anche questo capitolo dunque, di cui si profitta con la
medesima malafede clericale della gerarchia ispiratrice, appare
complessivamente fintroppo bilanciato, per una caratterizzazione storica a più
dimensioni, sebbene graviti dichiaratamente sui temi della “coscienza”, di cui
si colma la più ampia parte seconda, “La confessione”. Che solo per
istupidimento fideistico può ritenersi una correzione riparatrice delle denunce
orrifiche otto-novecentesche, mentre procura non minore raccapriccio.
Quello che suscita una tortura forse più crudele, anzi una
prolungata azione-tortura “morale”, “mentale”, “coscienziale” sul malcapitato
“peccato- re” mortale, colpito da inquisizione: oltre che per estorcere
confessioni, per svilirlo, mortificarlo, con-vincerlo impositiviamente di
“colpevolezza”, e della colpa più grave, l’eresia, contro il Dio Padre, il Dio
Figlio e lo Spirito Santo, contro l’ecclesia santa e il suo divino ordinamento,
e altre mistificazioni simili. Con l’intento insomma di schiacciare l’uomo, a
cui si nega il libero arbitrio in materia religiosa, sotto il peso di tale
colpa mortale, sempre nella tradizionale e antica annichilazione
anti-umanistica. Non seguo il percorso attento, apparentemente il più
documentato, dell’ampia trattazione di Prosperi, e piuttosto torno per
informazione e per istruzione cristiana al Manuale dell’inquisitore,
pure così manipolato e ridotto, elencando dall’indice la studiatissima sequenza
dei tredici “verdetti e sentenze”, a conclusione del laborioso “proce-dimento”:
“Primo verdetto: l’assoluzione. Secondo verdetto: l’espiazione o
purgazione canonica. Terzo verdetto: la tortura. Quarto verdetto: l’abiura per
debole sospetto. Istruzione perfettamente dettagliata sulla tortura. Quinto
verdetto: abiura da forte sospetto. Modello di abiura di eresia nel caso di
forte sospetto. Sesto verdetto: abiura da sospetto violento. Settimo verdetto:
espiazione canonica e abiura. Ottavo verdetto: abiura di un eretico penitente.
Nono verdetto: il penitente relapso. Decimo verdetto: condanna di un eretico
impenitente e non relapso [cioè
recidivo]. Undicesimo verdetto: condanna di un eretico impenitente e
relapso. dodicesimo verdetto: condanna dell’eretico convinto di eresia ma non
confesso. Tredicesimo verdetto: condanna per contumacia di un eretico in fuga”.
La casistica del “peccato” mortale, si sa, e specialmente di
quello massimo di “ere-sia”, è oltremodo varia…Come ho accennato, è
completamente falso che le autorità civili avessero la guida delle operazioni
inquisitorie e penali: è vero il contrario, che il giudizio e la condanna
ecclesiastica erano preminenti e prioritari. E’ vero invece che le autorità
civili non potevano sottrarsi alle obbligazioni assunte in materia di eresia,
senza subirne esse le conseguenze anche penali, come attestano i manuali degli
inquisitori. Le autorità locali erano obbligate a concorrere all’inquisizione,
co-me si legge nel citato Manuale, devotamente curato da cattolici:
“Considerato che spetta a tutti coloro che sono nati alla vera vita con l’acqua
del battesimo, e in particolare ai signori temporali, prìncipi, nobili,
consiglieri ecc., aiutare secondo i loro poteri la Chiesa cattolica a estirpare
l’eresia, e che spetta a loro prestare giuramento quando ne vengano all’uopo
richiesti dal vescovo o dall’inquisitore, se vogliono evitare di subire le
molteplici e gravi pene che sono state previste in caso di rifiuto”.
Sempre con le buone maniere dello “spirito” e con la
“persuasione” più sorrisa, il Manuale dell’inquisitore prosegue: “In
virtù dell’autorità apostolica che noi deteniamo in questo luogo, noi chiediamo
a voi tutti nominati, vi esortiamo in virtù della santa obbedienza e, sotto le
pene previste dal diritto, vi ordiniamo di presentarvi entro itre giorni
seguenti a partire da oggi, ogni giorno valendo come un’ingiunzione,
personalmente nel luogo tale, davanti a noi, al fine di prestare giuramento con
la mano sui santi vangeli e di promettere di assistere in ogni cosa
l’inquisitore, di applicare tutte le regole canoniche contro gli eretici, i
loro difensori, i loro figli e i loro nipoti. Se non comparirete entro questo
tempo sarete scomunicati in quanto ribelli, contumaci e disobbedienti ai nostri
ordini, che sono ordini del papa. E sappiate che, se in qualsiasi modo vi
opporrete a questa pena, ve ne infliggeremo di più gravi” (pp.115-16).
E.Le Roy Ladurie ha profittato di una documentazione eccezionale
pubblicata da J.Duvernoy, del voluminoso manoscritto latino che registra gli
interrogatori di Jacques Fournier, vescovo di Pamiers dal 1317 al 1326, futuro
papa avignonese Benedetto XII, implacabile e meticoloso cacciatore di eretici
catari, nella Francia del sud di lingua e cultura occitanico. Sono
interrogatori di contadini, fatti da un uomo, un vescovo che lo storico del
College de France definisce “inquisitore diocesano di un formidabile tribunale
dell’Inquisizione” (Storia di un paese: Montaillou, 1975, tr.it. Rizzoli
1991, p.9):un tipico inquisitore medioevale, conduttore come molti altri di
“processi ossessivi, maniacali e competenti, contro i sospetti di ogni tipo”
(p.8). Si noti bene che l’Inquisizione qui registrata operava in una piccola
località sperduta sui monti, Montaillou, sita sui Pirenei a
Per la fase contro-riformistica invece vorrei citare brevemente
un altro libro, di Brian Pullan, Gli ebrei d’Europa e l’Inquisizione a
Venezia dal 1550 al 1670 (1983, tr.it. Il Veltro 1985), che mostra
dall’inizio come l’accordo d’interessi fra potere ecclesiastico e potere civile
portava a escogitare una sorta di fusione istituzionale, come appunto a
Venezia: “Per decreto del Doge e dei suoi consiglieri, il 22 aprile del 1547 la
Repubblica di Venezia si ingegnò di conferire nuovo vigore ad un’istitu-zione
antica. Tre patrizi veneziani, descritti come uomini riservati e cattolici
integri, dovevano unirsi al legato pontificio, al Patriarca di Venezia e
all’Inquisitore Francescano nella comune impresa di perseguire e punire
l’eresia” (p.17). Un organo misto dunque, motivato per la chiesa da uno scopo
specifico in una situazione particolare, “quello di garantire la supremazia
della religione cattolica in una città dove per vantaggio economico o per
ragion di stato altri credi erano tollerati” (p.19). Il passaggio dalla
tolleranza pluri-confessionale all’intolleranza cattolica, per Venezia invece
fu una risoluzione politica determinata dal fallimento dei suoi tentativi di
accordo coi monarchi e i principi europei in senso deltutto opposto, di farsi
“protettrice della religione riformata” (pp.19-20)! La “spiritualità” della
fede presiede sempre alle bassezze della politica.
Ma infine ritengo sia da abbordare l’altra letteratura, le più
serie fra le opere di denuncia, che più interessano qui, e che i libellisti
chiesastici fanno credere siano “superate”, vediamo sùbito perché. Ovviamente
trascuro le più vecchie istorie ottocentesche anche ampie, come la Storia
critica della Inquisizione in Spagna, di G.A.Llorente (1817, “compendiata
in lingua italiana” in sei volumi, ed. Pagnoni 1860), di cui si riconosce
ancora oggi l’importanza; e la Storia generale della Inquisizione di
quel singolare e famoso prete, Pietro Tamburrini (1818, ed.Sanvito
Il nostro interesse si accentra su un’opera centrale e in certo
modo unica, la cui validità resiste ancora dopo un secolo, per riconoscimento
vasto: la Storia dell’Inqui-sizione nel Medioevo dell’americano Henry
Ch.Lea, che aspparve a Londra in tre grossi volumi nel 1888, relativamente
presto tradotta in francese, edita da Picard fra il 1900-1902, ma ancora
inedita integralmente in Italia. Bocca ne ha pubblicato il vol.I (“Origine e
organizzazione”) nel 1912, solo nel 1974 ristampato da Feltrinelli, come
libro di grande formato e con testo a due colonne. Ci mancano dunque due volumi
della sua prima opera: II. “L’Inquisizione nei diversi paesi della cristianità;
III. Fasi particolari dell’attività inquisitoriale. Pure inedita è la sua Storia
della Inquisizione di Spagna, edita in quattro volumi a New York (1906-7).
Altri libri di Lea invece circolano in Italia nel secolo XX sono quello corposo
intitolato Forza e superstizione, e che è una “storia delle torture e
superstizioni legali in Europa”, tradotta in Italia per la Soc.Editrice Pontremolese
nel 1910, e riedita in rist.an. da Melita nel 1989; e Il processo ai
Templari e altri roghi, che è solo una parte del vol.III della Storia
dell’Inquisizione nel Medioevo (Celuc 1982). Da registrare che Lea,
scomparso all’inizio del 900 (1909), fu pure autore di una Storia della
confessione auricolare e dell’indulgenza, in tre volumi (1896).
Lea procede giustamente dal contesto, dalla situazione
ecclesiale nel XII secolo e suttutto dalla corruzione ecclesiastica, su cui
riporta testimonianze convincenti, trattandosi di impressionanti denunce
ecclesiastiche, a cominciare dal “grande” Bernardo: “Potete indicarmi un solo
vescovo che non vuoti le tasche delle sue greggi piuttosto che guarire dei loro
vizi?”.(cit. Lea, p.28). Ma lui incorreva in vizi più gravi d’intolleranza,
come si è visto, e viene il dubbio che questi lamenti volessero essere un alibi
autorizzante per la loro pratica inquisitoria, giacché – come è noto – molte
“eresie” popolari, e quelle riassunte nella qualificazione di “catari” espressamente,
erano realmente originate da reazioni di rivolta contro il clero simoniaco e
corrotto. Lea ne rifà qui la storia documentata, sinteticamente ma
efficacemente, marcandone proprio il carattere “anti-sacerdotale”, il loro
rifiuto della chiesa di Roma, “sinagoga di Satana” (p.49), il loro proselitismo
missionario e la loro ricerca del martirio, la loro diffusione in Europa,
specialmente nella Francia meridionale. Anche Lea riteneva che la chiesa nel
XII secolo fu inizialmente “impotente” dinanzi allo sviluppo dell’eresia catara
e, dopo il fallimento della crociata del 1181, perfino forzatamente
“tollerante”, ma in termini valutativi assai diversi da quelli apologetici di
Guiraud.
E qui vorrei fare un esempio dello sfruttamento disonesto che da
parte dei libellisti cattolici si fa di queste o simili parziali e motivate
ammissioni di Lea, come di altri storici, estraendo frasi e semifrasi dal
contesto. Se lo storico scriveva che per un po’ la chiesa impreparata fu
costretta alla moderazione, e poi organizztasi incrudelì nell’inquisizione di
cui il testo tratta, per assunzione tematica eclatante, si cita come asserto
centrale e unico il lacerto positivo decontestuato, come dichiarazione
generale: la chiesa fu tollerante e moderata. Così – ripeto – non solo i
libellisti dell’apologetica, ma anche uno storico di mestiere, sia pure devoto,
come il sorbonico Guiraud, che con i libri di Lea polemizzava ma ne sfruttava
le pieghe utili al suo “revisionismo” pseudo-storico.
Qui invece segue immediatamente un ampio capitolo su “Le
crociate albigesi”, che ebbero protagonista scatenato Innocenzo III (pp.67ss.),
al quale fa seguito “La persecuzione” inquisitoriale organizzata e continuata
(pp.107ss.). Per cui Lea però risaliva opportunamente alle origini, alla
“semplicità” dell’inquisizione dei primi secoli, alla persecuzione
istituzionalizzata nell’“impero cristiano”, da Costantino ai Teodosio, quando
“la Chiesa adotta la pena di morte contro l’eresia” (p.109). Lea pareva mettere
generalmente in rilievo come la linea politica della “spirituale” ecclesia sia
sempre stata quella di negare evangelicamente la violenza, di esibire un’antica
riluttanza e comunque grandi scrupoli morali, delegando la repressione al
“potere temporale”, mentre era e fu sempre essa (la sua gerarchia vescovile) a
determinare e a pretendere le persecuzioni anti-eretiche, a cui era
massimamente interessata, a difesa non certo del Cristo o della “Fede”, ma del
proprio potere reale.
Come si è letto nel Manuale dell’inquisitore, fu sempre
la chiesa a fare obbligo all’autorità civile, a pena di scomuniche per
coinvolgimento e complicità nella medesima eresia, e nelle “pene spaventose che
le erano annesse, in questo mondo e nell’altro” (p.118), di eseguire i suoi
verdetti di condanna (Lea pp.115ss.).Lea cita in particolare i “crudeli editti”
e decreti contro l’eresia, di Federico II accogliente obbligato. E qui bisogna
dire che, se è vero che il giovane Federico, per essere coronato dal papa
imperatore a Roma, dovette sottostare alle imposizioni papali, e quindi emise i
terribili decreti, ma Lea non diceva che essi riproducevano i canoni del
precedente concilio Laterano del 1216, voluto dal crociato Innocenzo III: con
disposizioni che risalivano addirittura ai codici imperiali di Teodosio e di
Giustiniano (v. V.La Mantia, Origini e vicende dell’Inquisizione in Sicilia,
Sellerio 1977, pp. 9ss.). Comunque è certo che così, “tacitamente o
espressamente, questi princìpi entravano a far parte del diritto pubblico
europeo” (p.106). La conseguenza storica che se ne trae è la conferma che fu
sempre la chiesa la “mente” divina e sovrana di quel “brac-cio” secolare così
profano e così utile ai suoi scopi, come dimostrano le insistenti obbligazioni,
così imperative, e le severe ritorsioni minacciate fino nel diritto canonico.
E’ dunque confermato quanto sia falso che la chiesa operava
normalmente per richiesta sollecitante dei regnanti o delle autorità “civili”,
come è falso che le procedure dell’Inquisizione ecclesiastica siano state
“ispirate” e istigate dai tribunali statali. Ripeto, al contrario ebbe sempre
la chiesa (i suoi vescovi) l’iniziativa “spirituale”, in una materia di sua
competenza specifica esclusiva, e fu semmai l’organizzazione ecclesiastica
dell’Inquisizione a fornire modelli repressivi anche alle amministrazioni della
giustizia nelle monarchie europee. “Di tutti i flagelli che l’Inquisizione
riuscì a scatenare o si trasse dietro al suo carro trionfale, questo fu forse
il peggiore; nella maggior parte dell’Europa, incominciando dagli inizi
dell’Inquisizione e scendendo sino alla fine del secolo XVIII, la procedura
inquisitoriale, sviluppatasi allo scopo di distruggere l’eresia, divenne il
metodo ordinario di cui le autorità civili si servivano di fronte ad ogni
genere di accusati”(p.300).
Col senso dell’eterno così peculiare della chiesa cattolica, la
persecuzione ecclesiastica fu estesa finanche ai defunti (pp.119ss.). Da qui in
avanti, per oltre la metà del grosso volume, Lea descriveva la fondazione e
l’organizzazione e le fasi procedurali (la prova, la difesa, la sentenza, la
confisca, il rogo), che sarebbe assai interessante rievocare tecnicamente, se
non eccedesse i nostri temi storico-religiosi generali. Mi limito a ribadire, a
proposito delle condanne alla confisca dei beni e al rogo, che la sconfinata
ipocrisia rituale della chiesa e delle sue gerarchie, deltutto consentanea a un
sistema di rappresentazione scenica, aduso all’impostura, alla falsificazione,
al mendacio e alla finzione “affindibene”, prevedeva la recita del ruolo
tragico-farsesco della “estraneità” alla violenza. Questo, dopo avere
pronunciato essa la condanna, e pretendendone minacciosamente la più rigorosa e
sollecita applicazione, dal potere civile degradato a “braccio secolare”
(pp.287ss.): mentre cioè esercitava, appellandosi allo “Spirito”, la violenza
autoritaria d’imporre la sua “ortodossia”.
“Abbiamo già visto come la Chiesa fosse responsabile della
legislazione feroce che puniva l’eresia con la pena di morte, e come
intervenisse con atti d’autorità, per annullare ogni legge civile che potesse
opporre ostacolo all’applicazione pronta ed efficace della pena. Così
pretendeva anche delle misure assai severe contro quei magistrati che le
sembrava dessero prova di tiepidezza e di trascuratezza nell’esecuzione delle
sentenze emanate dall’Inquisizione. Secondo la credenza unanime del tempo,
[inculcata dal clero], la Chiesa agendo in tal modo non faceva altro che
compiere i suoi doveri più elevati e più evidenti. Bonifacio VIII, quando
incorporò nel diritto canonico il provvedimento col quale si ingiungeva alle
autorità civili, sotto pena di scomunica, di punire prontamente e giustamente
tutti coloro che venissero consegnati dagli inquisitori, non faceva che
formulare una pratica allora universale” (p.288).
In questo senso, anche per ciò che riguarda la fase più tarda
dell’Inquisizione contro-riformistica “romana”, che comprese l’orrenda caccia
alle streghe, e di cui oggi storici e libellisti cattolici si affannano a
precisare e descrivere la parvente “modera-zione”, nonché la regolistica
osservanza delle procedure che essa stessa si è data, in realtà tutto resta
nella tradizione, coi “perfezionamenti” apportati nel tempo. Specialmente nella
fondamentale tattica e tecnica dell’interrogatorio, per ottenere comunque la
voluta “confessione spontanea”, assistita dal “Santo Spirito” come era
impossibile negli ordinari procedimenti polizieschi. Si deve ora fare conto e
si può fare confronto con un’altra recente opera italiana, del giudice Romano
Canosa, Storia dell’Inquisizione in Italia (“dalla metà del cinquecento
alla fine del settecento”), in cinque volumi (Sapere 2000, 1986-90), che ha
sfruttato archivi – quando resi accessibili – di Modena (vol.I), Venezia
(vol.II), Torino e Genova (vol.III), Milano e Firenze (vol.IV), Napoli e
Bologna (vol.V). Canosa è pure autore di una Storia del-l’Inquisizione
spagnola in Italia (Sapere 2000, 1992), necessariamente limitata ai
tribunali di Sicilia e Sardegna.
Quella complessivamente ri-evocata in questi volumi, su una
documentazione aggiornata, da un giudice di mestiere (che vive e opera a
Milano, autore di altre opere storiche, con predilezione cinque-seicentesca),
competente in materia processuale, è appunto la storia della cosiddetta e falsa
“Inquisizione moderna” (“contro il ‘vomito’ luterano”!), che si è modellata su
quella esemplare spagnola, allestita a metà del cinquecento, centralizzata e
gestita a Roma dal sempre “Santo Uffizio” cardinalizio, che vi era preposto con
attiva partecipazione papale. Organizzazione “romana” che ebbe la più lunga
durata fino a tutto il settecento: Canosa, laico ponderato, lo chiama
“tribunale della fede”, e lo studia e descrive tecnicamente come un qualunque
tribunale d’epoca, da cui proceduralmente non differiva molto, solo che
criminalizzava le “coscienze”! Lo storico contribuisce scientemente alla
“revisione” normalizzante, confermando che gli inquisitori non erano “mostri”,
erano “uomini” (in tonaca) più o meno come tutti i giudici anche “moderni”, con
tutte le accortezze, le astuzie, le crudeltà mentali, le nevrosi di tutti i
giudici. Ma il fatto è che l’organizzazione al cui interno e al cui servizio
operavano, esercitava di fatto, esercitò per secoli, un “con-trollo minuzioso
sulle coscienze”, “tutto subordinando alla corrispondenza fra pensiero
individuale e imperativi dell’ortodossia religiosa ufficiale” (Storia
dell’Inquisi-zione spagnola in Italia, p.293). Tutto qui.
Anche Canosa, che pure ostenta di volersi porre aldiquà dei
giustificati “eccessi” di scandalo dei laici otto-novecenteschi, non può quindi
che confermare, in linea generale, quanto era già noto. La conclusione sulla
inquisizione contro-riformistica, “equilibrata”, “realistica” ecc., sotto un
certo profilo è perfino più cupa, per l’analo-gia diretta con i regimi
totalitari, che Canosa non osa proporre, ma che si desume dalla sua
caratterizzazione “ideologica” e strutturale. Per Canosa, “l’Inquisizione
‘romana’, dal momento della sua istituzione sino alla fine del Settecento, ebbe
tutte le caratteristiche di una ‘polizia’ ideologica al servizio della Chiesa”.
E prosegue: “Essa si vide affidati compiti non dissimili da quelli che negli
stati sono di solito assegnati alla polizia ‘politica’, vale a dire a quella
particolare branca della polizia che si occupa di vigilare sulla sicurezza
dello stato e dei fondamenti primari del suo ordinamento. Sotto questo aspetto
essa anticipò addirittura gli stati, i quali arrivarono ad istituire e a
‘razionalizzare’ la loro polizia politica soltanto molto più tardi (la più
antica di queste, quella veneziana degli Inquisitori di Stato, vide infatti la
luce soltanto alla fine del Cinquecento). Come la polizia politica ‘laica’ fu
chiamata a vegliare sulle basi essenziali dello stato, così quella
ecclesiastica fu chiamata ad operare affinché non fossero da nessuno negati i princìpi
essenziali sui quali si fondava la religione cattolica romana, princìpi di
vario tipo e natura, ma tutti caratterizzati, agli occhi di Roma, dalla loro
indispensabilità per la conservazione della Chiesa” (vol.V, pp.257-58).
Ma in questa parificazione insistita è in grave errore, poiché
non rileva che quella qui largamente descritta come “Inquisizione” romana non
aveva affatto i caratteri ordinari di una moderna polizia di stato, preposta
alla tutela dell’ordine pubblico e alla repressione della criminalità comune, o
sia pure dei tentativi di “sovversione” sociale. L’Inquisizione ecclesiastica
ebbe sempre fino all’ultimo suo rantolo, con la sua ossessiva penalizzazione
del “libero pensiero”, e la pretesa paranoica della “ortodossia” cattolica, i
caratteri spiccati degli ordinamenti detti “totalitari”, i soli in cui i reati
di opinione sono criminalizzati. Quella cattolica infatti è stata letteralmente
una super-dittatura, e non solo “spirituale” ma appunto poliziesca, tanto più
bieca e ripugnante perché la sua coazione investiva le “coscienze” e il destino
dell’uomo, tanto più criminale perché la sua violenza istituzionale fu
esercitata da altri uomini organizzati (da altri cristiani) contro le
fondamentali libertà dell’uomo, non per la sua mistificata “salvezza”
(oltremondana), ma per la sua schiavitù attuale e reale, a difesa politica di
enormi concreti poteri auto-attribuiti come sovraumani per antica rapina.
Uno dei capitoli principali relativi all’attività
dell’Inquisizione medioevale e “mo-derna” concerne gli ebrei, soggetti a
trattamenti differenziati in Spagna e in Italia, e anche qui diversificati
secondo condizioni e situazioni diverse, in una casistica com-plicata. Fra la
immensa letteratura contemporanea, storica e pseudo-storica, pubblicistica e
propagandistica, veramente fluviale, sull’ebraismo e sulla storia ebraica,
sull’ultimo genocidio e sull’antisemitismo in Europa e nei vari paesi europei,
in URSS ecc., prodotta generalmente da ebrei, mi soffermo su un recente libro
contenente gli atti di un congresso tenuto a Livorno, promosso dalla comunità
ebraica, sul tema L’Inquisizione e gli ebrei in Italia (Laterza 1994). A
cura dello storico Michele Luzzati, raccoglie il frutto di ricerche storiche
interessanti di numerosi altri storici, prevalentemente ma non solo italiani.
E’ però proprio Luzzati, nelle sue scarne pagine introduttive, a fornire uno
schizzo significativo sulla situazione degli ebrei in Italia e sulla
persecuzione variegata che subirono, nelle prassi procedurali dei tribunali
ecclesiastici, in Spagna e in Portogallo e nei domìni spagnoli in Italia
(Sicilia e Sardegna), quindi comparativamente negli altri stati italiani.
Occorre però rammentare prima la “peste nera” del 1348,
descritta nel Decameron, che falcidiò le popolazioni europee, in quello
che Poliakov ha chiamato “Il secolo del diavolo” (Storia dell’antisemitismo,
tr.cit., vol.I, pp.116ss.): evento di cui furono accusati per “voce popolare” i
giudei, senza considerare che anche gli ebrei morivano di peste come i
cristiani. Lo ricordo perché bisogna mettere sempre nel quadro della storia
ebraica i fomentati pregiudizi e l’odio sovreccitato (ovviamente dal clero), in
tutta la storia del cristianesimo post-imperiale, diciamo da Costantino e
oltre. Per Poliakov il 1348 è paragonabile, per le stragi di ebrei (con
elezione speciale in Germania), al 1096 anno della prima crociata: infatti “le
ripercussioni dell’epidemia furono di due specie: effetti immediati,
consistenti nella decimazione degli ebrei in Europa, ed effetti remoti, cioè la
compiuta maturazione dello specifico fenomeno rappresentato dall’antisemitismo
cristiano” (p.117). La “peste nera” è l’evento da cui partono alcune
sintesi odierne sugli Ebrei in Europa, come quella recente di Anna Foa
(Laterza 1992, 2^ 1999).
Luzzati dunque, parla anzitutto di una “secolare ambivalenza
della Chiesa nei confronti degli ebrei”, ma comunque di un “soffocamento della
libertà della cultura nel-l’età della Controriforma”, quasi fosse solo
episodica o epocale e non millenaria, per egemonia strutturale ecclesiastica.
In ogni caso definisce con moderazione l’attività inquisitoria come “l’azione
della Chiesa indirizzata sia a contenere l’espansione degli insediamenti
ebraici (istituzione dei ghetti, limitazioni professionali, pressioni conversionistiche
ecc.), sia ad impedire il ritorno all’ebraismo dei convertiti e ad evitare il
diffondersi fra i cristiani di pratiche e di idee religiose di impronta
ebraica”(p.IX). Sono precisamente i temi centrali di questi studi, che
moltiplicano le Inquisizioni come istituzioni diverse, in rapporto appunto al
“diverso atteggiarsi dei tribunali e degli inquisitori nei diversi stati”.
Interessa sapere che anche in Spagna l’ebreo non era giuridicamente
perseguibile come tale, lo erano i veri e falsi convertiti (conversos),
i cosiddetti “marrani”, i cristiani giudaizzanti, insomma le “multifor-me
movenze di un giudaismo dai contorni assai sfumati, idee e sentimenti giudaici
e adesioni, spesso soltanto di vaga ispirazione ebraica, al deismo e
all’agnosticismo” (p.X).
Perché gli ebrei sparsi largamente nella diaspora millenaria
avevano a loro volta atteggiamenti di gruppo e individuali assai diversi, e
spesso dissimulati per condizionamento ambientale o coazione, come tanti
cristiani delresto, obbligando a distinzioni e sofisticazioni o finzioni
giuridiche gli inquisitori ostinati a perseguire le minoranze. Si aggiunga la
rete d’interessi socio-economici, in cui gli ebrei in genere erano attivamente
inseriti, pure a livelli professionali responsabili, per es. medici, detentori
o di capitalizzazioni e redditi cospicui, socialmente e politicamente utili,
che producevano relazioni di solidarietà e protezioni, anche ecclesiastiche,
complicando le sante azioni inquisitorie a difesa della “fede”. In breve si
verificavano paradossi spesso drammatici se non tragici, per cui in linea di
principio la chiesa cattolica riconosceva “il diritto alla sopravvivenza del
popolo ebraico e la conseguente possibile ammissibilità degli ebrei, pure in
condizioni di inferiorità, in un contesto cristiano” (ivi).
In pratica però nel Medioevo e oltre, la gerarchia pontificia
pretese di esercitare, mediante i suoi tribunali gestiti da domenicani e
francescani, un controllo generale sull’ebraismo, sempre per garantire la
sicurezza alla religione unica e vera, cioè alla grande chiesa davvero unica e
purtroppo vera. Insomma erano perseguiti i cristiani giudaizzanti (ex giudei),
convertiti ecc., sospettati di “credere” ancora in tutto o in parte nella
blasfema Legge giudaica senon di praticarne i riti, di possedere e leggere il
Talmud anziché bruciarlo, di avere riserve critiche nei confronti del
cristianesimo e della sua chiesa. Come si è visto infatti, i quasi vantati
“tribunali di coscienza” (an-che qui figura un capitolo di A.Prosperi sul
“Santo Uffizio”) pretendevano di penetrare con ogni mezzo, con la
“persuasione”, coi tranelli dialettici, con la tortura, nella mente dei
malcapitati, di accertare frugando nelle “coscienze” la sincerità e solidità e
costanza delle conversioni “spontanee” ecc.: si scomunicarono così anche degli
ebrei conversi, specialmente nei paesi in cui gli ebrei furono espulsi
(Spagna e Portogallo, poi Sardegna e Sicilia, “dove era concentrata quasi la
metà di tutti gli ebrei italiani”, p.XII), e non pochi ebrei si “convertirono”
(o finsero) per restare nella loro nuova patria. “L’attenzione delle
Inquisizioni moderne si rivolse principalmente a coloro che, considerati dalla
Chiesa usciti dall’ebraismo a seguito del battesimo, per lo più forzato, erano
sospettati di continuare in qualche modo ad aderirvi” (p.XI).
La pure succinta rassegna casistica di Luzzati, coi suoi vari
distinguo politico-geo-grafici e procedurali, concorre a formare un quadro
terrificante della “cristianità” capillarmente inquisitoria dei tribunali
ecclesiastici del sospetto, in questi secoli in cui pure gli ebrei dichiarati e
professanti erano altamente sospetti di favoreggiamento di eretici, e di
sollecitazione dei conversi al ritorno all’ebraismo. Gli ebrei furono
apparentemente cancellati come tali nella penisola iberica, nelle isole e
nel-l’Italia del sud, con una persecuzione “atroce e spietata”. Canosa riporta
”, dal libro citato di La Mantia, con nomi e cognomi perlopiù di “neofiti
giudaizzanti, che tra il 1511-
Si conferma che l’Inquisizione romana, operante nel centro-nord
Italia, ebbe un “atteggiamento” e direi piuttosto una condotta procedurale più
politicamente “mode-rata”, ma è proprio qui che la casistica inquisitoriale si
complica, e l’indagine di “co-scienza” si fa più insidiosa, pressante e subdola
nei confronti anche degli ebrei come tali, specialmente i transfughi
provenienti dal sud, isolati nei ghetti e investiti col solito autoritarismo e
anacronismo storico contro-riformistico di anti-cristianesimo e di influenze
religiose nocive sui limpidi cristiani cattolici rinascimentali. Il mondo ebraico
– ironizza concludendo Luzzati, e concordiamo – “diveniva così per
l’Inqui-sizione, nell’Italia centro-settentrionale dell’era moderna, un
irrisolto e irrisolvibile rompicapo”; ma è benpiù generalmente vero che “le
idre inquisitoriali, con le loro molte teste, certo di variabile ma
imprevedibile pericolosità, pesavano in modo angoscioso sugli ebrei, e non solo
sugli ebrei, per il solo fatto di esistere” (p.XV).
Un accenno veloce a una sintesi recentissima della coppia
Baigent-Leigh su L’Inqui-sizione (tr.it. Tropea 2000) non aggiunge
niente di essenziale senon raccogliere e riesporre i dati noti, con un
coinvolgimento forse più largo nei controlli e nelle indagini inquisitorie
della chiesa irriducibilmente poliziesca. Che colpiva ugualmente mistici come
Eckhart o Giovanni della Croce, il “Nuovo Mondo”, a Città del Messico, a Lima,
a Nuova Granada, la massoneria (Coustos, Cagliostro, Casanova), nelle sue
persecuzioni espansive fino ai… “rotoli del Mar Morto”, mediante il famigerato”
Istituto Biblico” diretto da padre De Vaux, di cui si è detto sopra. Fra
molto altro, i due autori evocano la presenza del “Sant’Uffizio” nel
Ne riferisco solo per ciò che trapela della solerte attività
inquisitoria resistente in questi “sacri” organi vaticani. Canosa scrive
corrivamente che l’Inquisizione è solo un aspetto della chiesa: no,
l’Inquisizione rappresenta storicamente, giuridicamente, istituzionalmente la
monarchia ecclesiastica cattolica, in totale coerenza ideologica,
etico-religiosa e politica. Se qualcuno ha detto, come riferiva Lea, che è
“un’inven-zione del demonio”, si deve correggere riaffermando che la “Santa
Inquisizione” fu un’invenzione e una pratica umana, come tutte le “sante”
invenzioni, le “sacre” falsificazioni e le violenze bimillenarie della potente
chiesa costruita sulla memoria abusiva del povero Cristo crocifisso.
Ma infine, come denuncia attualizzata, in certi limiti clamorosa
nel più tardo 900, si è obbligati a rifarsi alla cospicua Storia
dell’intolleranza in Europa, del giurista Italo Mereu (Mondadori 1979, 3^
Bompiani 1995, il cui titolo è piuttosto abusivo o, se si vuole, estensivamente
polemico, nel suo stesso assumere come modello storico dei sistemi giudiziari
non solo italiani ma europei moderni, proprio quello inquisitoriale cattolico.
Che è descritto e discusso e denunciato lungamente, appunto perché sarebbe il
modello anti-giuridico di “violenza legale”, di inquisizione poliziesca, comune
agli attuali ordinamenti europei, escluso quello inglese, e in particolare a
quello italiano per antica eredità “cattolica”. Il modello è quello noto,
basato sui princìpi anti-giuridici del “sospetto” e dell’inquisizione
obbligata: “Il sospetto dell’autorità come presunzione di colpevolezza”, “Il
sospetto come l’istituzione del ricatto legale”, “Il sospetto come instrumentum
regni” ecc., in realtà non illegittimi dipersé.
Occorre tenere conto delle ragioni contingenti di questa
denuncia, negli “anni di piombo” della vita pubblica italiana, del terrorismo
programmato con la complicità di organi dello stato, della legislazione di
emergenza ecc. Ma Mereu appartiene a quelle aree “liberali” che hanno promosso
e ottenuto la riforma in senso “garantista” del codice penale italiano. non si
direbbe con risultati funzionali lusinghieri per l’amministrazione della
giustizia in Italia, enormemente favoritiva nei confronti del sospetto “reo”.
Si potrebbe aggiungere che il “garantismo” in Italia ha avuto come “padri”
anche giuristi “umanitari” cattolici, ma in genere è promosso dall’interesse
concreto dei “difensori” professionali, l’esercito più o meno agguerrito degli
“avvo-cati”, a cui la preminenza dell’interesse pubblico è generalmente
estranea.
Ma tralasciando questi temi di attualità, in cui è difficile non
essere coinvolti, resta il dato storico non rimovibile che il “metodo
inquisitorio”, fondato sul “sospetto” istituzionale, ha caratterizzato lungamente
la pratica poliziesca anche degli “stati” europei e dello “stato unitario” in
Italia, con tutte le sue storture e violenze: la “purga” canonica, le
“confessioni” e le “abiure” imposte, cioè estorte comunque, la tortura, la
crescita del sospetto e delle pene per i contumaci e per i recidivi presunti
ecc. E tutto questo è l’eredità etico-giuridica dell’assunzione ecclesiastica,
prioritaria e pre-minente, “egemonica” per oltre un millennio, di una
“superiore” giustizia a difesa esclusiva della “fede” cristiana, cioè della
pretesa “religione unica e vera”, e dei “sacri” poteri di una “chiesa”
centralizzata con ambizioni “universali”, che la rappresenta e la gestisce da
secoli innumerevoli, tentando d’imporla con ogni mezzo nel “civile” mondo
occidentale.
Quello che ritengo affrettato, pubblicistico non
storico-giuridico, superficiale e indimostrato e perciò inaccettabile, è
l’equiparazione in “copia” (“Il modello e le copie”), nell’ultimo capitolo, a
queste prassi e strutture inquisitoriali ecclesiastiche, di quelle reali
(pubbliche) degli stati europei anche “liberal-democratici”. Tanto da potere
addirittura premettere, senza il minimo confronto probante, l’alibi cattolico
circa la “moderazione” ecclesiastica, rispetto alle “copie” degli ordinamenti statali,
nel quadro complessivo di una “civiltà inquisitoria” del sospetto e
dell’intolleranza, un “medioevo giuridico” perdurante nei sistemi giuridici
dell’intero Occidente. Tranne smentirsi lui stesso, dimostrando con un’ampia
documentazione in appendice – parole sue –, “l’inconsistenza dell’affermazione
sulla ‘mitezza’ dell’Inquisi-zione ‘riformata” (p.IX).
Ma ancora una volta la confusione lascia indistinte, nelle
prassi violente, il fondamentale divario di motivazioni della “fede” religiosa,
del “libero aribitrio”, della “coscienza” interiore, e quelle
ideologico-politiche inerenti all’“ordine sociale” nel governo autonomo degli
stati moderni. Trovo assurdo che un giurista come Mereu confonda, nella comune
e generica formula machiavellica (e nella pratica più antica) del “sospetto”
anche legittimo, se corroborato dalla ricerca della “prova”, normative e
istituti giuridici ottocenteschi assimilabili, ma strutturalmente e
ideologicamente assai diversi. E’ assurdo che si metta sullo stesso piano
etico-giuridico l’eresia colpita dall’inquisizione cattolica, e il sospetto
poliziesco di possibili reati, generico o solo ipotetico nell’Italia unita, nei
confronti di “vagabondi”, di “oziosi”, di “disoc-cupati”, di contadini o di
operai, pure “schedati” per “misure di prevenzione”, cioè di “pubblica
sicurezza”, per reati comuni bene o male intesi.
Cosa c’entra questo, che concerne il governo ordinario
(“civile”) degli stati, sia pure a difesa della “proprietà”, dell’“unità” del
paese o dell’”ordine” sociale ecc., col dissenso ideologico consistente
nell’esercizio del “libero pensiero”, con l’eterodossia rispetto a una rigida
“ortodossia” dogmatica in materia religiosa, difesa da un’au-torità sacra
dotatasi di poteri umani e sovrumani, che solo strumentalmente poteva assumere
motivazioni fuorvianti di “ordine pubblico”?. Quale confronto può reggere una
ordinaria e sia pure rugginosa o addirittura antiquata legislazione
anti-crimi-nale (oggi poi che gli stati affrontano non gli “oziosi”, ma la
criminalità e un terrorismo organizzati a livello internazionale), col
terrorismo magistrale esercitato storicamente dal sacro potere ecclesiale, dal
suo poderoso sistema inquisitoriale?
Ripeto, l’analogia o omologia dirette possono porsi solo col
dissenso politico nei regimi totalitari, in cui l’ideologia politica si fa
dogmatica, esigendo l’esercizio violento di una autorità assoluta, incarnata da
dittatori crudeli ecc., che governa non solo la società ma la vita intera
dell’individuo, che ne dispone e indirizza dispoticamente il pensiero, inibendo
ogni manifestazione di opinione autonoma. E’ proprio in tale analogia e
omologia ideo-strutturale, che la denuncia circostanziata di Mereu non attenua
ma enfatizza un metodo e un modello aberranti di oppressione repressiva
dell’uomo, che ha improntato la “civiltà cattolica” e si proietta ancora
nell’oggi, come ombra di un “medioevo” perenne (sui poteri selvaggi e
sull’ampia casistica delle torture fisiche e morali, durante le lunghe
permanenze nelle buie e fetide prigioni ecclesiastiche, è sempre utile rifarsi
al capitolo 10, “La Santa Inquisizione”, della Storia della tortura di
G.Riley Scott, 1940, tr.it. Mondadori 1999).
Quanto segue e' l'introduzione scritta da Valerio Evangelisti al
volume "il manuale dell'inquisitore" di Nicolas Eymerich a cura del
Prof. Louis Sala-Molins editore Fanucci, viene riproposto per
diffondere conoscenza e verità, e come omaggio personale a Valerio Evangelisti
ed al Prof. Sala-Molins.
Valerio Evangelisti e' sicuramente l'autore italiano piu'
acclamato del momento, forse di tutti i momenti che la fantascienza italiana
abbia mai vissuto, autore della mirabile saga di Eymerich, e della saga della
vita di Michel de Nostredame, e' anche autorevole autore di innumerevoli saggi
storici.
Il fatto di essere stato scelto per presentare Louis Sala-Molins
al pubblico italiano costituisce per me motivo di orgoglio e di piacere. Per
almeno tre motivi. Il primo è che devo ai suoi libri – primo tra tutti questo Directorium
Inquisitorum, da lui riscoperto e offerto agli studiosi in una versione che
ha fatto testo – l’incontro col terribile domenicano Nicolau (Nicolás in
castigliano, Nicolas in francese) Eymerich, che poi ho fatto oggetto di una
serie di romanzi apprezzati dal pubblico.
Il secondo motivo è apparentemente meno personale. Proprio per questa mia
gratitudine, non mi davo pace del fatto che, dopo l’edizione francese e
spagnola del Directorium, citata da legioni di studiosi di tutto il
mondo, proprio in Italia il lavoro di Sala-Molins fosse diventato oggetto di un
atto vergognoso di pirateria editoriale, attuato da chi si illudeva che
l’Europa avesse ancora le frontiere rigide di un tempo. Ma di ciò rende conto
lo stesso Sala-Molins nella breve nota che precede la sua introduzione al
testo. Da parte mia, posso solo dirmi rammaricato che un episodio tanto
squallido abbia avuto luogo in questo paese.
Il terzo motivo riguarda la personalità stessa del professor Sala-Molins,
luminosa come poche. Catalano, nato alla vigilia della guerra civile spagnola,
trascorre l’adolescenza sotto la cappa opprimente del franchismo. Insofferente
di quel clima bigotto e reazionario, a 19 anni prende a vagabondare per
l’Europa. Si reca in Germania, in Italia, in Francia, dove metterà radici. Sono
viaggi di studio. Si accosta alla storia, soprattutto medioevale, alla
filosofia, alle scienze politiche.
Sulle prime si dedica al pensiero di un suo illustre conterraneo, Raimondo
Lullo, poi passa a occuparsi del funzionamento dell’Inquisizione. Ciò lo spinge
a condurre ricerche sui rapporti aberranti tra filosofia e teologia (ai suoi
occhi spesso coincidenti) da una parte, e tra il diritto e la nozione di
giustizia dall’altra. Gli è naturale imbattersi, lungo questa strada, nelle
moderne codificazioni della schiavitù e della tratta dei neri, scandalosamente
tollerate o appoggiate dagli Illuministi.
A tutti questi temi dedica una serie di studi. Circa l’Inquisizione pubblica,
dopo la propria versione del Directorium di Eymerich con le note di Fernando
Peña (Le Manuel des Inquisiteurs, Mouton, Parigi, 1974), il Repertorium
Inquisitorum, un prontuario a uso del Santo Uffizio compilato nel 1494 da
un anonimo domenicano di Valenza (Le Dictionnaire des Inquisiteurs,
Galilée, Parigi, 1981). Scrive la prefazione alla riedizione francese di
un’opera classica di H. Ch. Lea (Histoire de l’Inquisition au Moyen Age,
Millon, Grenoble, 1986 e 1997) e vi inserisce in appendice la propria
traduzione di un altro testo di Eymerich, il Tractatus brevis super
iurisdictione inquisitorum contra infideles fidem catholicam agitantes.
Mi limiterò a citare solo i titoli e le date dei testi di Louis Sala-Molins
riguardanti le sue altre sfere di interesse: La philosophie de l’amour chez
Raymond Lulle (1974), La loi, de quel droit? (1977), Amérique Latine: philosophie de
la conquête (1977), Sodome. Exargue à la philosophie du droit
(1991), L’Afrique aux Amériques. Le Code noir espagnol (1992), Les
misères des Lumières. Sous la raison l’outrage (1992) ; Le Code noir, ou
le calvaire de Canaan (1998).
Sala-Molins viene chiamato a insegnare alla
Sorbona, e succede nella cattedra al grande filosofo Vladimir Jankélévic, di
cui era stato allievo, assistente e grande amico, e col quale si era laureato.
Alcuni anni dopo passa all’università di Tolosa, per essere più vicino alla
propria Catalogna natale, e anche per continuare un’antica battaglia contro la
monarchia spagnola.
Mi fermo qui, ma questo è l’uomo che qualcuno, in Italia, ha cercato di
derubare. Confidando in un’incomunicabilità culturale tra nazioni che, grazie
al cielo, non esiste più.
Ciò che dirò ora mi imbarazza un poco. Non è naturale che un
romanziere molto marginale sollevi critiche su storici di professione. Il fatto
è che il mio lavoro, e il tema della mia narrativa, mi inducono a leggere tutto
quanto riesco a reperire sull’Inquisizione. Non essendo un lettore imbecille, è
ovvio che io mi formi un giudizio.
Bene, eccolo. In quel campo di studi sta avvenendo un fenomeno curioso e, per
molti versi, inquietante. Quasi tutte le ricerche sull’Inquisizione che escono
oggi oscillano tra la riabilitazione e l’apologia dichiarata del Santo Uffizio.
Quasi tutte si aprono con la solenne dichiarazione che la “leggenda nera”
dell’Inquisizione è definitivamente sfatata. Seguono le argomentazioni, che
provo a sintetizzare: le vittime degli inquisitori furono meno numerose di
quanto si è finora creduto; l’Inquisizione era molto meno crudele della coeva
giustizia civile, e offriva all’imputato maggiori garanzie; i sovrani
perseguitavano gli eretici o le cosiddette streghe con severità maggiore di
quella dispiegata dal Santo Uffizio; i manuali procedurali restavano per lo più
lettera morta; gli inquisitori erano gente dabbene, sinceramente preoccupata
della conversione degli imputati; il ricorso alla tortura era occasionale, e
riguardava solo adulti maschi in buone condizioni fisiche; e così via.
Elencare gli autori che sostengono queste posizioni – l’una, l’altra o tutte -
sarebbe lunghissimo: Tedeschi, Monter, Benassar, Henningsen, Prosperi, Kamen,
Dedieu, Cardini, ecc., fino a una serie di pamphlettisti che, in Italia o in
Spagna, traducono la stessa visione in scritti divulgativi di chiara matrice
cattolico-integralista (1) e, talora, persino di tono antisemita.
Alcuni autori, come Henry Kamen, parlano apertamente di “revisione storica” (2), agganciandosi alle correnti che, un po’ in
tutto il mondo, muovono all’attacco della Rivoluzione francese,
dell’antifascismo italiano ed europeo, della Spagna repubblicana ecc:; in poche
parole, di ogni evento storico che abbia visto manifestarsi idee più o meno
egualitarie. Altri, o perché più intelligenti, o perché più cauti, evitano di
adottare il termine “revisionismo”, ben sapendo le insidie che nasconde. E
l’insidia è una soprattutto: quella del “negazionismo”. Termine applicato a
chi, per motivi squisitamente ideologici, nega, basandosi su una congerie di
dettagli, che il nazismo si sia mai proposto l’eliminazione in massa degli
ebrei (3).
Naturalmente mi guardo bene dall’assimilare studiosi di tutto rispetto e di
assoluta serietà, come quelli che ho citato, alla melma dei Faurisson, dei
Rassinier e degli Irving. Eppure l’operazione che i primi conducono presenta a
volte talune pericolose analogie, che rischiano di condurre a risultati
perversi. Lo si è visto in occasione della recente ricorrenza del
quattrocentesimo anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno. Qualche
storico di valore non ha esitato a dire che in fondo Bruno non era altro che
uno stregone, bruciato per via della sua testardaggine. Se si fosse pentito, si
sarebbe risparmiato una fine tanto crudele, e avrebbe risparmiato ai suoi
aguzzini il dolore per la sua sorte. Argomentazione, mi sia consentito dirlo,
che lascia senza fiato.
Ma procediamo con ordine. Quasi nessuno dei “revisionisti” odierni tenta di
mettere mano a una storia complessiva dell’Inquisizione. La base sono ricerche
locali e circoscritte sul piano temporale. Invece, il bersaglio sono due opere
che hanno il carattere della generalità: la già menzionata History of the
Inquisition in the Middle-Age e la History of the Inquisition of Spain
di Henry-Charles Lea (non viene più presa in considerazione l’antica bestia
nera, la Historia critica de la Inquisición en España di Juan Antonio
Llorente, che già Lea si era incaricato di emendare). Un’obiezione ricorrente
mossa a Lea è quanto meno bizzarra. Il grande storico statunitense non avrebbe
condotto tutte le proprie ricerche in prima persona, ma avrebbe sguinzagliato
per la Spagna e per l’Europa un manipolo di aiutanti. La bizzarria dell’accusa
sta nel fatto che la maggior parte degli accademici che ho citato ha seguito lo
stesso metodo, peraltro conforme alle modalità attuali della ricerca
universitaria. Semmai, avrebbero dovuto riconoscere a Lea la palma della
modernità.
Vediamo ora gli elementi che mi inducono a ravvicinare, sia pure con cautela,
la riscrittura in corso della storia dell’Inquisizione ai risvolti più
spiacevoli del “revisionismo”:
1) La conta arbitraria delle vittime. La storiografia detta
“quantitativa” ha molte responsabilità in questo misfatto, se così vogliamo
chiamarlo. L’Inquisizione ha avuto periodi di virulenza e altri di quiete, in
cui ha quasi cessato di esistere. Basta scegliere un lasso temporale abbastanza
lungo per dimostrare che i condannati furono una percentuale esigua dei
processati. Fissati i primi in un 1-1,5% si potrà dire che il Santo Uffizio era
portato all’indulgenza.
E’ un geniale ma palese travisamento. Cercherò di dimostrarlo. Prendiamo una
pagina dell’introduzione di un’autorità nel campo, Franco Cardini, alla
riedizione del Manuale dell’inquisitore di Bernard Gui (4). Il noto medievalista snocciola dati
raccolti da varie ricerche, per accreditare la tesi secondo la quale la
repressione dei tribunali ecclesiastici “fu meno pesante in essi che non in
quelli laici”. Tra la successione delle cifre, tutte parziali e riferite a
periodi circoscritti (o addirittura a organi estranei al Santo Uffizio, come la
cosiddetta “Inquisizione veneziana”), ma idonee a colpire il lettore, l’ultima
sembra particolarmente eloquente: “In Sicilia si tennero 2.000 processi tra il
1537 e il 1618, ma i condannati a morte furono
Però – caso rarissimo – dell’Inquisizione siciliana (appendice di quella
spagnola) ci sono giunti quasi integralmente i registri delle condanne riferiti
al periodo che va dal 1487 al 1732 (6) . Conosciamo i nomi dei condannati, la
colpa loro attribuita (si trattava nella maggior parte dei casi di neofiti,
cioè di ebrei sospettati di praticare la religione di origine, malgrado la
conversione forzata al cristianesimo) e i dettagli dell’esecuzione, talora in
effigie, talaltra sul rogo.
Bene, è facilissimo notare che, dal
Insomma, basta prendere a riferimento l’anno giusto per dimostrare ciò che si
vuole. Ma ha un senso un’operazione contabile del genere? Le persone citate
erano uomini e donne in carne e ossa, bruciati vivi, dopo una serie
interminabile di umiliazioni e di tormenti, perché erano o erano stati ebrei.
Però questo dato di fatto, alla storiografia “quantitativa”, sembra importare
poco o nulla. L’importante è sfatare la “leggenda nera”.
2) La disomogeneità di tempo e di luogo. Questo elemento era già emerso
nell’argomentazione precedente, ma qui mi riferisco a qualcosa di diverso. I
“negazionisti” dell’Olocausto hanno buon gioco nel dimostrare che in questo o
in quel campo di concentramento nazista non esistevano camere a gas, e nel
trarne la deduzione arbitraria che le camere a gas non sono mai esistite in
nessun campo. Ora, sempre senza voler fare paragoni offensivi, mi sembra che
quando alcuni storici (per esempio H. Kamen e G. Henningsen) fanno leva sul
fatto che l’Inquisizione spagnola non si sia data alla caccia alle streghe per
trarne conclusioni di portata generale, si accostino, consapevoli o meno, alla
metodologia “negazionista”. Sì, gli inquisitori spagnoli del Rinascimento
trascurano le streghe, ma si dedicano agli ebrei; quelli romani non si
accaniscono (troppo) sugli ebrei, e perseguitano invece i luterani e gli
omosessuali; quelli dei Paesi Bassi ignorano gli omosessuali e infieriscono
invece sulle streghe; e così via.
Ma il problema non è giudicare questa o quella filiale del Santo Uffizio per
ciò che non ha commesso. A meno che il fine inespresso della ricerca non
sia la semplice assoluzione complessiva dell’Inquisizione, e non si ritenga il
gioco delle tre carte il metodo più adatto allo scopo.
3) L’assoluzione del mandante. Certo “negazionismo” (David Irving e
altri) non mette troppo in discussione la realtà dell’Olocausto; si limita a
negare che si trattasse di un piano di sterminio, e soprattutto che Hitler ne
fosse al corrente.
E’ preoccupante l’analogia con chi, nel campo infinitamente più nobile degli
studiosi dell’Inquisizione, cerca di scindere tra loro le varie realtà locali,
fino a negare la responsabilità dei papi in ciò che avveniva alla periferia
della Chiesa. Per esempio, presentando l’Inquisizione spagnola come un fenomeno
totalmente indipendente dalla volontà dei pontefici.
Su questo non mi dilungo troppo, dato che proprio Sala-Molins, nelle pagine a
dir poco brillanti che precedono il Repertorium Inquisitorum (7), ha abbondantemente dimostrato
l’infondatezza della tesi. Del resto, se i contrasti tra Inquisizione spagnola
e Inquisizione romana furono relativamente frequenti, nessun papa si preoccupò
mai di censurare l’operato della prima. Anzi, con lettere datate 3 aprile 1487,
Innocenzo VIII invitò i principi d’Europa ad assecondare la creatura di
Torquemada anche entro le loro frontiere (8) . Se la prescrizione rimase in gran parte
lettera morta, fu per la riluttanza dei principi, e non di quel pontefice e dei
suoi successori.
Nella stessa categoria di giochi di prestigio rientra la costante
contrapposizione tra giustizia ecclesiastica, moderata, e giustizia civile,
incline agli eccessi e alle crudeltà. Ora, se parliamo di Santo Uffizio, non è
il caso, come fanno alcuni, di citare la cosiddetta “Inquisizione veneziana”
quale esempio di clemenza, visto che con la macchina allestita dai papi per la
repressione della dissidenza non c’entrava nulla. Se invece parliamo di
giustizia ecclesiastica, è più onesto ricordare che molto spesso, nei tribunali
civili, sedevano religiosi e prelati, obbedienti alle direttive provenienti dal
pontefice (9) .
Esiste una figura di cattolico realmente prossima alla santità, che si trovò a
vivere un’esperienza del genere e che, per fortuna nostra e della Chiesa
stessa, ce ne ha lasciato testimonianza. Si tratta del padre gesuita Friedrich
Von Spee (1591-1635). Non era un inquisitore, bensì un religioso membro dei
tribunali “civili” allestiti dai principi tedeschi per reprimere la
stregoneria, nel corso della cosiddetta “Riconquista cattolica” della Germania.
Disgustato dalle atrocità di cui fu testimone, le denunciò in un testo, la Cautio
Criminalis, mirabile per lucidità e coraggio (10) . Da esso apprendiamo, intanto, che i più
feroci persecutori di donne innocenti erano sì principi, ma principi-vescovi.
Ecclesiastici, insomma. Ma vi apprendiamo anche che i giudizi erano ispirati ai
manuali che altri ecclesiastici avevano scritto (Binsfeld, Del Rio, Institor e
Sprenger, ecc.), diffusi in tutta Europa con pieno benestare del papato.
La comoda favoletta del capo (il papa o Stalin, Mussolini o Hitler) che ignora
l’operato di esecutori troppo zelanti torna di continuo nella divulgazione
storica più scadente. Storici consapevoli della dignità del loro lavoro
dovrebbero sapervi rinunciare, anche quando il risultato sembra ledere
l’ideologia o la religione che professano.
4) La comprensione per i carnefici, il disprezzo per le vittime.
Leggiamo in Benassar, che peraltro è studioso di alto livello e indulge meno
dei suoi colleghi al giustificazionismo, che non pochi inquisitori “potevano
amare la musica, la danza, la poesia e citare Gongora. E se fra di essi vi
erano dei sadici, altri erano accessibili alla pietà, capaci di generosità”(11). Pare di capire che i sadici fossero
minoranza. Del resto, tutti i recenti interventi giornalistici di Adriano
Prosperi, meno prudenti della sua saggistica, tendono ad accreditare l’immagine
dell’inquisitore come uomo pio e mite, sinceramente angosciato del mancato
pentimento dell’indiziato che ha tra le mani.
Permettetemi qui di ricorrere alla fiction, che poi è il mio mestiere.
Immaginiamoci la tortura di una di quelle donne ebree che ho citato in
precedenza, per esempio Pace di Xurtino. Viene dal carcere duro (il murus
arctus), è provata dalle sofferenze, parla a fatica. L’inquisitore la trova
reticente e decide di sottoporla alla quaestio. Per prima cosa la fa
denudare completamente, perché così, senz’altro motivo che non sia
l’umiliazione della vittima, prescrive la procedura. Poi le fa legare i polsi e
la fa sollevare dal suolo per mezzo di una carrucola. Le braccia iniziano a
slogarsi. La donna urla, piange, si contorce. L’inquisitore ammonisce quel
miserabile fagotto umano a dirgli la verità. Più passa il tempo, meno il dolore
è sostenibile, le grida aumentano d’intensità. A quel punto il religioso la fa
calare a terra e riportare nelle segrete. Si ricomincerà più tardi, o il giorno
dopo.
Credo che nessuno psicologo (lascio perdere gli psichiatri, ormai divenuti
quasi tutti dei chimici) si azzarderebbe a sostenere che un uomo potrebbe abbandonarsi
ad azioni del genere se non recasse in sé una qualche patologia mentale,
probabilmente schizoide. Diagnosi tanto più certa se, tra una sessione e
l’altra, si abbandonasse alla danza o alla poesia.
D’altra parte, vediamo come il domenicano Bernard Gui, in un’appendice al suo
manuale che non figura nell’edizione italiana, descrive l’esecuzione
dell’eretico Dolcino e della sua compagna, Margherita: “Detta Margherita fu
tagliata a pezzi sotto gli occhi di Dolcino; poi costui fu a sua volta tagliato
a pezzi. Le ossa e le membra dei due suppliziati furono gettati tra le fiamme,
assieme ad alcuni dei complici: era il meritato castigo per i loro crimini” (12). Il compiacimento è evidente. Un
compiacimento che mal si accorda con la mitezza attribuita agli inquisitori
dalla storiografia “revisionista”.
Di contro, abbiamo già visto il disprezzo riservato a Giordano Bruno e alla sua
inspiegabile ostinazione nel difendere le proprie idee. In generale, però, le
vittime dell’Inquisizione non sono tanto disprezzate, quanto oscurate nella
loro personalità, mutilate della loro natura di uomini e donne in carne e ossa.
Henningsen ci ha spiegato con abbondanza di dati e riferimenti come le
“streghe” godessero di garanzie moderne, a partire dall’avvocato difensore, e
spesso – anzi, nella maggioranza dei casi da lui studiati - se la cavassero con
un po’ di carcere e qualche rara seduta di tortura (13). Così va completamente perduto il dato
centrale, ben presente in Von Spee, che le streghe, intese quali adoratrici del
demonio, non sono mai esistite. E’ questo il perno obbligatorio di ogni
discorso. Le poverette trascinate in prigione, sottoposte a processo,
tormentate in varie forme, non erano affatto “streghe”: erano donne e basta,
che non avevano commesso nulla. Che poi godessero di un difensore non attenua
affatto la colpa originaria dei giudici, intenti a processare crimini di
fantasia esistenti solo nella mente di Martin del Rio e di frate Guaccio.
Credo che Adorno abbia scritto da qualche parte che nessuno studio storico
renderà mai l’orrore indescrivibile dei campi di concentramento nazisti, non
possedendo la storiografia strumenti disciplinari atti a rappresentarlo. Molto
peggio avviene, a mio avviso, quando l’occultamento dell’orrore è così radicale
da sembrare deliberato, oppure discende dalla fredda chirurgia della storia
“quantitativa”.
5) La svalutazione delle testimonianze e delle fonti. Naturalmente, non
di tutte le testimonianze e di tutte le fonti, ma solo di quelle che
contrastano con la tesi “revisionista”. Le storie documentate e imponenti di
Lea sono state denigrate con tale foga che ormai sembrano l’opera di un
collezionista di leggende, e non del maggiore storico che gli Stati Uniti
abbiano finora prodotto. Le ricerche locali non conformi vengono
sistematicamente ignorate. Ma l’operazione più sottile e ardua è stato asserire
e propagare l’idea che i manuali a uso degli inquisitori restassero per lo più
lettera morta.
Si deve considerare che tanti registri dell’Inquisizione sono andati perduti
(quando non furono volutamente distrutti), e che, per ovvi motivi, le
testimonianze delle vittime raramente sono dirette, salvo un pugno di casi (14): possono essere desunte solo dai verbali
dei loro giudici, dunque filtrate dall’angolo visuale di questi ultimi.
Importanza primaria, per conoscere non solo le procedure, ma anche la prassi
quotidiana e i presupposti teorici del Santo Uffizio, assumono quindi i manuali
- il più importante dei quali è tra le mani di chi mi sta leggendo.
Ed ecco i benigni storici dell’Inquisizione asserire, con categorica certezza,
che le indicazioni della manualistica non venivano quasi mai applicate, almeno
nelle loro parti più truci; per cui chi ha preteso giudicare il tribunale
ecclesiastico sulla base di quei testi (come Italo Mereu, in uno studio di raro
vigore (15)) avrebbe preso una solenne cantonata. Se
ciò fosse vero, non si capirebbe poi come mai tanti verbali di processi (tra
cui quello, completo ed eloquente, a “Gostanza, la strega di San Miniato”,
restituitoci da Franco Cardini in una bellissima edizione (16) ) rispecchino fedelmente le indicazioni di
Eymerich e degli altri giuristi; come mai gli autori ripetano nei secoli le
stesse prescrizioni, e il Malleus maleficarum copi il Directorium,
questo a sua volta riprenda interi capitoli della Practica Inquisitionis
di Gui, e così via; come mai Eymerich sia stato tante volte ristampato. Sterile
esercizio intellettuale, nascita di un genere letterario bizzarro senza
ricadute concrete? Ne dubito molto; anzi, sono convinto che la ricaduta
concreta ci fosse: quei libri uccidevano.
Ci sarebbe molto altro da dire, ma mi fermo qui. Certamente uno
storico ha il dovere di rivedere anche tesi consolidate, se si imbatte in
elementi atti a confutarle. Se però dimostra troppo accanimento, suscita il
sospetto di essere mosso da pregiudizio ideologico. Quale, nel nostro caso?
Quello dell’anticomunismo, come accade in altre forme di “revisionismo”? Be’,
se l’intendimento è quello di diminuire le responsabilità passate della Chiesa
cattolica per presentare come più sanguinosi i crimini del cosiddetto
“socialismo reale”, il terreno dell’Inquisizione è il peggiore che si potesse
scegliere: Vishinskij deriva in linea diretta da Torquemada, i tribunali
sovietici che spedivano i dissidenti nelle cliniche psichiatriche erano
“tribunali della coscienza” (per usare la felice espressione di Adriano
Prosperi) quanto quelli del Santo Uffizio. Entrambi avevano al centro la triste
nozione di “rieducazione” forzata del detenuto, fino all’eliminazione fisica o
pratica in caso di insuccesso.
Se poi l’obiettivo fosse quello di “riabilitare” la Chiesa cattolica da colpe
del passato (non è l’intento della maggior parte degli storici che ho citato,
ma di alcuni sì), mi sembra superfluo. La Chiesa cattolica odierna non è la
stessa del Medioevo o del Rinascimento, e la Congregazione per la dottrina
della fede del cardinale Ratzinger ha poco a che vedere con la vecchia
Inquisizione. Non occorreva attendere la richiesta di perdono di Giovanni Paolo
II per capire che, comunque si giudichi l’operato odierno della Chiesa di Roma,
il giudizio non può fondarsi su fenomeni remoti ormai espulsi dalla vita
ecclesiale. Del resto, personalità nobili come Friedrich von Spee, ma anche
come Juan Antonio Llorrente, preoccupato a ogni pagina di non infangare il
cattolicesimo, appartenevano alla stessa Chiesa in cui militavano i Del Rio, i
Nider e i Krämer.
Ovviamente anche uno storico può avere propri, rispettabili moventi. Quello che
è inaccettabile è che dalla sua opera scaturisca la banalizzazione di un
crimine. Distorsione peggiore della negazione e dell’apologia, perché nega
personalità a chi l’ha subito.
E’ uscita di recente una raccolta dei graffiti incisi dai prigionieri
dell’Inquisizione siciliana sulle pareti delle loro celle (17). Sono frasi e disegni strazianti, che
mettono angoscia. Non è lecito cercare di spegnere nuovamente quelle voci. Il Directorium
di Eymerich, nell’edizione di Louis Sala-Molins, aiuterà il lettore a capire
quale logica spaventosa sia stata all’origini di quelle sofferenze inaudite. E
a comprendere che l’espressione “leggenda nera” è in effetti impropria. Il
colore era quello, ma non si trattò affatto di una leggenda.
(1) In uno dei libri più demenziali dell’ultimo cinquantennio, è
dato leggere che “al contrario di quanto vuol far crederci la ‘leggenda nera’,
l’Inquisizione godeva dell’appoggio pieno e convinto di ogni classe sociale, a
cominciare dal popolo, che vi aveva visto un riparo contro i temuti moriscos e
marranos”. M. Messori, Il miracolo. Spagna, 1640: indagine sul più sconvolgente
prodigio mariano, Milano, 1999 (una spietata e minuziosa demolizione del
volume, a firma del chimico Luigi Garlaschelli, è nel n. 29 di “Scienza &
Paranormale”, gennaio-febbraio 2000). (^)
(2) Cfr. H. Kamen, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, Yale,
1999.(^)
(3) Per una disamina dei caratteri essenziali
(4) B. Gui, Manuale dell’inquisitore, con commento di F. Cardini, Milano,
1998.(^)
(5)Ivi, pp. XXI-XXII.(^)
(6)Cfr. V. La Mantia, Origini e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo,
1977.(^)
(7) L. Sala-Molins, Sodome c’est Noël, in “Le Dictionnaire des Inquisiteurs”,
Parigi, 1981. (^)
(8) H.C. Lea, History of the Inquisition of
(9) Cfr. G. Bechtel, Les quatre fennes de Dieu: La putain, la sorcière, la
sainte & Bécassine, Parigi, 2000, pp. 159-163.(^)
(10) F. Von Spee, Cautio Criminalis, ovvero dei processi alle streghe, Roma,
1986.(^)
(11) B. Bennassar (a cura di), Storia dell’Inquisizione spagnola, Milano, 1994,
p. 83.(^)
(12) B. Gui, Manuel de l’Inquisiteur, a cura di G. Mollat, vol. II, Parigi,
1964, p. 107.(^)
(13) Cfr. in particolare G. Henningsen, L’avvocato delle streghe. Stregoneria
basca e Inquisizione spagnola, Milano, 1990.(^)
(14) Un’antologia delle poche testimonianze tramandateci è in F. Max,
Prisonniers de l’Inquisition, Parigi, 1989. Lo stesso curatore mette in guardia
dall’autenticità di alcuni di questi resoconti, che spesso gli autori, ad anni
di distanza dalla loro esperienza nelle mani del Santo Uffizio, tendevano a
colorire un po’ troppo.(^)
(15) I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare e punire:
l’Inquisizione come modello di violenza legale, Milano, 1988.(^)
(16) F. Cardini (a cura di), Gostanza, la strega di San Miniato, Bari, 1989).(^)
(17) G. Pitré, L. Sciascia, Urla senza suono. Graffiti e disegni dei
prigionieri dell’Inquisizione, Palermo, 1999.(^)
L'INQUISIZIONE...
... era la procedura seguita da un tribunale ecclesiastico per reprimere ed
estirpare l'eresia; il tribunale stesso. Fu creata nel XII secolo, quando la
Chiesa dovette lottare contro i Catari e i Valdesi. Più tardi il Concilio Lateranense
(1215) e il Concilio di Tolosa (1229) dichiararono essere doveri dei vescovi
ricercare e giudicare gli eretici e consegnarli per il castigo al braccio
secolare. Nel 1231-35 Gregorio IX sottraeva l'Inquisiazione alla giurisdizione
dei vescovi e l'affidava a inquisitori permanenti dell'ordine domenicano, di
nomina pontificia. Lo Stato (Re, Principi, Nobiltà) si schierò con la Chiesa
contro gli eretici, poichè l'eresia religiosa costituiva una concreta minaccia
contro l'ordine costituito, contro la sicurezza dello Stato. L'eretico, una
volta accertata la sua colpevolezza, veniva invitato a ritrattare. In caso di
rifiuto, era condannato a pene corporali o alla morte per rogo.
____________________________________________
L'Inquisizione possedeva un vero e proprio apparato di
informazione con un grande numero di agenti. Che godevano di previlegi fiscali
e dell'eccezionale permesso di girare armati
COME LA SANTA INQUISIZIONE CATTURAVA
ERETICI E PECCATORI
di Ilaria Tremolada
L'8 marzo 2000, papa Wojtila pronunciava la "richiesta di perdono"
per i mali inferti dalla chiesa nei secoli a tutta l'umanità. In particolare,
Giovanni Paolo II recitava il "mea culpa" pensando alle vittime della
Santa Inquisizione. Il processo che metteva sotto esame il tribunale medievale
accanitosi nei secoli contro coloro che venivano definiti eretici, si concludeva
con le pubbliche scuse del papa, dopo essersi aperto 6 anni prima. Nel 1994,
con la lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente datata 10
novembre, Giovanni Paolo II avviava la preparazione del Giubileo chiedendo ai
cristiani di "pentirsi" soprattutto per Giovanna d'Arco alla testa
del suo esercito "l'acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli,
a metodi di intolleranza e perfino di violenza nel servizio della verità."
La lettera papale aprì la strada a due incontri che si tennero, il primo nel
'98 dedicato alla "Shoah", sulla quale si invitava a riflettere,
mentre il secondo, che più ci interessa, aveva come tema centrale
l'"Inquisizione" e si svolse tra il 29 e il 31 ottobre
Queste "debolezze", per usare il termine di Cottier,
provocarono decine di migliaia di morti che formano un filo nero ininterrotto
capace di dare alla storia della Chiesa di quei secoli che fanno l'età
medievale e moderna, un unico e macabro denominatore.
Il grande pubblico identifica la storia delle persecuzioni religiose con uomini
importanti come Galileo Galilei e Giordano Bruno o più in generale con i roghi
delle streghe. Ciò che si scopre studiando la storia della Santa Inquisizione è
qualcosa che, per noi figli del XX secolo ha dell'incredibile. I Pensieri e i
fatti che hanno generato tale meccanismo di morte ci appaiono così distanti,
eppure anche gli ultimi decenni non sono stati privi di quelle distorsioni
ideologiche che più appaiono come il sostrato di scempiaggini catastrofiche
come quella esemplare generata dalla mente malata di Adolf Hitler.
L'accostamento può sembrare azzardato soprattutto perché poche sono le
coincidenze, nei tempi e nei fatti, tra l'odio nazista per gli ebrei e lo
stesso sentimento mostrato dalla Chiesa cattolica nei confronti degli eretici.
Ciò che comunque appare confrontabile è la perdita di ogni senso della realtà
in nome di un'idea delirante che genera morte.
Oltremodo, la lotta della Chiesa contro i suoi nemici solletica un vasto
interesse nel pubblico, dovuto in parte al fascino morboso che aleggia intorno
ai metodi inquisitori. L'Inquisizione, che si affermò alla fine del XII secolo,
quando in Occidente si diffondevano movimenti eretici come il manicheismo, il
valdismo e poi il catarismo, trae il suo nome dalla inquisitio, una
procedura del diritto romano sconosciuta e basata sulla formulazione di
un'accusa da parte dell'autorità giudiziaria pur in assenza di denunce
sostenute da testimoni attendibili. Tale procedura trova con il decreto Ad
abolendam, emanato da papa Lucio III nel 1184, quando cioè si cominciò a
infliggere ai peccatori la pena del rogo, la sua codificazione.
Alcuni anni dopo venne autorizzata la confisca dei beni degli eretici e
l'impiego della tortura in questioni di fede, mentre si stabilivano particolari
disposizioni che garantissero la segretezza delle procedure, l'anonimato dei
testimoni e l'applicazione delle sentenze. Con il papato di Gregorio IX
(1227-1241) la procedura inquisitoria si trasforma in una nuova istituzione che
avrà in principio larga diffusione nella Francia meridionale e che verrà
ufficializzata nei suoi compiti con il nome di Sacra Inquisizione. Tra i tanti
manuali scritti all'epoca per riassumere la procedura sulla base della quale
lavorava il tribunale è rimasta celebre la Practica Inquisitionis hereticae
pravitatis (ca.1320).
Il successore di Gregorio IX, Innocenzo IV, non trascurò di proseguire
nell'opera iniziata dal suo predecessore. Nel 1252, infatti, con la bolla Ad
extirpanda ribadiva l'importanza della ricerca dei peccatori che si
nascondevano nella società minandone non solo le basi religiose ma anche quelle
politiche, e rafforzava il significato della punizione corporale indicando la
tortura come mezzo per "portare alla luce la verità".
Durante il XIII e il XIV secolo, l'Inquisizione, parallelamente alla crescita
di alcuni dei più importanti movimenti considerati eretici, accrebbe le proprie
zone d'influenza e le proprie competenze. All'inizio del '
( vedi la storia di FRA DOLCINO )
La stregoneria, della quale parleremo diffusamente più avanti, nasce dalla
trasformazione in reato di tutti quei riti pagani, bagaglio di una forte
tradizione popolare ancora parte irrinunciabile della vita di molte zone
dell'Europa. Attraverso i secoli bui, la Santa Inquisizione, come abbiamo
visto, seppur brevemente, accresce la sua importanza, ma soprattutto la sua
ingerenza nella vita sociale. Di fondamentale importanza in questo processo di
penetrazione sarà il ruolo svolto dai re cattolici Isabella di Castiglia e
Ferdinando d'Aragona. Unendo le loro corone in un grande e potente regno i due
monarchi trasformarono il tribunale dell'Inquisizione in uno strumento di
controllo del loro potere. Esercitarono pressioni sul pontefice affinché
istituisse una nuova Inquisizione nel regno di Castiglia che ancora non ne
aveva conosciuto le opere.
Fu così che con la bolla papale, Exigit sinceras devotionis affectus,
del 1° novembre 1478 Sisto IV concesse ai sovrani spagnoli la potestà di
nominare due o tre inquisitori nelle città e nelle diocesi dei loro regni. Da
quel momento si aprì una contesa tra la concezione ecclesiastica della Santa
Inquisizione e quella temporale dei due re Cattolici, che vedevano nel
tribunale antiereticale un valido collaboratore attraverso il quale mantenere e
rafforzare il proprio potere. Il braccio di ferro si protrasse fino all'ottobre
1483 quando con la nomina del frate Tomás de Torquemada....
... a inquisitore generale dei regni di Castiglia e di Aragona,
nasceva l'Inquisizione moderna. Il papa Sisto IV, al quale ormai la situazione
era sfuggita di mano non aveva potuto far altro che riconoscere l'estensione
delle competenze giuridiche anche al regno di Aragona, per il quale
inizialmente il pontefice aveva negato la concessione.
A questo punto la chiesa di Roma si trovava ad aver ceduto, passo dopo passo,
al regno governato da Isabella e Ferdinando, il controllo sui tribunali della
Santa Inquisizione in Spagna.
Sostanzialmente, il potere di nominare il Grande Inquisitore demandava nei
fatti alla Corona la gestione di tutta la macchina costruita in difesa della
verità dei dogmi, pur rimanendo il papa il depositario dell'autentica
legittimità dell'istituzione.
Tra le figure più importanti dell'Inquisizione spagnola, spicca per la sua
spietatezza verso gli ebrei il già ricordato Tomás de Torquemada. Al momento
dell'investitura, gli inquisitori spagnoli recitavano davanti al Grande
Inquisitore, una formula che rimase invariata fino al 1820:
"Noi, per misericordia divina inquisitore generale, fidando nelle
vostre cognizioni e nella vostra retta coscienza, vi nominiamo, costituiamo,
creiamo e deputiamo inquisitori apostolici contro la depravazione eretica e
l'apostasia nell'inquisizione di [qui veniva inserito di volta in volta il
nome del luogo dove l'inquisitore veniva mandato] e vi diamo potere e
facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o
presente, di qualsiasi stato e condizione che risultasse colpevole, sospetta o
accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori, difensori
e favoreggiatori delle medesime".
Negli altri paesi europei si ebbero situazioni anche molto diverse tra loro. La
Francia non conobbe l'Inquisizione nella sua forma moderna. I Parlamenti
continuarono ad occuparsi dei processi agli eretici senza che per questi reati
venisse aggiornata la versione medievale dell'istituto.
Il Portogallo vide nascere il tribunale dell'Inquisizione solo nel 1547, mentre
in Italia apparvero solo verso la fine del XVI secolo, qualche decennio più
tardi della nascita di un'Inquisizione tutta speciale che il papa aveva creato
appositamente per "se" nel 1542. Ad oggi, quella papale è l'unica
Inquisizione sopravvissuta con il nome di Congregazione per la Dottrina della
Fede.
Il funzionamento del Santo Uffizio era garantito in primo luogo dal lavoro
dell'inquisitore generale che si appoggiava al Consiglio della Suprema, e in
secondo luogo dalla presenza capillare sul territorio dei tribunali di
distretto. Nella carica di inquisitore generale si è già visto che il più
tragicamente illustre fu il frate Tomás de Torquemada. Sulla sua figura sono
stati dati pareri contrastanti: lo storico Juan Antonio Llorente ne parla come
di "...una persona dai tratti raccapriccianti responsabile della morte
sul rogo di 10.280 persone, e della punizione con infamia e confisca dei beni
di altre 27.321". Al contrario lo storico inglese Walsh dice che
Torquemada "era un pacifico dotto che abbandonò il chiostro per
espletare un incarico sgradevole ma necessario, cosa che fece con spirito di
giustizia temperato da pietà e sempre con grande abilità e prudenza.[…] Fu
l'uomo che più efficacemente contribuì alla grandezza della Spagna dell'epoca
del siglo de oro."
È abbastanza evidente che il giudizio dello storico ha in entrambi i casi
influenzato il racconto della vita di un uomo che comunque al di là di queste
critiche senza appello fu un grigio ed efficiente funzionario che servì i re
cattolici con esemplare lealtà, pur tributata a idee sbagliate, fornendo il
modello essenzialmente politico a cui si sarebbero ispirati gli inquisitori
generali per un lunghissimo arco di tempo.
A partire da questa che era la carica più importante, l'inquisizione era
organizzata in base ad una struttura fortemente gerarchizzata che prevedeva il
Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione che si riuniva tutte le mattine
dei giorni non festivi per discutere le questioni di fede, mentre nelle sedute
pomeridiane del martedì, giovedì e sabato si tenevano i processi pubblici e si
parlava dei casi si sodomia, bigamia, stregoneria e superstizione.
Da questo organo dipendevano i tribunali distrettuali in ognuno dei quali
operavano due inquisitori. Quasi sempre erano un teologo e un giurista così da
poter avere una competenza che coprisse tutti gli aspetti della problematica
inquisitoria. Nel XVI secolo si accentuò, fra gli inquisitori, il predominio
del clero secolare nei confronti di quello regolare (i membri degli ordini
religiosi). La maggior parte degli inquisitori, comunque, proveniva dalla
piccola nobiltà e aveva frequentato l'Università.
Tra le altre cariche previste dal Santo Uffizio per il suo funzionamento va
sicuramente ricordata quella importantissima dei famigli (familiares),
ovvero di quei servitori laici che collaboravano con i funzionari
dell'Inquisizione, partecipavano alle ricerche e agli arresti e costituivano un
vero e proprio apparato di informazione e spionaggio. Il loro numero crebbe
smisuratamente nei tempi. Fare parte di quella che con termini attuali potremmo
chiamare la "polizia segreta" della Santa Inquisizione
comportava numerosi vantaggi: i famigli godevano di un privilegio
giurisdizionale secondo il quale potevano essere giudicati solo dalla stessa
Inquisizione, inoltre avevano privilegi fiscali e il permesso di girare armati.
Poiché si poté presto intuire il rischio che questa casta privilegiata
diventasse molto potente, ogni distretto adottò un regolamento che innanzitutto
fissava il numero massimo dei famigli. L'estrazione sociale di questi ultimi
era assai eterogenea.
A Valencia nel XVI secolo oltre i tre quarti erano di origine popolare, ma il
rapporto si sarebbe presto ribaltato a favore delle classi medie. In Andalusia
i famigli vennero invece reclutati tra la piccola nobiltà all'interno
della quale alcune dinastie finirono per imporre un vero e proprio monopolio
servendosi della mansione per esercitare un'assoluta autorità locale sintomo di
corruzione e di nepotismo.
Gli apparati inquisitori vennero messi sotto inchiesta raramente, nonostante la
loro condotta riprovevole e spesso macchiata dalla scorrettezza fosse sotto gli
occhi di tutti. Il lavoro svolto dai famigli era il punto di partenza
della fase istruttoria dei processi che proseguiva con la denuncia e l'immediato
arresto della persona oggetto della denuncia stessa. Seguivano poi tre udienze
durante le quali veniva presentata l'accusa ed era prevista una discolpa
dell'imputato.
Il verdetto era pronunciato collegialmente dagli inquisitori e dal vescovo. Al
termine del processo, ogni sentenza prevedeva tre categorie di pene:
spirituali, corporali e finanziarie. Momento culminante di ogni processo era l'autodafé,
"atto di fede", cerimonia solenne con messa, sermone e lettura
delle sentenze che nel tempo si trasformò in una specie di evento teatrale che
nella sostanza doveva attirare quanta più gente possibile per mostrare il
potere della Santa Inquisizione nel riportare le anime smarrite sulla strada
della verità.
Di solito l'autodafé si celebrava una volta l'anno. La condanna a morte
era comminata ai recidivi o rei convinti che rifiutavano di ammettere la
falsità delle loro credenze. La sanzione più comune per chi decideva di
collaborare era l'abiura alla quale erano connesse diversi tipi di penitenza:
obbligo di indossare il sambenito (termine derivante da saco bendito "sacco
benedetto"), ovvero una mantellina gialla, con una o due croci disegnate
diagonalmente, che i penitenti erano obbligati a portare in segno di indegnità
per un periodo che poteva essere lungo pochi mesi ma anche tutta la vita;
c'erano poi le pene corporali come le frustate, con un numero che poteva
variare da
Una delle abiure più importanti che la storia ricorda è senza dubbio quella di
Galileo.
Davanti al tribunale che lo inquisiva di eresia, l'autore del Dialogo
dei massimi sistemi pronunciò il 22 giugno 1633 queste parole: "....avendo
davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani,
giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per
l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e
Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo essermi
stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi
lasciar la
falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la
terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere,
difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta
falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla
Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa
dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza
apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto
d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e
imobile e che la terra non sia centro e che si muova.
Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d'ogni fedel
Cristiano queste veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor
sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e
eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria
alla Santa Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più ne asserirò, in
voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione;
ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonziarò a
questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o ordinario del luogo, dove mi
trovarò.
Giuro anco e prometto d'adempiere e osservare intieramente tutte le penitenze
che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte […] Io Galileo
soddetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obbligato come sopra […] In
Roma nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633."
(vedi altre pagine in GALILEO GALILEI)
Spesso durante i processi lo strumento più utilizzato per portare il peccatore
alla confessione dell'errore era la tortura. Rigorose norme ne fissavano
durata, modalità e frequenza. Le dichiarazioni rese sotto tortura erano
considerate nulle se non venivano confermate 24 ore dopo. I metodi più usati
erano la garrocha, la toca e il potro . Nel primo caso la
vittima veniva appesa per i polsi a una corda pendente dal soffitto che serviva
per issare il corpo poi fatto ricadere di colpo. La Toca era invece più
complicata: la vittima veniva immobilizzata su un telaio inclinato, costretta a
spalancare la bocca nella quale veniva introdotto un panno che costringeva il
torturato a inghiottire tutta l'acqua che veniva versata lentamente. Infine
c'era il potro, il sistema più utilizzato a partire dal XVI secolo che
consisteva nel legare il peccatore a un cavalletto con canapi che si
avvolgevano intorno al corpo e alle estremità. Accorciando la lunghezza delle
corde il carnefice le faceva penetrare nel corpo del torturato.
Le migliaia di persone, si parla di 150.000, che furono chiamate
a rendere conto in molti casi di una vita "normale" inquisita a volte
perché i funzionari potessero dimostrare zelo e attaccamento al lavoro senza
però che ce ne fosse neanche il pretesto, appartenevano al movimento dei
catari, a quello valdese, oppure erano ebrei, musulmani, marranos, cioè
ebrei e mussulmani convertiti, o ancora protestanti e templari. Se non
rientravano in nessuno di questi gruppi potevano essere streghe o semplicemente
individui dalle "strane" convinzioni non coincidenti con quelle
ecclesiastiche, come Giordano Bruno, filosofo arso sul rogo a Roma
nell'anno 1600, Gioachino da Fiore teologo e filosofo le cui idee vennero
condannate dal Concilio lateranense nel 1215, Arnaldo da Brescia canonico e
riformatore religioso impiccato e arso come eretico a Roma nel 1155, Copernico
che sostenendo che la terra gira intorno al sole vide la sua opera messa all'indice
nel 1616, il già ricordato Galileo Galilei accusato di avere sostenuto le tesi
copernicane e costretto ad abiurare, e poi ancora Giovanna D'Arco messa al rogo nel 1431 con
l'accusa di essere eretica recidiva, apostata e idolatra.
In modo del tutto indicativo e assolutamente casuale nella scelta degli esempi,
questa breve lista dà però un'idea di quanto profondamente l'Inquisizione seppe
condizionare la crescita del pensiero impedendo quella libertà d'espressione
fonte del progresso della società civile.
Le vicende di questi uomini e donne vittime della Santa Inquisizione non sembra
poter acquisire un senso preciso. Pur invocando un vago rispetto del dogma
cristiano si rimane senza risposte di fronte ad un così diffuso uso della
violenza, ad una così spietata quanto gratuita umiliazione del pensiero umano.
Dopo la decadenza della Santa Inquisizione iniziata nel XVIII secolo ed in
conseguenza all'apertura degli archivi del tribunale avvenuta negli anni '20
dell'800 sono comparsi una messe di studi che hanno fatto chiarezza sulle
vicende oscure legate all'organismo nato nel medioevo e sono riuscite a
spiegare motivandole, alcune delle condanne e delle azioni più eclatanti.
La parte che sembra ancora avvolta dal mistero, ma che forse non potrà mai
trovare un suo perché, data la stessa assurdità che la caratterizza è
l'inquisizione delle streghe. Tra i tanti episodi che fanno parte di questa
storia si è scelto di raccontarne uno in particolare che per la quantità di
documenti ritrovati si presta ad una ricostruzione precisa. Ha poi particolare
senso, quando si parla di persecuzione delle streghe, fare riferimento a casi
particolari evitando di abbandonarsi così ad una caratterizzazione generica che
toglierebbe all'argomento il sapore intenso dei suoi particolari.
La caccia alle streghe attuata, con spietata intensità, soprattutto tra i
secoli XVI e XVII è stata letta dalla storiografia come uno scontro culturale
tra il mondo colto rappresentato dalla chiesa e il mondo popolare identificato
nelle pratiche magico-tradizionali. Spinta da un rinnovato spirito di
evangelizzazione, la chiesa mosse sistematicamente guerra, dal '
Gli storici che hanno tentato di fare una stima numerica delle vittime delle
accuse di stregoneria si sono sempre fermati di fronte alla mancanza delle
fonti cioè alla mancanza dei verbali dei processi. Nei rari casi in cui si può
disporre di queste carte si rimane sconvolti dalla loro durezza e drammaticità
e dalla capacità in essi insita di trasmettere un vivido spaccato del mondo
delle streghe e della sua persecuzione.
È quanto accade con il Corpus di carte riguardanti i processi eseguiti nella
valle di Poschiavo, una valle della Svizzera italiana. L'insieme di questi
documenti unici per quantità e coerenza interna permette di studiare,
attraverso l'analisi dei rescritti di 65 processi, le caratteristiche di una
caccia alle streghe che in questo luogo assume caratteristiche diverse da tutti
gli altri episodi che fanno parte della stessa vicenda.
Non emerge infatti, in questo caso particolare, quella cesura tra mondo colto
degli inquisitori e mondo popolare degli inquisiti che invece sotto forma di
scontro aperto è la base di ogni processo di stregoneria. In questa valle delle
Alpi Retiche non si riscontra un nucleo di credenze pagane o precristiane
conviventi con quelle della religione ufficiale. Solo alcune imputate
ammettevano di usare scongiuri o antiche parole magiche che pareva potessero
aiutarle a fronteggiare una vita sempre al limite della sussistenza.
Nella maggioranza dei casi però le imputate erano povere donne, come povera era
la buona parte della popolazione, accusate più che per pratiche o comportamenti
sospetti, per futili motivi che possono essere ricondotti alla difficoltà di un
vivere sociale nel quale rancori, battibecchi, invidie e liti, che spesso
animavano i rapporti di vicinato, diventavano le reali cause che portavano
all'accusa.
Oltretutto, in quegli stessi anni la Valtellina era stata pesantemente colpita
dalla peste che aveva reso, se possibile, ancora più fragile l'economia della
zona. Considerando tutte le varianti endogene, nell'accusa di stregoneria si
possono vedere riflesse tutte quelle paure e quelle angosce da sempre caratteri
del mondo contadino, "che da se rivelavano i punti deboli di quella
economia, creando un rapporto di causa-effetto tra le presunte streghe con le
loro pratiche che "agivano" e le disgrazie della vita che diventavano
il risultato del loro agire; dall'altra, l'accusa sconvolgeva i rapporti
sociali e familiari di chi era accusato […] incrinando equilibri e generando
reazioni a catena".
Motivo cardine della persecuzione delle streghe erano i loro ritrovi notturni:
i sabba, come venivano chiamati. Secondo i persecutori, durante queste adunanze
presiedute dal diavolo, si svolgevano riti che parodiavano in modo blasfemo la
liturgia cristiana, cui si aggiungevano unioni bestiali, orge collettive,
balli, banchetti e sacrifici umani. Anche le presunte streghe di Poschiavo
avevano le loro riunioni sataniche. A questi incontri, che si svolgevano quasi
sempre di giovedì, mancava però, quella ritualità blasfema tipica di queste
riunioni. Le donne della valle si incontravano per ballare e divertirsi non
compivano riti di nessun genere, anche se dalle testimonianze rese durante i
processi sembra che il diavolo fosse presente, pur con sembianze del tutto
normali e non mostruose.
Le donne interrogate dicevano che satana aveva le sembianze di un uomo di mezza
età o di un giovane ragazzo. Più raramente veniva descritto come un animale,
anche se non è da escludere che le sue repellenti malformazioni fossero più il
frutto delle fantasie morbose degli inquisitori che non delle imputate, come si
rileva dal processo a Orsola Lardo, durante il quale la descrizione si delinea,
a poco a poco, sotto l'insinuante interrogatorio dei giudici che le chiedono
(le parole dell'imputata vengono lasciate nel dialetto del luogo): "Era
come un homo?"
e l'imputata risponde:
"Al pareva alli vestimenti, ma l'era il demonio"
e ancora:
"Come era in faccia?"
"Al'era un brut lavor [= cosa], era negro in facia".
"haveva barba, et capelli in testa?".
"L'aveva una brutta barbascia, et in testa l'era come motto [=
calvo]".
"Haveva corni in testa?".
"Signor no ma l'haveva come dei cap [= corna]".
"Haveva mani come homo?".
"Signor no che l'haveva come due griffe [= artigli]".
"E li piedi come li haveva?".
"Li haveva come quelli di un bosc [= caprone]".
"Et nella vitta come era, et come lo cognoscevate?".
"Mi nol sei l'era un soz lavor".
Altre donne raccontano anche di avere avuto con il diavolo rapporti sessuali...
... ma il tutto si limita a qualche descrizione che comunque sia
non muta il carattere modesto di questi incontri che di satanico non avevano
granché. Durante il loro svolgimento non vi erano riti parodistici del culto
cristiano, né un uso blasfemo degli oggetti sacri, né riti sacrificali di
nessun genere. In conclusione i ritrovi di Poschiavo sembrano essere state
semplici e allegre feste che dato il clima di censura morale venivano
volutamente visti come la realizzazione di riti satanici.
Tutt'al più, gli incontri di queste donne, peraltro quasi tutte provenienti
dalle stesse famiglie e dalle stesse contrade, il che indica una limitata
pubblicizzazione dei ritrovi stessi, potevano essere visti come una
compensazione delle privazioni materiali a cui erano sottoposte ogni giorno. La
conoscenza delle erbe, che in alcuni casi potevano provocare lievi
allucinazioni, le aiutava così a straniarsi da una realtà spesso troppo dura.
Questi innocui tentativi di evasione venivano invece scambiati per pratiche di
magia nera che facevano paura soprattutto per il loro impatto sulla società e
non per la sfida religiosa che essi ponevano. Ciò di cui ci si preoccupava
maggiormente era la loro capacità di recare danno a tutta la società attraverso
la distruzione dei raccolti che poteva essere ottenuta facendo grandinare,
piovere, tempestare, facendo franare il terreno. Era così che queste donne
venivano ritenute capaci di sovvertire e distruggere un'esistenza quotidiana
difficile, dalla quale esse cercavano di sottrarsi con metodi del tutto innocui,
ma capaci di rendere insicuri e sospettosi uomini e donne attaccati alla
consuetudine, prime che alla religione, e spaventati dalla loro stessa
ignoranza.
Ilaria Tremolada
BIBLIOGRAFIA
Il martirio delle streghe, di
Il giudice e l'eretico, di John Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano, 1997
L'inquisizione, di Ricardo Garcia Cárcel, Fenice 2000, Milano, 1994
Domenico Scandella detto Menocchio, a cura di Andrea Del Col, Edizioni
biblioteca dell'immagine, Pordenone, 1990
Il manuale dell'inquisitore, a cura di Louis Sala-Molins, Fanucci, Roma, 2000
Storia generale dell'Inquisizione corredata da rarissimi documenti, di Pietro
Tamburini, Bastogi, Foggia, 1998
Giordano Bruno: tra magia e avventure, tra lotte e sortilegi la storia
appassionata di un uomo che, ritenuto mago dai contemporanei, fu condannato per
eresie dall'Inquisizione e arso vivo sul rogo, di Gabriele La Porta, Newton
Compton, Roma, 1988
L'Avvocato delle streghe: stregoneria basca e Inquisizione spagnola, di Gustav
Henningsen, garzanti, Milano, 1990
Il codice
dell'Inquisizione deriva dall'editto imperiale di Teodosio ed i tribunali
speciali sono stati istituiti da Gregorio IX. Incarcerazioni interminabili e
confisca di beni per colui che era semplicemente incolpato, torture per
ottenere confessioni, torture più orribili e più lunghe ancora in caso di
ritrattazione, diminuzione della pena per coloro che denunciavano complici...
Era soprattutto l'eresia ad essere perseguita, ma molto spesso gli eretici
erano accusati di magie.
Nel 1260, una bolla di Alessandro IV stabilì i rapporti tra
eresia e stregoneria e definì tutte le categorie dei sortilegi. I capi d'accusa
erano di quindici specie:
1. Rinnegano Dio;
2. Lo bestemmiano;
3. Adorano il diavolo;
4. Gli consacrano i loro bambini;
5. Spesso glieli sacrificano;
6. Li consacrano a Satana nel ventre materno;
7. Gli promettono di attirare al suo servizio tutti coloro
che potranno;
8. Giurano nel nome del demonio e se ne vantano;
9. Non rispettano alcuna legge e commettono perfino
incesto;
10. Uccidono le persone, le fanno bollire e le mangiano;
11. Si nutrono di carne umana ed anche di impiccati;
12. Fanno morire la gente con veleni e sortilegi;
13. Fanno crepare il bestiame;
14. Fanno perire i frutti e causare la sterilità;
15. Diventano in tutto schiavi del diavolo.
I sintomi medici sui quali si basavano i giudici
dell'inquisizione per stabilire il crimine di stregoneria non lasciavano dubbi:
- Se la malattia è tale che i medici non possono né scoprirla né
conoscerla.
- Se aumenta invece di diminuire nonostante che siano state
tentate tutte le possibili cure.
- Se, sin dall'inizio, si presenta con sintomi e dolori
violenti, contrariamente alle malattie comuni che aumentano poco a poco.
- Se è incostante e variabile da giorno a giorno, da ora ad ora,
ed inoltre se ha parecchie cose diverse da quelle naturali, sebbene
apparentemente si presenti simile a queste ultime.
- Se il paziente non può dire in quale parte del corpo sente il
dolore, anche se è molto malato.
- Se emette sospiri tristi e pietosi senza alcuna causa
legittima.
- Se perde l'appetito e vomita la carne mangiata; se ha lo
stomaco contratto e chiuso o se gli sembra di averci dentro qualcosa di
pesante.
- Se sente calori pungenti ed altri spasimi acuti nella regione
del cuore, tanto che gli sembra che qualcosa lo roda e lo smembri a pezzi.
- Se è reso impotente al mestiere di Venere.
- Se suda leggermente, anche durante la notte, quando il tempo e
l' aria sono molto freddi.
- Se si sente le membra e parti del corpo legate.
- Se si sente ebete e dice sciocchezze, oppure sia preso da
malinconia. Se guarda storto. Se gli sembra di vedere qualche fantasma.
- Infine, se quando il prete, per guarirlo dal male, gli applica
delle unzioni sugli occhi, sulle orecchie, sulla fronte o su altre parti del
corpo, tali parti cominciano a far uscire sudore o mostrano qualche altro
cambiamento.
di Francesco Pappalardo
1. Le origini
È opinione comune che il tribunale dell'Inquisizione sia stato
lo strumento ordinario utilizzato dalla Chiesa cattolica per combattere
l'eresia. In realtà, garantire l'ortodossia è compito anzitutto
dell'episcopato, cui spetta non solo insegnare le verità della fede, ma anche
difenderle contro quanti le insidiano; inoltre, soltanto entro certi limiti è
corretto parlare di un tribunale inquisitoriale. Infine, occorre specificare
che lo stesso nome spetta sia all'istituzione sorta nel secolo XIII, la
cosiddetta Inquisizione medioevale, sia all'Inquisizione spagnola, creata da
Papa Sisto IV (1471-1484), nel 1478, su sollecitazione della regina Isabella di
Castiglia (1451-1504) e di re Ferdinando d'Aragona (1452-1516), sia alla
Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, istituita da Papa
Paolo III (1534-1549) nel 1542.
L'Inquisizione nasce verso la fine del Medioevo propriamente
detto come risposta della Chiesa agli eccessi di movimenti ereticali, che non
si limitavano a propugnare deviazioni di contenuto esclusivamente teologico -
contrastati fino ad allora sul piano dottrinale e solo con mezzi spirituali -,
ma insidiavano mortalmente la società civile. La ferma riprovazione dei civili
contro le vessazioni degli eretici costringe le autorità ecclesiastiche a
intervenire, anzitutto per controllare e per frenare una reazione nata dal
popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali
laici, che si illudevano di risolvere il problema inviando con disinvoltura gli
eretici al rogo.
Oggi è difficile immaginare il profondo malessere suscitato
nella Cristianità dalla diffusione del catarismo, che, sotto il fascino
esercitato dall'apparente austerità di vita dei suoi proseliti, nascondeva
un'ideologia sovversiva. Il pericolo era rappresentato soprattutto dalla
condanna del mondo materiale, che implicava il divieto assoluto di procreare e,
come culmine della perfezione, il suicidio rituale, e dal rifiuto di prestare
giuramento, che comportava il dissolvimento del legame feudale, uno dei
capisaldi della società medievale. Dunque, considerata l'omogeneità religiosa
della società del tempo, l'eresia costituiva un attentato non solo
all'ortodossia ma anche all'ordine sociale e politico. Lo storico protestante
Henry Charles Lea (1825-1909), pur poco benevolo nei confronti
dell'Inquisizione, scrive che, in quei tempi, "[...] la causa
dell'ortodossia non era altro che la causa della civiltà e del progresso".
L'autorità temporale e quella spirituale, dopo aver agito a
lungo separatamente - la prima con i suoi tribunali, l'impiccagione e il rogo,
la seconda con la scomunica e le censure ecclesiastiche - finiscono per unire i
loro sforzi in un'azione comune contro l'eresia. L'Inquisizione medioevale,
dunque, è definita dallo storico francese Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953),
come "[...] un sistema di misure repressive, le une di ordine spirituale,
le altre di ordine temporale, emanate simultaneamente dall'autorità
ecclesiastica e dal potere civile per la difesa dell'ortodossia religiosa e
dell'ordine sociale, ugualmente minacciati dalle dottrine teologiche e sociali
dell'eresia". Le tappe attraverso cui prende corpo il nuovo organismo sono
la costituzione Ad abolendam di Papa Lucio III (1181-1185), del 1184, che
obbliga tutti i vescovi a visitare due volte l'anno le loro diocesi alla
ricerca, inquisitio, degli eretici; l'istituzione della cosiddetta Inquisizione
"legatina" da parte di Papa Innocenzo III (1198-1216), che invia i
monaci dell'ordine cistercense a predicare nei paesi più colpiti e a disputare
pubblicamente con gli eretici, la costituzione Excommunicamus di Papa Gregorio
IX (1227-1247), del 1231, con cui sono nominati i primi inquisitori permanenti,
scelti in preferenza fra i domenicani e i francescani.
La qualità costitutiva del nuovo organismo non era nella natura
del delitto o in quella della pena e neppure nella procedura, ma nella figura
del giudice delegato in materia ecclesiastica criminale. Non si provvede,
pertanto, all'istituzione di un tribunale speciale per una determinata
categoria di reati o di rei - in questo senso, per tutto il Medioevo, un
tribunale dell'Inquisizione non è mai esistito -, ma alla nomina di un giudice
straordinario, la cui competenza si affianca a quella del giudice ordinario, il
vescovo. Va ricordato, infine, che gli inquisitori erano competenti a giudicare
solo i battezzati e che, dunque, gli ebrei e i musulmani non ricadevano sotto
la loro giurisdizione.
2. La procedura
L'Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di
mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le
testimonianze, è una delle prime istituzioni del passato su cui è disponibile
una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico, sia
relativamente all'organizzazione sia alla prassi adottata. Infatti, gli
studiosi che negli ultimi anni hanno cominciato a esplorare l'imponente
documentazione archivistica, si sono trovati, con stupore, al cospetto di
tribunali dotati di regole eque e di procedure non arbitrarie, di corti
giudiziarie pronte a sconsigliare l'uso della tortura o a scoraggiare denunce
infondate e delazioni, di organismi molto più miti e indulgenti dei tribunali
civili del tempo. Inoltre, sebbene certa propaganda insista sul carattere
ideologico e totalitario dell'Inquisizione, è sempre più evidente l'abisso
esistente fra i metodi propri di questa istituzione e i sistemi di controllo
delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in atto negli Stati
moderni.
E falsa è l'immagine dell'inquisitore feroce e ignorante: gli
inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi
irreprensibili, poco inclini a decidere in fretta e arbitrariamente la sorte
dell'imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare
in seno alla Chiesa. L'Inquisizione del secolo XIV inventa la giuria, consilium
che consente all'imputato di essere giudicato da un collegio numeroso, e altri
istituti in favore del condannato, come la semilibertà, la licenza per buona
condotta e gli sconti di pena. Falsa è anche l'affermazione secondo cui si
faceva un uso generalizzato e indiscriminato della tortura, cui gli inquisitori
del secolo XIV, a differenza dei giudici civili, ricorrevano raramente e nel
rispetto di regole molto severe. L'immaginario secondo cui i tribunali
inquisitoriali erano teatro di raffinatissime scene di crudeltà, di modi
ingegnosi di infliggere l'agonia e di un'insistenza criminale nell'estorcere le
confessioni, è l'esito della propaganda degli scrittori a sensazione, che hanno
sfruttato la credulità di molti.
Falsa, infine, è l'immagine dell'Inquisizione come tribunale
sanguinario. Infatti, lo spoglio statistico delle sentenze, da cui si ricava la
bassa percentuale delle condanne, soprattutto di quelle alla pena capitale, ha
ormai dimostrato l'infondatezza di questa tesi. L'Inquisizione perseguiva lo
scopo di correggere e di riavvicinare l'eretico alla fede; a questo scopo gli
inquisitori imponevano penitenze di ordine spirituale, che davano al reo la
possibilità di emendarsi, attenuavano le pene più gravi quando ravvisavano in
lui indizi di ravvedimento e abbandonavano al braccio secolare, cioè alla
morte, i recidivi che, essendo tornati ai loro errori, facevano perdere ogni
fiducia nella loro conversione e nella loro sincerità. La pena capitale non
trovava esecuzione rigorosa presso l'Inquisizione e la sentenza era spesso
modificata, in netto contrasto con l'immancabile esecuzione del colpevole da
parte dei tribunali secolari e con la crudeltà degli organismi inquisitoriali
nei paesi protestanti. Dall'esame degli archivi risulta, per esempio, che nella
seconda metà del secolo XIII gli inquisitori di Tolosa pronunciarono condanne a
morte nella misura dell'1% delle sentenze emesse. Inoltre, gli studiosi hanno
completato lo spoglio dei processi inquisitoriali di Bernard Gui (?-1331) - il
domenicano calunniato nel romanzo Il nome della rosa, di Umberto Eco, del 1980,
e nel film omonimo del regista Jean-Jacques Annaud, del 1986 - constatando che
su novecentotrenta imputati solo quarantadue furono rimessi al braccio
secolare, mentre centotrentanove vennero assolti e gli altri condannati a pene
minori, spesso di straordinaria mitezza.
Raggiunti i suoi scopi con la distruzione dell'eresia,
l'Inquisizione medievale declina ovunque lentamente e, sottoposta sempre più al
controllo del potere secolare, scompare da sola, in epoche diverse. La svolta
più significativa è compiuta dalla monarchia francese, che sottrae gradualmente
agli inquisitori la competenza in materia d'eresia e l'affida ai tribunali
reali e al parlamento; durante il grande scisma d'Occidente, anche la facoltà
teologica dell'università di Parigi rivendica l'esame e il giudizio sui delitti
di eresia. Così, l'Inquisizione in Francia diventa una sigla di cui si
appropria il potere politico e su cui la Chiesa non ha più potestà. I tribunali
che processano i templari nel 1307 e santa Giovanna d'Arco (1412-1431) non
rappresentano più la vera Inquisizione, ma sono espressione del potere
"laico".
Nel secolo XVI, di fronte al pericolo rappresentato dalle nuove
eresie di Martin Lutero (1483-1546) e di Giovanni Calvino (1509-1564), che
devastavano le più fiorenti comunità cristiane d'Europa, la Chiesa cattolica
deve intervenire ancora una volta con energia, dopo aver sperimentato invano un
atteggiamento conciliante. Il 21 luglio 1542, con la bolla Licet ab initio,
Papa Paolo III (1534-1549) riorganizza il sistema inquisitoriale medioevale e
istituisce la Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione o
Sant'Uffizio.
In sostanza, l'autorità dell'Inquisizione romana è limitata agli
Stati della penisola italiana, dove ha costituito un bastione invalicabile
contro ogni deviazione dottrinale e ha difeso il patrimonio spirituale del
popolo italiano, contribuendo alla vittoria della Contro-Riforma
sull'Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Pseudo-Riforma protestante.
La storia di questa istituzione non è stata ancora studiata in
modo adeguato. Infatti, il carattere anticattolico dell'unificazione
dell'Italia ha ridato fiato alla polemica illuminista e alla propaganda
protestante, che dipingevano questo organismo come simbolo dell'oscurantismo,
conferendo un carattere ideologico alla ricostruzione storica. Uno studio
rigoroso delle fonti documentarie avrebbe contribuito non poco a sfatare i
luoghi comuni sull'Inquisizione romana. Lo storico Luigi Firpo, esponente di
rilievo della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso
anche ai documenti riservati del Sant'Uffizio, intervistato dallo scrittore
Vittorio Messori, si è espresso così: "Sono sicuro che l'apertura di
quell'archivio, sinora assai limitata anche per esigenze organizzative,
gioverebbe molto all'immagine della Chiesa [...]. Aprendo a tutti gli studiosi
quelle carte, cadrebbero altri pezzi dell'abusiva leggenda nera che circonda
l'Inquisizione".
Riorganizzata da Papa san Pio X (1903-1914) con la costituzione
Sapienti consilio, del 29 giugno 1908, la vecchia Inquisizione è stata
riformata da Papa Paolo VI (1963-1978) con il motu proprio Integrae servandae,
del 7 dicembre 1965, che ne ha anche mutato il nome in Sacra Congregazione per
la Dottrina della Fede. La riforma ha modificato le procedure del Sant'Ufficio,
ma ne ha confermato il compito primario: "tutelare la dottrina riguardante
la fede e i costumi di tutto il mondo cattolico" (n. 29), soprattutto
mediante la promozione della sana dottrina.
Per approfondire: vedi un'introduzione, in Leo Moulin
(1906-1996), L'Inquisizione sotto inquisizione, trad. it., a cura
dell'Associazione Culturale ICARO, Cagliari 1992; i risultati della rinnovata
ricerca storica - poco noti al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori
-, in Brian van Hove S.J., Oltre il mito dell'Inquisizione, in La
Civiltà Cattolica, anno 143, n. 3419, 5-12-1992, pp. 458-467; e n. 3420,
19-12-1992, pp. 578-588; vedi pure la voce Inquisition, scritta da
Jean-Baptiste Guiraud per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique,
edito fra il 1911 e il 1913, trad. it. con il titolo Elogio della
Inquisizione, Leonardo, Milano
di Francesco Pappalardo
1. Le origini
Lo storico napoletano Giuseppe Galasso, prendendo spunto dalla
polemica sulle presunte "colpe" della Spagna nel Mezzogiorno
d'Italia, denuncia la "leggenda nera" antispagnola, da sempre
"[...] permeata di elementi ideologici che hanno fatto fortemente premio
non solo sulla ragione storica, ma pressoché su ogni altra ragione. La Spagna
baluardo della "reazione cattolica", di un "assolutismo"
oppressivo o totalitario, di dominazioni distruttive su popoli e paesi, di
irrazionalismo e sfruttamenti economici di ogni genere, di autentici genocidi
di popoli e di civiltà, insomma vero e proprio "impero del male", di
cui l'"Inquisizione spagnola" era il simbolo più eloquente".
Proprio sull'Inquisizione spagnola la storiografia, grazie ad
approfondite ricerche d'archivio e a un atteggiamento meno prevenuto degli
studiosi, sta pervenendo a risultati più equilibrati e più obbiettivi. È
significativa la vicenda dello storico inglese Henry Arthur Francis Kamen, di
formazione marxista, che nella prima edizione del suo studio L'Inquisizione
spagnola - l'unica tradotta in italiano - indicava nei tribunali inquisitoriali
la causa principale di un presunto ritardo culturale del paese iberico, mentre
nell'edizione più recente sostiene che la Spagna di quel tempo "[...] era
una delle nazioni europee più libere".
Dall'analisi di Kamen emerge che l'Inquisizione è stata
espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra
le diverse comunità religiose a un'altra sempre più contrassegnata da
conflitti, e che essa fu la risposta della Chiesa e della Cristianità alla
minaccia rappresentata dall'eresia e, successivamente, in Spagna, dalle false conversioni
di ebrei e di musulmani.
Anche Jean Dumont, storico francese specializzato in
ispanistica, ritiene che il punto di partenza corretto per parlare
dell'Inquisizione spagnola stia nel mettere a fuoco la questione ebraica in
Spagna. Nei regni della penisola iberica gli ebrei, molto numerosi, erano
soggetti da secoli a uno statuto, non scritto, di tolleranza e godevano di una
particolare protezione da parte dei sovrani. Invece, i rapporti a livello
popolare fra ebrei e cristiani erano più difficili, soprattutto perché era
consentito ai primi non soltanto di tenere aperte le botteghe in occasione
delle festività religiose, che a quell'epoca erano molto numerose, ma anche di
effettuare prestiti a interesse, in un'epoca in cui il denaro non veniva ancora
considerato un mezzo per ottenere ricchezza. La situazione era complicata dalla
presenza di numerosi conversos, cioè di ebrei convertiti al cattolicesimo, che
dominavano l'economia e la cultura e rivestivano anche cariche ecclesiastiche.
In alcuni casi evidenti, gruppi di conversos mostravano che la loro adesione
alla fede cattolica era puramente formale e celebravano in pubblico riti
inequivocabilmente giudaici. A partire dal 1391 nei regni spagnoli esplodono
episodi di violenza popolare contro ebrei e falsi convertiti, che le autorità
arginano con difficoltà. Quando Isabella di Castiglia (1451-1504) sale al
trono, nel 1474, la convivenza fra ebrei e cristiani è molto deteriorata e il
problema dei falsi convertiti è tale che, secondo l'autorevole storico della
Chiesa Ludwig von Pastor (1854-1928), era in questione l'esistenza o la non
esistenza della Spagna cristiana. In quella situazione si moltiplicano le
richieste, provenienti anche da autorevoli conversos, in favore
dell'istituzione dell'Inquisizione.
La Castiglia non aveva mai avuto un organismo che si occupasse
specificamente dell'eresia, perché era stata ritenuta sufficiente l'attività
dei tribunali ecclesiastici, dipendenti dai vescovi. Invece, l'Inquisizione era
stata operante nei domini della corona aragonese dal 1238, ma era del tutto
inattiva dal secolo XV. Su sollecitazione di Isabella di Castiglia e del marito
Ferdinando d'Aragona (1452-1516) - che avevano promosso invano una campagna
pacifica di persuasione nei confronti dei giudaizzanti - il 1° novembre 1478
Papa Sisto IV (1471-1484) istituisce l'Inquisizione in Castiglia e autorizza i
Re Cattolici a nominare nei loro Stati alcuni inquisitori di fiducia con
giurisdizione esclusivamente sui cristiani battezzati. Pertanto, nessun ebreo è
stato mai condannato perché tale, mentre sono stati condannati quanti si
fingevano cattolici per ricavarne vantaggi.
2. La procedura e le pene
L'attività del nuovo organismo si fonda sulla copiosa
legislazione elaborata dai canonisti medievali e riprende, salvo qualche lieve
differenza, l'organizzazione, la procedura e la progressione delle pene della
prima Inquisizione. Tuttavia, i poteri di nomina e di rimozione degli
inquisitori erano concessi alla Corona tramite la figura di un intermediario,
l'inquisitore generale, assistito dal Consiglio della Suprema e Generale
Inquisizione.
L'azione dei primi inquisitori a Siviglia è molto rigorosa ed
esercitata, talvolta, al di fuori delle garanzie canoniche, così che la Santa
Sede ritiene opportuno intervenire per nominare l'inquisitore generale nella
persona del domenicano Tomas de Torquemada (1420-1498), confessore della regina
Isabella, sul quale una letteratura di propaganda ha diffuso grandi menzogne.
Uomo di costumi integerrimi, nonché uno dei maggiori mecenati e protettori di
artisti della sua epoca, Torquemada fu, invece, un inquisitore generale
relativamente mite e liberale e s'impegnò per ottenere ampie amnistie, come
quella del 1484.
Lo storico francese Bartolomé Bennassar, confrontando i
tribunali inquisitoriali con le corti civili dell'epoca, descrive
l'Inquisizione spagnola in questi termini: "Senza alcun dubbio più
efficace. Ma anche più esatta, più scrupolosa [...]. Una giustizia che esamina
attentamente le testimonianze, che le sottopone a uno scrupoloso controllo, che
accetta liberamente la ricusazione da parte degli accusati dei testimoni
sospetti (e spesso per i motivi più insignificanti); una giustizia che tortura
raramente e che rispetta le norme legali, contrariamente ad alcune
giurisdizioni civili [...]. Una giustizia preoccupata di educare, di spiegare
all'accusato perché ha errato, che ammonisce e consiglia, le cui condanne a
morte colpiscono solo i recidivi".
Lo studioso danese Gustav Henningsen, dopo aver analizzato
statisticamente circa quarantamila casi di inquisiti fra il 1540 e il 1700,
rileva che soltanto l'1% di essi fu giustiziato. Lo storico statunitense Edward
Peters conferma questi dati: "La valutazione più attendibile è che, tra il
1550 e il
3. Indulgenza verso la stregoneria
La relativa mitezza dei tribunali inquisitoriali emerge anche
dall'atteggiamento tollerante tenuto nei confronti della stregoneria, proprio
nel periodo in cui dilagava in Europa la fobia antistregonica, legata
direttamente alla diffusione dell'occultismo e del pensiero magico nel
Rinascimento e alla psicosi del demoniaco, indotta dalla Pseudo-Riforma
protestante. È ormai certo che in Spagna fu proprio l'Inquisizione - dopo una
prima incontrollata diffusione di timori popolari e di repressione statale - a impedire
lo sviluppo di una vera e propria caccia alle streghe, così come è poco noto
che a Roma l'Inquisizione fece giustiziare per stregoneria una sola persona,
nel 1424. È significativo, inoltre, che furono i principi più legati ai valori
cavallereschi e feudali ad attestarsi su posizioni di moderazione e di
scetticismo verso i supposti poteri delle streghe, mentre la parte più
"progressista" della cultura ufficiale sposò la causa
dell'intolleranza e della persecuzione in nome del progresso della ragione. Da
parte loro, i Pontefici raccomandarono sempre agli inquisitori di limitare il
loro interesse per gli stregoni ai soli casi in cui fossero presenti elementi
sacrileghi o idolatrici, cioè quando, alla superstizione, potessero essere
attribuiti con evidenza i caratteri dell'eresia.
L'Inquisizione spagnola interviene per la prima volta nel
4. Popolarità dell'Inquisizione
Il ruolo svolto dall'Inquisizione spagnola, che godette sempre
di grande popolarità, è decisivo non soltanto per preservare il paese da quella
sanguinosa fobia di massa costituita dalla caccia alle streghe, ma anche e
soprattutto per assicurare la pace sociale e religiosa alla Spagna. Infatti quel
tribunale, colpendo una percentuale ridotta di conversos e di moriscos, cioè
musulmani diventati cristiani solo per opportunismo, certifica che tutti gli
altri erano veri convertiti, che nessuno aveva il diritto di discriminare o di
attaccare con la violenza, ed evita un bagno di sangue. Inoltre, contribuendo
alla repressione dell'eresia e sostenendo l'operato della Contro-Riforma,
svolge una preziosa azione educativa sul basso clero e il resto della
popolazione, confortandone la fede e la morale. Non può essere sottovalutata la
portata di tale impresa, che costituisce una nazione spiritualmente compatta di
fronte alla Francia lacerata dalle guerre di religione, all'Inghilterra sulla
strada dell'eresia e al sultano difensore del mondo islamico. Inoltre, l'Inquisizione
non ostacola mai le grandi imprese culturali dei secoli XVI e XVII; anzi,
ripiegandosi su sé stessa, la Spagna giunge in quegli anni al culmine del suo
splendore. Personaggi come il giurista Francisco de Vitoria (1492-1546), i
teologi Domenico de Soto (1495-1560), Melchor Cano (1509-1560) e Francisco
Suarez (1548-1617), i drammaturghi Felix Lope de Vega (1562-1635) e Pedro
Calderón de la Barca (1600-1681), il romanziere Miguel de Cervantes
(1547-1616), i pittori El Greco (1545-1614), Bartolomé Murillo (1617-1682) e
Diego Velázquez (1599-1660) dominano la cultura europea e danno vita al
cosiddetto siglo de oro spagnolo. Anche la vita religiosa conosce la sua epoca
aurea, attraverso le figure di sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore
della Compagnia di Gesù, di san Giovanni di Dio (1495-1550), fondatore
dell'Ordine degli Ospedalieri, dei mistici santa Teresa d'Avila (1515-1582) e
san Giovanni della Croce (1542-1591), riformatori dell'ordine carmelitano, del
francescano san Pietro di Alcantara (1499-1562) e del gesuita san Francesco
Borgia (1510-1572).
Pertanto, non fu un'impresa facile sopprimere l'Inquisizione.
Soltanto con la diffusione dell'illuminismo e con la laicizzazione della
monarchia, con l'invasione napoleonica e con la propaganda liberale si perviene
alle soppressioni del 1813 e del 1834, che suscitano l'opposizione degli
spagnoli di tutti i ceti, per i quali l'Inquisizione era il simbolo di quanto
costituiva l'identità del paese, cioè la fedeltà incondizionata al
cattolicesimo.
Per approfondire: vedi Henry Kamen, L'Inquisizione spagnola,
trad. it., Feltrinelli, Milano 1973; e Bartolomé Benassar, Storia
dell'Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, trad. it., Rizzoli, Milano
1985; vedi pure, sinteticamente, Jean Dumont, L'Inquisizione fra miti e
interpretazioni, intervista a cura di Massimo Introvigne, in Cristianità, anno
XIV, n. 131, marzo 1986, pp. 11-13; vedi elementi molto utili nelle
Integrazioni bibliografiche - redatte da Marco Invernizzi e da Oscar
Sanguinetti - in appendice a Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953), Elogio della
Inquisizione, trad. it., Leonardo, Milano 1994; una ricostruzione dell'opera e
della figura di Isabella di Castiglia, in Joseph Perez, Isabella e Ferdinando,
trad. it., SEI, Torino 1991, che si sofferma su La Spagna inquisitoriale, pp.
267-318; il rapporto dell'Inquisizione cattolica con la stregoneria, in
Giovanni Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della
Controriforma, Sansoni, Firenze 1990; e in Gustav Henningsen, L'avvocato delle streghe.
Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990.
"Il giudice e l'eretico. Studi
sull'Inquisizione romana"
Una lettura
Uno studio dello storico italo-americano John Tedeschi descrive
l'organizzazione e le procedure adottate dall'Inquisizione romana per la
salvaguardia della fede cattolica e nella lotta contro l'eresia, sfatando
numerosi luoghi comuni - soprattutto relativi all'arbitrarietà e alla severità
dei tribunali inquisitoriali - ed evidenziando i limiti d'interpretazioni
purtroppo sedimentate nell'immaginario collettivo.
Il 23 gennaio 1998, con l'apertura degli archivi del
Sant'Uffizio - peraltro già disposta dal 1902 per casi particolari e limitati
-, si è concluso un lento e prudente processo iniziato nel 1881, quando Papa
Leone XIII (1878-1903) volle aprire agli studiosi l'Archivio Segreto Vaticano. "L'apertura
del nostro Archivio - ha dichiarato il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede - si ispira in realtà al compito
stesso assegnato dal Santo Padre alla nostra Congregazione di "promuovere
e tutelare la dottrina sulla fede e i costumi di tutto l'orbe cattolico".
Sono sicuro che aprendo i nostri Archivi si risponderà non solo alle legittime
aspirazioni degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di
servire l'uomo aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la
propria storia" (1).
Intervistato dallo scrittore Vittorio Messori nel 1984, lo
storico Luigi Firpo (1915-1989), esponente di rilievo della cultura laicista,
uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso anche ai documenti riservati del
Sant'Uffizio, si è espresso così: "Sono sicuro che l'apertura di
quell'archivio, sinora assai limitata anche per esigenze organizzative,
gioverebbe molto all'immagine della Chiesa [...]. Aprendo a tutti gli
studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi della abusiva leggenda nera che
circonda l'Inquisizione" (2).
L'immagine dell'Inquisizione sta infatti mutando, e in senso
favorevole, presso gli specialisti, grazie ai risultati della rinnovata ricerca
storica. Inoltre, alcune apprezzabili iniziative editoriali stanno mettendo a
disposizione di un vasto pubblico testi poco conosciuti al di fuori della
cerchia ristretta degli addetti ai lavori. È questo il caso dell'Elogio
della Inquisizione, traduzione della voce Inquisition, scritta dallo
storico e giornalista francese Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953) per il Dictionnaire
apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911 e il 1913 (3), nota
finora soltanto ai frequentatori di biblioteche specializzate e molto utile per
un primo approccio allo studio dell'Inquisizione medioevale, la cui fondazione
è fatta risalire a Papa Gregorio IX (1227-1247). Anche la storiografia
sull'Inquisizione spagnola - l'istituzione creata nel 1478 da Papa Sisto IV
(1471-1484), su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia (1451-1504) e
di re Ferdinando d'Aragona (1452-1516) - ha prodotto negli ultimi decenni
rilevanti contributi, sostanziati da approfondite ricerche d'archivio, che
hanno consentito di superare i pregiudizi di carattere ideologico su questa
istituzione e che sono a disposizione del lettore comune, anche in Italia,
grazie alle sintesi offerte dall'inglese Henry Arthur Francis Kamen, dal
francese Bartolomé Bennassar e dal danese Gustav Henningsen (4). Una
rivisitazione degli studi storici è in corso anche per quanto riguarda
l'Inquisizione romana - più precisamente la Congregazione della sacra romana e
universale Inquisizione, o Sant'Uffizio, istituita da Papa Paolo III
(1534-1549) nel 1542 -, la cui autorità si estendeva soltanto su una parte
della penisola italiana, perché in Sicilia e in Sardegna operava l'Inquisizione
spagnola, mentre negli altri domìni asburgici, il Regno di Napoli e lo Stato di
Milano, le funzioni inquisitoriali erano svolte dai tribunali episcopali del
luogo (5).
Uno studio innovativo
Autore dei "primi studi realmente innovativi sul
tema" (6) è John Tedeschi, di cui nel 1997 è stato pubblicato in
Italia Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana (7)
- raccolta di undici saggi scritti fra il 1971 e il 1988, tutti ampiamente
rivisti e aggiornati, nonché corredati di un imponente apparato critico e
bibliografico -, che offre finalmente al grande pubblico i risultati di una
ricerca ventennale.
Nato a Modena nel 1931, Tedeschi è emigrato negli Stati Uniti
d'America all'età di otto anni, ha studiato all'Università di Harvard, dove la
sua attenzione si è concentrata sulla diffusione del protestantesimo in Italia,
è stato professore associato nelle università di Chicago, dell'Illinois a
Chicago e del Wisconsin a Madison, ha lavorato per quasi due decenni alla
Newberry Library, sempre a Chicago, dove ha fondato il Center for Reformation
Research Studies. Ha inoltre ricoperto la carica di presidente della Society
for Reformation Research e della Sixteenth Century Studies Conference, e ha
fatto parte del comitato esecutivo della Renaissance Society of America dal
1971 al 1996.
Quando, nel
Lo studioso italo-americano decide dunque di fondare le sue
ricerche sull'esame rigoroso delle molteplici fonti a disposizione per
ricostruire correttamente l'iter di un processo inquisitoriale, dalle
prime convocazioni alle deliberazioni finali. Fin dall'inizio dei suoi studi,
consultando la ricca collezione dei manoscritti conservati nel Trinity College
di Dublino, in Irlanda - contenenti sentenze emesse in Italia fra il 1564 e il
1659 - s'imbatte in una serie di elementi che forniscono un quadro nuovo della
giustizia inquisitoriale: "il convento o l'abitazione come luoghi
prevalenti in cui scontare una pena detentiva; l'importanza attribuita alle
circostanze attenuanti e alla consulenza di specialisti nel campo del diritto e
della teologia; la relativa mitezza delle sentenze dei processi per
stregoneria; il gran numero di casi che si concludevano con abiure sulle
gradinate delle chiese; la rarità del ricorso alla pena capitale" (p.
25) e la constatazione che il "carcere perpetuo" non comportava mai
l'imprigionamento a vita ma, generalmente, una detenzione di tre anni. "Un
banale fraintendimento della terminologia inquisitoriale ha quindi fuorviato
più di uno studioso in buona fede, e contribuito alla cattiva fama
dell'istituzione" (p. 26), osserva lo storico, che rievoca anche il
caso di uno studio sull'eresia a Mantova, il cui autore aveva scorrettamente
sostituito "abiurare" con "abbruciare" tutte le volte in
cui la prima espressione compariva nel testo: "E quando un autore
successivo si sentì tenuto a parlare di "eccessi" dell'Inquisizione
mantovana, la sua fonte fu quel resoconto filologicamente inquinato. È chiaro
che simili leggerezze autoperpetuantisi non hanno contribuito a un esame
obiettivo dell'argomento" (p. 20).
L'esame delle fonti
Tedeschi non si propone di chiarire le origini della leggenda
nera sulla spietatezza e sull'arbitrarietà dell'Inquisizione, rinviando a uno
studio specifico sul tema (10), ma prende in esame alcuni fattori che hanno
contribuito al perpetuarsi di vecchi stereotipi e di fraintendimenti: "Si
va dall'uso improprio delle fonti alle affermazioni non sorrette dai dati di
fatto e, in qualche caso, a quelli che appaiono deliberati tentativi di
distorcere la realtà" (p. 29), cui si aggiungono la tendenza da parte
di alcuni autori a considerare regola le aberrazioni, la presenza di
contraddizioni anche in una stessa opera e il disaccordo fra gli storici su
punti fondamentali pure se facilmente verificabili sulla base dei documenti
consultabili. Infatti, la gamma di fonti a disposizione degli studiosi è
piuttosto ampia, nonostante le gravi perdite subìte dagli archivi
dell'Inquisizione romana, distrutti o dispersi in Irlanda, in Belgio, in Francia,
in Italia e, in misura minore, negli Stati Uniti d'America, in conseguenza del
saccheggio del Sant'Uffizio operato da funzionari napoleonici nel 1810 e dei
danni patiti dalle Inquisizioni provinciali di Firenze, di Milano e di Palermo
a causa del vandalismo giacobino o della soppressione delle istituzioni
religiose. "La politica della porta chiusa del Sant'Uffizio -
osserva Tedeschi - si basa su una decisione burocratica interna e non
rappresenta la posizione ufficiale della Chiesa cattolica riguardo all'accesso
ai documenti dell'Inquisizione. Raccolte ecclesiastiche provinciali ricche di
documenti su tale argomento a Napoli, Pisa, Udine, Firenze e altrove, in misura
crescente vengono messe a disposizione degli storici a scopo di ricerca; e
innumerevoli codici inquisitoriali conservati presso la Biblioteca Vaticana e
l'Archivio Segreto Vaticano sono stati messi a disposizione di studiosi di
tutto il mondo, anche sotto forma di microfilm" (p. 214, nota 1).
Alcuni studiosi, anche in anni recenti, hanno sollevato il
problema dell'attendibilità dei processi inquisitoriali come documenti storici,
e Carlo Ginzburg, in particolare, ha sottolineato il divario di estrazione
sociale e culturale che spesso separava giudice e imputato, chiedendosi se tali
fonti, pervenuteci attraverso il filtro dei rappresentanti delle classi colte,
siano in grado di informarci correttamente sulle idee e sulle affermazioni
dell'imputato e dei testimoni (11). A questa domanda - in merito alla quale è
già stato osservato, in occasione dell'esame di particolari fonti
inquisitoriali medioevali, che "[...] i verbali degli
interrogatori sono assai più pieni di vita e aderenti alla verità di quanto
normalmente, ma erroneamente, si creda" (12) - Tedeschi risponde
che i più responsabili fra i funzionari del Sant'Uffizio erano consapevoli di
questa difficoltà e cercavano di evitare possibili abusi. La raccomandazione di
evitare scrupolosamente le domande tendenziose e, in generale, di spingere
l'interrogatorio in una direzione prestabilita era ripetuta in continuazione
sia nei manuali di teoria dei procedimenti inquisitoriali sia nella
corrispondenza fra Roma e i tribunali provinciali. La Congregazione del
Sant'Uffizio, inoltre, vigilava sulle articolazioni locali, imponendo la
puntuale applicazione della legislazione e mirando all'uniformità dei
procedimenti: "Decisioni capricciose e arbitrarie, abusi di potere e
flagranti violazioni dei diritti umani non erano tollerati" (p. 30).
Oltre la leggenda nera
Le ricerche di Tedeschi consentono di sfatare una lunga serie di
luoghi comuni. L'Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di
mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le testimonianze
- gli inquisitori "[...] non ritenevano di avere niente di
vergognoso da nascondere" (p. 97) -, è una delle prime istituzioni del
passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile
ogni travisamento storico sia sull'organizzazione sia sulla prassi adottata.
Gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi
irreprensibili, poco inclini a decidere in fretta e arbitrariamente la sorte
dell'imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare
in seno alla Chiesa. Diverse garanzie giuridiche a tutela dell'accusato erano
parte integrante della procedura inquisitoriale. È accertato che più di un
imputato abbia chiesto e ottenuto il cambiamento della sede e la sostituzione
dell'inquisitore che si occupava del suo caso, avendo potuto dimostrarne la
mancanza di obbiettività. "Non è un'esagerazione affermare che il
Sant'Uffizio fu in certi casi un pioniere della riforma giudiziaria. L'avvocato
difensore era parte integrante della sua procedura [...], nei tribunali
dell'Inquisizione l'imputato riceveva una copia autenticata dell'intero
processo [...] e disponeva di un ragionevole lasso di tempo per
preparare la propria replica" (p. 30). Inoltre, molti manuali
inquisitoriali abbondavano di consigli su possibili strategie difensive.
Nella prassi giudiziaria romana l'uso della tortura era
attentamente controllato e sottoposto a una serie di limitazioni: in
particolare, occorreva l'autorizzazione del tribunale centrale, che la
concedeva soltanto quando i cardinali inquisitori, assistiti da un'équipe
di teologi e di specialisti in diritto canonico, ritenevano di aver ricevuto
tutte le informazioni importanti sul caso in esame. La tortura doveva essere
moderata affinché la vittima, se innocente, potesse tornare a godere la
libertà, e, se colpevole, potesse ricevere la giusta punizione. Sebbene fino al
secolo XVII l'Inquisizione, come tutti gli altri sistemi giudiziari europei,
non abbia rinunciato a ricorrere alla tortura in quelle particolari situazioni
in cui si riteneva che una parte essenziale della verità venisse celata
pervicacemente, gli inquisitori, a differenza dei giudici civili, ne facevano
uso raramente, ritenendo che fosse un fragile e rischioso strumento, spesso
incapace di condurre alla verità, soprattutto perché molti riuscivano a
sopportare i tormenti grazie alla loro forza d'animo e fisica (13).
Sebbene si pensi generalmente il contrario, solo una piccola
percentuale di procedimenti inquisitoriali si concludeva con la condanna a
morte, che era riservata ai pertinaci, non disposti in alcun caso a
riconciliarsi con la Chiesa, e ai relapsi, i ricaduti, giudicati
colpevoli di eresia già in passato. "I dati disponibili sui rei
consegnati dall'Inquisizione al braccio secolare indicano che una percentuale
decisamente modesta di essi fu giustiziata" (p. 85). Fra i primi mille
imputati che comparvero davanti al tribunale di Aquileia fra il 1551 e il 1647
solo quattro furono giustiziati. A Milano nella seconda metà del 1500 si
contarono dodici esecuzioni capitali per eresia e soltanto una a Modena, nel
1567. Quanto alle oltre duecento sentenze, alcune concernenti più di un
imputato, contenute nei manoscritti del Trinity College, solo in tre di esse
era invocata l'estrema sanzione, mentre a Roma si contarono novantasette
condannati a morte dal Sant'Uffizio fra il 1542 e il 1761. Dati analoghi
emergono dal confronto con l'Inquisizione spagnola, che fra il 1540 e il
Inoltre, poiché la carcerazione come pena anziché come misura
precauzionale durante il procedimento fece la sua comparsa in Europa negli
ultimi decenni del 1500, "[...] l'Inquisizione, col suo secolare
ricorso alla detenzione ad poenam, dev'essere considerata
all'avanguardia anche nel diritto penale, in un'epoca in cui le altre opzioni a
disposizione del giudice si riducevano al rogo, alla mutilazione, alle galee e
all'esilio" (p. 31). Basandosi su vari documenti, compresi quelli del
processo a Giordano Bruno (1548-1600), nonché su un sopralluogo in prima
persona, Luigi Firpo ha ricostruito le condizioni di vita nelle prigioni romane
del Sant'Uffizio, demolendo le teorie fantasiose di alcuni autori: "Si
scoprirebbe poi che gli Ucciardone e le Rebibbia di oggi sono le vere bolge
infernali rispetto alle troppo diffamate celle dell'Inquisizione, dove la vita
era ritmata da regolamenti severi ma non disumani. Era, per esempio, prescritto
che lenzuola e federe si cambiassero due volte alla settimana: roba da grande
albergo.... [...] Una volta al mese, i cardinali responsabili dovevano
ricevere uno a uno i prigionieri per sapere di che avessero bisogno. Mi sono
imbattuto in un recluso friulano che chiese di avere birra al posto del vino.
Il cardinale ordinò che si provvedesse, ma, non riuscendo a trovare birra a
Roma, ci si scusò con il prigioniero, offrendogli in cambio una somma di denaro
perché si facesse venire la bevanda preferita dalla sua patria" (14).
Ai responsabili di reati particolarmente gravi e ripugnanti era
riservata invece la detenzione sulle galee, "[...] che possono
essere considerate, in un certo senso, l'equivalente delle nostre carceri di
massima sicurezza" (p. 117).
Se il rogo, la reclusione "a vita" e i lavori forzati
sulle galee sono le sanzioni associate nella mente dei più ai processi
dell'Inquisizione, l'esame delle sentenze mostra il predominio di pene molto
più lievi. "Con particolare frequenza si incontrano atti di umiliazione
pubblica sotto forma di abiure lette sulle gradinate delle chiese, di domenica
o in occasione di festività religiose, di fronte a folle di fedeli; multe o
servigi a favore di istituzioni caritative; e cicli apparentemente
interminabili di preghiere e atti di devozione da compiere per mesi e
anni" (p. 119). Spesso erano comminati gli arresti domiciliari,
generalmente congiunti allo svolgimento di attività utili alla comunità e al
ricupero morale del reo (15).
Per quanto riguarda la tipologia dei reati si colgono
sostanziali differenze fra i due grandi sistemi inquisitoriali dell'età
moderna, derivanti dal fatto che l'Inquisizione romana era stata rifondata nel
1542 per fronteggiare la diffusione del protestantesimo nella penisola
italiana, mentre quella spagnola era stata istituita più di mezzo secolo prima
per affrontare il problema delle false conversioni dall'ebraismo al
cristianesimo. Negli Stati italiani, quindi, il "luteranesimo" fu la
preoccupazione maggiore dei funzionari inquisitoriali, finché nel secolo XVII
la pratica della magia soppiantò il protestantesimo come capo d'imputazione più
comune. Peraltro, l'assidua vigilanza di Roma nei confronti della magia - nella
quale raramente erano incluse la stregoneria o il satanismo - non comportò una
grande severità in termini di pene. "Come riconosciuto anche da Lea
quasi un secolo fa, entrambe le grandi Inquisizioni del Mediterraneo erano
assai caute e moderate a questo riguardo, in confronto ai tribunali
secolari" (p. 85). Tedeschi, fra l'altro, contesta la tesi secondo cui
il manuale inquisitoriale Malleus maleficarum, scritto dai domenicani
tedeschi Heinrich Kramer (1430 ca.-1505) e Jakob Sprenger (1436 ca.-1495) e
pubblicato nel 1486, sia stato il testo canonico per la persecuzione dei
sospettati di stregoneria nei due secoli seguenti, documentando come una
filosofia radicalmente opposta trovasse consensi crescenti nei tribunali del
Sant'Uffizio nella seconda metà del 1500 fino a raggiungere dignità di norma
con l'Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum
et maleficiorum, del 1624.
Conclusione
L'Inquisizione ha rappresentato un fenomeno plurisecolare e
dalle molteplici caratteristiche a seconda dei luoghi e dei contesti storici
nei quali si è esplicato, ma è stata comunque "[...] espressione
del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra le diverse
comunità religiose a un'altra sempre più contrassegnata da conflitti, e
[...] la risposta della Chiesa e della cristianità alla minaccia
rappresentata dall'eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in Spagna,
dalle false conversioni di giudei e musulmani" (16). Come il ruolo
svolto dai tribunali inquisitoriali fu decisivo per assicurare la pace sociale
e religiosa in Spagna, così l'Inquisizione romana ha rappresentato nella
penisola italiana un bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale in
tempi "[...] in cui la Chiesa - come ricorda il cardinale Ratzinger
- ha dovuto difendere la fede dei più piccoli in contesti frequentemente
polemici se non manifestamente aggressivi" (17).
La storia di questa istituzione è stata travisata e deformata
per secoli, finché accurate ricerche documentarie hanno aperto la strada a
lavori scientifici innovativi, anche grazie all'esempio e allo stimolo forniti
dall'opera di John Tedeschi. È auspicabile ora che la nuova immagine
dell'Inquisizione esca dall'ambito specialistico ed entri a pieno titolo nel
patrimonio culturale anzitutto dei cattolici, i quali sono ancora affetti da un
ingiustificato complesso d'inferiorità a causa di una scarsa conoscenza della
loro storia.
Francesco Pappalardo
(1) Card. Joseph Ratzinger, "La soglia della
verità", in Avvenire, anno XXXI, n. 19, 23-1-1998, p. 21. Già
un secolo fa Papa Leone XIII, dopo aver osservato che, almeno negli ultimi
tempi, "[...] si può asserire fondatamente che la scienza
storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità"
(Epistola Saepenumero considerantes, del 18-8-
(2) Cit. in Vittorio Messori, Inchiesta sul cristianesimo,
Società Editrice Italiana, Torino 1987, p. 27.
(3) Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della Inquisizione, a
cura di Rino Cammilleri, con un invito alla lettura di Vittorio Messori,
Leonardo, Milano 1994 (cfr. la mia recensione in Cristianità, anno XXIII,
n. 239, marzo 1995, pp. 24-26). Sull'Inquisizione medioevale vedi anche Leo
Moulin, L'Inquisizione sotto inquisizione, a cura dell'Associazione
Culturale ICARO, Cagliari 1992; e il mio L'Inquisizione medioevale, in
IDIS, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", a cura di
Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità,
Piacenza 1997, pp. 131-136.
(4) Henry Kamen, Inquisition and Society in Spain in the
Sixteenth and Seventeenth Centuries, Weidenfeld and Nicolson, Londra 1985,
di cui esiste una successiva traduzione spagnola ampliata, La inquisición
española, Editorial Crítica, Barcellona 1985, che modifica radicalmente il
giudizio negativo espresso nel 1965 (cfr. L'Inquisizione spagnola, trad.
it., Feltrinelli, Milano 1973); nonché Idem, The Spanish Inquisition. A
Historical Revision, Yale University Press, New Haven, Connecticut 1998;
Bartolomé Bennassar, Storia dell'Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo,
trad. it., Rizzoli, Milano 1994; e Gustav Henningsen, L'avvocato delle
streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti,
Milano 1990. Una rassegna bibliografica sull'argomento è stata compiuta da
Brian van Hove S.J., Oltre il mito dell'Inquisizione, in La Civiltà
Cattolica, anno 143, vol. IV, quaderno 3419, 5-12-1992, pp. 458-467, e
quaderno 3420, 19-12-1992, pp. 578-588. Cfr. anche Joseph De Maistre
(1753-1821), Elogio dell'Inquisizione di Spagna, con prefazione di Rino
Cammilleri, Il Cerchio, Rimini 1998; e il mio L'Inquisizione spagnola,
in IDIS, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", cit.,
pp. 137-142.
(5) Cfr. Adriano Prosperi, L'Inquisizione: verso una nuova
immagine?, in Critica storica, anno XXV, gennaio-marzo 1988, n. 1,
pp. 119-145, e Idem, L'Inquisizione romana. Dal declino della mentalità
magica ai conflitti interni al clero, alla storia della censura, in Prometeo.
Rivista trimestrale di scienze e storia, anno 11, n. 44, dicembre 1993, pp.
18-29, nonché Idem, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori,
missionari, Einaudi, Torino 1966. Cfr. anche AA.VV., L'Inquisizione
romana in Italia nell'età moderna. Archivi, problemi di metodi e nuove ricerche,
a cura di Andrea Del Col e Giovanna Paolin, Atti del seminario internazionale
di Trieste (18/20-5-1988), Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio
centrale per i beni archivistici, Roma 1991. Sull'Inquisizione spagnola in
Italia cfr. Agostino Borromeo, Contributo allo studio dell'Inquisizione e
dei suoi rapporti con il potere episcopale nell'Italia spagnola, in Annuario
dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, anno
XXIX-XXX (1977-1978), Roma 1979, pp. 219-276. Sull'attività dei tribunali
inquisitoriali a Napoli e a Milano, dove non fu mai accettata l'introduzione
dell'Inquisizione spagnola, perché avrebbe minacciato privilegi e libertà
tradizionali, cfr. Giovanni Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe
nell'Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990; e Romano Canosa, Storia
dell'Inquisizione in Italia dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento,
5 voll., Sapere 2000, Roma 1986-1990.
(6) A. Prosperi, L'Inquisizione in Italia, in Clero e
società nell'Italia moderna, a cura di Mario Rosa, Laterza, Bari-Roma 1992,
pp. 275-320 (p. 293).
(7) Cfr. John Tedeschi, Il giudice e l'eretico. Studi
sull'Inquisizione romana, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1997 (The
Prosecution of Heresy. Collected Studies on the Inquisition in Early Modern
(8) Cfr. Henry Charles
Lea, A History of the Inquisition of the Middle Ages,
(9) A. Prosperi, L'Inquisizione: verso una nuova immagine?,
cit., pp. 127-128.
(10) "Tanto la storia quanto il mito sono brillantemente
discussi da E[dward]. Peters in Inquisition, New
York-London 1988" (p. 201, n. 3).
(11) Cfr. Carlo Ginzburg, Stregoneria e pietà popolare. Note
a proposito di un processo modenese del
(12) Giovanni Grado Merlo, I registri inquisitoriali come
fonti per la storia dei gruppi ereticali clandestini. Il caso del Piemonte
basso medievale, in Histoire et clandestinité du Moyen-Âge à la première
guerre mondiale. Colloque de Privas (Mai 1977), a cura di M. Tilloy,
Gabriel Audisio e Jacques Chiffoleau, Albi 1979, pp. 59-74 (p. 72).
(13) Tedeschi in proposito riporta una considerazione di John
Langbein, autore di Torture and the Law of Proof. Europe and England in the
Ancien Régime (Chicago-Londra 1977, p. 185): "Dobbiamo tenere presente
che nessun aspetto della condizione umana è mutato così radicalmente, nel
ventesimo secolo, come la tolleranza della sofferenza fisica. I comuni
analgesici e l'anestesia hanno in gran parte eliminato dalla nostra vita
l'esperienza del dolore somatico. A causa di malattie, parti, interventi
chirurgici e odontoiatrici i nostri antenati si abituavano a livelli di
sofferenza che per noi risultano incomprensibili" (p. 300, nota 113).
(14) Cit. in V. Messori, Inchiesta sul cristianesimo,
cit., p. 27.
(15) Lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642) fu
condannato agli arresti domiciliari - scontati nella sua villa di Arcetri,
presso Firenze, dove continuò a ricevere gli allievi e potè completare la
stesura di alcune opere - e alla recita settimanale dei salmi penitenziali:
cfr. Luciano Benassi, Galileo Galilei. La leggenda del "martire"
della scienza moderna, in AA. VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione
e apologia, a cura di Franco Cardini, Piemme, Casale Monferrato
(Alessandria) 1994, pp. 329-352.
(16) Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti, Integrazioni
bibliografiche, in J.-B. Guiraud, Elogio della Inquisizione, cit.,
pp. 165-189 (pp. 167-168), che riprendono una considerazione di Henry Kamen.
(17) Cad. J. Ratzinger, art.
cit.
A cura di
RINO CAMMILLERI
INTRODUZIONE
La leggenda nera" sull'Inquisizione è stata da tempo
smantellata dagli storici di professione, con un ridimensionamento di tali
proporzioni da far temere ad uno dei maggiori specialisti italiani, Adriano
Prosperi (non a caso di gran lunga il più citato nelle pagine che seguono), il
passaggio ad una leggenda rosa". Il timore è che si finisca col non
sottolineare a sufficienza l'intolleranza di quel tribunale ecclesiastico che
pretendeva di uniformare tutte le idee in circolazione ad una sola, la sua.
Prosperi: "La scoperta che i giudici di quel tribunale agivano sforzandosi
in buona fede di fare correttamente il loro lavoro e che spesso riuscivano ad
arginare ondate di sospetti e d'intolleranza, che la loro procedura era
rigorosa, che non desideravano far soffrire gli imputati, non significa
sostituire alla "1eyenda nigra" una "leyenda rosada""
(Inquisizione: verso una nuova immagine?, in "Critica storica" n. 25,
[19881).Già. Ma il lettore comune quanto sa di tale "scoperta"?
Comunque, qui si ricade nel solito problema del
"revisionismo" storico, termine d'origine marxista che postula una
verità ` ufficiale" da salvaguardare per non correre il rischio che
qualcuno possa, a furia "revisionare", subire tentazioni nostalgiche.
Ma noi siamo convinti che, oggi come oggi (ma anche domani come domani) solo un
visionario potrebbe pensare alla restaurazione di un Ancíen Régime in cui il
Sant'Uffizio tenesse la conta di quelli che si confessano e fanno la comunione.
Dunque, preferiamo subire la tentazione supremamente democratica di far sapere
a tutti, anche al lettore medio, quel che gli storici accademici sanno bene da
un pezzo. Perché il lettore (unico padrone e datore di lavoro di quelli come
noi; l'unico, dunque, di cui c'importi il parere) di un argomento spinoso come
l'Inquisizione dovrebbe continuare ad avere solo l'immagine fornita da romanzi
"gotici" come Il pozzo e il pendolo o Il nome della rosa?
Si deve ancora perpetuare la sgradevole distinzione tra cultura
"alta" per le élites e "bassa" per il volgo? Nel nostro
paese i cattolici sono tanti, e sono senz'altro interessati alla verità su uno
"scheletro nell'armadio della loro storia, anche se qualche prelato o
intellettuale potrà essere infastidito dalla riapertura d'antiche ferite.
Tuttavia, il libero mercato presenta un aspetto - nel caso in
questione meraviglioso: uno è padrone di comprare o meno questo libro, senza
che un'Inquisizione lo processi per averlo fatto.
Il materiale sull'Inquisizione è ormai davvero immenso, ed è il
motivo per cui nelle pagine seguenti verranno citate solo le opere a nostro
giudizio più rappresentative, a malincuore trascurando - per esempio cose
notevoli ma ponderose come i cinque volumi della Storia dell'Inquisizione in
Italia di Romano Canosa e privilegiando autori tutt'altro che teneri nei
confronti dell'Inquisizione. La scelta di proporre e commentare il Directorium
di Eymerich nella versione cinquecentesca del Peña è stata suggerita dal
singolare revival che l'inquisitore medievale subisce ai nostri giorni,
trasformato com'è in protagonista di romanzi di fantascienza da un autore d'Urania,
Valerio Evangelisti. In questo modo si è avuta la possibilità di offrire una
specie di "summa" sull'argomento sfruttando un personaggio che i
giovani conoscono, un manuale da inquisitori medievali con un aggiornamento di
due secoli dopo, una succinta panoramica di quanto la moderna storiografia ha
assodato. Chi vuole avere un'idea "veloce" di quel che fu davvero
l'Inquisizione, non deve fare altro che leggere questo libro.
Tuttavia è giusto avvisare il lettore, nostro signore e padrone,
che commetterebbe un grossolano errore se leggesse le parole di Eymerich e di
Peña con gli occhiali di fine XX secolo. Per due motivi. Il primo è che la
"tolleranza", quale oggi la s'intende nel pensiero "debole"
e politically correct, cinquecento anni fa (epoca di Peña) e - a maggior
ragione - settecento anni fa (epoca di Eymerich) era invece intesa nel suo
senso letterale di "sopportazione". Dall'Illuminismo in poi
"tolleranza religiosa" ha significato indifferenza verso
qualsiasi credo, religioso o no, adducendo che, se la religione porta a guerre
e massacri, è meglio relegarla nel privato. Purtroppo i giacobini non trovarono
altro mezzo c e imporre questa loro idea con guerre e massacri, il che ci
riporta al punto di partenza. O meglio, fuori strada, perché un libro di storia
è un libro di storia: lo si legge e poi, se si vuole, si esprime un giudizio;
giudizio che è più lucido se si è avuta la possibilità di ascoltare tutte le
campane.
Un altro errore da non commettere, nel leggere questo Manuale
dell'inquisitore, è pensare che alle direttive dei compilatori di simili
testi seguissero pronte applicazioni. Gli inquisitori consultavano questi
manuali solo per la procedura. La pratica quotidiana di quelli che erano pur
sempre dei preti - e non cessavano di esserlo per il fatto di trovarsi addosso
un'incombenza pesante e non di rado pericolosa - può genericamente riassumersi
nella formula "fulmini dal pulpito e misericordia nel confessionale".
Anzi, proprio perché i contemporanei non sopportavano la clericalis
mollities e tra il comandare e l'essere obbediti, a quei tempi, ce ne
correva, Eymerich e chi per lui si vedevano costretti a rincarare la dose,
sperando che dalla moltiplicazione delle minacce verbali scaturisse almeno
un'accettabile percentuale di successo.
"Demonizzata dalla polemica protestante, attaccata con
determinazione dagli illuministi fino a disinnescarne il legame col
"braccio secolare", l'Inquisizione attirò poi le fantasie
romantiche". Così il Prosperi (Introduzione, p. XVII) in un volume che il
lettore troverà citato ad iosa: Tribunali della coscienza. Inquisitori,
confessori, missionari, Einaudi,
Questo punto, di capitale importanza, va tenuto presente se si
vuol comprendere il linguaggio crudo ed esplicito di Eymerich (e di Peña; del
quale tuttavia, per non pesare troppo sui lettori, abbiamo preferito riportare
solo i passi essenziali). Certo, oggi siamo abituati a ben altra prudenza da
parte degli ecclesiastici.
Ma al tempo di Eymerich non c'era timore di venire equivocati.
Anzi, una certa apparente spietatezza era quasi d'obbligo per non confermare A
potere civile (e lo stesso popolo) nel sospetto che la Chiesa fosse di suo
troppo indulgente con colpevoli del delitto più alto: lesa maestà, il crimine
peggiore nel mondo antico, la cui pena fin dai tempi di Diocleziano era il
rogo. La Chiesa aveva dovuto lottare a lungo e duramente per sottrarre l'eresia
alla giurisdizione civile: se si fosse mostrata troppo intenzionata a
risparmiare gli eretici, tale giurisdizione (sempre periclitante) le sarebbe
stata sottratta e l'eretico non avrebbe avuto misericordia. Divergenti erano
infatti gli interessi dei due "bracci": quello spirituale, tendeva a
far rientrare l'eretico nell'ovile di Pietro; quello secolare, a eliminare ogni
minaccia di sovversione.
Altra fantasmagoria entrata per sempre nel nostro immaginario è
quella che vede negli eretici degli inermi "martiri del libero
pensiero". "Ora, finché la letteratura sull'Inquisizione è stata
soprattutto di origine protestante ( ... ) si è potuto tranquillamente demonizzare
quell'istituzione (strumento dell'Anticristo, si diceva) ed esaltarne le
vittime come martiri della verità. Una nozione schematica e superficiale"
(L'inquisizione: verso una nuova immagine?, cit., pp. 141-142). Dalle
pagine che seguono si vedrà che l'eresia fu oggetto degli affanni
inquisitoriali solo in minima parte e in periodi circoscritti. Il più del tempo
gli inquisitori lo dedicavano a truffatori che si fingevano preti, bigami o
trigami, fattucchieri denunciati da clienti delusi. Non solo: gli eretici veri
e propri, specialmente nel periodo della lotta al protestantesimo, erano quasi
tutti frati e preti. In più, gli eretici propriamente detti erano le mille
miglia lontani dal rivendicare la "tolleranza" o l'equivalenza delle
fedi. Potendo, si sarebbero comportati (e dove furono maggioranza si
comportarono) come gli inquisitori, e anche peggio.
Certo, per la sensibilità odierna la libertà è un valore molto
superiore alla verità. Anzi, è l'unico valore, laddove alla nozione di
"verità" ci si avvicina con l'atteggiamento sospettoso di Pilato
("Quid est veritas?") o, peggio, con quello condannatorio di
Umberto Eco ne Il nome della rosa, il cui protagonista dichiara senza
mezzi termini che l'unica passione insana da cui è d'uopo liberarsi è appunto
quella per la verità. Chi crede che la verità esista è un sognatore (secondo
Pilato) o un pericoloso fanatico (secondo Eco).
Beh, la Chiesa crede alla verità, e anche l'Inquisizione ci
credeva. Girando il problema all'ultimo grande inquisitore vivente, il cardinale
Joseph Ratzinger (che è prefetto della Congregazione per la dottrina della
fede, ex Sant'Uffizio) centra il tema in un suo libro: La via della fede. Le
ragioni dell'etica nell'epoca presente (Ares, 1996). E ribatte: già, ma che
cos'è la libertà? La definizione di libertà non deve essere completata mediante
il legame con la ragione, pena la caduta nella tirannia dell'irrazionalità? Per
esempio, il marxismo si è presentato come liberatore ma si è risolto nel più
grande sistema di schiavitù della storia. La Rivoluzione francese iniziò come
idea democratica costituzionale, anzi fece sua l'idea rousseauiana di anarchia
individualista, e divenne una dittatura sanguinaria e accentratrice. La Riforma
protestante "liberò" l'individuo dalla gerarchia ecclesiastica e dal
dogma, creò le chiese nazionali e finì con il rafforzare il potere dello Stato.
Leggendo Sartre ci si rende conto che la libertà radicale,
totale, dell'individuo non porta in nessun posto, è un fallimento angosciante e
senza senso. L'antica tentazione (" ... sarete come dei ... ") si
ripete nel desiderio di indipendenza da tutto e da tutti: dalla legge,
dall'autorità, dalla realtà stessa, come i paradisi drogastici promettono.
Insomma, il problema è ancora e sempre teologico, perché solo Dio può godere
della libertà assoluta; invece l'uomo è tanto più libero quanto più liberamente
accetta la verità, dalla forza di gravità in su. Solo accettando le leggi
fisiche, infatti, si può volare; se le si rifiuta, ci si sfracella.
Senza l'adesione alla verità, dice sant'Agostino, non c'è
differenza strutturale tra uno Stato e una ben ordinata banda di predoni. E
senza responsabilità non si dà libertà. Ma in che consista la responsabilità
oggi è stabilito dal consenso. Solo che il consenso è manipolabile, e i miti
sono più attraenti della verità.
Dice Ratzinger: "La patologia della religione è la malattia
più pericolosa dello spirito umano. Essa si dà nelle religioni, ma esiste
propriamente anche là dove la religione è respinta come tale e viene attribuito
un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi ateistici dell'epoca moderna sono
gli esempi più spaventosi di una passione religiosa alienata dalla sua
essenza". Morale: se la verità non esiste, non esiste nemmeno la libertà.
Come dice il Vangelo, solo la verità rende liberi. Questo concetto era
chiarissimo e pacifico per tutti al tempo dell'Inquisizione.
E ci sia consentita un'ulteriore riflessione. Le recenti follie
di fanatici settari (il suicidio di massa della Guyana, quello
svizzero-canadese del Tempio Solare, quelli statunitensi di Internet, e poi
"Satana" Manson, Waco o il gas nervino nella metropolitana di Tokyo)
inducono a sospettare che forse l'attenzione inquisitoriale abbia davvero, nei
secoli passati, salvato il cervello degli europei e rimandato il più possibile
i disastri operati da utopie, ideologie e culti disumani. Forse. E, certo, la
storia non si fa con i "se". Ma, grazie a Dio, nemmeno con i
moralismi.
In ogni caso, il lettore a cui della diatriba sulle leggende
nere o rosate non importa nulla potrà godersi, leggendo questo Manuale, uno
spaccato di vita medievale (e anche rinascimentale) quale non sempre è dato di
vedere direttamente sulle fonti.
Un'ultima cosa. Il Vaticano ha di recente aperto agli studiosi
gli archivi del Sant'Uffizio. Correvano strane leggende metropolitane su questo
archivio, la cui "chiusura" era attribuita a chissà quali segreti da
nascondere. Le cose, al solito, erano più semplici. Quasi cinquecento anni di
documenti rappresentano una mole immensa, una spaventosa congerie di carte che
richiede catalogazione da parte di esperti. Finalmente, tale lavoro è stato
completato e uno studioso interessato può utilmente chiedere il tal documento,
ben sapendo che l'archivista è adesso in grado di trovargli in tempo
ragionevole il volume in cui è contenuto. Come mai c'è voluto tanto? Anche qui,
la risposta è semplice: le vicende politiche e umane. Muore un papa, se ne fa
un altro (passa il tempo); muore l'archivista esperto, non ce n'è uno che possa
sostituirlo subito; c'è una guerra di mezzo; c'è il papa, c'è l'archivista e
non c'è guerra, ma la situazione è fortemente anticlericale, meglio allora
rimandare. E così via. C'è anche un altro aspetto da tener presente: la maggior
parte degli studiosi sono curiosi dei processi per eresia, ma questi
costituiscono solo un'infima parte dell'archivio del Sant'Uffizio; il più è
formato dalle grandi controversie teologiche del XVI secolo, i fenomeni di
falso misticismo del secolo seguente, i movimenti spirituali di quello
successivo, il confronto con l'illuminismo nel XVII secolo, con il liberalismo,
il marxismo, il positivismo, l'evoluzionismo nel XIX. Si aggiunga che tra il
1816 e il
Le carte messe a disposizione degli studiosi arrivano fino al
1903. Qualche teologo sospeso a divinis se ne è lamentato, insinuando, anche
qui, "cose da nascondere". Ma la storia del XX secolo è nota, e
l'attività inquisitoriale del Novecento al massimo riguarda Padre Pio o beghe
di monaci. In quel tempo il pontefice san Pio X rimaneggiò completamente
l'istituzione, preparando il terreno alla riforma di Paolo VI. Dunque, gli
ultimi novant'anni sono di scarso interesse laico".
Il famigerato Indice dei libri proibiti? L sempre stato, per
ovvi motivi, a disposizione di tutti. Copie d'antiquariato possono reperirsi
agevolmente sulle bancarelle dei Navigli a Milano. Tale Indice - è bene
ricordarlo - serviva solo ai devoti obbedienti: a volte passavano quaranta,
cinquant'anni prima che un libro venisse inserito nell'Indice. Infatti occorreva
prima leggerlo, magari tradurlo, esaminarlo, sottoporlo agli esperti. Nel
frattempo, quanti lo volevano leggere avevano avuto ogni agio per farlo. Non
solo. Le censure dovevano essere apposte a mano, copia per copia, coprendo di
inchiostro nero le righe censurate. Insomma, l'Indice aveva, di fatto, solo un
valore, appunto, indicativo per i credenti.
Ed eccoci a questo Manuale. L'opera di Eymerich fu uno dei testi
di consultazione più diffusi, con un'incidenza anche maggiore di quella, pur
celebre, di Bernardo Gui. Un inquisitore, data la puntigliosità con cui doveva
essere applicata la procedura, quasi non poteva farne a meno. Diviso in parti,
in capitoli e in paragrafi (addirittura con, in certi punti, una scansione
numerica a-domanda-risponde che ci fa facilmente immaginare il dito
dell'inquisitore scorrere sulle righe alla ricerca della risposta che faccia al
caso suo), assemblava in un unico, comodo volume una vasta congerie di disposizioni
le più disparate provenienti da bolle, concili, decreti, canoni. In più,
metteva a disposizione per una vastissima gamma di situazioni la consumata
esperienza di un inquisitore rinomato per dottrina e precisione. La sua
validità sfidò i secoli, tanto che, mutati i tempi e le eresie, non si stimò
necessario provvedere alla confezione di un nuovo manuale; fu sufficiente
incaricare Francisco Peña di aggiornarlo qua e là nelle parti divenute
obsolete. Così, un manuale concepito in tempi di catarismo poté essere
tranquillamente utilizzato anche per far fronte al protestantesimo. In fondo,
come ha detto qualcuno, le posizioni eretiche sono come quelle erotiche:
combinazioni monotonamente diverse all'interno di una gamma tutto sommato
piuttosto ristretta.
Tuttavia, il discorso sull'Inquisizione (che è in fondo quel che
più ci interessa) rischiava di restare monco. Il lettore, infatti, si sarebbe
trovato ad avere a che fare con un testo specialistico concepito per
ecclesiastici di settecento anni fa, e a delle chiose che avevano senso solo
nel XVI secolo. Era opportuno, dunque, dare una "terza mano" di
vernice sul tutto, per mostrare al lettore comune di fine millennio una figura
per quanto possibile a tutto tondo del fenomeno Inquisizione. Ove opportuno, come
un moderno giureconsulto (ma con intenti questa volta divulgatori), ho aggiunto
esempi, chiarimenti, paragoni, citazioni, fatti storici, sperando che dal
risultante mix di commenti e documenti scaturisca una panoramica
generale quale non è dato di vedere nelle opere che parlano
dell'Inquisizione ma non fanno parlare gli inquisitori.
E adesso, scusandomi per le troppe precisazioni e parentesi,
passo la parola al libro. Ma mi chiedo: a chi interessa, in fondo, la vera
storia dell'Inquisizione? Domanda legittima, visto che un quotidiano italiano
di grande diffusione (L'Unità), nel dare notizia dell'apertura degli
archivi inquisitoriali, datava al 1442 la Riforma luterana, papa Paolo III e il
Concilio di Trento. Il che, come notava l'editorialista Socci su Il Giornale,
"è come collocare nel 1848 la seconda guerra mondiale e la bomba
atomica". Insomma, l'Inquisizione? (Forse) molto rumore per nulla.
Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della
Inquisizione,
a cura di Rino Cammilleri, con un invito alla
lettura di Vittorio Messori, Leonardo, Milano 1994, pp. 192, £. 22.000
I pregiudizi sulla storia della Chiesa sono numerosi e tenaci,
radicati non solo nei ceti intellettuali più sensibili alle influenze della
cultura laicista ma anche in molti cattolici, affetti da un ingiustificato
complesso d’inferiorità a causa di una scarsa conoscenza della loro storia.
Esempio classico del radicamento di tali pregiudizi è
l’esistenza, ancora oggi, di una "leggenda nera" sull’Inquisizione,
costruita dall’Europa protestante nel Cinquecento, alimentata dai libelli degli
illuministi nel Settecento e ripresa dalla letteratura popolare ottocentesca di
ispirazione massonica. Eppure l’Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre
rispettata, di mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e
le testimonianze, è una delle poche istituzioni del passato su cui è
disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento
storico. Infatti, gli studiosi che negli ultimi anni hanno cominciato a
esplorare l’imponente documentazione archivistica si sono trovati, con stupore,
al cospetto di tribunali dotati di regole eque e di procedure non arbitrarie,
di corti giudiziarie pronte a sconsigliare l’uso della tortura o a scoraggiare
denunce infondate e delazioni, di organismi molto più miti e indulgenti dei
tribunali civili del tempo. Inoltre, sebbene certa propaganda insista sul
carattere ideologico e totalitario dell’Inquisizione, è sempre più evidente
l’abisso esistente fra i metodi propri di questa istituzione e i sistemi di
controllo delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in atto negli
Stati moderni.
Tuttavia, se l’immagine dell’Inquisizione sta mutando, e in
senso favorevole, presso gli specialisti, i risultati della rinnovata ricerca
storica sono poco conosciuti al di fuori della cerchia ristretta degli addetti
ai lavori. Pertanto è quanto mai opportuna l’iniziativa della casa editrice
Leonardo, che ha dato alle stampe il volume Elogio della Inquisizione —
traduzione della voce Inquisition, scritta da Jean-Baptiste Guiraud per
il Dictionnaire apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911 e
il 1913 —, allo scopo di mettere a disposizione di un vasto pubblico un testo
noto finora soltanto ai frequentatori di biblioteche specializzate.
L’opera, curata da Rino Cammilleri, reca un Invito alla
lettura (pp. 5-12) di Vittorio Messori, che traccia anzitutto un profilo
biografico dell’autore, "cattolico a visiera alzata, che pagò di
persona per le sue convinzioni, eppure lontano — da quello storico vero che era
— da ogni doppia verità, da ogni forzatura di apologeta fazioso" (p.
12).
Jean-Baptiste Guiraud nasce nel 1866 nell’Aude, dipartimento
della Francia meridionale che ha come capoluogo Carcassonne, frequenta l’École
Normale Supérieure di Parigi e l’École Française di Roma e intraprende la
carriera universitaria, diventando titolare della cattedra di Storia Medioevale
presso l’Università di Besançon. Storico appassionato della Chiesa, e in
particolare del Medioevo, nonché militante di combattivi organismi del laicato
cattolico, si schiera sia con gli scritti, volti a ristabilire la verità
storica gravemente travisata dalla cultura laicista dominante, sia con una
serie di iniziative tese a difendere la scuola libera, contro la politica
anticattolica della Terza Repubblica francese. "Questa sua lotta gli
costò la carriera universitaria, già messa in pericolo dal taglio giudicato
"intollerabilmente cattolico" delle opere, pur rigorosamente
scientifiche, pubblicate nel frattempo sui temi di storia religiosa medioevale
di cui era specialista. [...] Come non mancò di notare lo stesso
Guiraud, dalla cultura che della "leggenda nera" sull’Inquisizione
cattolica aveva fatto un suo cavallo di battaglia, giungeva un provvedimento di
censura delle idee e di repressione di atteggiamenti non in linea con i dogmi
ufficiali" (p. 6). Costretto a lasciare l’insegnamento, è redattore
capo del quotidiano cattolico La Croix fino al 1939, quando riprende gli
studi storici, peraltro mai abbandonati del tutto. Fra le sue opere principali
vanno ricordate L’Inquisition médiévale (ultima edizione, Tallandier,
Parigi 1978), pubblicato in Italia nel 1933 (L’Inquisizione medievale,
Corbaccio, Milano), e Histoire de l’Inquisition au Moyen Âge (2 voll.,
Picard, Parigi 1935), incompiuta alla data della morte, avvenuta nel 1953.
Vittorio Messori spiega, quindi, che la scelta di tradurre e di
pubblicare in Italia la voce Inquisition del Dictionnaire
apologétique de la foi catholique — una "miniera che, malgrado il
tempo trascorso e il cambiamento di clima nella Chiesa, sembra ben lungi
dall’essere esaurita" (p. 8) — non è finalizzata al "recupero
archeologico" (p. 11) di un testo ormai datato, ma vuole rappresentare
un punto di partenza e offrire un’intelaiatura generale ancora valida per un
primo approccio allo studio dell’Inquisizione.
Nei primi due capitoli — L’Inquisizione: una risposta
cattolica (pp. 15-26) e Istituzione dell’Inquisizione (pp. 27-36) —
Jean-Baptiste Guiraud descrive la nascita dell’Inquisizione, alla fine del
secolo XII, dimostrando come essa rappresentasse la risposta della Chiesa agli
eccessi di movimenti ereticali che non si limitavano a propugnare deviazioni di
contenuto esclusivamente teologico — contrastati fino ad allora sul piano
dottrinale e solo con mezzi spirituali — ma insidiavano mortalmente la società
civile. La ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli eretici
costrinse le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e
frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario
discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema
inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.
Nel terzo e nel quarto capitolo — Dottrine degli eretici
(pp. 37-58) e La Chiesa e gli eretici medioevali (pp. 59-65) — l’autore
si sofferma sui contenuti delle dottrine eterodosse più diffuse alla fine del
Medioevo, dedicando attenzione particolare al catarismo, che "[...]
non era, come le eresie precedenti, un’interpretazione eterodossa di questo
o quel dogma cristiano. Era un sistema religioso completo [...]. Non c’è
dunque da stupirsi che abbia cozzato frontalmente contro l’ordine sociale del
Medioevo fondato sul cristianesimo. Di più: la sua concezione profondamente
pessimistica della vita lo poneva contro qualunque ordine sociale"
(p. 39).
Il pericolo era rappresentato soprattutto dalla condanna del
mondo materiale, che implicava il divieto assoluto di procreare e, come culmine
della perfezione, il suicidio rituale, e dal rifiuto di prestare giuramento,
che comportava il dissolvimento del legame feudale, uno dei capisaldi della
società medioevale. A questo proposito Jean-Baptiste Guiraud cita una nota
affermazione dello scrittore protestante Henry Charles Lea, pur poco benevolo
nei confronti dell’Inquisizione, secondo il quale in quei tempi "la
causa dell’ortodossia non era altro che quella della civiltà e del
progresso" (Storia dell’Inquisizione. Fondazione e procedura,
trad. it. del primo volume, Bocca, Torino 1910, p. 118). L’autorità temporale e
quella spirituale, dopo aver agito a lungo separatamente — la prima con i suoi
tribunali, l’impiccagione e il rogo, la seconda con la scomunica e le censure
ecclesiastiche — finirono per unire i loro sforzi in un’azione comune contro
l’eresia. L’Inquisizione medioevale, dunque, è definita dall’autore come "un
sistema di misure repressive, le une di ordine spirituale, le altre di ordine
temporale, emanate simultaneamente dall’autorità ecclesiastica e dal potere
civile per la difesa dell’ortodossia religiosa e dell’ordine sociale,
ugualmente minacciati dalle dottrine teologiche e sociali dell’eresia"
(p. 64). Le tappe attraverso cui prende corpo il nuovo organismo — la
costituzione Ad abolendam di Papa Lucio III, nel 1184, che obbligava
tutti i vescovi a visitare due volte l’anno le loro diocesi alla ricerca degli
eretici, l’istituzione della cosiddetta Inquisizione "legatina" da
parte di Papa Innocenzo III, che inviò i monaci dell’Ordine Cistercense a
predicare nei paesi più colpiti e a disputare pubblicamente con gli eretici, la
costituzione Excommunicamus di Papa Gregorio IX, nel 1231, con cui erano
nominati i primi inquisitori permanenti, scelti in preferenza fra i domenicani
e i frati minori — sono descritte nei capitoli quinto e sesto, Organizzazione
dell’Inquisizione (pp. 67-78) e L’Inquisizione monastica (pp.
79-90).
Negli ultimi quattro capitoli — Procedura dell’Inquisizione
(pp. 91-102), Tortura? (pp. 103-114), La leggenda nera (pp.
115-124) e Gli argomenti dei detrattori (pp. 125-133) — Jean-Baptiste
Guiraud fà giustizia dei più noti luoghi comuni che hanno contribuito alla
costruzione della "leggenda nera" sull’Inquisizione. Il lettore
apprenderà, fra l’altro, che l’Inquisizione era tutt’altro che un tribunale di
sadici, che seguiva una procedura molto rigorosa, che era competente a
giudicare solo i battezzati e che dunque gli ebrei e i musulmani non ricadevano
sotto la sua giurisdizione. L’Inquisizione del secolo XIV inventa la giuria, consilium
che consente all’imputato di essere giudicato da un collegio numeroso, e altri
istituti in favore del condannato, come la semi-libertà, la licenza per buona
condotta e gli sconti di pena. Inoltre, è falsa l’immagine dell’inquisitore
feroce e ignorante: gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e
di costumi irreprensibili, non inclini a decidere in poche ore e
arbitrariamente sulla sorte dell’imputato, volti invece ad accordare il perdono
al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. "Ricondurre
all’ortodossia un eretico era per loro una grande gioia e, anziché abbandonarlo
al braccio secolare e a una morte che uccideva anche ogni speranza di
conversione, preferivano molto di più far ricorso a quelle penitenze canoniche
e sanzioni temporali che gli avrebbero dato la possibilità di emendarsi"
(pp.110- 111). Falsa è anche l’affermazione secondo cui si faceva un uso
generalizzato e indiscriminato della tortura, cui gli inquisitori del secolo
XIV, a differenza dei giudici civili, ricorrevano raramente e nel rispetto di
regole molto severe. L’immagine popolare secondo cui i tribunali inquisitoriali
erano teatro di raffinatissime scene di crudeltà, di modi ingegnosi di
infliggere l’agonia e di un’insistenza criminale nell’estorcere le confessioni,
è l’esito della propaganda degli scrittori a sensazione, che hanno sfruttato la
credulità di molti.
Falsa, infine, è l’immagine dell’Inquisizione come tribunale
sanguinario. Lo spoglio statistico delle sentenze, da cui si ricava la bassa
percentuale delle condanne, soprattutto di quelle alla pena capitale, ha ormai
dimostrato che questa tesi è infondata, confermando quanto sostenuto da
Jean-Baptiste Guiraud nell’Epilogo (pp. 135-151). L’Inquisizione
perseguiva lo scopo di correggere e di riavvicinare alla fede l’eretico: "Ciò
spiega perché essa imponeva penitenze di ordine spirituale che potessero
inclinare il condannato alla pietà, perché attenuava le pene più gravi quando
trovava in lui indizi di ravvedimento morale e perché abbandonava al braccio
secolare, cioè alla morte, i recidivi che, essendo tornati ai loro errori, facevano
perdere ogni fiducia nella loro conversione e nella loro sincerità"
(p. 143).
Il volume si chiude con una Bibliografia (pp. 153-164)
delle fonti utilizzate o segnalate dall’autore e con preziose Integrazioni
bibliografiche (pp. 165-189), redatte da Marco Invernizzi e da Oscar
Sanguinetti, che offrono una rassegna ragionata delle correnti storiografiche
sul tema e suggeriscono "[...] alcune "piste" di
indagine, da utilizzare nel caso si vogliano approfondire i diversi aspetti di
un fenomeno plurisecolare e dalle molteplici peculiarità a seconda dei luoghi e
dei contesti storici nel quale si è esplicato" (p. 165).
I due ricercatori distinguono accuratamente l’istituzione sorta
nel secolo XIII, la cosiddetta Inquisizione medioevale, dall’Inquisizione spagnola,
creata da Papa Sisto IV, nel 1478, su sollecitazione di Isabella di Castiglia e
di Ferdinando d’Aragona, e dalla Congregazione della sacra romana e universale
Inquisizione, istituita da Papa Paolo III, nel 1542, e, sulla scia dello
storico inglese Henry Arthur Francis Kamen, notano come "[...] l’Inquisizione
fosse espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza
fra le diverse comunità religiose a un’altra sempre più contrassegnata da
conflitti, e come essa fosse la risposta della Chiesa e della cristianità alla
minaccia rappresentata dall’eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in
Spagna, dalle false conversioni di giudei e musulmani" (pp. 167-168).
Attenzione particolare è dedicata proprio alla storiografia
sull’Inquisizione spagnola, che ha prodotto negli ultimi decenni rilevanti
contributi, sostanziati da approfondite ricerche d’archivio, che hanno
consentito di superare i pregiudizi di carattere ideologico. È oramai evidente
che il ruolo svolto dai tribunali inquisitoriali fu decisivo per assicurare la
pace sociale e religiosa in Spagna e che non può essere sottovalutata la
portata di tale impresa, che costituì una nazione spiritualmente compatta di
fronte alla Francia lacerata dalle guerre di religione, all’Inghilterra sulla
strada dell’eresia e al sultano difensore del mondo islamico.
Analoghe considerazioni valgono per l’Inquisizione
"romana", che rappresentò nella penisola italiana un bastione
invalicabile contro ogni deviazione dottrinale e che ha difeso il patrimonio
spirituale del popolo italiano, contribuendo alla vittoria della Contro-Riforma
sull’Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Rivoluzione protestante.
Francesco Pappalardo
Vittorio Messori,
da Pensare la storia, Ed. Paoline 1992, pp. 383-397
Stando a un'inchiesta dei Consiglio d'Europa tra gli studenti di
scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che
Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità
(il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura.
Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire qualcosa di più sullo
scienziato pisano, ricordano, come frase "sicuramente storica", un
suo "Eppur si muove!", fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura
della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con
gli anatemi teologici.
Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che
siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest'ultimo
falso: la "frase storica" fu inventata a Londra, nel 1757, da quel
brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.
Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra
Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo "vero"
(non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali
- tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della
pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il
tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i quali
c'erano uomini di scienza non inferiore alla sua - assicurando che, nel libro
contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con
ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva
credere.
Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua
certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento.
Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo
"scuotimento" delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi
risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un'altra che Galileo
giudicava "da imbecilli": era, invece, quella giusta. L'alzarsi e
l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta all'attrazione della Luna.
Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal
Pisano.
Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del
Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe
portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio non si opponeva affatto
all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova
sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un
secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con
quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.
In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e
pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei
(Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in
parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici
stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato
invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree,
ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618,
erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla
sua "scommessa" copernicana, si era ostinato a dire che si trattava
solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti
della Specola romana che invece - e giustamente - sostenevano che quelle comete
erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo
il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche
questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.
Niente frasi "titaniche" (il troppo celebre
"Eppur si muove!") comunque, se non nelle menzogne degli illuministi
e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un
"caso" che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta
a dimostrare l'incompatibilità tra scienza e fede.
Torture? carceri dell'Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui,
gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece
un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi,
convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede),
in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere
personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al
Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come ospite nel palazzo
dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano
bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue
opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome
significativo "Il gioiello".
Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati,
spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e
ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi
e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico. Né
gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa
passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di
muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di
recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa
"pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo tre anni, ma fu
continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte
della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall'ergersi
come difensore della ragione contro l'oscurantismo clericale, come vuole la
leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: "In
tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che
declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".
Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell'indulgenza plenaria e
della benedizione del papa. Era l'8 gennaio 1642, nove anni dopo la
"condanna" e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la
sua ultima parola. Fu: "Gesù!".
1 suoi guai, del resto, più che da parte "clericale"
gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari,
cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la
Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa
gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.
In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre
scienziato, su un cosiddetto "grande" quotidiano, ha deplorato che
Giovanni Paolo II "non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda
dell'inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo". Se, per
gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza,
per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa
malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi
di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non
andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono
nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il
"caso" è troppo importante, per non parlarne ancora.
179. Galileo Galilei /2
Il Galilei - alla pari, del resto, di un altro cattolico
fervente come Cristoforo Colombo - convisse apertamente more uxorio con una
donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due
femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa
maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno,
anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba,
togliendole anche tutti i figli. "Provvisoriamente, mise le figliuole
in casa del cognato, ma doveva pensare a una oro sistemazione definitiva: cosa
non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro
matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Senonché le leggi ecclesiastiche
non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo
si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento:
così, nel 1613, le due fanciulle - una di 13 e l'altra di 12 anni - entravano
nel monastero di San Matteo d'Arcetri e dopo poco vestirono l'abito. Virginia,
che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua
croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle.
Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza
subita e visse nevrastenica e malaticcia" (Sofia Vanni Rovighi).
Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile.
"Sarebbe", diciamo, perché, grazie a Dio, quella
Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant'Uffizio, quella Chiesa accusata di
un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di
mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il
piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. "Nessun
ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa
sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i
"concubini" come lui venivano decapitati" (Rino
Canimilleri).
E' un'osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco
conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa
vicenda: "Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come
fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo
"oscurantismo" che avrebbe bloccato la ricerca scientifica". Lo
stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello
spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di
uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola,
l'affermazione di un altro studioso, il Dessauer: "Il nuovo mondo sorge
essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo,
ha cacciato gli scienziati".
Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto
(che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare
pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato:
né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per
intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l'altro
quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo
per non avere rispettato i patti: l'approvazione ecclesiastica per il libro
"incriminato", i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era
stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le
stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana
che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di
adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com'era,
ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome
esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli
era amico e lo ammirava.
Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di
molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o
del Sole. Era giunto quasi ai settant'anni avendo avuto onori e aiuti da parte
di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma
non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in
pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E
potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano,
in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo
pensiero scientifico.
Dei resto, proprio nell'astronomia e proprio a partire da quegli
anni la Specola Vaticana - ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da
gesuiti - consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e
rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870,
si affrettano a fare un'eccezione al loro programma di cacciare i religiosi,
quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.
Il governo dell'Italia anticlericale e massonica fa votare così
dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita
dell'Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi
del secolo, tra i fondatori dell'astrofisica, uomo la cui fama è talmente
universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i
responsabili della "nuova Italia" che non intralcino un lavoro giudicato
prezioso per tutti.
Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel
Nord Europa e poi oltre Atlantico - fuori, cioè, dall'orbita di regioni
cattoliche - le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza
stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è
tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente
sulla cresta dell'onda possono permettersi, non certo l'Italia occupata dagli
stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.
La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega
direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta.
Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della
conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del
vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro
quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero,
di un "filosofo" come era anche lo scienziato, darsi a simili
attività "utilitarie". (Un atteggiamento che contrassegna del resto
tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano
la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e
fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l'impiegarono solo per
fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi
riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non
per edifici "profani").
E' chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della
tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici,
che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno - come gli
olandesi o gli inglesi - grandi flotte da costruire e da utilizzare; che
abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture
territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo
all'intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all'arte stessa, a partire
dall'epoca moderna è legata al commercio, all'industria, alla guerra. Al
denaro, insomma.
Che questa - e non la pretesa "persecuzione cattolica"
di cui, l'abbiamo visto, parlano anche storici cattolici - sia la causa della
relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra
anche l'intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece
massiccia e precoce. Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo
sarebbe stato "perseguitato") è un cattolicissimo polacco. Anzi, è
addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un
torrione della cattedrale di Frauenburg. L'opera fondamentale che pubblica nel
1543 - La rotazione dei corpi celesti - è dedicata al papa Paolo III,
anch'egli, tra l'altro, appassionato astronomo. L'imprimatur è concesso
da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo
ascolterà la condanna.
Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la
prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando
che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com'è di possibili conseguenze per
la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al
dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non
disapprovano la teoria "eliocentrica" copernicana, ma spesso
l'incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e
fatto membro dell'Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli
al sistema eliocentrico.
Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie
sulle tesi di Copernico: "La gente presta orecchio a un astrologo
improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e
non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e
spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare
all'aria tutti i princìpi dell'astronomia". E Melantone, il maggior
collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato,
qui si mostra inflessibile: "Simili fantasie da noi non saranno
tollerate".
Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero,
fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo
giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla
Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato
espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato
(come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al
"copernicano" e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei
territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.
Sempre Lutero ripeté più volte: "Si porrebbe fuori del
cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni".
Questo "letteralismo", questo "fondamentalismo" che tratta
la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione)
contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno
vigore, difeso com'è dall'ala in grande espansione - negli Usa e altrove - di
Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.
A proposito di università (e di "oscurantismo"): ci
sarà pure una ragione se, all'inizio del Seicento, proprio quando Galileo è
sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università - questa
tipica creazione del Medio Evo cattolico - ce ne sono
Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come
abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.
180. Galileo Galilei /3
Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte
successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi.
Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava
anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.
E' successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito
entusiastico della "modernità", e del conseguente
"progresso", per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX.
Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: "Pio IX e gli altri
papi "reazionari" erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti
dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro
domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro
tempo postmoderno che scopre l'altro volto, quello oscuro, della modernità e
del progresso".
E' successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le
cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come
"conservatrici", "superate", mentre ora quelle cose le
dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente onestà per
riconoscerlo) e rivelano che quegli "attardati" di papi avevano una
vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro
esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più
profetico è anche quello che fu considerato il più "reazionario":
l'Humanae Vitae.
Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è
verificato anche per quel "caso Galileo" che ci ha tenuti impegnati
per i due frammenti precedenti.
Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza
sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i
protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei
cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista Galileo sarebbe finito
non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.
Dai tempi dell'antichità classica sino ad allora, in tutto
l'Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali
comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così;
la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.
D'altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva
già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo
prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola
che portava era del tutto erronea. Un santo e un dotto della levatura di
Roberto Bellarmino si diceva pronto - e con lui un'altra figura di altissima
statura come il cardinale Baronio - a dare alla Scrittura (la cui lettera
sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso
metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove
ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di
dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un
secolo dopo.
Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro
deciso dal Sant'Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma
doveroso, e proprio sul piano scientifico: "Un po' come il rifiuto di
un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna
rivista scientifica". D'altro canto, lo stesso Galileo mostrò come,
malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non
fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo
riconferma l'apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: "L'intento
dello Spirito Santo, nell'ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al
Cielo, non come va il cielo".
Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua
contraddizione, l'essersi anch'egli impelagato nel "concordismo
biblico": davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non
ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch'egli sul vecchio
piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella
"fermata" una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo
stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la
distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza
sperimentale.
Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata,
perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a
intuirlo. In effetti - al di là degli errori in cui possono essere caduti quei
dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano
di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi
coscientemente avvertivano - giudicando una certa baldanza (se non arroganza)
di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva
divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell'uomo e
neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla "Ragione- al posto
di quelli basati sulla Rivelazione. "La condanna temporanea (donec
corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della
dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità
assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche
esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione, per ipotesi e non in
modo assoluto". Così uno storico d'oggi. Dopo oltre tre secoli di
quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben
conosciamo, c'è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che
inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano.
Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui
base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità
indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la
Tradizione nel loro senso più letterale. Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta
la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei
positivisti - accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l'autorità
del ragionare umano e dell'esperienza dei nostri sensi.
Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come
Popper) - se non un'altra specie di fideismo - che ragione ed esperienza, che
testa e sensi ci comunichino il "vero"? Come provare che non si
tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su
cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e
soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette "verità
scientifiche" non sono affatto "verità" indiscutibili a priori,
ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in
effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli
scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata
"oggettività e infallibilità della Scienza").
Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati
sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo
abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul
piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant'Uffizio si guardò bene dal
bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano
messi in campo.
L'irrigidimento avviene soltanto quando dall'ipotesi si vuol
passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà
tenda a diventare religione, quello "scientismo" in cui in effetti
degenererà. "In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo:
tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi
più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di
difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616,
metteva all'Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec
corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che
affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava
Bellarmino: raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza
preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate
scienziati, non vogliate fare i teologi!" (Agostino Gemelli).
Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato
per come le diceva. Le diceva, cioè, con un'intolleranza fideistica, da
missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti,
pur considerati "intolleranti" per definizione. La stima per lo
scienziato e l'affetto per l'uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti
della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come "arroganza
e vanità spesso assai vive". Nel contraddittorio, il Pisano aveva di
fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto
aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente
ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch'essi
"sperimentali".
Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di
nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare
contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi
non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) "un
imbecille con la testa tra le nuvole", uno "appena degno di
essere chiamato uomo", "una macchia sull'onore del genere
umano", uno "rimasto alla fanciullaggine"; e via
insultando. In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua
parte che da quella dell'autorità ecclesiastica.
Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la
tentazione tipica dell'intellettuale moderno, fu quella sua "vanità",
quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con
sprezzo, tra l'altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non
chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l'altro,
il suo rifiuto del latino: "Galileo scriveva in volgare per scavalcare
volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all'uomo comune. Ma
portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello
popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza" (Rino
Cammilleri).
Di recente, 1`erede" degli inquisitori, il Prefetto dell'ex
Sant'Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca -
una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura
"progressista" - che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del
caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi
sull'oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella
giornalista voleva sapere "perché la Chiesa non avesse fermato Galileo,
non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all'origine del
terrorismo degli scienziati, dell'autoritarismo dei nuovi inquisitori: i
tecnologi, gli esperti...". Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo
stupito: semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era
passata dal culto tutto "moderno" della Scienza alla consapevolezza
"postmoderna" che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di
una nuova fede totalitaria.
Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di
Galileo, trasformato - da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era -
in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha
scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi
femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo:
"Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire
della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun
altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla
trionfare, e dall'altra parte uomini che per la verità non hanno alcun
interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su
Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l'una
e l'altra convinte della verità della loro opinione, l'una e l'altra in buona
fede ma che adoperano l'una e l'altra anche mezzi extra-teorici per far
trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel
Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità
femminile verso le povere figlie del grande scienziato: "Non è poi equo
operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando
si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della
monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo
di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e
libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un
limite minimo di età per i voti. Si osserverà che quell'azione di Galileo va
giudicata tenendo presente l'epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di
farsi perdonare quella violenza, usando gran e bontà soprattutto verso
Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste
considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e
psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari di Galileo".
Prosegue la studiosa: "Occorrerà anche tenere presente
questo: quando si condanna severamente l'autorità che giudicò Galileo ci si
mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti,
è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l'errore non è delitto e non si
dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616
che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa
in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle
affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di
uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si pone, dunque, a un
punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo.
Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento
dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre
a 12 anni. E se poi si osserva che - diamine! - Galileo è Galileo, mentre suor
Arcangela non è che un'oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente
che tormentare l'uno è colpa ben più grave che tormentare l'altra, ci si lascia
affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più
senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di
esso né per esaltarne le vittorie".
Nella "Lettera alla Granduchessa Cristina", Galileo si
fece giudice ed esegeta "scientifico" della Bibbia, dicendo - in
merito all'arresto del sole e della luna al comando di Giosue' - che
"coll'aiuto del sistema Copernicano noi abbiamo il senso facile, letterale
e chiaro del comando".
Inoltre,
"[...] Galileo aveva scritto che alcune volte le Scritture
"oscurano" il loro proprio significato. Nella copia mandata a Roma la
parola "oscurano" era cambiata in "pervertono". Questa e
l'altra parola contraffatta, "falso", furono le uniche due criticate
dal consultore del Santo Uffizio al quale la lettera era stata sottoposta. La
lettera nell'insieme fu trovata in accordo con l'insegnamento cattolico".
(cit. in James Brodrick s.j., "S. Roberto Bellarmino",
Ancora, Milano 1965, p. 431-432 e 436)
AVVERTENZA
L'Inquisizione non fu affatto un'istituzione monolitica, ed è
più corretto parlare non d'Inquisizione ma delle Inquisizioni.
Sommariamente, esse furono: Inquisizione episcopale (sec. XII); Inquisizione
legatizia (sec. XII-XIII); Inquisizione papale-monastica (sec. XIII-XV;
Inquisizione romana (dal
Qui ci occuperemo solo di quelle cattoliche.
È anche bene chiarire che l'uso del termine
"inquisizione" è esatto, nella sostanza, a proposito delle regioni
protestanti, ma non nella forma. Infatti la repressione dell'eresia non vi era
affidata al clero (concetto molto sfumato e approssimativo nella composita
galassia protestante), bensì ai tribunali regolari. Era uno dei risultati della
fusione tra chiesa e stato, generata dal sorgere delle "chiese
nazionali". Come in Inghilterra, di fatto era il capo dello stato il
vertice della comunità religiosa.
il manifesto - 21 Febbraio 2005
Gli scheletri della santa Inquisizione
Una puntata di «Voyager», su Raidue, si fa complice del Vaticano per riscrivere
la storia e riabilitare l'Inquisizione, madre di tutte le torture e stragi di
innocenti
ADRIANO PETTA
Lo scorso 11 settembre su Alias apparve un mio articolo dal titolo Le radici
dell'orrore (relativo agli atti del Simposio sull'Inquisizione pubblicati dal
Vaticano). Venni poi invitato alla trasmissione televisiva Voyager per
un'intervista che durò 14 minuti: mi dissero che avrebbero fatto dei tagli.
Mercoledì 16, alle 23.10, è stata messa in onda. Due gli argomenti del
programma: «Nazismo esoterico» e «Gli ultimi dati sull'Inquisizione». Il
conduttore Roberto Giacobbo ha raccontato i legami tra Hitler, le SS e
l'occulto, parlando anche di Montségur, dove il 16 marzo 1244 morirono arsi
vivi in un enorme rogo oltre 200 fedeli perché si rifiutarono di abiurare la
loro fede. La tesi esposta da Giacobbo è stata che la storia li ricorda come
Catari attaccati dal re di Francia, e che le SS cercavano a Montségur il Santo
Graal perché i catari, secondo alcuni, erano stati i custodi del sacro calice. E
che l'ideologo nazista Otto Rahn individuava i catari come i precursori del
nazismo...
Forse era il caso, da parte del conduttore di Voyager, di spendere due parole
per chiarire che quei 200 fedeli erano martiri cristiani accusati d'eresia
dall'Inquisizione, che combattevano la corrotta Chiesa di Roma e che vennero
condannati al rogo... mentre la guarnigione del signore di Montségur - che
aveva assassinato due inquisitori ad Avignonet - aveva invece avuto salva la
vita. E che i capi della guarnigione militare che catturò i catari bruciandoli
vivi erano Pierre Durant e Ferrier, due inquisitori domenicani: Chiesa e re di
Francia alleati.
Roberto Giacobbo, forse a disagio per la rappresentazione a cui stava per
assistere, manda avanti la sua collaboratrice Stefania La Fauci, che annuncia:
«Questa sera vi sveleremo delle inaspettate verità». E ha inizio l'ultima parte
della trasmissione, dedicata all'Inquisizione. Intervistati: Agostino Borromeo
prof. della storia della Chiesa presso l'università La Sapienza di Roma, e
l'accademico di nulla accademia Adriano Petta, studioso di storia delle
religioni e storia della scienza (il sottoscritto). Al prof. universitario
concedono tre interventi, al sottoscritto uno solo (95 secondi). Il prof.
Borromeo - curatore degli atti del Simposio sull'Inquisizione e trait d'union
tra il Vaticano e i mass media per trasformare la leggenda nera
dell'Inquisizione in leggenda rosa - sviluppa tranquillamente e metodicamente
la sua tesi, mentre al sottoscritto viene cancellato tutto... compresa una
frase in cui dicevo che «i nazisti ammazzavano gli ebrei prima di metterli nei
forni crematori... mentre l'inquisizione metteva gli eretici nei forni...
vivi».
Volevo ricordare uno degli atti più infamanti dell'Inquisizione: i quemaderos
di Siviglia (quattro enormi forni circolari, ognuno dei quali «ospitava» fino a
40 condannati, introdotti vivi, e che per «giustiziarli» occorrevano dalle 20
alle 30 ore di supplizio; i forni funzionarono ininterrottamente per oltre tre
secoli, e vennero chiusi da Napoleone nel 1808).
A me hanno lasciato solo l'intervento in cui accenno sommariamente che, per
avere un'idea del clima di terrore che si respirò in quei secoli, basta leggere
gli atti del Simposio sull'Inquisizione promosso proprio dal Vaticano. Ma la
conduttrice - nel ruolo di giudice supremo - afferma: «Insomma gli studi più
recenti ci danno, dell'operato dell'Inquisizione, un quadro meno drammatico di
quanto comunemente si crede».
A conclusione della trasmissione, la conduttrice ne spara poi una veramente
grossa, tirando in ballo l'inizio della crociata degli albigesi (altro nome con
cui erano conosciuti i catari): «Be', gli storici hanno poi appurato che a
Béziers non c'erano albigesi, che nessuna crociata era mai passata da quelle
parti, dove tra l'altro non risultava la presenza di legati pontifici; però la
città venne realmente messa a ferro e fuoco, ma la cosa accadde nel quadro di
una guerra feudale tra famiglie locali». E conclude tronfia e pettoruta:
«Almeno in questo caso nessuno deve chiedere scusa!».
Allucinante... E chi sarebbero questi storici? Forse quelli segnalati da
Voyager per poter approfondire i temi della puntata... come il sito internet
Kattoliko.it?Occorre reagire a questa gente asservita al programma di
revisionismo in atto, altrimenti tutti quei milioni di creature innocenti che
sono stati torturati e bruciati vivi in sei secoli di terrore... è come se li
bruciassero vivi un'altra volta, per cancellarli definitivamente dalla storia.
Il 22 luglio del
Il legato papale capo dell'armata Arnauld-Amaury, scrisse al papa Innocenzo
III: «L'indomani, festa di Santa Maria Maddalena, noi cominciammo l'assedio di
Béziers, città che pareva dover per lungo tempo fermare la più numerosa delle
armate. Ma non c'è forza né prudenza contro Dio! I nostri non rispettarono né
rango, né sesso, né età: ventimila uomini circa furono passati al filo della
spada e questa immensa carneficina fu seguita dal saccheggio e dall'incendio
della città intera: giusto risultato della vendetta divina contro i
colpevoli!».
La lettera originale da cui è stato tratto questo documento si trova nella
biblioteca Vaticana.
Pochi anni dopo, nel 1252, papa Innocenzo IV con la bolla Ad extirpanda,
autorizzò l'uso della tortura durante i processi della Santa Inquisizione, uso
che venne affinato nei successivi 600 anni di terrore.
Il prof. Agostino Borromeo - a nome della Santa Sede - sta cercando di
convincere il mondo che i morti bruciati vivi per mano della Santa Inquisizione
in 600 (seicento) anni non sono stati 9 milioni... bensì 99!
L'Inquisizione è stata uno strumento dottrinale-legislativo - creato, affinato
e imposto dai papi - che ha introdotto nella mente dell'uomo il metodo della
delazione, della tortura, del terrore. È stato lo strumento principe della
Chiesa cattolica che nella sua storia non ha mai conosciuto la democrazia... e
forse è proprio per questo che ha sempre appoggiato politicamente le dittature
(di destra). Gli orrori espressi dagli stati moderni (Gulag, Auschwitz, Abu
Graib, Guantanamo etc.) affondano le loro radici nella Santa Inquisizione.
Giovedì
La
Repubblica, 31 ottobre 1998
Un convegno in Vaticano voluto da Wojtyla - di Marco Politi
Roma - Quando papa Wojtyla, qualche anno fa, riunì in Vaticano
un'assemblea straordinaria di cardinali per trasmettere loro la sua intenzione
di affrontare il giubileo dell'anno Duemila con un serio esame di coscienza
sulle colpe della Chiesa, l'accoglienza tra i porporati fu fredda. Molti
cardinali, specie dei paesi dell'Est europeo appena usciti dal vassallaggio
sovietico, temevano di dare armi ai "nemici della fede", ammettendo
errori ed orrori compiuti da personalità o organizzazioni ecclesiastiche. Ma
Wojtyla è di natura tenace. Quando si impadronisce di un'idea, non la molla.
Soprattutto perché - da filosofo - conosce il peso immenso che le posizioni di
principio hanno nelle vicende storiche di una grande istituzione (come è la
Chiesa).
Sapeva e sa Wojtyla che è inutile pensare di potersi avvicinare
alle altre Chiese cristiane né tanto meno di presentarsi al mondo per
rievangelizzarlo, se continua a gravare sulla coscienza del cattolicesimo l'esperienza
di un apparato totalitario e repressivo come è stata l'Inquisizione. Sicché,
dopo averci lavorato per parecchi mesi, il pontefice ha pubblicato nel
Il Papa esorta i fedeli a "purificarsi nel pentimento di
errori, infedeltà, incoerenze e ritardi". Parla di "peccati"
commessi dai "figli della Chiesa". Denuncia lo scandalo provocato da
coloro, che si sono allontanati dai valori cristiani. Ammette apertamente che
certe azioni hanno "sfigurato il volto della Chiesa". In parecchi
ambienti ecclesiastici la linea del Papa ha provocato uno shock. Ed è
cominciata un'azione sotterranea di svuotamento.
L'Inquisizione? Ma non era poi così terribile... C'è che dice
che le crudeltà maggiori furono commesse sotto l'influsso del potere civile dei
re di Spagna e Portogallo. C'è che dice che alla fin fine i morti e i torturati
furono solo una minoranza. C'è che si affanna a spiegare che la tecnica degli
interrogatori e le garanzie concesse ai sospettati erano di gran lunga migliori
di quelle vigenti negli stati dell'epoca.
C'è del vero in ognuna di queste affermazioni, ma ognuna di esse
- estrapolata dal clima in cui tutto avvenne - rischia di oscurare il nocciolo
della questione. Che è molto semplice. La macchina dell'Inquisizione fu uno
strumento di terrore (psicologico prima ancora che fisico) per controllare le
coscienze e reprimere la dissidenza religiosa. Fu uno strumento di violenza
fisica e psicologica, usato da parte dell'istituzione ecclesiastica in radicale
contrasto con il messaggio di mitezza, di amore e di persuasione proclamato da
Gesù Cristo. (E se nei Vangeli si incontrano anche invettive violente, lanciate
da Cristo, "Guai a voi...", queste minacce hanno sempre avuto un
valore profetico spirituale ed erano affidate all'azione punitiva di Dio e in
nessun caso alla repressione di un'organizzazione terrena).
"L'Inquisizione? Voluta dalla Chiesa": ha titolato
così un suo articolo il giornale dei vescovi Avvenire, dopo la prima giornata
di lavori. Un segnale rivolto alla tendenza revisionista, che vuole
ridimensionare le responsabilità dell'Inquisizione. Il "mea culpa"
che Giovanni Paolo II pronuncerà solennemente a Roma nel Duemila avrà, infatti,
tanto più impatto quanto più spassionato sarà l'esame storico del fenomeno. I
documenti sono impressionanti. Pensare che la tortura del panno bagnato
(inserito nella bocca o nelle narici del sospettato e alimentato da un
intermittente flusso d'acqua per provocare sensazioni di soffocamento) facesse
parte del bagaglio di un buon aguzzino al servizio dell'inquisitore, non può
essere liquidato dall'affermazione che "quelli erano i tempi".
Rileggere ancora oggi il "Manuale dell'Inquisitore" di
frate Nicolau Eymerich (anno 1376) fa venire i brividi per la sua prosa fredda
e burocratica, di sapore quasi staliniano. Dal capitolo dedicato alla tortura
(pagina 198 del libro pubblicato dall'editore Piemme): "Mentre si tortura l'accusato,
lo si interroga dapprima sui punti meno gravi, poi su quelli più gravi, perché
egli confesserà più facilmente le colpe leggere che non le gravi. Il notaio nel
frattempo registra le torture, le domande e le risposte. Se dopo essere stato
moderatamente torturato non confessa, gli verranno mostrati gli strumenti di un
altro tipo di tortura, dicendogli che dovrà subirli tutti se non confesserà. Se
non si ottiene nulla, si continuerà con la tortura l'indomani e il giorno
appresso se occorre...". Per la gioia dei revisionisti il manuale di frate
Eymerich dichiara a questo punto che "se l'accusato, sottoposto a tutte le
torture previste, non confessa, non viene ulteriormente molestato e se ne va
libero". Nei secoli seguenti questa norma, citata come esempio di
garantismo, fu peraltro spesso disapplicata.
Grande è in Vaticano, ma anche negli ambienti esterni alla
Chiesa, l'attesa per il discorso che Giovanni Paolo II rivolgerà sabato ai
partecipanti al simposio sull'Inquisizione. Ancora oggi c'è molto da fare per
cambiare le mentalità di quegli ecclesiastici che hanno sempre concepito la
Chiesa come istituzione perfetta e trionfante. Si legga il brano
dell'Enciclopedia Cattolica del 1951, dedicato all'Inquisizione di Spagna: «Gli
ebrei, numerosissimi in Spagna, vi avevano raggiunto una posizione
preponderante grazie alla loro abilità commerciale. La loro arroganza, il loro
lusso e le loro ricchezze, oltre alla pratica dell'usura, eccitarono contro di
essi l'espasperazione pubblica, che prorompeva di quando in quando in feroci
rappresaglie e massacri...».
La Repubblica, 31 ottobre 1998
Dal secolo XII al Seicento storia di una istituzione
Città del Vaticano - L'Inquisizione nasce quando, tra la fine
del Dodicesimo e il principio del Tredicesimo secolo, la Chiesa, ritenendo
insufficienti per la repressione dell'eresia, soprattutto catara e valdese, i
mezzi ordinari e l'autorità dei vescovi, nomina propri delegati con l'incarico
di ricercare e giudicare gli eretici.
I tribunali permanenti dell'Inquisizione durante il Trecento si
diffondono in tutta Europa e sono affidati in un primo tempo ai domenicani e
successivamente anche ai frati minori.
In Spagna l'Inquisizione fa un "salto di qualità"
nelle sue capacità di indagine e repressione, contribuendo, insieme alle
espusioni di moriscos ed ebrei, all'obiettivo dell'uniformità religiosa del
paese.
Dalla fine del Quattrocento l'Inquisizione spagnola (sulla quale
nel corso dei secoli si è addensata una specifica "leggenda nera") si
distinse così nella persecuzione degli ebrei convertiti, che venivano accusati
di essersi fatti battezzare solo per fuggire alle espulsioni forzate ma di
restare in realtà fedeli alla loro religione (marrani).
Nel Cinquecento, mentre il papato è impegnato nella lotta contro
la riforma protestante, l'inquisizione si istituzionalizza in una congregazione
romana, il Sant'Uffizio, competente in materia di ortodossia per tutto il mondo
cristiano.
Sotto papa Pio IV l'Inquisizione diventa sempre più severa, per
tornare a fasi di maggior mitezza nei pontificati successivi.
Si distingue comunemente tra Inquisizione romana, istituita da
Paolo III nel 1542 contro la diffusione della Riforma, e inquisizione spagnola,
istituita in Spagna da Sisto V su richiesta di Isabella la Cattolica, con
facoltà ai sovrani di Spagna di eleggere inquisitori di loro fiducia sotto un
grande inquisitore. L'inquisizione spagnola agì con tremenda severità contro i
marrani e i protestanti. L'inquisitore generale di Spagna dal 1483 Tomas de
Torquemada, è il domenicano passato alla storia soprattutto per la spietatezza
verso gli ebrei, dei quali ottenne l'espulsione dalla Spagna.
Tra i processi celebri del Sant'Uffizio figurano quello contro
Galileo Galilei, colpevole di aver sostenuto nel "Dialogo dei massimi
sistemi" le tesi copernicane condannate dalla Chiesa e quello contro
Giordano Bruno, domenicano e filosofo, tra i massimi rappresentanti del
pensiero del Rinascimento, accusato di eresia e bruciato sul rogo a Roma nel
1600.
Nel 1498 intanto era finito davanti a magistrati pontifici,
accusato di impostura ed eresia, il predicatore Girolamo Savonarola, poi
impiccato e bruciato sul rogo.
Nel 1968 il Sant'Uffizio ha cambiato nome ed è diventato
Congregazione per la dottrina della fede. (Ansa)
La Repubblica, 31 ottobre 1998
Inquisizione: parla monsignor Rino Fisichella vicepresidente
della commissione storia del Giubileo
"L'obiettivo era giusto Si discutono gli strumenti"
Città del Vaticano - Prima l'antigiudaismo, ora l'Inquisizione:
la Chiesa continua a guardare il suo passato per chiedere perdono. Sul convegno
che si è aperto oggi in Vaticano l'Ansa ha intervistato mons. Rino Fisichella,
teologo, vescovo ausiliare di Roma, vicepresidente della Commissione
storico-teologica del Giubileo. «Per noi l'obiettivo è uno solo - dice
monsignor Fisichella -celebrare il Giubileo nel modo più coerente possibile. E
questo, per i cristiani, deve significare una provocazione a esaminare la
propria vita e saper chiedere perdono. Noi, uomini di Chiesa, vogliamo essere
capaci di chiedere perdono non per la Chiesa, ma per quello che gli uomini di
Chiesa hanno fatto quando non sono stati capaci di testimoniare il Vangelo fino
in fondo».
E per questo il Papa pronuncerà un altro "mea culpa"?
«Nella Tertio millennio adveniente il Papa non ha parlato
di 'mea culpa': questa è stata un'interpretazione successiva. Il Papa parla di
un 'serio esame di coscienza' su quella che è stata la nostra storia,
per prepararci al terzo millennio dell'era cristiana purificati nella memoria
del nostro passato. Noi della Commissione siamo partiti da lì: dalla necessità
di fare un esame di coscienza. Esame che è valido se ricomincia a ricostruire
storicamente la verità che è accertabile. Noi non partiamo dall'assunto che
abbiamo sbagliato, perché non sta a noi chiedere perdono. Il nostro compito è
di leggere ciò che è stato, perché il Papa, se c'è stata una colpa da parte dei
cristiani, possa dire 'Abbiamo sbagliato, e di questo vogliamo chiedere
perdono'».
E quali sono state le colpe della Chiesa nell'Inquisizione?
«Nel momento in cui è stata istituita, l'Inquisizione
ecclesiastica era nata per difendere la Verità. Sugli strumenti si discute, ma
l'obiettivo resta valido. La Chiesa è sempre chiamata a difendere la verità che
Gesù Cristo le ha consegnato. Certo, si tratta di una Verità 'in cammino',
'tesa verso un compimento escatologico'. Ma proprio perché non è una Verità
costruita da noi, ma che ci è stata affidata, la Chiesa non può non
intervenire, perché se si tirasse indietro verrebbe meno alla sua natura, alla
sua stessa ragion d'essere. Solo all'interno di questo contesto si può capire
perché la Chiesa, anche oggi, con la Congregazione per la dottrina della Fede,
avvii un'indagine nel momento in cui viene negata l'ortodossia della fede».
Il principio era quello di difendere la Verità, dunque. Ma le
obiezioni si soffermano quasi sempre sull'aspetto più noto, e più dolente,
delle torture, dei roghi.
«Gli strumenti usati all'epoca erano quelli comuni, quelli che
la società utilizzava. La Chiesa non è una realtà ipotetica. La Chiesa è nella
sua componente spirituale, sì, il Corpo mistico di Cristo, ma vive nella Storia
ed è composta dagli uomini del suo tempo. Non possiamo chiedere che si usassero
gli strumenti che abbiamo oggi, perché nel Medioevo nessuno, e ripeto nessuno,
poteva pensare con la coscienza che abbiamo oggi. Parliamoci chiaro: in Italia,
e non in un Paese tribale, il voto elettorale è stato esteso alle donne solo
nel 1948. Allora il nostro fino al 1948 cosa è stato? Un Paese anti-femminista?
«La Storia è fatta così, ha i suoi tempi. E bisogna rendersi
conto delle realtà storiche in cui si vive. Oggi nessuno potrebbe pensare che
la difesa della verità possa avvenire con strumenti coercitivi. Ma questo
possiamo dirlo oggi, con una coscienza nuova, modificata nel tempo, proprio
perché la coscienza è una realtà dinamica. Chi nega che quei metodi fossero
dettati dai tempi, e pensa che qualcuno avrebbe potuto impedirne l'uso, compie
un falso storico e culturale. L'evento storico deve essere ricostruito nel modo
più fedele possibile, al di là di pregiudizi e luoghi comuni. E nella
consapevolezza che non c'è nessun fatto storico neutrale: la Storia e la
ricostruzione della Storia è sempre soggetta alle interpretazioni che ne danno
gli uomini, nella fedeltà a una deontologia che si basa sull'analisi dei
documenti, e anche sull'onestà intellettuale con cui vengono letti». (Ansa)
La Repubblica, 30 ottobre 1998
Etchegaray: no alle tesi revisionistiche - Il cardinale:
"La Chiesa responsabile dell'Inquisizione"
La prima giornata di lavori del convegno - di Marco Politi
Città del Vaticano - Mai più violenze, roghi e torture. Da ieri,
per volontà di Wojtyla, una pattuglia di cinquanta storici e religiosi è
riunita in Vaticano per studiare gli orrori dell'Inquisizione. E' l'ora di
affrontare a viso aperto i fenomeni che «hanno sfigurato il volto della
Chiesa... (e che sono diventati) contro-testimonianza e scandalo», afferma il
teologo papale Georges Cottier, citando alla lettera le parole di Giovanni
Paolo II.
La Chiesa apre il dossier dell'Inquisizione tra coraggio e
imbarazzo. C'è la volontà di dire la verità, caricandosi delle proprie
responsabilità (come esorta a fare papa Wojtyla), ma esiste anche una forte
tendenza al revisionismo mitigatorio. Tendenza diffusa tra parecchi monsignori
e vari storici impegnati a ripetere che va ridimensionata la cosiddetta
"leggenda nera" dell'Inquisizione. La manifestazione più appariscente
di questa rilettura è la tentazione di ridurre tutto ad un fatto numerico,
affermando che rispetto alle sentenze pronunciate le condanne a morte erano
"soltanto" una piccola percentuale. Come se la minaccia stessa del
rogo e delle torture e l'esistenza di una macchina inquisitoria non abbiano
conferito all'istituzione ecclesiastica caratteristiche repressive totalitarie
tipiche di regimi successivi.
La conferenza sull'Inquisizione, che durerà fino a sabato, si
svolge in Vaticano nell'ospizio di santa Marta, lo stesso residence dove
staranno i cardinali durante il futuro conclave. La tre giorni ha il compito di
elaborare il materiale, che servirà al Papa per pronunciare il suo "atto
di pentimento" il Mercoledì delle Ceneri dell'anno 2000: atto che per la
sua carica innovativa (e psicologicamente quasi eversiva) è diventato già
celebre prima ancora di essere pronunciato. La Chiesa deve assumersi le sue
responsabilità! Con questa nota dominante il cardinale Roger Etchegaray ha
aperto i lavori ieri mattina. C'è una sola Inquisizione, ha detto, ed anche
l'esistenza di diverse varianti storiche (con diversi gradi di violenza a
seconda dell'ingerenza dei monarchi di singoli paesi) «non muta il carattere
ecclesiastico dell'istituzione, perché (certi) poteri di intervento e di
controllo furono riconosciuti a quei sovrani, in forma espressa o tacita, dal
papato stesso e perché ecclesiastica fu la giurisdizione esercitata dagli
inquisitori nei processi in materia di fede».
Etchegaray ha polemizzato con quanti cercano di «addossare al
solo potere laico la responsabilità dell'operato dei tribunali iberici» di
Spagna e Portogallo, particolarmente feroci. Contro l'altra tentazione
revisionista di quanti sottolineano come le garanzie dei tribunali
ecclesiastici fossero migliori di quelle degli stati dell'epoca (argomentazione
formalmente vera, perché nella Chiesa la cultura giuridica era comunque più
sviluppata), il cardinale non ha parlato apertamente. Ma le sue citazioni
continue dell'enciclica papale Tertio Millennio Adveniente sono suonate
come un monito a non cercare di minimizzare le colpe dell'istituzione.
L'Inquisizione, ha ricordato Etchegaray citando Giovanni Paolo
II, «è un capitolo doloroso sul quale i figli della Chiesa non possono non
tornare con animo aperto al pentimento». Vi fu «acquiescenza, specie in alcuni
secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della
verità». Agli scienziati il cardinale ha indicato l'obiettivo della
"massima libertà" di ricerca, spiegando che dovranno essere esaminati
tutti gli aspetti del fenomeno: le persecuzioni contro gli ebrei, i musulmani,
i protestanti, la lotta contro la magia e la stregoneria o la censura dei libri.
Un riflesso della tendenza ridimensionatrice si coglie nelle
Note storiche elaborate per il simposio da Agostino Borromeo, presidente
dell'Istituto italiano di studi iberici. Scrive Borromeo, dati alla mano, che
su 501 condanne pronunciate a Tolosa tra il 1307 e il 1323, le condanne a morte
furono 29. E su 200 sentenze dell'Inquisizione piemontese, le esecuzioni
capitali assommarono a 22. «E stando ai dati che possediamo sull'Inquisizione
spagnola tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del XVII secolo, la
percentuale degli imputati sottoposti a tortura oscilla, a seconda dei
tribunali, tra il 7 e l'11 per cento». E ancora, spiega Borromeo, «tra il 1540
e il 1700 su un totale di 44.674 casi, il numero degli accusati effettivamente
mandati sul rogo corrisponde all 1,8 per cento». Più un 1,7 per cento di
condannati in contumacia.
Radicalmente diverso l'approccio di Natale Benazzi, autore del
saggio Il libro nero dell'Inquisizione. «Quando la Chiesa si volge in
tribunale e contesta a una persona un reato di coscienza - dichiara Benazzi
sulle pagine di Avvenire - è evidente che l'accusato non ha modo di replicare.
Così è nata un'epoca di terrore». Domani prenderà la parola il Papa.
La Repubblica, 6 settembre 1998
Intervista al professor Adriano Prosperi docente di Storia
moderna a Pisa
Torquemada? L'uomo che "inventò" l'inquisizione - Di
Nello Aiello
Pisa - Cinquecento anni fa, il 16 settembre 1498, moriva un uomo
che fu ed è rimasto un simbolo. Era Tomas de Torquemada, primo Inquisitore di
Spagna, organizzatore di un tipo di tribunale che - con alcune varianti -
avrebbe operato per secoli anche in Italia. L'anniversario cade in una fase di
intensa revisione storica dell'Inquisizione: metodi, effetti, scenario
religioso e politico. Non può stupire che anche la figura di Torquemada e la
sua leggenda siano oggetto di ripensamento. Resta da vedere in quale misura e
su quali dati obiettivi. Lo abbiamo chiesto al massimo studioso italiano
dell'Inquisizione, Adriano Prosperi, docente di Storia moderna e contemporanea
all'università di Pisa.
Professor Prosperi, il valore simbolico di Torquemada, sinonimo
di efferata durezza repressiva, si va appannando?
«Direi di sì. Dall'Ottocento romantico in poi, era prevalsa,
quasi senza contrasti, la tesi dell'arbitrarietà e della crudeltà dei tribunali
dell'Inquisizione. I quali venivano considerati in contraddizione con lo
spirito del Vangelo: con la sua indulgenza, la sua inclinazione al perdono, la
sua comprensione verso l'errante. Simili stereotipi hanno avuto larga circolazione.
Perfino Mussolini scrisse un libro su un esecrando Inquisitore».
Torquemada incarnava una parvenza quasi demoniaca.
«Fu lui il primo a formare e gestire un tribunale centrale, di
natura religiosa ma al servizio del potere politico. Nel senso che i giudici
dell'Inquisizione spagnola, di cui egli era a capo, venivano sì nominati dal
Papa, ma su indicazione della monarchia spagnola. Torquemada fu lo strumento
straordinariamente duttile ed efficace al servizio di questa operazione voluta
da Ferdinando d'Aragona, il Cattolico, e da sua moglie Isabella di Castiglia. A
quest'opera Torquemada dedicò la vita. Anche correndo forti rischi».
Rischi di che natura?
«Fisici. Nel 1495, ad esempio, venne ucciso a Saragozza Pedro
Arbuès, poi elevato agli altari come Santo Inquisitore. Quanto a Torquemada,
nei pochi dipinti che lo ritraggono, appare una figura imponente. Con intorno
un gruppo di armati a difenderlo».
Sacre guardie del corpo...
«Appunto. L'Inquisitore era un uomo ieratico. Severo erga omnes.
Nei documenti d'epoca lo si descrive disposto a sacrificare la vita per la sua
missione. Ma, si capisce, qualche cautela era d'obbligo. Torquemada operava in
base a regole precise da lui stesso dettate. Era suo compito scegliere i
commissari dell'Inquisizione da impiegare nelle varie province. Si adoperò a
tessere questa rete fino al 1495, tre anni prima di morire. Sul modello
spagnolo sarebbe nata nel
Ancora oggi, se è lecito il paragone, l'azione penale è
obbligatoria.
«La differenza sta nella segretezza dei procedimenti. Una
formula consueta nei documenti dell'Inquisizione suonava così: 'senza il rumore
della litigiosità'. Vietato accogliere denunce anonime. Si scoraggiava la
partecipazione della gente ai processi. Si diffidava di tutto ciò che venisse
dal popolo. Ogni cosa doveva provenire da Dio. A Valenza, l'Inquisizione arrivò
a reprimere - era già il 1620 - un moto di popolo a favore di un presunto
Santo. La Gerarchia stroncò questa infatuazione con l'invio di truppe
regolari».
Nel suo libro Tribunali
della coscienza, che ha per tema l'Inquisizione nell'Italia della
Controriforma, lei sostiene che i tribunali ecclesiastici furono spesso più
miti di quelli del potere statale.
«Nei tribunali civili un certo grado di crudeltà era la norma.
Prova regina veniva considerata la confessione. E per acquisirla si partiva
dagli indizi. Se essi erano sufficienti, si passava alla tortura. In caso
contrario, no. Ciò in teoria. Nella pratica, si sa che la polizia non sempre si
attiene alle regole. Quanto all'Inquisizione, essa indagava su reati connessi
con convinzioni interiori, segrete. L'eresia era considerata un crimine
speciale, per il quale si poteva procedere ignorando le garanzie in uso per i
reati comuni. Ai tribunali civili, per infliggere la tortura, occorrevano due
testimoni. All'Inquisizione ne bastava uno. L'Inquisizione adopera molto più
spesso il carcere d'isolamento, luogo di meditazione e di macerazione. Può
tenere il reo recluso sine die, perché si penta. Una piramide di pentiti è il
sogno dell'Inquisitore. Un pentito fa dieci nomi di eventuali rei. E presumendo
che ciascun reo virtuale, una volta incarcerato, si penta a sua volta, si potrà
arrivare a diecimila pentiti. O a centomila rei».
Centomila?
«Uno studioso francese, Francois Dedieu, ha calcolato che
durante il dominio di Torquemada, per il solo tribunale di Toledo, gli
inquisiti erano varie centinaia. Trattandosi di una comunità abbastanza
ristretta, si arriva a circa metà della popolazione».
E le esecuzioni capitali?
«Qui ci si aggira nell'ordine delle decine. Stando ai calcoli di
altri due noti studiosi, William Monter e John Tedeschi (quest'ultimo è un
ebreo, non sospettabile di indulgenze) le condanne a morte emanate
dall'Inquisizione sono nettamente più rare di quelle irrogate da qualsiasi
tribunale penale ordinario».
Rispetto a quella italiana, l'Inquisizione spagnola stile
Torquemada porta con sé almeno una macchia in più: la persecuzione giudiziaria
degli ebrei.
«Fu un'azione sistematica, di grande portata anche economica. I
condannati appartengono a comunità ricche e potenti. Perseguitarli può
impoverire intere città. Requisendo i loro beni, la struttura capeggiata da
Torquemada non solo arricchisce la monarchia, ma si autofinanzia. L'azione
antiebraica assume aspetti atroci. Inflessibile è il meccanismo attraverso il
quale si ricostruiscono le genealogie dei cristiani spagnoli, divisi in
'vecchi' e 'nuovi'. Basta avere un antenato ebreo per vedersi sistemare nella
seconda categoria».
E i cristiani "nuovi" di quali angherie soffrivano?
«Chi discende da un convertito è escluso da ogni dignità o
privilegio: dall'Ordine dei Cavalieri di Santiago a qualsiasi modesta
confraternita».
Altro che religione. Siamo all'apartheid razziale.
«Un esempio celebre riguardò il Generale della compagnia di
Gesù, diretto successore di Ignazio di Loyola. Si chiamava Diego Laynez. Era
già morto quando si scoprì una sua remota origine ebraica. Seguì l'ordine di
eliminare dagli Annali della Compagnia persino il suo nome. Che, di fatto, vi
figura a stento».
Ma parliamo dell'Inquisizione italiana. Delle sue diversità.
«Al vertice della piramide inquisitoriale, in Spagna siede un
uomo di fiducia del Re. In Italia, supremo Inquisitore è il Papa. È' lui che
priesiede le riunioni della Congregazione del Sant'Uffizio».
Sant'Uffizio. Che soave denominazione per un organismo orribile.
«Questo termine, infatti, fu stravolto. I cristiani del Medioevo
vedevano nel Sant'Uffizio un organismo pastorale, adibito - diciamo - a
'pascere le pecorelle del Signore'. Contro questo inganno Erasmo da Rotterdam protestò
in un colloquio dal titolo Inquisitio de fide, nel quale mimava il
dialogo fra l'Inquisitore e il reo. E' l'equivalente di un moderno lavaggio del
cervello. L'Inquisitore è capzioso. Si fa più dolce via via che il reprobo dà
segni di crollo. Quante più informazioni l'imputato fornisce ai giudici, tanto
più sincera appare la sua confessione. E tanto più umano è il trattamento. La
legislazione premiale non è mica un'invenzione recente...».
C'è una reale esigenza di rivedere la storia di tante impostazioni
arbitrarie. Ma c'è anche un revisionismo ambulante, strumentale. Non si corre
il rischio che allo sdegno tradizionalmente riservato all'Inquisizione subentri
un'indulgenza ugualmente irriflessiva?
«Direi che, in generale, il rischio si è già realizzato. Si è
confrontato, antistoricamente, il 'dopo' con il 'prima'. Himmler, poniamo, con
Torquemada. E ne è nata l'idea che si possa risolvere i conti del passato,
chiudendo ogni 'libro nero'. Tutto consiglierebbe, invece, di andar piano con i
perdoni. E' più importante conoscere che perdonare. Non si tratta tanto di
chiedere scusa a Giordano Bruno o di riabilitare Galileo, ma di capire il
quando, il come, il perché. Studiando l'Inquisizione abbiamo capito quanto sia
importante e perenne il tema dell'alterità e della tolleranza. Non per nulla,
la storiografia sull'Inquisizione spagnola ad opera di studiosi spagnoli, già
molto illustre, rinasce subito dopo la morte di Franco. Un moto di
autocoscienza della Spagna moderna, nel momento del suo aggancio all'Europa».
Papa Wojtyla ha promesso, in occasione del Giubileo, un
"mea culpa" in nome della Chiesa sul tema della santa Inquisizione.
Non può accadere che venga sommerso da un coro: «Ma no, Santità, non esageri,
non stia a fustigarsi, chi glielo fa fare, nessuno è perfetto»?
«Non è impossibile, ma sarebbe insensato».
Il tribunale dell'Inquisizione fu creato nel basso Medioevo per
castigare l'eresia e gli altri delitti contro la fede cristiana (apostasia,
falsi miracoli, profanazione dell'eucaristia, stregoneria, superstizione); la
sua storia si articola in due distinti momenti: quello medievale e quello
moderno, ossia posteriore alla Riforma protestante.
L’ETA’ MEDIEVALE
I primi tribunali dell’Inquisizione sorsero nel XII secolo
in diverse aree dell’Europa occidentale, talvolta su richiesta o con l'appoggio
del potere civile, detto "braccio secolare", essendo considerata la
disobbedienza al sovrano anche un delitto "religioso".
Lo sviluppo di moti neo- manichei in Francia e in Italia indusse
papa Innocenzo III a inviare nelle regioni interessate speciali giudici-legati,
come il cistercense Pierre de Castelnau, e lo spagnolo Domenico di Guzmán, con
il compito di "inquisire", e, in caso disperato, consegnare alle autorità
civili gli eretici.
Nel corso dei secoli i papi, in particolare Onorio III,
tentarono ripetutamente di sottrarsi alla pesante e non disinteressata
"collaborazione" dei sovrani, ma poiché i vescovi e le popolazioni
locali erano più legati ai re che al papa, si ebbero frequenti scontri fra i
sovrani e gli inquisitori domenicani, che invece dipendevano direttamente da
Roma.
Frequenti furono anche i conflitti fra inquisitori e vescovi.
L’ETA’ MODERNA
Un nuovo capitolo nella storia dell'Inquisizione si apre con la
cosiddetta Inquisizione Romana, nell'età della Controriforma.
Nel 1542 Paolo III creò la Congregazione cardinalizia del Santo Uffizio (Sacra congregatio romanae et
universalis inquisitionis seu Sancti Officii ), presieduta dal cardinale
Giampietro Carafa. La bolla “Licet ab inizio” (21 luglio 1542) ne
centralizzava il potere e le funzioni, escludendo ogni possibilità d'intervento
dei vescovi e dell'autorità laica e dando mandato a sei cardinali inquisitori
di designare tutti i funzionari dipendenti, senza limiti di giurisdizione,
attribuendo loro la facoltà di incriminare chiunque, principi e prelati
compresi.
Dapprima il Santo Uffizio si limitò a perseguire i libri
"eretici", pubblicandone vari "Indici", ma Pio IV accrebbe le sue
competenze; il suo compito fu quello di esaminare tutte le insorgenze d'eresie
e la sua autorità superiore ad ogni altra era finalizzata al fatto che nessun
caso sfuggisse al suo controllo. Infine, con la “Costituzione Immensa”
(22 gennaio 1588) Sisto V le diede il primo posto fra le Congregazioni Romane.
Conseguito in tal modo il controllo della vita religiosa e
spirituale in Italia, la funzione dell'Inquisizione Romana venne restringendosi
un po' alla volta alla cura di questioni di vita interna della Chiesa, sino a
che, il 29 giugno 1908 con la bolla “Sapienti Consilio” di San Pio X, il
termine Inquisizione scomparve; rimasero la Congregazione del Santo Ufficio e
l'Indice dei Libri Proibiti. Infine, dopo il Concilio Vaticano II, il
Santo Ufficio ha assunto la denominazione di Congregazione per la dottrina
della fede (7 dicembre 1965), e l'Indice, di fatto, è venuto meno.
LA PROCEDURA INQUISITORIALE
Fissata attraverso una serie di bolle papali e decisioni
conciliari, venne riassunta in vari manuali, fra cui la celebre “Practica
inquisitionis” del domenicano Bernardo di Guido (ca. 1320).
Essa prevedeva un "tempo di grazia" (da 15 giorni a un
mese), nel quale l'eretico denunciatosi spontaneamente avrebbe ricevuto lievi
pene (preghiere, opere pie, pellegrinaggi), anche "segrete", se la
colpa non fosse stata pubblica. Trascorso il termine, il tribunale procedeva
citando l'indiziato o chiedendone l’arresto alle autorità civili; di regola due
testimoni "onorevoli" (quasi mai messi a confronto con l'accusato)
erano sufficienti per una condanna; in qualche caso veniva ammessa
l'assistenza di un avvocato noto al tribunale come non sospetto d'eresia. Il
regime penitenziario durava a volte degli anni e la pratica della tortura, per
estorcere la confessione, era ammessa “citra membri diminutionem et
mortis periculum” (salvo mutilazione e pericolo di morte). La sentenza (previo
consenso del vescovo) veniva letta durante un pubblico "sermone
generale" e poteva essere di assoluzione, preceduta da abiura, di
detenzione parziale o perpetua e di morte sul rogo (l'esecuzione di
quest'ultima era affidata al "braccio secolare"). La prigionia perpetua
e il rogo comportavano la confisca dei beni; qualche pena più lieve ( come il
pellegrinaggio a un santuario) poteva essere riscattata col versamento di
elemosine. La condanna al rogo poteva essere inflitta anche “post mortem”; in
questo caso veniva bruciato il cadavere. Prima della sentenza, il reo poteva
appellarsi al papa, che di fatto intervenne in più casi, anche destituendo
giudici troppo severi.
Tra i processi più celebri della storia ricordiamo, nella
Firenze dell'ultimo Quattrocento, quello contro Savonarola, legato a
circostanze politiche e locali. Particolare risonanza ebbero poi anche i
processi contro intellettuali, come Giordano Bruno e Galileo Galilei.
Adriano Prosperi, L’Inquisizione
romana. Letture e ricerche,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003
[ISBN 88-8498-082-8; € 58,00]
Matteo Duni
Syracuse University in Florence
M Duni, "Review of A. Prosperi, L’Inquisizione romana.
Letture e ricerche", Cromohs, 10 (2005): 1-7
< URL: http://www.cromohs.unifi.it/10_2005/duni_prosperi.html>
1. Gli studi sull’Inquisizione romana attraversano una fase di
grande crescita quantitativa e di mutamento qualitativo nell’approccio
all’oggetto, entrambi dipendenti in misura considerevole, anche se non
esclusiva, dall’apertura dell’archivio centrale del Sant’Uffizio (ora
Congregazione per la Dottrina della Fede) nel 1998. Si è trattato senza dubbio
di un evento di grande rilevanza, che ha contribuito a orientare le ricerche su
nuclei di problemi prima toccati solo marginalmente, e soprattutto
sull’Inquisizione come istituzione, le sue logiche, il suo personale, il ruolo
che svolse all’interno della Chiesa cattolica. Tra gli studiosi italiani
protagonisti di questo nuovo orientamento Adriano Prosperi occupa una posizione
di assoluto rilievo, grazie anzitutto all’opera più rappresentativa della nuova
storiografia sull’argomento, Tribunali della coscienza (1996). L’origine
dell’Inquisizione romana, la sua strutturazione e ideologia, i suoi rapporti
con altri poteri e istituzioni sia all’interno che all’esterno del mondo ecclesiastico,
le conseguenze della sua azione sui comportamenti e i pensieri delle
popolazioni italiane nel “secolo di ferro” che corre tra l’istituzione
dell’ufficio (1542) e la metà del Seicento sono alcuni dei temi di quel libro,
che si ritrovano – insieme a diversi altri - nel volume L’Inquisizione
romana Esso raccoglie diciassette contributi scritti nell’arco del
ventennio 1982-2002: vi si leggono così studi appartenenti al periodo
precedente l’apertura dell’archivio centrale romano, e che in parte anticipano
riflessioni e orientamenti sviluppati pienamente in Tribunali della
coscienza, accanto a lavori che hanno potuto giovarsi dei nuovi documenti
ora disponibili, e che quindi hanno consentito da un lato di effettuare una
prima verifica di ipotesi o anche di conclusioni prima espresse sempre in forma
più o meno dubitativa, dall’altro di delineare nuove prospettive di ricerca per
gli anni a venire. Nel complesso, la serie di studi consente di allargare e
approfondire lo sguardo su questioni di primaria importanza, che escono dai
limiti della storia della sola istituzione. Basti qui indicare due temi che si
intrecciano, e percorrono più di un saggio della raccolta: l’impatto del
modello di cristianesimo informato alla dottrina e alla prassi inquisitoriale
sui processi di formazione di nuove identità - dei singoli come delle
collettività - nello scenario dell’età della Controriforma e oltre; la
collaborazione e la dialettica tra istituzioni ecclesiastiche e stati, per
parte loro sempre più impegnati a partire dal ‘500 nella “politica della
coscienza”, ossia nella creazione del consenso e nel controllo del dissenso. Il
volume, inoltre, testimonia un impegno assiduo nell’interrogarsi sul passato e
sul futuro degli studi sull’Inquisizione, sulla necessità di rivedere i
presupposti storiografici soggiacenti a tanta parte delle ricerche del secolo
scorso, senza cadere però in un revisionismo che sta già producendo frutti
deleteri. L’Inquisizione romana da questo punto di vista integra e
completa Tribunali della coscienza, in quanto dedica molto più spazio
alla riflessione su questo tema di quanto facesse l’altro libro, e fornisce una
messa a punto del problema storiografico assai stimolante, anche se non del
tutto persuasiva in alcuni dei suoi esiti, come vedremo.
2. Il mutato clima e le condizioni diverse nelle quali le ricerche
sull’Inquisizione si svolgono oggi sono tratteggiati nell’Introduzione,
che vede l’aprirsi agli studiosi delle porte del palazzo del Sant’Uffizio come
il punto finale di contrapposizioni secolari ed aspre tra detrattori e
apologeti dell’Inquisizione, sempre e comunque mossi da pregiudizi ideologici,
e interpreta la scelta compiuta da Giovanni Paolo II come un atto che costringe
gli storici a mettere da parte antiche animosità e malintesi sensi di militanza
per affrontare la messe documentaria con spirito obiettivo. Per la verità,
l’autore riconosce che non tutti i ricercatori hanno obbedito a logiche
preconcette, ricordando quelli che hanno anticipato la svolta storiografica:
John Tedeschi, anzitutto, il primo ad aver messo al centro del suo interesse il
Sant’Uffizio come istituzione e ad aver fornito una ricostruzione del suo
funzionamento che sfatava molti e tenaci luoghi comuni; e Massimo Firpo, il
quale, nell’approntare l’edizione monumentale del processo celebre per eresia
contro il cardinal Giovanni Morone, ha messo a fuoco magistralmente il ruolo
capitale dell’Inquisizione romana negli anni decisivi della costruzione del
papato della Controriforma. Ora però, sottolinea Prosperi, la natura stessa
della documentazione superstite tra le mura vaticane consente, e al tempo
stesso richiede, che le ricerche future compiano una svolta più decisa, nel
senso di mettere al centro – per semplificare - gli inquisitori, più che gli
inquisiti. La chiave per studiare questi ultimi, infatti, i processi, andarono
perduti nel corso delle disavventure di primo ’800 (sottratto l’archivio da
Napoleone, l’immensa serie processuale fu poi mandata al macero a Parigi da
autorità vaticane tanto preoccupate di risparmiare sui costi del trasporto a
Roma quanto in fondo interessate alla sua distruzione). È quasi intatta,
invece, la serie dei Decreta, i verbali delle riunioni dei cardinali
supremi inquisitori, ossia lo strumento fondamentale per cogliere, sul filo
delle decisioni e discussioni giorno per giorno, l’evoluzione delle posizioni
di quella che era ormai la massima istanza dottrinale e insieme politica della
Chiesa cattolica. L’insieme delle serie conservate – sulle quali sarebbe troppo
lungo soffermarsi qui – permette quello “sguardo d’insieme, dal centro e
dall’alto” (p. 229) che era finora mancato agli storici dell’Inquisizione
romana, costretti a inseguire le tracce delle decisioni romane nei riflessi
lasciati negli archivi dei tribunali locali della Penisola. Le domande che i
ricercatori potranno rivolgere a questi documenti, dunque, saranno
sostanzialmente diverse rispetto al passato, e potranno concentrarsi sugli
aspetti multiformi dell’egemonia esercitata dalla Chiesa della Controriforma –
e anche dei secoli successivi, fino a quello scorso - sulla società italiana,
sui suoi strumenti (come l’Inquisizione) e i suoi limiti.
3. L’egemonia della Chiesa è vista anzitutto nella luce del cambiamento
fondamentale tra tutti quelli causati dall’istituzione dell’Inquisizione
romana, ossia della “riduzione della fede a materia di polizia governata
direttamente dal papa” (p. 67), di contro ad una situazione precedente in cui
figure e corpi diversi, non immediatamente sottoposti a Roma – le facoltà
teologiche, i vescovi – potevano avere voce in capitolo. La spia più
significativa dei tempi che cambiavano è individuata nel mutamento semantico
dell’espressione “santo ufficio”, tradizionalmente riferita al compito
pastorale supremo dei pontefici nei confronti della Chiesa: a partire dalla
metà del Cinquecento, invece, essa comincia ad indicare un’istituzione
burocratica, distinta dalla persona del papa per quanto sua espressione,
incaricata di condurre con logica e mezzi polizieschi quel che fino ad allora
si era detto il “negotium fidei”. Prosperi instaura un confronto interessante
tra l’affermarsi della nuova concezione e le idee opposte di uno dei più
prestigiosi e influenti prìncipi della Chiesa a metà del ‘500, il cardinale
inglese Reginald Pole. Esponente massimo della fazione dei cosiddetti
“spirituali”, inclini ad un accordo con i protestanti che ne riconoscesse
alcune innovazioni, Pole fu autore di un dialogo De summo pontifice ...
eiusque officio et dignitate in cui il papa era visto come titolare del
dovere supremo verso il gregge cristiano, ma anche come il modello più alto di
quel che un vero capo politico doveva essere, in quanto riuniva la dimensione
spirituale a quella temporale, e poteva quindi legare meglio di chiunque altro
i cittadini allo stato tramite il vincolo religioso. In realtà, la lezione
dell’importanza della religione nella politica – e, inversamente, dell’impiego
spregiudicato della seconda nella prima - fu imparata alla perfezione
dall’avversario acerrimo di Pole, Gian Pietro Carafa (poi papa Paolo IV), che
gli sbarrò l’ascesa al pontificato tramite l’uso politico dell’accusa di eresia
imbastita proprio grazie al lavoro della sua creatura, il Sant’Uffizio. Fu
quello il primo, e più clamoroso, esempio di quello che si poteva fare grazie
al controllo dell’Inquisizione: le chiavi di accesso al soglio pietrino erano
saldamente nelle mani dei supremi inquisitori, diversi dei quali divennero papi
tra Cinque e Seicento. Al di là delle ricadute interne alla gerarchia
ecclesiastica, comunque, l’instaurarsi del “regime del Sant’Uffizio” ebbe
conseguenze profonde sulla natura delle credenze e dei comportamenti religiosi
negli stati italiani, soprattutto perché esso avveniva in contemporanea al
mutare della natura della fede, da pratica comunitaria ad esperienza sempre più
privata ed interiorizzata, basata sull’assimilazione consapevole di
insegnamenti teologici. Nella Penisola un tale processo fu bloccato sul nascere
dalla Chiesa della Controriforma, che anche col tramite dell’Inquisizione
incoraggiò una concezione della religione come adesione totale ed acritica,
quanto formale, ai dettati del magistero ecclesiastico, al quale solo era
riservata la conoscenza degli “arcana” della fede. L’impiantarsi di una cultura
del sospetto e di una sorveglianza occhiuta su atti e pensieri difformi
dall’ortodossia causò quella “scissione tra convinzioni segrete della coscienza
e pratica rituale esteriore” (p. 308) – nota anche nel fenomeno del
“nicodemismo” agli studiosi del Cinquecento religioso – che Prosperi individua
come una delle origini remote del conformismo e dell’autoreferenzialità di
tanta parte della cultura italiana. Inoltre, il disegno di un controllo degli
atteggiamenti verso la religione e l’ordine ecclesiastico che mirava
all’eliminazione delle diversità ebbe l’effetto, tra le altre cose, di
sottoporre le comunità ebraiche alle più strette attenzioni del Sant’Uffizio,
creando così l’humus nel quale avrebbe facilmente prosperato la pianta
plurisecolare dell’antisemitismo, del resto ben presente nel corredo genetico dell’istituzione.
4. Le nuove e potenti strutture di controllo stesero le loro reti in àmbiti
sempre più vasti, e ricorrendo a mezzi mai prima sperimentati: tale fu senza
dubbio l’uso integrato dell’azione inquisitoriale, della pratica della
confessione e della censura libraria, argomento centrale in diversi contributi
e, direi, in quasi tutto il volume. Prosperi è stato infatti colui che meglio
di chiunque altro ha individuato l’importanza del legame di subordinazione
della confessione – e dei confessori – all’Inquisizione stabilito da pontefici
come Paolo IV e Pio V, vera chiave di volta del sistema di controllo sulla vita
e la cultura delle popolazioni italiane nell’età della Controriforma.
Decretando infatti nel 1559 l’obbligo per i confessori di interrogare i
penitenti su eventuali complici nell’eresia, e di rifiutare loro l’assoluzione
se prima non ne avessero fatto denuncia all’inquisitore, papa Carafa attuava la
saldatura tra foro esterno dell’Inquisizione e foro interno della confessione,
quindi tra potere temporale e potere spirituale: una commistione di sfere e una
somma di strumenti ai quali guardavano con interesse anche i nascenti stati
assoluti, alla ricerca dei mezzi più idonei per attuare un crescente
disciplinamento delle popolazioni non solo negli atteggiamenti esteriori ma
anche nei convincimenti più intimi. L’obbligo di denuncia riguardava anche la
materia dei libri proibiti, dei quali Paolo IV emanò nello stesso 1559 l’Indice
più ampio e punitivo della storia: il risultato fu di introdurre il “clima
soffocante della censura e del sospetto” in ogni àmbito della vita sociale, e
soprattutto tra coloro che tenevano e leggevano libri per esigenze di lavoro,
professori e studenti delle università. Alcune delle pagine più interessanti
della raccolta (il saggio Anime in trappola) sono dedicate ad analizzare
con finezza le forme e le conseguenze della penetrazione dei controlli
inquisitoriali nelle università italiane, e segnatamente in quella di Pisa. Non
difeso, come le università d’Oltralpe, dalle ingerenze ecclesiastiche per opera
del potere politico, il mondo accademico italiano andò al confronto con censori
e inquisitori in ordine sparso, cercando soluzioni di compromesso caso per
caso, permessi speciali individuali di tenere testi proibiti, e mostrandosi
anzi disponibile a collaborare con proposte di “miglioramento” della censura.
La corrispondente flessibilità delle congregazioni romane, che spesso e
volentieri derogarono alle norme con favori ad personam, finì per attutire il
bisogno di libertà creato dalla proibizione e contribuì a stendere sulle
università quella cappa di conformismo e di adeguamento alle imposizioni delle
autorità religiose, che ne distrusse il carattere di luoghi di discussione
libera ed aperta a tutte le “nazioni” – la scomparsa progressiva di studenti
del nord-Europa è spia significativa del cambiamento. Il conformismo imposto
nell’età della Controriforma rimase come caratteristica di tempo lungo nelle
università italiane, tanto che Prosperi accosta l’attestato di confessione e
comunione pasquale imposto dal Sant’Uffizio ai professori, al giuramento di
fedeltà richiesto dal regime fascista, rilevando come entrambe le misure
suscitarono ben poche resistenze. Ancor più importante è il fatto che il
meccanismo dei controlli s’impiantò prima di tutto nell’interiorità dei fedeli
attraverso la confessione, che fu “uno strumento di controllo sociale e [...]
anticamera del tribunale inquisitoriale”: l’identificazione tra peccato e
delitto valse a trasformare le coscienze nelle più valide alleate
dell’Inquisizione, stimolando in ugual misura la delazione, l’autodenuncia e
l’autocensura.
5. L’intreccio tra queste tre facce del “regime del Sant’Uffizio”, e
soprattutto il rapporto complesso tra censori e censurati, è affrontato in uno
dei saggi più ambiziosi, Censurare le favole, dedicato ad analizzare
l’atteggiamento delle autorità romane nei confronti della letteratura
nell’epoca della definizione delle prime versioni dell’Indice. Prosperi indica
il secolo della Riforma come il momento di una rottura netta della concezione
medievale della letteratura (soprattutto della poesia) come affine e alleata
della teologia, soppiantata dalla coscienza di una distanza incolmabile tra
“favole” e verità della Scrittura, che richiedeva l’adozione di provvedimenti
per mettere sotto controllo le prime e tutelare la seconda. Tuttavia, avverte
l’autore, l’attuazione della censura non deve essere vista come un attacco
indiscriminato, condotto da ecclesiastici rozzi e fanatici, contro una cultura
sostanzialmente espressione della società laica: respingendo semplificazioni
schematiche, il saggio sottolinea il coinvolgimento di intellettuali laici
nell’espurgazione, e anche nell’auto-espurgazione, di opere entrate nel mirino
dell’Indice, accanto all’impegno appassionato di intellettuali che erano anche
chierici per salvare quanto più possibile di opere capitali per la letteratura
italiana – il caso più celebre fu l’espurgazione del Decameron ad opera
del dottissimo abate Borghini. Di più, Prosperi individua come una delle
istanze all’origine dell’apparato censorio proprio “la protesta contro
l’incontrollata circolazione di libri” giudicati immorali che veniva dal “mondo
degli umanisti e dei letterati militanti” (p. 356). Si tratta di
un’interpretazione molto interessante, che a mio giudizio però avrebbe
necessitato di una discussione più ampia e meglio argomentata di quella offerta
nel saggio: gli esempi addotti in suo sostegno, in effetti, appaiono troppo
pochi – Juan Luis Vives, Gianfrancesco Pico - oppure non abbastanza
significativi o pertinenti – come l’ironica proposta di Francesco Berni di
istituire una “inquisizione particolare sopra i poeti”, o le proteste di Erasmo
contro l’irriverenza verso le Scritture – per riuscire del tutto persuasivi.
Più convincente risulta l’affresco d’insieme di una situazione italiana senza
dubbio peculiare – ad esempio nel confronto con quella quella spagnola – per il
legame tra autori e censori, che divenne “consuetudine stretta e prolungata,
assuefazione ai criteri e ai poteri che custodivano l’accesso alla stampa” (p.
381), e si tradusse in un’attenzione censoria verso le opere non teologiche
inaudita nella penisola iberica. Il risultato fu, al di là dei testi
direttamente colpiti, la scomparsa di intere categorie di opere, soprattutto in
volgare, che entrarono nella dimensione carsica della circolazione manoscritta,
e in ogni caso la fine di quello che Dionisotti aveva definito il “momento
espansivo, euforico della letteratura italiana” Si deve dire, comunque, che il
saggio lascia l’impressione di un’accentuazione eccessiva degli aspetti
consensuali della censura, della “tradizione dell’intervento ecclesiastico sui
letterati, fondata sul consenso e sulla comune partecipazione alla vita e agli
interessi della ‘Repubblica delle lettere’” (p. 374) che, nel sottolineare
l’importanza e la pervasività dell’autocensura, mette in secondo piano i
caratteri e gli effetti violenti del clima che la imponeva agli autori.
L’esempio della vicenda tormentatissima che condusse Torquato Tasso ad una
riscrittura disastrosa della Gerusalemme liberata (stranamente
trascurata da Prosperi) sta a ricordarci come la “via obbligata dai metodi
dolcemente ‘pastorali’ del controllo ecclesiastico” (p. 382), ossia appunto
l’autocensura, potesse avere conseguenze tutt’altro che dolci su coloro che
finivano per sentirsi obbligati a compierla, e sulle loro creazioni.
6. Al tema del dispiegamento territoriale della rete inquisitoriale di
controllo, al suo radicamento sociale, e ai mutevoli rapporti tra inquisitori e
potere politico è dedicato un gruppo compatto di saggi, tutti precedenti
l’apertura dell’archivio romano: si trattava allora (negli anni ’80 del secolo
scorso) di studi quasi pionieristici, su argomenti che sono tuttora poco
frequentati dai ricercatori italiani, a differenza di quanto avviene ad esempio
in Spagna. Prosperi si concentra sul caso toscano, ma lo confronta con la
situazione della Repubblica di Venezia, mettendo in evidenza le strategie
diverse seguite dai due stati nei rapporti con Roma e nel controllo dei
comportamenti e dei pensieri sulla religione. Mentre nella Serenissima le
autorità politiche, ben consapevoli dell’importanza del “governo della fede”,
lo volevano attuare in prima persona contro ogni ingerenza del Sant’Uffizio, i
granduchi di casa Medici furono di solito assai ossequienti alle richieste
romane, ma si servirono comunque del tribunale della fede come fonte
d’informazioni per tenere sotto controllo l’opposizione
repubblicana-savonaroliana, e ne limitarono il raggio d’azione attraverso il
clero secolare (vescovi e parroci), espressione del potere politico, che
fungeva da contraltare dei vicari locali dell’Inquisizione e non di rado si
trovava in contrasto con loro. L’impianto capillare e saldo della rete
inquisitoriale nel granducato a metà Seicento, comunque, rendeva l’appartenenza
all’apparato – nella forma dei familiari dell’Inquisizione - molto appetibile
agli esponenti delle élites locali, in quanto il potere che ne derivava poteva
essere impiegato contro gli avversari nelle lotte per l’egemonia e il
prestigio; e metteva l’Inquisizione in grado di esercitare ormai un
condizionamento profondo sulle azioni e i pensieri, attraverso il quale ad
esempio si denunciavano sempre più le bestemmie e i riferimenti irriguardosi
verso il clero, mentre ad un altro livello era sottoposta a stretto controllo
la circolazione dei libri in àmbito cittadino. Il confronto tra Sant’Uffizio e
stati italiani, e le sue forme, è argomento sul quale Prosperi formula ipotesi
tra le più suggestive per le ricerche future, come quella di vedere la relativa
“mitezza” dell’azione inquisitoriale – dopo i decenni iniziali di ferro e fuoco
– e il suo scrupolo per le regole del diritto come conseguenza della “delega”
all’Inquisizione da parte del potere politico dei processi di disciplinamento
delle società e degli individui, che richiedeva da parte dell’istituzione
romana un costante spirito di collaborazione e un’attenzione particolare a non
travalicare le norme per non guastare i rapporti con i governi suoi alleati (p.
342).
7. La messa a fuoco della prospettiva nuova con cui leggere la documentazione
del Sant’Uffizio è invece al centro dei contributi più recenti, oltre che dell’Introduzione.
Essa è condotta da Prosperi attraverso l’analisi dei “caratteri originali” di
quella “controversia secolare” - per riprendere il titolo del saggio principale
da questo punto di vista - che ha lasciato segni profondi sul campo di questi
studi. Una lunga ostilità ha contrapposto una corrente di storici (prima
organica alla Chiesa, poi comunque schierata in senso clericale) che difendeva
il ruolo di baluardo dei valori cattolici rivestito dall’Inquisizione prima
contro l’eresia, e in seguito contro l’avanzante secolarizzazione del mondo,
alla tradizione storiografica protestante, più tardi illuministica e liberale,
che vedeva nel Sant’Uffizio una creazione profondamente anticristiana, ed
espressione massima dell’oscurantismo di epoche non ancora liberate dal
pregiudizio per opera della ragione e della scienza. L’esame delle due scuole,
i cui capostipiti sono individuati rispettivamente nell’inquisitore spagnolo
Luís de Páramo e nel teologo arminiano olandese Philip van Limborch, mette in
evidenza come i primi si siano di solito concentrati sull’istituzione e i suoi
giudici, per dimostrarne la necessità e la moralità, mentre i secondi hanno
privilegiato le sue vittime, viste come martiri dell’Evangelo o, più tardi, del
libero pensiero; e che il risultato di queste opposte tendenze sia stato quello
di confinare l’Inquisizione come oggetto storiografico in uno stato di
immobilità e astoricità, sottraendola fino a decenni recenti ad ogni tentativo
di esaminarne l’evoluzione e i cambiamenti. Per secoli, insomma, si è studiata
l’Inquisizione solamente al fine di “inserirla nella storia di cui si è parte
oppure di estrometterla” (p. 69); adesso i tempi sono maturi per ricerche volte
a capire, più che a giudicare, ma stando bene attenti a non cadere nella
riabilitazione del passato. In più di un saggio della raccolta Prosperi mette
in guardia contro la tentazione attuale di sostituire la “leggenda nera”
dell’Inquisizione romana costruita nei secoli passati con una “leggenda rosa”
altrettanto inaccettabile (p. 95); e chiama gli storici al compito di studiare
senza pregiudizi il Sant’Uffizio come realtà del passato “immodificabile e
irrimediabile in quello che ha fatto, modificabile però nel presente per quello
che ha lasciato in eredità” (p. 96). Tuttavia, quale sia questa eredità, e
soprattutto se e come essa debba influire sull’atteggiamento di chi oggi
s’interroga su cosa fu quella istituzione, non emerge in modo univoco da queste
pagine di Prosperi. Egli, infatti, dopo essersi chiesto quale “guerra” condusse
a morte le vittime dell’Inquisizione e quale ne sia stato il significato, si
riferisce agli storici e in generale agli osservatori del tempo presente con
“noi, che, in quanto siamo qui, siamo gli eredi dei vincitori” di quella guerra
(p. 95), ossia degli uomini del Sant’Uffizio. Afferma contraddittoriamente
poche righe oltre (ma anche, più diffusamente, a p. 310) che la nostra società
attuale si fonda sui valori della libertà di pensiero e del rispetto assoluto
per la sfera della coscienza, ossia proprio su principî che a lungo furono
rivendicati solo da singoli o da gruppi minoritari, perseguitati tanto dalla
Chiesa di Roma quanto dalle altre Chiese nate dalla crisi del ’500. Accenna
infine alla libertà e inviolabilità della coscienza come un “fondamento
cristiano essenziale delle regole sociali”, ma senza esplicitare il suo
pensiero sul rapporto che legherebbe questa libertà al cristianesimo. Ci siamo
soffermati su queste pagine non per il gusto pedantesco di rilevare
incongruenze, ma perché riteniamo che la questione meriti la massima chiarezza.
Certamente, il compito che come studiosi dobbiamo affrontare adesso è scrivere
la storia del Sant’Uffizio con i documenti finalmente disponibili,
interrogandoli senza piegarli entro schemi preconcetti; ma non dobbiamo
dimenticare che è anche grazie all’eredità di taluni dei “vinti” di quella guerra
- non dei vincitori - che noi possiamo oggi studiare con spirito libero dai
condizionamenti di qualunque “chiesa” la storia di chi li perseguitò. Non si
tratta di confondere l’esercizio del mestiere di storico con quelle ricerche di
una qualche “genealogia” della modernità nelle quali ci si muove su strade già
segnate in partenza; bensì di coniugare ad un uso critico e responsabile delle
fonti la memoria consapevole dei processi storici – spesso drammatici – che
forgiarono, insieme alla costellazione dei valori sui quali poggia il nostro
vivere civile, anche gli strumenti indispensabili a quel mestiere. Senza una
tale consapevolezza, io credo, non ci assumeremmo davvero quelle responsabilità
alle quali chiama l’apertura dell’archivio dell’Inquisizione romana e, in
ultima analisi, non coglieremmo appieno il valore del percorso che ha condotto
i vertici della Chiesa cattolica a decretarla.
Tra il III concilio lateranense del 1179 e la metà degli anni
Trenta del Duecento la Chiesa cattolico-romana riuscì a dotarsi dei mezzi
religiosi, giuridici, ideologici, politici e organizzativi per isolare i
movimenti eretici, sottraendo loro ogni spazio e connotazione sociale. È in
questo intervallo di tempo che si formalizzano teoria e prassi della campagna
antiereticale, definendo i confini tra obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche
(ortodossia) e deviazione (eresia). Il dissenso religioso
si trasforma in un crimine di natura politica (di lesa maestà) e anche il
linguaggio si adegua alla propaganda antiereticale, soprattutto con la
creazione degli Ordini mendicanti. Si elaborano nuove e migliori tecniche
repressive e strumenti della persuasione, arrivando all’istituzione
dell’Inquisizione.
La lotta fu ovviamente impari per le forze che il papato riuscì
a mettere in campo, non solo da un punto di vista religioso, ma soprattutto
politico, con campagne di vasta portata sociali e istituzionali, fatte di
azioni repressive, di predicazione, celebrazioni agiografiche e di
diffamazione. Gli eretici e i dissidenti religiosi, se non rispondere
attraverso la propria testimonianza personale, nulla potevano fare contro una
Chiesa che controllava le anime e gli individui delle varie collettività.
Confinati ai margini della società vennero ridotti in clandestinità
dall’attività degli inquisitori, membri di quel tribunale itinerante creato dal
papato per individuare e reprimere l’eretica pravità in ogni provincia
e luogo.
La Militia Christi
La lotta contro gli eretici assunse gradualmente i connotati di
una vera e propria “crociata”, alla stregua di quella contro gli infedeli.
L’eresia venne percepita e considerata come un attentato alla “pace di Dio” e
alla convivenza tra gli uomini. Già nel canone Sicut ait beatus Leo del
terzo concilio lateranense del 1179 troviamo scritto: «poiché in Guascogna,
Albigese e Tolosano e in altri luoghi così è cresciuta la dannata perversità
degli eretici variamente si siano assunti questo impegno di sconfiggere quelli,
nello stesso modo di coloro che visitano il sepolcro del Signore». La congiuntura
di eventi e cause per la crociata interna venne rimandata di circa trent’anni e
trovò la sua piena giustificazione, sotto il papato di Innocenzo III, nel
canone Excommunicavimus del IV concilio lateranense del 1215: «i
cattolici che, assunto il segno della croce, si siano accinti allo sterminio
degli eretici, godano di quella indulgenza e siano muniti di quel santo
privilegio che sono concessi a coloro che recano aiuto in Terrasanta».
Con questo decreto papale lo status dei “crociati” contro
gli eretici veniva definitivamente equiparato a quello dei crociati in
Terrasanta, coinvolgendo, oltre agli eretici, anche qualsiasi potere civile li
protegga, opponendosi alla repressione antiereticale promossa dalla Chiesa.
Queste idee non erano nuove poiché, sin dai primi mesi del suo pontificato,
Innocenzo III si era già mostrato deciso a risolvere la questione “albigese” in
ogni modo. Già nel 1198, infatti, aveva lanciato un appello per invitare i
francesi della Linguadoca a mobilitarsi contro gli eretici, concedendo la
stessa indulgenza prevista per coloro che visitavano le tombe degli apostoli
Pietro e Giacomo. Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’occasione per
risolvere una volta per tutte la situazione occitanica e per sradicare l’eresia
in quelle terre, fu l’uccisione del legato pontificio Pietro di Castelnuovo nel
1208. Dopo questo fatto Innocenzo III poté lanciare una crociata vera e
propria, invitando tutte le forze ecclesiastiche e laiche del regno di Francia
a mobilitarsi contro l’eretica pravità.
Accanto alla repressione armata, si delineò un’altra forma di
contrapposizione nei confronti delle varie sette o movimenti ereticali, in
particolare quelle dei catari e dei valdesi. Già nel 1206 Innocenzo III
ricordava al suo legato Radulfo, della provincia narbonese, che la difesa
dell’ortodossia doveva avvenire anche per mezzo dell’esempio. Dispose, quindi,
che venissero individuati dei “viri probati” affinché potessero
dedicarsi alla predicazione, seguendo un rigoroso stile di vita
pauperistico-evangelico, In questo modo, “imitando la povertà del povero
Cristo», tali predicatori, con l’esempio e la predica, dovevano rivolgersi agli
eretici per riportarli all’ortodossia. È in questo contesto che Folco, vescovo
di Tolosa, istituì nella sua diocesi i «predicatores in episcopatu (...)
fratrem Dominicum et socios eius» per contrastare con l’esempio e la parola
l’eretica pravità. Due anni dopo, nel 1217, Onorio III definì Domenico e i suoi
compagni la militia Christi della parola e gli invicti Christi adlete.
Accanto alla milizia della crociata in armi si era aggiunta la milizia della
parola. Nel 1220 lo stesso Onorio III interpretò la nascita dell’Ordine dei
Frati Predicatori come un segno della volontà divina contro la “peste”
dell’eresia. Con Gregorio IX questa “milizia evangelizzatrice” si completerà
con l’ingresso dei Frati Minori, accomunati ai Predicatori nella lotta contro “le
volpi (gli eretici) nella vigna del Signore».
La demonizzazione degli eretici
Tra le armi controversistiche la Chiesa pose un forte accento
anche sulla demonizzazione degli eretici definiti come “membra Diaboli”
o “ministri Diaboli”. Ne consegue che sempre più numerosi e vari sono
gli exempla che, a partire dal XIII secolo, associano i loro
comportamenti e le loro idee al rapporto speciale che intrattengono con il
maligno. Le accuse più comunemente lanciate contro i dissidenti religiosi
riguardano il l’ordinamento morale e la sfera sessuale. Denominatore comune,
presente, infatti, nelle polemiche cattoliche nei confronti dei vari eterodossi
è la partecipazione a orge e incesti sfrenati durante le loro riunioni,
indipendentemente dal movimento considerato. Altre accuse frequenti sono atti
blasfemi e sacrileghi contro le cose sacre, altari, arredi, immagini, e così
via.
In questo modo la propaganda cattolico-romana intendeva
sottolineare il comportamento perverso e il disordine morale degli eretici,
capace di travolgere la vita sociale. Evidenziando la potenzialità corruttrice,
indistintamente, di ogni eresia la Chiesa riuscì a mobilitare la collettività
in chiave antiereticale e a giustificare la repressione violenta nei confronti
dei dissidenti religiosi (un esempio su tutti il massacro degli abitanti della
città di Béziers). Inoltre, richiamando alla mente atti corporali e triviali
era molto più facile smuovere le masse anziché adducendo questioni teologiche e
dottrinali.
La demonizzazione degli eretici rese possibile anche la loro
criminalizzazione nell’ambito del diritto pubblico. A partire dalla decretale Vergentis
in senium del 1199 di Innocenzo III, in cui l’eresia religiosa venne
equiparata al crimine lesae maiestatis, e quindi definitivamente
collocata in un ambito sociale e politico. Da questo momento in poi, mantenendo
viva l’immagine di strette relazioni tra demoni ed eretici, il ricorso alla
violenza era giustificato dall’enormità del pericolo rappresentato dagli
eterodossi per l’ordinamento religioso e civile nel suo complesso, in altre
parole per la cristianità tutta. Per un’istituzione come quella della Chiesa
cattolico-romana, impegnata nella realizzazione di un controllo totalizzante
della coscienza degli individui e collettiva, la demonizzazione degli eretici
si dimostrò uno strumento utile e indispensabile per la propria affermazione.
Negando alla radice le argomentazioni addotte dai vari movimenti
ereticali e coerentemente all’equazione eretici uguali a demoni e quindi uguali
a criminali, a partire dal XIII secolo la persuasione nei loro confronti non
poté che avvenire attraverso metodi coercitivi, alimentando continuamente le
coscienze con immagini paurose e ignominiose degli eretici, conformando il
contenuto degli exempla che li riguardano. Man mano che la
demonizzazione degli eretici procedeva, la repressione si faceva più violenta E
il passo fu breve perché il rogo divenisse una legittima anticipazione, quasi
un atto di giustizia, delle pene eterne. Conseguenza di tutto questo fu che la
difesa l’ortodossia equivalse difendere la Chiesa e, quindi, il papato.
Chiunque insidiava la libertas ecclesiae, o si opponeva ai mandata
ecclesiae, si trasformava in un avversario della Chiesa romana,
indipendentemente dalle proprie idee religiose, con non poche
strumentalizzazioni.
Questa linea la ritroviamo anche negli editti antiereticali
emanati da Federico II di Svevia tra il 1220 e il 1239,
via via sempre più crudeli, che ricalcavano precedenti provvedimenti
ecclesiastici. Non furono, infatti, solo il frutto di un calcolo politico per
ingraziarsi il papato, ma anche di una consapevolezza interiore dell’imperatore
del proprio dovere di reprimere eretici ed eresie e difendere l’ordinamento
sociale voluto da Dio. La persecuzione dell’eresia divenne una questione di
diritto pubblico, liberando, di fatto, la Chiesa dall’ambigua ed inaccettabile
posizione se mettere a morte o no gli eretici. L’intransigenza e l’intolleranza
imperiale è la stessa di quella della Chiesa, stesso è anche il linguaggio
impiegato. L’eresia era considerata una vera e propria malattia che minacciava
la salute del corpus ecclesiae. Per questo, le punizioni per gli
eretici e i loro fautori sono tra le più dure, compresa la pena di morte: per
incutere terrore nei “dissidenti” e persuaderli a ritornare nella comunione con
la chiesa, o, nel caso di non pentimento, per eliminare fisicamente l’eretico.
Ovviamente la lotta antiereticale fu oggetto di inevitabili
strumentalizzazioni, sia da parte dell’imperatore, sia da parte dei pontefici.
Per Federico II, infatti, combattere il pericolo eterodosso nelle terre
lombarde significava poter isolare, ideologicamente e politicamente, l’area
italiana nella quale la più forte era l’opposizione nei suoi confronti (dopo
essere stato scomunicato nel 1239, Federico II giunse persino ad accusare
Gregorio IX di essere un ricettatore di eretici, poiché alleato con la lega
lombarda). Dopo la scomunica di Gregorio IX, Federico II si servì delle leggi
antiereticali nel Regno di Sicilia per colpire i ribelli senza consentire,
ovviamente, che operassero poteri giudiziari autonomi e concorrenti (lui stesso
decretò l’espulsione di tutti i membri degli ordini mendicanti, ai suoi occhi
agenti del papato). Allo stesso modo, agli inizi del Duecento, i Lombardi,
erano stati spesso accusati di eresia dai papi poiché disobbedienti ai mandata
della Chiesa romana. Spesso, tra gli anni Venti e Cinquanta del secolo
XIII, nel grande scontro che vedeva coinvolti l’Impero e il Papato, l’accusa di
eresia aveva un significato ambiguo e veniva usata come propaganda per colpire
l’avversario, o gli avversari.
Il moto dell’Alleluia
Nel 1233 si ebbe il grande moto cosiddetto dell’Alleluia
che coinvolse una vasta area dell’Italia settentrionale e centrale. Si trattò
di una vera e propria svolta nella lotta contro gli eretici condotta
dall’apparato ecclesiastico che rese possibile un’ampia e dura repressione
contro gli eretici, con numerosi fatti violenti e roghi. Grazie all’azione
decisa di alcuni attivissimi frati Predicatori e Minori e attraverso una vivace
campagna di pacificazione e di moralizzazione, che si svolse in tutte le
principali città italiane, nel giro di alcune settimane fu possibile
suggestionare ampi strati della popolazione e convincere i ceti dirigenti
cittadini della necessità di ricomporre le fratture con le gerarchie di chiesa
e con il papato.
Gli ordini mendicanti condannando duramente il lusso e
invitando a superare discordie e lotte intestine, posero quelle basi morali che
permisero loro di ottenere un largo consenso presso i ceti urbani, che risultò
indispensabile per la lotta contro eretici ed eresie. I predicatori francescani
e domenicani, con la loro capillare presenza e mobilità, riuscirono a tradurre
i contenuti delle loro prediche in norme da inserire negli statuti comunali. La
svolta avvenne con gli statuti di Brescia del 1230, che accolsero molte delle
norme della legislazione antiereticale federiciana e papale, che negli anni
successivi furono presi come modello anche dai comuni di Padova, Verona,
Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara e da altre città dell’Italia
centro-settentrionale.
Nonostante fossero passati che pochi decenni dalla fondazione
delle rispettive formazioni religiose, l’Ordine dei Mendicanti e quello dei
Predicatori, nel moto dell’Alleluia, rivelarono una capacità d’azione davvero
straordinaria, che andò oltre le stesse intenzioni di Gregorio IX. Furono i
protagonisti in assoluto che permisero l’estensione anche nel campo politico
del proprio impegno antieterodosso. Nella loro ampia opera di propaganda e
normalizzatrice fecero un largo impiego di simboli vincenti, come il mito dei
nuovi santi, in particolare Francesco d'Assisi, e di forme di
comunicazione fortemente evocative, in particolare la predicazione basata sugli
exempla (brevi narrazioni con messaggi immediati e diretti).
Gli ordini mendicanti dettero anche un forte impulso alle
confraternite per venire incontro alla domanda di partecipazione dei laici che,
nate per scopi spirituali e religiosi, divennero presto uno strumento del
papato nella lotta contro l’eresia. L’attivismo pastorale dei frati e la
repressione ecclesiastica da essi sollecitata (e, dove possibile, imposta),
ridussero drammaticamente gli spazi per gli eretici nelle città dell’Italia
settentrionale, che, fino ad allora, avevano consentito una certa diffusione
ereticale, non sempre avvertita come tale, per il carattere
pauperistico-evangelico della maggioranza dei gruppi ereticali. A seguito del
moto dell’Alleluia si realizzò l’isolamento istituzionale e sociale degli
eretici, che conobbero una rapida parabola discendente tanto in Italia, quanto
negli altri paesi della cristianità occidentale.
L’inquisizione: la nascita dei
tribunali per la fede
Nella Chiesa delle origini la pena abituale per gli eretici era
la scomunica. Come abbiamo visto, soltanto alla fine del XII secolo e agli
inizi del XIII secolo si cominciò introdurre pene fisiche. In particolare l’ordalia
che, fino alla fine del XII secolo, fu in pratica l’unico vero e proprio
modello di procedura penale nel caso dei sospetti di eresia. Tra le forme più
famose di ordalia ricordiamo il “giudizio del fuoco”, in cui l’eretico
doveva camminare scalzo su carboni ardenti senza riportare ustioni e l’uomo che
riusciva a superare immune la prova non poteva che essere protetto da Dio.
L’istituzione dell’Inquisizione sostituì, invece, il “giudizio di Dio” il
“giudizio dell’uomo” e una prassi giudicante consolidata e strutturata. La
nascita della Sacra Inquisizione si può datare al 1233 quando papa Gregorio IX,
con una bolla, Inquisitio Hereticae Pravitatis, creò l’inquisizione
papale al fine di scoprire, giudicare e condannare i colpevoli di eresia. E
affidò tale compito ai frati Predicatori e ai frati Minori, per la loro
preparazione teologica. L’impulso principale che dette origine alla sua
istituzione va ovviamente ricercato nella vasta diffusione dell’eresia catara
nella Francia meridionale, quando Innocenzo III benedisse la famosa crociata
contro gli Albigesi nel 1208, portata avanti da Simon de Montfort. La Provenza
e Linguadoca furono teatro di roghi collettivi, confische di beni e dure misure
repressive (le fonti storiche narrano che nel sacco a cui fu sottoposta la
città di Beziers, nel 1209, siano state uccise circa 20.000 persone). Alcune
misure inquisitoriali, comunque, le troviamo già nel concilio Laterano III, nel
1179, quando venne condannata ogni forma di devianza eterodossa, misure
ribadite, poi, nel 1184 nella decretale Ad abolendam di Papa Lucio III,
che obbligava i vescovi a visitare due volte l’anno le loro diocesi alla
ricerca, appunto inquisitio, degli eretici. Posizioni ulteriormente
rafforzate e istituzionalizzate nel concilio Laterano IV del 1215.
Ma la vera e definitiva definizione canonica e giuridica dell’Inquisizione
medievale si ebbe nel 1252 quando, all'indomani dell’assassinio
dell’inquisitore Pietro da Verona, Innocenzo IV emanò la famosa decretale Ad
extirpanda. È in questo documento, infatti, che vennero definite
chiaramente le competenze e l’ambito d’azione degli inquisitori, totalmente
svincolati dalle giurisdizioni diocesane e direttamente sottoposti all’autorità
papale, ammettendo, per la prima volta, anche l’uso della tortura nei processi
inquisitoriali. Nel 1254 Innocenzo IV divise l’Italia in 8 province
inquisitoriali, affidando ai Domenicani la Lombardia e Genova, mentre ai
Francescani spettava la gestione della parte centrale della penisola, la
Toscana, Umbria, Romagna, la Marca Trevigiana e Lazio. A partire da questo
momento, nel tentativo di definire una procedura inquisitoriale “standard” che
raccogliesse e definisse organicamente le varie sedimentazioni giuridiche e
canoniche successive, si assiste, soprattutto tra la seconda metà del XIII e la
prima metà del XIV secolo, a una vasta produzione manualistica al servizio
degli inquisitori. Su iniziativa degli inquisitori provenienti dagli ordini
mendicanti, vennero, quindi, definite le categorie di eretici, le sanzioni e le
misure dirette all’isolamento del dissidente religioso di grande dissuasione
sui suoi sostenitori, come la confisca dei beni, la distruzione delle case, e
così via. Questa prassi, codificata nel Liber sextus di Bonifacio VIII e
nei manuali inquisitoriali, durò per secoli.
La nomina degli inquisitori, formalmente di competenza romana,
in realtà veniva fatta dai provinciali, poi la conferma da Roma. Svuotando
quasi completamente l’autorità dei vescovi in materia, già durante il
pontificato di Gregorio IX ma, soprattutto, in quello di Innocenzo IV,
l’inquisizione divenne una struttura repressiva alle dirette dipendenze del
pontefice. Pur cercando di salvaguardare il ruolo del vescovo mantenendo la
giurisdizione vescovile in qualche modo paritetica a quella dell’inquisitore,
come, ad esempio, il gradimento circa i laici chiamati a collaborare con
l’inquisitore, e la consegna degli elenchi degli eretici e delle bolle papali
riguardanti l’eresia, i pontefici si pronunciarono in più di un’occasione per
confermare le prerogative inquisitoriali, emanando una successione di bolle in
cui la limitazione imposta all’azione degli inquisitori da parte dei vescovi si
riduceva sempre più, fino a quando, nella prassi, il ruolo vescovile cadde
sempre più nell’ombra. E non mancarono casi di vescovi sottoposti ad inchiesta
da parte degli inquisitori. Solo agli inizi del Trecento, dopo alcuni casi di
generalizzata malversazione da parte di un gran numero di inquisitori, con
tanto di inchiesta papale, l’inquisizione vescovile conobbe una nuova vitalità
e dignità, quando prima Bonifacio VIII, poi Clemente V, ingiunsero la necessità
di un accordo procedurale tra gli inquisitori e i vescovi, prevedendo un’azione
congiunta e obbligandoli alla conoscenza reciproca dei risultati raggiunti
(venne proibito anche che i vescovi venissero sottoposti a procedimento da
parte dell’inquisitore senza un mandato da parte della Santa Sede).
Con la repressione pressoché definitiva dell’eresia,
l’inquisizione medievale conobbe un lento ma inesorabile periodo di declino che
durò fino al XV secolo, quando venne sostituita prima dall’Inquisizione
Spagnola, creata da Sisto IV nel 1478 su sollecitazione della regina
Isabella di Castiglia e del re Ferdinando d’Aragona, tesa a reprimere gli ebrei
e i musulmani in Spagna, e, successivamente, dall’Inquisizione Romana,
istituita da papa Paolo III nel 1542 con la fondazione della Congregazione
Sacra Romana e Universale Inquisizione o del Santo Uffizio, durante
la Riforma luterana.
La procedura inquisitoriale
Gli inquisitori erano dei giudici che potevano procedere d’ufficio
anche in assenza d’accusa (non a caso il termine inquisizione deriva dal latino
inquisitio, ovvero ricerca). Ogni tribunale era presieduto da due
inquisitori, investiti di pari potere, che agivano distintamente, assistiti da
notai, aiutanti, nunzi e guardie armate (la famiglia inquisitoriale). A
questi va aggiunta una rete di spie e informatori al servizio dell’officio.
Gli inquisitori rendevano conto esclusivamente al papa, ed erano quindi
assolutamente liberi di muoversi nelle diocesi, svincolati com’erano da ogni
giurisdizione. Nel processo l’imputato, tramite giuramento, si impegnava a dire
la verità alla presenza di notai e di una giuria, composta da rappresentanti
del clero e da laici (non sempre, però). Tutte le deposizioni venivano registrate
da notai e le testimonianze a carico dell’inquisito potevano essere invalidate
qualora fosse stato comprovato un pregiudizio di avversione e rancore da parte
degli accusatori. Per ottenere la confessione gli inquisitori ricorrevano a
qualsiasi mezzo come interrogatori ripetuti, carcere duro e, nei casi estremi,
la tortura, eufemisticamente denominata con il termine domanda, con un
uso, però, meno indiscriminato rispetto ai tribunali civili dell’epoca.
Quella dell’inquisitore era una figura tutt’altro che minoritaria,
non solo per l’autorità conferitagli, ma anche per la preparazione culturale e
teologica che doveva possedere. Non sono rari casi di carriere esemplari, come
vescovi e legati papali. L’inquisitore non era solo un teologo, era un uoomo
dotto che aveva una grande dimestichezza con l’ambiente giuridico. Trattava
tanto il Corpus Iuris, sia civile che canonico, quanto le varie
decretali, canoni e concili (soprattutto di quelli Tolosa e di quello Narbonne,
divenuti quasi subito punti di riferimento fissi nella procedura contro gli
eretici). Le sentenze, come i manuali, richiamavano continuamente citazioni
scritturistiche, bolle papali, atti di concili. La presenza dei notai era
indispensabile durante gli interrogatori, per poi stendere i verbali, redatti
secondo formulari precisi, traducendo in latino deposizioni, confessioni e
abiure.
Durante il processo l’inquisitore tentava sempre di far
rientrare il caso specifico, o gli inquisiti, nelle casistiche dottrinali
descritte nei manuali. Agli occhi degli inquisitori, infatti, era più rilevante
stabilire il numero delle persone coinvolte, i luoghi dove si sono svolti i
fatti sospetti di eresia e le relazioni interpersonali rispetto alle idee
eterodosse che stavano giudicando. Più volte i manuali mettono in guardia
l’inquisitore dall’entrare in discussione con i sottoposti a indagine, sia per
evitare il rischio di acuire le convinzioni eterodosse dell’accusato, sia per
impedire che idee pericolose si diffondessero presso chi, fino ad allora, era
stato estraneo. Il fatto che ci fosse un processo e degli inquisiti stava a
significare che l’eresia era già stata identificata e classificata. I manuali
erano anche rigidi nello stabilire i tempi e i modi dell’inchiesta; comunque
l’inquisitore aveva di un’ampia libertà di movimento per comporre le tessere a
sua disposizione e incastrare le varie testimonianze con i capi d’accusa. Gli
elenchi di coloro che erano stati inquisiti per eresia venivano letti
pubblicamente e periodicamente durante le prediche degli inquisitori, che
ricorrevano anche al sostegno delle confraternite, nate nel Duecento, in
particolare dopo il moto dell’Alleluia, come strumenti antiereticali e per
incanalare le forme di pietà laiche.
Terminato il processo veniva emessa una sentenza, previa la consultazione
della giuria e l’approvazione del vescovo di quella diocesi, letta in pubblico
e perciò detta Sermo generalis. Lo scopo principale di un inquisitore
era (o doveva essere) la correzione e il riavvicinamento dell’eretico alla fede
cattolica e farlo rientrare in seno alla Chiesa. In genere si cercava di dare
al “reo” la possibilità di emendarsi, e, a questo scopo, gli inquisitori
tendevano a comminare penitenze come pellegrinaggi, multe, la pubblica
fustigazione e la crocesignatura. Nel caso di sanzioni economiche, il ricavato
doveva essere diviso in tre parti: una per l’inquisitore e i suoi famigli, una
per la corte papale, una per il comune che forniva la collaborazione necessaria
all’inquisitore, per custodire gli inquisiti, e, eventualmente, la legna per il
rogo. Nei casi più gravi si poteva arrivare alla confisca dei beni, alla
consegna al braccio secolare, cioè al rogo, o al “muro”, il
carcere perpetuo.
Ovviamente durante il processo non era prevista alcuna forma di
difesa da parte dell’accusato, né alcuna possibilità di ricorrere in appello.
Ma è anche vero che la procedura inquisitoriale prevedeva delle commissioni di
giuristi, per lo più laici, i “consilia sapientum”, che coadiuvavano
l’inquisitore durante il processo. Nonostante il loro parere non fosse
vincolante, non sono rari i casi di pareri divergenti e in aperto
contrasto tra questi consiglieri e l’inquisitore. E a onor del vero, sebbene
sia opinione comune il contrario, va comunque detto che solo una piccola
percentuale dei processi si concludeva con la condanna al rogo, riservata agli
eretici pertinaci e ai relapsi, coloro, cioè, che erano già stati
giudicati colpevoli di eresia in passato, ed essendo tornati ai loro errori,
ritenuti non degni di fiducia (questo valeva anche per le ossa dei defunti in
caso di processo postumo). Non mancarono, ovviamente, gli abusi e gli atti di
crudeltà. Famosi sono i roghi di 250 catari a Montsegur, nella Linguadoca, e di
quasi altri 200 catari nell’arena di Verona nel 1278, catturati a Sirmione, come
l’impiccagione e il rogo di 100 valdesi a Graz in Austria nel 1397.
Il fine ultimo dell’Inquisizione
Lo scopo per cui venne creata l’inquisizione fu, chiaramente,
quello di individuare ed estirpare l’eresia, intervenendo sia sull’individuo
che su gruppi di persone. L’azione giudicante e penale dell’inquisitore si
muoveva su due piani: il recupero, quindi il convincimento personale,
dell’eretico e la manifestazione pubblica del suo pentimento, o abiura, oppure
della sua condanna. Praticamente senza eccezioni, il processo veniva sempre
innescato dall’esterno, da una denuncia o da voci giunte all’inquisitore. La
sua azione coinvolgeva persone cadute in qualche modo nel sospetto e non era di
suo interesse approfondire le posizioni dottrinali degli inquisiti, ma
accertare comportamenti indice di una eresia, come la frequentazione con
eretici e rapporti, conversazioni, colloqui e contiguità con persone, in altre
sedi, già giudicate eretiche. Per questo motivo gli atti dei processi si
assomigliano tutti e finiscono con il ridursi ad un elenco di persone, sospette
o manifestamente eretiche, con le quali l'inquisito ha avuto rapporti.
Lo scopo dell’attività inquisitoriale era esclusivamente di
accertamento e di repressione, non quello di convincere l’eretico a cambiare
opinione. All'inquisitore non interessava discutere con l'accusato di eresia
riguardo i problemi di fede, ma sapere dall’eretico che stava inquisendo la sua
decisione di conformarsi o meno ai mandata ecclesiae, e rinunciare al
suo passato. Non era il suo compito stabilire cosa fosse eresia: altri lo
avevano già fatto prima di lui e per lui. Piuttosto il suo scopo era quello di
incasellare il comportamento dei sospetti nelle griglie già disegnate. Tutti i
manuali inquisitoriali mettono in guardia il giudice dall’entrare in dialogo
con gli eretici sulla loro dottrina. Discutere era un errore perché l’eresia
era male e basta e non poteva avere dimora. Ma se il cardine del processo era
l’azione repressiva, dobbiamo ridimensionare l’idea generalizzata di torture e
roghi che la storiografia ci ha lasciato. Infatti, rilevanti non furono tanto
le pene corporali inflitte ai condannati, quanto piuttosto le sanzioni
economiche comminate e la confisca dei beni, che colpivano anche i parenti e
gli eredi. In questo modo non solo gli eretici si ritrovavano privati delle
loro possibilità economiche, ma venivano infamati e socialmente isolati.
L’oggetto della repressione, l’ex-eretico redento, doveva
divenire un esempio di fede cattolica, frequentando assiduamente le
celebrazioni liturgiche, giurando un’obbedienza cieca al papa e alla Chiesa di
Roma e, soprattutto, promettere una collaborazione totale per la denuncia
d’ogni persona sospetta d’eresia. Per questo motivo si spiegano i numerosi
passaggi di “pentiti” da movimenti ereticali all’altra parte: inquisitori che
erano stati eretici, membri della famiglia inquisitoriale e informatori (un
esempio su tutti è quello del domenicano Raniero Sacconi che, nel 1250,
dichiarò apertamente, nel suo scritto antieterodosso, di essere stato “un tempo
eresiarca” prima di divenire un frate predicatore). L’inquisizione attraverso
umilianti autodafè e penitenze, che prima di tutto avevano un fine
persuasivo prima che punitivo, pretendeva un’adesione pubblica degli eretici al
conformismo religioso, obbligandoli a riconoscere apertamente e davanti alla
collettività il loro errore, sempre attraverso una ritualità solenne e
toccante. Anche la pena rientrava in quest’ottica esemplare, come, ad esempio,
la crocesignatura, l’applicazione, cioè, di una croce, di solito di colore
giallo, sul mantello, oppure l’obbligo di sostare, in veste di penitente, alle
porte della chiese nelle festività solenni. In questo modo, l’eretico, per
mezzo delle penitenze alle quali era costretto, non solo faceva il suo ritorno
nel “gregge del Signore”, ma diventava addirittura un modello di perfezione
cristiana attraverso il pentimento, sacrificio e la mortificazione di sé.
L’inquisizione come instrumentum
regni
L’Inquisizione, nata per combattere il catarismo, mantenne la
sua logica repressiva anche nei secoli successivi nelle persecuzioni contro
ebrei, moriscos, streghe, dissidenti e liberi pensatori. La vera e
uniformante motivazione di fondo che ha accompagnato questa istituzione era il
rifiuto della differenza, o in altre parole, della coscienza libera e
individuale. Non poteva essere altrimenti in secoli in cui la religiosità non
era esclusiva della spiritualità dell’individuo, ma sociale e quindi
apparteneva alla collettività. La fede e le modalità con cui il singolo
interpretava la propria religiosità, nella logica medievale aveva una rilevanza
pubblica: per colpe del singole poteva venire macchiata l’intera comunità. La
diversità nella fede, nelle opinioni, nei costumi e nella morale, veniva vista
come un potenziale pericolo in grado di dissolvere la struttura sociale. Solo
così si può interpretare il sorgere dell’Inquisizione e la portata, oltre alla
durata, della sua azione.
Sono secoli estranei al concetto di tolleranza e di rispetto di
libertà degli individui. Per questo a partire dal XIV secolo il potere civile e
l’inquisizione andarono sempre più a braccetto; al potere politico apparve
chiaro che questo strumento di pressione e di repressione delle coscienze
garantiva anche il controllo del dissenso politico e sociale (casi eclatanti
furono il processo ai Templari e quello a Giovanna d'Arco). Questa complicità in molti
casi si tradusse addirittura in un rapporto di subordinazione dell’inquisizione
rispetto al potere politico. Questo fu il caso della Spagna, in cui il potere
monarchico trovò proprio nell’Inquisizione un’eccezionale strumento di
controllo e di pressione di tipo “poliziesco” sui sudditi.
Per l’Inquisizione ciò che veramente contava, al di là dei mezzi
di cui disponeva, era dimostrare che ci fosse e che fosse ben visibile il
potere della Chiesa, ponendo gli individui in uno stato di piena sottomissione
alla sua autorità morale e religiosa. La presenza del tribunale contava più
della sua effettiva capacità operativa. Nella logica inquisitoriale era
fondamentale dimostrare che chiunque poteva correre il rischio di venire posto
a processo. Per fare questo erano sufficienti poche esecuzioni pubbliche e
letture di sentenze dotate di una scenografia ben studiata e impressionante.
Secondo questa prospettiva l’Inquisizione aveva bisogno di eretici
perché era la loro persecuzione a consentire un controllo pressoché totale
delle coscienze: spesso se non li trovava li creava. Quando scomparve l’eresia
ecco che gli inquisitori cominciarono a identificare nuove forme di devianza
che come possibili segni di eresia, come, ad esempio, costumi sessuali
canonicamente non accettati, la bestemmia, usi alimentari che violano le
prescrizioni ecclesiali (ad esempio il consumo di carne in particolari momenti
dell’anno liturgico), il sostenere tesi non solo teologicamente eterodosse ma
anche di tipo filosofico-scientifico (pensiamo al processo a Galileo Galilei),
oppure il leggere libri sospetti o condannati dalla Chiesa.
Accettando che ogni comportamento passibile di convinzioni o
credenze eretiche giustifichi la possibilità di essere sottoposto a un
procedimento inquisitoriale, ogni azione o gesto può essere perseguito. Il peccato,
anche veniale, cessa di essere tale e si trasforma in una convinzione eretica.
L’esplosione della caccia alle streghe, fra il XV e il XVII secolo, si spiega
in gran parte proprio in conseguenza di questa logica: in questo caso
l’Inquisizione, adottando come modello di devianza tradizioni popolari, riuscì
ad alimentare il sistema persecutorio e, a giustificare il proprio ruolo. Come
istituzione l’Inquisizione non poteva essere inattiva poiché la sua esistenza
dipendeva dalla sua capacità di identificare sempre nuovi potenziali avversari
(un po’ come nei moderni totalitarismi, fascismo e comunismo, in cui si creano nemici
potenzialmente pericolosi proprio per giustificare la macchina repressiva dello
Stato e la sua paranoia). Sradicata l’eresia alla fine del XIV secolo,
l’Inquisizione la faceva nascere dove non c’era in forme nuove e mutevoli.
Questo era favorito anche dal fatto che il metodo inquisitoriale
era basato sul sospetto e partiva dalla presunzione di colpevolezza
dell’accusato: chi veniva inquisito doveva dimostrare la propria innocenza, non
viceversa, aggravato dal fatto che nella stragrande maggioranza dei casi si
trattava di persone di origine umile, spesso popolani e contadini, che
difficilmente potevano controbattere efficacemente alle sottili domande dei
giudici. Essendo un processo che aveva il suo fondamento sul sospetto, chiunque
poteva rimanere impigliato nella rete inquisitoriale. Anche per la natura
dell’oggetto del giudizio: l’anima dell’indagato, le sue opinioni, idee
e credenze. E nessuno poteva dirsi immune.
©2005 Andrea Moneti
? IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE
IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE
Fino alla seconda metà del XII secolo l'eresia non era considerata un problema
assillante della pastorale. Per le singole eresie presenti nell'ambiente
intellettuale del convento e della scuola bastavano i meccanismi di repressione
già esistenti. La concentrazione delle eresie popolari, soprattutto nella
Francia meridionale, ed il loro irradiarsi in ampie parti dell'Europa portò,
dalla seconda metà del XII secolo, sotto la guida del papa, ad unificare e a
rendere più rigorosa la legislazione sugli eretici; venne così creata l'inquisizione
come nuova misura di difesa della Chiesa Cattolica. Il vescovo, quale giudice
della fede, nominava dunque degli inquisitori, che dovevano mettersi sulla
traccia delle eresie e portare i seguaci di queste davanti al tribunale
vescovile.
Sembra tuttavia che non si sia giunti a una caccia sistematica degli eretici da
parte degli inquisitori vescovili. Inoltre, soprattutto i vescovi della Francia
meridionale facevano difronte ai loro compiti con negligenza. In un primo
momento l'inasprimento della legislazione, unito alla nuova procedura, conseguì
scarso successo. Proprio per questo motivo Innocenzo III ricorse al mezzo della
crociata contro gli eretici. Dal 1231 Papa Gregorio IX, visti gli insuccessi
della crociata, nominò degli inquisitori dotati di ampi poteri per singole
provincie ecclesiastiche contagiate dall'eresia. Questi agivano per incarico
del papa e possedevano funzioni non solo inquisitorie, ma anche giudiziali,
risultando così al tempo stesso accusatori e giudici. In forza della competenza
giurisdizionale universale del papa, Gregorio IX attribuì agli inquisitori che
il potere di emettere sentenze.
Clamorose infrazioni del diritto, trasgressioni di competenze e durissima
prassi inquisitoria nelle indagini come nel giudizio sugli eretici condussero
fra il 1238 e il
Dopo la riorganizzazione, sotto Innocenzo IV, furono posti dei limiti anche
all'arbitrio e alla prassi terrorizzante dei singoli inquisitori. La procedura
era formalmente corretta, in rapporto alla prassi giurisdizionale e
procedurale, tuttavia il tribunale, che agiva a porte chiuse, era
incontrollabile e privava gli accusati di qualsiasi diritto. Di regola
all'inquisitore, in quanto giudice, interessava veder confermati nel processo i
propri accertamenti: all'imputato la confessione veniva estorta per mezzo di
tortura. Per la loro qualità i processi dell'Inquisizione erano, per così dire,
processi-spettacolo, in cui la sentenza era stabilita a priori, perchè la
procedura era congegnata in modo da condurre regolarmente alla condanna
l'accusato.
I giudici erano prigionieri del loro procedimento e convinti della regolarità
del loro operato e della compiacenza divina per la loro funzione. All'inizio
l'Inquisizione era pensata come una misura d'emergenza a termine e per
determinate zone. Alcuni paesi, come l'Inghilterra non avevano affatto
l'inquisizione papale. In altri essa rimase invece un fatto transitorio.
In Francia, Italia e Spagna, invece già nel XIII secolo ne nacquero istituzioni
permanenti per un distretto giurisdizionale circoscritto. Alla guida di questi
uffici con sede, personale e archivio propri, i papi nominarono
prevalentemente, secondo la prassi di Gregorio IX, religiosi degli ordini
mendicanti. Nella fase organizzativa, con Gregorio IX, per questo ruolo vennero
dapprima incaricati i domenicani dotati di una preparazione scientificamente
approfondita.
Oltre a questi naturalmente vi erano anche inquisitori provenienti dai
sacerdoti secolari e da altri ordini. Ad esempio, non pochi francescani erano
attivi inquisitori. Sia domenicani sia francescani fecero ben presto del loro
incarico una finalità dell'ordine e videro nei loro fondatori i primi
inquisitori. Eresia significava semplicemente delitto meritevole di punizione e
non più bisognoso di predicazione mirante alla conversione.
IL CODICE INQUISITORIO
Il codice inquisitorio deriva dall'editto imperiale di Teodosio e fu utilizzato
dai tribunali speciali istituiti da Gregorio IX. Il semplice sospetto di eresia
autorizzava gl'inquisitori a confiscare i beni dell'accusato e a procedere con
torture per ottenere confessioni, a torture peggiori per avere ritrattazioni e
a una diminuzione della pena per chi denunciava eventuali complici o avvalorava
questa o quella tesi. Ad essere perseguiti come eretici erano in
prevalenza gli uomini: liberi pensatori che criticavano o non si assoggettavano
ai dettami della Chiesa Cattolica (filosofi, scienziati, alchimisti) ma anche
omosessuali, storpi e chiunque rientrava fra i cosiddetti "segnati da
Dio". Per le donne, invece, l'accusa era spesso quella di stregoneria.
Il prendersi cura di uno o più gatti neri, ammaliare un uomo o avere
comportamenti atipici era motivo sufficente per accendere un rogo.
Questi i sintomi medici su cui si basavano i giudici dell'inquisizione per
stabilire il crimine di stregoneria:
-malattia che i medici non conoscono;
-malattia che aumenta nonostante le cure;
-sintomi e dolori violenti;
-sintomi variabili che il paziente non riesce a localizzare;
-sospiri tristi e pietosi senza legittima causa;
-perdita di appetito e vomito della carne mangiata;
-spasmi acuti al petto e sensazione di calore;
-impotenza sessuale;
-sudore anche leggero quando fa freddo;
-sensazione di membra legate;
-sensazione malinconica, sguardo storto, visione di fantasmi;
-sudore dopo l'unzione del prete sugli occhi;
IL LIBRO NERO
1278
200 catari e valdesi sono arsi vivi nell'arena di Verona per ordine
dell'inquisizione.
1370
20 ebrei sono arsi vivi dai cattolici a Bruxelles.
1377
2500 abitanti di Cesena sono massacrati dai mercenari pontifici in quanto
ribelli antipapali.
1391
4000 ebrei sono massacrati dai cattolici a Siviglia in Spagna.
1397
100 valdesi di Graz in Austria sono impiccati e bruciati per ordine
dell'inquisizione.
1405
12 cittadini romani sono massacrati da mercenari pontifici guidati dal nipote
di Innocenzo VII.
1415
Il predicatore e teologo boemo Jan Hus, viene bruciato a Praga per aver
criticato il commercio delle indulgenze.
1416
300 donne accusate di stregoneria sono arse nel comasco per ordine
dell'inquisizione.
1485
49 persone sono giustiziate per ordine dell'inquisizione a Guadalupe in Spagna.
1485
41 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Bormio per ordine
dell'inquisizione.
1486
31 ebrei sono giustiziati a Belalcazar in Spagna per ordine dell'inquisizione.
1483/1498
L'inquisitore spagnolo Tomas de Torquemada condanna personalmente 10220
sospettati di eresia.
1505
14 donne accusate di stregoneria sono ammazzate a Cavalese su ordine del
vicario del vescovo di Trento.
1507
30 persone accusate di stregoneria sono bruciate a Logrono in Spagna per ordine
dell'inquisizione.
1513
15 cittadini romani sono massacrati dalle guardie svizzere del papa.
1514
30 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Bormio per ordine
dell'inquisizione.
1518
80 donne accusate di stregoneria sono bruciate an Valcamonica per ordine
dell'inquisizione.
1538
Il professore universitario B. Hubmaier viene condannato al rogo.
1545
2740 valdesi sono massacrati dai cattolici in Provenza.
1559
15 protestanti sono arsi vivi a Valladolid in Spagna su ordine dell'inquisizione.
1559
14 protestanti sono arsi vivi a Siviglia in Spagna su ordine dell'inquisizione.
1561
2000 valdesi sono massacrati dai cattolici in Calabria.
1562
300 persone accusate di stregoneria sono arse vive a Oppenau in Germania.
1562
63 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Wiesensteig in Germania su
ordine dell'inquisizione.
1562
54 persone accusate si stregoneria sono bruciate a Obermachtal in Germania su
ordine dell'inquisizione.
1567
17000 protestanti delle Fiandre sono massacrati dagli spagnoli.
1573
5000 servi della gleba croati in rivolta sono massacrati per ordine del vescovo
cattolico Jurai Draskovic.
1580
222 ebrei sono condannati al rogo per ordine dell'inquisizione in Portogallo.
1600
il filosofo Giordano Bruno viene bruciato vivo a Roma.
1655
1712 valdesi sono massacrati dai cattolici.
1680
20 ebrei sono condannati al rogo a Madrid per ordine dell'inquisizione.
1686
2000 valdesi sono massacrati dai cattolici penetrati nelle loro valli per
sterminarli.
1691
37 ebrei sono bruciati a Maiorca in Spagna per ordine dell'inquisizione.
1697
24 protestanti sono giustiziati dai cattolici a Presov in Slovacchia.
1680
20 ebrei sono condannati al rogo a Madrid per ordine dell'inquisizione.
1691
37 ebrei sono bruciati a Maiorca in Spagna per ordine dell'inquisizione.
|
Agli inizi del 1200, il Meridione d'Italia si presentava
ancora con il suo consueto volto di crogiuolo di civiltà etniche,
linguistiche e religiose, costituendo un'autentica regione di frontiera
mediterranea. Incluso definitivamente nel mondo occidentale dalla conquista
normanna, esso aveva subito posto il problema della gestione del pluralismo
ad una Chiesa latina postgregoriana lanciata nella direzione opposta
dell'uniformità e dell'accentramento. La situazione delle regioni più
meridionali, infatti, richiedeva un approccio più moderato sia alla Chiesa
che al nuovo potere statuale latino: non si trattava di eliminare una
minoranza religiosa, ma più realisticamente far sì che la maggioranza non
latina di Greci, Arabi ed Ebrei diventasse minoranza. La moderazione era
inoltre favorita dal fatto che i non conformismi avevano una spiccata
caratterizzazione etnica, privi di motivazioni proselitistiche. Questa
impostazione, che riponeva fra gli ideali irrealizzabili a breve scadenza
l'eliminazione della diversità, non rifuggiva al tempo stesso dall'agire con
gradualità per affrettarne l'avvento con il ridimensionamento e l'indebolimento
delle comunità "concorrenti". Essa sarebbe stata trasmessa al
secolo successivo, soprattutto per quello che riguardava la comunità
italo-greca, diffusa principalmente rimanevano incorreggibilmente attaccati alla loro superba
libertas Errore.
Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.. Il greco,
infatti, era per antonomasia "scismatico", creava cioè per prima
cosa un puro problema di potere, con la non sottomissione e con la
rivendicazione di una pluralità di centri decisionali e di una collegialità
all'interno della Chiesa. Al tempo stesso, egli era fautore di "errori"
contro i quali i teologi occidentali avevano scritto fin dall'epoca
carolingia Errore.
Riferimento a collegamento ipertestuale non valido., definiti
però da Roma ufficialmente eresie solamente nel secolo XIV. I
superstiti vescovi italo-greci, quindi, dovettero accettare formalmente nel
1089, al concilio di Melfi, il potere papale in se stesso ed il suo reale
esercizio sulle loro comunità, punto che aveva la precedenza assoluta nella
strategia romana: Ea enim, quae inter Latinos et Graecos fidei vel
consuetudinum (diversitatem) faciunt, non videtur aliter posse sedari, nisi
prius |
capiti membra cohaerent Errore.
Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.. La seconda
condizione, implicita ma ugualmente fondamentale, fu la rinuncia a rivendicare
l'acribia della propria tradizione teologica e liturgica in cambio della
sua tolleranza. Terza condizione fu la cessazione di ogni contatto con la
Chiesa e l'impero bizantini. Sottomissione, umiltà, isolamento: queste erano le
virtù che rendevano accetta la comunità italo-greca al potere ecclesiastico
latino; ma questa accettazione si basava su di un equilibrismo teorico, il
concetto di rito. In definitiva, la tolleranza derivava dalla riduzione a
forma, oggi diremmo sovrastruttura culturale, della diversità stessa, soluzione
che aveva per illustre antecedente il comportamento di S. Ambrogio: Quando
vengo a Roma digiuno, quando sono qui non digiuno [4].
Si negava che una forma diversa fosse la manifestazione necessaria di una
sostanza, cioè di una fede, diversa. L'identità di fede e la natura
apparente ed esteriore della differenza rituale vennero sottolineate al massimo
grado dal fatto che la maggior parte del clero greco doveva ricevere
l'ordinazione da superiori gerarchici di "rito latino" [5].
Come avrebbero potuto i chierici greci contestare la fede della Chiesa latina
senza mettere a repentaglio la propria legittimità sacerdotale e sacramentale?
Ma l'interpretazione formalistica del rito, necessaria ad autorizzare il
mantenimento dell'identità di chi si sottometteva a Roma, non fu mai
sinceramente accettata: anche quando si affermava che: Haec autem regina, id
est ecclesia, varietate diversarum consuetudinum ... [6],
si sottolineava la necessità di scrutinare le forme non romane prima
dell'ammissione. La stessa ambiguità si ritrova nelle particolareggiate
risposte di Innocenzo IV, che riconfermavano il formalismo sostenendo la natura
non sostanziale delle differenze rituali "superstiti": i fedeli del
rito greco non dovevano essere inquietati o molestati nelle loro usanze che non
contrastavano la fede cattolica, ma ve n'erano delle altre che dovevano essere
modificate, ed altre ancora che avrebbero dovuto esserlo, ma che purtroppo
dovevano essere tollerate per non creare scandalo. [7]
Del resto, anche un'ammissione integrale della tradizione greca avrebbe
ugualmente negato l'essenza stessa di Tradizione autoritativa e vincolante, giudice
del magistero ecclesiastico, quale avevano gli Orientali [7a].
Mantenuto sempre "sub iudice", il rito greco sembrò superare
ufficialmente gli esami nel concilio unionista fiorentino del 1439, ma ben
presto tale "promozione" venne considerata voce dal sen fuggita
[8]Il pluralismo non poteva essere adottato apertamente da
una élite ecclesiastica che usava il terrore per conservare il suo dominio
assoluto sulla società cristiana medievale ed aveva sradicato senza esitazione
i ben più compatibili riti latini della Spagna e dell'Italia meridionale: il
mozarabico ed il beneventano. Non era però solamente una questione di potere:
un autore tra i più letti ed ammirati dell'Occidente, Gioacchino da Fiore, ci
fa capire da una parte che la resistenza degli ortodossi alla monarchia papale
veniva percepita come un ostacolo alla realizzazione escatologica dell'unità cristiana
e quindi dell'umanità intera, mentre gli usi greci del sabato senza digiuno,
del pane eucaristico fermentato e, sicuramente, del clero sposato, da lui
definiti ed attaccati come giudaici e carnali, offendevano la religiosità
spiritualistica affermatasi tra i Latini. Per il "profeta"
cistercense la separazione dalla Chiesa romana privava della Grazia e gli usi
ad essa contrari erano superstiziosi e fondati su autorità apocrife [9].
Avendo tali motivazioni così prestigiosamente legittimate, chi sceglieva
l'opzione dell'intolleranza non solo faceva ripetere di continuo gli
"esami" ai Greci, ma aveva la possibilità dell'affermazione inversa
dell'acribia rituale latina e quindi del tentativo di sopprimere il rito
altrui, riconoscendo in esso la credenza erronea. Il caso più eclatante avvenne
nel 1231, quando il papa Gregorio IX arrivò drammaticamente a decretare nullo
il battesimo amministrato con la forma passiva del rito bizantino: Si
battezza il servo di Dio ..., pretendendo che i Greci fossero ribattezzati,
negando addirittura nei fatti la realtà della loro iniziazione cristiana. In
seguito, il papa sospese il provvedimento, concedendo una patente di
tolleranza, ma non di legittimità, alla prassi greca, non senza ironica
condiscendenza verso l'imperizia degli Italo-greci che si opponevano
strenuamente all'imposizione della formula romana [10].
La guerra teologica, dunque, poteva continuare su di un altro e forse più
efficace piano, con l'accusa ai riti greci di essere forme irrazionali difese
da ignoranti, cercando di far introiettare agli antagonisti di Roma un
sentimento d'inferiorità culturale, sociale e religioso. La politica del doppio
binario nei confronti della diversità rituale non è, del resto, un fenomeno
esclusivo del lontano passato, ma essa si presenta ben riconoscibile ancora ai
giorni nostri: la possibilità disciplinare di un clero uxorato prevista dal
Codice di Diritto canonico orientale per le Chiese unite a Roma come
perfettamente legittima e tradizionale [11],
viene, al contrario, dichiarata da teologi e storici cattolici di punta, come
il cardinale Stickler e i pp. Cochini e Cholij, una violazione della tradizione
apostolica [12].
Mantenersi in equilibrio nel compromesso sul "rito"
riusciva specularmente difficile anche agli Italo-greci: quando il polemista
Nicola di Casole nei supplementi ai suoi Syntagmata antilatini apriva
uno spiraglio all'idea di tradizione religiosa come forma e quindi di legittima
e compatibile pluralità di culture, dicendo: non è necessario scrivere sulle
altre consuetudini, poiché non riguardano la fede allo stesso modo [13],
appena entrato nel merito subito si contraddiceva, sostenendo la superiorità
della tradizione greca, non certo per formali o strumentali qualità estetiche o
didattiche, ma in base alla sua verità dottrinale. Allo stesso modo, un altro
teologo italo-greco del XIII secolo, Nicola di Taranto, nella sua difesa dei
riti greci del matrimonio e del mattutino pasquale, passava immediatamente
dalla difesa della legittimità dell'uso greco alla necessità di quella stessa
forma, che diventava ortoprassi [14].
Una situazione così ambivalente poteva generare anche il perseguimento dei
Greci per eresia. Le fonti ci tramandano almeno due casi di processo con questa
motivazione nel secolo XII: Luca d'Isola, vescovo ufficioso dei greci
della zona dello Stretto che, trascinato in una disputa sull'uso del pane
lievitato nell'eucarestia, aveva affermato che l'uso del pane azimo era solo
una delle tante eresie dei Latini[15].
Negazione clamorosa dell'interpretazione formalistica! Condannato ad essere
bruciato vivo, secondo la vita fu risparmiato miracolosamente dalle
fiamme. Il secondo caso riguarda il fondatore dei monasteri greci del Patirion
di Rossano e del Ss. Salvatore di Messina, Bartolomeo di Simeri. Al ritorno da
un viaggio nell'Impero bizantino effettuato allo scopo di procurarsi libri, e
dove era stato accolto coi più grandi onori dallo stesso imperatore Alessio
Comneno, fu accusato da due altri monaci di falsità, corruzione e di eresia,
presso la corte normanna. Sottoposto a giudizio, anch'egli fu assolto in
conseguenza di un miracolo, ma quell'episodio fu un pesante avvertimento verso
gli Italo-greci: chi voleva mantenere contatti con l'Oriente lo faceva a suo
rischio e pericolo, nel sospetto di una duplice infidelitas, cioè di
lealtà all'impero bizantino ed alla sua Chiesa [16]
Tale era la complessa posizione della Chiesa latina verso gli Italo-greci,
quando nel 1266, con ritardo rispetto al resto d'Italia dove lavorava già a
pieno regime, comparve nel Meridione l'inquisizione affidata agli Ordini
mendicanti. Essa non vi aveva potuto operare nel periodo precedente a causa
dell'ostilità della dinastia sveva. Federico II, infatti, aveva affidato ad una
struttura inquisitoriale composta di suoi funzionari, organizzata seguendo la
divisione amministrativa per giustizierati, il compito di perseguire gli
eretici all'interno del Regnum Siciliae [17].
L'eresia contro cui l'imperatore lottava era chiaramente il patarinismo di
origine settentrionale, da lui visto come il fumo degli occhi, per essere
fomite e contagio delle aspirazioni autonomistiche cittadine. Fu dunque la
conquista angioina del Sud che concesse all'apparato ecclesiastico nel
Meridione quel pieno sostegno politico necessario ad un'attività repressiva che
comportasse anche l'eliminazione fisica dei non conformisti. La
spedizione militare del 1266 era stata concepita dal papa Clemente IV come una
vera e propria crociata cismarinacontro i "cattivi" cristiani [18],
e i proclami papali che l'avevano preceduta parlavano di Saraceni e di
scismatici che nel Regno di Sicilia ottenevano precedenza sui cattolici [19].
Le truppe angioine vittoriose erano accompagnate dal legato papale Rodolfo,
cardinale vescovo di Albano, che aveva alle sue dipendenze frati domenicani e
francescani. Nell'ottobre del 1268, dopo la vittoria nella "crociata"
seguente, quella contro Corradino, Carlo d'Angiò decise di sostituire
l'inquisizione federiciana con quella ecclesiastica col mandato ed il
beneplacito dalla Santa Sede e col pieno coinvolgimento del Provinciale romano
dell'Ordine domenicano[20]. Egli, allo scopo di combattere i
sospetti d'eresia, nominò quattro inquisitori domenicani in tutto il suo Regno,
uno per quattro parti in cui a questo scopo veniva suddiviso il territorio [21].
Nelle due circoscrizioni più settentrionali, l'Abruzzo e la Terra di lavoro
l'obiettivo dichiarato degli inquisitori domenicani fu la cattura dei
"patarini"; in quelle più meridionali, la Puglia e la Sicilia con la
Calabria, terre dove viveva la minoranza degli Italo-greci, si ripropose anche
il tema della "fidelitas", intesa come fusione dei due concetti di
fedeltà politica e di fedeltà religiosa. Proprio dalla comunità greca, infatti,
era venuto il più grosso esempio di infidelitas prima della rivolta dei
Vespri. La città di Gallipoli, roccaforte del grecismo e del ghibellinismo (il
palazzo del vescovo greco aveva sulla facciata proprio le insegne degli svevi:
i leoni e l'aquila), aveva preso le parti di Corradino e fu spietatamente
punita da Carlo d'Angiò. L'abitato fu devastato dopo un lungo assedio; al suo interno
la cattedrale fu saccheggiata dai soldati ed anche, secondo il poeta
italo-greco Giorgio di Gallipoli, da ecclesiastici latini: "ministri di
abominevoli sacrifici e veramente sacerdoti della vergogna." [22]
Non sappiamo se l'inquisitore domenicano della Puglia, Simone di
Benevento, fosse stato a fianco della Chiesa militante vittoriosa, come si può
ragionevolmente ipotizzare, ma in ogni caso non avrebbe senso parlare di una sua
responsabilità per la mancanza di pietà verso i colpiti da una
"fatwa" crociata. Sicuramente il problema della fedeltà greca agli
Angiò, campioni del papato, fu centrale nei pochi anni dal 1269 al 1274, anno
dell'unione delle due Chiese ratificata a Lione, tenuto conto che i re angioini
intendevano anche restaurare l'Impero latino d'Oriente, caduto nel 1261. Di
questo periodo le scarse fonti ci tramandano notizia di ispezioni alle
istituzioni monastiche greche. [23]
Questo compito ispettivo trovava i Domenicani preparati: gli Ordini mendicanti,
infatti, avevano acquisito gli strumenti teologici necessari per confrontarsi
con le tesi degli Orientali, grazie alla loro presenza nell'Impero latino
d'Oriente. Uno sconosciuto frate domenicano del convento di Pera, colonia
genovese sulla riva orientale del Corno d'oro Errore.
Riferimento a collegamento ipertestuale non valido., aveva
scritto nel 1252 un Contra Graecos, che ebbe grande diffusione ed
influenzò sia l'opera del francescano Nicola, vescovo di Cotrone, autore
qualche anno dopo di un Liber de fide Trinitatis, sia Tommaso d'Aquino,
che compose il suo Contra errores Graecorum. Le opere di Tommaso e di
Nicola di Cotrone avevano molto in comune: l'impostazione rigorosamente
teologica dava importanza solo a quattro elementi dottrinali che dividevano ai
loro occhi i Greci dai Latini: oltre alla processione dello Spirito santo, gli
altri punti dogmatici erano il primato papale e il purgatorio. Attraverso
l'ultimo punto, quello degli azimi, essi esprimevano la loro opinione sul tema
delle "consuetudini": infatti, costretti a trattarne dai loro
avversari greci, che arrivavano a negare la transustanziazione del pane latino
e consideravano, quindi, la disciplina eucaristica un problema teologico, i
teologi degli Ordini mendicanti affermavano invece che gli azimi erano una
controversia sulle forme, di cui si ammetteva il pluralismo. L'impostazione
data da questi teologi fu talmente importante da fornire il modello alla
dichiarazione d'unione del Concilio di Firenze, che ugualmente riportava gli
stessi quattro punti dei domenicani e di Nicola di Cotrone come le uniche
differenze da superare tra le due Chiese [24].
La lunga lista di malae consuetudines greche per niente dottrinali,
inserita nel testo del domenicano di Pera, era stata redatta nel XII secolo da
Leone Toscano, interprete latino a Costantinopoli; essa aveva solamente
funzione di replica ad un analogo elenco greco. L'autore domenicano provava un
moto d'insofferenza per quel materiale, che la sua formazione riteneva privo di
dignità teologica ovvero stultae curiositates.[25]
Non è un caso, allora, che l'unico esempio di attività inquisitoriale
domenicana diretta proprio contro un aderente alla Chiesa greca, pronta ad
applicare le misure più estreme contro i dissenzienti, non abbia niente a che
fare con le "consuetudini", ma sia nettamente e teologicamente
motivato. Esso è riportato unicamente dal codice Vat. gr. 316 e
precisamente nell'ultima sua pagina, il foglio 167v.
Questa parte riprende il testo di
http://www.ktistes.altervista.org/calabrese.html
La vicenda dimostrava che nel Meridione angioino per chi rifiutava la
sottomissione non c'era posto: o il martirio o la fuga, la quale era pur sempre
un successo ed un obiettivo della repressione [30].
Qualche anno dopo, nel 1272-1273, al maestro dei Domenicani Umberto di Romans
gli Italo-greci apparivano completamente sottomessi alla Chiesa di Roma per la
loro "fidelitas" al potere dei governanti latini, ed egli indicava
nel fattore politico la principale causa della divisione fra le due Chiese: Sexta
et maxima est dissensio de imperio, quod ecclesia vult haberi et teneri
a Latinis, ipsi vero a suis. Nam Graeci, qui sunt in potestate Latinorum, sicut
patet in Calabria, oboediunt Romanae ecclesiae. Veniva a cadere,
quindi, per il massimo esponente dei Predicatori ogni motivo di inquisizione
sulla fede [31]. Dopo la fine dell'unione di Lione nel
1283, il controllo degli Italo-greci fu l'oggetto del sinodo di Melfi del
1284. Anch'esso continuò la linea di tolleranza delle "consuetudines"
greche, ma si pose l'obiettivo "teologico" di obbligare i Greci ad
inserire il Filioque nel Credo; tale misura era un'applicazione
su scala locale dell'interpretazione romana dell'unione di Lione, fallita nel
risorto impero bizantino proprio perché Roma non volle considerare la recita
del simbolo senza l'aggiunta una consuetudine priva d'importanza, ma una
contraddizione dogmatica: unitas fidei non patitur diversitatem in
professoribus suis [32]. Essa poté essere applicata nel Sud
Italia in mano agli angioini, rappresentando una rottura con la prassi latina
precedente ed il più esplicito tentativo di modifica della tradizione degli
Italo-greci. Non ci si avvalse dell'inquisizione per controllare l'osservanza
della decisione sinodale contro i Greci, che venne affidata ad un regime
di visite ed ispezioni annuali dei vescovi e di altri prelati [33].
Ma nel giro di pochi anni il clima cominciò a cambiare decisamente per la pressione
dei sovrani napoletani: dopo che essi ebbero ottenuto nel
Furono i francescani, che già negli anni trenta del XIV secolo
avevano creato un'impressionante rete di insediamenti nel Regno,
incomparabilmente più fitta di quella domenicana: nella Puglia meridionale i
loro centri di azione erano Taranto, Oria, Ostuni, Monopoli, Gioia, Conversano,
Brindisi, Lecce, Otranto, Alessano e Nardò [40]
ad assumersi la lotta contro la sopravvivenza fra la popolazione del rito greco
del Meridione; essi che erano profondamente coinvolti nell'istituto della Vicaria
Bosnae (1391-1446) al quale fornivano le combattive truppe della latinità
contro gli "scismatici" dei Balcani [41],
la cui sede centrale era il loro nuovo convento di S. Caterina a Galatina, in
pieno Salento greco. L'attività dei frati Minori si ispirava ad un modello
diverso rispetto all'Inquisizione classica: la missione antieretica e
antiscismatica da essi svolta sull'altra sponda dell'Adriatico era un
proselitismo con appoggio statale, dove la devianza non bisognava
"scoprirla" e gli strumenti andavano dalle lusinghe verbali
all'esilio per gli acattolici irriducibili, a seconda del sostegno che i
governanti fornivano all'opera di conversione [42].
Da notare che i francescani praticavano la pura latinizzazione delle comunità
sottomesse, non essendo interessati alla creazione di comunità cattoliche di
rito orientale. L'importanza dell'attività antieretica dei frati minori fu tale
che in epoca aragonese sottrassero in pratica ai domenicani il titolo e le
funzioni inquisitoriali nelle Due Sicilie [43].
Alcuni Latini, i frati vagabondi di questi ordini mendicanti, perseguitavano i
Greci e li costringevano ad usare come pane per il sacramento quello azimo al
posto di quello fermentato... [44],
così scriveva l'umanista greco-salentino Galateo al principio del Cinquecento,
alludendo all'attività antigreca dei francescani [45].
Lo stesso Galateo, ovvero Antonio De Ferrariis, ci fornisce la nuda notizia che
il proprio padre Pietro, esponente di spicco della comunità greca, morì
eroicamente pro veritate et fide servanda poco prima del 1463; se questo
sacrificio dovesse attribuirsi ad "odio teologico", Pietro De
Ferraris sarebbe l'unico martire della grecità religiosa italiana che al
momento possiamo identificare [46].
Gli ignoti esecutori di quell'uccisione non dovevano avere alcuna
legittimazione istituzionale, come indica il fatto che furono catturati e
giustiziati dal signore feudale del Salento, Giovanni Antonio Orsini, principe
di Taranto, ma nulla esclude che vi fossero stati mandanti e ispiratori tra il
clero latino locale. Un documento del 1446, lo stesso anno della soppressione
da parte del papa Eugenio IV della Vicaria Bosnae, testimonia la
presenza tra le due stirpi del Salento di una polemica interconfessionale,
centrata principalmente sulla differenza "rituale" eucaristica, cioè
sull'uso da parte greca del normale pane fermentato. In esso, lo stesso
principe Orsini ordinava di far rispettare nella città e nel contado di Lecce
la lettera papale che, letta ed affissa nella cattedrale di quella città,
proibiva quelle "scandalose" dispute; era un fatto che implicava l'avvenuta
diffusione a livello laicale e popolare dell'intolleranza. In quel contesto
diventa verosimile un inaudito atto di fanatismo, specie se rafforzato da
motivi personali o da interessi illeciti che vedevano nella moralità del notaio
Pietro De Ferraris un ostacolo insormontabile [47].
Di fronte alle pressioni per cambiare identità, che attaccavano il rito greco
definendolo al tempo stesso sconveniente ed esigente, chi rimaneva incrollabilmente
attaccato alla propria forma faceva ragionevolmente pensare che per lui di
forma non si trattasse, dando paradossalmente ragione al suo persecutore.
Solamente chi sapeva appellarsi alle ragioni estrinseche della diversità
linguistica ed etnica, aveva l'argomento necessario per resistere agli zelanti
normalizzatori. Era però una dilazione nel tempo, perché nel Cinquecento lo
scardinamento del tessuto culturale e sociale degli Italo-greci era ormai
arrivato al suo punto d'arrivo, cioè l'assimilazione: res graeca quae
cotidie retro labitur [48].
Dove i Latini avevano saputo attendere, la scomparsa della grecità linguistica
fornì loro l'ineccepibile pretesto all'eliminazione della Chiesa Italo-greca,
la cui esistenza era stata privata, dalla stessa interpretazione formalistica
che l'aveva legittimata, di valore intrinseco e di consistenza
spirituale.
[1] Cfr. M. Damiata, Olivi inquieto: la
cristianità dilacerata da Catari, Ortodossi e Saraceni, "Studi
francescani" 88 (1981) 1, p.17-18.
[2] Vd. Ratramno di Corbie,Contra opposita
Graecorum, PL 121, coll. 721-739.
[3] Pasquale II, (a. 1112). Pontificia commissio ad
redigendum codicem iuris canonici orientalis. Series III,Fontes,
I, 385, (d'ora in poi citeremo tale raccolta come Fontes).
[4] Agostino,Ep. A Januario, (56) 2, 3, Op. Omnia
XXI, Roma 1966, 438.
[5]Dell'epoca di Celestino e di Innocenzo III abbiamo
documenti romani di condanna del fenomeno dei preti greci che cercavano di
essere consacrati da un loro vescovo più vicino e non dal loro ordinario
latino. L'ultimo data al 1204: Fontes, II 61. Da notare che l'ordinario
greco non aveva uguale potere di consacrare i preti latini della sua diocesi.
Tutto ciò contribuiva efficacemente alla rarefazione del clero greco. La
situazione si ripresenterà nel XVI secolo, quando la Controriforma avrà a che
fare con i cristiani albanesi, profughi nel Sud Italia.
[6] Alessandro IV papa, Fontes, IV/2,
10.
[7] vd. Innocenzo IV papa (1254), Fontes,
IV/1, 105 e 43. Interessante notare nelle fonti latine un duplice uso
del concetto di scandalo: nel primo, che riguarda i Greci, esso definiva
la loro prevedibile ribellione contro una modifica apportata da altri al culto
esistente, che essi avvertivano come una mancanza di pietà religiosa; nel
secondo, riguardante i Latini, lo scandalo derivava al contrario dalla
constatazione dell’esistenza di un diverso culto, fatto che sembrava suscitare
dubbi relativistici nei confronti del proprio culto (vd. V. Peri, L’unione
della Chiesa Orientale con Roma. Il moderno regime canonico occidentale nel suo
sviluppo storico, in "Kanonika", IV 1994, 131, reprint da Aevum
58 (1984), 439-498.
[7a]Della concezione orientale della
tradizione come rivelazione divina, un significativo esempio viene dagli atti
del Concilio Niceno II (787): Costoro, però, hanno osato condannare la
tradizione che ci è stata affidata da Cristo nella sua santa Chiesa in memoria
della sua dispensazione redentrice, non rendendosi conto, in questo modo, che
niente nella Chiesa è stato fatto senza di Lui. ed. J.-D. Mansi:
"Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio", t. XIII,
[8] vd. V. Peri, art. cit,,
72-75; 101; 133-136,. cfr. Definitio sanctae oecumenicae synodi
Florentinae (ed. H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum, "Bulla" Laetentur coeli,
450 e 451.
[9] Gioacchino da Fiore, Enchiridion super
Apocalypsim (1184 Ð 1200), ed. A. Tagliapietra, Milano 1994, 196 e 23.
[10] vd. C. Giannelli, Un documento
sconosciuto della polemica tra Greci e Latini intorno alla formula battesimale,
"Orientalia Christiana Periodica" X 1944, 158 - 161. vd. Les
regestes de Grégoire IX, t. I, ed. L. Auvray, Paris 1896, n¡ 797, col. 498.
[11] Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium,
can. 373: la condizione degli ecclesiastici uniti in matrimonio deve essere
tenuta in onore, in quanto prassi della Chiesa primitiva, da sempre legittima
nelle Chiese orientali, 194, Roma 1990.
[12] Cfr. A. Stickler, Il celibato
ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, 49, Città del
Vaticano 1994; R. Cholij, Married Clergy and Ecclesiastical Continence in
Light of the Council in Trullo (691), Leominster 1989, 190-193; N. Cochini,
Les origins apostoliques du célibat ecclèsiastique, Paris 1981, 410.
[13] Nicola di Casole: Parerga ,
cod. Laur. gr. 5.36, f.8.
[14] vd. F. Quaranta: In difesa dei
matrimoni greci e del mattutino pasquale. Un inedito testo pugliese del XIII
secolo. "Studi sull'Oriente Cristiano", (V2) 2001, 91-117.
[15] vd. G. Schirò, Vita di Luca,
vescovo di Isola Capo Rizzuto, Palermo 1954.
[16] Vd. G. Zaccagni, Il Bios di san
Bartolomeo da Simeri (BGH 235), "Rivista di Studi Bizantini e
Neoellenici", N.S. 33 (1996), 193 e 274; A. Acconcia Longo,
recensione a: Caruso S., Il santo, il re, la curia, l'impero. Sul processo
per eresia contro Bartolomeo di Simeri (XI-XII). "Bizantinistica"
s. II, 1 1999 51-
[17] G. Miccoli, La Storia religiosa,
in Storia d'Italia, vol. 2, t. 2, Torino, 1974, 609.
[18] N. Housley, The
italian crusades. The Papal - Angevin alliance and the Crusades against
Christian Lay Powers, 1254 - 1343 ,
[19] ibidem, pag. 63. Vd. Regestes de
Urbane IV, n° 809 (ed. J. Guiraud, Paris, 1901).
[20]Modifico qui la mia opinione di un'inquisizione
angioina erede di quella federiciana, espressa in Un profugo a Bisanzio
prima di Barlaam. L'anonimo calabrese del Vat. Gr. 316, "Barlaam
Calabro. L'uomo, l'opera, il pensiero" (a cura di A. Fyrigos), Roma 2001,
85.
[21]G. Miccoli: op. cit., 690.
[22]Giorgio di Gallipoli, (ed.) M. Gigante, Poeti
italogreci di terra d'Otranto nel secolo XIII , Napoli 1979, 174.
Un'ipotesi affacciata da A. Acconcia Longo ("Diptycha", Nota su
Giorgio di Gallipoli, IV 1986, 431), che, nella tragedia dell'intera loro
collettività, i saccheggiatori potessero essere stati dei sacerdoti greci
guelfi o appartenenti a una diversa opinione liturgica, appare piuttosto
inverosimile. Non è privo di significato, inoltre, riguardo agli orientamenti
della città di Gallipoli, che l'ultimo segno visibile di comunione fra gli
Italo-greci e il patriarcato di Costantinopoli fu una richiesta di chiarimenti
liturgici del vescovo locale Paolo al patriarca Michele III (1170-1178).
[23] M. Scaduto, Il monachesimo basiliano
nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza sec. XI - XIV, Roma, 1982,
291-292.
[23a] Su questo centro della propaganda cattolica, vedi C.
Delacroix-Besnier, Les dominicains et la Chrétienté grecque aux siècles XIV
et XV, Roma 1997,
[24] L'autorità patristica che obbligava
questi autori al rispetto della pluralità di riti era un testo attribuito a
papa Gregorio Magno. In realtà tale brano, entrato in circolazione intorno alla
metà del secolo XII, era una citazione del "Commento a Matteo" di
Gerolamo (PL 26, col. 94B), preceduta da un commento, opera di un latino
conciliante che, partendo dal testo di Gerolamo di una Chiesa che usa esclusivamente
il lievito, induceva gli occidentali ad accettare l'uso orientale del pane
fermentato. Eccone il testo: (Nicolaus de Cotrone, Liber de fide Trinitatis,
in "S. Thomae Aquinatis Opera Omnia, (aliorum medii aevi auctorum
scripta)", a cura di R. Busa, Stuttgart 1980, vol. 7, p. 360): Solet
plane movere nonnullos, quod in ecclesia alii offerunt panes azimos, alii
fermentatos. Esse namque ecclesiam quatuor ordinibus distributam novimus:
Romanorum videlicet, Alexandrinorum, Ierosolimorum et Antiochenorum, que generaliter
ecclesie nuncupantur; cum unam teneant fidem catholicam, diversis autem
utuntur officiorum ministeriis. Unde fit ut romana ecclesia offerat azimos
panes propter quod dominus sine ulla commixtione suscepit carnem, sicut
scriptum est: "Verbum caro factum est et habitavit in nobis". Sic
azimo pane efficitur corpus Christi. Nam cetere ecclesie supradicte offerunt
fermentatum pro eo quod Verbum Patris indutum est carne et est verus deus et
verus homo. Ita et fermentum commiscetur farine et efficitur corpus Domini
nostri Jhesu Christi verum. Sed tamen tam Romana ecclesia quam et cetere
ecclesie supra memorate pro inviolabili fide, tam azimum quam fermentatum dum
sumimus, unum corpus Domini nostri Salvatoris efficitur. Certissimum autem
sicut diximus, divinum interest sacramentum, secundum quod legimus in
evangelio: - Mulier illa que accepto fermento abscondit in farine sata tria,
donec fermentatum est totum-. mulier hec videtur mihi esse apostolica
predicatio vel ecclesia, que de diversis partibus vel gentibus congregata est.
Hec tollit fermentum, id est notitiam vel intelligentiam sanctarum
scripturarum, et abscondit illud in farine sata tria, ut spiritus, anima et
corpus in unum redacta inter se non discrepent, sed impetrent a patre
quodcumque postulaverint. Amen. Testi paralleli: Tommaso d’Aquino, Contra
errores graecorum, in "Opera Omnia", ed. cit, vol. 3, p. 509;
(Pseudo-)Pantaleo Diaconus, Tractatus contra errores graecorum, PG 140,
524CD. Cfr. A. Dondaine, "Contra Graecos", premiers écrits polémiques
des Dominicains d'Orient, "Archivum Fratrum Praedicatorum, 21 (1951)
357 e 362; R. Loenertz L'épitre de Théorien le Philosophe aux prêtres
d'Oréiné, "Mémorial Louis Petit", Bucarest 1948, 332.
[25] (Pseudo-)Pantaleo: ibidem,
PG 140, col. 525b.
[30] vd. G. Miccoli, op. cit., 694.
[31] Umberto di Romans, Opus Tripertitum,
II,
[32] Niccolò III papa,(a. 1278), Fontes
V, t. II, p. 72
[33] Gerardo di Sabina, Costituzioni di
Melfi 1 (P. Herder, Die Legation des Cardinalbischofs Gerhard von
Sabina, "Rivista della Storia della Chiesa in Italia" 21 (1967),
47).
[34] Vd. Regestes de Nicolas
IV, n¡ 892 (ed. E.
Langlois, Paris, 1905).
[35] Vd. D. Abulafia, Il Mezzogiorno
peninsulare dai bizantini all'espulsione, in "Storia d'Italia. Annali
11. Gli Ebrei italiani", Torino 1996, 19-26.
[36] Vd. Fontes VII/1, 69.
[37] Fontes, IX, 113.
[38] Fontes XI, 39.
[39] Fontes, X, 64.
[40] Vd. L. Pellegrini, Insediamenti
francescani nell'Italia del Duecento, Roma 1984, 307. Al contrario, i
domenicani nel XIV non avevano alcun convento in Calabria e solo sei nella
Puglia meridionale: Brindisi, Monopoli, Nardò, Brindisi La Maddalena, Taranto,
Lecce (vd. G. Cioffari, Storia dei Domenicani nell'Italia meridionale,
Napoli 1993, vol. I, 95.
[41] P. Coco, I francescani nel
Salento,1517-1927, Taranto 1928, vol. I, 128-130 e vol. II, 525-542.
Idem, Saggio di storia francescana di Calabria. Dalle origini al secolo XVII.
Taranto 1931, 49 e 58.
[42] Vd. J. Fine,The Bosnian Church:
a New Interpretation, New York 1975, 179 e 299.
[43] Vd. L. Amabile, Il Santo Officio della
Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, 80-83.
[44]A. Galateo, De situ Japigiae,
Basilea, 1558, 112.
[45] Vd. T. Hofmann: Papsttum und
griechische Kirche in Süditalien in nachnormannischer Zeit (13. - 15.
Jahrundert), Ph. D. dissertation, Bamberg, 1994, 185.
[46] A. Galateo, ibidem, 110.
[47] Vd. M. Pastore, Il codice di Maria D'Enghien,
Galatina 1979, 72. Il fatto che Pietro avesse esercitato la professione
notarile (vd. Visite pastorali in diocesi di Nardò 1452-
[48] A. Galateo, ibidem, 45.
di Gabriele Segalla
dal libro “La strategia del Sospetto”
Non esiste danno più devastante, per le istituzioni e per i
diritti primari del cittadino, di quello prodotto dall’intervento poliziesco e
vessatorio di un’autorità inquirente che autentica e alimenta una spietata
caccia alle streghe. Ciò è ancor più deleterio quanto più la reale motivazione
di un siffatto intervento, come vedremo più in dettaglio, è “deviata”: non diretta
a far luce su un certo fenomeno, a torto o a ragione oggetto dell’interesse
sociale, ma rivolta ad autenticare la santità o sanità di pochi rappresentanti
istituzionali, affetti da protagonismo o avida sete di carrierismo. In altre
parole, l’obiettivo rimane sempre lo stesso: salvaguardare, attraverso quei
pochi, gli interessi di potere dell’ideologia dominante, cioè la Norma
maggioritaria, la media ponderale degli accordi ed interessi di dominio
sociale, politico ed economico, intorno ai quali ruota l’intero sistema delle
prevaricazioni e degli esclusivismi sociali. O meglio antisociali.
Le streghe, cioè gli agnelli sacrificali, i capri espiatori e le
valvole di sfogo per l’efferatezza del sistema inquisitorio, si trovano ad ogni
angolo: sono tutti gli invisi e scomodi “fuori-norma” (non fuori-legge, il che
è tutt’altra cosa), che osano criticare e interferire con l’ideologia
collettivistica dominante, o peggio ostacolarla o addirittura rinnegarla.
L’agenda inquisitoria si arricchisce di tappe “evolutive” apparentemente
casuali ma aventi, ognuna, un valore cumulativo, un crescendo psico-strategico
inteso ad alimentare a sua volta l’indignazione della cosiddetta opinione
pubblica: prima ad esempio si comincia a opprimere e reprimere i valdesi, poi i
pentecostali, poi il Muccioli, poi il Verdiglione, poi i Testimoni di Geova,
poi i fastidiosissimi (perché troppi e troppo rumorosi) scientologi, eccetera,
ad libitum. Con il comune o comunistico o consumistico scopo di eliminare
qualsiasi potenziale o reale nemico dell’Élite teocratica o psicoterapeutica
dominante, uniche autorevoli guide erogatrici del benessere spirituale e
psico-fisico della nazione.
Potrebbe apparire una tesi audace, se non esistessero ormai
troppi riscontri storici, e non solo storici. La farsa delle loro menzogne e
calunnie si è ormai fatta troppo grottesca per non venire facilmente
smascherata anche dal più superficiale degli osservatori. Occorre solo armarsi
di buon senso e di analisi logica, cioè della capacità di distinguere il vero soggetto,
il vero oggetto ed il vero predicato. Inquisitorio ha sempre fatto rima con
espiatorio, in una lunga e inarrestabile sequela di condanne esemplari e
terapeutiche, spesso giustificate e suffragate dalla pretesa di esercitare un
potere diagnostico ed esorcizzante sui pericolosi soggetti diversi, “
fuori-norma”.
Inquisire è un verbo relativistico: in esso la dimensione tempo
subisce una dilatazione proporzionale all’intento persecutorio e repressivo di
colui che lo coniuga. Con calma, anno dopo anno, ventennio dopo ventennio. Non
c’è fretta. L’inquisitore è un analista sempre paziente, caritatevole, pio,
probo, giusto e dedito al bene della comunità. La lentezza dell’agonia
dell’eretico svolge l’importante ruolo di deterrente e di monito per tutti gli
altri potenziali eretici. Così è sempre stato nei secoli dei secoli...
Nei secoli XV, XVI, XVII e XVIII vennero eliminate nel mondo
occidentale più di 100.000 streghe, persone cioè accusate di aver stretto un
patto criminale con il diavolo. Il fenomeno, se così si può definire, venne
posto in essere dalla creazione di un ente preposto alla difesa dell’ideologia
teocratica dominante: l’Inquisizione. Che, di quel fenomeno, fu la causa e non,
come molti ancora credono, l’effetto. L’Inquisizione era nata come istituzione
ecclesiastica destinata a scoprire e punire l’eresia, massimo crimine
“ideologico” del tempo, essendo l’ideologia allora dominante quella della Santa
Sede. Dominante a tal punto che i reati di eresia vennero secolarizzati, resi
cioè perseguibili e punibili anche dai poteri secolari, asserviti alla
conservazione e preservazione di un’unica Norma. La Norma, appunto, teocratica.
Norma che, alimentata dalla sete di dominio, si trasforma in
Intolleranza. O, come la definisce Italo Mereu, “Intolleranza istituzionalizzata”,
«... che tutto abbatte e tutto unifica e tutto sottopone al raggio mortale
delle sole ideologie ufficiali...». Ciò che rese possibile l’estensione del
concetto criminologico di eresia a quello di stregoneria e il successivo
innescarsi della grande caccia alle streghe, fu una serie di trasformazioni
giuridiche introdotte in Europa tra il XIII e il XVI secolo. La prima di tali
trasformazioni fu l’adozione del processo cosiddetto inquisitorio.
Prima di allora i tribunali europei avevano seguito un sistema
di procedura penale che rendeva più arduo il perseguimento del crimine, specie
quello di natura ideologica e religiosa. Tale sistema, normalmente definito
accusatorio, era adottato nella sua forma pura dai tribunali secolari
dell’Europa Nordoccidentale, ma era anche parzialmente applicato dai tribunali
secolari ed ecclesiastici del Sud Europa.
In breve, il sistema accusatorio consisteva in un’azione penale
promossa da un soggetto privato, solitamente la parte lesa o i suoi familiari.
L’accusa consisteva in un’affermazione formale, pubblica e giurata, che
innescava il processo dell’accusato davanti al giudice. Se l’accusato ammetteva
la sua colpa, o se il privato accusatore riusciva a provarla (onere della
prova), il giudice lo condannava. Nel corso del processo, a prescindere dalla
sua forma, il giudice restava un arbitro imparziale che regolava la procedura
del tribunale ma che non esercitava in alcun modo l’accusa. L’accusa era
promossa dallo stesso accusatore e, se l’imputato dimostrava la propria
innocenza, l’accusatore era perseguibile penalmente secondo la vecchia
tradizione romana della lex talionis .
Il passaggio al nuovo sistema, indicato come inquisitorio, fu
favorito dalla ripresa dello studio del diritto romano. E dalla consapevolezza
che la criminalità, sia di ordine ecclesiastico che secolare, era in aumento e
bisognava adottare dei mezzi più idonei a combatterla. La principale differenza
fra il nuovo sistema e quello precedente fu che l’accusatore non era più tenuto
a esercitare l’accusa nel corso del procedimento. Inoltre la procedura
inquisitoria dava agli inquirenti la possibilità di perseguire un presunto
criminale o eretico o strega solo sulla base di “informazioni” talvolta fondate
semplicemente su voci o dicerie di alcuni membri della comunità. È ovvio che
ciò diede luogo ad una innumerevole sequela di processi penali basati su accuse
inconsistenti e, spesso, maliziose, interessate o comunque arbitrarie. Invece
di limitarsi a presiedere, imparziale e neutrale, al conflitto fra due parti,
il magistrato assunse il compito di investigare il crimine e di determinare se
l’imputato fosse o meno colpevole. Ciò facilitò il perseguimento di ogni tipo
di crimine, ma si dimostrò efficace soprattutto nell’istituire processi per
eresia e stregoneria. Thomas Szasz, in un suo dettagliato studio comparativo
dell’Inquisizione e della moderna psichiatria istituzionale, scrive: «Sebbene
vecchio di più di cinquecento anni, il procedimento inquisitorio non pervenne
realmente alla sua pienezza prima del XX secolo. La differenza fondamentale tra
le procedure accusatorie e inquisitorie sta nei metodi di cui una persona o un
istituto (spesso lo stato) dispongono, per imporre un ruolo sociale degradato e
disonorevole ad un’altra persona (spesso il componente di un gruppo
minoritario). Il procedimento accusatorio fornisce elaborate salvaguardie
all’individuo, proteggendolo dal venire collocato in un ruolo prestabilito,
quale quello di criminale; in genere, bisogna che vi sia prima la prova che
egli abbia commesso atti proibiti per legge. Il procedimento inquisitorio
toglie tale protezione all’individuo, e dà all’accusa il potere illimitato di
gettare l’accusato nel ruolo prestabilito o di nemico dello stato o di malato
mentale. Negli stati totalitari, i procedimenti di imposizione della legge
criminale sono tipicamente inquisitori; e così sono le leggi e le pratiche di
salute mentale negli stati non totalitari».
Accompagnato dall’uso della tortura per i casi più “difficili”,
il sistema inquisitorio raggiunse ben presto lo scopo per cui era stato
introdotto: la protezione ed il consolidamento dell’ ideologia dominante.
Eretici e streghe apparvero ovunque in numero impressionante, e il fuoco dei
roghi ricoprì di infausti bagliori tutta l’Europa, placandosi solo quando
ecclesiastici e laici, preposti alla gestione della giustizia sociale, si
resero conto, qualche secolo dopo, che stavano mandando al patibolo troppe
persone innocenti.
In molte zone i processi contro le streghe ebbero luogo in
concomitanza con i processi contro gli eretici valdesi. Accusati, entrambi i
gruppi, di riunirsi segretamente e di praticare “l’infanticidio
cannibalistico”, ricevettero lo stesso trattamento.
Le credenze sul patto satanico stipulato dalla strega, la
possessione diabolica, le riunioni in orgiastici sabba, durante i quali si
sarebbero mangiati bambini, non erano, come si potrebbe a prima vista supporre,
dominio della folcloristica cultura popolare di allora, ma erano divenute dogmi
assimilati dalle classi più colte e più potenti, come per l’appunto, quella dei
giudici. Questa assimilazione delle nozioni relative all’esistenza e alla
criminogenesi della stregoneria sono riassumibili e spiegabili, secondo Brian
P. Levack, professore di Storia all’Università del Texas di Austin, nel
“concetto cumulativo di stregoneria”: «... Si sa che ogni cultura ha sempre
prodotto miti relativi a persone, dotate a volte di peculiari poteri o di
caratteristiche fisiche particolari, che sovvertirebbero le norme morali e
religiose della società e che perciò rappresenterebbero una minaccia al tessuto
stesso di quella società. Se ne può arguire che una credenza nell’esistenza di
simili individui sia necessaria per definire quelle norme, o quanto meno per
rafforzare quelle che sono generalmente accettate...».
Levack descrive come, nel tempo, sia possibile costruire delle
“immagini” mitiche atte a soddisfare determinate funzioni e definizioni della
Norma, per esempio: «... Una di queste era l’immagine che i Romani avevano
concepito dei cristiani delle origini come membri di una organizzazione segreta
che praticava l’infanticidio cannibalistico e l’incesto; un’immagine che aveva
acquistato popolarità sia perché i cristiani effettivamente s’incontravano in
segreto sia perché il rito fondamentale della cristianità, l’eucarestia, si
prestava facilmente ad essere frainteso come una forma di cannibalismo».
La trasmissione, scritta e verbale, delle credenze via via
elaborate dall’opportunismo del sistema teocratico conduce alla creazione e al
consolidarsi dell’immagine dell’eretico o della strega. Immagine sempre più
rafforzata e autenticata dagli interventi dell’autorità inquisitoria: «...
Molte credenze colte in materia di stregoneria si svilupparono e si fusero con
altre nozioni nel corso di processi a carico sia di maghi che di streghe. Lo
sviluppo o la fusione furono invariabilmente il risultato dell’opera del
giudice o dell’inquisitore, che mescolava l’accusa contro l’imputato con le sue
stesse fantasie o ossessioni, a loro volta alimentate dalla cultura teologica o
demonologica o da resoconti di altri processi in cui lui o un collega erano
stati giudici. Nelle confessioni estorte, di solito con la tortura, delle
attività che credeva praticate dalla strega, l’inquisitore trovava una conferma
ai suoi sospetti, e perciò le credenze acquistavano validità. I risultati dei
processi venivano a conoscenza di altri giudici – prima per via orale e poi
attraverso manuali ad uso degli inquisitori – che utilizzavano le testimonianze
rese nei processi per dimostrare le varie attività delle streghe. In questo
modo il complesso di credenze colte poteva divenire cumulativo, poiché
l’inquisitore di un nuovo processo avrebbe usato l’informazione contenuta nel
manuale per formulare le domande da porre ai testimoni e all’accusata. Ma, al
tempo stesso, avrebbe potuto utilizzare alcune accuse specifiche nei confronti
dell’accusata, o la sua stessa fantasia, per aggiungere nuovi aspetti e
risvolti alle accuse classiche».
«... Man mano che lo stereotipo della strega si consolidò,
tuttavia, la letteratura divenne il principale veicolo di trasmissione della
conoscenza relativa a quel crimine. L’importanza di quella letteratura aumentò
inoltre significativamente con l’introduzione della stampa, nella seconda metà
del ’400. Tale innovazione fece in modo che le credenze colte si diffondessero
più ampiamente e più rapidamente che nell’epoca del manoscritto».
Potenza dei mass media, molti di loro succubi ed abietti veicoli
dell’informazione e disinformazione del sistema. Nefasti araldi della Norma e
volgari banditori dell’Integrità teocratica ieri e di quella psichica oggi.
Fertilizzano, con il loro inchiostro venefico, l’humus sociale per meglio
coltivarvi e radicarvi l’ideologia dominante. “La linea totalizzante”, come la
definisce Italo Mereu, “imposta da chi sta a capo delle istituzioni”.
Il primo trattato diagnostico sulla stregoneria fu il Malleus Maleficarum,
scritto da due inquisitori domenicani tedeschi, Heinrich Kramer e Jacob
Sprenger, pubblicato nel 1486 e ristampato ben 14 volte. Il Malleus, valido
supporto teologico per i ceti giudiziari, asseriva che chiunque avesse negato
l’esistenza della stregoneria sarebbe stato automaticamente ritenuto un eretico
(“Haeresis est maxima opera maleficarum non credere”). È ovvio quindi supporre
che gli zelanti propugnatori del verbo inquisitorio si facessero una cultura
approfondita sulla indiscutibile esistenza delle streghe, onde non incorrere
nella circostanza (punibile) di farsene scappare qualcuna... E fu così che la
maniera più incisiva per allontanare da sé pericolosi sospetti di eresia
divenne quella di denunciare altri di stregoneria, magari facendosi passare per
vittime degli stessi accusati. E inoltre l’accusare qualcuno di stregoneria era
un ottimo e rapido sistema per liberarsi di un concorrente sgradito, o di una
moglie divenuta insopportabile.
Ma a parte le furbizie artificiosamente architettate per
sfruttare la credenza nelle streghe a fini più spiccioli e gretti, è un dato di
fatto che tale credenza venne inculcata in maniera profonda e convincente anche
nelle classi meno colte, mediante una vasta e capillare opera di propaganda
teocratica. Un’opera di vera chirurgia sociale: la strega, voluta, teorizzata e
prodotta dall’alto della Norma inquisitoria, venne finalmente ricercata, perseguita
e giustiziata con il supporto estorto dal basso della comunità. Tale supporto
venne lentamente ma incisivamente conseguito istruendo la popolazione, per
esempio, mediante la lettura pubblica delle accuse contro le streghe effettuata
in occasione della loro esecuzione. O sfruttando il diffondersi di un grande
panico (pestilenza, carestia, ecc.), facendone ricadere la causa e la colpa
sulla stregoneria e mettendo in circolazione voci a proposito. E, non ultime,
le prediche dai pulpiti e nelle piazze, che ripetevano ossessivamente gli
slogan funesti dei vari trattati e bolle pontificie sull’argomento.
Ogni riferimento al ruolo dei sistemi propagandistici usati nel
XX secolo da certi nostri modernissimi ed integerrimi mass media, fabbricatori
della disinformazione del regime, è qui volutamente evidenziato e non certo
casuale. Mutatis mutandis.
In Italia, uno dei massimi esegeti delle teorie e pratiche
contemplate nel Malleus Maleficarum, fu il frate milanese Francesco Maria
Guazzo, autore di quella che fu definita l’opera italiana più esaustiva per
diagnosticare e reprimere il pericolo della stregoneria: il Compendium
Maleficarum (1608). Seppur tardivo, il trattato di Guazzo, che attinge a
centinaia di altre autorevoli fonti inquisitoriali, dimostra come fosse ormai
ben radicata, anche nei ceti più colti, la convinzione dell’esistenza di
numerosi individui che avevano fatto un patto scellerato con il demonio, che si
dedicavano a maleficia di vario genere, che partecipavano collettivamente a
sabba e cerimonie sataniche in cui venivano bruciati e mangiati infanti,
calpestate le croci in segno di abiura e battezzate le nuove promesse spose del
Diavolo.
Brian Levack conduce un’accurata analisi dell’atmosfera
impregnata di fervente devozione cristiana e profondo senso del peccato di quei
secoli. L’etica dominante era quella cristiana e praticamente tutti gli aspetti
della vita vi venivano riflessi e con essa misurati e raffrontati. Il peccato
era una qualsiasi trasgressione a quell’etica, sottoscritta in ore di penitenze
e autopunizioni corporali, assimilata in lunghe e sofferte orazioni corali,
subita in prediche colpevolizzanti ed enfatiche. Il reato non era altro che la
traduzione secolarizzata della trasgressione morale a quell’etica dominante,
senza la quale non avrebbe avuto natura criminosa. Esso scaturiva direttamente,
prendeva corpo dalla matrice ideologica dominante, quella cioè cristiana
cattolica romana. Ad essa allacciato da un indissolubile legame teologico. E
punito, prima che dal potere secolare, da un insopportabile senso di colpa.
«... Quando una persona provava questo senso di colpa,
naturalmente, faceva il possibile per sbarazzarsene, e uno dei modi cui faceva
ricorso più frequentemente era quello di trasferirlo su un’altra persona.
Nemmeno la confessione dei cattolici e degli anglicani poté evitare che si
verificasse questo fenomeno di proiezione. Oggetto ideale di questa proiezione
era la strega, una persona che nella visione della società del tempo incarnava
il male. In quel modo indiretto la strega offriva sia all’individuo che alla
comunità un’occasione per rassicurarsi sul proprio valore morale».
«... Nel caso dei preti, un peccato frequente era l’incontinenza
sessuale. Spesso, quando i preti provavano un profondo senso di colpa e di
debolezza morale, proiettavano la propria colpa sulle streghe e si impegnavano
attivamente nella loro cattura e nel loro interrogatorio. Poiché le streghe
erano solitamente donne – in un certo senso, il simbolo stesso della sessualità
– il meccanismo di proiezione era abbastanza evidente. Nel procedere contro le
streghe, inoltre, i preti non agivano da soli, ma congiuntamente ad altri
membri della comunità, ai quali i preti avevano trasmesso il messaggio del
cattolicesimo riformato. Le streghe divennero perciò non solo l’oggetto della
proiezione della colpa dei preti ma anche i “capri espiatori” di un’intera
comunità che stava lottando per affermare un nuovo ordine morale».
Questa forma di transfert criminologico, di cui Hubbard tratta
ampiamente in alcuni suoi scritti definendola “criminal mind” (la mente
criminale), si manifesta con: 1) una trasgressione alle regole dell’etica
dominante (quindi “immorale” in quanto contraria ai “mores” dell’epoca); 2) il
tentativo, talvolta vano, di tenere nascosta la trasgressione; 3) un
conseguente senso di colpa latente; 4) il tentativo di sfuggire ad una
paventata incriminazione mediante l’autenticazione della propria integrità
morale, proiettando su altri la propria colpa. Levack, dopo un accurato esame
della metodologia adottata dall’Inquisizione nel perpetrare i più indicibili e
vergognosi errori giudiziari che la storia annoveri, formula un motivato
giudizio, che fa sicuramente indulgere in più di una riflessione amara e
perfettamente applicabile ai nostri attuali “mores” e tempi:
«... Quando, perciò, nel mondo moderno vari tribunali o
commissioni di indagine conducono interminabili inchieste nei confronti di
presunti movimenti sovversivi di natura politica, ideologica o religiosa, nel
presupposto che tale indagine porterà a rivelare i nomi e le attività dei
nemici della società, siamo di fronte a un fenomeno che presenta una forte
somiglianza con le centinaia di cacce alle streghe svoltesi in Europa
all’inizio dell’Età moderna».
Quando un sistema giudiziario si sente autorizzato dalla Norma a
prevaricare i diritti naturali degli utenti della giustizia stessa e giunge al
punto di proiettare le proprie colpe su altri membri della comunità per
rivendicare la propria santità o rettitudine morale, allora le tenebre di una
nuova inquisizione si stanno abbattendo sulla società. Inizia il declino
irreversibile di quell’ideologia dominante nel cui nome sono state commesse
troppe infamie, troppe turpitudini paludate sotto le sembianze di una giustizia
che sta inevitabilmente perdendo ogni credibilità e decenza.
Ma, si dirà, tutto questo è avvenuto qualche secolo fa. Oggi è
un’altra cosa. Non è razionalmente ammissibile che si ripetano scelleratezze
come quelle dei secoli bui. Nello stato laico moderno, la teocrazia è estinta.
Perché parlare ancora di inquisizione? È solo un parallelismo storico
facilmente confutabile come surrettizio e opportunistico? Come vedremo più in
dettaglio nei prossimi capitoli, l’attuale inquisizione è molto più perversa e
pericolosa della precedente, proprio perché la sua perversione e la sua
pericolosità si esplicano e si mascherano all’ombra di quell’avverbio che
avrebbe dovuto, in teoria, prevenirla: “razionalmente”. Attraverso cioè il
paradigma razionale, moderno, scientifico dell’induzione e del sospetto.
Bibliografia:
Italo Mereu. "Storia dell’Intolleranza in Europa",
Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas, 1988
Thomas S. Szasz. "I manipolatori della pazzia - Studio
comparato dell’Inquisizione e del Movimento per la salute mentale in
America", Feltrinelli Editore Milano, seconda edizione luglio 1976
Brian P. Levack, La caccia alle streghe in Europa agli inizi
dell’età moderna, Editori Laterza
L. Ron Hubbard, "The
Criminal mind", HCOB 15 September 1981
LA RIFORMA BRUNIANA
di
Alessandro Bardi
La vera riforma spirituale dell'Occidente poteva avverarsi, e
può tuttora, non nelle pochezze teologiche di Lutero, ma con la missione
ermetica europea del grande panteista Giordano Bruno. Essa voleva combattere le
superstizioni del cristianesimo clericale, la visione del Divino come essere
simile all' uomo, sgorgata dall' istinto egoista ed orgoglioso dell' uomo
stesso, la visione assurdamente contraddittoria del tre in uno correggendola col
suo monismo rigoroso di ascendenza pitagorica, la partenogenesi e altri assurdi
dogmi, costruiti dai teologi su allegorie esoteriche quali sono le vicende
della vita di Cristo nel Vangelo, assurde se prese alla lettera. Il tentativo
di riforma dell' occidente cristiano attuatosi col luteranesimo, puramente
politico e organizzativo e non già spirituale e metafisico, aveva portato
un nuovo bigottismo per la certezza fanatica di avere imboccato la strada della
ragione e della libertà, sostituendo , in realtà, solo il conformismo alla
lettera biblica al conformismo papista. La riforma aveva portato la guerra
civile, lo scisma e il caos in Europa, distrutta dal settarismo delle varie
conventicole e dalla lotta con la mai morta tirannia totalizzante dei cattolici,
che si andava rincrudendo con la controriforma, della quale Bruno fu vittima.
L' etica calvinista diffuse l' attuale ingiustizia del potere del denaro, con
la sua teoria della superiorità predestinata dei ricchi, avviando così secolari
e progressive devastazioni della natura, della morale e dell' unità tra
gli uomini col suo spietato arrivismo e individualismo, la concorrenza tra
uomini e nazioni, foriera di imperialismi e nuovi disordini. La sua riforma
ermetica voleva invece instaurare un' epoca di pace e fratellanza tra i popoli,
unificare gli uomini e le nazioni, secondo un principio di cosmopolitismo,
nella piena solidarietà ermetica come cristiana.
Egli tentò un Primato Spirituale dei Saggi, una supremazia naturale ed etica
dei più spirituali, geniali, virtuosi nel senso più alto.
Menzognero é il tentativo degli atei e dei materialisti di far passare la sua
filosofia e la sua opera per anticipatrice del materialismo, accentuando le sue
tendenze democratiche e una sua presunta funzione iconoclasta della religione
tout-court, rimpicciolendo il personaggio in una figura di povero scientista
ancora indeciso d' abbandonare vecchie corbellerie.
Anticipò l' illuminismo teorizzando e adoprandosi perché si diffondessero la
critica delle deformazioni della religione, la religione naturale alla base di
tutte, la tolleranza e il libero pensiero, intendendoli non nel senso
utilitaristico e individualista dell' egoismo moderno, ma come legge OGGETTIVA
del mondo, il tutto, la verità, riunificantesi nelle parti, le diverse
religioni, mediante il dio Eros del Simposio platonico, l' Amore, che é la
forza somma del cosmo e dell' uomo, la vera libertà e azione vitale della cose.
Fuori dalla METAFISICA e riassunto nell' etica ( fraintesa completamente ), in
quel modo deformante come viene presentato oggi, non c' é NULLA di Bruno, se
non una specie di iconcina della cultura e della filosofia, la
"cultura" della modernità, estremista, irragionevole, erede della
controriforma nelle sue dottrine e istinti peggiori, materialista e
dogmatica.
La chiesa addirittura ha tentato quasi di farlo apparire un antesignano di
Roncalli, o piuttosto dell' opera "ecumenica" dell' attuale papa. I
cosiddetti "laici" ( che non sanno che "laico" in ogni
dizionario vuol dire " profano, ignorante, non addentro alla saggezza,
escluso dalla Ecclesia dei Saggi", nome che, quindi, loro ben s' adatta )
scettici, frivoli e vanesi come il bel mondo dei Diderot e dei D' Alembert, ne
han fatto un prodotto dell' "industria culturale".
Egli fu il "Mercurio inviato dagli Dei", la Sacra Scienza che
attraverso il grande polemico campano si manifestò, della quale egli fu degna
espressione iniziatica, che servì con onore e la vita, rese operativa,
spirituale, viva, benefica Magia, Arte Divina, testimoniò e resse il sisifico
pronante fardello di pena.
Fu testimonio non della libertà di pensiero solo, ma del pensier sì, il
Pensiero Divino operante ne e tra i mondi.
Gli orrori della Santa Inquisizione
di Roberto Giammanco
Per il Santo Tribunale la matrice “diabolica” dell’eresia era
unica: diversa sunt nomina, sed una porfidia. Una complessa casistica
regolava il grado di pericolosità e coinvolgimento nelle varie eresie. Chi
erano da considerarsi eretici?: |
La richiesta di perdono che Papa Wojtyla pronuncia a Napoli il 12 marzo di
questo anno 2000 è stata preparata, prima ancora che dalla martellante campagna
d’immagine vaticana, dai laici giubilari accorsi in fretta per la bisogna.
Senza roghi o scomuniche, sponte sua, sono stati accesi, al bagliore accecante
dei media, i roghi della memoria.
La damnatio memoriae giubilare prende la forma di una correctio memoriae
concordataria, riconversione di fatti storici inequivocabili, che credevamo
acquisiti, con l’omertà che basta a trasfigurare in “errori”, debolezze umane”,
“casi specifici” la continuità e la ferrea, spietata logica di potere di
istituzioni burocratiche di raffinata efferatezza capaci di imporre e perfezionare
meccanismi collettivi di infantilizzazione, sospetto, terrore, conformismo.
I falsari del grande Giubileo
Il quattrocentesimo anniversario del rogo su cui salì, “con la lingua in
giova”, il 17 febbraio dell’anno giubilare 1600, Giordano Bruno è al centro di
questa damnatio-correctio memoriae che, in accordo con i tempi, è rigorosamente
politically correct.
Da tempo, l’istituto della Congregazione della Santa Inquisizione dell’eretica
gravità, e il suo Santissimo Tribunale, sono presentati con un volto umano, tra
l’esercizio di una rigorosa legalità e una caritatevole soavità nei confronti
dei reprobi a loro affidati.
Si è scoperta e privilegiata la “buona fede”dei giudici, i loro sforzi “per
arginare sospetti e intolleranza”e/o “per non far soffrire gli imputati” fino
ad affermare che “…finche la letteratura sull’Inquisizione è stata soprattutto
di origine protestante…si è potuto tranquillamente demonizzare
quell’istituzione( strumento dell’Anticristo, si diceva) ad esaltarne le
vittime come martiri della verità. Una nozione schematica e superficiale” ( A.
Prosperi, 1988).
Più recentemente, si è spinto lo zelo fino ad affermare che “l’eresia fu
oggetto degli affanni inquisitoriali solo in minima parte e in periodi
circoscritti. Il più del tempo gli inquisitori lo dedicavano a truffatori che
si fingevano preti, bigami e trigami, fattucchieri denunciati da clienti
delusi…gli eretici veri e propri erano quasi tutti frati e preti”. Per
concludere, visto che gli eretici erano i primi a non volere la tolleranza né
tanto meno “l’equivalenza delle fedi”, si sarebbero comportati ( e dove furono
maggioranza si comportarono) come gli inquisitori, e anche peggio”. Sempre se
avessero potuto…( Rino Cammileri, 1998).
E non basta. Il Santissimo Tribunale che “non amava versare il sangue e
preferiva salvare le anime”trattò con caritatevole pazienza e severa clemenza
Giordano Bruno il quale, del resto, era litigioso ed insopportabilmente pieno
di sé”, pertinace e impenitente, nella cui tattica difensiva “avevan gran parte
le bestemmie più orribili…Fu questo il motivo per cui lo condussero al rogo con
la bocca serrata “(Rino Cammileri, 2000).
Questi ed altri contributi all’astratto spettacolo del “perdono” papale
sembrano predominanti nella cultura diffusa dell’Italia giubilare, se non altro
per la loro visibilità ufficiale.
La damnatio-correctio memoriae si articola a vari livelli, dal più formale e
raffinato al più rozzo ed emotivo, che convergono nel ribadire la legalità,
addirittura quasi “garantista” dell’istituto inquisitorio, a mettere in luce la
severa clemenza nel perseguire i reprobi dei quali, come nel caso di Giordano
Bruno, si ammette l’ostinazione e la pervicacia(“…ed insomma il meschino, se
l’Iddio non l’aiuta, vuol morire ostinatamente ed essere abbruciato vivo”,
Avviso di Roma, 12 febbraio 1600, sabato). Quello che viene sfumato, distorto,
o del tutto relegato alle critiche ed annose polemiche degli specialisti, è il
discorso sui fondamenti, le procedure , e il ruolo storico che ha avuto il processo
inquisitorio con lo strascico dei suoi principi fondanti lasciati in eredità
anche al mondo moderno e ai suoi universi totalitari.
L’Inquisizione fu nient’altro che la logica conseguenza della sacralizzazione
del potere papale, che direttamente, e senza mediazioni, ne concesse e
legittimò gli immensi poteri. A monte il carattere divino “ delle Chiesa, il
potere del Pontefice di definire la verità e perseguire l’errore, di mediare
tra l’aldilà e l’aldiquà, di sciogliere e legare, alla luce della “verità”
definita, tutti gli aspetti della vita sociale. Attraverso i secoli,
l’Inquisizione fu il più efficiente meccanismo di controllo sociale della
storia dell’Occidente cristiano: il suo potere, prima che sulle azioni, si
abbatteva sui pensieri, sulle intenzioni, sulle scelte devianti. Non è un caso
che il termine “eresia” voleva dire originariamente “scelta”.
Un controllo sociale di massa
Le risposte alla damnatio-correctio memoriae giubilare, vero e proprio rifiuto
di responsabilità storiche, morali e culturali, vanno cercate meno nei singoli
“casi” che, per esempio, nei principi fondanti e nei meccanismi del processo
inquisitorio, strumento burocratico al servizio di un universo teocratico
coercitivocce ha gestito, per secoli, comportamenti sociali e intenzioni, vivi
e morti, a sua immagine e somiglianza.
Il processo inquisitorio fu definitivamente codificato nella Nuova Inquisizione
post- Riforma luterana, a partire dal 1542 (Bolla Licet ab inizio di Paolo
III). La Congregazione del Santo Uffizio, presieduta dal papa, sempre quando
erano in gioco casi”difficili”, mantenne intatti i principi fondanti
dell’Inquisizione medioevale (crociata contro gli albigesi e loro sterminio),
dell’inquisizione di Spagna (“estirpazione” e conversione forzata degli ebrei e
dei musulmani) dandosi un’organizzazione totalmente centralizzata, a guardia
della burocratizzazione capillare della fede cattolica e del controllo sociale
di massa che la Controriforma stava consolidando. Il sentimento religioso fu
gestito come un modello chiuso, coercitivo, trionfalistico.
I principi fondanti del processo inquisitorio sono dedotti dal suo fine
supremo: perseguire “l’eretica pravità” che si macchia del crimine supremo:
“lesa maestà divina”. Qualsiasi altro crimine, se ci sono i segni della “peste
eretica” o della trasgressione al modello del magistero, è associato
all’eresia.
Il sospetto faceva scattare il meccanismo inquisitorio. Era di per sé il segno
della colpa. Tutti ( nobili), alti prelati compresi i cardinali, funzionari
reali, al di fuori soltanto del re) potevano essere inquisiti, se denunciati
come sospetti.
La cultura della delazione
Per chi si affanna per addolcire l’immagine dell’Inquisizione e, al tempo
stesso, per isolarla dal modello coercitivo globale della Controriforma,
l’imbarazzo maggiore viene dalla centralità della delazione.
Praticata da sempre, all’interno e verso l’esterno, spetta al Santo Uffizio -
che razionalizza il sospetto come presunzione di colpa e ne introduce la
capillarizzazione sistematica nell’area cattolica – il compito di assicurarne
la tutela, e naturalmente la sacralizzazione.
La delazione è segreta (“…all’imputato deve essere comunicata solo la sostanza
delle deposizioni dei testimoni a carico, senza nomi né possibilità di
individuarli”: decreto della Congregazione del Santo Uffizio, 1566) ed è ”un
dovere per il popolo cristiano”, perché se si è obbligati a denunciare i
crimini di lesa maestà, a maggior ragione è doveroso denunciare il supremo
peccato-crimini di lesa maestà divina. Così il padre è obbligato a denunciare
il figlio, il marito la moglie, e viceversa, anche perché chi rivela al Santo
Tribunale l’eresia dei propri consanguinei (“de’ loro padri ancorché eglino
fossero nati dopo il paterno delitto”, 1621) non solo non incorre nelle pene
stabilite e compie “un’impareggiabile opera di carità”, ma può anche usufruire
di speciali indulgenze per sé e per gli altri suoi defunti. Soprattutto –
insistono decreti e manuali – si affida alla guida sicura dell’Inquisitore che
è padre; il che vuol dire – come suona una delle iperbole retoriche dell’epoca
– a Dio stesso, “Primo Inquisitore, che castigò Adamo ed Eva, il popolo di
Israele e giù giù tanti altri”.
Il Santo Tribunale obbligava anche le stesse autorità secolari a denunciare, a
pena di essere denunciate a loro volta, come complici dell’eresia nella
congiura contro il bene pubblico. Chiunque poi si fosse impegnato a tacere, con
qualsiasi forma di giuramento, quando si trattava della “eretica pravità”, era
dispensato d’ufficio.
I confessori si trovavano di fronte a un dilemma assai difficile. Se,
interrogati dall’Inquisizione su cose coperte dal segreto confessionale
(sanzionato nel 1215 dal IV Concilio Laterano) non rispondevano, correvano
forse il rischio di essere loro stessi inquisiti come fautores ?
Al culmine di secolari controversie sull’argomento, in piena Controriforma,
Dominico Soto (1582) così rispondeva al dilemma: “…le orecchie umane giudicano
le parole dal suono, ma il giudizio divino considera quei suoni se sono o no in
accordo con l’intenzione…Dio ode le parole non pronunciate e le giudica vere
anche se l’uomo non è in grado di accorgersi della discrepanza”. La tacita
cogitatio, il pensare senza parole permette di dirigere l’intenzione in senso
contrario rispetto a quanto è indicato dalle parole!
La tortura per l’intenzione
Sin dai tempi della bolla Ad extirpanda (1252) la tortura era sta legittimata
come elemento (fondamentale e spesso, di fatto, unico) di prova ed era
applicata con puntiglioso formalismo burocratico( la damnatio – correctio
giubilare insiste sui ”precisi limiti di durata”).
Tutti potevano essere torturati ( i ragazzi al di sopra dei nove anni erano
sottoposti alla tortura delle bacchette) e chi, sotto tortura, rispondeva alle
domande del giudice inquisitore in modo non chiaro o tralasciava qualche
dettaglio veniva torturato finche non completava la sua confessione.
Il massimo dell’astrazione (“la banalità del male”), e della spietatezza, era
la “tortura per l’intenzione”. Se, dopo una confessione completa, il
sospetto-reo negava di avere avuto intenzioni eretiche mentre si comportava da
eretico, veniva torturato non sul fatto ma sulla ”sua empia credulità ed
intenzione”. Rovesciamento del principio giuridico antico secondo cui nessuno
può essere punito per quello che pensa (Cogitatio poena nemo patitur).
E che dire dei processi dell’Inquisizione a carico dei defunti? In quanto
crimine di lesa maestà divina, il crimine die resia non si estingueva con la
morte del reo. Condannando gli eretici morti, il Santo Tribunale condannava la
loro “empia e immonda memoria” e, al tempo stesso confermava “l’eternità” dei
suoi decreti e la mediazione della Chiesa sull’aldilà dell’aldiquà. Le ossa
degli eretici morti venivano disseppellite e bruciate in pubblico con il consueto
rituale, così come gli eretici latitanti che non si presentavano entro un anno
venivano processatio e condannati ad essere bruciati in effige. Sul rogo veniva
messa una statua con su scritto il nome e il cognome.
Di regola, ilo Santo tribunale presumeva che l’accusato di eresia che, in
carcere, si toglieva la vita l’avesse fatto per rimorso. Il suo gesto
equivaleva dunque a una piena confessione e per questo doveva essere processato
e punito. Ai figli era concessa la possibilità di evitare la damnatio memoriae
del padre se riuscivano a dimostrare che si era suicidato per il terrore.Dopo
tutto, la tortura poteva uccidere tanto i colpevoli quanto gli innocenti. Ma
questi – è detto in una delle guide dell’inquisitore – andranno comunque in
paradiso”.
L’Inquisizione era il modello operativo di una lunga tradizione di
organizzazione dell’immaginario della salvezza. Si proponeva di salvare le
anime attraverso l’imposizione di un’autorità definita “divina”, di un potere
di definizione che era al di sopra di ogni altro potere.
Con la confessione, la Chiesa si assumeva il compito e, per la sua definita
origine “divina”, il dovere di gestire, giudicare il mondo interiore dei fedeli
con premi e castighi per le loro pulsioni e comportamenti.
L’invenzione del Purgatorio
Con il Purgatorio fu ridisegnata la mappa antropomorfica dell’aldilà e
riconfermato il potere papale della mediazione. Le indulgenze, quel formidabile
moltiplicatore economico che la Controriforma regolò su solide basi
amministrative, furono dedotte, anch’esse, dal potere di sciogliere e di legare
nell’aldiquà e nell’aldilà, in tutti e due i sensi.
Grazie alla deduzione del Purgatorio, superba “invenzione” che dava un ordine
“certo” alle angosce e alle speranze dell’immaginario collettivo, Bonifazio
VIII, primo Jiubilee maker, poté riaffermare la supremazia papale. Tra
l’auctoritas e il perdono c’éra pur sempre la scappatoia del Purgatorio.
Nel
A chi è rivolto il perdono che chiede oggi l’autorità papale, e da chi sarà
accolto? Dai valdesi impiccati e bruciati perché non credevano nel Purgatorio
in cui la Chiesa cattolica insegna a credere ancora oggi, oppure dallo stesso
Dio in nome del quale quella auctoritas sterminava gli eretici?
E come farà l’auctoritas papale a chiedere perdono per conto dei suoi grandi
Santi Inquisitori, per i Papi delle Crociate nella notte di san Bartolomeo e
così via, pur continuando a venerarli come Santi?
Forse, nel tripudio giubilare, l’auctoritas papale dovrà accogliere la sua
propria richiesta di perdono con la solenne promessa di non accendere più
roghi. Chissà che non avessero ragione i Valdesi affermando che il Purgatorio è
qui in questa vita.
Lettera Internazionale 64
(2° trimestre 2000)
Vittime dell'intolleranza: gli anniversari del 2000
1600-2000 :400° del rogo del frate filosofo eretico GI0RDAN0 BRUNO arso vivo il
17 febbraio
1500-2000 :500° del rogo di tre presunte streghe arse vive a Saragozza per
ordine dell'Inquisizione spagnola
1450-2000 :550° del rogo del medico eretico fiorentino Giovanni de' Cani
colpevole solo di alcuni reati di opinione per lo più di carattere
anticlericale
1300-2000 :700 ° del rogo dell'eretico Andrea di Ferrara arso vivo in una
località imprecisata dell'Emi1ia
1200-2000 :800° dei roghi di Troyes in Francia, otto eretici
"pubblicani" sono arsi vivi, cinque uomini e tre donne. Non credevano
nel purgatorio, ne alla divina provvidenza, né alla gerarchia ecclesiastica di
cui respingevano tutti gli scritti
1100-2000 :900 ° del rogo di un medico eretico greco di nome Basi1io. Fu
bruciato vivo spettacolarmente nell'ippodromo di Costantinopoli in quanto
rimase fermo nella sua fede proclamando1a a gran voce. Apparteneva alla setta
dei Bogomi1i (da Bogomil=amico di Dio in lingua bulgara)
Santa Inquisizione alla sbarra. Con prudenza
Di David Gabrielli
Le ombre (o le luci?) dei tempi in cui la Chiesa cattolica
romana usava il rogo per punire chi negava la (sua) verità è stato il tema del
Simposio internazionale su "L’Inquisizione" organizzato in Vaticano –
29-31 ottobre 1999 – dal Comitato centrale del Grande Giubileo, presieduto dal
card. Roger Etchegaray, e dalla Commissione teologico-storica dello stesso
organismo, presieduta dal domenicano p. Georges Cottier. All’incontro, svoltosi
rigorosamente a porte chiuse (ma saranno pubblicati gli atti), hanno preso
parte una sessantina di persone: storici di vari paesi, teologi di università
pontificie, curiali, più esperti invitati.
ALL’INIZIO FU IL PAPATO
Secondo la Tertio Millennio Adveniente (TMA) – la lettera
apostolica del 10 novembre ’94 con cui papa Wojtyla avviava la preparazione del
Giubileo – nel 2000 i cristiani dovranno "pentirsi" soprattutto per
la "acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza
e perfino di violenza nel servizio della verità". In questa luce, il
Comitato centrale del Giubileo ha organizzato due simposi. Un anno fa, su
"Le radici dell’antigiudaismo nell’ambiente cristiano", sviluppatosi
poi nel documento vaticano Noi ricordiamo: una riflessione sulla
"Shoah" (16 marzo ’98: vedi Confronti 5/98), criticato da molti ebrei; e,
ora, su "L’Inquisizione". Introducendo i lavori, Etchegaray ha detto:
"Se per alcuni studiosi l’uso del termine "inquisizione" al
plurale rispondeva ad una semplice esigenza di classificazione, non si può ignorare
che per altri esso ha rappresentato un argomento di carattere apologetico per
addossare al solo potere laico la responsabilità dell’operato dei tribunali
iberici. È stato proprio per sgomberare il campo da qualsiasi equivoco"
che si è voluto Inquisizione, al singolare, come tema del Simposio. Infatti,
seppure l’Inquisizione ha usato "modelli organizzativi differenziati, dal
suo sorgere (sec. XIII) alla sua scomparsa, essa è stata una sola", perché
anche i poteri inquisitoriali riconosciuti alla Corona spagnola e portoghese lo
furono, "in forma espressa o tacita, dal papato stesso, e perché
ecclesiastica fu la giurisdizione esercitata dagli inquisitori nei processi in
materia di fede". Cottier ha sottolineato che non si può giudicare la
storia con il senno di poi; ma "la considerazione delle circostanze
attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per
le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto (TMA)...
Tocchiamo qui un difficilissimo problema teologico, quello della relazione della
Chiesa, che è santa, con i peccati dei suoi figli". Agostino Borromeo,
presidente dell’Istituto italiano di studi iberici, ha fatto la storia
dell’Inquisizione (dal latino inquisitio, ricerca dei "delitti contro la
fede"). Mentre nell’alto Medio Evo "l’eretico" veniva colpito
con pene materiali (fino all’esilio) e spirituali (scomunica), dopo che si
diffondono "ampi movimenti ereticali collettivi, quali quelli dei catari o
dei valdesi, la Chiesa è posta dinanzi alla necessità di ricorrere a più efficaci
strumenti di lotta contro ogni forma di eterodossia. La creazione dei tribunali
dell’Inquisizione rispondeva a questa esigenza. Nel vincolare gli inquisitori
all’applicazione della procedura inquisitoria, il papato finì con il recepire
anche la relativa normativa laica, in particolare quella che stabiliva
l’equiparazione dell’eresia con il più grave delitto previsto dalla
legislazione civile, il delitto di lesa maestà, e quella che stabiliva la pena
di morte sul rogo per gli eretici. Nel 1252, Innocenzo IV autorizzò l’uso della
tortura, procedimento già in uso nei tribunali laici".
Con la progressiva scomparsa dei grandi movimenti ereticali – ha
aggiunto Borromeo – l’Inquisizione si attenua; poi, però, riacquista vigore: i
sovrani spagnoli nel 1478 ottengono da papa Sisto IV l’autorizzazione a
designare inquisitori per reprimere i conversos, ebrei solo apparentemente
convertiti al cattolicesimo. Poi anche il Portogallo nel 1547 ottiene la
"sua" Inquisizione da Paolo III. Lo stesso papa, "cedendo alle
pressioni di quanti, nella Curia romana, seguivano con preoccupazione il
diffondersi nella penisola delle dottrine protestanti, già nel 1542 aveva
istituito una speciale commissione cardinalizia permanente, più tardi
conosciuta con il nome di Congregazione dell’Inquisizione o del
Sant’Uffizio". Negli stati italiani l’Inquisizione fu abolita durante il
’700, in Portogallo nel
LA DATA FATIDICA: 8 MARZO DEL 2000
Quante le vittime dell’Inquisizione? Alcuni dati forniti da
Borromeo: per l’Inquisizione spagnola, "tra il 1540 e il 1700, su un
totale di 44.674 casi, il numero degli accusati effettivamente mandati sul rogo
corrisponde all’1,8%, al quale va aggiunto l’1,7% di condannati a morte in
contumacia... Dei primi mille imputati che comparvero dinanzi all’Inquisizione
di Aquileia-Concordia (Veneto) dal 1551 al 1647, non più di 5 furono condannati
al rogo. Su 13.255 processi celebrati dall’Inquisizione portoghese tra il 1540
e il 1629, le condanne a morte rappresentano il 5,7%". Insomma, sarebbe
una "leggenda nera" attribuire all’Inquisizione molti milioni di
vittime. Parlando al consesso, papa Wojtyla ha detto che, prima di pronunciare
la "richiesta di perdono", il Magistero ecclesiale deve essere
"esattamente informato circa la situazione (del tempo dell’Inquisizione).
Esso non può appoggiarsi sulle immagini del passato veicolate dalla pubblica
opinione, giacché esse sono spesso sovraccariche di una emotività passionale
che impedisce la diagnosi serena ed obiettiva". Parole sorprendenti.
Infatti, già Lutero diceva: "è contro la volontà dello Spirito che gli
eretici siano bruciati", ma Leone X nel 1520 condannò questa tesi. E, se
in passato taluni hanno esagerato il numero delle vittime dell’Inquisizione, e
seppure si ammetta che essa fu "meno crudele" dei poteri laici, una
cosa è certa: il Tribunale, in nome di Dio e per volontà papale, ha processato,
torturato e mandato al rogo migliaia di "eretici". Dov’era, allora,
la "difesa della vita"? E dove il carisma – rivendicato dai
successori di Pietro, e da nessun altro al mondo – di essere
"infallibili", quando parlano ex cathedra, anche in materia di
costumi? Ma far appiccare il rogo (fosse pure uno solo), e benedire questa
eretica ortoprassi contro l’uomo, non significa bruciare le fondamenta
dell’etica e nel contempo, in realtà, anche il rivendicato carisma?
Questo è il nodo irrisolto della "richiesta di
perdono" preannunciata da papa Wojtyla, e che dovrebbe culminare nel
grande "mea culpa" previsto durante il Giubileo, l’8 marzo del 2000,
mercoledì delle ceneri. Un nodo teologico, storico ed ecclesiale che divide il
Sacro Collegio – scisso tra pochi "colpevolisti" e molti
"innocentisti"; tra chi vuole, e chi no, pentirsi per le repressioni
oggi in atto nella Chiesa cattolica e per gli errori che oggi essa compie – e
dunque incomberà sul prossimo conclave, quale cartina di tornasole che
chiarisce come ogni "papabile" intenda il "pentimento": riforma,
o abile cosmesi, della Chiesa romana?
Articolo tratto dal sito "La strega del Biferno"
IL MANUALE PER CACCIATORI DI STREGHE
Il Malleus maleficarum, pubblicato nel 1486, fu il più
popolare fra i manuali per cacciatori di streghe durante il XVI e XVII secolo.
La sua stesura si deve a due frati tedeschi, Jacob Sprenger e Heinrich Kramer,
persecutori d’eretici.
Il Malleus forniva un avallo teologico alle superstizioni più
grottesche e portò alla tortura e alla morte di migliaia di innocenti,
soprattutto donne.
Alle streghe si attribuiva un forte influsso sulla sessualità, e
spesso le si riteneva responsabili di causare infatuazioni inopportune,
impotenza e sterilità.
Per cementare il loro patto con il diavolo, esse dovevano
sovente avere rapporti sessuali con lui, mangiare bambini e fabbricare unguenti
con i loro resti. Una volta stipulato il patto, i gesti magici della strega,
erano un segnale per il demonio, che faceva accadere l’evento sottinteso. Il
demonio era a disposizione della strega in ogni occasione.
Le streghe accusate di malefici venivano di solito torturate
finché confessavano, ma il Malleus raccomandava anche che le confessioni
fossero estorte con promesse di clemenza che, però, venivano poi
invariabilmente disattese.
IL LIBRO NERO DELLE STREGHE
I manuali di magia, erano letti non solo durante il Medio evo,
ma anche nel XVI e XVII secolo. Essi si proponevano di istruire il lettore su
come invocare i demoni senza perdere l’anima e su come usare i nuovi poteri
acquisiti per assicurarsi ricchezza, potere o vendetta.
I manuali fornivano precise indicazioni per disegnare cerchi
magici, per l’uso di amuleti e talismani, per i sacrifici di animali, per la
pratica dell’astinenza sessuale, per il modo corretto di fare il bagno in vista
dell’incontro con le schiere diaboliche. La maggior parte dei manuali,
rivendicava la propria antichità, e in effetti molti si rifacevano a famosi
testi greci, egizi, ebraici e latino.
Per molti è difficile prendere sul serio i manuali sulla
stregoneria, poiché le pratiche diaboliche che vi sono descritte appaiono più
ridicole che terrificanti. Eppure, ancora oggi ci sono persone ingenue e
sprovvedute che si rivolgono ai manuali, che vengono tuttora scritti e
pubblicati.
STREGONERIA A WARBOYS
Il villaggio di Warboys trae fama da uno dei più straordinari
casi di stregoneria, verificatosi in Inghilterra. Tutto ebbe inizio nel
novembre 1589, quando Jane Throckmorton, figlia decenne di genitori benestanti,
si ammalò: starnutiva, cadeva in trance "e la pancia le si gonfiava,
sollevandola al punto che non si riusciva a riportarla giù". A nulla
servirono le medicine.
Fra coloro che andava a trovare la bambina, c’era una vicina di
casa, tale Alice Samuel, in sua presente, Jane peggiorava e gridava che Alice
era una strega. Nel giro di due mesi, anche le quattro sorelle di Jane si
ammalarono e accusarono gli stessi sintomi. Anch’esse davanti alla vicina
peggioravano e dicevano che era una strega, ma questa respinse le accuse
dicendo che erano stupidaggini.
La storia giunge all’orecchio della moglie del signore del
paese, lady Cromwell, la quale convocò Alice, la quale negò ogni addebito. Poco
tempo dopo Lady Cromwell accusò attacchi convulsivi e di lì a un anno morì. Le
bambine, intanto, si dicevano tormentate da una "cosa" mandata da
Alice.
I genitori pregarono la donna di ammettere la sua colpevolezza,
affinché le figlie potessero guarire ed ella, nell’interesse delle bimbe, fece
una specie di confessione. Subito le bimbe migliorarono, ma in seguito la
donna, rendendosi conto del pericolo che correva, ritrattò, definendo i
fenomeni puri e semplici capricci infantili.
Alla fine, nel 1593, Alice fu arrestata e impiccata insieme al
marito e la figlia. I disturbi delle bambine cessarono, ma furono in molti a
chiedersi se realmente giustizia era stata fatta o se le accuse erano false.
I FRIULANI CONTRO LE STREGHE
Tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo, in Friuli, si
formò la compagnia dei cosiddetti "benandanti". I benandanti erano
scelti fra i cosiddetti "nati con la camicia", ossia con la membrana
amniotica in cui talvolta sono avvolti i neonati; essa era considerata una
specie di ponte, che l’anima poteva utilizzare per passare dal mondo reale a
quello degli spiriti.
Costoro, d’adulti, sarebbero stati visitati in sogno da un
angelo, che li avrebbe chiamati a combattere.
Le battaglie dei benandanti erano un’esperienza spirituale
collettiva: mentre il loro corpo giaceva a letto in stato di trance, il loro
spirito cavalcava contro le streghe, anch’esse presenti solo in spirito. Se
all’alba, lo spirito non rientrava nel corpo, avrebbe vagato finché questo non
andava incontro alla morte.
Viaggi extra corporei di questo tipo, secondo gli antropologi,
sono ancora praticati dagli Shona nello Zimbabwe e in qualche altra parte
dell’Africa e dell’America. Nel volgere di un secolo, sotto la pressione degli
inquisitori, avvenne spontaneamente l’assimilazione dei benandanti alle streghe
stesse, e i loro convegni notturni si trasformarono in orge e festini
sacrileghi.
IL VODOO
Originariamente vudù nel linguaggio del Dahomey e di Togo,
significava "dio, spirito, oggetto pieno di potere. Il vudù si pratica
invocando gli dei e gli spiriti, dai quali sono posseduti i sacerdoti, e questo
consente ai fedeli l’accesso alla loro protezione, alle cure e alla
divinazione.
I fedeli vengono a conoscenza della causa delle loro sventure, e
dei mezzi per neutralizzarla. Fra questi vi sono i gris-gris, sacchetti pieni
d’erbe, oli, capelli, ossa frammenti d’unghia, pezzi di stoffa intrisi sudore e
così via. Gli zombie, sono un aspetto particolare del vudù. Si crede che siano
morti privi d’anima fatti vivificare per magia, oppure anime senza corpo.
Ma il vudù non ha solo connotazioni sinistre. New Orleans
rivendica una quantità di re e regine vudù, la più famosa delle quali e Maria
Laveau, una mulatta amata per i sui numerosi atti di bontà, che fecero
dimenticare a molti il lato più oscuro del suo culto, che includeva sacrifici
di animali e lancio di maledizioni.
I SEGNI DELLA STREGONERIA
Demoni minori erano assegnati dal diavolo alle streghe come
servi, e di solito assumevano sembianze di gatti, cani, rospi, civette o topi,
ma mai di colombe o di agnelli bianchi. I demoni-servi potevano cambiare
aspetto a piacimento, se per esempio, la loro padrona era chiusa in una stanza,
essi si trasformavano in minuscoli insetti per raggiungere lo speciale
capezzolo – segno della strega – da cui succhiavano il sangue.
La scoperta di questo segno, era fondamentale per accusare una
donna di stregoneria. A tal fine, cicatrici, verruche e nei erano guardati con
sospetto. In Spagna il segno doveva trovarsi nell’occhio sinistro; in
Inghilterra su un dito; nell’Europa centrale nelle parti intime, specialmente
nella donna; altro segno inconfondibile era la croce sulla pianta dei piedi.
I cacciatori di streghe esaminavano i corpi degli accusatori e
sottoponevano il "segno" alla prova, pungendolo con uno spillone:
l’assenza di dolore o di sangue confermava il patto con il diavolo. Un vero
specialista di questo metodo era il famoso Hopkins, che con i suoi assistenti,
eliminò almeno 230 persone fra il 1645 e il 1646. Usava probabilmente aghi
retrattili , che simulavano la puntura ritraendosi nel manico.
STREGHE VOLANTI
Nel 1609, durante una caccia alle streghe a Pays de Labourd,
nella Francia, l’inquisitore Pierre de Lancre ottenne una confessione
straordinaria. Sotto tortura, la diciassettenne Maria Dindarte affermò che la
notte del 27 settembre si era spalmata un unguento e aveva preso il volo.
Molti, durante il Medio evo, credevano che certe donne cavalcassero bestie.
Per anni la chiesa deplorò tali credenze, imponendo penitenze;
poi cambiò atteggiamento. Nel XVII secolo, papa Alessandro IV stabilì che
l’eresia era implicata nella stregoneria e dal XVI secolo chi negava
l’esistenza delle streghe che volavano di notte poteva essere condannato per
stregoneria. I siciliani, credevano che il giovedì notte, le streghe
abbandonassero il proprio corpo nel letto, e si recassero in volo nell’oscurità
per danzare e far festa con le anime dei morti.
Secondo la chiesa questi viaggi notturni erano opera di satana.
Nel corso del XVI e del XVII secolo molte donne confessarono di recarsi in volo
ai sabba, e anche qualche uomo fu trasportato. A poco a poco, i mezzi di
trasporto inclusero sedie, pale, bastoni, e scope spalmate di belladonna,
aconito, cicuta e altre piante velenose. La sostanza oleosa degli unguenti, si
diceva fosse ricavata dal grasso bollito di bambini non battezzati, rapiti o
esumati dalle tombe. Oggi si ritiene che i voli fossero frutto di allucinazioni
prodotti dall’assunzione di droghe, oltre che di sbrigliata fantasia.
Nel 1558, lo scienziato e letterato napoletano Giambattista
della Porta osservò una strega che, dopo essersi spalmata un unguento, cadde in
trance; svegliatasi, affermò di aver volato, benché egli non avesse visto il
corpo muoversi. Nel 1527, Avellaneda, inquisitore della regione basca, poco
prima della mezzanotte di un venerdì, mandò alcuni uomini in una locanda per
torturare una strega.
La donna fu portata in una camera e "si unse come al solito
con un unguento velenoso, e andò a una finestra posta in alto, chiese aiuto al
diavolo, che venne, la prese e la portò a terra". Uno degli uomini,
terrorizzato, invocò il nome di Cristo, al che la strega e il diavolo
sparirono. Qualche giorno dopo la strega fu catturata in un’altra città.
UN’EPIDEMIA DI STREGONERIA
Le autorità svedesi furono colte in contropiede quando, a Mora,
il 5 luglio 1668, il quindicenne Eric Ericsen, accusò la diciottenne Gertrud
Svensen di rapire bambini per conto del diavolo. I bambini raccontarono tutti
la stessa storia: il diavolo, aveva promesso di ammettere le streghe ai suoi
sabba, a condizioni che portassero con sé i propri figli e quelli dei vicini.
Al Blocula – un bel prato, il cui ingresso era noto solo al
demonio e ai suoi accolti – le streghe firmavano con il loro sangue il registro
degli ospiti del diavolo, venivano battezzate nel suo nome e gli giuravano
obbedienza. Dopodiché gli adulti festeggiavano, mentre i bambini stavano in
piedi contro un muro. Seguivano musiche e danze, e ogni strega, a turno, si
abbandonava a intimi sollazzi con il maligno. Si credeva a qualsiasi accusa,
per quanto assurda.
Se un bambino accusava una donna, la si arrestava, credendo che
i bambini non siano capaci di mentire. Furono identificate 70 streghe: 23
confessarono e furono arse vive; le altre 47 furono mandate nella vicina Falun,
dove anch’esse furono bruciate.
I bambini accusarono anche alcuni loro compagni e 15 di questi
furono bruciati, altri 40 dovettero correre fra due file di uomini armati di
fruste, e in seguito furono frustati sulle mani una volta la settimana per un
anno intero. L’incredibile assurdità delle accuse, l’orribile tributo di morti
e la spietatezza dei castighi, fanno della psicosi delle streghe di Mora un
terribile esempio di dove possa portare la credulità male indirizzata.
I SABBA DELLE STREGHE
Era opinione comune che i sabba fossero occasioni importanti, in
cui le streghe incontravano il diavolo per adorarlo, riceve istruzioni e
abbandonarsi a orge di ogni genere. Migliaia di donne affermano di avervi preso
parte, quando stavano invece dormendo nei loro letti. Le confessioni venivano
estorte con la tortura.
Alcune donne confondevano le proprie fantasie e paure con la
realtà, altre volevano vendicarsi di qualcuno. Spesso un’imputata era costretta
a denunciare altre partecipanti al sabba. Le descrizioni di ciò che vi accadeva
erano molto varie, ma la sostanza era abbastanza costante. Le streghe si
recavano al sabba con il favore della tenebre, con mezzi dei trasporto magici,
spesso a cavallo di manici di scopa. Giuravano fedeltà al diavolo, riferivano
sulle loro attività malefiche, poi banchettavano, danzavano e si abbandonavano
a licenziosità di ogni genere.
Pierre de Lancre, il grande cacciatore di streghe francese
dell’inizio del XVII secolo, riportò molte descrizioni di feste orgiastiche
nelle province basche. Lì le streghe praticavano anche il vampirismo sui
bambini, violavano le tombe e divoravano i cadaveri. Altrove predominavano il
sacrilegio e la bestemmia: le ostie venivano profanate in tutti i modi
possibili. Si riteneva che il sabba si svolgesse regolarmente il 31 ottobre, il
30 aprile e ognuna delle quattro festività pagane che erano assorbite nel
cristianesimo. Il numero dei partecipanti era lasciato alla fantasia dei
cacciatori di streghe.
LE STREGHE DI SALEM
Una delle più grandi esplosioni di isteria collegata alla
stregoneria, fu quella degli intorno al
Gli inquisitori accolsero la tesi che il demonio si servisse di
gente cattiva per far del male ai buoni e che, per proteggere i suoi malefici
aiutanti, egli creasse fantasmi di costoro in modo che, mentre i cattivi
tormentavano le vittime, le loro immagini comparivano altrove, occupate in
attività innocenti. Fattore che vanificava ogni alibi difensivo. Durante questa
parodia di giustizia vennero impiccate 19 persone. L’ultima sentenza capitale
fu eseguita nel settembre del 1692.
A creare questa atmosfera di panico aveva contribuito in gran
parte Cotton Mather un eminente prelato. Infatti, quando il caso di Salem
cominciò a smorzarsi, fu Mather a servirsi di Margaret Rule per riaccendere
l’interesse. Oltre ad altri comportamenti anomali, ella aveva avuto un attacco
di convulsione nella chiesa di Mather, che aveva subito diagnosticato una
possessione diabolica e fatto pressione sulla ragazza perché denunciasse le streghe
sfuggite ai processi.
Ma, la ragione prevalse e si evitò un’altra ondata di isterismo.
Quattro anni dopo i processi di Salem, i giurati firmarono una confessione in
cui dichiaravano di essersi sbagliati, chiedendo perdono.
VITTIMA DI UN INCANTESIMO
Fatti straordinari cominciarono ad accadere il 22 agosto
Poi parlava con persone che nessun altro, nella stanza, vedeva,
o veniva sbatacchiata contro le pareti e volava per i corridoi senza toccare
terra. Sentiva dolori terribili in alcune parti del corpo, su cui apparivano
ferite da pugnale e segni di morso. Vomitava ciuffi di capelli, manciate di
paglia, fieno sporco di letame, cenere, spilli ricurvi e ossi di pollo.
Ma in quelle crisi la bambina coinvolse 26 persone, facendo i
nomi e raccontando di averle viste prendere parte a riti e danze con un uomo in
nero, che ella affermava essere il diavolo, il quale, diceva, tentava di farle
rinnegare i voti battesimali. Pur riluttanti, i religiosi chiesero che le 26
persone fossero arrestate per stregoneria. A ogni arresto, i dolori e i
tormenti che Christian aveva collegato a quella particolare persona, cessavano.
I processi agli imputati ebbero inizio nel marzo del 1697.
Alcuni furono dichiarati colpevoli e impiccati, altri furono
rilasciati per mancanza di prove; i restanti rimasero in prigione e ne uscirono
qualche anno dopo. In quanto a Christian, non si trovò altra spiegazione che la
stregoneria per i suoi disturbi e per la loro scomparsa non appena i processi
ebbero inizio.
NOSTRADAMUS
Michel de Notredame, noto con il nome latinizzato di
Nostradamus, nasce in Provenza nel 1503. Studiò medicina a Montpellier, curò
con coraggio e disponibilità molti appestati. Verso il 1524, sposò una donna
bella e ricca, dalla quale ebbe due figli. Purtroppo, la peste uccise tutta la
sua famiglia.
Il suo interesse per la magia e l’occultismo lo portò a
viaggiare in lungo e in largo e la sua fama di veggente si diffuse molto
presto.
Era in Italia quando avrebbe incontrato un monaco e si sarebbe
inginocchiato davanti a lui, chiamandolo "Sua Santità".
Circa 45 anni dopo, il monaco sarebbe diventato papa Sisto V.
Nel 1554 si risposò con una ricca vedova, che gli diede sei
figli, e l’anno dopo iniziò a pubblicare le sue profezie.
Per le sue divinazioni, Nostradamus usava un metodo antico: di
notte, guardava in una ciotola d’acqua posata su un tripode di ottone, finché
l’ispirazione non s’impossessava di lui: allora, udiva e vedeva gli eventi
futuri.
I pronostici venivano espressi in quartine che, a gruppi di 100,
formano le Centurie, eccetto la settima centuria, che ne comprende 42.
L’ordine cronologico è deliberatamente confuso, ma molte
quartine sembrano confermare eventi verificatisi nella realtà.
Sembra che Nostradamus abbia predetto il destino di Napoleone;
la rivoluzione americana e la guerra di secessione; l’abdicazione di Eduardo
VIII; gli assassini di Abramo Lincoln, John F. Kennedy e Robert Kennedy, il
successo, in Iran, dell’ayatollah Khomeini.
Malgrado una così lunga durata della sua influenza, Nostradamus,
che credeva che la conoscenza e l’intervento umano permettesse di mutare
l’avvenire, sarebbe molto deluso nel constatare quanto poco siano serviti
all’umanità i suoi pronostici per evitare i disastri in cui è incorsa.
UN MISTERIOSO MANOSCRITTO
I libri sono, per definizione, destinati a essere letti. Ma
questo non è certamente il caso del misterioso " Manoscritto
Voynich", che prese il nome da Wilfred Voynich, un libraio antiquario
americano, che acquistò la singolare opera nel 1912 da una scuola di gesuiti
vicino Roma.
Le sue origini e il suo autore restano ignoti, sebbene esso
fosse accompagnato da una lettera del 19 agosto del 1666, di Johannes Marcus
Marci, rettore dell’Università di Praga, ad Atanasio Kircher, uno studioso
gesuita. Secondo la lettera, il manoscritto era opera dello scienziato del XIII
secolo Ruggero Bacone.
Il manoscritto, un volume in ottavo, di soli 15x23 cm, consiste
in 204 pagine (altre 28 pagine sono andate perdute), ciascuna piena di disegni
a colori e di annotazioni scritte a mano in un codice segreto. Nonostante gli
sforzi degli studiosi, non si sa in che lingua sia scritto o cifrato, o quale
fosse l’intento del suo autore.
A prima vista si direbbe un erbaio medievale, che descrive la
raccolta e la preparazione delle piante medicinali, con numerose mappe
astronomiche e diagrammi, il tutto decorato da curiosi piccoli nudi femminili.
Ma la maggior parte delle piante illustrate è immaginaria, una flora di pura
invenzione.
Quando la vedova di Voynich morì a 96 anni, nel 1960, il
manoscritto fu acquistato da un altro libraio antiquario, che lo donò alla
biblioteca dell’Università di Yale nel 1969, dove si trova tuttora, con i suoi
segreti mai letti, in attesa di essere tradotti da qualche futuro scrittografo.
Di Filippo Gentiloni
Il 15 luglio 1099, esattamente nove secoli fa, i crociati
entravano in Gerusalemme e conquistavano i "luoghi santi". Immersi
come siamo in un mare di celebrazioni giubilari – anniversari, centenari,
millenari – forse è bene non dimenticare anche questo compleanno. Sia perché
questa "madre" ha dato poi vita ad una serie infinita di crociate,
più o meno eroiche e sanguinose; sia perché quella conquista di novecento anni
fa ha determinato e condizionato, per secoli, i rapporti fra Oriente e
Occidente, fra cristiani e "barbari". E ha fortemente condizionato
anche il nostro modo di essere cristiani.
"Dio lo vuole" tuonava Pietro l’Eremita. Ma, chissà se
lo voleva veramente? E se quei luoghi erano veramente così "santi"?
Non aveva forse detto Gesù che i "veri adoratori" avrebbero adorato
non più su monti o colli "santi", ma dovunque? E tutto quel sangue
non ha contaminato e resa infetta per secoli la tradizione cristiana? Sangue
che davvero – come qualcuno aveva detto molto prima sul Golgota – è ricaduto
sui figli e sui figli dei figli. Ricordando quella data, anche chi non è
storico di professione non può non porsi alcuni interrogativi che riguardano
l’oggi. Come mai, prima di tutto, la forza di questa tradizione crociatesca? Come
mai è così scarso il pentimento, è così reticente la vergogna? È vero che è in
atto un discreto processo di revisione: ci dicono che le crociate non furono
una semplice conquista da parte cristiana, che ebbero motivazioni economiche
oltre che ideologiche, che è superficiale vederle come una semplice partita fra
vincitori – i cristiani – e vinti, i musulmani; ci dicono soprattutto che dalle
crociate ebbe inizio una scambio positivo fra Occidente e Oriente, un
reciproco, anche se difficile, colloquio. Tutto vero, ma non basta. Lo stesso
termine "crociata" è divenuto un termine comune nel vocabolario
cristiano. Purtroppo. Ha indirizzato la storia, sollevando muri e barricate,
alzando bandiere sui pennoni più alti, determinando atteggiamenti. Ha scavato
fossati fra il bene e il male, fra il vero e il falso. Fossati profondi, da
superare soltanto – se possibile – sparando, emarginando, escludendo, se
necessario uccidendo. Infedeli, ma anche eretici e scismatici. La verità lo
esige, Dio lo vuole. Siamo asserragliati all’interno di una fortezza, come,
allora, i cristiani in quella di San Giovanni d’Acri. Il modello
"crociata", inaugurato nove secoli fa, regge ancora.
Come mai? Chiederselo significa celebrare correttamente il nono
centenario di quel "glorioso" 15 luglio 1099. Lo spirito
"crociatesco" si alimenta di alcuni concetti che sorreggono come
pilastri l’edificio di molte fedi religiose, fra cui quella cristiana. Due fra
i pilastri incriminati sono essenziali: verità e identità. Reggono l’edificio,
spingono a partire per le crociate, oggi come nove secoli fa.
Da una parte la sicurezza che gli altri stanno nel torto e che
quindi la crociata è per il loro bene. Porta non tanto sangue e dolore quanto
luce e bene. Dall’altra l’identità che significa gruppo, compattezza, unione,
solidarietà. Anche, se volete, chiesa. Bene identificato e saldo nel vero, il
gruppo guidato dal Goffredo di Buglione di turno parte verso la conquista di
una terra che, se non era già "santa", ora lo può divenire. Non è una
ricostruzione fantastica: è una parte consistente della nostra storia di ieri e
della nostra realtà di oggi.
Ricordiamo la crociata del 1099 perché vogliamo una fede senza
crociate. Non una negazione della verità e non un appiattimento di tutte le
posizioni in una informe marmellata. Una verità dialogica, in cammino, che vive
non delle battaglie ma del confronto. Una verità che "si fa"
nell’amore, come dice un famoso testo biblico. E così per l’identità che non si
deve negare, ma che vive e si struttura nella conoscenza e nel confronto con
l’altro che mi fa essere me stesso. Non una identità Narciso, non una verità
ingessata. È la sfida che attende nel secolo XXI tutte le fedi.
Di Giovanni Del Col
Direttore delle Catacombe di San Callisto
Dopo una visita virtuale o reale alle catacombe cristiane di
Roma, la lettura di libri e la visione di videocassette su di loro viene
spontaneo chiedersi: qual è l’importanza delle catacombe cristiane di Roma
sotto l’aspetto storico-archeologico e quale sotto l’aspetto
religioso-spirituale? La prima e più immediata impressione è che le catacombe
sono la prova storica che la Chiesa delle origini fu una Chiesa di martiri. I
martiri furono moltissimi e le catacombe ne conservano la testimonianza. In
questa traccia ci proponiamo di approfondire l’argomento sul numero dei martiri
romani, sul significato e valore del martirio, sulle cause delle persecuzioni e
sul loro svolgimento.
Un altro aspetto dell’importanza delle catacombe è la loro
testimonianza sulla vita della Chiesa primitiva, sulla continuità della nostra
fede con quella dei primi secoli, sulla loro spiritualità e sull’attrattiva che
le Catacombe hanno esercitato sui cristiani nel corso dei secoli.
Quanti furono i martiri?
Non ne conosciamo il numero esatto. Gli storici ritengono che
furono approssimativamente alcune migliaia; gli Atti dei Martiri, che sono i
protocolli giudiziari dei processi ai cristiani, ci hanno conservato il ricordo
di tanti martiri, ma non possiamo trarre da loro una lista completa dei
martiri.
Secondo Tacito, nella grande persecuzione scatenata da Nerone,
essi furono una "ingens multitudo". S. Clemente Romano parla di
"una grande moltitudine di eletti". Il martirologio Geronimiano ne
enumera ben
Accenniamo brevemente ai martiri più conosciuti delle catacombe
romane aperte al pubblico. Nella sola catacomba di S. Callisto furono sepolti
ben 46 martiri, conosciuti per nome. Tra questi i papi martiri Zefirino, Ponziano,
Fabiano, Sisto II, Eusebio, Cornelio; i quattro diaconi dei papa Sisto II,
Santa Cecilia, Santa Sotere, Marco e Marcelliano, Calocero e Partenio, Cereale
e Sallustio,Tarcisio,ecc.
A Domitilla i martiri Nerco ed Achilleo; a S. Sebastiano lo
stesso titolare della catacomba S. Sebastiano e S. Massimo; a Priscilla i
martiri Felice e Filippo, Marcellino papa, Crescenzione, Prisca, Paolo, Mauro,
Simetrio e molti loro compagni; a S. Agnese la martire fanciulla e S.
Emerenziana. Anche le altre catacombe, situate lungo le vie consolari,
conservano il ricordo di numerosi martiri. Ai martiri conosciuti per nome e
venerati nella Chiesa dei primi secoli dobbiamo aggiungere il numero certamente
molto più grande dei martiri ignoti sepolti nelle catacombe. I martiri
appartengono ad ogni categoria d’età, sesso, provenienza sociale, mestiere e
cultura. Essi costituiscono modelli per i cristiani di ogni luogo e di ogni
tempo. Sono i testimoni di una fede invincibile, di una fedeltà totale a Cristo
confermata con l’offerta della propria vita.
Significato e valore del martirio.
Il discorso dei martiri ci fa riflettere sul significato e sul
valore del martirio. Martire, dal greco "martire", vuoi dire
testimone e indica chi si sacrifica e soffre o muore per un ideale o per una
missione. Il termine fu applicato propriamente ai cristiani dei primi secoli
che hanno affrontato persecuzione e morte a difesa della fede.
La Chiesa delle origini ebbe tanti martiri da meritare il titolo
di "Chiesa dei martiri" e quei secoli di persecuzione furono detti
"l’era dei martiri" (Aera Martyrum).
L’importanza e la valenza ecumenica dei martirio nella Chiesa
delle origini, come pure nella Chiesa del nostro tempo, è stata fortemente
rilevata dal papa Giovanni Paolo Il nella Lettera Apostolica "Tertio
Millennio Adveniente": " La Chiesa del primo millennio nacque dal
sangue dei martiri "Sanguis martyrum semen christianorum"
(Tertulliano). Gli eventi storici legati alla figura di Costantino Il Grande
non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della Chiesa quale si verificò
nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per
quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane.
Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata
nuovamente Chiesa di martiri.
Le persecuzioni nei riguardi dei credenti – sacerdoti, religiosi
e laici – hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo.
La testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta
patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti, come
rilevava già Paolo VI nella omelia per la canonizzazione dei martiri ugandesi.
È una testimonianza da non dimenticare. La Chiesa dei primi
secoli, pur incontrando notevoli difficoltà organizzative, si è adoperata per
fissare in appositi martirologi la testimonianza dei martiri. Tali martirologi
sono stati aggiornati costantemente attraverso i secoli… Nel nostro secolo sono
ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi "militi ignoti " della
grande causa di Dio … Occorre che le Chiese locali facciano di tutto per non
lasciar perire la memoria di quanti hanno subito il martirio… Ciò potrà avere
anche un respiro e un eloquenza ecumenica. L’ecumenismo dei santi, dei martiri,
è forse il più convincente".
LE PERSECUZIONI E LE LORO CAUSE
Lasciando agli studiosi la presentazione storica di questo
periodo glorioso della diffusione del Cristianesimo, ci limitiamo qui ad
elencare brevemente le varie persecuzioni e i loro responsabili. 1 testi di
storia della Chiesa, come quelli specifici sulle persecuzioni, riportano ampie
bibliografie alle quali rimandiamo per uno studio approfondito dell’argomento
in questione. Fin dalla sua origine il cristianesimo si diffuse rapidamente in
tutto l’impero romano, esercitando un fascino irresistibile in ogni classe
sociale. Esso infatti proponeva uno stile di vita nuovo, fondato sulla libertà
e sull’amore: uno stile che si differenzia radicalmente da quello della società
e della religione romana.
La religione cristiana fu totalmente rifiutata dai Romani, posta
fuori legge come "strana, illecita, perniciosa, malvagia, sfrenata, nuova
e malefica, oscura e nemica della luce, detestabile" e perseguitata, anche
se non in una forma continua e generale. Come è possibile che la religione per
eccellenza della giustizia e dell’amore sia stata giudicata così duramente e
perseguitata sia dagli imperatori e dall’autorità politica come anche dalla
gente comune, dai pagani che convivevano con i cristiani?
I primi secoli del Cristianesimo segnano il passaggio dalla
civiltà romana pagana alla civiltà cristiana. Le due civiltà si presentano in
antitesi nei loro principi, esigenze e giustificazioni. Il processo di
transizione si attua attraverso alterne vicende che provocarono urti e
resistenze presso gli organi di governo politico, l’imperatore e il Senato e
presso le stesse masse popolari. In realtà le persecuzioni sono la
manifestazione della lotta del mondo pagano contro la religione cristiana.
La religione cristiana è una religione nuova, soprannazionale,
universale, liberatrice. I suoi principi investono tutta la vita dell’uomo e
della società. I cristiani infatti sanciscono l’indissolubilità del matrimonio
ed esaltano la fedeltà coniugale e il valore della verginità; il culto
all’unico Dio, con il rigetto di ogni altra divinità; affermano il principio
della libertà e dignità di ogni uomo, rifiutando ogni forma di sfruttamento del
prossimo, in particolare della schiavitù che costituiva il necessario supporto
della società romana; diffondono la dottrina dell’immortalità dell’anima e
della vita futura, oltre la morte; praticano una morale severa, e svolgono
un’intensa opera caritativa, specialmente verso i bisognosi e gli schiavi, tale
da suscitare il riconoscimento e l’ammirazione degli stessi avversari pagani.
Tutti questi principi di libertà, di eguaglianza, di giustizia,
di carità sono valori insoliti e in parte sconosciuti e incomprensibili al modo
di pensare e di vivere pagano. La filosofia e la cultura pagana manifestano
disprezzo verso la religione cristiana, ritenuta religione di barbari e di
incolti. Per confutare l’ingiustizia delle persecuzioni e l’incomprensione
della cultura pagana, gli Apologisti scrivono le difese dell’innocenza dei
cristiani, della loro fedeltà alle leggi e all’imperatore e della loro
partecipazione attiva alla vita della società romana ed affermano il valore
della dottrina e dell’ideale di vita cristiani, in sostanza la superiorità
della religione cristiana su quella pagana.
Una delle cause principali delle persecuzioni fu appunto il
contrasto tra le due religioni pagana e cristiana. La religione cristiana fu
quindi considerata come il nemico più pericoloso dell’impero, perché ostacolava
la restaurazione delle tradizioni e dei potere di Roma, basato sull’antica
religione e sul culto dell’imperatore, strumento e simbolo dell’unità
dell’impero. Le persecuzioni hanno quindi un motivo religioso-politico. La
religione cristiana è nuova e rivoluzionaria; rifiuta la religione tradizionale
di Roma. Per questo il governo romano, generalmente così aperto e tollerante
verso le religioni straniere, si dimostrò sovente ostile e intransigente verso
la religione cristiana, per la differenza radicale tra la religione cristiana e
le altre religioni.
Inoltre le altre religioni erano considerate sostanzialmente
come un affare privato, senza importanza sociale e politica. Esse si
abbassarono infatti al compromesso, adattandosi al culto ufficiale
dell’imperatore. Invece la religione cristiana lo rifiutava decisamente, perché
ciò avrebbe costituito un atto di empietà, una negazione di Dio.
Secondo molti studiosi, il fondamento giuridico delle
persecuzioni è il Senato-consulto dell’anno 35, quando l’imperatore Tiberio
propose al Senato di Roma la "consecratio Christi", cioè il
riconoscimento della sua divinità e quindi la legittimità dei suo culto. Il
senato romano respinse la proposta e dichiarò la religione cristiana
"illecita ". "Non licet esse christianos". Con il suo
"veto" Tiberio si oppose all’applicazione del decreto dei Senato.
Così il decreto rimase lettera morta fino a Nerone, che per salvarsi
dall’accusa di aver incendiato Roma ne scaricò la colpa sui cristiani,
accusandoli di praticare una religione nuova e malefica. Sul loro conto furono
diffuse tra la gente comune le calunnie più fantasiose ed infamanti, che
fomentarono l’odio e il furore popolare. Sono i "flagitia", le
infamie vergognose attribuite ai cristiani, pratiche atroci ed oscene.
Travisando mostruosamente la cena eucaristica, i cristiani
furono accusati di cannibalismo e di infanticidio; furono accusati di incesto
per l’uso di chiamarsi fratelli e sorelle e di darsi il bacio di pace; di
ateismo e di empietà perché rifiutavano il culto tradizionale agli dei di Roma;
di delitto di lesa maestà (crimen maiestatis) perché non offrivano il
sacrificio all’imperatore; di associazione segreta ed illegale, pericolosa per
l’impero; di odio contro il genere umano, perché ritenuti la causa delle
pubbliche calamità, come la peste, le inondazioni, la carestia, le invasioni
barbariche. Difatti i cristiani si rifiutavano di partecipare alle celebrazioni
religiose in onore degli dei per placarne la maledizione. Per comprendere la
dinamica delle persecuzioni bisogna tenere sempre presente questo atteggiamento
ostile delle masse popolari, anche se, in generale, l’atteggiamento del governo
romano verso i cristiani fu tollerante e talora benevolo.
STORIA DELLE PERSECUZIONI
Le persecuzioni sono un argomento di studio vasto e complesso,
con molti aspetti politici e religiosi che investirono sia la classe dirigente
(imperatore, senato, governatori delle province romane), sia gli stessi
cittadini. Le persecuzioni costituiscono la difesa a oltranza, in parte
utopistica, di un ordine giuridico incapace ormai di garantire la pax romana,
la sicurezza e il benessere delle popolazioni dell’impero.
Quante furono le persecuzioni e per quanto tempo durarono?
Fin dall’inizio, al messianismo politicamente rivoluzionario e
apertamente antiromano dei Giudei, i cristiani opposero un messianismo senza
implicazioni politiche e pacifico; per questo gli organi di governo romani
furono neutrali o addirittura benevoli nei confronti della nuova religione, che
trovava ascolto e simpatia persino in ambienti della classe dirigente. La
svolta decisiva avvenne durante il regno di Nerone (54-68), che accusò i
cristiani dell’incendio di Roma, incriminandoli come membri di una
"superstitio illicita", formula che richiama la dichiarazione del
Senato-consulto dei 35. Pare che questa fosse in sostanza la giustificazione
giuridica di tutte le persecuzioni, anche se si aggiunsero altre motivazioni
politiche e religiose.
La prima grande persecuzione durò quattro anni, dall’incendio di
Roma dei 19 luglio 64 al 9 giugno 68, morte di Nerone.
Seguì un periodo di circa trent’anni di completa tranquillità.
Domiziano (81-96), che aveva accentuato il culto dell’imperatore, negli ultimi
due anni dì vita scatenò un breve persecuzione.
Nel secondo secolo scoppiò una nuova persecuzione sotto Traiano
(98-117), per il divieto di costituire società non permesse (le
"eterie").La quarta grande persecuzione avvenne al tempo
dell’imperatore Marco Aurelio (161-180), quando l’impero fu funestato da
carestie e pestilenze e minacciato dai barbari. Di tutte queste calamità furono
accusati i cristiani.
All’inizio del terzo secolo, sotto Settimio Severo (193-21 1) ci
furono altri fenomeni di persecuzione scatenati dal furore popolare contro i
cristiani dichiarati nemici pubblici e accusati di lesa maestà. Non sembra
tuttavia che l’imperatore abbia mai pubblicato un editto di persecuzione. Una
persecuzione più di natura politico-personale che religiosa fu poi ordinata da
Massimino Trace (235-238), che infierì contro i sostenitori, tra cui molti
cristiani, del suo predecessore Alessandro Severo. Nel 244 assunse il potere imperiale
il cristiano M. Giulio Filippo (244-249) che nei cinque anni di regno si oppose
decisamente agli ambienti più intransigenti del paganesimo e al fanatismo delle
folle. Per questo fu da loro odiato e disprezzato come un traditore della
religione e della tradizione pagana.
Il suo avversario Decio (249-251) praticò infatti una politica
di restaurazione dell’antica religione nazionale romana. Con un editto del
249-250 ordinò a tutti i sudditi dell’impero di offrire pubblicamente un
sacrificio propiziatorio ("una supplicatio") agli dei della patria.
Una delle prime vittime fu il papa Fabiano. La persecuzione fu breve, ma
intensissima e generale.
Il successore di Decio, Treboniano Gallo (251-253), in occasione
di una nuova grave pestilenza che devastò tutto l’impero, ordinò sacrifici
espiatori (holocausta), ai quali i cristiani non poterono partecipare,
scatenando così ancora una volta, come reazione, l’odio e il furore del popolo.
Al tempo di Valeriano (253-260) la persecuzione, da individuale
e limitata a determinate regioni, divenne collettiva e generale; cioè il
cristianesimo fu perseguitato in tutto l’impero come chiesa, come gerarchia,
come struttura. Fu imposta la chiusura degli edifici sacri, la confisca dei
cimiteri (editto del 257), la pena di morte per i capi religiosi (vescovi,
preti e diaconi); la perdita della dignità e la confisca dei beni per tutti gli
altri cristiani (editto del 258).
L’anno seguente la persecuzione cessò sostanzialmente con la
cattura dell’imperatore nella guerra persiana (259). La persecuzione fu ripresa
in forma violenta e generalizzata da Diocleziano e Galerio agli inizi del IV
secolo con gli editti dei 303 e 304, che imponevano la distruzione delle
chiese, la consegna dei libri sacri e l’ordine a tutti i cristiani di sacrificare
agli dei, pena la condanna a morte.
Con l’editto di tolleranza del 311 e l’editto di Milano del 313
cessarono le persecuzioni e furono concesse alla Chiesa piena libertà di culto
e di riunione e la restituzione dei beni ecclesiastici confiscati. La religione
cristiana fu così apertamente riconosciuta come "religio licita", ma
sarà solo nel 394 che l’imperatore Teodosio I obbligherà il Senato a decretare
l’abolizione del paganesimo in tutte le sue forme e da quel momento il
Cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’impero romano.
LA VITA DELLA CHIESA DELLE ORIGINI TESTIMONIATA DALLE CATACOMBE
Le catacombe ci fanno rivivere la vita della primitiva Roma
cristiana. È vero che le catacombe sono soltanto dei cimiteri, ma esse ci
parlano con la testimonianza storica di un patrimonio ricchissimo di pitture,
sculture, iscrizioni che illustrano gli usi, i costumi, la vita degli antichi
cristiani, la loro cultura, la loro fede. Infatti ogni comunità che vive,
necessariamente si esprime e traduce la propria fede in documenti scritti o
visivi. I cimiteri, in molte civiltà, sono luoghi dove si "oggettiva"
l’interpretazione della vita e della morte. Così, per esempio, la maggior parte
di quello che conosciamo della cultura egiziana proviene dalle tombe. Le catacombe
non raccontano solo la storia delle persecuzioni, l’olocausto e il culto dei
martiri; presentano anche con chiarezza la fede della Chiesa apostolica e dei
primi secoli. La visita alle tombe degli Apostoli e alle catacombe, memoriale
dei martiri, è un ritorno alle radici, alle sorgenti antiche della fede e della
vita della Chiesa dei primi secoli. Le catacombe ne sono la testimonianza
storica. Esse sono state giustamente definite "la culla del cristianesimo
e l’archivio della Chiesa delle origini" (0. Marchi).
La spiritualità delle Catacombe è cristocentrica, sacramentale,
sociale, escatologica, biblica, nuova e trasformatrice. Essa non è solo una
documentazione della fede della Chiesa primitiva, ma è uno stimolo forte a
rinnovare personalmente la fede e a testimoniarla nella propria vita. I
pellegrini, che ogni giorno visitano le catacombe, ne colgono il valore
apologetico e ritengono la visita una vera esperienza spirituale. Sono
soprattutto i giovani che scoprono il valore religioso delle catacombe. "Le
catacombe non mi erano mai piaciute… ora mi mancano". "Di tutti i
centri religiosi che abbiamo visto, incluse le grandi basiliche, le catacombe
hanno avuto su di noi l’impatto maggiore. La purezza di fede dei primi
cristiani, l’offerta totale della loro vita ci ha umiliati… Ci eravamo
immaginati un luogo buio e repellente; abbiamo trovato un luogo che irraggia
pace e grazia". "La visita ci ha offerto una vera e propria lezione
di vita". "Ricorderò le catacombe come la cosa più bella della mia
vita". "Sono la cosa più bella che abbia mai visitato".
"Alle catacombe ho capito bene tutto il coraggio e l’amore dei Martiri.
Nelle cripte dei Papi e di Santa Cecilia ho capito che di fronte al coraggio di
quegli uomini e donne tutto quello di cui noi siamo capaci e proprio
niente…".
Le catacombe svelano l’intimo segreto della spiritualità della
Chiesa dei primi secoli nella sua giovinezza di conquista e di martirio. Questo
è il motivo per cui fin dall’inizio si sviluppò il culto dei martiri. 1
cristiani sentirono il bisogno di radunarsi presso le loro tombe per
festeggiare la ricorrenza del martirio e invocare la protezione di quei
gloriosi campioni della fede.
Milioni di visitatori da ogni parte del mondo, nel corso dei
secoli, hanno compiuto il pellegrinaggio alle catacombe cristiane di Roma
accolti dai martiri della Chiesa e dagli innumerevoli cristiani che hanno
testimoniato la loro fede nella vita di ogni giorno. È interessante notare che
molti pellegrini hanno anche firmato la visita, incidendo nell’intonaco delle
pareti il loro nome e, talvolta, frasi di invocazione per ottenere la
protezione dei martiri stessi. Sono i graffiti che si vedono numerosi vicino
alle tombe dei martiri.
I pellegrini vengono da ogni contrada dell’impero, dall’Oriente
vescovi illustri come Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Abercio di
Gerapoli e semplici fedeli, perché tutti – al dire di S. Giovanni Crisostomo –
"guardano a Roma con i suoi due luminari Pietro e Paolo, i cui raggi
rischiarano il mondo".
Dai paesi occidentali arrivano pellegrini, fin dalla lontana
Irlanda. Sull’esempio di S. Patrizio (5° sec.), che fu creato da Papa Leone
primate di quella nazione, schiere di pellegrini affrontano a piedi un viaggio
lungo, faticoso e rischioso. Anche dagli altri paesi il flusso dei pellegrini è
notevole e costante. Ricordiamo che dai paesi nordici sono soprattutto i
missionari apostoli che giungono a Roma per attingere alle tombe sante e dal
papa autorità e forza per predicare la fede, riportando talora in patria
reliquie di martiri e di santi.
Dal primo giubileo del 1300 le Cronache degli Anni Santi
registrano la presenza di folle di pellegrini sempre in aumento, che fanno
della visita alle catacombe una meta quasi obbligata del loro itinerario di
fede e di devozione.
Tra i pellegrini meritano particolare menzione quelli divenuti
santi, come S. Brigida di Svezia ( 14° sec.), S. Filippo Neri e S. Carlo
Borromeo (16° sec.), S. Giovanni Bosco, S. Teresa di Gesù Bambino e S. Maria
Mazzarello. Commuove pure vedere nei registri di S. Callisto le firme dei
moderni testimoni della fede, come il Card. Giuseppe Slipy, martire
dell’Ucraina e il card. Giuseppe Mindzenty, primate d’Ungheria.
Il card. Slipy era stato condannato ai lavori forzati in
Siberia, nel durissimo carcere di Mordavia, da dove fu liberato per
interessamento di papa Giovanni nel 1963. Venuto a Roma visitò le catacombe di
S. Callisto, scrivendo che lo faceva "post quadraginta annos miraculosae
liberationis" "dopo 40 anni di una miracolosa liberazione".
I 40 anni risalgono agli inizi degli anni 20, quando i comunisti
assunsero il controllo dell’Ucraina che divenne Repubblica Sovietica
Socialista. "Ho dovuto soffrire – spiegò il Cardinale – di essere
arrestato di notte, tribunali segreti, interrogatori interminabili, sorveglianza
continua, maltrattamenti morali e fisici, umiliazioni, tortura e fame. Mi sono
trovato davanti a inquisitori e giudici perfidi, prigioniero inerme, silenzioso
testimone che, fisicamente e psicologicamente esausto, difendeva la sua Chiesa,
essa stessa silenziosa e condannata a morte. Prigioniero per la causa di
Cristo, trovavo la forza sapendo che il mio gregge spirituale, il mio popolo,
tutti i Vescovi, sacerdoti e fedeli, padri e madri, bambini, gioventù militante
come vecchi inermi, camminavano al mio fianco. Non ero solo". Sembra di
leggere una pagina degli Atti dei Martiri!
Il secondo, arrestato nel 1948, dopo inaudite torture e un
processo-farsa, era stato condannato all’ergastolo. Dopo gli anni di prigione e
il domicilio coatto nell’ambasciata degli USA a Budapest, appena liberato venne
a Roma e visitò di nuovo le catacombe, scrivendo sul registro dei Visitatori
illustri: "Plenus consolationibus fidei prim. suae Ecclesiae – pieno di
consolazioni per la fede della sua Chiesa delle origini". Schiere di
consacrati, personaggi illustri, Re e Regine, Capi di Stato, Autorità civili di
ogni rango e di tanti paesi hanno visitato con interesse e con fede le
catacombe cristiane di Roma. Ma i pellegrini più illustri sono stati i Sommi
Pontefici e questo fin dai primissima secoli dei Cristianesimo, anzi fin dalle
origini stesse delle catacombe. Come non ricordare tra i Papi che hanno amato
le Catacombe lo stesso Papa Callisto, scelto ancora diacono da Papa Zeffirino
quale amministratore e custode del Cimitero ufficiale della Chiesa, le
catacombe che da lui presero il nome? E nel 4° secolo il grande papa S. Damaso,
che curò, abbellì e illustrò con splendide iscrizioni latine le catacombe di
Roma?
Nei secoli bui delle invasioni barbariche i Pontefici assistettero
impotenti alla distruzione sistematica dei monumenti, ai saccheggi e alle
ripetute devastazione delle catacombe. All’inizio dei 7° secolo, S. Gregorio
Magno esclamava: "Ubique mors, ubique luctus, ubique desolatio, undique
percutimur, undique amaritudinibus replemur" "Dovunque la morte, il
lutto, le desolazioni; da ogni parte siamo percossi, da ogni parte ripieni di
amarezze".
I Papi Paolo I, Adriano I, Leone III e soprattutto Pasquale I
furono quindi costretti ad ordinare la traslazione dei corpi dei martiri nelle
chiese della città, per motivi di sicurezza, per evitare la loro profanazione:
nella sola basilica di S. Prassede il 20 luglio dell’817 furono portati ben
2.300 corpi santi. In seguito molti altri furono portati al Pantheon, già dedicato
da Bonifacio IV (608-615) al culto della Vergine col nome di S. Maria ad
martyres.
Dopo le clamorose scoperte delle tombe dei martiri a S.
Callisto, il papa Pio IX istituì la Commissione di Archeologia Sacra (6 -1
-1852) e nel 1854 visitò le catacombe di S. Callisto. Con profonda commozione
sostò in preghiera nella cripta dei Papi, prendendo in mano i frammenti delle
iscrizioni dei suoi predecessori.
Pio XI e Pio XII nel ministero della parola hanno frequenti
riferimenti alle catacombe, gemma che rende bella la Chiesa di Roma. Pio XII
così si esprimeva: "La Roma cristiana vive di vita indistruttibile; la sua
archeologia è l’archeologia della vita e i documenti di vita cristiana nei suoi
primordi e nel suo svolgimento storico, dottrinale, artistico, iconografico,
epigrafico e liturgico, alimenta la nostra Chiesa". Giovanni XXIII fu il
primo papa dopo Pio IX a visitare le catacombe. Raccontò allora di aver
visitato per la prima volta le catacombe di S. Callisto quand’era seminarista
al Laterano e gustava le lezioni dell’insigne archeologo Orazio Marucchi.
Eletto papa, egli aveva detto: "Voglio venire alle catacombe. Devo venire
a pellegrinare e a pregare, come fanno tanti visitatori" e il 19 settembre
1961 il papa poté attuare il suo proposito. La visita – secondo il desiderio
del Pontefice – doveva servire di esempio a tutti i fedeli di Roma.
"La storia della Chiesa – disse allora il Papa – è storia
di lotta, ma anche storia di trionfi. Noi, persone consacrate, ne siamo a
conoscenza più di tutti. Quindi serena fiducia nonostante tutto; Dio è con noi.
La Chiesa di oggi trionferà, come ha trionfato la Chiesa delle Catacombe".
A sua volta il Papa Paolo VI volle visitare due insigni santuari dei Martiri
Romani: le catacombe di Domitilla e quelle di S. Callisto. A S. Callisto il 12
settembre 1965 sostò lungamente in preghiera nella cripta dei Papi e in quella
di S. Cecilia, e raccomandò alle guide di aiutare i pellegrini "a
intravedere l’umile splendore della primitiva testimonianza cristiana".
Infine Giovanni Paolo II già da vescovo (1965) era giunto pellegrino presso le
tombe dei Martiri. Eletto Papa, volle che con lui anche i giovani romani
rinnovassero i sentimenti di fede meditando sulle tombe dei primi cristiani. Il
Papa ha confidato che giovane sacerdote aveva letto "Roma
sotterranea" del grande archeologo maltese Antonio Bosio (1575-1629) e che
riteneva le catacombe una valida testimonianza storica ed apologetica della
Chiesa delle origini.
Le catacombe sono i monumenti archeologia più significativi
della Roma cristiana dei primi secoli. "Questi monumenti – ha affermato
recentemente il papa Giovanni Paolo II, ricevendo, il 7 giugno 1996, i membri
della Commissione Archeologica e i Direttori delle Catacombe – rivestono un
alto significato storico e spirituale. Visitando questi monumenti, si viene a
contatto con suggestive tracce del cristianesimo di primi secoli e si può, per
così dire, toccare con mano la fede che animava quelle antiche Comunità
cristiane… Come non commuoversi dinanzi alle vestigia, umili, ma così eloquenti
di questi primi testimoni della fede?
"Lo sguardo si proietta ora verso lo storico appuntamento
del grande Giubileo, durante il quale le catacombe di Roma assurgeranno a luogo
privilegiato di preghiera e di pellegrinaggio. Insieme alle grandi basiliche
romane, le catacombe dovranno rappresentare una meta irrinunciabile per i
pellegrini dell’Anno Santo"
Già fin d’ora – aveva notato il papa – "le catacombe sono
meta significativa di tanti pellegrini che giungono nella Città eterna".
Non c’è luogo, infatti, più adatto di questo per riaffermare e testimoniare la
propria fede alle soglie del terzo millennio.
Estratti dal libro "La grande Apostasia" di James E.
Talmage
La Perdita storica del Vangelo
Molti anni fa, un dotto esponente della chiesa Cattolica Romana
venne nello Utah e parlò dal pulpito del tabernacolo di Salt Lake City. In
seguito questi divenne amico del fu anziano Orson F. Whitney ed in una
occasione ebbe modo di esprimersi liberamente. Questo studioso, che conosceva
forse una dozzina di lingue, sembrava conoscere tutto su teologia, legge,
letteratura, scienza e filosofia. Un giorno confidò all’anziano Whitney: «Voi
mormoni siete tutti ignorantoni. Non vi rendete neppure conto della forza della
vostra posizione. Questa è così forte che ne esiste soltanto un’altra di pari
forza nel mondo cristiano, e cioè quella della chiesa Cattolica. La battaglia
si sta combattendo tra il cattolicesimo ed il Mormonismo. Se abbiamo ragione
noi, avete torto voi, se avete ragione voi, abbiamo torto noi: i protestanti
non hanno un palmo di terreno su cui poggiare, in quanto, se noi siamo
nell’errore, essi sono nell’errore con noi, dal momento che essi facevano parte
della nostra chiesa e se ne sono allontanati; se invece siamo nel giusto, essi
non sono che apostati che abbiamo cacciato lontano da noi tanto tempo fa. Se,
come asseriamo, siamo i depositari della successione di Pietro, non c’è alcun
bisogno di Joseph Smith e del mormonismo. Ma se non siamo i depositari di questa
successione, allora un uomo come Joseph Smith era necessario e la posizione del
mormonismo è la sola che abbia consistenza. Possiamo avere soltanto o la
perpetuazione del vangelo dai tempi antichi, o la restaurazione del vangelo
negli ultimi giorni».
Avendo discusso l’argomento dell’apostasia, o allontanamento
della verità, attraverso le scritture, adesso cercheremo di fare un’analisi di
questo grande problema descritto dalle scritture, attraverso una analisi
storica, che documenteremo con avvenimenti facilmente riscontrabili presso
tutti i testi accreditati della storia comune.
ALCUNE FONTI AUTOREVOLI D’INFORMAZIONE SULLA STORIA
ECCLESIASTICA
Eusebio.
Eusebio di Cesarea. Egli nacque intorno al
Mosheim.
Il dottor J.L. von Mosheim, cancelliere dell’Università di
Gottingen,scrittore tedesco, famoso per i suoi contributi alla storia della
chiesa. Egli è autore di una esauriente opera "Istituzioni di Storia
ecclesiastica" (6 Volumi) datata 1755. Milner Rev. Joseph Milner. Autorità
inglese sulla storia della chiesa, ed autore di una esauriente opera
"Storia della chiesa di Cristo".
CAUSE DELL’APOSTASIA (CAUSE ESTERNE)
Prenderemo ora in esame, e vedremo come operarono, alcune delle
cause principali che determinarono l’apostasia o allontanamento dalla verità.
Le condizioni esterne che operarono contro la chiesa, tendendo a limitarne lo
sviluppo e contribuendo al suo declino, possono essere indicate con il termine
generale di "persecuzioni".
È un fatto storico incontrastato ed incontrastabile che, dal
tempo del suo inizio fino a quello della sua reale cessazione, la Chiesa
istituita da Gesù’ Cristo fu oggetto di violente persecuzioni. Se queste ultime
debbano essere considerate fra le principali cause dell’apostasia, è una
questione che vale la pena di trattare. Non sempre l’opposizione è distruttiva:
al contrario, essa in certi campi può contribuire al miglioramento di
specifiche situazioni. Le persecuzioni possono spingere a maggior zelo
dimostrandosi così un potente fattore di progresso. Un proverbio tuttora valido
dice che: "il sangue dei martiri è il seme della chiesa". Ma i
proverbi e gli adagi, gli aforismi e le parabole, pur se veri in generale, non
sempre si applicano a condizioni particolari. Indubbiamente le persistenti
persecuzioni cui la chiesa ai suoi albori era fatta segno, indussero molti suoi
adepti a rinunciare a quella fede e ritornarono alle loro precedenti
convinzioni, fossero esse giudaiche o pagane. Così i membri della chiesa
diminuirono. Ma questi episodi di apostasia della chiesa possono essere
ritenuti diserzioni individuali e relativamente poco importanti nei loro
effetti sulla chiesa stessa come organismo. I pericoli che in generale
intimorivano, in certi individui determinavano una decisa presa di posizione; i
ranghi disertati dai deboli disaffezionati venivano riempiti dai convertiti
zelanti. Ripetiamo che l’apostasia della chiesa è insignificante se paragonata
all’apostasia della chiesa come istituzione. Le persecuzioni contro la chiesa di
Cristo come una delle cause dell’apostasia influirono indirettamente ma
efficacemente.
Un’altra ragione per fare qui un breve sommario delle
persecuzioni di cui la chiesa nascente fu vittima, è quella di offrire la base
per un facile confronto fra queste persecuzioni e quelle condotte dalla chiesa
apostata stessa nei secoli successivi. Scopriremo che le sofferenze della
chiesa nei giorni della sua integrità sono superate dalle pene crudeli
perpetrate nel nome di Cristo. Inoltre, lo studio delle prime persecuzioni ci
permetterà di contrapporre le condizioni di opposizione e di miseria con quelle
di agiatezza e di abbondanza che influirono sull’integrità della chiesa e sulla
devozione dei suoi adepti.
Le persecuzioni cui la chiesa primitiva andò soggetta furono di
duplice origine: giudaiche e pagane. Si deve ricordare che gli Ebrei si
distinguevano fra tutte le nazioni dell’antichità perché credevano
nell’esistenza di un Dio vivente. Il resto del mondo prima ed al tempo di
Cristo era idolatra e pagano, dichiaratamente credente in un esercito di
divinità, senza tuttavia riconoscere un Essere Supremo quale persona vivente.
Gli ebrei erano molto aspri nella loro opposizione al Cristianesimo, che
consideravano come una religione rivale della loro; ed inoltre, essi riconoscevano
il fatto che se il Cristianesimo giungeva ad essere accettato generalmente come
depositario della verità, la loro nazione sarebbe stata giudicata colpevole di
aver messo a morte il Messia.
Questa qui di seguito è una dichiarazione di B.H.Roberts
("A new witness for God" pagina 47-48): «Non vi sorprenda il fatto
che io classifichi quelle persecuzioni fra i mezzi con cui la chiesa fu
distrutta. La furia della collera pagana era diretta ai capi ed agli uomini
forti del corpo religioso; ed essendo tali persecuzioni durate parecchio ed
inoltre essendo state condotte con inesorabile crudeltà, coloro che erano più
tenaci nella fedeltà alla chiesa ne divennero le vittime più sicure. Quando
queste persone furono abbattute, non rimasero che i deboli a lottare per la
fede, e questo rese possibile quelle successive innovazioni nella religione di
Cristo che il comune sentimento pagano esigeva. Tali innovazioni mutarono così
profondamente la religione cristiana, sia nello spirito che nella forma, da
minarla totalmente. Nessuno deve sorprendersi che in questo caso sia permesso
alla violenza di operare. La convinzione secondo cui in questo mondo il bene
trionfa sempre, che la verità è sempre vittoriosa e che l’innocenza è sempre
protetta dal cielo è una cara vecchia favola con cui gli uomini ben
intenzionati hanno continuato ad allettare un gran numero di persone credule.
Ma i crudi fatti della storia (ed anche delle scritture "e le fu dato di
far guerra ai santi e di vincerli" Apocalisse) e dell’esperienza reale
della vita correggono questa piacevole illusione. Non fraintendetemi: io credo
nella vittoria finale del bene, nel trionfo definitivo della Verità,
nell’immunità finale dell’innocenza dalla violenza. Alla fine l’innocenza, la
Verità ed il bene saranno più che dei conquistatori, essi vinceranno la guerra,
ma questo non impedirà loro di perdere qualche battaglia. Si dovrebbe sempre
ricordare che Dio ha dato all’uomo il libero arbitrio, e questo fatto significa
che un uomo è libero di agire sia con malvagità che con giustizia. Caino era
libero di uccidere suo fratello, quanto lo era quest’ultimo di adorare Iddio. E
così come i pagani e gli ebrei erano liberi di perseguitare ed uccidere i
Cristiani allo stesso modo i Cristiani erano liberi di vivere virtuosamente ed
adorare Cristo come Dio. Il libero arbitrio dell’uomo non varrebbe il suo nome
se non concedesse ai malfattori la libertà di riempire il calice della loro
iniquità, e, ai virtuosi, di completare la misura della loro rettitudine.
Questa perfetta libertà, o azione spontanea, è un dono di Dio all’uomo, ed essa
è modificata in varie maniere perché queste non ostacolino i Suoi Fini
generali».
Questa invece è una dichiarazione di Mosheim ("Istituzioni
di Storia ecclesiastica" 1 secolo parte 1 5:1): «L’innocenza e la virtù
che caratterizzavano così considerevolmente la vita dei servi di Cristo, nonché
la purezza della dottrina insegnata dagli apostoli, non erano sufficienti a
difenderli dalla mordacità e dalla malvagità dei giudei. I sacerdoti ed i
governanti di questo popolo abbandonato, presero di mira gli apostoli di Gesù e
i loro discepoli, non solo li coprivano di insulti e di ingiurie, ma ne
mandavano a morte quanti più potevano, eseguendo le ingiuste condanne quanto
più barbaramente possibile. L’assassinio di Stefano, di Giacomo figlio di
Zebedeo e di Giacomo soprannominato il Giusto, Vescovo di Gerusalemme, è un
esempio spaventoso della veridicità di quello che noi qui sosteniamo. Questa
ripugnante malvagità dei dottori giudaici contro i messaggeri del vangelo era
indubbiamente dovuta a un segreto timore che la diffusione del Cristianesimo
potesse rovinare la reputazione del Giudaismo causando lo sfacelo delle loro
pompose cerimonie.» In una nota a piè di pagina della citazione summenzionata
si leggono i seguenti riferimenti: «Il martirio di Stefano è descritto negli
Atti 7:55, quello di Giacomo figlio di Zebedeo atti 11:1,2 e quello di Giacomo
il Giusto, vescovo di Gerusalemme è menzionato da Giuseppe Flavio nella sua
opera "antichità giudaiche" (Libro XX capitolo 8, e da Eusebio nella
sua "Storia ecclesiastica" libro II Capitolo 23).
LE PERSECUZIONI PAGANE
Fra i persecutori pagani della chiesa, l’impero romano è il
principale responsabile. Questo può sembrare strano in considerazione della
tolleranza generale esercitata da Roma verso i suoi principali tributari, la
causa effettiva dell’opposizione romana al cristianesimo ha dato adito a molte
congetture. È probabile che l’eccessivo zelo e la poca tolleranza dei Cristiani
portassero questi ultimi alla impopolarità presso le nazioni pagane. Questo
argomento è prudenzialmente riassunto da Mosheim con queste parole: «Una
curiosità alquanto naturale ci spinge a chiederci com’è che i Romani, che non
procuravano fastidi a nessuna nazione, quale che fosse la sua religione, e che
permettevano perfino agli Ebrei di vivere secondo le loro leggi e di seguire il
loro culto, trattassero con molta severità soltanto i Cristiani. A questo
importante interrogativo sembra ancor più difficile rispondere se si considera
che l’eccellente natura della religione cristiana, nonché la sua ammirevole
tendenza a promuovere, sia il benessere collettivo che la felicità individuale,
le procuravano il favore e la protezione delle potenze regnanti. Una delle
principali ragioni della severità con cui i Romani perseguitavano i Cristiani,
malgrado queste considerazioni, sembra vada ricercata nell’avversione e nello
sdegno con cui questi ultimi consideravano la religione dell’Impero, che era
tanto intimamente connessa con la forma e, in verità, con la vera e propria
essenza della sua costituzione politica. Perché, sebbene i Romani avessero una
tolleranza illimitata verso tutte le religioni i cui principi non contenessero
niente di pericoloso per l’Impero, tuttavia essi non permettevano che la
religione dei loro antenati, che era stabilita dalle leggi dello Stato, fosse
oggetto di derisione, né che il popolo fosse allontanato dal suo attaccamento
ad essa. Tuttavia queste furono le due cose di cui vennero accusati i
Cristiani, e a buona ragione, anche se ciò fa loro onore. Essi osavano mettere
in ridicolo le assurdità della superstizione pagana, ed erano zelanti e assidui
nel fare proseliti della verità. Essi non soltanto attaccavano la religione di
Roma, ma anche tutte le differenti forme sotto cui si presentava la
superstizione nei vari paesi dove esercitavano il loro ministero. Da questo i
Romani conclusero che la setta cristiana non era soltanto insopportabilmente
audace ed arrogante, ma anche un nemico della tranquillità pubblica e una causa
probabile di tumulti, e forse anche di guerre civili, a danno dell’Impero. È
probabilmente per questo motivo che Tacito li rimprovera, chiamandoli nemici
del genere umano e definendo la religione di Gesù una superstizione
distruttiva. Anche Svetonio quando parla dei Cristiani e della loro dottrina si
esprime negli stessi termini.»
Un’altra cosa dei Cristiani che irritava i Romani era la
semplicità del loro culto, in contrasto con la pomposa impalcatura religiosa ed
il suo austero rituale di qualsiasi altro popolo. I Cristiani non offrivano
sacrifici, né avevano templi, né avevano immagini, né oracoli, né ordini
sacerdotali e questo era sufficiente per attirarsi i rimproveri delle masse
ignoranti che immaginavano che non potesse esistere religione senza queste
cose.
Si può dire che le persecuzioni contro la chiesa da parte
dell’autorità romana abbiano avuto inizio sotto il regno di Diocleziano (305
d.C.) In questo arco di tempo vi furono molti periodi di minore severità, se
non di relativa tranquillità. Tuttavia la chiesa fu oggetto della oppressione
pagana per circa 2 secoli e mezzo. Gli scrittori Cristiani hanno fatto dei
tentativi per isolare le persecuzioni in 10 distinti e separati assalti
furiosi; ed alcuni dichiarano di trovare un rapporto mistico fra le 10
persecuzioni così classificate e le 10 piaghe d’Egitto, come pure vi vedono
un’analogia con le 10 corna menzionate da Giovanni il Rivelatore. Come realtà
dimostrata dalla storia, il numero di persecuzioni di insolita gravita fu
inferiore a 10, mentre il totale di tutte, inclusi gli assalti locali e
limitati, sarebbe molto più grande.
La prima grande persecuzione avvenne nel 64 d.C. ordinata da
Nerone nel tentativo di discolparsi dall’incendio di Roma. Queste che furono le
prime persecuzioni sotto un editto romano, praticamente cessarono con la morte
del tiranno avvenuta nel 68 d.C. Secondo la tradizione tramandata dai primi
scrittori Cristiani, durante le dette persecuzioni gli apostoli Pietro e Paolo subirono
il martirio, il primo per decapitazione, il secondo per crocifissione. Inoltre
è detto che la moglie di Pietro fu messa a morte poco prima del marito, ma su
questo punto vi sono molte incertezze.
LE PERSECUZIONI SOTTO DOMIZIANO
La seconda ondata di persecuzioni legalmente ordinate
dall’autorità imperiale ebbe inizio intorno al 93-94 d.C. sotto il regno di
Domiziano. Sia i Cristiani che gli ebrei incorsero nella disapprovazione di
questo imperatore perché si rifiutavano di adorare le statue erette come
divinità da propiziarsi. Un’altra ragione della sua particolare animosità
contro i Cristiani, come dichiaravano i primi scrittori, era quella del
continuo timore di perdere il trono; egli teneva sempre presente la predizione
secondo la quale dalla famiglia cui apparteneva Gesù sarebbe sorto uno che
avrebbe indebolito, se non rovesciato, il potere di Roma. Forte di questa
motivazione, il malvagio regnante diresse la terribile campagna di
annientamento di un popolo innocente. Fortunatamente, la persecuzione iniziata
durò soltanto pochi anni. Mosheim ed altri affermano che la fine della
persecuzione fu causata dalla prematura morte dell’imperatore. Secondo altri
invece, per esempio secondo uno scrittore citato da Eusebio, Domiziano dopo
aver fatto tradurre dinanzi a sé, quelli che erano ritenuti i DISCENDENTI DELLA
FAMIGLIA DEL SALVATORE e dopo averli interrogati, mise fine alle persecuzioni
perché si convinse di non correre alcun pericolo. Si pensa che nel tempo in cui
era in vigore l’editto di Domiziano, l’apostolo Giovanni sia stato esiliato
nell’isola di Patmos.
LE PERSECUZIONI SOTTO TRAIANO
Quella che nella storia ecclesiastica va sotto il nome di terza
ondata di persecuzioni contro la chiesa ebbe luogo sotto Traiano, il quale
occupò il trono imperiale dal 98 al 117 d.C.
Egli fu ed è considerato come uno dei migliori imperatori
romani. Tuttavia approvò violente persecuzioni contro i Cristiani a causa della
loro inflessibile ostinazione nel rifiutarsi di offrire sacrifici alle divinità
romane. La storia ci ha tramandato una lettera molto importante di Plinio il
Giovane, governatore del Ponto, diretta all’imperatore, e la risposta di
quest’ultimo. Questa corrispondenza è interessante perché dimostra sino a qual
punto il Cristianesimo si era diffuso a quel tempo ed il modo in cui i credenti
venivano trattati dai funzionari di stato. Plinio chiedeva all’imperatore quale
linea di condotta dovesse tenere nei rapporti con i Cristiani che erano sotto
la sua giurisdizione. I giovani e i vecchi, i deboli ed i forti dovevano essere
trattati allo stesso modo, oppure l’applicazione del castigo doveva essere
diversa? All’accusato doveva essere dato il modo di ripudiare la sua religione,
oppure il fatto che egli seguiva o aveva seguito il cristianesimo doveva essere
considerato un reato imperdonabile? Quelli che erano accusati di essere
Cristiani, dovevano essere puniti solo per la religione oppure per colpe
specifiche derivanti dalla loro appartenenza alla chiesa? Dopo aver proposto
questi interrogativi, il governatore procedeva ad elencare all’imperatore
quello che egli aveva fatto in mancanza di istruzioni precise. L’imperatore
rispose ordinando che i Cristiani non dovevano essere perseguitati per
vendetta, ma arrestati se sospettati di reato e processati: e se davanti al
tribunale si fossero rifiutati di rinunciare alla loro fede, allora dovevano
essere messi a morte.
LE PERSECUZIONI SOTTO MARCO AURELIO
Marco Aurelio regnò dal 161 al 180 d.C. Egli era famoso perché
desiderava il bene massimo del suo popolo; tuttavia sotto il suo governo i
Cristiani subirono altre crudeltà Le persecuzioni furono molto aspre nella
Gallia. Fra coloro che a quel tempo subirono il destino dei martiri si
annoveravano Policarpo, vescovo di Smirne e Giustino, che la storia ricorda
come filosofo. Con riferimento all’apparente irregolarità che anche i migliori
regnanti permettevano, arrivando persino ad esercitare una energica opposizione
ai Cristiani, come si è esemplificato dagli atti di questo imperatore, uno
scrittore moderno ha detto: «Si dovrebbe notare che le persecuzioni contro i
Cristiani sotto gli imperatori pagani ebbero origine da motivi politici anziché
religiosi, e questa è la ragione per cui nell’elenco dei persecutori troviamo
accanto al nome dei peggiori imperatori anche quello dei migliori. Si credeva
che il benessere dello stato dipendesse dall’accurato svolgimento dei riti del
culto nazionale, quindi, mentre i sovrani romani erano solitamente molto
tolleranti, permettendo che fra i loro sudditi vi fosse la massima libertà
religiosa, tuttavia essi esigevano dai cittadini di diversa fede il
riconoscimento e la devozione degli dei romani bruciando incenso davanti alle
loro statue. E poiché i Cristiani si rifiutavano di compiere siffatto rito, si
giunse a ritenere che la loro trascuratezza nel servizio del tempio suscitasse
la collera degli dei e mettesse in pericolo la sicurezza e la vita della
nazione con la siccità, la pestilenza ed ogni altro disastro. Questa era la
causa principale delle persecuzioni da parte degli imperatori romani contro il
Cristianesimo.» (General History di P.V.N. Myers edizione del 1889 pagina 232).
PERSECUZIONI SUCCESSIVE
Tranne alcuni periodi di tranquillità parziale, per tutto il
secondo e terzo secolo i credenti Cristiani continuarono a soffrire a causa degli
oppositori pagani. Nel primo decennio del terzo secolo una violenta
persecuzione ebbe luogo sotto il regno di Severo (193-211 d.C.). Un’altra si
scatenò sotto il regno di Massimo (235 238 d.C.). Un periodo in cui le
persecuzioni furono particolarmente violente e le sofferenze dei Cristiani
assai feroci fu durante il breve regno di Decio Traiano (249-251 d.C.) Dalla
storia ecclesiastica la persecuzione avvenuta sotto Traiano è chiamata le
settima persecuzione. Ne seguirono altre in rapida successione, ma noi le
salteremo nella nostra disamina e ci soffermeremo a considerare quella più
importante.
PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO
Nota anche come la decima e fortunatamente ultima. Diocleziano
regnò dal 284 al 305 d.C. In principio egli fu molto tollerante verso i
Cristiani. Infatti la storia dice che sua moglie e sua figlia erano Cristiane,
anche se "in un certo senso lo erano segretamente". Tuttavia, in
seguito Diocleziano divenne ostile alla chiesa e s’impegnò nella totale
soppressione della religione di Cristo. A questo scopo egli ordinò la
distruzione generale dei libri Cristiani, decretando la pena di morte contro
tutti coloro che tenevano in possesso tali opere.
Il palazzo reale di Nicodemia s’incendiò 2 volte, e ogni volta
la responsabilità fu attribuita ai Cristiani con terribili risultati. Quattro
editti separati, ognuno dei quali superava quello precedente per ferocia,
furono emanati contro quei poveri infelici, i quali per un periodo di 10 anni
furono vittime di sfrenate rapine, estorsioni e torture. Alla fine del decennio
di terrore, la chiesa era sparpagliata e apparentemente senza speranza. I sacri
libri erano stati bruciati; i luoghi di culto erano stati rasi al suolo,
migliaia di Cristiani erano stati messi a morte. Era stato fatto ogni possibile
sforzo per annientare la Chiesa Cristiana e tutto il suo seguito. Le
descrizioni delle punte massime cui giunse la brutalità imperiale suscitarono
orrore. Un solo esempio può bastare e ce lo da Eusebio, parlando delle
persecuzioni in Egitto: «Tale era la gravità della lotta sopportata dagli
Egiziani che a Tiro, combattendo gloriosamente per la fede, migliaia di uomini,
donne e bambini, sdegnando la vita presente per amore della dottrina del Nostro
Salvatore, si assoggettarono alla morte sotto varie forme. Alcuni, dopo essere
stati torturati alla ruota e spaventosamente frustrati o dopo aver sopportato
altre innumerevoli agonie che al solo udirle ci farebbero rabbrividire, alla
fine venivano dati alle fiamme, o gettati in mare e li lasciati affogare, o
decapitati, o inchiodati su rozze croci a testa in giù, o lasciati morire in
mezzo a tormenti di terribili privazioni.» (Eusebio "Storia ecclesiastica,
libro 8 capitolo 8).
Quella di Diocleziano fu l’ultima delle grandi persecuzioni
della Roma pagana. Uno stupendo cambiamento, equivalente ad una rivoluzione,
apparve all’orizzonte della chiesa. Costantino, che la storia chiama Costantino
il Grande, divenne imperatore di Roma nel 306 e regnò per 31 anni. Sin dagli
inizi del suo regno egli sposò la causa dei Cristiani e prese la chiesa sotto
la sua protezione ufficiale. Secondo la leggenda la conversione dell’imperatore
fu dovuta ad una manifestazione sovrannaturale, in cui egli vide una croce
luminosa nei cieli, con la scritta:"In questo segno vincerai." L’autenticità
di questa manifestazione è dubbia e il dubbio è posto soprattutto dalla storia.
Questo fatto è qui citato per dimostrare a quali mezzi si ricorse per rendere
il cristianesimo benvoluto a quel tempo. Molti storici prudenti sostengono che
la cosiddetta conversione di Costantino fu più una questione politica che non
un sincero riconoscimento delle verità predicate dal cristianesimo. Il grande
sovrano rimase comunque un catecumeno vale a dire un credente non battezzato,
fino all’ultimo periodo della sua vita, quando sentendosi morire, volle
ricevere il battesimo e divenne Cristiano. Ma, quali che fossero i suoi motivi,
nel 313 egli emanò un decreto più noto come "l’editto di Milano" con
il quale proclamava la libertà di culto per i Cristiani in tutto l’impero. Myers
scrive: «Egli fece della croce l’insegna reale; e ora, per la prima volta, le
legioni romane marciavano sotto il vessillo del Cristianesimo.»
Immediatamente dopo questa trasformazione ci fu una grande gara
per riscuotere il favore della Chiesa. La carica di vescovo giunse ad essere
più ambita del grado di generale. L’imperatore stesso era il capo effettivo
della chiesa. Ora le cose erano capovolte: essere conosciuti come non Cristiani
era impopolare e decisamente svantaggioso nel senso materiale. I templi pagani
furono trasformati in chiese, e gli idoli pagani abbattuti. Si legge che in un
anno, nella sola Roma, si battezzarono 12.000 fra uomini donne e bambini.
Costantino, trasferì la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, città che egli
ribattezzò con il suo nome Costantinopoli. Questa città, che oggi è la capitale
della Turchia, divenne il quartier generale della chiesa.
Come sembra vana la millanteria di Diocleziano secondo la quale
il cristianesimo era stato annientato per sempre! E quanto era differente la
chiesa sotto il patrocinio di Costantino rispetto alla chiesa istituita da
Cristo ed edificata dai suoi apostoli! Se si giudica in base alle norme della
sua istituzione originale la Chiesa era già divenuta apostata.
CAUSE INTERNE
Come naturalmente ci si potrebbe aspettare, gli effetti
immediati delle continue persecuzioni furono vari: essi andavano
dall’entusiasmo sfrenato espresso con delirante clamore per il martirio
all’apostasia più improvvisa e spregevole, con l’ostentazione di un autentico culto
nei servizi idolatrici.
«In molti fedeli Cristiani nacque uno zelo che rasentava il
fanatismo, tanto che senza riguardo alcuno alla dignità e alla discrezione,
manifestavano una folle e scomposta eccitazione di gioia di fronte al proprio
martirio. Alcuni di quelli che non erano stati assaliti, dispiacendosene,
divennero accusatori di sé medesimi, mentre altri commisero apertamente atti di
aggressione, con l’intento di attirare su di sé l’indignazione degli uomini.»
(Gibbon "Storia del declino dell’Impero romano capitolo 16).
Queste stravaganze erano indubbiamente incoraggiate dalla
eccessiva venerazione concessa alla memoria dei resti mortali di coloro che
erano periti per la causa cristiana. In seguito questo rispetto reverenziale
divenne un’empia pratica di culto dei martiri.
Commentando l’imprudente entusiasmo degli antichi Cristiani,
Gibbon dice: «Talvolta i Cristiani, con la loro spontanea confessione,
esprimevano il desiderio di essere condannati; a questo scopo disturbavano
anche il servizio pubblico del paganesimo e, assiepandosi intorno al tribunale
dei magistrati, li invitavano a pronunciare ed ad infliggere la sentenza della
legge. Il comportamento dei Cristiani era troppo fuori dall’ordinario per
sfuggire all’osservazione degli antichi filosofi; ma sembra che questi lo
considerassero con molto meno ammirazione che stupore. Incapaci di capire i
motivi che talvolta spingevano il coraggio morale dei credenti oltre i limiti
della prudenza e della ragione, essi consideravano questa bramosia di morire
come lo strano risultato di una disperazione ostinata, di una stupida
insensibilità o di un delirio superstizioso.»
Ma c’è anche un altro atteggiamento. Mentre gli imprudenti
fanatici richiamavano su di sé pericoli dai quali avrebbero potuto rimanere immuni,
altri, terrorizzati dall’idea di poter essere inclusi fra le vittime,
volontariamente disertarono la Chiesa ritornando alla fede pagana. Milner,
parlando delle condizioni esistenti nel terzo secolo, e facendo sue le parole
di Cipriano, Vescovo di Cartagine, che visse nel periodo dell’episodio
descritto, dice: «Immediatamente moltissimi passarono all’idolatria. Ancor
prima di essere accusati di essere Cristiani, molti correvano al foro e
offrivano sacrifici agli dei, come veniva ordinato loro; ed il numero degli
apostati era talmente grande che i magistrati desideravano rimandarli al giorno
dopo, ma venivano importunati dagli sventurati supplicanti, i quali chiedevano
che fosse concesso loro di dimostrare proprio quella stessa sera di essere
pagani.» (Milner "Storia della Chiesa", secolo III, capitolo 8).
«In concomitanza con questa apostasia individuale dei membri
della chiesa sotto la spinta delle persecuzioni, i governatori delle province
cominciarono a vendere certificati, o "libelli" che attestavano che
le persone in essi menzionate avevano ottemperato alle leggi e offerto
sacrifici alle divinità romane. Esibendo queste dichiarazioni, il più delle
volte false, gli opulenti e timidi Cristiani potevano tacitare la cattiveria di
un informatore conciliando in una certa misura la loro sicurezza con la loro
religione.» (Gibbon "Storia del declino e caduta dell’impero romano"
capitolo XVI).
«Una variazione a questa pratica di quasi apostasia consisteva
nel procurarsi attestati di persone di buona reputazione, nei quali era
dichiarato che i latori avevano abiurato il Vangelo. Questi documenti venivano
presentati ai magistrati pagani, i quali, dietro pagamento di una determinata
somma, accordavano l’esenzione dall’offerta di sacrifici agli dei pagani».
Millner "Storia della chiesa" secolo III capitolo 9.
A seguito di queste pratiche, per le quali i ricchi potevano
comperarsi l’immunità dalle persecuzioni e nello stesso tempo mantenere una
parvenza di buona reputazione nella chiesa, sorsero grandi dissensi sul fatto
se coloro che avevano in questo modo dimostrato la loro debolezza potevano
essere accolti di nuovo in seno alla chiesa.
Al massimo le persecuzioni non furono che una causa indiretta
della decadenza del Cristianesimo e del pervertimento dei princìpi di salvezza
del vangelo di Cristo. I pericoli più grandi ed immediati che minacciavano la
chiesa vanno ricercati nel corpo stesso della medesima. In effetti le pressioni
dell’opposizione dall’esterno servirono a frenare le gorgoglianti fonti di
discordia interna, ed in realtà ritardarono le eruzioni più rovinose dello
scisma ed eresia. Uno sguardo generale alla storia della chiesa sino alla fine
del terzo secolo dimostra che i periodi di pace relativa erano periodo di
debolezza e di decadenza spirituale e che, con il ritorno delle persecuzioni,
si ebbe un risveglio ed una rinascita della devozione cristiana. I capi devoti
del popolo non erano riluttanti nel dichiarare che ogni ritorno periodico delle
persecuzioni era un periodo di castigo necessario e naturale per i peccati e la
corruzione che avevano fatto progressi nell’ambito della chiesa.
In merito alle condizioni della chiesa nella metà del secolo
terzo, Cipriano, vescovo di Cartagine, così si esprime: «Se si indagasse sulla
causa delle nostre sofferenze, si potrebbe trovare la cura per guarire la
piaga. Il Signore vuole che la sua famiglia sia mesa alla prova. E poiché la
lunga pace aveva corrotto la disciplina rivelataci da Dio, il castigo celeste
ha fatto risorgere in noi la fede che giaceva quasi addormentata; e quando, per
i nostri peccati, abbiamo meritato di soffrire ancora di più, il Signore
misericordioso ha moderato le cose in modo tale che vale la pena considerare
l’intera questione più come una prova che non come una persecuzione». Ciascuno
si era dedicato al miglioramento del proprio patrimonio, dimenticando quello
che i credenti avevano fatto sotto gli apostoli, e quello che dovevano fare
sempre: essi stavano rimuginando sul sistema di ammassare ricchezze; i pastori
e i diaconi avevano dimenticato il loro dovere; le opere di misericordia furono
trascurate, e la disciplina era in decadenza; predominavano la lussuria e
l’effeminatezza; si coltivavano le arti dell’appariscenza nell’abbigliamento; fra
i fratelli si praticavano la frode e l’inganno; i Cristiani si univano in
matrimonio con i miscredenti; si bestemmiava senza rispetto e senza coscienza.
Con altezzosa rudezza disprezzavano i loro superiori ecclesiastici; inveivano
l’uno contro l’altro con oltraggiosa acrimonia, e litigavano con grande
cattiveria; perfino molti vescovi, che dovevano essere una guida ed un esempio
per gli altri, trascurando i doveri della loro carica, si dedicavano alle
questioni secolari. Essi disertavano i loro luoghi di residenza e i loro
greggi; viaggiavano di provincia in provincia, a volte in località
lontanissime, in cerca di piaceri e di profitto, e presi da una insaziabile
sete di denaro trascuravano di porgere aiuto ai fratelli bisognosi. Con la
frode si impossessavano di proprietà e praticavano l’usura.
«Cosa non abbiamo meritato di subire per una simile condotta?
Anche la parola divina ci aveva predetto quello che avremmo dovuto aspettarci:
"Se i suoi figli abbandonano la mia legge e non camminano secondo i miei
precetti, io punirò le loro offese con la verga, e i loro peccati con la
sferza." Queste cose erano state proclamate e predette, ma invano. I
nostri peccati avevano portato i nostri affari a mal passo, e poiché avevamo
disprezzato gli ordini del Signore, eravamo costretti a subire la punizione per
le nostri molteplici malvagità e la prova della nostra fede mediante rimedi
severi.» (Citato da Milner, "Storia della Chiesa" secolo III capitolo
8).
Milner, il quale cita con approvazione il severo biasimo verso
la chiesa del secolo terzo, come appena indicato, non può essere giudicato di
pregiudizio contro le istituzioni cristiane, poiché il suo scopo dichiarato nel
presentare al mondo una ulteriore "Storia della chiesa di Cristo" era
quello di dedicare la dovuta attenzione a determinati aspetti della questione
che erano stati trascurati dagli scrittori precedenti, ed inoltre il metter in
risalto la pietà, non la malvagità, di coloro che si professavano seguaci di
Cristo.
Questo autore, che evidentemente era amico della chiesa e dei
suoi devoti, ammette la crescente depravazione della setta cristiana, e
dichiara che verso la fine del terzo secolo l’effetto della discesa dello
Spirito santo nel giorno della Pentecoste si era esaurito, e che rimanevano
poche prove di qualsiasi rapporto stretto fra Cristo e la chiesa.
Per dimostrare ulteriormente il declino dello spirito cristiano
verso la fine del terzo secolo, Milner cita la seguente osservazione di
Eusebio, uno dei testimoni oculari delle condizioni descritte: «La pesante mano
del castigo divino cominciò debolmente, poco a poco, a farsi sentire su di noi,
nella sua maniera abituale, ma noi non ci lasciammo impressionare dalla sua
mano, ne ci preoccupammo di ritornare a Dio. Accumulammo peccato su peccato,
giudicando come incauti Epicurei, che a Dio non interessavano i nostri peccati,
né egli ci avrebbe mai castigato a cagion loro. E i nostri sedicenti pastori,
accantonando la regola della pietà, si buttavano nelle contese e nelle
divisioni.» Egli aggiunge che la terribile persecuzione di Diocleziano veniva
allora inflitta ai Cristiani come un giusto castigo per la loro iniquità.
(Milner "Storia della chiesa" secolo III capitolo 17).
Si ricorderà che il grande cambiamento con cui la chiesa fu
innalzata ad un posto d’onore dello stato, avvenne nei primi decenni del quarto
secolo. È errore comune supporre che la decadenza della chiesa come istituzione
spirituale risalga a quel tempo. L’immagine della chiesa, il cui potere
spirituale declina in proporzione al suo aumento dell’influenza e della
ricchezza temporale, ha interessato storici e scrittori di opere a carattere
sensazionale. Ma tale immagine non rispecchia la verità. La chiesa era satura
dello spirito dell’apostasia molto tempo prima che Costantino la prendesse sotto
la sua potente protezione accordandole una posizione ufficiale nello stato. A
conforto di questa affermazione, io cito nuovamente Milner, l’amico dichiarato
della chiesa: «So che gli scrittori sono d’accordo nel dichiarare che la grande
decadenza del cristianesimo avvenne soltanto dopo il suo riconoscimento
ufficiale da parte di Costantino. Ma l’evidenza storica mi ha indotto a
dissentire da questa immagine delle cose. Infatti abbiamo veduto che per
un’intera generazione, prima della persecuzione di Diocleziano, erano apparsi
pochi segni della pietà superiore. In realtà raramente gli uomini si erano
dimostrati devoti; e sappiamo che comunemente le grandi opere dello Spirito di
Dio non si sono mai esplicate se non attraverso la guida di qualche straordinario
pastore, santo e riformatore. Tutto questo periodo, con l’intero quadro della
persecuzione, è molto sterile per ciò che attiene a figure di uomini di questa
specie. Le direttive morali, filosofiche e monastiche non faranno per gli
uomini quello che invece potrà fare la dottrina evangelica. E se la fede in
Cristo era tanto decaduta (il suo declino dovrebbe esser fatto risalire intorno
all’anno 270), non dobbiamo meravigliarci se scene quali quelle cui accenna
Eusebio senza alcun particolare circostanziato, accaddero nel mondo cristiano.
Egli parla anche dello spirito ambizioso di molti nell’aspirare agli uffici
della chiesa, delle ordinazioni illegali e sconsiderate, delle liti fra gli
stessi confessori della fede, delle contese suscitate dai giovani demagoghi
proprio fra i residui della chiesa perseguitata, ed infine degli accresciuti
mali che i propri vizi suscitavano fra i Cristiani. Questi mali non ebbero
origine dal Cristianesimo, ma dall’allontanamento da esso.» (Milner storia
della Chiesa" secolo IV capitolo 1).
Il tentativo di innesto di dottrine estranee al Vangelo di
Cristo fu una cosa tipica dei primi anni del periodo apostolico. Si legge del
mago Simone, il quale aveva abbracciato la chiesa di Cristo mediante il
battesimo, che era talmente privo del vero spirito del Vangelo da cercare di
acquistare con il denaro l’autorità e il potere del sacerdozio. Quest’uomo,
benché rimproverato da Pietro e apparentemente pentito continuò ad infastidire
la chiesa inculcando eresie nella mente dei fedeli e facendo proseliti fra i
membri della chiesa stessa. I suoi seguaci costituirono una setta, o culto,
fino al quarto secolo, e, scrivendo a quel tempo Eusebio dice di loro: «Essi,
seguendo il sistema del loro fondatore, s’insinuarono nella chiesa come una
malattia pestilenziale infettando della più grande corruzione quelli in cui
essi riuscivano ad infondere il loro veleno segreto, irrimediabile e
distruttivo.» (Eusebio "Storia ecclesiastica" libro II cap 1).
Questo Simone, noto nella storia come Simone il mago, è citato
dagli antichi scrittori Cristiani come il fondatore dell’eresia, a causa dei
suoi continui tentativi di fondere insieme il cristianesimo e lo Gnosticismo.
Dalla sua presunzione di acquistare l’autorità spirituale prese nome di
Simonia, il commercio delle cose sacre.
Per il tramite del Rivelatore, il Signore sconfessò certe chiese
perché avevano adottato o tollerato dottrine e pratiche estranee al Vangelo. In
particolare questo si riferisce ai Nicolaiti ed a i seguaci delle dottrine di
Balaam.
Il pervertimento della vera teologia così creatosi nell’ambito
della chiesa è da attribuire alla introduzione dei sofismi sia giudaici che
pagani. In verità, all’inizio dell’era cristiana e per secoli dopo, il
Giudaismo fu più o meno strettamente unito alla filosofia pagana e contaminato
dalle cerimonie omonime. Esistevano numerose sette o gruppi, culti e scuole,
ognuno dei quali propugnava teorie opposte circa la composizione dell’anima,
l’essenza del peccato, la natura della divinità e tutta una serie di altri misteri.
Ben preso i Cristiani si trovarono coinvolti in controversie senza fine fra
loro stessi.
I seguaci del giudaismo convertitisi al Cristianesimo cercavano
di modificare i principi della nuova fede in modo da armonizzarli col loro
ereditato amore per il giudaismo, ed il risultato fu distruttivo per entrambi.
Nostro Signore aveva indicato la futilità di qualsiasi tentativo del genere
tendente a mischiare nuovi princìpi con i vecchi sistemi, o a rattoppare i
pregiudizi del passato con parti frammentarie della nuova dottrina :«Or niuno,»
disse Egli, «mette un pezzo di stoffa nuova sopra un vestito vecchio, perché
quella toppa porta via qualcosa dal vestito, e lo strappo si fa peggiore.
Neppur si mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti gli otri si rompono,
il vino si spande e gli otri si perdono, ma si mette il vin nuovo in otri
nuovi, e l’uno e gli altri si conservano.» (Matteo 9:16-17).
Il Vangelo giunse come una nuova rivelazione che segnava il
compimento della Legge. Esso non era una semplice aggiunta, né un semplice
ripristino dei passati dettami. Il giudaismo fu sminuito ed il Cristianesimo
corrotto da questa assurda unione.
Fra le prime e più dannose adulterazioni della dottrina
cristiana si ricorda l’introduzione degli insegnamenti degli gnostici. Questi
sedicenti filosofi proclamavano l’audace rivendicazione del diritto di saper
guidare la mente umana alla completa comprensione dell’Essere Supremo ed alla
conoscenza del vero rapporto fra la Divinità ed i mortali. In effetti essi
dicevano che esisteva un essere eterno che si manifestava come una luce radiosa
diffusa attraverso lo spazio, che essi chiamavano "Pleroma". «La
natura eterna, infinitamente perfetta ed infinitamente felice, essendo rimasta
da sempre in una profonda solitudine e in una beata tranquillità, alla fine
produsse da sé stessa due menti di diverso sesso, le quali rassomigliavano al
loro supremo genitore nella maniera più perfetta. Dalla prolifica unione di
questi due esseri, altri ebbero origine, i quali a loro volta si riprodussero
per generazioni successive, talché nel processo del tempo nel Pleroma, si formò
una famiglia celeste. Questa divina progenie, immutabile nella sua natura, e al
di sopra del potere della mortalità era chiamata dai filosofi "Aeon",
termine che nella lingua greca significa "natura eterna". Quanti
fossero questi Aeon è questione molto controversa presso i saggi orientali.»
(Mosheim "Istituzioni di storia ecclesiastica" Secolo I parte II).
L’Eone (dal greco aion = eterno), chiamato il
"Demiurgo" creò questo mondo e arrogantemente asserì il dominio su di
esso,negando nel modo più assoluto l’autorità del supremo genitore. La dottrina
gnostica afferma che l’uomo è l’unione fra un corpo che, essendo creazione del
Demiurgo, è essenzialmente malvagio, e uno spirito che, avendo origine dalla
Divinità, è prevalentemente buono. Gli spiriti così imprigionati nei corpi
cattivi, alla fine saranno liberati, ed allora il potere del Demiurgo cesserà;
e la terra si dissolverà nel nulla.
La nostra giustificazione per introdurre qui questo parziale
sommario dello gnosticismo sta nel fatto che anticamente furono fatti tentativi
per adattare i princìpi di questa setta alle esigenze del Cristianesimo e nel
fatto che era stato affermato che sia Cristo che il Santo Spirito appartenevano
alla famiglia degli Eoni previsti da questo disegno. Ciò portò alla esosa
assurdità del negare che Gesù avesse un corpo anche quando viveva da uomo e
come uomo, e che il suo aspetto fisico fosse un inganno dei sensi compiuto dal
suo potere soprannaturale.
Un’altra setta, o scuola, le cui dottrine erano in un certo
grado amalgamate a quelle del cristianesimo era quella dei Neoplatonici. Le
antiche sette dei Platonici erano per alcuni punti dottrinali affini a quella
degli Epicurei ed erano rivali degli Stoici. Gli antichi Platonici sostenevano
che la materia esiste dall’eternità, e che il suo organizzatore, Dio, è
ugualmente eterno. Come Dio è eterno, così anche la sua volontà o intelligenza
è senza principio; e questa intelligenza eterna, esistente come la volontà o
proposito divino, era chiamata "Logos". Questi precetti venivano
insegnati molto tempo prima dell’era cristiana, e la filosofia seguita da
alcune delle sette giudaiche contrapposte al tempo di Cristo ne era stata
influenzata.
A guisa che i princìpi del Cristianesimo divenivano conosciuti
universalmente, certi capi della setta dei Platonici trovavano nella nuova
dottrina molte cose da studiare e da ammirare. A quel tempo, tuttavia, il
Platonismo stesso aveva subito molti cambiamenti, e i seguaci più liberali
avevano formato una nuova organizzazione, chiamata "Neoplatonici".
Essi professavano di trovare in Gesù Cristo l’incarnazione del Logos, e
accettavano con avidità la dichiarazione di S.Giovanni: «Nel principio era la
Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio…. E la Parola è stata fatta
carne ed ha abitato per un tempo fra noi.» (Giovanni 1:1,14). Secondo la
filosofia eclettica e neoplatonica, la "Parola" cui si riferiva San
Giovanni era il "Logos" descritto da Platone. La concezione Platonica
della Divinità formata dalla divinità e dal Logos, si allargò secondo i
princìpi Cristiani, per includervi tre membri, lo Spirito Santo essendo il
terzo. Da questo sorse un serio e lungo contrasto circa i poteri relativi di
ciascun membro della Trinità, con particolare riguardo alla posizione e
all’autorità del Logos, o figlio. Le molte controversie relative alla fusione
della teoria platonica con la dottrina cristiana proseguirono attraverso i
secoli e, in un certo senso, esse turbano la mente degli uomini anche in questa
età moderna.
È completamente estraneo al nostro scopo classificare o
descrivere gli ibridi frutti risultanti dall’innaturale unione della filosofia
pagana con la verità cristiana, né tenteremo di seguire nei particolari i
dissensi e le dispute sulle questioni teologiche e dottrinali. Il nostro scopo
è raggiunto quando per l’ammissione dei fatti e la citazioni di fonti
autorevoli la realtà dell’apostasia è stabilita. Considereremo pertanto solo le
discordie più importanti che agitarono la chiesa.
Intorno alla metà del terzo secolo, Sibellio, un presbitero o
vescovo della chiesa d’Africa, propugnò strenuamente la dottrina della trinità
nell’unità come caratteristica della divinità. Egli asseriva che la natura
divina di Cristo non è un attributo né distinto né personale dell’uomo Gesù, ma
semplicemente una parte dell’energia divina, una emanazione dal Padre, di cui
il figlio è temporaneamente dotato, così come analogamente lo Spirito Santo è
parte del divino Padre. Queste concezioni furono vigorosamente confutate da
alcuni, così come furono difese da altri, ed il disaccordo era al massimo
quando Costantino improvvisamente mutò la condizione della Chiesa intervenendo
in suo favore. Agli inizi del quarto secolo la controversia assunse un aspetto
burrascoso: si era accesa un’aspra polemica fra Alessandro, Vescovo di
Alessandria e Ario, uno dei dirigenti subordinati della medesima chiesa.
Alessandro proclamava che il figlio è sotto ogni profilo uguale al Padre, ed
uguale nella sostanza ed essenza. Ario insisteva nel sostenere che il Figlio è
stato creato dal Padre, e quindi non può essere coetaneo con il suo divino
genitore; che il Figlio è il mezzo con cui è eseguita la Volontà del Padre, e
che per questa ragione il Figlio è inferiore al Padre sia nella natura che
nella dignità. Allo stesso modo lo Spirito Santo è inferiore agli altri membri
della Divinità.
L’Arianesimo, come si chiamò la dottrina di Ario, veniva
predicata con zelo e con zelo combattuta. Le conseguenze di tali dispute minacciavano
di minare la chiesa nelle sue fondamenta. Alla fine l’imperatore Costantino fu
costretto a intervenire nel tentativo di appianare i contrasti fra le due parti
in lizza. Egli indisse un concilio ecumenico che fu tenuto a Nicea (concilio di
Nicea). Correva l’anno 325. La dottrina di Ario fu condannata ed egli stesso
scomunicato ed esiliato. Quella che fu dichiarata essere la dottrina ortodossa
della chiesa Cattolica, o universale, in merito alla Divinità fu promulgata con
queste parole.
«Noi crediamo in un Dio solo, Padre Onnipotente, artefice di
tutte le cose visibili e invisibili; ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio
di Dio, generato dal Padre, unigenito, fatto della stessa sostanza del Padre,
Dio di Dio, Luce della Luce; Vero Dio del Vero Dio; generato, non fatto; della
stessa materia del Padre, dal quale tutte le cose furono fatte, sia quelle del
cielo che quelle della terra; il quale, per nostra salvezza, discese in terra e
s’incarnò, e divenne uomo; soffrì e risorse il terzo dì, ascese nei cieli e
verrà a giudicare i vivi ed i morti; e nello Spirito Santo. Ma quelli che
dicono che c’è stato un tempo in cui Egli (il Figlio) non era, e che Egli non
era prima che fosse generato, e che Egli è stato fatto dal nulla, o affermano
che Egli è di qualsiasi altra sostanza o essenza, e che il Figlio di Dio è
stato creato, ed è mutabile o cambiabile, la Chiesa Cattolica li dichiara
maledetti.»
Questa è la versione generalmente riconosciuta del credo di
Nicea promulgato originariamente. Nella forma esso fu alquanto modificato,
anche se i suoi elementi essenziali furono lasciati praticamente immutati dal
concilio tenuto a Costantinopoli mezzo secolo dopo. Quella che è considerata
una riesposizione del credo di Nicea è stata attribuita ad Attanasio, uno dei principali
oppositori dell’Arianesimo, anche se il suo diritto di esserne considerato
l’autore è messo in dubbio da molti ed enfaticamente negato dalle stesse fonti
autorevoli nel campo della storia ecclesiastica. Cionondimeno la dichiarazione
sopra esposta viene riconosciuta dalla letteratura come il "Credo di
Attanasio", e , a torto o ragione, con tale nome esso continua ad essere
una dichiarazione di fede di alcune sette cristiane del nostro tempo. Il
medesimo attualmente occupa un posto nel rituale prescritto della chiesa
d’Inghilterra.
Nella storia ecclesiastica il concilio di Nicea è noto come uno
dei più famosi e più importanti che mai siano stati tenuti; vi parteciparono
318 vescovi e i temi trattati furono tanti. Fu risolta non solo la controversia
Ariana, ma anche altre questioni. Così la vertenza che durava da lunga data sul
problema della celebrazione della Pasqua fu sistemato con il voto, come lo fu
la questione dibattuta da Novato e i suoi seguaci circa la giustezza di
riammettere nella Chiesa gli apostati pentiti e lo scisma causato da Melezio,
vescovo del Nord Africa, il quale si era rifiutato di riconoscere l’autorità
superiore del vescovo di Alessandria. Alla luce del numero e delle varietà
delle questioni presentate al concilio di Nicea per un giudizio, possiamo
tranquillamente concludere che la chiesa da poco insediata sul trono non era
caratterizzata dall’unità di intento, né dall’armonia di azione. Tuttavia, a
confronto con le aspre contese che ne seguirono, i dissensi che vi furono sotto
il regno di Costantino non erano che l’inizio dei disordini.
Una delle eresie che nacquero agli inizi della chiesa e che
furono di rapida diffusione fu la dottrina del dualismo fra il corpo e lo
spirito, per cui il primo era considerato come un incubo ed una maledizione. Da
quello che è stato detto ciò sarà riconosciuto come una delle alterazioni
derivanti dall’alleanza fra lo gnosticismo ed il cristianesimo. Uno dei
risultati di questo innesto con le dottrine pagane fu un’ampia diffusione delle
pratiche eremitiche con cui gli uomini cercavano di indebolire, torturare, e
sottomettere il corpo, affinché lo spirito, o "anima", potesse
acquistare maggiore libertà. Molti di coloro che seguivano in pratica questo
sconcertante punto di vista si ritirarono in solitudine nel deserto, e qui
trascorsero il tempo dedicandosi a pratiche di rigida astinenza e compiendo
atti di delirante autotortura. Altri si chiusero in una prigione cercando la
gloria nelle privazioni e nelle penitenze che si imponevano da soli. Fu questa innaturale
visione della vita che dette origine ai vari ordini di reclusi, eremiti e
monaci.
Non ritenete che il Salvatore pensasse a queste pratiche quando,
mettendo in guardia i discepoli contro le false rivendicazioni della santità
che ben presto avrebbero caratterizzato quel tempo, disse: «Se dunque vi
dicono: – eccolo, è nel deserto, non v’andate; eccolo, è nelle stanze intere,
non lo credete?» (Matteo 24:26).
Mosheim scrisse: «Sostenevano che la comunione con Dio andava
cercata nella mortificazione dei sensi, estraniando la mente da ogni interesse
esterno, macerando il corpo con la fame e la fatica e da una sacra specie
d’indolenza, che restringeva ogni attività dell’anima a una pigra
contemplazione delle cose spirituali ed esterne. La chiesa cristiana non
sarebbe mai stata disonorata da questo entusiasmo crudele e asociale, né alcuno
si sarebbe assoggettato a quelle atroci torture della mente e del corpo, se
molti Cristiani non fossero stati ingannevolmente attirati dall’aspetto
specioso e del pomposo suono di quella massima dell’antica filosofia che dice:
– Per poter raggiungere la vera felicità e la comunione con Dio è necessario
che anche in terra l’anima si separi dal corpo il quale, per il raggiungimento
dello scopo, deve essere macerato e mortificato» (Mosheim "Istituzioni
della storia ecclesiastica" Secolo IV, parte II cap 3:12,13).
Molto presto nella sua storia la Chiesa manifestò la tendenza a
soppiantare la semplicità originaria del suo culto con cerimonie complicate,
modellate secondo il rituale dei seguaci del giudaismo e le idolatrie pagane.
Per ciò che concerne queste innovazioni, Mosheim scrive quanto
segue come riferimento alle condizioni esistenti nel secondo secolo: «Non c’è
alcuna istituzione così pura ed eccellente che, con l’andare del tempo, la
corruzione e la follia dell’uomo non alterino in peggio e non la soverchino di
corollari estranei alla sua natura e al suo schema originale. Questo in modo
particolare fu il destino della Cristianità. In quel secolo molti inutili riti
e cerimonie furono aggiunti al culto cristiano, e l’introduzione fu
estremamente offensiva per gli uomini saggi e buoni. Questi cambiamenti, mentre
distruggevano la bella semplicità del vangelo, attiravano il volgo, il quale
faceva poca attenzione a qualsiasi cosa che non colpisse i suoi sensi esteriori
e perciò si dilettava più della pompa e dello splendore delle istituzioni
esteriori che del semplice fascino della devozione razionale e solida.» Mosheim
spiega che i vescovi di quel tempo aumentarono le cerimonie e cercarono di dar
loro splendore «per compiacere le debolezze e i pregiudizi sia degli ebrei che
dei pagani.» (Mosheim "Istituzioni di storia ecclesiastica" Secolo II
parte II cap 4).
Per conciliare più efficacemente i dettami evangelici con i
pregiudizi ebraici, ancora legati al rispetto della lettera della legge
mosaica, i dirigenti della chiesa del primo e secondo secolo fecero propri gli
antichi titoli, così i vescovi si dichiarano sommi sacerdoti, e i diaconi,
Leviti. «Allo stesso modo» dice Mosheim «il paragone fra l’oblazione cristiana
e il sacrificio propiziatorio ebraico produsse una serie di riti ibridi, e fu
un’occasione per introdurre l’errato concetto dell’eucarestia, rappresentandolo
come un sacrificio reale e non semplicemente come una commemorazione di quella
grande offerta che un tempo fu fatta sulla croce per i peccati mortali» (Moshei
"Istituzioni di storia ecclesiastica" secondo secolo Parte II cap
4:4).
Nel quarto secolo troviamo la chiesa ancora più impegnata nel
formalismo e nella superstizione. Il rispetto con cui i resti degli antichi
martiri erano stati onorati degenerò o divenne una venerazione superstiziosa
pari ad un culto. Questa pratica era permessa per riguardo all’adorazione
pagana per gli eroi deificati. Anche i pellegrinaggi alle tombe dei martiri
divenne una forma esteriore di culto. Le ceneri di tali martiri, nonché la
polvere e la terra trasportata dai luoghi che si dicevano fossero stati resi
santi a seguito di qualche fatto insolito, venivano vendute come estremi rimedi
contro le malattie e come mezzo di protezione contro gli assalti degli spiriti
maligni.
«Durante il secondo e terzo secolo la forma del culto era
talmente mutata da aver poca somiglianza con la semplicità e la devozione delle
antiche congregazioni. I discorsi filosofici presero il posto delle ferventi
testimonianze, e l’arte del dire e del disputare soppiantò la vera eloquenza
delle convinzioni religiose. Gli applausi erano consentiti e desiderati perché
erano la prova della popolarità del predicatore. L’offerta dell’incenso,
originariamente aborrita dalle congregazioni cristiane, perché di origine
pagana come il suo significato, divenne comune nelle cerimonie della chiesa
cristiana sullo scorcio del terzo secolo. Nel quarto secolo l’adorazione delle
immagini, sculture o dipinti, venne ad occupare un posto di rilievo nel culto
cristiano. Nell’ottavo secolo il tentativo di mettere un freno agli abusi
derivanti da questa pratica idolatrica portò alla guerra civile.» (Mosheim
"Istituzioni di storia ecclesiastica" Secolo VIII parte II cap.
3:9-10).
Considerando queste dimostrazioni del cerimoniale pagano e dei
riti superstiziosi che presero il posto delle celebrazioni religiose
semplicissime della chiesa al tempo della sua integrità. Chi può dubitare della
vasta e spiacevole apostasia? Ma ancor più importanti, ancora più significative
delle semplici appendici al cerimoniale, sono le alterazioni e le modifiche
introdotte nelle ordinanze più sacre ed essenziali della chiesa di Cristo.
Poiché è comune presso le autorità ecclesiastiche considerare il battesimo e il
sacramento della cena del Signore come le ordinanze più essenziali del Vangelo
istituite da Cristo e seguite dai suoi Apostoli. Esamineremo soltanto queste
come esempi delle alterazioni non autorizzate prima citate. In questa
limitazione dei nostri esempi, noi non diciamo che il battesimo ed il
sacramento della cena erano le uniche ordinanze che la chiesa tenesse in grande
considerazione, in verità ve n’erano delle altre. Per esempio, l’imposizione
delle mani da parte di persone autorizzate per il conferimento dello Spirito
Santo nel caso di credenti battezzati era importante quante il battesimo stesso
(vedere Atti 8:5-8, 12:14-17, inoltre atti 19:1-7, Matteo 3:11 Marco 1:8), e
certamente questa ordinanza era considerata altrettanto essenziale quanto la
prima (vedere Matteo 3:11). Inoltre l’ordinazione al sacerdozio, cerimonia di
autorizzazione divina, era indispensabile al mantenimento di una chiesa
organizzata.
CONTRAFFAZIONE DELL’ORDINANZA BATTESIMALE
Prima di tutto parliamo del battesimo. In cosa consisteva
originariamente questa ordinanza? Quale era il suo scopo ed il modo di
amministrarla? E quali trasformazioni essa subì nel corso dell’apostasia
progressiva attraverso cui passò la Chiesa? Che il battesimo fosse essenziale
(come lo è anche adesso) per la salvezza dell’uomo non c’è bisogno di
dimostrarlo qui; Lo scopo del battesimo era ed è quello di ottenere la
remissione dei peccati. L’osservanza di questo sacramento è stata sin dal
principio la condizione essenziale per poter essere ammessi nella chiesa di
Cristo. Nell’antica chiesa il battesimo veniva amministrato dietro la
professione di fede e la dimostrazione del pentimento; si effettuava per
immersione (vedere Marco 1:4, Luca 3:3, inoltre Atti 2:38 1, Pietro 3:21, Atti
22:16), ed il rito veniva celebrato da una persona investita della necessaria
autorità sacerdotale. Come esempi posiamo citare la rapidità con cui venne
amministrato il battesimo ai credenti in quel fatidico giorno di Pentecoste, il
battesimo amministrato da Filippo al convertito etiope immediatamente dopo la
dovuta confessione di fede, il tempestivo battesimo del devoto Cornelio e della
sua famiglia ed infine il battesimo del carceriere convertito da Paolo, suo
prigioniero. (Atti 2:37-41, Atti 8:26-39, Atti 10:47-48, Atti 16:31-33).
Tuttavia nel secondo secolo un ordine sacerdotale aveva limitato
l’ordinanza sacerdotale del battesimo al tempo delle due festività della
chiesa: la Pasqua e la settimana di Pentecoste. Prima di essere ritenuto idoneo
per ricevere il battesimo, il candidato doveva sottoporsi ad un lungo e tedioso
corso di preparazione. Durante questo tempo egli era chiamato
"Catecumeno" o novizio. Secondo alcune fonti autorevoli, in tutti i casi,
tranne che in quelli eccezionali, il corso preparatorio durava tre anni.
Durante il secondo secolo il simbolismo battesimale della nuova
nascita venne messo in risalto con molte aggiunte a questa ordinanza, talché i
nuovi battezzati erano trattati come neonati e perciò nutriti con latte e miele
come segno della loro immaturità. Inoltre, essendo il battesimo ritenuto una
cerimonia di liberazione dalla schiavitù di Satana, vi furono aggiunte certe
formule usate nel rito di liberazione degli schiavi. Anche l’unzione con olio
entrò a far parte di questa cerimonia. Nel terzo secolo la semplice ordinanza
del battesimo fu ulteriormente alterata dagli uffici di un esorcista. Questo
funzionario religioso si abbandonava a "minacce e a spaventose grida e declamazioni"
per cui i demoni o gli spiriti maligni che si supponeva affliggessero il
candidato venivano scacciati." Lo scacciare questi demoni era ora
considerato essenziale per il battesimo, dopo di che i candidati ritornavano a
casa adornati di corone e di vesti bianche come emblemi sacri. Le corone
stavano ad indicare la loro vittoria sul peccato e sul mondo; le vesti bianche
la loro purezza ed innocenza interiore. Nel quarto secolo si cominciò a mettere
il sale in bocca ai battezzandi, come simbolo della purificazione, e il
battesimo vero e proprio era sia preceduto che seguito da unzione con olio.
La forma o modo del battesimo subì anche un cambiamento radicale
durante la prima metà del terzo secolo, cambiamento a seguito del quale il suo
simbolismo essenziale venne a cessare. L’immersione che rappresentava la morte
seguita dalla resurrezione, non fu più ritenuta un requisito essenziale, e al
suo posto s’introdusse l’aspersione con acqua. Cipriano, dotto vescovo di
Cartagine, propugnò la giustezza dell’aspersione al posto dell’immersione nei
casi di debolezza fisica, e questa pratica in seguito divenne generale. Il
primo di cui si legge è quello di Navota, un eretico che chiese di essere
battezzato quando pensava che la morte fosse vicina.
«Non soltanto la forma del rito battesimale fu radicalmente
cambiata, ma fu alterata anche l’applicazione dell’ordinanza La pratica
dell’amministrazione del battesimo dei neonati fu riconosciuta come ortodossa
nel terzo secolo e indubbiamente risaliva ad epoca precedente. In una lunga
disputa sulla questione se fosse opportuno posporre il battesimo dei neonati
fino all’ottavo giorno dopo la nascita, in ossequio all’usanza giudaica per cui
la circoncisione si eseguiva in quel giorno, fu deciso che tale ritardo sarebbe
stato pericoloso, perché avrebbe potuto pregiudicare il benessere futuro del
bambino se questi fosse morte prima degli otto giorni, per cui il battesimo
doveva essere amministrato quanto prima possibile dopo la nascita.» (Milner
"Storia della Chiesa" secolo III cap 13).
Non si può immaginare una dottrina più ignominiosamente
irrazionale di quella della condanna dei neonati non battezzati, e non c’è
necessità di cercare una prova più valida delle eresie che avevano invaso e
corrotto l’antica chiesa. Le parole di Moroni nel libro di mormon suonano
profetiche al riguardo, (Moroni 8:10-20) «Ecco! Io ti dico ciò che devi
insegnare: la penitenza ed il battesimo per COLORO CHE SONO RESPONSABILI E
CAPACI DI COMMETTER PECCATO, si insegna ai genitori che debbono pentirsi per essere
battezzati ed umiliarsi come i loro figlioletti, allora saranno tutti salvati
come i loro bambini. Ed I LORO FIGLIOLETTI NON HANNO BISOGNO né DI PENTIRSI né
DI ESSERE BATTEZZATI. Ecco il battesimo è per il pentimento a compimento dei
comandamenti, per la remissione dei peccati. Ma i fanciulli sono viventi in
Cristo fin dalla fondazione del mondo; se no Iddio sarebbe un Dio mutevole ed
anche un Dio parziale e di rispetto umano; quanti bambini infatti sono morti
senza battesimo! Dunque, se i fanciulli non potessero essere salvati senza
battesimo, essi sarebbero andati eternamente in inferno! Ora ti affermo che chi
suppone che i fanciullini abbiano bisogno di battesimo è NEL FIELE
DELL’AMAREZZA E NELLE CATENE DELL’INIQUITÀ E NON HA né FEDE né SPERANZA E né
CARITÀ, per cui, se dovesse essere reciso mentre nutre tali pensieri, dovrebbe
scendere giù in inferno. È terribile malvagità supporre che Iddio salvi un
bambino a causa del battesimo e che l’altro debba perire perché non è
battezzato (…)»
I fanciulli non possono pentirsi; perciò è orribile malvagità il
negare le pure misericordie di Dio per loro, poiché sono tutti viventi, grazie
alla sua Misericordia. E chiunque dice che i fanciulli hanno bisogno di
battesimo, nega la misericordia di Cristo, annulla LA SUA ESPIAZIONE ed il
potere della sua redenzione.
Una simile dottrina è estranea al vangelo ed alla chiesa di
Cristo, e la sua adozione quale principio essenziale è una prova
dell’apostasia.
ALTERAZIONI DELL’ORDINANZA DEL SACRAMENTO DELLA CENA DEL SIGNORE
Il sacramento della cena del Signore è stato considerato
un’ordinanza essenziale sino dal tempo della sua istituzione nella Chiesa di
Gesù Cristo. Tuttavia, malgrado la sua santità esso ha subito radicali
trasformazioni sia per ciò che riguarda il suo simbolismo che il suo scopo
riconosciuto. Questo sacramento, così come fu istituito dal Salvatore, e come
era amministrato durante il tempo apostolico, era tanto semplice quanto sacro e
solenne. Accompagnata dal vero spirito del vangelo la sua semplicità era santificatrice;
interpretata dallo spirito dell’apostasia, tale semplicità divenne un biasimo.
Così troviamo che nel terzo secolo, oltre a lunghe preghiere sacramentali, fu
introdotta anche una gran pompa. Le congregazioni che se lo potevano permettere
usavano calici d’oro e d’argento, e questo con grande ostentazione. Coloro che
non erano membri della chiesa, o i membri "che erano in condizioni di
penitenti" venivano esclusi dal servizio, a imitazione della esclusività
che caratterizzava i misteri pagani. Sorsero dispute e divergenze circa la
scelta del tempo per amministrare il sacramento, cioè se la mattina, il
mezzogiorno o la sera, e anche circa la frequenza con cui si doveva celebrare
questa ordinanza. In epoca successiva fu istituita la dottrina della "transustanziazione"
come canone essenziale della Chiesa Romana. Descritta sommariamente, questa
dottrina dice che il pane e il vino usati nel sacramento perdono il loro
carattere di semplice pane e vino e diventano di fatto la carne ed il sangue
del Cristo crocifisso. Si pensa che la trasformazione avvenga in modo mistico
da ingannare i sensi, cioè il pane ed il vino appaiono sempre come tali anche
dopo essere divenuti realmente carne e sangue del Salvatore. Questa concezione,
tanto saldamente difesa e rispettata dai membri ortodossi della chiesa Romana,
è veementemente attaccata da altri come un «canone assurdo» (Milner) e una
dottrina «mostruosa e innaturale» (Mosheim). Si è fatto un gran parlare
dell’origine di questa dottrina, i cattolici romani sostengono che essa è molto
antica, mentre i loro oppositori insistono nell’affermare che fu una
innovazione dell’ottavo o nono secolo. Secondo Milner «essa veniva insegnata
apertamente nel secolo nono». (Milner "Storia della Chiesa" secolo IX
Capitolo 1). «Fu ufficialmente istituita come dogma della chiesa dal concilio
di Piacenza nel 1095.» (Milner "Storia della Chiesa" secolo XIII cap.
1), e «divenne un articolo essenziale della fede, cui tutti dovevano credere,
con un provvedimento del tribunale ecclesiastico romano intorno al 1160. Nel
1215 un editto ufficiale del papa Innocenzo III confermò il dogma come
principio e dettame vincolante della chiesa.» (Mosheim "Istituzioni della
chiesa ecclesiastica" secolo XIII parte II cap. 3:2) ed è tuttora in vigore.
Il simbolo consacrato dell’"ostia" che è considerato
la vera carne e sangue di Cristo, veniva adorato come divino in sé stesso. Così
«alla ricezione di questa dottrina fu collegata una pratica idolatra molto
dannosa. Gli uomini si prostravano davanti all’ostia consacrata perché la
identificavano con Dio; e la novità, l’assurdità e l’empietà di questa pratica
colpirono profondamente la mente di tutti gli uomini che non erano sordi al
senso della vera religione.» Milner "Storia della Chiesa" secolo XIII
cap 1. La Chiesa Cattolica insegna che la celebrazione della messa è un reale
sacrificio, seppure mistico, in cui il Figlio di Dio è offerto ogni giorno
quale continua espiazione per i peccati presenti dei fedeli che partecipano
alla messa. Un’altra alterazione di questo sacramento è rappresentata dalla
somministrazione del solo pane, anziché del pane e del vino come era
originariamente richiesto.
Analizziamo adesso alcune cose più strettamente inerenti il
papato. Roma che da molto tempo era la padrona del mondo nelle questioni
secolari, lo divenne anche in quelle religiose, grazie al vescovo di Roma che
ne rivendicava la supremazia. Ma stando a "Rivelazione" la chiesa di
Roma non era importante nel primo secolo e non vi era alcuna leader, infatti
delle sette chiese menzionate in Apocalisse non solo non si fa riferimento a
Roma, ma parlando della città di Roma l’apostolo Giovanni la chiama Babilonia,
una bella differenza. Secondo Atti la chiesa si riuniva sempre a Gerusalemme
per discutere i vari problemi dottrinali, leggere il capitolo 15. Non vi è
alcun passo, nemmeno quando Paolo va a Roma, che lasci intendere che la sede
fosse stata spostata proprio a Babilonia la grande.
È senz’altro vero che la chiesa di Roma fu organizzata da Pietro
e Paolo, ché forse fu l’unica chiesa che loro organizzarono? Sicuramente no! In
ossequio alla tradizione si diceva che l’apostolo Pietro era stato il primo
vescovo di Roma, ma la Bibbia non conferma. La Chiesa Cattolica di oggi
rivendica la stessa cosa, e cioè l’attuale papa è l’ultimo successore diretto,
non soltanto del vescovato, ma anche dell’apostolato.
La legittima supremazia dei vescovi di Roma, o sommi pontefici,
come furono chiamati in nome dell’umiltà cristiana, fu ben presto messa in
discussione; e quando Costantino trasferì la capitale dell’impero da Roma a
Bisanzio (Costantinopoli), il vescovo di questa città, avendo oramai imparato
come si giocava, reclamò l’uguaglianza con quello di Roma. La contesa divise la
Chiesa, ed i dissensi si trascinarono per secoli fino a quando divenuti più
aspri nel 1054 culminarono in quello conosciuto come scisma d’Oriente, a
seguito del quale il Vescovo di Costantinopoli, noto particolarmente come il
Patriarca, disconobbe ogni e qualsiasi dipendenza dal vescovo di Roma. Questa
rottura è oggi caratterizzata dalla distinzione fra i cattolici romani ed i
cattolici greci.
L’elezione del pontefice, o vescovo di Roma, fu per molto tempo
lasciata al voto del popolo e del clero. Successivamente la funzione elettorale
fu assegnata al clero soltanto, e nell’undicesimo secolo tale potere fu
conferito al collegio dei cardinali che lo detiene tuttora. I pontefici romani
fecero di tutto per acquisire anche l’autorità temporale, oltre a quella
spirituale, ed in un certo senso vi riuscirono; la loro influenza era divenuta
talmente grande che nell’undicesimo secolo li troviamo rivendicare tale diritto
presso principi, re ed imperatori nelle questioni delle varie nazioni. Fu a
questo punto, cioè agli inizi del loro più grande potere temporale, che i
pontefici assunsero il titolo di "Papa", parola che significa
"Padre", nel senso di genitore universale. Il potere dei Papi aumentò
ancora durante il dodicesimo secolo fino a raggiungere il suo apice nel
tredicesimo.
Non contenti della supremazia su tutti gli affari della chiesa,
i papi «portarono le loro insolenti pretese fino al punto di farsi passare per
signori dell’universo, arbitri del destino di regni ed imperi, e supremi
regnanti al disopra dei re e dei principi della terra.» (Mosheim
"Istituzioni di storia ecclesiastica" secolo XI parte II cap 2:2).
Paragonate questa arrogante e tirannica chiesa del mondo con la Chiesa di
Cristo. Sotto Ponzio Pilato nostro Signore dichiarò: «Il mio regno non è di
questo mondo».
«Nel secolo quarto la chiesa aveva emanato quella che è stata
definita una legge iniqua ed infame, e cioè che gli errori nella religione, se
sostenuti dopo giusti ammonimenti, erano punibili con pene civili e torture
corporali» (Mosheim "Istituzione di storia ecclesiastica" secolo IV
parte II cap 3:16). Con il passare degli anni l’applicazione di questa legge
appariva sempre più atroce, tanto che nell’undicesimo secolo, ed anche più
tardi, troviamo che la chiesa impone pene pecuniarie, prigionia, torture
corporali e persino la morte, per l’infrazione di leggi ecclesiastiche, e, più
ignominioso ancora, che tali sentenze venivano mitigate o annullate dietro
pagamento di denaro. Questo portò alla ripugnante consuetudine della vendita
delle "indulgenze", commercio questo che in seguito prese le vie più
tortuose arrivando al disonorevole estremo di concedere le indulgenze prima
ancora di aver commesso la colpa, evidentemente essi pensavano in grande.
In principio la concessione delle indulgenze come esonero dalle
pene temporali era ristretta ai vescovi e come commercio organizzato questa
abitudine risale alla metà del dodicesimo secolo. Tuttavia stava ai papi
giungere all’empio limite di pensare di rimettere i castighi dell’aldilà dietro
pagamento delle somme prescritte. La loro pretesa giustificazione dell’empia presunzione
era orribile quanto l’azione in sé stessa, e costituisce la spaventosa dottrina
della"supererogazione". Questa dottrina, che fu formulata nel
tredicesimo secolo, diceva questo: «Esisteva veramente un immenso tesoro di
meriti, consistenti nelle azioni pie e virtuose che i santi avevano compiuto al
di là di quello che era necessario per la loro salvezza, e che dunque si
applicavano a vantaggio degli altri; che il custode e dispensiere di questo
prezioso tesoro era il pontefice romano e che, conseguentemente, egli aveva la
facoltà di assegnare a coloro che riteneva meritevoli una porzione di questa
inestinguibile fonte di meriti, in misura idonee alle loro rispettive colpe, e
in quantità sufficiente a liberali dal castigo che avrebbero dovuto subire per
le loro colpe.» (Mosheim vedere "Istituzioni di Storia ecclesiastica"
XII secolo parte II cap 3:4).
A dimostrazione delle indulgenze vendute in Germania nel
sedicesimo secolo, abbiamo la descrizione delle azioni di Johann Tetzel,
rappresentante del papa, il quale andava in giro vendendo il perdono dei
peccati. Dice Milner: «Miconio ci assicura che egli stesso udì Tetzel declamare
con incredibile impudenza l’illimitato potere del papa e l’efficacia delle
indulgenze, la gente credeva che nel momento in cui la persona pagava i soldi
per un’indulgenza la sua salvezza fosse certa, e che le anime per cui si
comperavano le indulgenze venissero seduta stante fatte uscire dal purgatorio.
Johann Tetzel si vantava di aver salvato con le sue indulgenze più anime dall’inferno
di quante non ne avesse convertite S. Pietro al Cristianesimo con le sue
prediche. Egli assicurava a chi acquistava le indulgenze che i suoi peccati,
per quanto gravi, sarebbero stati perdonati; per cui divenne quasi inutile per
lui invitare i peccatori a redimersi col pentimento se volevano salvarsi.»
(Milner "Storia della chiesa XVI secolo cap. 2).
Una copia di una indulgenza scritta da Tretzel stesso, il
venditore della grazia papale, ci è stata tramandata come segue: «Possa nostro
Signore Gesù Cristo, avere misericordia di te ed assolverti per i meriti della
sua santissima passione. Ed io, per la sua autorità, per quella dei suoi
apostoli Pietro e Paolo, e del santissimo papa, a me concessa e affidata, ti
assolvo, prima di tutto da ogni biasimo ecclesiastico, quale che sia il modo in
cui tu sia incorso in esso, quindi da tutti i peccati, trasgressioni ed
eccessi, per quanto enormi possano essi essere, persino da quelli che sono di
competenza del papa. E per quello che le chiavi della Santa Chiesa hanno il
potere di fare, io ti rimetto tutti i castighi che ti meriti nel purgatorio a
causa delle tue colpe e ti reintegro nei tuoi diritti, nel diritto ai santi
sacramenti della chiesa, nel diritto all’unità dei fedeli, e nel diritto a
quella innocenza e purezza che possedevi al momento del battesimo. Così quando
morirai, le porte del castigo resteranno chiuse, e quelle del paradiso ti
saranno aperte. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.»
(Millener "Storia della Chiesa" XVI secolo cap. 2).
A mo’ di scusa o di difesa, la chiesa Cattolica Romana asseriva
che una dichiarazione di contrizione o di pentimento era necessaria da parte
della persona che chiedeva l’indulgenza e che la grazia veniva accordata in
base di tale pentimento e non dietro compenso pecuniario o di qualche altra
cosa. Se la chiesa accettava qualcosa dai beneficiari delle indulgenze, era per
rispetto all’usanza di fare un dono alla Chiesa. Inoltre sappiamo che intorno
alla metà del sedicesimo secolo il Concilio di Trento disapprovò gli abusi
inerenti alla vendita delle indulgenze. Tuttavia rimane il terribile fatto che
per centinaia di anni la chiesa aveva rivendicato per il suo papa il potere di
rimettere i peccati, e che il provvedimento di perdono dei medesimi veniva venduto
come una qualsiasi altra merce.
Un altro abuso perpetrato dai concilii per il cui tramite i
sommi pontefici esercitavano poteri autocratici, si riscontra nelle restrizioni
imposte nella lettura e nella interpretazione della scrittura. Lo stesso
concilio di Trento, che aveva disconosciuto l’autorità o la responsabilità
delle azioni compiute dai funzionari ecclesiastici in merito allo scandaloso
traffico delle indulgenze, ordinò l’emissione di una serie di provvedimenti
atti ad impedire al popolo la lettura delle Scritture. Così: «Fu promulgata una
legge severa e intollerabile che faceva divieto a tutti gli interpreti e
commentatori delle Scritture di non dare, del contenuto di questi libri divini,
un significato diverso da quello espresso dal linguaggio della Chiesa e dei
suoi antichi dottori. La stessa legge dichiara inoltre che la Chiesa soltanto
(cioè il suo capo, il papa) aveva il diritto di stabilire il vero significato
della scrittura. Per colmare la misura di questi provvedimenti tirannici ed
iniqui, la chiesa di Roma continuò ostinatamente ad affermare, anche se non
sempre con la stessa imprudenza e chiarezza di parola, che le sacre Scritture
non erano state composte per uso della moltitudine, ma soltanto per quello dei
suoi insegnanti spirituali; e di conseguenza, ordinò che questa divina
documentazione fosse sottratta al popolo in tutti i luoghi che erano sotto la
sua giurisdizione.» (Mosheim"Istituzioni di storia ecclesiastica" XVI
secolo parte I cap 1:25).
Indubbiamente una cappa di tenebre si era abbattuta sulla terra.
Da lungo tempo la chiesa di Cristo aveva cessato di esistere. Al posto del
Sacerdozio conferito per autorità divina, c’era un papato creato dall’uomo che
governava con la mano di ferro della tirannia e della costrizione morale. In una
sua valente opera il Dr. J.W. Draper fa un elenco dei pontefici che si
succedettero dalla metà dell’ottavo secolo alla metà dell’undicesimo secolo,
con note biografiche su ciascuno.
IL PAPATO CONDANNA SÉ STESSO
Considerando gli interessi della religione soltanto, ad alcuni
può sembrare desiderabile omettere qualsiasi riferimento biografico sui papi;
ma ciò non può essere fatto con giustizia verso la questione. Il principio
essenziale del papato, secondo cui il pontefice romano è il vicario di Cristo
in terra, necessariamente comporta un suo rapporto personale con noi. Come
faremo noi a capire la sua fede, se non la vediamo esemplificata dalla sua
vita? Infatti, l’infelice natura di quei rapporti fu la causa che suscitò i
movimenti della Germania, Francia e Inghilterra, che terminarono con
l’estinzione del papato quale potere polito reale, movimenti che si capiscono
soltanto attraverso una sufficiente conoscenza della vita privata dei papi. Per
quanto possibile, è bene astenersi dall’attribuire ai sistemi le imperfezioni
dei singoli individui. In questo caso essi sono inseparabilmente connessi. Un
contrassegno non certo apprezzabile del papato è che, sebbene la sua storia
possa essere grandiosa, la sua biografia è disgustosa. Tuttavia eviterò di
parlarne in questi termini più di quanto la circostanza sembri necessariamente
richiedere; tacerò su alcuni di quei casi che impressionerebbero profondamente
il lettore veramente religioso, e mi limiterò a prendere in considerazione solo
il periodo che va dalla metà dell’ottavo secolo alla metà dell’undicesimo,
adducendo per il critico imparziale la scusa che tale periodo è quello di cui
mi sono principalmente interessato in questo capitolo.
«Alla morte del papa Paolo I, che era salito al pontificato nel
757 d.C., il Duca di Nepi costrinse alcuni vescovi a consacrare
"papa" Costantino, uno dei suoi fratelli. Ma successivamente, dopo
che gli elettori più legittimi ebbero scelto Stefano IV (768 d.C.) l’usurpatore
ed i suoi accoliti furono severamente puniti; a Costantino furono cavati gli
occhi; al vecchio Teodoro fu tagliata la lingua, e poi fu gettato in una
prigione e lasciato morire dall’agonia della sete. I nipoti del papa Adriano,
con l’aiuto di alcuni nobili, aggredirono il nuovo papa Leone III durante una
processione e lo picchiarono a sangue lasciandolo in mezzo al Corso con la
lingua mozza e gli occhi accecati (799 d.C.). In seguito a questo fatto si aprì
a Roma un altro periodo di complotti, attentati, uccisioni, ecc. Il successore
di Leone III, Stefano V (816 d.C.) fu ignominiosamente scacciato dalla città e
sostituito con Pasquale I. Ma anch’egli fu accusato di aver accecato ed ucciso
due ecclesiastici nel palazzo Laterano. Di fronte a tale accusa era necessario
che i commissari imperiali indagassero sulla faccenda, ma il papa morì dopo
essersi discolpato giurando davanti a 30 vescovi. Giovanni VIII (872 d.C.)
incapace di resistere ai Maomettani, fu costretto a pagar loro una certa somma,
parte della quale andò nelle tasche del Vescovo di Napoli, che aveva stretto
un’alleanza segreta con loro. Giovanni lo scomunicò, e minacciò di non
assolverlo se non avesse tradito il capo dei Maomettani e non avesse
assassinato alcuni di loro. In seno al clero vi fu una cospirazione per
uccidere il papa; parte del tesoro della chiesa fu trafugato, e la porta di S.
Pancrazio fu aperta con chiavi false per far entrare i saraceni nella città.
Formoso, che aveva preso parte a queste operazioni e che fu scomunicato come
cospiratore per l’assassinio di Giovanni, fu in seguito eletto papa (891 d.C.)…
Gli succedette Bonifacio VI (896 d.C.), il quale era stato deposto dal
diaconato, e quindi dal sacerdozio, per la sua vita immorale e dissoluta. Da
Stefano che gli succedette, venne aperto un processo postumo contro Formoso, il
cui cadavere fu esumato dalla tomba, vestito delle vesti papali e puntellato su
di una seggiola. Stefano VI aprì l’udienza; Formoso fu riconosciuto colpevole e
deposto. Al termine del processo un prete strappò di dosso al cadavere i
paramenti sacri, gli recise le tre dita dalla mano destra, gli tagliò la testa
e fra i lazzi osceni del popolino gettò le sue ossa nel Tevere. Ma Stefano
stesso era destinato ad esemplificare quanto il papato fosse caduto in basso;
egli fu tradotto in prigione e strangolato. Nel corso di 5 anni, dal 896 .d.C.
al 900 d.C. furono consacrati 5 papi. Leone V, che fu eletto nel 904 d.C., in
meno di 2 mesi fu gettato in prigione da Cristoforo, uno dei suoi cappellani,
il quale, dopo averne usurpata la tiara, fu poco dopo espulso da Roma da Sergio
III, il quale, con l’aiuto di una forza militare, nel 905 d.C. si impadronì del
pontificato. Quest’uomo, secondo la testimonianza di quei tempi, visse
mantenendo rapporti sessuali con le prostitute Teodora, la quale insieme alle
sue figlie Marozia e Teodora, esse pure prostitute, esercitò uno straordinario
potere su di lui. Teodora amò pure Giovanni X; essa prima gli dette
l’arcivescovado di Ravenna, e poi nel 915 d.C., lo trasferì a Roma come papa.
Giovanni non era all’altezza dei tempi e tuttavia seppe organizzare la difesa
di Roma contro i Saraceni. Il mondo rimase stupefatto dell’apparizione di
questo pontefice alla testa delle sue truppe. Per l’amore di Teodora, come
abbiamo detto, egli tenne la tiara per 14 anni; poi per gli intrighi e l’odio
della di lei figlia Marozia, fu gettato in prigione e soffocato con un cuscino.
Dopo un breve intervallo, Marozia fece salire sul trono di Pietro il figlio,
che prese il nome di Giovanni XI, nel 931 d.C. Molti affermarono che il papa
Sergio era suo padre, ma essa stessa era incline ad attribuirlo a suo marito
Alberico. Un altro dei suoi figli, Alberico, chiamato come il padre, un po’ per
odio e un po’ per gelosia fece arrestare il fratellastro Giovanni e lo gettò in
prigione insieme alla loro madre Marozia. Dopo un certo tempo fu eletto papa,
il figlio di Alberico, 956 d.C., che prese il nome di Giovanni XII. Giovanni
aveva soltanto 19 anni quando divenne papa (Giovanni XI ne aveva 12). Il suo
regno fu caratterizzato dalle più disgustose immoralità, tanto che l’imperatore
Ottone I fu costretto dal clero germanico ad intervenire. Fu indetto un sinodo
per processarlo nella chiesa di S. Pietro.
Egli era accusato di aver accettato denaro per la consacrazione
di certi vescovi; di aver ordinato un ragazzo di soli 10 anni, di aver
celebrato quella ed un’altra cerimonia in una stalla, di aver commesso incesto
con una delle concubine di suo padre, e di così tanti altri adulteri che il
palazzo Laterano era divenuto un bordello. Egli tolse gli occhi ad un
ecclesiastico, ed un altro fu castrato, e tutti e due morirono a causa delle
sue sevizie. Era dedito all’ubriachezza, al gioco d’azzardo e all’invocazione
di Giove e Venere. Quando gli fu ordinato di apparire dinanzi al consiglio,
egli fece sapere che "era andato fuori a caccia" ed ai padri che
protestarono contro di lui osservò che "Giuda, come gli altri apostoli,
aveva ricevuto dal suo maestro il potere di legare e di sciogliere, ma che non
appena fu provato che egli era un traditore della causa comune, il solo potere
che conservò fu quello di legare il proprio collo." Al che egli fu deposto
e al suo posto venne eletto nel 963 d.C. Leone VIII, ma successivamente prese
il sopravvento, s’impadronì dei suoi antagonisti, tagliò la mano ad uno, il
naso, un dito, la lingua ad altri. Alla fine fu ucciso per vendetta da un uomo
la cui moglie aveva sedotto.
Dopo tali particolari, è quasi inutile citare gli annali dei
papi successivi, cioè raccontare per esempio, che Giovanni XIII fu strangolato
in prigione, che Bonifacio VII mise in prigione Benedetto VIII e lo uccise
facendolo morire di fame, che Giovanni XIV fu segretamente messo a morte nelle
prigioni di Castel Sant’Angelo, che il cadavere di Bonifacio fu trascinato
dalla popolazione lungo le strade. Il sentimento di venerazione per il
pontefice sovrano, o meglio, di rispetto, in Roma si era estinto; in tutta
l’Europa il clero era così impressionato dallo stato di cose che, nella sua
indignazione, cominciò a considerare favorevolmente l’intenzione
dell’imperatore Ottone di togliere agli italiani il privilegio di nominare il
successore di Pietro, e di limitarlo alla sua stessa famiglia. ma il suo
congiunto, Gregorio V, che egli mise sul trono pontificio, fu ben presto
costretto dai Romani a fuggire; le sue scomuniche ed i suoi rimbombi religiosi
furono pubblicamente derisi; i Romani conoscevano troppo bene la vera natura di
quei terrori: essi vivevano dietro le quinte. Un terribile castigo aspettava
l’antipapa Giovanni XVI. Ottone ritornò in Italia, lo catturò, gli tolse gli
occhi, gli tagliò il naso e la lingua, e lo mandò per le strade a cavallo di un
asino con la faccia rivolta verso la coda dell’animale, con sul capo un’otre di
vino. Sembrava impossibile che le cose potessero peggiorare; tuttavia Roma
doveva ancora vedere Benedetto IX (1033) un ragazzo che ancora non dodicenne fu
elevato al trono apostolico. Di questo pontefice uno dei suoi successori,
Vittorio III, dichiarò che la sua vita era stata così vergognosa, così
indecente, così esecrabile da farlo rabbrividire al solo descriverla. Egli
aveva governato come un capitano di banditi, anziché come un prelato. Alla
fine, la popolazione, incapace di sopportare oltre i suoi adulteri, i suoi
omicidi e le sue gesta abominevoli, era insorta contro di lui. Per la
disperazione di non saper conservare la sua posizione, egli aveva messo
all’asta la tiara, che era stata acquistata da un presbitero di nome Giovanni
conosciuto come Gregorio VI (1045)» (J.W. Draper "Intellectual development
of Europe" Vol 1 cap XII pag 378-381).
CONSEGUENZE DELL’APOSTASIA
Il periodo che va dal decimo secolo fino al tempo dell’umanesimo
va sotto il nome di secoli bui, caratterizzati dal ristagno nel progresso delle
arti, delle scienze e delle lettere, con un conseguente stato generale di
ignoranza e di analfabetismo fra le masse.
L’ignoranza è un terreno fertile per le erbe maligne, e il
governo dispotico e gli errori dottrinali della chiesa durante questo periodo
di tenebre erano nutriti dall’ignoranza di quei tempi. Con la trasformazione
nota nella storia come il "Rinascimento" venne la lotta per la
libertà dalla tirannia della chiesa.
Una delle prime rivolte contro il dispotismo temporale e
spirituale della chiesa fu quella degli Albigesi, in Francia, durante il tredicesimo
secolo. Questa insurrezione era stata soffocata dall’autocrazia papale con
grande crudeltà e spargimento di sangue. La successiva rivolta importante fu
quella di John Wickliffe, nel secolo quattordicesimo. Wickliffe era un
professore dell’Università di Oxford, Inghilterra. Egli attaccò apertamente
l’abuso del potere esercitato dai monaci, e denunciò la corruzione della chiesa
e tutti i suoi errori dottrinali. Nella sua opposizione alle restrizioni papali
sullo studio popolare delle scritture egli fu particolarmente energico, e dette
al mondo una versione inglese della Sacra Bibbia tradotta dalla Volgata.
Malgrado le persecuzioni e la sentenza, egli morì di morte naturale. Anni dopo
però la chiesa insistette sulla vendetta, e di conseguenza le sue ossa furono
esumate e bruciate e le ceneri sparse al vento.
Nel continente europeo le rivolte contro la chiesa furono
promosse da Jan Huss e da Gerolamo da Praga i quali subirono il martirio come
premio del loro giusto zelo. Questi esempi sono qui citati per dimostrare che,
benché la chiesa fosse stata per lungo tempo apostata fino al midollo, c’erano
uomini pronti a sacrificare la propria vita per difendere quella che essi
ritenevano essere la causa della Verità.
Le condizioni che esistevano all’inizio del sedicesimo secolo
sono state brevemente riassunte da uno storico moderno cone le seguenti parole:
«Prima dell’inizio del sedicesimo secolo c’erano state popolazioni come gli
Albrigesi nella Francia meridionale, i Wicliffiani in Inghilterra, e gli
Hussiti in Boemia, i quali avevano negato l’autorità suprema e l’infallibilità
del papa in tutte le questioni che riguardavano la religione. Parlando in
termini molto generali sarebbe corretto dire che alla fine del quindicesimo
secolo tutte le nazioni dell’Europa occidentale professavano la fede della
Chiesa Cattolica Romana, o latina, e obbedivano alla Santa Sede.»
(Myers"Gen. Hist." pagina 520).
La successiva rivolta, quella più importante, contro la chiesa
di Roma ebbe luogo nel sedicesimo secolo ed assunse proporzioni tali da essere
chiamata "La Riforma". Questo movimento ebbe origine in Germania
intorno al 1517, quando Martin Lutero, monaco agostiniano e professore
dell’Università di Wittemberg, si oppose pubblicamente a Tetzel, il già
ricordato incaricato papale per la vendita delle indulgenze. Lutero era
intimamente convinto che l’intero sistema delle penitenze ed indulgenze era
contrario alle scritture, alla ragione ed alla giustizia. Egli scrisse le sue
famose 95 tesi contro le indulgenze, quindi ne affisse una copia alla porta
della chiesa di Wittemberg, esortando tutti gli studiosi a presentare le loro
eventuali critiche. La notizia si diffuse in tutti i centri di studio d’Europa.
Lutero attaccò altri abusi e altre dottrine della Chiesa Romana, per cui il papa
Leone X lo invitò ad una ritrattazione incondizionata, pena la scomunica.
Lutero bruciò pubblicamente il documento papale di ingiunzione dichiarando così
la sua aperta rivolta. Contro di lui fu allora pronunciata la sentenza di
scomunica.
Questa è la dichiarazione che Lutero rese dinanzi al consiglio o
"Dieta" di Worms: «Io non posso sottomettere la mia fede né al papa
né al consiglio perché è chiaro come il giorno che essi hanno sbagliato e si
sono reciprocamente contraddetti. Perciò, a meno che io non sia convinto dalla
testimonianza della scrittura e dalla logica più lampante, a meno che io non
sia persuaso in base ai passi che ho citato, e a meno che essi non rendano la
mia coscienza vincolata dalla Parola di Dio, io non posso ritrattare, né
ritratterò, perché è pericoloso per un cristiano andare contro la sua
coscienza. Questa è la mia posizione, non posso fare diversamente. Dio mi
aiuti! Amen.»
La controversia religiosa si diffuse in tutta l’Europa. Nella
seconda dieta di Spira (1529) fu promulgato un editto contro i riformatori. A
questo editto i rappresentanti di 7 principati germanici ed altri delegati
contrapposero una protesta ufficiale, e da ciò presero il nome di
"Protestanti". Lutero morì nel 1546, ma l’opera riformatrice continuò
ad espandersi. Presto però i Protestanti si divisero e formarono molte sette in
lotta fra di loro.
Una conseguenza del protestantesimo fu il parziale risveglio
della Chiesa romana alla necessità di una riforma interna, e così si tentò una
seria riaffermazione dei princìpi cattolici. Il concilio di Trento (1545-1562)
negò per la chiesa le rivendicazioni avanzate per le indulgenze, e disconobbe
la sua responsabilità di gran parte degli abusi di cui la chiesa era stata
accusata. Ma in concomitanza con il tentativo di riforma venne anche la
richiesta di una più completa obbedienza ai dettami della chiesa.
Verso la fine del quindicesimo secolo, sotto il regno di
Ferdinando ed Isabella di Spagna, fu istituito il tribunale dell’inquisizione,
allora noto come il Santo Ufficio. Lo scopo principale di tale istituzione era
quello di perseguire e di condannare gli eretici con pene severissime. Di
questo ignominioso Santo Uffizio che aveva il suo quartier generale in Spagna,
Myers dice: «Il Santo Uffizio divenne così strumento della crudeltà più
incredibile. Migliaia di persone furono arse sul rogo, e decine di migliaia
furono condannate a scontare pene terribili. La regina Isabella, per aver dato
il suo nulla osta alla fondazione di un si crudele strumento di persecuzione e
di morte, deve essere stata spinta da uno zelo eccessivo religioso e dalla
deprecabile presunzione che sopprimendo l’eresia essa espletava un semplice
dovere e rendeva un servizio a Dio "Nell’amore di Cristo e della sua
Vergine Madre" essa dice "ho causato grande dolore. Ho spopolato
città e distretti, province e regni» (Myers "Gen Hist" pagina 500).
Ora, nel sedicesimo secolo, in concomitanza con il tentativo di
riforma delle dottrine cattoliche, la terribile Inquisizione «prende nuovo
vigore e attività, e l’eresia è tratta con estrema severità». Quanto segue
getta luce sulle condizioni di quel tempo: «A questo punto, in concomitanza con
le persecuzioni dell’Inquisizione, non dobbiamo dimenticare che nel sedicesimo
secolo il rifiuto di uniformarsi al culto stabilito era considerato da tutti,
Protestanti e Cattolici, una specie di tradimento contro la società e veniva
trattato di conseguenza. Così troviamo Calvino a Ginevra che da il suo consenso
perché Serveto (1553) sia arso sul rogo per aver diffuso concezioni che i
Calvinisti ritenevano eretiche; ed in Inghilterra vediamo che i protestanti
anglicani che conducono le persecuzioni più crudeli, senza interruzione, non
solo contro i Cattolici, ma anche contro tutti i protestanti che si rifiutavano
di uniformarsi alla chiesa ufficiale dello stato.»
Possiamo dire tranquillamente che a questo punto, cattolici e
protestanti dessero dimostrazione che per certo non praticavano per niente il
comandamento più importante che Gesù aveva insegnato "Ama il prossimo tuo
come te stesso", "Ama il tuo nemico e se questi ti costringe a fare
un miglio fanne due", molto probabilmente tutte queste persone facevano il
secondo miglio per trovare un buon posto per accendere il fuoco. Da queste cose
risulta evidente che non solo la Chiesa Cattolica, che aveva prodotto questo
stato di cose, aveva commesso molte atrocità, ma gli stessi nuovi adepti delle
nuove comunità religiose stavano intraprendendo la stessa via che essa aveva
battuta: "L’intolleranza".
Cosa dire di una chiesa che cerca di propagare la sua fede con
tali metodi? Il fuoco e la spada sono le armi con cui la Verità combatte le sue
battaglie? La tortura e la morte sono argomenti evangelici? Se le persecuzioni
subite dagli antichi Cristiani ad opera dei loro nemici pagani avevano la stessa
matrice, può una simile esser la chiesa di Cristo?
In Inghilterra nacque la chiesa anglicana solo perché il loro
regnante, che era stato appena definito "difensore della fede" voleva
avere il divorzio per sposare Anna Bolena. Dato che il papa tergiversava Enrico
VIII divenuto impaziente, si sposò segretamente. Il papa non poté fare altro
che scomunicarlo e così Enrico VIII fondò la chiesa di Inghilterra e se ne fece
il capo. Direi che espediente più ridicolo ed infamante per edificare una
chiesa non sia mai stato trovato.
Nelle profezie dello stesso Cristo vi è l’avvertimento che negli
ultimi giorni vi sarebbe stato "Ecco, quello è Cristo, ecco questo è
Cristo". Vi sono chiese come la chiesa di Inghilterra che portano il nome
della loro nazione di origine, oppure come la Chiesa Cattolica, che significa
"Universale", altre sette portano il nome dei loro promotori:
Luterani, Calvinisti, Wesleiani, altre sono nate per qualche particolarità di
credo o dottrina, come i Metodisti, i Battisti, i Presbiteriani, ma possibile
che nessuna chiesa si sia chiamata con il nome del suo vero Fondatore o Pietra
Angolare?
Se la madre chiesa è senza autorità divina, come era nel caso
della Chiesa Cattolica. Infatti se Dio tolse il sacerdozio agli ebrei per lo
stesso motivo (l’apostasia) non aveva forse molti più motivi per fare
altrettanto con una chiesa tirannica, dispotica che niente aveva a che fare con
la religione di Cristo? Se la Chiesa Cattolica non aveva l’autorità, come
giustamente i protestanti affermavano, e qui essi avevano pieno diritto di
affermarlo, da chi essi ebbero questo importante riconoscimento, e cioè il
sigillo dell’autorità divina? Quasi tutti i protestanti affermano che lo hanno
avuto tramite lo Spirito Santo, ma è lo Spirito Santo diviso? mi spiego se il
movimento protestante avesse formato una Chiesa, anche se scritturalmente non
sarebbe provabile che lo Spirito Santo avrebbe dato loro l’autorità almeno si
potrebbe dire che lo Spirito Santo aveva riprodotto UNA SOLA VERITÀ, invece il
movimento protestante costituì una miriade di chiese con una miriade di
differenti dottrine, allora dovremmo dire che il vero ricercatore dovrebbe
individuare quale fra questa miriade era la chiesa che Dio voleva restaurare.
Ma andiamo avanti, nei tempi passati Dio aveva già avuto modo di risolvere
questo problema dell’apostasia e come lo aveva risolto? Aveva forse lasciato
agli uomini il modo oppure era intervenuto Egli stesso inviando messaggeri
celesti, o profeti o che dir si voglia? Se insistete nel dire che i protestanti
erano mandati da Dio, dovreste convenire che ne mandò troppi e con idee
diverse, ma nessuno di loro ebbe l’ardire di dire che era stato mandato da Dio,
nessuno ebbe il coraggio di dire: "Così dice il Signore" nessuno mai
dichiarò "ho l’autorità per fare questo, perché…". Questo tasto non è
mai stato toccato, perché era un tasto dolente e tale è rimasto fino ad oggi.
La conseguenza della Grande Apostasia è la restaurazione del
Vangelo che segna l’inizio della dispensazione della pienezza dei tempi. Noi affermiamo
che questo è avvenuto nella prima parte del diciannovesimo secolo, con
l’avvento della chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Se ciò non
è vero allora il mondo è ancora in piena apostasia e senza il Sacerdozio di Dio
e per chi non crede che ciò non sia accaduto non ha altra speranza che quella
di attendere un’altra restaurazione, ma come diceva il profeta Isaia: «Iddio
farà maraviglie su maraviglie».
Apocalisse 14:6-7 «poi vidi un altro angelo che volava in mezzo
al cielo, recante l’Evangelo eterno PER ANNUNZIARLO A QUELLI CHE ABITANO SULLA
TERRA e ad ogni nazione e tribù e lingua e popolo; e diceva con gran voce:
temete Iddio e dategli gloria, poiché l’ora del suo giudizio è venuta; e
adorate Colui che ha fatto il cielo e la terra e il mare.»
AIRESIS: LE RAGIONI DELL’ERESIA
Paolo Aldo Rossi - Ordinario di Storia del
pensiero Scientifico - Università di Genova
E’ venuto il tempo di chiamare un sito web www.airesis.net
ovvero eresia in rete.
Il significato letterale del termine (che deriva dal greco
airesiς - airesis) significa “ scelta” (dal verbo airew = scelgo,
preferisco, approvo una opinione, eleggo una parte politica …).
Il concetto di “airesis-scelta” è strettamente legato a quello
di “dùnaton-possibilità”, solo dove c’è l’una ci può essere anche l’altra. La
scelta-possibilità è una delle indicazioni fondamentali del concetto di libertà
e di libero arbitrio.
Platone, nel mito di Er, fa dipendere l’intero destino dell'uomo
dalla preferenza che egli fa del modello di vita (o di virtù) che gli è più
proprio: “Per la virtù non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a
seconda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l'autore della sua scelta,
la divinità è fuori causa ... Non c'era nulla di necessariamente preordinato
per l'anima perché ciascuna doveva cambiare secondo la scelta che essa faceva ”
(Rep., X, 617 618 b). E Aristotele afferma “Nelle cose infatti in cui
l'agire dipende da noi, anche il non agire dipende da noi; e là dove siamo in
grado di dire no, possiamo anche dire si. Sicché se il compiere un'azione bella
dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere un'azione brutta … l'uomo è
il principio e il padre dei suoi atti, come dei suoi figli ”e la scelta“ è
sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero” (Et. Nic., 111, 5,
111,3 b,
Poi, a poco a poco, eresia cessa di significare una
scelta, fatta da un uomo libero, fra varie possibilità, per diventare l’assenso
ad una verità incontrastabile e indiscussa che, risultando socialmente e
universalmente vincente o ,diviene anche eternamente vera.
Hobbes nel Leviatano scriveva “Quelli che approvano
un’opinione privata la chiamano opinione; ma quelli che la disapprovano la
chiamano eresia”. Ovvio che la retta opinione è la mia (o la nostra
“ortodossia” o retta opinione), invece l’eterodossia è quella degli estranei,
degli altri, dei diversi che a lungo andare finisce con il diventare
eresia (ma con il nuova significato di dottrina erronea, sacrilega, bestiale …
).
L’eresia – diceva Voltaire - è “frutto di un po’ di
scienza e un po’ d’ozio” perché tipico del lavoro scientifico è lo scegliere e
determinazione specifica dell’ozio è il sognare.
Un tempo, nei primi anni '80, esisteva una famosa rivista
mensile dal titolo "Abstracta: curiosità della cultura, cultura della
curiosità". A quell'epoca, dove non esistevano i siti in Internet, le
riviste si stampavano su carta e, come si sa, i prezzi dell’arte tipografica
erano molto alti, specialmente per pubblicazioni di elevato livello grafico e
di notevole parametro di scrittura. Abstracta non era solo una rivista
graficamente bella, ma era anche contenutisticamente il meglio che la cultura
italiana avesse mai prodotto in quel campo: l’ambito degli studi sul pensiero
“altro”
:
a) lo studio di sistemi di razionalità "altre"
rispetto all'attuale modello della razionalità scientifica;
b) la ricostituzione dell'originale portato semantico dei
linguaggi magico-esoterici sia sotto l'aspetto storico che sotto l'aspetto
simbolico;
c) l'indagine delle tecniche del corpo e della mente come vie
verso il rapporto con il numinoso;
d) L'esplorazione delle molteplici modalità proprie
dell'esperienza religiosa e della sapienza mitica;
e) L'analisi delle interazioni specifiche tra complessi
culturali attivi nello stesso ambito storico-geografico e l'analisi delle loro
rispettive stratificazioni;
f) lo studio dei meccanismi consci ed inconsci attraverso i
quali la cultura discriminata si difende dalla rimozione operata dalla cultura
dominante e si rigenera costantemente.
E il tutto attraverso la ricostruzione storica delle discipline
prese in considerazione, ma come ci ammoniva il Burckhardt: "Ciò che un
tempo fu gioia e dolore, ora deve diventare conoscenza, come del resto è anche
la vita del singolo. Così anche la massima: Historia magistra vitae acquista
un senso più alto e al tempo stesso più modesto. Mediante l'esperienza vogliamo
divenire non tanto accorti (per un'altra volta) quanto piuttosto saggi (per
sempre)"
In questa prospettiva Marc Bloch, al fanciullo che chiedeva:
"Papà a cosa serve la storia?" non avrebbe potuto dare altra risposta
che quella cartesiana circa l'inutilità di un sapere basato esclusivamente su
esperienza e memoria e, quindi, condurre il tema alle sue estreme conseguenze
logiche affermando con il Fontenelle: "Chiunque avesse abbastanza spirito
studiando semplicemente la natura umana indovinerebbe tutta la storia passata e
tutta la storia futura, senza avere mai inteso parlare di nessun
avvenimento". Al contrario, come sappiamo, Marc Bloch assume la domanda
del fanciullo come epigrafe ad un libro che porta il significativo titolo: Apologia
della storia o il mestiere dello storico, nel corso del quale egli ricerca
il senso della storiografia nel lavoro quotidiano dello storico ossia nella
costante appassionata ricostruzione di un passato che si svela con toni di
cangiante iridescenza proteiforme e mai come costante ripetizione di eventi
sempre simili a se medesimi. Quest'ultima è sicuramente la storia di una
colonia di insetti costretta da sempre alla rigidità dei comportamenti
istintuali, non certamente quella del destino dell'uomo che gravido di scelte
non può essere la somma di rigide prescrizioni sul presente.
In uno dei più suggestivi testi vedici Krisna indica al
discepolo Arjuna i cinque oggetti di studio della Bagavad-gita: l'Isvara (il
Signore supremo), lo jiva (l'anima individuale), la prakrti (la natura
materiale), il Kula (l'eternità) e il karma (l'azione). Solo il karma, fra
questi, non è eterno né immutabile, esso è la rete che imprigiona gli uomini
nell'agire temporale, nel ciclo delle nascite e delle morti dove l'azione
comporta tutta una serie di incalcolabili conseguenze e modificazioni
sull'intero contesto; in altre parole esso è la storia.
E' vero che gli uomini nascono, amano e muoiono, ma il modo in
cui tutto questo avviene è sempre diverso, in quanto l'uomo è libero di
scegliere sapendo di essere responsabile delle sue scelte e possiede una
intelligenza in grado di creare. P. Ricoeur scriveva: “La storia non è storia
se non nella misura in cui essa non ha avuto accesso né al discorso assoluto,
né alla singolarità assoluta, nella misura in cui il senso ne resta confuso,
mescolato... la storia è essenzialmente equivoca nel senso che è virtualmente evenementielle
e virtualmente strutturale. La storia è per davvero il regno dell'inesatto.
Questa scoperta non è inutile, giustifica lo storico. Lo giustifica di tutte le
sue incertezze. Il suo metodo non può essere che il metodo inesatto. La storia
vuole essere obiettiva e non può esserlo. Vuole rendere le cose contemporanee,
ma al tempo stesso le occorre restituire le distanze e la profondità della
lontananza storica. Alla fine questa riflessione tende a giustificare tutte le
aporie del mestiere dello storico. Queste difficoltà non riguardano vizi di
metodo, ma sono equivoci ben fondati”.
Ad Abstracta collaboravano (ovviamente pagati,
anche se molto poco) duecento studiosi di cui la metà erano professori di varie
università, italiane e straniere, ricercatori e esperti di storia del mondo
simbolico e magico, giornalisti e cultori delle varie materie, la filosofia, la
scienza, la storia, l'antropologia, le religioni, la letteratura ... E’ chiaro
che non erano iniziati, adepti, seguaci, discepoli, proseliti di “qualcosa e
qualcuno” …ma solo dei seri studiosi. Se poi nel privato fossero tifosi della
Lazio o della Juventus, gli piacesse il Pippo Baudo o i films di Fellini e
Bergman, votassero per Andreotti o per Berlinguer, credessero nel
cristianesimo, nell’islamismo, nel buddismo e nello sciamanesimo, aderissero
all’esoterismo, alla cabala, alle dottrine misteriosofiche e occulte o
leggessero Diabolik o Spider Man non aveva nessuna importanza.
L’unica cosa da noi richiesta è che fossero “storici” e che lavorassero con
impegno e coscienziosità. La stessa che ancor oggi richiediamo.
“Non v'è esercizio intellettuale - scriveva Jorge Luis Borges
in Pierre Menard autore del Chisciotte - che non sia
finalmente inutile. Una dottrina filosofica è dapprincipio una descrizione
verisimile dell' universo; passano gli anni e si riduce a un capitolo o magari
un paragrafo o un nome nella storia della filosofia”.
Puntuale e caustico, come gli è d'abitudine, il Grande Bibliotecario
sintetizza così la sottile vendetta che la storico può prendersi sul filosofo.
Nei brevi spazi del sincronico, la filosofia ha sempre escluso e relegato la
storia ai margini di quell'itinerario di pensiero il quale, dopo aver
riconosciuto che l'immediato non è l'originario, crea e sistematizza la
conseguente necessaria ed incontrovertibile teoria fondazionale su cui si regge
l' inevitabile Weltanshauung definitiva (o almeno quella, di volta in volta,
reputata tale). Sul lungo periodo, il diacronico in cui ogni weltanschauung
supera quelle che l'hanno preceduta ed è a sua volta superata dalle successive,
lo storico si ripaga concedendosi il privilegio di compilare un suo elenco
"ragionato" delle "grandi visioni del mondo" ed una propria
interpretazione e valutazione di queste, condotta secondo il metro con
cui è solito misurare ciò che fa parte del proprio universo d'oggetti: la
descrizione, sub specie contingentiae, del mondo umano nel processo del
divenire. Egli può allora erigersi a "pantocratore" di tutti coloro
che hanno giudicato l'universo adattandolo e costringendolo nei loro sistemi.
Così facendo, utilizza una propria, per quanto inespressa, visione del mondo,
ingenuamente reputata capace di contenere, sotto l'ala di una generale
filosofia della storia tutte le altre che l'hanno preceduta.
Sfortunatamente la figura del Protrepticon aristotelico sta sempre
in agguato e gioca ineluttabilmente il ruolo che nella mitologia greca era
stato affidato alla Severe Signore Gendarmi di Dike. Un perfido circuito
a "strano anello" in cui, inaspettatamente, salendo o scendendo i
gradini di una gerarchia fatta di filosofi che hanno ricostruito l'originale
progetto "divino" del mondo e di storici che hanno esaltato, sfumato,
riposizionato o cancellato dalla storia alcune di queste ricostruzioni, ci si
ritrova al punto di partenza: la costruzione di un sistema che vuole fondare,
nell'identificazione con la propria rappresentazione, il fondamento stesso del
suo essere. Come Narciso, preso dalla vertigine dello specchio, il sistema
filosofico s'affonda nel fondamento, mentre la descrizione storica, che
sopraggiunge ad evento concluso, non coglie che frammenti di bellezza riflessi
sui cerchi dell'acqua racchiusasi attorno al giovane inghiottito dal gorgo e
con questi frammenti riproduce ancora uno specchio fatto di infinite superfici
nelle quali nuovamente si riflettono gli infiniti "narcisi" che hanno
percorso i sentieri del fondamento. Della limpidezza e delle dimensioni di tali
frammenti è lo storico a giudicare e a scegliere, e queste sue scelte sono
spesso in disaccordo con quelle fatte da altri storici che lo hanno preceduto o
che gli sono contemporanei.
Un compito scomodo, ingrato ed, in fin dei conti, irto di
infinite difficoltà.
Un nostro Maestro era solito ripetere che una tradizione di
sapere è come una foresta di alberi giganti in grado di vivere per millenni,
dove le foglie e il legno d'oggi sono la pioggia e il sole di tanti secoli fa.
Detta così la cosa è affascinante e lascia credere ad un processo lineare per
cui è sempre possibile ritornare indietro alla ricerca non solo degli autunni
in cui sono state inseminati larghi spazi di terreno, alle primavere che han
visto germogliare i semi ed alle estati che li hanno fatti maturare, ma
addirittura alle piogge che li hanno irrigati ed ai fertilizzanti che li hanno
fatti crescere. Sfortunatamente, però, l'indagine storica su questa foresta é
influenzata dagli infiniti fattori di mutamento cui il nostro stesso
"sapere" è sottoposto e di conseguenza ogni nostra scelta teoretica,
metodologica ed epistemologica porta con sé l'elisione di interi mondi della
cui effettiva significanza ci è impedito e ci si impedisce di venire a
conoscenza.
Sicuramente abbiamo sempre escluso dall’ambito dei sostenitori
di Abstracta (ed ora anche dei collaboratori di airesis”) i “cicapisti” e gli
“iniziati”.
Con il termine “cicapisti” intendiamo quei tizi che hanno sempre
la verità in tasca perché l’hanno conquistata con il loro sudore e fatica,
mentre gli iniziati, la stessa inoppugnabile verità (ovviamente diversa), ce
l’hanno dai geni famiglia Una vera lotta fra giganti! Stakanov contro la Thule.
Vi sono uomini che, posti assieme ad altri dello stesso tipo,
fondano delle “associazioni scientifiche o esoteriche” che ben presto si
trasformano in “congreghe”, la cui ragione d’essere è quella semplicissima
d’esistere coerentemente con degli scopi ed esiti che mai mutano. Tale cerchia
ha un’altra singolarità: d’essere l’unica e sola autentica portatrice di
“Verità” e, di conseguenza, il gruppo ha la caratteristica di non trasformarsi
ed evolversi mai. “L’unico mezzo per non cambiare - scriveva Ernest Renan
in L’avvenire della scienza - è quello di non pensare” ed, in
effetti, questi semplicemente “credono”. Ora tali “sette” hanno la peculiarità
di non stare solo da una parte, e quindi d’essere facilmente riconoscibili, ma
sono equamente distribuite sul sociale, sul politico, sul religioso,
sull’etnico, ... ossia in ogni zona del tessuto pubblico. Sono, per così
dire, interclassiste, senza appartenere ad un casta, ad un rango, ad un
ambiente ... fanno parte di un diffuso settarismo che ha
nell’intolleranza il suo maggior pregio.
Ad esempio, i “monaci della scienza”, con la loro dottrina
di un universo governato da un Dio trascendente attraverso leggi comunque
accessibili alla ragione umana, vanno di pari passo con l’ateismo radicale per
cui si elimina il dio e si lascia la sola ragione che dichiara reale solo ciò
che è sperimentale, col misticismo sapienziale per cui al Dio trascendente
si coniuga un sapere che viene dal di fuori della ragione umana (cioè non si sa
da dove), e infine con i “talebani dell’Assoluto” per i quali il “mondo”
coincide senza resti con la loro “vera religione”.
Ma l’unico concetto che non capiamo è quello di esoterismo in
web. L’occulto, il misterioso, l’arcano, il magico, l’ invisibile…
concetti tipici degli iniziati … che si parlano in internet … che poi è l’unico
metodo per mantenere il segreto fra gli adepti.
INTRODUZIONE
La colpevolizzazione della sensualità femminile.
Strega a cavallo di una scopa.
Strega etimologicamente deriva da stryx, strige,
uccello notturno, che si riteneva succhiasse il sangue dei bambini nella
culla e istillasse nelle loro labbra il proprio latte avvelenato. Era ritenuto
una specie di arpia, di vampiro; tale nome ricorre in Plauto, Ovidio e Plinio.
Per tali caratteristiche il nome strega ha indicato le donne credute
responsabili di aborti ed infanticidi.
Demoni femminili sono presenti nella cultura classica, come
scrive Girolamo Tartarotti: "il moderno congresso notturno delle Streghe
altro non è che un impasto della Lilith degli Ebrei, della Lamia e delle
Gellone de' Greci, delle Strigi, Saghe e Volatiche de' Latini".
A tali leggende, Tartarotti affianca anche quella medioevale
della brigata notturna, scorta di Diana o Erodiade. L'antichissima divinità
italica, protettrice della plebs romana, è chiamata da Cicerone
dea della caccia, della luna e degli incantesimi notturni; Orazio parla dei tria
virginis ora Dianae (i tre volti della vergine Diana) o di Diana
triformis (Diana triforme); Virgilio conferma tale aspetto quando parla
della dea che è Luna in cielo, Diana in terra, Ecate nel mondo infernale.
"Gioco di Diana" è definito, in molti testi, il corteo
di streghe, stregoni e spiriti infernali di cui si aveva notizia attraverso le
deposizioni delle imputate di stregoneria. Diana è chiamata nei processi
"Signora del gioco", dove "gioco" traduce il latino ludus,
nel significato di "luogo dove s'impara" o anche di "passatempo
dilettevole", dal momento che in queste riunioni si ballava e si cantava.
La strega è una figura letteraria, confezionata già in età
classica, ma soprattutto moderna,
con caratteristiche andate progressivamente perfezionandosi e configurate in
un repertorio ben consolidato, grazie agli scritti di esponenti della
cultura clericale dal Medioevo in poi, i quali, attraverso un lungo processo,
ne selezionarono gli aspetti discriminanti, utilizzando materiale della
provenienza più varia: racconti popolari, superstizioni locali, mitologia
classica, ebraica, nordica; inchieste giudiziarie, verbali di processi, fino
alla codificazione, sistematica ed accreditata dall'autorevolezza degli
scrittori, della figura della strega secondo una tipologia precisa.
"La vecchia Maga, la Veggente celtica e germanica non sono
ancora la vera Strega. Le innocenti Sabasie (da Bacco Sabasio), piccolo Sabba
campestre che continuò nel Medioevo, niente hanno a che fare con la Messa nera
del Quattordicesimo secolo, la grande solenne sfida a Gesù. Queste creazioni
terribili non hanno proceduto sul lungo filo della tradizione. Uscirono
dall'orrore del tempo.
A quando risale la strega? Rispondo senza esitare: 'Ai tempi
negati alla speranza', alla profonda disperazione prodotta dal mondo della
Chiesa. Senza esitare dichiaro: 'La Strega è il suo delitto'."
Alla costruzione del personaggio della strega, e alla cronologia
morale della stregoneria, concorrono vari elementi: la componente culturale
classica che parte da un culto di Diana - Ecate - Iside , divinità femminili
che avevano anche aspetti inquietanti per il loro rapporto con la magia; la
componente culturale popolare che Margaret Murray genericamente chiama
"culto di Diana", sopravvivenza degli antichi culti precristiani
della fertilità, ravvisabile in ogni cultura agricola; la componente culturale
clericale che elabora i materiali folcloristi attribuendo ad essi un valore
negativo.
Nella letteratura psicanalitica le streghe sono una proiezione
dell'animo maschile, cioè dell'aspetto femminile primitivo che sussiste
nell'inconscio dell'uomo. Le streghe materializzano questa ombra odiosa, di cui
non possono liberarsi, e assumono al tempo stesso una potenza terribile. Per le
donne, la strega è il capro espiatorio, sul quale trasferiscono gli elementi
oscuri delle pulsioni. Ma tale proiezione è in realtà una partecipazione
segreta alla natura immaginaria delle streghe. Finché le forze oscure
dell'inconscio non assurgono alla chiarezza della conoscenza, la strega continua
a vivere in noi. L'anima è spesso personificata da una strega o da una
sacerdotessa, perché le donne hanno più legami con le forze oscure. La strega è
l'antitesi dell'immagine idealizzata della donna.
Tutte le culture hanno sviluppato strategie di superamento
dell'alienazione e della sofferenza, specialmente femminile, ma raramente si va
oltre la fuga. Per le streghe il rito magico è tecnica di liberazione dalle
ingiustizie sociali, la scoperta di una nuova esistenza che nasce dalla
consapevolezza di sé, dalla gioia di conoscere il corpo. La donna diventa
strega quando svela il suo erotismo incomprensibile agli uomini.
Roland Barthes afferma che quando i rapporti sociali si basano sulla
solidarietà le culture non hanno bisogno di creare emarginazione; al contrario
le streghe e le "devianze" trionfano dove vi è una differenziazione
tra i sessi, i ceti e le condizioni esistenziali. Le streghe rappresentano una
funzione antiistituzionale che il potere utilizza per giustificare azioni repressive.
La realtà della strega è dunque socialmente determinata. Si è streghe per effetto di relazioni specifiche, che
collegano l'individuo all'ambiente fisico-mentale che lo circonda. Jules
Michelet scrive che nel mondo medievale pieno di orrori, di ingiustizie e di
arbitrarietà, la strega era un prodotto della disperazione del popolo, che
trovò in essa l'unica personalità che potesse rimediare ai suoi mali fisici e
morali.
"Ogni popolo ha il medesimo principio; lo vediamo dai
viaggi. L'uomo caccia e lotta. La donna gioca d'ingegno, immagina, genera sogni
e dei. Dei giorni è veggente: possiede le ali infinite del desiderio e del
sogno. Per valutare i tempi, osserva il cielo. Ma alla terra non offre meno
cuore. Gli occhi chini sui teneri fiori, giovane e fiore anch'essa, ne fa
conoscenza personale. Donna, chiede loro di guarire che ama.[…]
Una religione potente e vitale, come il paganesimo greco, ha
inizio dalla Sibilla, termine nella Strega. La prima, vergine bella, in pieno
sole, lo cullò, gli diede incanto e aureola. Più tardi, decaduto, malato, nelle
tenebre medievali, tra le lande e i boschi, la strega lo riparò, dalla sua
coraggiosa pietà gli venne il nutrimento, di cui continuò a vivere. Ecco che,
per le religioni, la donna è madre, amorosa custode e nutrice fedele. Gli dei
sono come gli uomini; le nascono e muoiono in grembo. Quanto la fedeltà le
costa! Regine, magi di Persia, Circe maliarda, sublime Sibilla, che siete
ormai? che barbara metamorfosi. Quella che, dal trono d'Oriente, insegnò le
virtù delle piante e il cammino delle stelle che, al tripode di Delfi,
splendida del dio di luce, porgeva oracoli al mondo prostrato, questa, mille
anni più tardi, la si caccia come fosse una bestia selvaggia, è inseguita agli
angoli delle strade, umiliata, straziata, lapidata, piegata sui carboni
ardenti. […] La Sibilla predice la sorte, la Strega la fa. Ecco la
grande, autentica differenza. Lei chiama, cospira, opera il destino.
Non è l'antica Cassandra che tanto bene conosceva l'avvenire, lo lamentava,
l'attendeva. Lei lo crea. Più di Circe, di Medea, possiede la verga del
miracolo naturale, e per sostegno e sorella ha la natura. Tratti del Prometeo
moderno son già suoi. Con lei ha inizio l'industria sovrana che guarisce,
rinnova l'uomo."
La Chiese intuisce il pericolo: il nemico è lei, la sacerdotessa
della natura. Con l'illuminismo della lucida follia, che, come scrive Michelet,
nelle sue sfumature, è poesia, "raccatta tutti gli scarti": il cielo
getta, ella raccoglie. Ad esempio, la Chiesa ha scartato la Natura come impura
e sospetta. Ella la prende al volo, la coltiva e la sfrutta. "La Chiesa
scarta un'altra cosetta, la Logica, la libera Ragione. Ghiotto boccone che
l'Altro addenta con avidità. " Così iniziano le male scienze, la farmacia
proibita dei veleni, e la maledetta anatomia. Unico dottore ammesso, Paracelso.
Il solo medico del popolo, per mille anni, è stata la strega. Le frontiere tra la scienza e la magia passano soprattutto
attraverso la coscienza morale. "Gli imperatori, i re, i papi, i baroni
più ricchi avevano qualche dottore di Salerno, qualche Moro, qualche Ebreo, ma
la gente di ogni condizione, e si può dire tutti, non consultava che la Saga o
Saggia Donna. Se non guariva, la insultavano, le dicevano strega. Ma in genere,
per rispetto e paura insieme, la chiamavano Buonadonna o Belladonna, dal
nome che si dava alle fate. Le capitò quel che ancora capita alla sua pianta
prediletta, la Belladonna, e ai benefici altri veleni che usava, antidoti dei
grandi flagelli del Medioevo. Il bambino, il passante ignaro, maledice queste
erbe grigie senza conoscerle. I loro colori ambigui lo colmano di terrore.
Arretra, passa alla larga. Eppure non sono che "Consolanti"
(Solanee), che amministrate con discrezione, hanno guarito spesso, calmato
tanti mali."
La maga Circe, dipinto di D. Dossi (1489 ca)
La credenza che certi uomini e donne possiedano dei poteri
magici e malefici ("magia nera"), con i quali sono in grado di
danneggiare gli altri, da sempre accompagna la storia dell'umanità; non c'è,
dunque, motivo di sorprendersi se la ritroviamo diffusa anche nei secoli
medievali. Il Medioevo appare come un'immensa nebbia di noia e di terrore che
avvolge il mondo; solo la cultura popolare ne tenta un superamento. Tutto ciò
che non collima con il potere, soprattutto ecclesiastico, diviene eresia, che
per definizione è un atto di intelligenza, in opposizione a un atto di fede che
è accettazione indiscussa dell'insegnamento della Chiesa. I contadini medievali
in realtà conducono una vita estremamente precaria poiché devono tutto al
signore delle terre, che può riprendersi in qualsiasi momento ciò che ha
concesso. Così la donna è proprietà dell'uomo, anzi degli uomini, e costretta a
darsi al signore.
E la strega? Semplificando, la strega è l'esclusa, la
ribelle, la donna che da un isolamento forzato trae forza per un'esistenza
diversa e creativa. "Quando appare, la Strega non ha né padre né
madre, non ha figli, marito né famigli. E' un mostro, un aerolito, non si sa da
dove venga. Chi oserebbe, Dio, avvicinarla? Dove vive? Dove non è possibile,
nei boschi di rovi, sulla landa, dove la spina, il cardo intrecciati,
impediscono il passaggio. La notte, sotto qualche vecchio dolmen. Se viene
scoperta, è l'orrore della gente a tenerla ancora isolata". Le streghe
sono donne anziane malviste per vari motivi, future mogli ripudiate prima, o
subito dopo il matrimonio, perché si sono offerte al signore e quindi non più
vergini, levatrici e curatrici che non possono esercitare alla luce del sole;
donne frequentate da altre donne perché solo a loro possono rivolgersi, di
nascosto, per partorire, abortire, alleviare i dolori e cercare consigli. Le
malattie del Medioevo hanno origine dalla fame. La medicina viene esercitata
solo sotto sorveglianza della Chiesa e si rivolge solo al genere maschile
perché l'esistenza della donna è legata al sacrificio e alla sofferenza. Così
sortilegi e malefici finiscono con il rappresentare una sorta di riscatto, una
specie di potere occulto da contrapporre a tutte quelle coercizioni, di tipo
padronale, signorile o ecclesiastico, che si devono subire.
Le streghe, costrette a vivere fuori dai centri abitati, amano
la disobbedienza e utilizzano le piante spontanee che a quei tempi sono
considerate velenose come quelle della famiglia delle "Consolanti",
tra cui la belladonna, che contengono alcaloidi dotati di proprietà analgesiche
e antinevralgiche e che, per non diventare intossicanti, vanno utilizzate in
piccole dosi: è forse la nascita dell'omeopatia? Paracelso nel 1527 dichiara
che tutto ciò che conosce della medicina l'ha appreso dalle streghe.
La Chiesa accusa e condanna con qualsiasi preteso, e occulta prove e documenti.
Tuttavia, soltanto durante il periodo rinascimentale si creano le condizioni
culturali e sociali che rendono possibile, in Europa, il fenomeno della
cosiddetta "caccia alle streghe", che assume e in certi frangenti
caratteri di una vera e propria persecuzione.
La "caccia alle streghe" ha infuocato due
continenti durante i secoli dell'età moderna e la sua storia ha una
periodizzazione finora rimasta indiscutibile. Il primo periodo vede i
confessori avvertiti dai vescovi mettere attenzione ai racconti di donne che
parlavano di strani viaggi e di incontri con una donna "superiore", la
"signora del gioco", dai molti nomi. Il secondo periodo, inaugurato
nel XVI secolo con il Malleus Maleficarum, vede invece la comparsa del
diavolo nelle confessioni delle streghe. E su questo aspetto e sul rapporto
sessuale con i demoni insistono gli interrogatori dei processi
dell'Inquisizione. Dai verbali traspare il concetto di morte, l'avversione al
pensiero scientifico, la misoginia. Ma, come scrive Michelet, l'università
criminale della strega, del pastore, del boia, negli esperimenti loro, che sono
sacrilegi, lontani dalla Scuola e dai dotti, anima la rivale, la costringe a
studiare. Tutto è dovuto alla strega; avrebbero voltato le spalle al medico
altrimenti. "A forza la Chiesa subì, permise quei crimini. Dovette
riconoscere che esistono veleni buoni (Grillandus). Messa con le spalle al
muro, lasciò sezionare in pubblico. Nel
E' curioso che si cerchi proprio qui l'origine del Rinascimento.
Per almeno tre secoli in tutta Europa le streghe portano le colpe di tutte le
disgrazie del genere umano.
Uno dei libri più completi sui processi per stregoneria rimane
il Malleus Maleficarum,
ricco di confessioni sull'impotenza di Dio, scritto nel 1447 da Sprenger
che viene incaricato dalla Chiesa romana di tornare in Germania, dove
l'Inquisizione non è efficiente e si trova in difficoltà perché vi sono moti di
rivolta popolare. È l'inquisitore perfetto, tedesco, domenicano, conoscitore di
S. Tommaso, terrorizzato dalla concorrenza con Satana; qualsiasi diversa
opinione diviene maleficio ed eresia. La Chiesa si sente minacciata dal diavolo
che ne esce sempre vincitore; questo conflitto maschile tra Dio e Satana
produce tragicamente vittime, solo o quasi, femminili. Per definizione
l'Inquisizione è un'inchiesta condotta da un tribunale ecclesiastico con metodi
lesivi dei diritti e delle libertà degli individui. Questa metodologia è ancora
in vigore: la reclusione, la tortura, la richiesta all'accusato di dimostrarsi
non colpevole; alle donne che denunciano lo stupro si chiede di giustificare
pensieri e comportamenti.
Le persecuzioni sulla base di soli pregiudizi sono storia dei
nostri giorni. La caccia alle streghe è ancora in atto, il potere crea sempre
inquisizione.
STORIA
di Andrea Menegotto
Il sociologo statunitense Rodney Stark confuta la "leggenda
nera" della caccia alle streghe. In Spagna, l’inquisizione non le
perseguitava. Anche nell’Italia cattolica il fenomeno fu limitato. Non così nei
Paesi protestanti.
Molto raramente "sociologia" fa rima con
"apologetica" e ciò - evidentemente - non per motivi linguistici, ma
di metodo. Tuttavia, recentemente, proprio colui che è considerato il maggior
sociologo delle religioni vivente, nell’ambito di un suo ampio e articolato
studio sul monoteismo, pur nel rigore dell’approccio value free (cioè,
privo di giudizi di valore) che caratterizza la sociologia coltivata negli
ambienti accademici, ha permesso a chi si vuole occupare di apologetica di
attingere a piene mani dai dati nudi e crudi elaborati in sede scientifica,
sfatando alcune "leggende nere" che riguardano talune vicende della
storia della Chiesa cattolica. Leggende che circolano ancora in maniera
massiccia nella vulgata comune e di cui si trovano ampie tracce sia
nella saggistica storica che nella letteratura divulgativa.
Rodney Stark - ordinario di Sociologia delle religioni all’Università
di Washington e padre (con altri) della teoria dell’economia religiosa, che da
qualche anno nell’ambiente accademico prevale rispetto alla teoria della
secolarizzazione come chiave per comprendere dal punto di vista sociologico la
situazione della religione in Occidente - è infatti l’autore del volume in
lingua inglese (ma di cui auspichiamo la traduzione italiana, pur con qualche
debita precisazione su sui ci soffermiamo di seguito) For the Glory of God. How Monotheism Led to
Reformation, Science, Witch-Hunts, and the End of Slavery (Princeton University
Press, Princeton 2003).
Nel nostro Paese, l’attenzione sull’opera di Stark è stata
richiamata dal collega Massimo Introvigne - che con il sociologo americano è
autore di un volume di prossima pubblicazione: Dio è tornato. La rivincita
di Dio in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003 - attraverso un’ampia e
articolata recensione, disponibile per la consultazione sul sito del CESNUR, di
cui Introvigne è direttore:
http://www.cesnur.org/2003/mi_stark.htm
In For the Giory of God, Rodney Stark prende in esame in
particolare quattro vicende della storia del cristianesimo in Occidente
ritenute in qualche modo problematiche: le eresie medioevali e la Riforma, la
nascita della scienza, la caccia alle streghe e la schiavitù. Particolarmente
interessanti si rivelano le pagine sulla caccia alle streghe, una questione
storiografica che costituisce un capitolo significativo dell’ampia
"leggenda nera" di origine illuministico-massonico-marxista relativa
all’Inquisizione (meglio sarebbe dire Inquisizioni, al plurale), tema a cui 11
Timone ha dedicato un dossier (cfr. il Timone, anno V - n.
23, gennaio/febbraio 2003, pp. 31-42), a cui chi scrive rimanda il lettore
giustamente desideroso di inquadrare la problematica che affronteremo nel più
ampio contesto storico in cui si colloca.
L’autore dichiara di accostarsi alla questione esaminando prima
di tutto la letteratura storica, ma dedicando pure attenzione ai testi di
carattere divulgativo e notando che, fortunatamente, le opere più recenti hanno
ridimensionato la stima relativa addirittura a nove milioni di vittime - che
peraltro compare ancora in alcune opere di carattere meno scientifico - quale
risultato di una lotta sommaria alle streghe e riducendola a una più realistica
cifra di circa 60.000. Ciò, naturalmente, non toglie nulla ai drammi
individuali di chi ha rappresentato un’unità delle circa 60.000 vittime, ma
mostra comunque con quanta disinvoltura i fautori della "leggenda
nera" hanno spacciato dati tanto stratosferici quanto irreali. Se è vero
che le scienze sociali della religione insistono sulla coesistenza nel tempo
dell’esperienza magica - propria della stregoneria - con quella religiosa, è
altrettanto vero che, secondo la distinzione tipica introdotta dal fenomenologo
delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1986), la magia si distingue dalla
religione in quanto l’esperienza magica più che un’esperienza del divino o del
sacro (ìerofania) è un’esperienza del potere (cratofania),
dove l’uomo manipola il sacro e lo mette al proprio servizio. Se dunque
l’uomo religioso invoca l’intercessione di Dio, il mago e la strega pensano di
manipolare forze soprannaturali o preternaturali. È in questo senso che la
Chiesa cattolica già a partire dalla Didachè (il più antico manuale
conosciuto per l’insegnamento cristiano) - e. ancor prima, dall’Antico Testamento
- da sempre condanna l’esperienza magica, a negromanzia, i sortilegi e la
stregoneria come pratiche superstiziose.
Dunque, è di fatto un luogo comune appartenente appunto alla
"leggenda nera" l’idea per cui all’Inquisizione sia da collegare
automaticamente la caccia alle streghe.
Infatti da sempre per il Magistero cattolico la magia è in
primis configurabile come superstizione e per tale peccato, come per gli
altri peccati, risultano competenti vescovi e sacerdoti confessori. L’Inquisizione
se ne occupava nella sua attività ordinaria soltanto se le pratiche magiche
lasciavano trapelare qualche sospetto di eresia. Abbiamo evidenza dai documenti
pontifici che i Papi raccomandarono sempre agl’inquisitori d’intervenire in
relazione alla stregoneria limitatamente ai casi in cui vi fossero presenti
elementi tali da far supporre il sacrilegio o l’idolatria, ovvero quando alla
superstizione si aggiungeva, di fatto, l’eresia.
Come riferisce Stark, fra il XIV e il XVI secolo in Spagna il
tasso degl’imputati di stregoneria corrisponde allo 0,2 per milione di abitanti
ed è il più basso d’Europa. Ciò, evidentemente, a dispetto di quanti, sedicenti
storici, nel corso dei secoli hanno diffamato la "famigerata" e
"sanguinaria" Inquisizione spagnola, che in realtà ebbe la funzione
di impedire la caccia alle streghe, reprimendo duramente non le streghe ma i
loro aspiranti cacciatori. Non stupisce pertanto se si nota che nelle Fiandre
la caccia alle streghe cessò proprio con l’avvento dell’occupazione spagnola.
La situazione evidenziata dal sociologo relativamente alla
Spagna trova conferma anche nel dato riferito all’Italia, dove nello stesso
periodo si possono contare 14,4 imputati di stregoneria per milione di
abitanti. Altre zone tuttavia, presentano dati meno confortevoli: in aree di
lingua tedesca come la Svizzera si contano 376,9 imputati per milione di
abitanti, mentre nell’area di Norimberga il tasso sale addirittura a 956,5.
L’ampia divergenza fra le stime che si riferiscono a zone
geografiche contigue, nel medesimo periodo storico, non è da ricercarsi nella
maggiore o minore diffusione della magia popolare, che appare ben presente sia
in Italia che in Svizzera (d’altra parte è nota l’espansione dell’occultismo e
del pensiero magico nel tardo Medioevo e nel Rinascimento). Piuttosto, se si
vuole trovare una differenza fra l’Italia e la Svizzera (o l’area di
Norimberga) si deve notare sia la debolezza dell’autorità centrale, politica e
religiosa, sia la presenza di conflitti armati e di anarchia politica e, in
seguito, soprattutto nelle zone di lingua tedesca, di un forte conflitto tra
cattolici e protestanti.
Alla luce di questi dati il sociologo ritiene che la caccia alle
streghe nasca dalla concomitanza di tre fattori: (1) la pratica diffusa della
magia e la sua interpretazione demonologica da parte della teologia che, a
partire dal Medioevo, ricercando il perché occasionalmente la magia
"funzioni" ritiene logico ipotizzare l’intervento del Demonio; (2)
una situazione di conflitto religioso - quale i ripetuti scontri fra cattolici
e protestanti nel XVI secolo - che rende più difficile tollerare le espressioni
di dissenso; (3) la debolezza dell’autorità centrale che non riesce a opporsi
con successo alle proposte locali di perseguire le streghe.
Rodney Stark non è certo un apologeta e il suo scopo dichiarato
è quello di studiare le conseguenze sociologiche del monoteismo (e non di
scrivere una "contro-storia"). Tuttavia la sua lucida analisi ci
consente - una volta in più - di confutare una "leggenda nera":
quella della caccia alle streghe, a cui le autorità della Chiesa cattolica
certamente si opposero e che altrettanto certamente non favorirono e
addirittura impedirono, proprio nel momento in cui dilagava in Europa a livello
popolare e locale una fobia antistregonica, legata direttamente alla diffusione
dell’occultismo e poi alla psicosi del demoniaco introdotta dalla Riforma
protestante, i cui eredi - sulla scia di Martin Lutero (1483-1546) e di
Giovanni Calvino (1509-1564), di cui è nota una certa ossessione per il
demoniaco - si resero attori di una caccia alle streghe che passa spesso sotto
silenzio, ma di cui alcuni eventi storici - a partire dalla vicenda delle
"streghe" di Salem (Massachusetts, 1692), che ha ispirato molta
letteratura horror - danno testimonianza.
Dunque, nessuna persecuzione dei cattolici contro una religione
pagana clandestina, secondo un’idea notevolmente diffusa negli ambienti del revival
neo-pagano contemporaneo; nessuna prepotenza patriarcale e maschilista
contro le donne, dato che molti dei condannati erano uomini; nessun desiderio
di impadronirsi dei beni degli accusati, che spesso erano poveri e neppure
alcun fanatismo del clero, dato che le campagne contro la stregoneria nascevano
molto spesso da iniziative popolari: la verità storica dimostra che le autorità
ecclesiastiche si opposero alla caccia alle streghe e il loro successo fu tanto
più evidente dove il loro potere, unitamente a quello dell’autorità politica,
era più forte, come dimostra l’eloquente caso della Spagna.
Le conclusioni di Stark - e ciò rappresenta il vero pregio e la
forza "apologetica" intrinseca, peraltro non intenzionale, del suo
volume - appaiono credibili anche per chi analizza le vicende storiche da una
prospettiva diversa rispetto a quella cattolica, per il fatto stesso che
l’autore rimarca di non essere mai stato cattolico e precisa di non voler in
alcun modo far proprio il metodo dell’apologetica, ma unicamente quello
dell’analisi sociologica. Al contrario, e a conferma di ciò, lo stesso volume
talora contiene affermazioni non in linea con l’ortodossia cattolica (Stark
ritiene, per esempio, valida la successione della Chiesa anglicana) che, se dal
punto di vista della fede cattolica "macchiano" purtroppo il testo di
qualche errore dottrinale, da un’altra prospettiva rendono l’autore
disinteressato e perciò insospettabile e libero da qualunque accusa di
faziosità, rendendo ancora più inoppugnabili i suoi dati.
Di fronte ai pregiudizi degli storici
Nel suo lavoro di ricognizione e analisi della letteratura
storica, Rodney Stark afferma di essersi aspettato dagli autori di testi e
manuali di storia pregiudizi di tipo materialista e marxista; tuttavia afferma
con sorpresa: "~...1 quello cui non ero preparato era scoprire quanti
degli storici che ho dovuto leggere per preparare questo studio esprimono un
anti-cattolicesimo militante, e quanti pochi fra i loro pari abbiano obiettato
a una litania di commenti dispregiativi di taglio anti-cattolico, talora espressi
senza neppure rendersene conto" e prosegue: "[...] benché molti
storici viventi oggi probabilmente non abbiano pregiudizi contro la religione
cattolica, o almeno non più di quanti ne abbiano contro la religione in
generale, spesso mantengono idee false senza rendersi conto che sono il
prodotto dell’anti-cattolicesimo di passate generazioni" (For the Glory
of God, pp. 12-13. Le traduzioni dall’inglese sono di Massimo Introvigne).
Ecco così spiegate in breve le origini di molte "leggende
nere", che non gettano le loro radici nell’obiettività della storia, ma si
fondano su letture dei fatti storici che nascono viziate all’origine da
pregiudizi ideologici. Da queste considerazioni possiamo ricavare un implicito
richiamo, rivolto in primis agli storici cattolici e a chi - come direbbe
Nostro Signore - "ha orecchi per intendere" (cfr. Marco 4,9) a
lavorare maggiormente per l’approfondimento della reale verità storica e per la
difesa della Chiesa cattolica dalle false accuse e dalle menzogne che, a torto,
i suoi nemici vorrebbero attribuirle. (A.M.)
Ricorda
"(...) la tesi che responsabile della caccia alle
streghe sia anzitutto l’inquisizione (sia quella romana, sia quella spagnola)
non regge più alla prova dei fatti e dei documenti: che al contrario dimostrano
come sovente gli inquisitori siano stati un elemento di riequilibrio di fronte
alle istanze persecutorie emerse dal basso e a livello locale".
(Franco Cardini, Quando le streghe venivano salvate dagli
inquisitori, in Avvenire, 29 agosto 1990).
Bibliografia
In lingua italiana, sui temi affrontati da Rodney Stark:
Giovanni Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia
della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990.
Gustav Hennlngsen, L’avvocato delle streghe. Stregoneria
basca e inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990.
Rino Cammillerl, La vera storia dell’inquisizione, Piemme,
Casale Monferrato 2001.
© Il Timone n. 26 Luglio/Agosto 2003
*
L’Inquisizione, "invadendo progressivamente l’intero
organismo costituzionale dello Stato, si mostrò arma utilissima
dell’assolutismo spagnolo".
Con decreto regio del 6 marzo 1782 il sovrano Ferdinando III di
Sicilia, "seguendo i saggi consigli e forse anche per le incessanti
sollecitazioni del viceré, marchese Domenico Caracciolo, avverso ad ogni privilegio
ed abuso ecclesiastico, e per il conforme parere espresso dal siciliano, primo
suo ministro di Stato, marchese della Sambuca", ordinava l’abolizione
dell’Inquisizione nell’Isola.
Premessa:
Torture, supplizi e feroci esecuzioni con scempio dei cadaveri,
per secoli sono i normali mezzi con cui la giustizia, dovunque nel mondo,
persegue non soltanto la punizione dei delitti, ma l’obiettivo di incutere
terrore a chi al delitto si accinge, con la esemplarità delle esecuzioni.
Esemplarità che a Palermo si credeva di conseguire col barbaro uso di appendere
le membra squarciate dei condannati a degli uncini di ferro di una forca,
eretti nella località dello Sperone (da cui ne prende il nome), nel
quartiere Settecannoli, posta oltre la borgata di Romagnolo, all’ingresso della
città, lato mare. Nel 1650, vi vengono esposti i quarti del procuratore
Lorenzo Potamia, coinvolto in una congiura capeggiata dal conte di Mazzarino.
Tale barbaro spettacolo fu abolito dal viceré d’Aquino, principe di Caramanico,
nel 1783 e la forca fu distrutta. Ma la fantasia dei giudici non ha limiti: la pubblicità
dell’esecuzione può essere assicurata anche da altri procedimenti, come, ad
esempio, staccando dal tronco la testa del condannato e piantandola "ad un
chiodo su d’una trave nella piazza Vigliena", come accade a Giuseppe
Pesce, giureconsulto, "famoso per eloquenza", coinvolto nella stessa
trama del Potamia, o portandola in giro per la città infissa ad una picca
(lunga asta di legno munita di una punta di ferro).
La Sicilia, rispetto alle altre parti del mondo, non fa
eccezione; ha soltanto una varietà infinita di autorità che hanno il potere di
infliggere incondizionatamente pene: la giustizia vicereale, quella dei tanti fori
privilegiati tra i quali spicca per ferocia quello dell’Inquisizione,
nonché le corti di giustizia feudali dei baroni. Persino i governatori del
Monte di Pietà di Palermo sono autorizzati a punire i reati contro il Monte
"con pubbliche et esemplare pene, o privatione, tratti di corda o
frusta et alli nobili pene pecuniarie ad essi governatori benviste".
Ognuna di queste giustizie esercita, senza eccessive
formalità, processi più o meno regolari e infligge pene. I controlli non
esistono o quasi; i ricorsi ai gradi superiori sono possibili soltanto a soggetti
che dispongono di denaro con cui pagare l’assistenza di un buon giureconsulto.
Tutti gli altri subiscono le decisioni giudiziarie che non raramente sono poco
più che soprusi e violenze, legalizzate da una parvenza di giustizia e da
consuetudini regolari.
Ma, ancor prima di dare inizio ad una serie di disumane torture,
per estorcere delle false confessioni che legalizzassero la condanna, si
procedeva all’ultimo interrogatorio dell’imputato, quello che veniva chiamato
" l’interrogatorio sulla selletta ". La sgabello di legno che veniva
posto al centro dell’aula selletta era semplicemente uno e sul quale
sedeva l’imputato. Si pensava che, solo, davanti ai giudici in toga, ormai
informati in modo completo su tutti gli atti del processo, egli sarebbe rimasto
impressionato ed avrebbe senz’altro rivelato tutto ciò che aveva potuto
dissimulare nel corso del dibattimento. E’ ovvio che il grande inquisitore
tempestava di domande l’imputato e cercava di confonderlo, mettendo in rilievo
le sue eventuali contraddizioni e le testimonianze che erano contrarie alle sue
affermazioni, e, privo dell’aiuto di un avvocato, era particolarmente
vulnerabile, e come tale vittima già destinata al rogo.
La tortura è un imprescindibile meccanismo procedurale; in una
logica per noi oggi incomprensibile, ma valida fino al Settecento ed oltre,
"la confessione stragiudiziale, la quale purtroppo, allora, prendeva la
forma di confessione sotto la tortura". Tratti di corda, frustate e anni
di remo nelle galere vengono inflitti anche per delle semplici contravvenzioni.
I capitoli della città di Palermo ordinano che "siano in pena della
frusta, e di quattro tratti di corda" coloro che faranno cattivo uso
delle acque comunali per cui hanno ottenuto la concessione; che i cassieri
della "Tavola di Palermo" (una banca pubblica istituita nel 1552-53)
che non registrino subito le somme incassate "siano in pena la prima
volta di pagar di proprio, la somma ritenuta, e di perdere il salario di un
anno; e la seconda volta d’anni tre di galea"; che chi rompe i fanali
dell’illuminazione cittadina (siamo nel 1748) subisca la "pena della
suddetta frusta con venti cazzottate, e di anno uno di carcere"; che
chi "abbia avuto l’ardimento di far mancare, o seccare, scorticare, e
recidere gli alberi" piantati nelle strade fuori porta, subisca "la
pena di onze ducento se saranno nobili, e di quattro tratti di corda ed anno
uno di carcere se saranno ignobili".
Nel caso di un nobile insolvente, in Sicilia, Ministri Delegati
e Procuratori dei creditori, nominati di volta in volta, facevano stimarne i
beni più adatti alla vendita, ne pubblicavano il prezzo ed erano autorizzati a
venderli, come se tale vendita procedesse dalla potestà sovrana del Re.
All’acquirente consegnavano copia del contratto munito di "Verbo Regio",
che toglieva al nobile il possesso ed ogni possibilità di rivendicazione,
inoltre gli davano lo "Scudo di Perpetua Salvaguardia" contro
pretesi diritti di altri.
Non ci sono limiti, invece, alle pene comminate per reati
maggiori. Il viceré de Vega costumava, anche per lievi colpe, "di dare
la tortura anche a’ nobili, e […] spesse volte li facea battere con lo
staffile. Per delitti di menoma conseguenza non esitava punto di fare
inchiodare una mano al reo, a’ bestemmiatori poi faceva delle volte forare la
lingua, e spesso tagliare".
Il trionfo della Fede nella Palermo del S. Uffizio:
L’Inquisizione, questo tremendo istituto, costituito per il
perseguimento della haeretica pravitas, fu in realtà, attraverso la
feroce repressione delle eresie vere o presunte (e l’incameramento dei beni dei
condannati), strumento dell’assolutismo regio, tant’è che gli inquisitori
poterono sempre, nei confronti del sovrano, rivendicare il merito di
"tener saldo il regno", e insomma di garantire alla monarchia di Spagna
l’ordine statale e sociale in una regione "piena di infedeli":
giudei, maomettani, luterani e in genere seguaci di correnti religiose
eterodosse.
I pericoli, in verità, erano assai minori di quelli prospettati,
né è da credersi a una Sicilia infestata da fermenti ereticali, come
l’abbondanza dei giudizi e il gran numero di roghi accesi a consumare
atrocemente i destini delle infelici vittime vorrebbero farci credere; valga al
riguardo la testimonianza del letterato Argisto Giuffredi, che, scrivendo verso
il 1585 gli "Avvenimenti cristiani" ai suoi figli, osservava
che "bastava poco per essere accusati di eresia". Bastava poco per
l’accusa e poco passava fra l’accusa e la condanna, ché, nel fanatico zelo dei
giudici, nella sommarietà e nella violenza delle procedure, esperite senza
rispetto dei diritti della difesa e al di fuori da ogni garanzia canonica, al
disgraziato non era dato scampo una volta finito nel torchio del S. Uffizio:
perciò ripetutamente il Parlamento ebbe a reclamare presso il sovrano contro
gli abusi dell’Inquisizione, e sempre da Madrid le richieste vennero eluse e
anzi i privilegi del tribunale accresciuti; non riuscirono nemmeno i viceré,
del resto, a contrastare le esorbitanze degli inquisitori, coi quali più volte
vennero a contese di giurisdizione e persino alle mani, ché in fondo
quell’Inquisizione ben pasciuta, colma di "familiari laici",
consultori e delatori, ben faceva il giuoco della Corona, alla quale assicurava
il controllo politico del viceré e della burocrazia. Questo istituto era
divenuto nel tempo fonte di prestigio e di notevoli vantaggi. Chiunque infatti
avesse il diritto di portare il distintivo con la croce e i gigli
dell’inquisizione era esente da tasse, non poteva essere giudicato dai
tribunali ordinari ed era autorizzato a portare con sé armi. Inoltre, poiché i
beni degli inquisiti venivano confiscati (e un decimo del loro valore diventava
proprietà del delatore), il miraggio di facili guadagni induceva a ingiuste
accuse. Certamente le torture e i roghi a S. Erasmo non sempre erano
giustificati dalla difesa della religione, e il cerimoniale che li accompagnava
rimane una vergognosa pagina di inciviltà nella storia. E viene spontanea la
domanda: quante persone, dal 1487 al 1782, si trovarono, in Sicilia, ad avere dolorosamente
a che fare con l’Inquisizione? Sappiamo per certo che almeno
duecentotrentaquattro furono i rilasciati al braccio secolare per la suprema
pena del rogo. Ma quanti sono stati gli inquisiti, i condannati a pene minori?
E quanti tra loro i poeti, i filosofi, gli artisti?
Nel mese di luglio del 1780 il re Ferdinando III nominò viceré
di Sicilia il marchese di Villamaina, Domenico Caracciolo, Ambasciatore a
Parigi, che giunse a Palermo il 14 ottobre 1781, iniziando per l’isola le
riforme che lo resero famoso, e prima fra tutte la soppressione del famigerato
Tribunale dell’Inquisizione; ed il popolo esultò facendo pubbliche feste,
mentre l’aristocrazia protestava, per fortuna inutilmente, presso il re di
Spagna. Nelle carceri del palazzo Steri, dove erano le sinistre prigioni del S.
Uffizio, erano ancora rinchiuse tre vecchie condannate per stregoneria. L’anno
successivo, per ordine dell’ultimo inquisitore, tutti i documenti del Tribunale
vennero bruciati. Le fiamme durarono un giorno e una notte e di tutta la
secolare attività non restò traccia per la storia, tranne che in quelle carte
della "Inquisición de Palermo o Sicilia", che si conservano
nell’Archivio Nazionale di Madrid, dove ci si auspica che qualche storico si
decida a studiarle, fornendoci un rapporto più completo di un pietoso dramma
umano.
Così, per circa tre secoli, dalla sua istituzione nel 1487 alla
definitiva eliminazione, avvenuta il 27 marzo1782, la Sicilia si pianse il S.
Uffizio, con corale approvazione e partecipazione di quasi tutta la classe dei
nobili, non escluso il marchese di Villabianca.
Si cominciò in sordina, nello stesso anno 1487, con un delegato
senza stabile dimora, il domenicano Antonio La Pegna, il quale fu così zelante
che ad agosto aveva già acceso il primo rogo: toccò ad Eulalia Tamarit di
Saragozza, colpevole di essere ebrea. Fino al 1513, quando il Tribunale divenne
permanente, utilizzando come carceri segrete per rinchiudervi i
penitenziati alcune stanze del fabbricato che il S. Uffizio, nel primo
Seicento, aggiunse allo Hosterium dei Chiaramonte (palazzo
"Steri", divenuto sede del Tribunale dell’Inquisizione nel 1601, fino
alla sua soppressione nel 1782) vennero condannati altri 27 poveri infelici;
poi, nell’anno della stabilizzazione dell’organo, quasi a celebrare l’evento,
d’un colpo solo i roghi furono 35, e non tutti di vivi, poiché tanto era il
furore della vendetta che fra le fiamme platealmente furono spediti persino i
cadaveri di coloro che avevano fatto la scortesia, nel frattempo, di morire:
furono disseppelliti e arsi a pubblico esempio. La serie dei sacrifici umani
finisce nel 1732 con il curiale Antonio Canzoneri da Ciminna. Questi, avendo
abiurato, viene esonerato dalla condanna a morte, dall’essere arso vivo, ma
destinato a vita alle carceri del Sant’Uffizio. Di conseguenza, il reo
confesso, nella notte del 1° ottobre 1731, comincerà "a vomitare ingiurie
e insolenze e bestemmie contro Dio e i Santi e a professare eresie".
"Meglio morire che vivere tutta la vita in quel carcere" – gli
fa dire Luigi Natoli – "in quel carcere, del resto, oscuro come una
tomba". Lì dove Giuseppe Pitrè troverà scritto (non importa da chi):
"Nun ci nd’è no scuntenti comu mia: mortu, e no pozzu la vita finiri".
Un fatto di cronaca:
Alcuni viceré non usano minore rigore. Il conte di Albadalista,
il 15 dicembre 1590, tornava da Messina per mare, e il senato civico per
l’occasione gli aveva preparato adeguate accoglienze, facendo costruire alla
Cala un imbarcadero lungo trenta metri, destinato all’attracco della galera; su
di esso i nobili e le autorità del regno e della città si affollarono per dare
il benvenuto al governante. Ma quel pontone di legno e cordame, zelantemente
allestito assai prima, era rimasto troppo tempo a mollo e ormai s’era
infradicito, la calca dei convenuti era enorme, e per di più il viceré aveva
gran fama di jettatore, provata nel corso del suo disgraziato governo, né si
smentì in quell’occasione. Fatto sta che, proprio nel momento in cui, fra salve
d’artiglieria e rulli di tamburi, stava per scendere dalla galera, questa,
malamente imbrigliata a una trave del pontile, dando di bordo lo strattonò
violentemente: l’imbarcadero oscillò, si disfece tra i flutti, portandosi
dietro il suo carico umano. Un gran numero di nobili, venuti per accoglierlo,
perisce nel disastro. L’arcivescovo Aedo, finito pure lui in mare, venne
salvato a stento; da parte sua, il viceré si comportò nell’occorrenza da
autentico cialtrone e senza il ben che minimo senso d’umanità: sbarcato con la
moglie, pensò solo a tornarsene a palazzo.
Alcuni popolani, con la scusa di soccorrere le vittime, invece
di aiutarle le annegano di proposito per rubar loro i gioielli. Preso uno di
questi, "fu trascinato sopra una tavola attaccata alla coda di un
cavallo al luogo del delitto, dove vivo ebbe tagliata la mano, e di poi
condotto alla piazza della Marina fu impiccato per la gola".
Nel corso della mortale peste del 1575, il presidente del Regno,
principe di Castelvetrano, nel punire i ladri di robe infette, supera ogni
fantasia sadica.. Catturatili, "furono esemplarmente castigati, altri
essendo stati trascinati alla coda de’ cavalli, e strozzati, altri tanagliati,
e buttati dall’altezza del Palagio vecchio, detto dell’Osteri, ed altri
impalati, e poi uccisi".
E così via, impiccando e squartando fino alla fine del
Settecento, con gran sollazzo. Nel 1775, Francesco Maugeri, Giuseppe Pozzo e
Ignazio Sorrentino, rei di tentata ribellione, ebbero "tagliate le
teste e le mani, e appese in gabbie di ferro sopra l’accennata porta [della
Vicaria] i quarti de’ loro corpi furono collocati allo Sperone".
L’ultima grande esecuzione pubblica palermitana è la
decapitazione, eseguita il 10 aprile 1863, di Gaetano Castelli, Pasquale
Musetto e Giuseppe Calì, tre dei pugnalatori del 1862. Per l’imperizia
del boia nell’adoperare la ghigliottina, l’esecuzione fu di estrema crudeltà e
molti spettatori svennero. La descrizione di quel raccapricciante spettacolo è
fedelmente riferita nel feuilleton di Salvatore Mannino, "I
pugnalatori di Palermo del 1862". Chi pensa che la civiltà giuridica
abbia diritto di comminare pene capitali, farebbe bene a leggerla.
L’azione giudiziaria:
Il processo accusatorio "s’intraprende dal giudice colla
precedenza dell’accusa per mezzo del libello accusatorio intentata, in cui
devesi porre una succinta e precisa storia del fatto, il nome dell’accusatore,
dell’accusato, del giudice, del delitto, della persona contro di cui e con cui
fu commesso, nonché il tempo in cui è seguito, e niente più; poscia ricercasi
in questo processo la sicurtà dell’accusatore, la risposta del reo, le prove e
le riprove, e la sentenza".
Al contrario, nel "processo inquisitorio", che "il
giudice intraprende ex officio, senza precedenza di formale accusa, per una
nuda e semplice segreta notizia o denunzia, o anche per la sola fama, inquisire
egli e intorno il delitto occulto e le di lui circostanze, ed intorno l’autore.
Va egli ammassando prove di ogni genere, cita testimoni, li esamina e forma gli
articoli inquisizionali ai quali il reo deve rispondere, e in difetto di piena prova
contro il reo che nega il delitto, procede con mezzi straordinari per
estorquere dalla bocca del medesimo quella parte di prova che lui manca per
condannarlo, e finalmente si procede alla sentenza".
Anche le denuncie anonime, o "accuse segrete" a firme
fantasiose (S.S. Trinità, o anime del Purgatorio, ecc.) innescano un
procedimento penale, costituendo, di fatto, e "abusivamente" un
"capo accusatorio", dopo quello pubblico e privato. "Non v’è
paese nelle provincie [del Regno] dove non vi siano calunniatori di
professione… ogni diceria, ogni sospetto, l’invidia istessa somministra materia
ai loro iniqui romanzi".
I "mezzi straordinari" adottati dai giudici per far
ammettere ai presunti rei la piena colpevolezza dei gravi reati a loro
imputati, erano le inumane torture a cui venivano sottoposti incessantemente,
fino a quando non avessero confessato (spesso il "falso").
Per Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene" –
edita nel 1764) non può erogarsi la tortura poiché "un uomo non può
chiamarsi reo prima della sentenza del giudice (…). Qual è dunque quel diritto,
se non quello della forza che dia potestà ad un giudice di dare una pena ad un
cittadino mentre si dubita se sia reo o innocente?".
Pratica criminale delle torture:
Tortura (da: torcere, piegare), era quindi il
complesso di forme di coercizione fisica o morale inflitte specialmente a un
imputato o al testimone, per indurlo a confessare o a deporre in modo
attendibile (o di convenienza – diremmo noi – per gl’inquisitori) in uso
dall’antichità all’Ottocento. Si distinguevano in: tortura lieve, della
durata di sette minuti; in mediocre di trenta minuti; in acre, di
un’ora più il tempo necessario a recitare un Miserere, sempre quando,
sotto il supplizio, il martire rimaneva ancora in vita.
Alcuni tormenti gradualmente cadono in disuso o
espressamente vengono aboliti, quali: "Il tormento del velo, che
lungo palmi quattro, e bagnato tenendosi a forza, aperta la bocca del reo, con
istrumento di ferro, pian piano coll’acqua, che gli si dava a sorso, tutto li
si facea inghiottire, finché giungesse al fondo dello stomaco, dove giunto, li
veniva strappato dal carnefice, e per lo più il reo soffocavasi: onde come
troppo periglioso alla vita umana fu tralasciato". "Il
tormento del fuoco: legatosi il reo ignudo, e seduto a terra, dopo essergli
unti li piedi con grascia di porco, si poneano nella distanza di circa due
palmi cinque rotoli di carboni accesi, i quali liquefacendo la parte untuosa
ne’ piedi, li cagionavano un cruccio acerbissimo: indi scioglievasi il reo, e
surto in piedi da due manigoldi sostenuto, faceasi camminare sopra alcuni
bottoncini di ferro rovente, che entrando nelle infocate piante de’ piedi, ne
restava il meschino paziente per tutta la sua vita offeso, e come tormento
tirannico fu con bando abolito". "Assai molesto, ed al pari inumano
era Il tormento della capra, poiché bagnati i piedi del reo vi si
attaccava molta quantità di sale, e indi conduceasi una capra, la quale, avida
del salso, con la scabrosa lingua tanto quelli lambiva, fino a che, rotta la
cute, e consumata la parte carnosa giungeva a scoprire l’osso".
La lieve tortura:
"Addì 20 dicembre 1788, Regia Vicaria di questa Città nel
luogo della tortura. Giovanna Bonanno (meglio
conosciuta come "La Vecchia dell’Aceto") che secondo gli atti
della Regia Curia Capitaniale il giorno 9 ottobre 1788 "in subitione"
rese la sua confessione, condotta al luogo della tortura allo scopo di
ratificare la confessione prossima e collaterale da lei resa "in
subitione", legata dapprima con cordicelle, poi con la grossa fune, e con
la tavoletta collocata ai piedi, sospesa alquanto da terra come si dice "a
tocca e non tocca" e letta da me D. Gioacchino Firenda cancelliere di
detta Regia Curia Capitaniale la deposizione prossima e collaterale in presenza
dello Spettabile Sambuco Giudice di detta R.C. Capitaniale con l’intervento e
l’assistenza del Magnifico Procuratore Fiscale della medesima Curia dalla prima
all’ultima riga, parola per parola, così come è depositata, che con un duplice
giuramento a voce e toccate le Scritture nelle mie mani, ratificò e ratifica, e
confermò e conferma in modo assolutamente pieno secondo la serie, la
successione e il contenuto e il tenore e così sulla base del predetto mandato
fu fatta scendere a terra e sciolta dai lacci fu mandata in carcere".
Il "teatro" dell’Inquisizione:
Festa grande a Palermo il 5 aprile 1724, quando fu allestito un
"teatro" nel piano della Cattedrale: era alto "sette palmi (…)
lungo canne 21,4 e largo canne 14" e composto da circa dieci palchi. Alla
destra stavano i "Qualificatori", i "Consultori"
e i rappresentanti della Corte Pretoriana; alla sinistra i "Secretari",
gli "Uffiziali" ed i rappresentanti del Senato; al centro
veniva allestito il palco dei condannati, coperto di "panni neri". Il
"teatro" veniva corredato di altri tre palchi ubicati ai lati
"dell’altare": uno era destinato alle dame che assistevano
bramose di emozioni al lugubre spettacolo, un altro era occupato dai
"musici" e l’ultimo veniva assegnato ai confratelli della Compagnia
dell’Assunta. Questi palchi erano "guardati per ogni parte da cancelli
di legno"; sotto al palco si apriva una "secreta scala" che
conduceva a "certe piccole basse camerette" dove i
"fratelli" dell’Assunta, a turno, andavano a riposarsi.
Anche i confratelli della Compagnia dei Bianchi (fondata nel
1541 dal viceré di Sicilia conte di S. Stefano), tre giorni prima
dell’esecuzione capitale, assistevano insieme al sacerdote i condannati, li
facevano confessare e li accompagnavano al patibolo.
I rei stavano sopra alcuni gradini di legno; i meno colpevoli
vestiti di sacco nero, quelli imputati di gravi reati vestiti del sacco nero e
giallo, dipinto con repellenti figure. I condannati si facevano entrare nello
steccato, al centro dei palchi stracolmi di spettatori di tutti i ceti, dove in
mezzo erano posti due alti pali di ferro, ai cui piedi s’accumulavano le
cataste della legna. Ai rei, in piedi sulla carretta, veniva letta la sentenza
del S. Uffizio e quella della corte Capitanale, e la condanna capitale ad
essere strozzati e poi bruciati, o direttamente arsi vivi. Le vittime, in
coppia, tolte dal carro, venivano poste sulle cataste, e ciascuna incatenata al
proprio palo. Il boia passava un nodo scorsoio intorno al collo di colui che
avrebbe "beneficiato" della minor sofferenza con la
concessione dello "strangolamento" al palo, e poi bruciato,
appiccando il fuoco alle pire. Le fiamme avevano immediata presa sul sacco,
unto di pece, lo avviluppavano e gli ardevano i capelli e la barba, sollevando
una grande nube di fumo, mentre quei poveri disgraziati lanciavano delle grida
disumane. Sulla pira le carni crepitavano, soffriggevano, spandevano intorno un
odore nauseabondo… Le fiamme duravano più ore, fino all’alba; e di quei corpi
non rimanevano che poche ossa nere, carbonizzate.
Secondo quanto riferisce Giuseppe Pitrè, il popolo aveva
adottato una terribile frase, per preannunciare una grave minaccia, perché
riportava subito alla mente le atrocità del passato, per il chiaro riferimento
che si faceva, nel giorno delle esecuzioni, della fastosa e numerosa cavalcata
di magnati, patrizi e nobili dei più alti ordini della città e di tutti gli
officiali con essi della corte del Tribunale, oltre a tanti preti e monaci,
essendo consultori e qualificatori del S. Uffizio, adorni della croce in petto
e di un’altra a ricamo grande nelle cappe, donde si diceva: "Ti fazzu
vidiri lu Sant’Uffiziu a cavaddu".
Il Pitrè trattò l'argomento di queste mostruose atrocità nella
sua nota pubblicazione: "Del Sant'Uffizio a Palermo", al capitolo:
"Il Tribunale dell'Inquisizione a lavoro", sotto l'aspetto
folcloristico, con dovizia di particolari, dando una colorita descrizione dello
scenario che si svolgeva in città, ogni volta che i condannati, con sentenza
passata in giudicato, venivano mandati al rogo, con gran sollazzo della gente
che vi accorreva numerosa: "Squillano le trombe, e tutto il
popolo, preavvisato dai tamburi, esultando corre allo spettacolo. Preceduto dal
vessillo della Santa Inquisizione, splendente della bellezza delle stelle e del
sole, esce dal Palazzo del S. Uffizio il festivo corteo. Per le strade la gente
schiamazza e commenta". Non si pensa che degli esseri umani, spesso
innocenti, di lì a poco saranno arsi sul rogo. I Romani dicevano: "Mors
tua vita mea!", i Palermitani adottavano l'altra frase, pure
significativa: "Menu mali c'un attocca a mia!" Loro amano la
vita, scordano facilmente le disgrazie davanti ai divertimenti, e questo chi li
governa lo sa bene, ingannandoli per secoli con certe pietanze all'agrodolce.
"La fama di tanto trionfo nel trofeo della fede insigne, con liete
acclamazioni condotto e celebrato, vola per le bocche e le orecchie di tutti,
così che nessuno, di qualunque condizione, sa trattenersi dal partecipare a
tanto gaudio. Con cetere, cimbali e sistri celebrano i cantori la Santa
Croce". Applaudono e gridano bene e prosperità al passaggio del
personaggio che incute paura solamente a pronunciare il suo nome, a colui che
in terra rappresenta l'Essere Assoluto, che decide della vita e della
morte dei comuni mortali: "Ecco il sommo, l’ottimo, il massimo
Inquisitore e Giudice, in cui si accentra ogni potestà del Cielo e della terra
e che, secondo la divina Scrittura, sorge e primo giudica la causa di
Dio". A volte si stenta a credere che realmente sia esistito un
periodo in cui, sotto l'insegna della Santa Croce, siano stati commessi delitti
contro i presunti "nemici della Fede, dando alla Chiesa un fulgore
splendidissimo".
Alla fine della trionfale cavalcata per la città, il corteo
giunge sul luogo della rappresentazione, dove la Gran Corte al completo si
asside. "Alla loro vista paventano, sopraffatti da pensieri, i
rei". Da questo momento si dà inizio allo spettacolo vero e proprio, a
cui il popolo anela, aspettando impaziente fin dalle prime luci del mattino.
Letti gli atti di ciascun reo, i "reconciliandi" si ammettono
al perdono e alla penitenza: "Ginocchioni innanzi gli Inquisitori,
ricevono accesa la candela che hanno portata spenta. Quindi, secondo la natura
dei delitti, si fa l’abiura e si percuotono lievemente con la verga, e sono,
per siffatta percussione, ammoniti i rei di non più ricadere nei delitti
trascorsi. Finalmente, per l’aspersione dell’acqua santa, vengono cacciati i demoni,
alla suggestione dei quali essi soggiacquero".
Quale sorte è riservata invece a coloro che si ostinano fino
all'ultimo di rientrare nelle file del buon cristiano, obbediente alle leggi
terrene e divine? "Costoro, coperti d’una tetra, fetida ed orribile
veste, serpeggiata tutta di fiamme infernali, vengono tradotti allo spettacolo.
Terminata la lettura del processo, questi empi vengono consegnati al braccio
secolare per essere ridotti in cenere". A volte la scena che si
descrive, anche a distanza di secoli, è così raccapricciante che il lettore è
preso da certa rabbia per non poter intervenire in aiuto di quei poveri
infelici, abbandonati a se stessi, senza difesa: "Tra i carboni che
bruciano, le cataste di legna, le cruenti fiamme dell’accesa fornace ed i
crepitanti fuochi, perseverano impavidi, per la salute delle loro anime, i
sacri padri, e con parole, esempi ed orazioni anelano alla loro conversione; né
li lasciano finché non abbiano essi esalato l’ultimo respiro. Che se si
convertono, fatta la confessione sacramentale e ricevuta l’assoluzione, vengono
strangolati e poi bruciati; e se impenitenti, senz’altro inceneriti tra le
stridenti fiamme".
Ogni commento è vano sia per il mondo di ieri che per quello di
oggi, perché nessuno è ancora riuscito a scovare ed a sopprimere le tre
diaboliche sorelle, streghe del male: l'invidia, la malizia e la vendetta!
Gli "autos da fé" in Sicilia nei secoli XV -
XVIII:
Espressione spagnola che significa "atto di fede". Gli
autos da fé erano grandiose cerimonie pubbliche, nel corso delle quali
l’Inquisizione notificava agli imputati le sentenze, che poi venivano eseguite
sul posto. Nei bandi, che portavano a conoscenza della popolazione la data
dell’"atto di fede", si prometteva che "tutti quilli chi
asistiranno a la dicta predica et solepne Acto guadagneranno le indulgencie"
e si minacciava "excomunicatione maiore" a chiunque tentasse
di dare aiuto ai condannati. La presenza agli "atti di fede" era
obbligatoria come alla messa domenicale per "fidelli christiani […]
di etate de anni dudici in suso".tutti
Agli atti generali di fede, nel corso dei quali si
pronunciavano decine di condanne, presenziavano le autorità e la nobiltà con in
testa il viceré, il clero cittadino regolare e secolare con in testa
l’arcivescovo, e una grande moltitudine di popolo. Tutta questa gente sfilava
in lunghissima processione dal fosco palazzo Steri, sede dell’Inquisizione, al
luogo dove si sarebbe svolto l’auto da fé.
Non c’era un posto fisso per il loro svolgimento, ma, a seconda
delle circostanze, avevano luogo nei numerosi slarghi cittadini capaci di
accogliere folle di spettatori. Se ne eseguirono nel piano della Marina, in
quello dei Bologni, dell’Ucciardone, nella piazza della Vucciria Vecchia, nel
piano della Loggia e in quello di S. Domenico.
I poveri disgraziati che subivano l’"atto di fede"
erano detti penitenziati. I riconciliati, cioè coloro che avevano
dichiarato di essere pronti ad abiurare alle loro eresie e a riconciliarsi con
la Chiesa, scontando la pena a cui il Tribunale del S. Ufficio li avrebbe
condannati, si presentavano indossando un saio giallo, chiamato sambenito,
che ben presto divenne simbolo di vergogna sociale e di emarginazione non
soltanto per chi lo indossava, ma anche per le famiglie dei condannati. Gli
imputati, nel corso della cerimonia, dopo aver ascoltato la lettura dell’atto
di accusa, abiuravano: de levi se erano stati soltanto in sospetto di
eresia; de vehementi se la loro eresia era stata accertata. Indi,
subivano le pene comminate loro, a cui si accompagnava sempre la confisca dei
beni a beneficio dell’Inquisizione.
In genere, i riconciliati venivano sottoposti alla frusta
del boia per un certo numero di cazzottate (frustate), che andavano da
una decina ad oltre duecento. Dopodiché si avviavano a scontare la pena, che
poteva consistere in un certo numero di anni di disterro, cioè di esilio
dal proprio paese, o di lavori forzati al remo delle galee o in lunghi anni di
triste detenzione nelle segrete di qualche carcere ecclesiastico.
Diversa era la sorte di chi non abiurava alle proprie
convinzioni. Costoro, dichiarati ostinati e pertinaci, venivano
rilasciati al braccio secolare della giustizia – dato che la santa Chiesa non
uccide nessuno – per essere bruciati sul rogo. La stessa sorte toccava a chi, riconciliato
in un "atto di fede", ricadeva poi negli stessi errori. Dichiarato relapso,
veniva bruciato immancabilmente. Se si era pentito, gli si faceva la grazia di
strozzarlo prima di essere bruciato.
Anche i morti venivano bruciati. Per accusa di eresia,
l’Inquisizione faceva riesumare i cadaveri per bruciarli pubblicamente
(l’anticipazione della odierna "cremazione"). I contumaci,
invece, venivano bruciati in statua. In attesa di poterli bruciare in
carne ed ossa, si poneva sul rogo un simulacro di cartapesta.
Durante la sua lunga attività, dalla fine del Quattrocento alla
fine del Settecento, l’Inquisizione organizzò centinaia di autos da fé,
tutti di inaudita crudeltà. Alcuni di essi, per la qualità dei condannati e per
la grandiosità del cerimoniale, restarono fissati nei diari dei contemporanei e
in pubblicazioni a stampa. Il più famoso è certamente l’auto da fé
tenutosi il 6 aprile
Nel 1790, il mai troppo apprezzato viceré, marchese Domenico
Caracciolo, aboliva il feroce tribunale dell’Inquisizione, nemico dell’umanità,
della tolleranza e del cristianesimo. Purtroppo, i siciliani dimostrarono di
essere diseducati ad apprezzare questi valori. Agli atti della storia restano
per sempre due terribili documenti: la "Supplica del Senato di Palermo
perché il Re non permetta di abolire l’Inquisizione" e la "Supplica
della Deputazione del Regno a S.M. per non abolirsi il Tribunale del S.
Offizio". La Deputazione del Regno era la massima espressione del
Parlamento siciliano. Rappresentava, o avrebbe dovuto rappresentare, tutti i
siciliani.
L’Inquisizione, nella realtà storica:
Fu così chiamata l’istituzione fondata per ricercare (in lat. inquirere)
ed esaminare coloro che si allontanavano dalla verità di fede e operavano in
conseguenza, sul piano teorico o pratico. Nella realtà storica l’Inquisizione
fu sempre legata a un tribunale nel quale venivano giudicati coloro che erano
stati trovati colpevoli di eresia o di idee e azioni contrarie alla fede.
L’esigenza di difendere la purezza e l’integrità della fede,
manifestatasi dopo che il cristianesimo era diventato l’unica religione di
Stato, pose il problema del modo di comportarsi nei riguardi di coloro che o
non avessero accettato il cristianesimo (pagani sia dell’antica religione
greco-romana, sia delle popolazioni germaniche) o si fossero allontanati
dall’ortodossia (eretici). Si ebbero allora le divergenti opinioni e di chi
affermava il diritto per ciascuno di credere liberamente e di chi, invece,
sosteneva l’opportunità di sospingere alla fede anche con la forza: S. Agostino
– ed è un esempio interessante del mutamento di punto di vista in una stessa
persona per effetto delle circostanze storiche – passò da una posizione assai
tollerante al tempo della sua polemica contro i manichei (che concepivano la
realtà come una continua lotta fra due principi opposti, come il bene e il
male, lo spirito e la materia, ecc.) a una assai intransigente, verso la fine
della sua vita, quando, in lotta contro i donatisti (che sostenevano la non
validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti indegni e proclamavano la
propria ostilità nei confronti dell’Impero Romano), enunciò il famoso
principio: "Compelle entrare" (costringere a entrare, cioè
nella Chiesa), che tanta influenza doveva esercitare nei secoli futuri.
A lungo, tuttavia, durante il Medioevo barbarico e i secoli
dell’Alto Medioevo, l’atteggiamento della Chiesa, riguardo agli eretici e ai
non cattolici, fu di tolleranza, anche quando, con l’inizio del sec. XI si
cominciarono a manifestare dei fenomeni ereticali di vistosa importanza. Vi
furono allora processi a eretici per conoscerne le idee e condannarle sì da
impedire la loro diffusione, ma raramente condussero a sentenze capitali;
comunque, non vi furono sistematiche ricerche per colpirli. Coloro che finirono
sul rogo furono più vittime del furore popolare, che non del giudizio
ecclesiastico. Non si trattò però ancora di Inquisizione, perché di questa
mancò l’aspetto più caratteristico, la ricerca dell’eretico, e si
ebbero, di solito, interrogatori e giudizi di individui o gruppi, casualmente
emersi all’attenzione degli ecclesiastici o di fedeli.
Né possiamo ancora considerare Inquisizione la ricerca episodica
di eretici che si ebbe lungo il sec. XII, in relazione al manifestarsi sempre
più preoccupante dei vari gruppi eterodossi in Italia o in Francia, come quando
S. Bernardo intervenne nel Tolosano contro il monaco Enrico e contro i Catari
(setta ereticale che si fondava sul dualismo manicheo tra bene e male e
predicava un profondo rinnovamento morale) o quando l’arcivescovo Galdino di
Milano predicò, ancora, contro i Catari nella sua città. Però, è vero che
proprio in questo secolo si venne lentamente formando l’opinione che bisognasse
agire contro gli eretici e che questa azione costituisse uno dei più difficili
e responsabili doveri del vescovo: questi dovrà ricercare e punire coloro che
turbano e minano l’unità della fede: ma i vescovi operarono in questa direzione
episodicamente e con debole impegno, sia per le difficoltà oggettive della
ricerca stessa (gli eretici di qualsiasi tipo e credenza tendevano a
mimetizzarsi) sia per lo scarso appoggio che riceveva dal clero, spesso
insufficiente o fiacco.
L’Inquisizione, e il tribunale che la accompagnò, sorse da
questa situazione, dalla preoccupante diffusione delle manifestazioni di
eterodossia e soprattutto dalla necessità di identificare e precisare gli
eretici perché potessero essere poi colpiti dall’autorità civile; la Chiesa,
infatti, era riuscita a ottenerne ripetutamente l’appoggio nel 1183 con
Federico Barbarossa, nel 1220 con Federico II, che aveva sanzionato
solennemente il bando per l’eretico e infine nel 1224, ancora con Federico II,
che decretò la pena di morte per l’eretico ostinato e pertinace, ribadendo in
seguito più volte la sua decisione. L’Inquisizione venne resa possibile,
inoltre, dalla circostanza decisiva della formazione dei nuovi Ordini
mendicanti, specialmente dei predicatori, che operarono in tutta la Chiesa alle
dirette dipendenze del pontefice.
Tra il 1231 e il 1233 Gregorio IX comunicava ai vescovi, in
diversa formulazione ma con chiara unità d’intenti, l’incarico affidato ai
Domenicani di svolgere la ricerca degli eretici d’accordo con i vescovi, ma
anche in una precisa autonomia; proprio in questi stessi anni compare il
termine inquisitor, che emerge la prima volta, come sembra, nel 1231,
nello statuto contro gli eretici del senatore di Roma, Annibaldo degli
Annibaldi. Ai Domenicani, e specialmente là dove questi dovettero essere
sostituiti perché la loro azione troppo dura ed energica aveva suscitato
opposizioni, come nell’Italia centrale e settentrionale, subentrarono talvolta
i Francescani.
Partendo dalla generica esigenza della ricerca degli eretici e
della loro esclusione dalla società cristiana, l’Inquisizione venne poi
gradatamente precisando i suoi compiti in relazione ai problemi che via via le
circostanze imponevano. Così l’interrogatorio venne aggravato dall’uso della
tortura; l’inquisitore, prima solo, venne affiancato da un compagno; le
decisioni dei due inquisitori vennero sottoposte al controllo del vescovo o
d’un suo delegato, mentre l’andamento del processo inquisitoriale veniva, in
ogni suo momento e caso per caso, esaminato da un consiglio di chierici,
monaci, frati e giuristi, anche laici, per escludere errori di procedura e
arbitri degli inquisitori. Inoltre una serie di norme venne fissata a tutela
della verità delle accuse o delle discolpe, per evitare denunce calunniose di eresia,
anche se all’inquisito non venne mai riconosciuto nel Medioevo il diritto di
essere assistito da un avvocato durante le varie fasi del processo.
Qualora l’accusa fosse stata provata e confermata dalla
confessione dell’accusato stesso, questi, se pentito, veniva condannato secondo
il grado di colpevolezza o a pene mortificanti, come pellegrinaggi, penitenze
pubbliche o croci colorate sugli abiti, se ostinato o ricaduto nell’eresia (ralapso)
al rogo. Questa pena, però, non veniva eseguita dall’inquisitore, ma dal potere
laico, o braccio secolare; nel linguaggio corrente quindi l’espressione
"consegna al braccio secolare fu equivalente alla condanna al rogo".
Le norme via via accumulatesi nel tempo, le esperienze acquisite con
l’esercizio della Inquisizione, i testi relativi alla conoscenza delle varie
eresie vennero raccolte da vari inquisitori per uso proprio e altrui in
manuali, fra cui celebre quello del domenicano Bernardo Gui, attivo all’inizio
del Trecento nella Francia meridionale.
Con la fine delle grandi eresie popolari, al tempo del papa
Giovanni XXII (1316-34), l’Inquisizione ebbe l’ulteriore incarico di perseguire
anche maghi e streghe, dopo che questi, per il preteso loro culto diabolico,
vennero assimilati agli eretici.
Mentre quasi alla sola caccia stregonica venne restringendosi
per circa due secoli il compito dell’Inquisizione, in quasi tutta l’Europa, e
particolarmente in Spagna l’Inquisizione venne sempre più legandosi al potere
politico che se ne servì per secoli, ma specialmente nel XV, per la lotta
contro moriscos e marranos, cioè contro Arabi ed ebrei, che,
convertitisi apparentemente al cristianesimo, continuavano in realtà a
praticare i riti della fede avita. Né fu meno rigorosa e severa nelle colonie
d’America, sì che all’Inquisizione spagnola e alle sue cerimonie fastose e
insieme terribili l’Inquisizione deve molto della sua fama di terribilità
inesorabile.
Nuovo impulso venne all’Inquisizione, durante il sec. XVI, dalla
necessità della lotta contro i fautori della Riforma nei Paesi rimasti
cattolici: fu allora unitariamente organizzata e posta alle dipendenze d’una
speciale congregazione romana che proprio dall’Inquisizione (detta nel
linguaggio curiale sanctum officium, e cioè santo dovere) prese il nome
di Congregazione del Sant’Uffizio. Vennero allora irrigidite le norme
più severe che la regolavano, come la segretezza dell’indagine, l’assenza d’un
difensore, l’uso normale della tortura, mentre il desiderio sincero di ottenere
la conversione, piuttosto che la morte dell’eretico indusse i giudici a forti
coazioni morali, come nei casi ben noti di Giordano Bruno e Galileo Galilei.
Mentre la Congregazione del Sant’Uffizio in Roma rimase attenta
a sorvegliare l’integrità della fede e si incaricò pertanto anche dell’INDICE
DEI LIBRI PROIBITI come di ogni deviazione dottrinale, l’Inquisizione, in
quanto istituzione diocesana venne sempre più perdendo di importanza effettiva,
riducendosi a un controllo locale della ortodossia dei fedeli.
Oggetto di attacchi sempre più pesanti man mano che venne
affermandosi l’idea della tolleranza, bersaglio prediletto di illuministi e di
quanti rivendicavano la libertà di coscienza in epoca liberale, l’Inquisizione
è un’istituzione legata a una precisa realtà storico-religiosa: in questa
l’esigenza dell’unità della fede, trasformandosi in intolleranza per un
malinteso desiderio di difendere il prossimo dal pericolo dell’eresia, ha
bloccato il senso della carità fraterna verso chi sbaglia, anche nella fede. In
questo senso solo il Concilio Vaticano II con la distinzione tra errante, che è
sempre oggetto di carità, ed errore, che va combattuto con la forza della
dialettica e della fede, ha tagliato alla radice le basi ideologiche d’ogni
Inquisizione; non a caso la Congregazione del Sant’Uffizio ha assunto il nome
di Congregazione per la dottrina della fede.
Calogero Antonio Pinnavaia. 2002
1.
|
Giovanni
Buzio da Montalcino Frate dell'Ordine dei Concettuali |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
4 Settembre 1553 |
|
2.
|
Giovanni
Teodori da Perugia |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
4 Settembre 1553 |
|
3.
|
Frate
Ambrogio de Cavoli di Milano |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
15 Giugno 1556 |
|
4.
|
Pomponio
de Algerio di Nola |
Menato in
Piazza Nauona e abrusciato uiuo. |
19 Agosto 1556 |
|
5.
|
Gisberto
di Milanuccio di Ciuita di Penne |
Menato in
Piazza Giudia e abrusciato uiuo |
15 Giugno 1558 |
|
6.
|
Antonio di
Colella Grosso della Rocca di Policastro |
Menato in
Piazza Nauona e abrusciato uiuo |
8 Febbraio 1559 |
|
7.
|
Leonardo
di Paolo da Meola da Pontecorvo |
Menato in
Piazza Nauona, abrusciato uiuo |
8 Febbraio 1559 |
|
8.
|
Giovanni
Antonio del Bo Cremonese |
Menato in
Piazza Nauona, apichato e abrusciato |
8 Febbraio 1559 |
|
9.
|
Mermetto
di Desiderio Bricietto Savoiardo |
Menato
alla Traspontina, apichato e abrusciato |
13 Agosto 1560 |
|
10.
|
Giovanni
Luigi Pasquali di Cuneo |
Menato in
Ponte e abrusciato uiuo |
15 settembre 1560 |
|
11.
|
Stefano
Morello di Lione |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
25 settembre 1560 |
|
12.
|
Macario
Vescovo di Macedonia |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
10 Giugno 1562 |
|
13.
|
Cornelio
di Olanda |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
23 Gennaio 1563 |
|
14.
|
Francesco
Segretuzzo Cipriotto |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
4 Settembre 1564 |
|
15.
|
Pompeo de'
Monti di Napoli |
Menato in
Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato |
3 Luglio 1566 |
|
16.
|
Curzio di
Cave Cappuccino |
Menato in
Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato |
9 Luglio 1566 |
|
17.
|
Domenico
Zocchi di Treviso |
Menato in
Piazza Giudia e abrusciato uiuo |
1 Febbraio 1567 |
|
18.
|
Ippolito
Figlio di Tonuccio da Rimini di Castiglione di Lucca |
Menato in
Piazza Giudia, apichato e poi abrusciato |
15 Febbraio 1567 |
|
19.
|
Girolamo
Landi da Fondi |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
25 Febbraio 1567 |
|
20.
|
Gregorio
Perini di Donato da Arezzo |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
23 Giugno 1567 |
|
21.
|
Pietro
Carnesecchi |
Menato in
Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato |
1 Ottobre 1567 |
|
22.
|
Macerio
Giulio di Cetona |
Menato in
Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato |
1 Ottobre 1567 |
|
23.
|
Lorenzo da
Mugnano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
10 Maggio 1568 |
|
24.
|
Matteo di
Ippolito da le Tombe di Faenza |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
10 Maggio 1568 |
|
25.
|
Francesco
Stanga da Faenza |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
10 Maggio 1568 |
|
26.
|
Francesco
Castellani da Faenza |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
6 Dicembre 1568 |
|
27.
|
Pietro
Gelosi di Spoleto |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
6 Dicembre 1568 |
|
28.
|
Messer
Marcantonio Verotti di Venezia |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
6 Dicembre 1568 |
|
29.
|
Luca da
Faenza |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
28 Febbraio 1569 |
|
30.
|
Borghesi
Filippo di Siena |
Menato in
Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato |
2 Maggio 1569 |
|
31.
|
Giovanni
Maria De Blasi da Spoleto |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
2 Maggio 1569 |
|
32.
|
Camillo
Ragnolo da Faenza |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
25 Maggio 1569 |
|
33.
|
Cellario
Francesco |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
25 Maggio 1569 |
|
34.
|
Alberto
Boccadoro Borgognone |
La Santa
Chiesa Romana gli saluorno la vita |
25 Maggio 1569 |
|
35.
|
Bartolomeo
Bartoccio di Città di Castello |
Menato in
Ponte e abrusciato uiuo |
25 Maggio 1569 |
|
36.
|
Pagolo
Veloccio da Spalano |
Menato
alla Traspontina sopra il fiume, apichato e poi abrusciato |
24 Agosto 1569 |
|
37.
|
Filippo
Porroni Romano |
Menato
fora del palazzo de l'Inquisitione e denanzi alla porta apichato |
11 Febbraio 1570 |
|
38.
|
Nicolò
Franco |
Menato in
Ponte e apichato |
11 Marzo 1570 |
|
39.
|
Giovanni
di Pietro Mançon Francese |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
13 Maggio 1570 |
|
40.
|
Aonio
Paleario |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
3 Luglio 1570 |
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41.
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Madonna
Dianora di Montpellier |
Menata in
Ponte, apichata e poi abrusciata |
9 Febbraio 1572 |
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42.
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Madonna
Dianora Pellegrina di Valenza |
Menata in
Ponte, apichata e poi abrusciata |
9 Febbraio 1572 |
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43.
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Madonna
Girolama Guanziana di Valenza |
Menata in
Ponte, apichata e poi abrusciata |
9 Febbraio 1572 |
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44.
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Madonna
Isabella di Montpellier |
Menata in
Ponte, apichata e poi abrusciata |
9 Febbraio 1572 |
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45.
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Domenico
della Xenia da Marsala |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
9 Febbraio 1572 |
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46.
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Teofilo
Panarelli di Monopoli |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
22 Febbraio 1572 |
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47.
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Alessandro
di Giulio Capuano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
15 Marzo 1572 |
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48.
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Giovanni
di Giovan Battista di Campagnano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
15 Marzo 1572 |
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49.
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Girolamo
Pellegrino Napoletano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
19 Luglio 1572 |
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50.
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Nicolò
Colonici Veneziano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
4 Settembre 1574 |
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51.
|
Giovan
Francesco Ghisleri di Pinerolo |
In carcere
del Ofitio di Torre di Nona, su la mezza notte fu strangolato |
25 Ottobre 1574 |
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52.
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Alessandro
Di Giacomo di Bassano Veneto |
Menato in
Ponte e abrusciato uiuo |
19 novembre 1574 |
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53.
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Baldassarre
Di Nicolò Albanese |
Menato in
Ponte e apicato, poi abrusciato a Porta Latina. |
13 Agosto 1578 |
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54.
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Antonio Di
Giovanni Valies |
Menato in
Ponte e apicato, poi abrusciato a Porta Latina |
13 Agosto 1578 |
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55.
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Francesco
Di Giovanni Martino di Raditoldo |
Menato in
Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina |
13 Agosto 1578 |
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56.
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Bernardino
De Alfar diSiviglia |
Menato in
Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina |
13 Agosto 1578 |
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57.
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Alfonso Di
Poglis Spagnolo |
Menato in
Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina |
13 Agosto 1578 |
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58.
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Marco Di
Giovanni Pinto da Vienna |
Menato in
Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina |
13 Agosto 1578 |
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59.
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Girolamo
Di Giovanni da Toledo |
Menato in
Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina |
13 Agosto 1578 |
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60.
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Gaspare Di
Martino Nestorio |
Menato in
Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina |
13 Agosto 1578 |
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61.
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Clemente
Sapone Di Domenico Napoletano |
Menato
vicino alla Traspontina apichato e poi abrusciato. |
29 novembre 1578 |
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62.
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Pompeo
Loiani di Bologna |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
12 Giugno 1579 |
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63.
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Cosimo
Tronconi Senese |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
12 Giugno 1579 |
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64.
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Salomone
Ebreo Siciliano |
Menato in
Piazza Giudia e abrusciato uiuo |
13 Marzo 1580 |
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65.
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Riccardo
Arctinson |
Menato in
Piazza S. Pietro, stimulato con torce accese e mozzata la mano destra poi
abrusciato uiuo. |
2 Agosto 1581 |
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66.
|
Domenico
Danzarelli da Piperno. Prospero
D'Imperatore D'Africa di Barberia. Giacomo di Teodoro Paleologo. Gabriello
Henriquez Portoghese. |
Paleologo
e Gabriello e menati in Campo di Fiore e abrusciati uiui. Per
Danzarelli e Prospero la Santa Chiesa Romana sospese la pena eseguita il 22
marzo 1585. |
18 Febbraio 1583 |
|
67.
|
Camillo
Lomaccio. Giulio Carino Bresciano dell'Ordine Carmelitano, Leonardo Di Andrea
Cesalpini |
A hore VI
secondo l'ordine del S. Offitio, furono condotti nel cortile delle carcere et
ivi strangolati. |
23 Luglio 1584 |
|
68.
|
Domenico Danzarelli
da Piperno. Prospero
d'Imperatore d'Africa di Barberia. |
Tagliato
il capo nel carcere di Torre di Nona e abrusciati a Campo di Fiore la mattina
dopo. |
22 Marzo 1585 |
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69.
|
Giuseppe
Di Girolamo da Lecce |
Pena
sospesa |
29 Gennaio 1586 |
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70.
|
Gaspare
Ravelli |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
5 Agosto 1587 |
|
71.
|
Pomponio
Rustici |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
5 Agosto 1587 |
|
72.
|
Antonio
Nantrò |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
5 Agosto 1587 |
|
73.
|
Fra
Giovanni Antonio Bellinelli |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
5 Agosto 1587 |
|
74.
|
Valerio
Marliano di Napoli |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
16 Febbraio 159 |
|
75.
|
Domenico
Bravo di Messina |
Menato in
Ponte e quiui gli fu mozzo la testa |
23 Marzo 1590 |
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76.
|
Lorenzo
dell'Aglio da Soncino Francescano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
13 Aprile 1590 |
|
77.
|
Chuplenich
Pietro di Carniola |
Menato in
Campo in Fiore e abrusciato uiuo |
1595 |
|
78.
|
Merse
Gualtieri di Londra |
Menato in
Campo in Fiore e abrusciato uiuo |
1595 |
|
79.
|
Egidio Fra
Antonio |
Menato in
Ponte e quiui gli fu mozzo la testa |
1595 |
|
80.
|
Antonio di
Bernardino da Campoli |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1595 |
|
81.
|
Angelo
Carlaccio Napolitano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1595 |
|
82.
|
Graziani
Agostino Romano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1596 |
|
83.
|
Prestini
Menandro |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e poi abrusciato |
1596 |
|
84.
|
Cesare di
Giuliano da Camerino |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1597 |
|
85.
|
Damiano di
Francesco da Gubbio |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1597 |
|
86.
|
Baldo di
Francesco da Urbino |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1597 |
|
87.
|
De
Magistri Giovanni Angelo |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1597 |
|
88.
|
Ottavio di
Scipione da Rimini |
Menato in
Campo di Fiore e quiui gli fu mozzo la testa e poi abrusciato |
1597 |
|
89.
|
Giovanni
Antonio di Verona |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
16 Settem. 1599 |
|
90.
|
Frate
Clemente Mancini |
Menato in
Ponte e quiui gli fu mozzo la testa |
9 Novembre 1599 |
|
91.
|
Galeazzo
Porta di Milano |
Menato in
Ponte e quiui gli fu mozzo la testa |
9 Novembre 1599 |
|
92.
|
Giordano
Bruno di Nola |
Menato in
Campo di Fiore e abrusciato uiuo |
17 Febbraio 1600 |
|
93.
|
Francesco
Moreno di Minervino |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
9 Giugno 1600 |
|
94.
|
Nunzio
Alias Servadio Ebreo |
Menato in
Piazza Giudia e abrusciato uiuo |
25 Giugno 1600 |
|
95.
|
Giovan
Tommaso Caraffa |
Menato in
Ponte e quiui gli fu mozzo la testa |
10 Maggio 1601 |
|
96.
|
Onorio
Gostanzo |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
10 Maggio 1601 |
|
97.
|
Giovan
Pietro di Tunis |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1607 |
|
98.
|
Giuseppe
Teodoro Siciliano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1609 |
|
99.
|
Felice
Ottavio |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1609 |
|
100.
|
Rossi Francesco
Romano |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1609 |
|
101.
|
Antonio Di
Jacopo della diocesi di Troia |
Menato in
Campo di Fiore e abrusciato uiuo |
1609 |
|
102.
|
Fortunati
Aniello Napolitano |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
1609 |
|
103.
|
Vincenti
Pietro di S. Massimo |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
1609 |
|
104.
|
Uberti
Marcantonio |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
1609 |
|
105.
|
Manfredi
Fra Fulgenzio |
Menato in
Campo Vaccino, apichato e abrusciato |
1610 |
|
106.
|
Lucarelli
Giovan Battista |
Menato in
Ponte, apichato e poi abrusciato |
1610 |
|
107.
|
Emilio di
Valerio |
Menato in
Piazza Giudia e abrusciato uiuo |
1611 |
|
108.
|
Domenico
Di Giovanni della Diocesi di Milano |
Menato in
Piazza Giudia e abrusciato uiuo |
1611 |
|
109.
|
Giovanni
Mancino |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
22 Ottobre 1613 |
|
110.
|
Iacobo Di
Elia da San Lorenzo, Ebreo |
Menato in
Ponte e apichato |
22 Gennaio 1616 |
|
111.
|
Francesco
Maria Sagni |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
1 Luglio 1616 |
|
112.
|
Ferrari
Ambrogio Milanese |
Menato in
Ponte e apichato |
1624 |
|
113.
|
Serafini
Fra Cherubino |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
1635 |
|
114.
|
Giavaloni Fra
Diego da Palermo |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
1635 |
|
115.
|
Centini
Giacinto da Ascoli |
Menato in
Ponte e quiui gli fu mozzo la testa |
1635 |
|
116.
|
Alvarez
Ferdinando |
Menato in
Campo di Fiore e abrusciato uiuo |
16 Marzo 1640 |
|
117.
|
Policarpo
Angelico di Giulio |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
19 Maggio 1642 |
|
118.
|
Fello
Giovan Giacomo da Celano |
Menato in
Piazza Montanara e quiui gli fu mozzo la testa |
1657 |
|
119.
|
Spallaccini
Domenico da Orvieto |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
1711 |
|
120.
|
Giuseppe
Morelli di Montemilione |
Menato in
Campo di Fiore, apichato e abrusciato |
22 Agosto 1761 |