PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli               BIBLIOTECA

 

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DOCUMENTI SULLA INQUISIZIONe

 

 

 5INDICE dei documEnti

Le radici dell’orrore 5

Le torture contro le donne 14

La Santa Inquisizione 34

L’Inquisizione anti-eretica come coerente  sistema terroristico, sacro strumento di polizia pastorale della “chiesa universale” 50

I VOLONTEROSI CARNEFICI DEL PAPA 76

Il codice inquisitorio 97

L'Inquisizione medioevale 99

L'Inquisizione spagnola 104

FRA NICOLAU EYMERICH 119

MANUALE DELL'INQUISITORE - A.D. 1376 119

178. Galileo Galilei 130

"Santa" l'Inquisizione? La Chiesa chiede scusa 146

Il Tribunale dell'Inquisizione 156

MEDIOEVO ERETICALE 167

a cura di Andrea Moneti 167

L'INQUISIZIONE E GLI ITALO-GRECI 184

Inquisizione e teocrazia 245

La «Santa Inquisizione» e le Streghe 265

Le Crociate di ieri, quelle di oggi 272

Una Chiesa di martiri. Cause delle persecuzioni. L’IMPORTANZA DELLE CATACOMBE 274

UNA DICHIARAZIONE DI FONTE CATTOLICA 284

I cattolici e le streghe 329

"IL TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE" (1487 – 1782) 334

Apichati e abrusciati a Roma dal 1553 al 1761 348

 



Si riporta di seguito una recensione degli Atti del convegno svoltosi in Vaticano fra il 29 e 31 ottobre 1988, e pubblicati solo nel Giugno 2004 La recensione e' a cura dello Studioso di Storia Adriano Petta ed e' stata pubblicata sull'inserto "ALIAS" del "Manifesto" l' 11/09/2004. Si Ringrazia l'Autore ed il "Manifesto" per l'autorizzazione alla diffusione sulla rete delle reti del documento.

L'articolo viene riproposto per diffondere conoscenza e verità, e come omaggio personale a tutti coloro che credono che l'Inqusizione sia stata una "Storia Nera" 

Ringrazio Adriano Petta per la collaborazione e la disponibilita'        


Le radici dell’orrore

(articolo apparso sull’inserto ALIAS del «Manifesto» dell’11 settembre 2004)

A SEI ANNI DAL SIMPOSIO INTERNAZIONALE SULL’INQUISIZIONE, SVOLTOSI IN VATICANO NEL 1998, UN IMPONENTE VOLUME DI QUASI 800 PAGINE NE RACCOGLIE GLI ATTI, CHE CONFERMANO LA CINICA SPIETATEZZA DI QUEL SISTEMA DI DOMINIO E ANNIENTAMENTO. UN METODO E UNA IDEOLOGIA CHE CONTINUANO A SEMINARE DOLORE E MORTE

L’impero del male

di Adriano Petta*

Martedì 15 giugno scorso nella Sala Stampa della Santa Sede i cardinali Georges Cottier e Roger Etchegaray, assieme al bibliotecario ed archivista di S. Romana Chiesa Jean-Louis Tauran, hanno presentato gli atti del simposio internazionale sull’Inquisizione che si tenne in Vaticano dal 29 al 31 ottobre del 1998. Questi atti sono stati presentati e illustrati anche dal curatore dell’opera professor Agostino Borromeo, sotto la forma di un volume imponente di ben 788 pagine dal titolo L’Inquisizione – Atti del Simposio Internazionale edito nella collana “Studi e  Testi” dalla Biblioteca Apostolica Vaticana nel 2003. IL Simposio era stato voluto da papa Wojtyla perché, in occasione del Giubileo del 2000, intendeva chiedere perdono «per le forme di antitestimonianza e di scandalo» praticate nell’arco della storia dai figli della Chiesa (cosa che fece il 12 marzo 2000 nella «Giornata del perdono»). Ma prima di chiedere perdono, era necessario avere una conoscenza esatta dei fatti. La Commissione teologico-storica del comitato giubilare aveva quindi invitato una cinquantina di professori specializzati nel campo, storici che abbiano dismesso i panni del giudice e si siano proposti solo di comprendere il passato (i testi in corsivo sono stati estratti dagli atti del simposio. Ndr.).

Mercoledì 16 giugno scorso quasi tutti i giornali hanno riportato la notizia della presentazione del volume, accompagnata da tabelline e commenti che riassumevano più o meno acriticamente le parole del professor Borromeo e dei cardinali che avevano presentato il libro: il numero degli eretici mandati al rogo dalla Santa Inquisizione non giungeva nemmeno a 100: erano stati solamente 99, e veniva così ristabilita la verità storica che finalmente sfatava la leggenda nera sull’Inquisizione, creata ad arte dalla propaganda anticattolica, come sottolineava esultante il principe dei giornali cattolici L’Avvenire: «tanto appassionante quanto ricco di scoperte si rivela l’imponente volume nel negare la «leggenda nera». Il card. Georges Cottier (Pro-teologo della Casa Pontificia) ha ribadito, infatti, che «una domanda di perdono che la Chiesa deve fare a riguardo dei propri errori del passato, non può riguardare che fatti veri e obiettivamente riconosciuti. Non si chiede perdono per alcune immagini diffuse all’opinione pubblica, che hanno più del mito che della realtà».

Ma una domanda nasceva spontanea: come mai erano trascorsi oltre sei anni per la pubblicazione degli atti del simposio? E come mai il comitato organizzatore si è premurato di assicurare che le cause stavano solo in motivi di salute di alcuni studiosi…? Occorreva leggere questo librone.  I 60 euro sono stati ben spesi perché il risultato è stato effettivamente ricco di scoperte… ma non nel senso sbandierato dall’Avvenire o lasciato immaginare da gran parte della stampa (e dai numerosissimi siti cattolici di mezzo mondo) nei giorni successivi alla presentazione.

Innanzitutto la struttura di questo imponente volume. Dei 50 partecipanti al simposio, solo 30 hanno lasciato testi scritti, in italiano, inglese, spagnolo e francese (e note in portoghese e latino). Ognuno dei partecipanti aveva ricevuto un tema da trattare (origini, strutture territoriali, procedure, inquisizione romana e le scienze, l’inquisizione e le streghe etc.): molti testi sono ossequiosi nei confronti della Chiesa cattolica, testi blandi, ambigui… ma ci sono anche testi durissimi, con molte scoperte o fatti poco noti.

Papa Wojtyla e il comitato organizzatore del Simposio sapevano fin dall’inizio ch’era praticamente impossibile mettere nero su bianco una cifra esatta del numero delle vittime. L’Inquisizione cercò di far sparire quanti più archivi poté dei processi e delle sentenze. Non solo. Occorre tener presente che nel corso dei 600 anni di funzionamento di questo apparato repressivo, responsabile dei più grandi crimini collettivi della storia dell’umanità, spesso accadeva che il popolo terrorizzato ed esasperato assaltava i tribunali dell’Inquisizione distruggendo gli archivi che contenevano non solo la lista dei condannati, ma anche quella dei sospettati. Napoleone, poi, quando conquistò l’Italia, portò con sé tutti gli archivi dell’Inquisizione che purtroppo non furono ben conservati e solo una piccola parte è ancora intatti a Parigi. Nella capitale francese i pezzi erano 7900 circa, di cui 4148 volumi di processi e 472 di sentenze fino al 1771; nella seconda metà dell’800 in concomitanza con situazioni politiche “pericolose” (Garibaldi, porta Pia) i funzionari della Congregazione del Santo Uffizio operarono distruzioni nella documentazione processuale degli anni 1772-1810 che non era stata portata a Parigi e in quella prodotta in seguito. Dopo l’abolizione dell’Inquisizione in Spagna, il popolo bruciò quasi tutti gli archivi con i dati dei processi e delle condanne. Il governo illuminista del viceré Domenico Caracciolo fece bruciare tutti gli archivi di Palermo per mettere una pietra sopra quella storia di orrori e per tutelare le migliaia di persone segnalate, esattamente come accadde in tutte le terre portoghesi, come ad esempio il viceré del Portogallo conte di Sarzedas, a Goa, la capitale delle Indie.

Per avere un’idea delle proporzioni di quella macchina infernale, occorre ricordare che solo all’Inquisizione di Palermo lavoravano 25.000 persone! In un altro capitolo del librone risulta che le sentenze capitali eseguite a Roma dal 1500 al 1730 furono «solo» 128. Ma questi dati sono stati ottenuti da 11 dei 39 registri originari, quindi con una semplice proporzione è lecito pensare che le esecuzioni furono come minimo 453. Ma questi sono dettagli, le vittime innocenti dell’Inquisizione furono almeno cinquecentomila, senza contare i 100-150 mila presunti catari, uomini, donne e bambini, scannati vivi in poche ore a Béziers il 22 luglio 1209. Questa faccenda dei numeri è comunque fuorviante: l’orrore vero consisteva nel fatto che tutti, nessuno escluso, poteva essere sospettato, imprigionato, perdere tutte le proprietà ed essere arso vivo in quanto l’Inquisizione non giudicava dei crimini, ma le idee. Bastava un gesto, una parola, un litigio con un parente o un vicino di casa, il volersi liberare di qualcuno scomodo per essere denunziati o per denunziare.

Alcuni quotidiani hanno pubblicato la stessa tabellina che, nel librone, fa parte dell’articolo di Gustav Henningsen scritto in spagnolo. Alcuni nell’alto della tabellina hanno scritto correttamente «Caccia alle streghe», mentre sotto «le vittime dell’Inquisizione nel Seicento». S’immagini ora un qualunque lettore: prima riga, in Irlanda l’Inquisizione ha bruciato vivi solo due eretici; seconda riga, in Portogallo solo 7… ma allora è proprio vero che questa leggenda nera dell’Inquisizione è stata tutta un’invenzione! Da notare la finezza: la tabellina inizia con Irlanda e Portogallo, di cui non si conoscono i dati, mentre poteva cominciare con quelli della Polonia (10.000 creature accusate di stregoneria, bruciate vive, su una popolazione di 3.400.000… solo nel Seicento!). Senti come cambia la musica di morte? Altri quotidiani hanno compiuto veri e propri «capolavori» d’involontario depistaggio pubblicando la stessa tabellina ma intitolandola «Le esecuzioni in Europa» (esecuzioni generiche, quindi totali, mentre la tabellina in questione si riferiva solo ai condannati di stregoneria e solo al Seicento!). Occorre ricordare che la Riforma di Lutero in pratica aveva rigettato tutto del cattolicesimo, tranne la caccia alle streghe. Comunque tutta la stampa (sia cartacea che sul web) ha riassunto i dati forniti direttamente dal curatore dell’opera Agostino Borromeo, secondo i quali le condanne al rogo comminate dai tribunali ecclesiastici sono state – in Italia, Spagna e Portogallo – 99.  È lecito pensare che i quotidiani abbiano fatto esattamente quello che il papa e il comitato organizzatore del Simposio si erano prefissi sei anni fa: hanno abboccato all’amo pubblicando dati che nulla hanno a che vedere con le proporzioni apocalittiche di quello ch’è accaduto in mezzo mondo per quasi 600 anni. E non è nemmeno vero che in questi atti ci sia una volontà sfacciata di negare la «leggenda nera»: è l’insieme della vicenda ch’è subdolo, ma tanto la gente non leggerà mai l’imponente volume, mentre quello che scrivono i giornali sì.

Non è tuttavia da escludere quell’effetto boomerang tanto temuto dai vescovi e cardinali più prudenti, che per sei anni si sono opposti alla pubblicazione degli atti del Simposio: sapevano che rimestando nello sterco del demonio poteva sprigionarsi qualche zaffata. E infatti in questo librone si possono cogliere parecchie «noterelle», come la storia dell’Inquisizione spagnola e portoghese in centro-sud America e nelle Indie. Il pretesto che innescava le denunzie e i processi erano nella grande maggioranza dei casi le proprietà. Per appropriarsi dei beni della gente, la Chiesa, il Comune, la Città e lo Stato hanno accusato di eresia via via catari, valdesi, apostati, convertiti, apostolici, ebrei, ebrei neri, ebrei bianchi, musulmani, protestanti, marrani, nestoriani, induisti, blasfemi, sodomiti, streghe, illuse, illudenti, bigami, superstiziosi, anabattisti, criptogiudei, criptomusulmani, pagani, illuminati, scismatici, peccatori di magia, sortilegi, divinazione, abuso di sacramenti, disprezzo delle Chiavi, studiosi, medici, alchimisti, atei, oppositori politici, filosofi, matematici, scienziati… e li mandavano al rogo, perché l’eretico non può possedere beni, che invece sono della Chiesa la quale non lo spoglia ma si riprende ciò che è suo… anche in presenza di figli cattolici; per questo l’Inquisizione fu una macchina che macinò un’enorme massa di capitali finanziari e l’immanitas tormentorum spingeva gli accusati innocenti ad autoaccusarsi per sfuggire alla sofferenza: il risultato era che non vi si difendeva la pietas religiosa, ma se ne faceva pretesto per impadronirsi dei beni altrui. Vale la pena riportare una sola frase del Manuale degli inquisitori di Nicolau Eymerich (il «vangelo» dell’Inquisizione per secoli): «Bisogna ricordare che lo scopo principale del processo e della condanna a morte non è salvare l’anima del reo, ma… terrorizzare il popolo».

In genere la ripartizione dei beni depredati era 1/3 agli inquisitori, 1/3 alla Chiesa e un terzo al comune, alla città o allo stato. A Viterbo e a Roma, sedi papali, 1/3 al comune e 2/3 agli inquisitori.

Oltre allo scopo primario (minimizzare la quantità dei bruciati vivi) il Simposio aveva altri due intenti. Quello di parlare di numerose inquisizioni, di fenomeni differenziati, diversi d’epoca in epoca e di stato in stato e di far risaltare che la più umana fu – guarda caso – quella romana; e quello di addossare agli stati (soprattutto quello spagnolo e portoghese) la responsabilità di aver esagerato con la tortura e i roghi. L’ossequioso Adriano Garuti scrive, infatti, che la stessa carcerazione in S. Ufficio è forse stata soffusa da un alone eccessivamente tetro… non mancavano però normative o prassi che ne attenuavano il rigore: non si carceravano facilmente le donne, specie se nobili… e la capacità del soggetto ad essere sottoposto alla tortura era vagliata e confermata da un medico… L’inquisitore si faceva assicurare da un medico se l’eretico era forte e se si poteva divertire a sazietà. Significative sono alcune pagine di Henningsen quando racconta che quasi la metà dei 200 processi di stregoneria li portarono a compimento due inquisitori tedeschi: Jacob Sprenger (1436-1495) e Heinrich Institoris (1432-1492). La loro fanatica persecuzione delle streghe nel sud della Germania si scontrò con l’opposizione delle autorità civili ed ecclesiastiche. Allora i due inquisitori si lamentarono col papa Innocenzo VIII che il 5 dicembre 1484 emanò la bolla “Summis desiderantes affectibus” con cui dette ai due l’appoggio di cui avevano bisogno, elencando dettagliatamente quello che combinavano le streghe: «uccidono il bambino nel ventre della madre, così come i feti delle mandrie e dei greggi, tolgono la fertilità ai campi, mandano a male l’uva delle vigne e la frutta degli alberi; stregano gli uomini, donne, animali da tiro, mandrie, greggi ed altri animali domestici; fanno soffrire, soffocare e morire le vigne, piantagioni di frutta, prati, pascoli, biada, grano e altri cereali; inoltre perseguitano e torturano uomini e donne attraverso spaventose e terribili sofferenze e dolorose malattie interne ed esterne; e impediscono a quegli uomini di procreare, e alle donne di concepire…».

All’inizio del sec. XVI gli inquisitori di Germania, Francia e Italia intrapresero una violenta campagna di persecuzione verso la setta delle streghe con la completa approvazione del Vaticano grazie alle circolari papali emesse da Alessandro VI, Giulio II, Leone X e Adriano IV. Nel 1501 papa Alessandro VI scrive all’inquisitore della Lombardia Angelo da Verona raccomandandogli di procedere più duramente contro le tante streghe della zona che rovinano le persone, gli animali ed i raccolti. Il senato di Venezia protestò verso l’Inquisizione che aveva bruciato vive 70 streghe in Valcamonica e di sospettare che altre 5.000 facessero parte della setta satanica… ma papa Leone X nel 1521 scrisse una bolla violenta nella quale autorizzava gli inquisitori a scomunicare le autorità civili che dovessero opporsi ai roghi delle streghe condannate dal Santo Ufficio. In soli 10 anni vennero bruciate vive 3.000 «streghe».

Nella stampa populista si continua ad incontrare una cifra di nove milioni di vite sacrificate durante la persecuzione delle streghe di quell’epoca. Oggi si stima che il numero di processi di stregoneria in quell’epoca è di 100.000 in totale e circa una metà, 50.000 persone, finirono al rogo. Delle 1300 vittime in Portogallo, Spagna e Italia, meno di cento roghi possono essere attribuiti all’Inquisizione dei suddetti paesi. Il resto si deve ai tribunali civili e vescovili degli stessi paesi.

Come se quei tribunali civili e vescovili non fossero emanazione diretta del potere della Chiesa che tutto permeava in quei secoli bui. Con questa operazione del Simposio, papa e cardinali hanno provato a mischiare le carte, a introdurre distinguo, a confondere, a scaricare responsabilità che sono state e resteranno sempre di coloro che crearono e mantennero vivo quel sistema di sterminio: la Chiesa cattolica, i suoi vertici.

Nel 1600  l’inquisitore don Alonso de Salazar Frías girò in lungo e in largo per tutto il Paese Basco spagnolo portando un Editto di Grazia alla setta delle streghe. 2000 persone si presentarono davanti all’Inquisizione chiedendo che fosse loro concessa l’amnistia promessa alle streghe. Le suddette 2000 streghe denunziarono altre 5000. Quel clima apocalittico era stato alimentato dalle bolle papali. Soprattutto la bolla di Innocenzo VIII, più di nessun altro, legalizzò la persecuzione delle streghe. Scrive Adriano Prosperi: A partire dal 1559 e per volontà di Paolo IV, in maniera sistematica e capillare, tutti i cristiani che si recarono a fare la confessione dei loro peccati furono interrogati su eventuali loro reati o semplici conoscenze di reati di eresia o lettura di libri proibiti; e se qualcosa emergeva, vennero rinviati al tribunale dell’inquisizione. Se la violenza della tortura e del patibolo spezzava i corpi, la violenza morale esercitata attraverso la subordinazione della confessione all’inquisizione spezzò le coscienze: e lo fece su tutta la popolazione in età di confessione.

Due anni prima lo stesso Paolo IV aveva investito tutta la travolgente irruenza del suo carattere nella trasformazione di un tribunale (della Santissima Inquisizione) spesso interlocutorio e prudente, incline a interrogarsi su se stesso, frenato e intralciato da altri centri di potere, in un’arma affilata di repressione e annientamento conferendogli (il 29 aprile 1557) per mezzo della minuta «Pro votantibus» licenza e facoltà di emettere voti e sentenze che comportassero tortura, mutilazioni e spargimento di sangue, fino alla morte inclusa, senza per questo incorrere in censura o in irregolarità. Il 28 ottobre dispensò tutti i cardinali e inquisitori del Santo Ufficio dall’irregolarità in cui incorrevano infliggendo tortura reiterata. Lo stesso papa, il 5 novembre dell’anno prima, aveva reso solenne e consacrato il rogo che sarebbe avvenuto la domenica successiva concedendo l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che avrebbero assistito allo spettacolo.

L’uso della tortura nell’Inquisizione fu introdotto da papa Innocenzo IV il 15 maggio 1252, con la bolla Ad extirpanda, mentre Innocenzo III, con la bolla del 25 marzo 1199 Vergentis in senium, aveva modificato il reato d’eresia da religioso a crimine contro lo stato, coinvolgendo così accanto alla Chiesa tutti gli stati.

Le rare volte che ci fu un tentativo di evangelizzazione senza violenza, venne puntualmente stroncato dal papato. Charles Amiel nel suo intervento L’inquisizione di Goa (capitale delle Indie portoghesi) racconta l’esperienza missionaria di due famosi gesuiti italiani, Matteo Ricci in Cina e Roberto De Nobili a Goa, nel 1605. De Nobili si stabilisce a Madurai nel paese tamil ove esercita il suo apostolato per 40 anni, adottando lo stile di vita degli eremiti brahmanici. Pratica l’ascesi e la maniera di vita di questi eremiti, opta per i loro costumi, si orna la fronte di ceneri simboliche, porta il cordone rituale e apprende il sanscrito, il tamil e il telegu. Entrambi furono prigionieri dell’accomodatio, il metodo di evangelizzazione che cercò di adattare la pratica cristiana agli usi e costumi degli autoctoni. Una missione gesuita francese creata da Luigi XIV prolunga e rivivifica nel Carnate nella prima metà del sec. XVIII l’operato di Roberto De Nobili. Ma la bolla Omnium sollicitudinum di Benedetto XIV nel 1774 scaccia definitivamente i rischiosi accomodamenti che avevano alimentato la querelle dei riti… e si tornò al metodo tradizionale della tabula rasa: l’induismo era percepito come un’accozzaglia di superstizioni e di culti demoniaci che non meritavano nemmeno il nome di religione.

Ventisette anni prima che a Goa sbarcasse Roberto De Nobili, il 25 novembre 1578 l’inquisitore del tribunale di Goa, Bartolomé  de Fonseca, scrive: «Mi hanno consegnato un tribunale pacifico, senza processi, prigioni con pochi prigionieri (una sola nuova cristiana, che si rifiutava di confessarsi, che non cedette in nulla e morì in quello stato); nel paese segretamente infiltrata questa gentaccia di nuovi cristiani, tranquilli e a riposo. Io ho reso il tribunale piegato sotto il peso dei processi, le prigioni sono riempite al massimo di prigionieri: ce ne sono stati di più in questo solo anno che nei tredici anni in cui lavoravano congiuntamente un arcivescovo e due inquisitori. Il paese è pieno di fuoco e di cenere dei cadaveri degli eretici e degli apostati, ed io vengo considerato più come uno sposo di sangue che come uno sposo di pace, odiato da tutti quelli che tengono nascosti i loro interessi con questa gentaccia, e sono numerosi.» In effetti, aggiunge il relatore dell’articolo Charles Amiel, i roghi dal 1578 al 1579 sono i più micidiali del XVI secolo per gli ebrei: 43 alla volta. Soprattutto per gli ebrei non c’era scampo: si convertivano dappertutto ma, con la conversione, conservavano almeno le proprietà. Ed erano queste a cui davano la caccia papi e re. E allora bastava solo mettere in marcia la macchina infernale delle delazioni, arresti, incarcerazioni, processi, torture, moniti, giudizi, roghi…

Ma c’era qualcosa di peggio dei roghi, i forni, l’orrore apocalittico dell’inquisizione: los «quemaderos» di Siviglia. Erano così tanti gli eretici condannati al rogo, che furono costretti a inventarsi qualcosa di speciale che consumasse meno legna dei tradizionali autodafé: costruirono uno accanto all’altro quattro enormi forni circolari sopra una piattaforma di pietra ognuno dei quali poteva contenere fino a quaranta «dannati». Accendevano un po’ di legna sotto la piattaforma, buttavano dentro le povere creature e le cocevano a fuoco lento: occorrevano dalle 20 alle 30 ore per crepare. Funzionarono ininterrottamente per oltre tre secoli. 300 anni. Vennero chiusi da Napoleone Bonaparte nel 1808. Questo è riuscito a fare la Santa Inquisizione, sublime spettacolo di perfezione sociale (come scrive Adriano Prosperi citando un numero di La Civiltà Cattolica del 1853).

L’operazione di minimizzare l’operato dell’Inquisizione ha toccato, naturalmente, anche il conflitto fede-ragione, fede-scienza: tra 1559 e 1707 il numero delle opere scientifiche proibite dall’Inquisizione di Spagna per questa regione superò la somma di quelle proibite per ogni altra e lo stesso è quasi certamente vero per l’Indice romano, per il quale uno studio quantitativo non esiste ancora. Vale la pena ricordare che il cardinale Bellarmino – il carnefice di Giordano Bruno e Galileo Galilei – non venne fatto santo all’epoca dei fatti, nel ’600, bensì pochi anni fa, nel 1930: ovverosia, nel 1930 la Santa Sede avallò tutto l’operato di Urbano VIII e dello spietato inquisitore Bellarmino!

L’Inquisizione depredava anime, coscienze, proprietà. Giustificava i genocidi. Il 90% degli indios del centro-sud America venne sterminato con il permesso e la giustificazione degli inquisitori. I conquistadores spagnoli e portoghesi depredavano le terre in nome del Bene, di Cristo. Protestanti e Anglicani del nord Europa impararono il metodo e anch’essi presero a colonizzare, depredare, sterminare popolazioni autoctone come gli indiani del nord America e gli aborigeni dell’Australia.

Oggi, come allora, gli Stati Uniti continuano a depredare in nome del bene, in nome di Dio, torturando i prigionieri per il solo piacere di torturare, dopo aver ammazzato le loro famiglie, bombardato le loro città, depredato le loro terre, le loro proprietà, i loro prodotti.

Questo è il metodo e l’insegnamento che l’Inquisizione ha lasciato in eredità al mondo cristiano, a questo feroce e spietato Primo Mondo che detiene il potere economico, politico e militare. L’embrione del capitalismo era lì, nel fine e nel metodo dell’Inquisizione: appropriarsi di tutto, terre, proprietà, boschi, mari, col pretesto di diffondere la civiltà, usando qualsiasi metodo, spietati e indifferenti verso qualsiasi altra cultura, altra religione, provocando insanabili disastri umani e ambientali.

Lo stato della Germania, senza perdere tempo a indire simposi sul numero esatto degli ebrei massacrati nei campi di concentramento, ha eretto al centro di Berlino un importante museo  sulla storia e gli orrori del nazismo, come monito al mondo intero e alle future generazioni tedesche.

La Santa Sede mistifica e minimizza il ruolo devastante dell’Inquisizione, invece di stigmatizzare la portata culturale e politica di quell’infernale sistema.

 


 

Le torture contro le donne

Aurelio Lepre


Nel 1486 Heinrich Institor von Kraemer e Jacob Sprengher, che il pontefice Innocenzo VIII aveva nominato inquisitori per la Germania, pubblicarono a Strasburgo un’opera intitolata Malleus maleficarum («Il martello delle streghe»), che nei due secoli successivi fu edito numerose volte e costituì il testo fondamentale al quale attinsero gli investigatori e i giudici per i processi alle streghe. Nell’opera erano ricordate, tra molte altre cose, le ragioni che rendevano il numero delle streghe molto più alto di quello degli stregoni. All’origine c’era il fatto che la prima donna «era stata fatta con una costola curva, cioè una costola del petto ritorta come se fosse contraria all’uomo». Da ciò derivavano i difetti delle donne, che le rendevano facilmente prede del demonio: la credulità; la maggiore sensibilità, che le faceva essere molto virtuose o, al contrario, molto cattive; la malizia; la debolezza d’intelletto e infine la carnalità. Era soprattutto quest’ultima a preoccupare i due autori e quasi a ossessionarli. Nel Martello delle streghe c’è una misoginia assoluta, che lo storico Gregory Zilboorg ha definito «tanto tipica quanto spietata e incontrollabile» e che dà all’opera un posto di rilievo anche nella storia delle donne. Essa rifletteva una convinzione diffusa negli ambienti ecclesiastici: senza le donne il demonio avrebbe potuto portare a termine solo una minima parte delle sue imprese. Gli effetti di questa misoginia durarono a lungo.

Nel 1631 un gesuita, Friedrich von Spee, anche lui tedesco come Sprengher e Kraemer, dopo averla fatta circolare manoscritta, pubblicò a Rinteln sul Weser un’opera anonima, Cautio criminalis (il nome dell’autore sarebbe apparso soltanto in un’edizione del 1731, quando la grande stagione della caccia alle streghe era ormai finita). La Cautio criminalis è ora ripubblicata dall’editore Salerno, con una bella prefazione di Anna Foa (Friedrich von Spee, I processi alle streghe, Salerno Editrice, pagg. 377, euro 18), che in un altro recentissimo lavoro (Eretici. Storie di streghe, ebrei e convertiti, Il Mulino, pagg. 145, euro 10,80) ha efficacemente ricostruito alcune vicende romane di diavoli e di streghe, oltre che di ebrei (e non vi mancano i riferimenti alla Cautio criminalis).

In quest’opera Spee osservava: «Ormai in Germania le prigioni sono piene di detenute», denunciate per stregoneria e costrette con la tortura a rivelare i nomi delle loro complici, in una tragica catena che non sembrava dovesse mai interrompersi, a causa delle zelo degli inquisitori. Le detenute erano considerate dai giudici «spergiure, simulatrici, subdole»: in nessun caso bisognava prestare loro fede. Von Spee non nascondeva la sua indignazione: «Forza, inquisitori, arrestate le denunciate, non c’è alcun dubbio che siano colpevoli! Torturatele e seviziatele finché non confessino! Se non lo fanno, bruciatele vive come ostinate! infatti, sono colpevoli: lo ha detto il demonio e ha parlato sotto tortura!». L’autore della Cautio criminalis conosceva benissimo la situazione, perché aveva confessato molte presunte streghe prima che fossero avviate al supplizio. La caccia alle streghe aveva contaminato perfino il sacramento della confessione: Spee denunciava duramente l’attività di un altro confessore, che aveva accompagnato al rogo quasi duecento donne e che si rifiutava di assolvere chi non si fosse riconosciuta colpevole, confermando in confessione tutto ciò che avevano detto ai giudici sotto tortura. Spee, ad ogni modo, che, nello spirito dei tempi, ammetteva l’uso della tortura quando era necessaria e non può perciò essere ritenuto un precursore degli illuministi, non si limitava alle denunce, che avrebbero avuto un’efficacia relativa, ma offriva con la «cautio» ai difensori delle donne e ai giudici più onesti un trattato giuridico, contrapposto a quelli di cui si servivano gli inquisitori più duri.

Dal 1618 al 1648 infuriò in Germania la guerra dei Trent’anni, devastando la società tedesca con battaglie, saccheggi e pestilenze, che crearono un’atmosfera favorevole alla persecuzione delle streghe. Ma questa continuò per tutto il secolo in altri luoghi e in altre situazioni. Il più celebre processo alle streghe si sarebbe svolto nel 1692 a Salem, nella colonia inglese del Massachusetts, sul fondamento delle teorie di Cotton Mather, un puritano anche lui ossessionato dall'influenza che il demonio aveva sulle donne. Alcune ragazze confessarono di essere delle streghe e, forse a causa di una autosuggestione collettiva, anche altre ammisero di essere colpevoli di stregoneria. Il processo è molto conosciuto, perché fu ricostruito in un dramma dello scrittore americano Arthur Miller, intitolato «The crucible» («il crogiuolo»), e in un film, dallo stesso titolo (chiamato in Italia «Le vergini di Salem»), apparso nel 1957, del regista Raymond Rouleau e che ebbe come interpreti, tra gli altri, Yves Montand e Simone Signoret. Molti lettori ne avranno visto il «remake», «La seduzione del male», del 1996, girato da Nicholas Hytber e Interpretato da Daniel Day-Lewis e Winona Ryder.

Mano a mano che le confessioni a Salem aumentavano, Cotton Mather si convinse sempre più che «un esercito di Demoni aveva fatto orribilmente irruzione» nella cittadina e fece il possibile per convincercene i cinque giudici, tre dei quali erano suoi amici. All’origine di tutto c’era l’attività dello Spirito del Male. Certo, erano altri tempi, ma erano poi così lontani? A giudicare dai recenti episodi di satanismo, no. E sembra esserne persuaso anche padre Gabriele Amorth, esorcista ufficiale della Chiesa, che, proprio ricordando la critica spietata del modo di condurre i processi fatta nel 1631 da Friedrich von Spee, ha tuttavia osservato, in polemica con quella parte della Chiesa che non sembra credere all’influenza del diavolo: «La reazione fu più radicale: si era giunti a demonizzare tutto, e ora, dal secolo XVIII in poi, si negò ogni esistenza del demonio, che tutt’al più fu visto come un pupazzo o come l’idea astratta del male. A questo brusco passaggio contribuì la cultura laica, l’ateismo predicato alle masse, il razionalismo scientifico e culturale» (Inchiesta sul demonio. Marco Tosatto incontra Gabriele Amorth, il più autorevole esorcista d'Italia, Piemme, pagg. 219, euro 14,90). Secondo padre Amorth, tutto sarebbe andato meglio, se alla tortura si fosse sostituito l’esorcismo. Per le «streghe» certamente sì, ma non per chi crede nella forza della ragione. E, a quanto sostiene Amorth, nemmeno per molti teologi. Ma la Chiesa non sembra avere ancora raggiunto l’unanimità. Il recentissimo «mea culpa» di Giovanni Paolo II sull’Inquisizione è accompagnato dalle sottili distinzioni degli studiosi cattolici sulle condanne a morte comminate dai tribunali ecclesiastici (che furono poche) e su quelle dei tribunali «dei prìncipi». Ma le une e le altre avevano la stessa giustificazione: a essere condannato, era in fondo, il Demonio. E questo è il punto fondamentale sul quale ancora non viene fatta chiarezza.


 

La verità sull'Inquisizione spagnola
di Thomas F. Madden

Articolo in lingua originale comparso in Crisis, Vol. 21, n. 9 Ottobre 2003

La scena è una stanza disadorna con una porta alla sinistra. Un giovane di bell'aspetto, infastidito da domande tediose ed irrilevanti esclama, con tono frustrato, "non mi aspettavo una specie di Inquisizione spagnola". Improvvisamente la porta si spalanca, rivelando il cardinale Ximinez, affiancato dal cardinale Fang e dal cardinale Biggles. "Nessuno si aspetta l'Inquisizione spagnola! - urla Ximinez - La nostra arma principale è la sorpresa ... sorpresa e paura ... paura e sorpresa ... Le nostre due armi sono paura e sorpresa ... ed efficienza spietata ... Le nostre tre armi sono paura, sorpresa ed efficienza spietata ... ed una devozione quasi fanatica al papa ... I nostri quattro ... no ... Fra le nostre armi ... nel nostro armamento ... elementi come paura, sorpresa ... Farò un'altra entrata".

Chiunque non abbia vissuto sotto una pietra, negli scorsi 30 anni, probabilmente riconoscerà questa scena dal Flying Circus di Monty Python. In questi sketch tre inetti inquisitori vestiti di rosso torturano le loro vittime con strumenti come cuscini e imbottiture di poltrone. La cosa è divertente perché il pubblico sa bene che l'Inquisizione spagnola non era né inetta né morbida, ma spietata, intollerante e letale. Non c'è bisogno di avere letto Il pozzo e il pendolo di Edgar Allan Poe, per avere qualche nozione delle buie prigioni sotterranee, degli ecclesiastici sadici e delle torture spietate dell'Inquisizione spagnola. Il cavalletto, la vergine di ferro e i roghi ai quali la Chiesa cattolica condannò i suoi nemici sono tutte icone dell'Inquisizione spagnola ormai familiari, saldamente impresse nella nostra cultura.

Questa immagine dell'Inquisizione spagnola è utile per coloro che non nutrono molto amore verso la Chiesa cattolica. Chiunque desideri colpire la Chiesa non tarderà molto ad afferrare i due bastoni favoriti: le Crociate e l'Inquisizione spagnola. Chi scrive ha già trattato le Crociate in un numero precedente di Crisis (vedi "La vera storia delle crociate", aprile 2002). Esaminiamo ora l'altro bastone.

Per capire l'Inquisizione spagnola, che ebbe inizio sul finire del 15° secolo, dobbiamo dare una rapida occhiata alla sua antesignana, l'Inquisizione medievale. Prima di farlo, tuttavia, è importante premettere che il mondo medievale non era il mondo moderno. Per la gente del Medio Evo la religione non era qualcosa da sbrigare solo in chiesa. Era la loro scienza, la loro filosofia, la loro politica, la loro identità e la loro speranza di salvezza. Non era una preferenza personale del singolo, ma una indiscutibile verità universale. L'eresia, quindi, colpiva al cuore quella verità. Inoltre dannava l'eretico, metteva in pericolo chi gli stava accanto e lacerava il tessuto della comunità. Gli europei medievali non erano soli, sotto questo profilo. Il loro atteggiamento era condiviso da tante culture, in tutto il mondo. La moderna pratica della tolleranza religiosa è relativamente nuova e, in ogni caso, solo occidentale.

Le autorità secolari ed ecclesiastiche dell'Europa medievale affrontarono l'eresia in modi diversi. Il diritto romano equiparava l'eresia al tradimento. Perché? Perché la sovranità era tale per delega divina, dimodoché all'eresia era inerente una sfida all'autorità reale. Gli eretici dividevano il popolo, fomentando agitazioni e disordini. Nessun cristiano dubitava del fatto che Dio castigasse una comunità la quale permetteva all'eresia di radicarsi e di crescere. Sia il re che il cittadino comune perciò avevano le loro buone ragioni per cercare e distruggere gli eretici dovunque li avessero scovati. E lo facevano con piacere.

Uno dei miti più durevoli dell'Inquisizione è il suo essere uno strumento di oppressione imposto su europei maldisposti da una Chiesa ambiziosa. Nulla potrebbe essere più sbagliato. In realtà l'Inquisizione portò ordine e giustizia, impedendo le esecuzioni sommarie degli eretici. Quando gli abitanti di un villaggio acciuffavano un sospettato d'eresia e lo portavano di fronte al signore locale, come sarebbe stato possibile un giudizio? Come avrebbe potuto un laico analfabeta definire le credenze dell'accusato eretiche o no? E in che modo i testimoni sarebbero stati ascoltati e vagliati?

L'Inquisizione medievale data dal 1184, anno in cui Papa Lucio III inviò un elenco di eresie ai vescovi dell'Europa e ordinò loro di assumere un ruolo attivo nel determinare se gli accusati di eresia fossero effettivamente colpevoli. Piuttosto che contare su corti secolari, signori locali o addirittura rischiare linciaggi a furor di popolo, i vescovi erano invitati a verificare le accuse di eresie nelle loro stesse diocesi, tramite l'esame di ecclesiastici competenti che sapessero servirsi del diritto romano. In altre parole, che sapessero condurre un'"inchiesta" (donde il termine "inquisizione").

Dalla prospettiva dell'autorità secolare, gli eretici erano traditori di Dio e del re e pertanto meritavano la morte. Dalla prospettiva della Chiesa, invece, gli eretici erano pecorelle smarrite, allontanatesi dal gregge. In quanto pastori, il papa e i vescovi avevano il dovere di ricondurre quelle pecore all'ovile, così come il Buon Pastore aveva comandato loro. Quindi, laddove i sovrani tentavano di salvaguardare i loro regni, la Chiesa cercava di salvare anime. L'Inquisizione offrì agli eretici una scappatoia per evitare la morte e far ritorno alla comunità.

La maggior parte degli accusati di eresia dall'Inquisizione medievale o fu assolta o la loro sentenza sospesa. A quelli trovati colpevoli di errori gravi fu permesso di confessare il loro peccato, fare penitenza ed essere ripristinati nel Corpo di Cristo. L'assunto fondamentale dell'Inquisizione era che, in quanto pecore smarrite, gli eretici avevano semplicemente deviato. Tuttavia, se un inquirente avesse stabilito che una determinata pecora si era volontariamente rivoltata contro il gregge, non ci sarebbe stato più nulla da fare. Gli eretici impenitenti od ostinati furono scomunicati e consegnati alle autorità secolari. Ad onta del mito popolare, la Chiesa non bruciò alcun eretico. Era l'autorità secolare a considerare l'eresia meritevole della pena capitale. Il fatto puro e semplice è che l'Inquisizione medievale salvò innumerevoli migliaia di innocenti (ed anche di non esattamente innocenti) che sarebbero altrimenti finiti arrostiti dai signori locali o trucidati sommariamente dai popolani.

Col crescere del potere dei papi medievali crebbe l'estensione e la sottigliezza dell'Inquisizione. L'introduzione dei francescani e dei domenicani, agli albori del 13° secolo, fornì al papato un corpo religioso dedicato, che votò le vite dei suoi componenti alla salvezza del mondo. Poiché il loro ordine era stato creato espressamente per combattere gli eretici e predicare la fede cattolica, i domenicani si fecero particolarmente attivi nell'Inquisizione. In accordo alla legge più progressista del tempo la Chiesa, nel 13° secolo, eresse tribunali inquisitivi dipendenti da Roma, piuttosto che dai vescovi locali. Per garantire rispetto dei diritti ed uniformità di trattamento, furono scritti manuali per gli inquisitori. Bernardo Gui, oggi meglio conosciuto come il fanatico e crudele inquisitore de Il nome della rosa, scrisse un manuale molto influente, all'epoca. Non c'è nessuna ragione di credere che Gui fosse qualcosa di simile al suo ritratto romanzato.

Dal 14° secolo, l'Inquisizione poté vantare le migliori competenze legali disponibili sulla piazza. Gli ufficiali dell'Inquisizione erano laureati e specializzati in legge e teologia. Le procedure erano simili a quelle usati nelle indagini secolari (noi le chiamiamo "inchieste" oggi, ma - come si diceva - è la stessa parola).

Il potere dei re aumentò drasticamente nel tardo Medio Evo. I sovrani sostennero con forza l'Inquisizione, perché la reputavano un modo efficiente di conservare la salute religiosa dei loro regni. Addirittura alcuni re biasimarono l'Inquisizione, per la sua eccessiva clemenza nei confronti degli eretici. Come in altre aree di pertinenza ecclesiastica, le autorità secolari del tardo Medio Evo presero ad appropriarsi dell'Inquisizione, sottraendola al controllo papale. In Francia, per esempio, furono ufficiali reali, assistiti da studiosi legali dell'Università di Parigi, a farsi carico dell'Inquisizione francese. I re giustificavano questo atteggiamento col dire che la loro conoscenza degli eretici, nei loro stessi regni, era migliore di quella di un papa lontano.

Queste dinamiche potrebbero aiutare ad inquadrare l'Inquisizione spagnola, ma ce ne sono ben altre. La Spagna differiva sotto molti aspetti dal resto dell'Europa. Conquistata dalla guerra santa (il jihad) musulmana nell'ottavo secolo, la penisola iberica era stata un continuo teatro di guerra. Poiché i confini tra musulmani e cristiani si spostavano rapidamente nel corso dei secoli, era preciso interesse legislativo applicare un equo livello di tolleranza verso altre religioni. La capacità di vivere insieme di musulmani, cristiani ed ebrei (detta "convivencia" in spagnolo) era una rarità, nel Medio Evo. Effettivamente, la Spagna era il luogo più eterogeneo e tollerante di tutta l'Europa medievale. L'Inghilterra espulse tutti i suoi ebrei nel 1290. La Francia fece altrettanto nel 1306. Invece in Spagna gli ebrei prosperavano ad ogni livello sociale.

Ma forse era inevitabile che le ondate di antisemitismo che spazzarono l'Europa medievale travolgessero anche la Spagna. L'invidia, l'avidità e la fraudolenza condussero a tensioni crescenti tra cristiani ed ebrei, nel 14° secolo. Durante l'estate del 1391 nutriti gruppi di facinorosi irruppero nei quartieri ebrei di Barcellona e di altre città simili, costringendo gli abitanti a scegliere tra il battesimo o la morte. La maggior parte accettò il battesimo. Il re d'Aragona, che aveva fatto del suo meglio per fermare queste incursioni, consapevole della non validità di un battesimo forzato, decretò che ogni ebreo battezzato in alternativa alla morte avrebbe potuto tornare alla propria religione.

Ma molti di questi neoconvertiti ("conversos") decisero di rimanere cattolici. C'erano molte ragioni per questo. Alcuni pensavano che l'apostasia li avesse resi inidonei al giudaismo. Altri si preoccupavano dell'evenienza per cui il ritorno alla loro religione precedente li avrebbe resi vulnerabili ad aggressioni future. Altri ancora ritennero il loro battesimo un modo per evitare l'aumento di restrizioni e di tasse imposto agli ebrei. Col passar del tempo i conversos si assestarono nella nuova religione, finendo col diventare giusti e pii come gli altri cattolici. I loro bambini venivano battezzati al momento della nascita e crescevano come cattolici. Ma l'ambiente culturale restò ibrido. Sebbene cristiani, numerosi conversos ancora parlavano, vestivano e mangiavano come gli ebrei. Molti rimasero nei quartieri ebrei per poter essere vicini agli altri membri della famiglia. In definitiva, la presenza dei conversos sortì l'effetto di cristianizzare il giudaismo spagnolo. Ciò, a sua volta, accrebbe il numero delle conversioni volontarie al cattolicesimo.

Nel 1414 si ebbe un dibattito, nella città di Tortosa, tra autorità cristiane ed ebree. Lo stesso papa Benedetto XIII intervenne. Da parte cristiana c'era il medico papale, Jerónimo de Santa Fe, convertitosi recentemente dal giudaismo. Il dibattito provocò un'ondata di nuove conversioni volontarie. Nella sola Aragona 3.000 ebrei ricevettero il battesimo. Tutto ciò causò non poca tensione tra coloro che rimasero ebrei e quelli che si fecero cattolici. I rabbini spagnoli che, dopo il 1391, consideravano i conversos ebrei a tutti gli effetti, in quanto costretti al battesimo, dal 1414 li ritennero autentici cristiani, che avevano lasciato volontariamente il giudaismo.

Dalla metà del 15° secolo, una cultura giudaico-cristiana interamente nuova fiorì in Spagna, ebrea di sangue, ma cattolica di spirito. I conversos, neoconvertiti o discendenti di convertiti che fossero, ebbero un peso enorme in questa cultura. Alcuni di loro si consideravano addirittura migliori dei "vecchi cristiani", perché legati da vincoli di sangue a Cristo stesso. Il vescovo, convertito, di Burgos, Alonso de Cartagena, pregando la Beata Vergine, avrebbe detto con orgoglio "Santa Maria, Madre di Dio e parente mia, prega per noi peccatori".

Lo sviluppo in ricchezza e potenza dei conversos spagnoli condusse a più d'una frizione, particolarmente fra i vecchi cristiani aristocratici e borghesi, che ebbero a risentirsi dell'arroganza dei conversos, invidiandone i successi. Cominciarono a circolare scritti che mostravano come ogni nobile lignaggio in Spagna fosse ormai inficiato dalla presenza dei conversos. La psicosi della cospirazione semitica dilagava. I conversos, si diceva, facevano parte di una trama ebrea elaborata per infiltrarsi tra la nobiltà spagnola e la Chiesa cattolica, distruggendole entrambe. I conversos, secondo questa logica, non erano cristiani veri, ma ebrei camuffati.

Studi recenti hanno definitivamente mostrato che, come tante ipotesi di cospirazione, tutto ciò era pura immaginazione. La stragrande maggioranza dei conversos era composta da buoni cattolici, semplicemente orgogliosi della loro eredità ebrea. Sorprendentemente molti scrittori moderni - molti scrittori ebrei, per la verità - hanno abbracciato queste fantasie antisemitiche. È abbastanza comune, oggi, sentir dire che i conversos erano davvero ebrei, in segreto, che lottavano per preservare la loro fede sotto la tirannia del cattolicesimo. Anche l'American Heritage Dictionary traduce "converso" con "ebreo spagnolo o portoghese convertitosi esteriormente al cristianesimo, nel tardo Medio Evo, per evitare la persecuzione o l'espulsione, pur continuando a praticare il giudaismo in segreto". Questo è semplicemente falso.

Ma il ripetersi delle accuse convinse re Ferdinando e la regina Isabella della necessità di investigare, quanto meno, sulla questione degli ebrei segreti. Rispondendo alla loro richiesta, papa Sisto IV emanò una bolla, il 1° novembre del 1478, che autorizzava la Corona a formare un tribunale inquisitivo consistente in due o tre ecclesiastici, la cui età non fosse inferiore ai 40 anni. Come era costume, i monarchi avrebbero avuto piena autorità e sugli inquisitori e sull'Inquisizione. Ferdinando, che aveva a corte molti ebrei e conversos, inizialmente non fu per nulla entusiasta della cosa. Lasciò trascorrere due anni, prima di nominare due inquisitori. E così cominciò l'Inquisizione spagnola.

Re Ferdinando sembra aver creduto che l'Inquisizione non avrebbe funzionato granché. Aveva torto. Come una bottiglia molotov lanciata su un pagliaio, il risentimento di coloro che odiavano i conversos - cristiani ed ebrei insieme - divampò nelle lingue di fuoco della denuncia lungo tutta la Spagna. Ma l'istigazione all'odio proveniva, essenzialmente, dall'invidia e dall'opportunismo. Ciò nonostante, il volume puro e semplice delle accuse sommerse gli inquirenti, che chiesero e ricevettero più assistenti. Ma, più grande si faceva l'Inquisizione, più accuse riceveva. Alla fine anche Ferdinando si convinse che il problema degli ebrei segreti era concreto.

In questa fase iniziale dell'Inquisizione spagnola, gli ebrei ed i vecchi cristiani usavano i tribunali come un'arma, contro i conversos loro nemici. Finché l'obiettivo dell'Inquisizione era investigare sui conversos, i vecchi cristiani non avevano niente da temere. La loro fedeltà alla fede cattolica non era sotto indagine (anche se fosse stata lontana dall'esser pura). Come gli ebrei, erano immuni dall'Inquisizione. Si ricordi che lo scopo dell'Inquisizione era trovare e correggere la pecora smarrita del gregge di Cristo. Non aveva giurisdizione sugli altri greggi. Quelli che imparano la storia dalla Storia del Mondo di Mel Brooks, Parte 1a, saranno forse sorpresi di sapere che tutti quegli ebrei che sopportarono varie torture nelle prigioni sotterranee dell'Inquisizione spagnola non sono nulla più di un prodotto della fertile fantasia di Brooks. Gli ebrei di Spagna non avevano nulla da temere dall'Inquisizione spagnola.

All'inizio, nel veloce sovrapporsi degli eventi, c'era gran confusione. Si verificarono abusi. Molti dei conversos accusati vennero assolti, ma non tutti. Qualche rogo ben pubblicizzato - per lo più dovuto a false testimonianze - spaventò comprensibilmente i conversos. Chi temeva qualche inimicizia abbandonava la sua città prima di poter essere denunciato. Dovunque guardassero, gli inquisitori trovavano accusatori. Quando l'Inquisizione esplose in Aragona, il livello di isteria toccò altezze inusitate. Papa Sisto IV tentò di porre un freno. Il 18 aprile 1482 scrisse ai vescovi della Spagna:

In Aragona, Valenza, Maiorca e Catalogna, l'Inquisizione è stata talvolta mossa non da zelo per la fede e per la salvezza delle anime, ma da avidità di ricchezza. Molti veri e fedeli cristiani, sulla base della testimonianza di nemici, rivali, schiavi ed altri individui d'infima condizione, sono stati, senza alcuna prova legittima, gettati in prigione, torturati e condannati come eretici recidivi, privati dei loro beni e delle loro proprietà e consegnati al braccio secolare per essere giustiziati, mettendo a repentaglio le anime, offrendo un esempio pernicioso e generando disgusto in molti.

Sisto ordinò che i vescovi assumessero un ruolo diretto in tutti i tribunali futuri, a garanzia che le norme di giustizia stabilite dalla Chiesa (l'accusato poteva disporre di un avvocato ed aveva diritto di appellarsi a Roma) venissero rispettate.

Nel Medio Evo i comandi del papa sarebbero stati rispettati. Ma quei giorni se n'erano andati. Re Ferdinando si sentì oltraggiato, nel sentir parlare della lettera. Scrisse a Sisto, insinuando che l'oro dei conversos avesse corrotto anche Roma:

Mi sono state riferite cose, Santo Padre, che, se vere, sembrerebbe meritare il più grande stupore. [...]. A queste dicerie, comunque, noi non abbiamo dato credito, sembrando cose che in nessun modo possano provenire da Sua Santità, che ha il dovere dell'Inquisizione. Ma se, per caso, alcune concessioni sono state fatte, grazie alla tenace ed astuta persuasione dei conversos, io non intendo in alcun modo permetter loro di avere effetto. Faccia perciò attenzione a che la questione non proceda oltre, revochi eventuali concessioni e ci affidi interamente la cura di questo problema.

Fu la fine del ruolo del Papato nell'Inquisizione spagnola, che sarebbe stata d'ora innanzi un braccio della monarchia spagnola, indipendente dall'autorità ecclesiastica. È strano, quindi, che l'Inquisizione spagnola venga oggi così spesso descritta come uno dei grandi peccati della Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica, in quanto istituzione, non ebbe pressoché niente a che farci.

Nel 1483 Ferdinando nominò Tomás de Torquemada inquisitore generale sulla maggior parte della Spagna. Era compito di Torquemada stabilire le regole dell'evidenza, nella procedura per l'Inquisizione, unificando la prassi con diramazioni nelle città principali. Sisto confermò la nomina, sperando che avrebbe riportato all'ordine la situazione.

Sfortunatamente il problema precipitò. Il che era una conseguenza diretta dei metodi adottati dalla prima Inquisizione spagnola, che aveva deviato significativamente dagli standard imposti dalla Chiesa. Quando gli inquisitori arrivavano in una zona, annunciavano l'Editto di Grazia, un periodo di 30 giorni durante il quale gli ebrei segreti potevano farsi avanti, confessare il loro peccato e fare penitenza. Era anche un periodo utile per acquisire informazioni sui cristiani che praticavano il giudaismo in segreto. Quelli trovati colpevoli, allo scadere dei 30 giorni, potevano essere bruciati sul rogo.

Per i conversos, sicché, l'arrivo dell'Inquisizione segnò un tracollo psichico. Quasi tutti avevano molti nemici, ciascuno dei quali difficilmente avrebbe esitato a testimoniare il falso. O forse le loro pratiche cultuali e culturali erano sufficienti per la condanna? Chissà? La maggior parte di loro o fuggì o finì per confessare. Quelli che lo fecero non rischiarono un'Inquisizione in cui era accettabile, a mo' di prova, ogni sorta di diceria.

L'opposizione all'Inquisizione spagnola, nella gerarchia della Chiesa cattolica, continuava ad aumentare. Molti ecclesiastici si indignarono nel segnalare come fosse contrario a tutte le prassi ormai consolidate il bruciare un eretico senza fornirgli le istruzioni basilari della fede. Se i conversos erano colpevoli, ciò era dovuto solo ad ignoranza, non ad eresia recidiva. Numerosi esponenti del clero, anche dei livelli più alti, si lamentarono con Ferdinando. L'opposizione all'Inquisizione spagnola crebbe anche a Roma. Il successore di Sisto, Innocenzo VIII, scrisse due volte al re per invocare la più grande compassione, misericordia e clemenza per i conversos. Invano.

Nel vortice crescente dell'Inquisizione spagnola, a questo punto, prese piede una nuova sindrome, quella per cui gli ebrei di Spagna stavano attivamente operando per ricondurre i conversos nella loro vecchia fede. Era un'idea sciocca, non più vera delle precedenti teorie di cospirazione. Ma Ferdinando ed Isabella ne furono influenzati. Entrambi i monarchi avevano amici e confidenti ebrei, ma pensarono loro dovere, nei confronti dei cristiani, rimuovere il pericolo. A partire dal 1482, espulsero gli ebrei dalle aree in cui la loro influenza sembrava maggiore. Nella decade successiva la pressione per rimuovere tale minaccia aumentò ancora. L'Inquisizione spagnola, fu argomentato, non sarebbe mai riuscita a ricondurre i conversos nell'ovile, mentre gli ebrei sabotavano il suo lavoro. Il 31 marzo 1492, finalmente, i monarchi pubblicarono un editto che espelleva tutti gli ebrei dalla Spagna.

Ferdinando ed Isabella si aspettavano - e non avevano torto - che il loro editto avrebbe spinto alla conversione la maggior parte degli ebrei rimasti nel regno. Infatti molti ebrei dei ceti più abbienti, inclusi quelli introdotti nella corte reale, accettarono immediatamente il battesimo. Nel 1492 la popolazione ebrea di Spagna contava approssimativamente 80.000 unità. Una buona metà fu battezzata, col che mantenne la proprietà ed il relativo sostentamento. Il resto partì, sebbene molti facessero poi ritorno in Spagna, dove ricevettero il battesimo e riottennero la loro proprietà. Per quanto si voglia risalire lungo la storia dell'Inquisizione spagnola, l'espulsione degli ebrei dimostra che il problema era rappresentato solo dai conversos.

I primi 15 anni dell'Inquisizione spagnola, sotto la direzione di Torquemada, furono i più mortali. Circa 2.000 conversos furono dati alle fiamme. Dal 1500, tuttavia, l'isterismo prese a calare. Il successore di Torquemada, il cardinale arcivescovo di Toledo Francisco Jiménez de Cisneros, si prodigò per riformare l'Inquisizione, rimuovendo le mele marce e aggiustando le procedure. Ad ogni tribunale fu assegnata una équipe formata da due inquisitori domenicani, un consulente legale, un conestabile, un accusatore ed un gran numero di assistenti. Con l'eccezione dei due domenicani, tutti erano laici ufficiali reali. L'Inquisizione spagnola consistette fondamentalmente nelle confische, ma si trattò di confische né frequenti né ingenti. Anche al suo culmine, cercava soprattutto di non strafare, di quadrare i conti.

Dopo le riforme, l'Inquisizione spagnola subì pochissime critiche. Fornita di personale legale esperto e colto, era uno dei corpi giudiziari più efficienti e più compassionevoli d'Europa. Nessuna corte europea di rilievo giustiziò meno persone dell'Inquisizione spagnola. Erano tempi, dopo tutto, in cui danneggiare arbusti in un giardino pubblico, a Londra, comportava la pena di morte. Lungo tutta l'Europa le esecuzioni erano eventi di ogni giorno. Non fu così con l'Inquisizione spagnola. Nei suoi 350 anni di vita non più di 4.000 persone furono messe al palo. Si paragoni ciò con le cacce alle streghe che infuriarono in tutto il resto d'Europa cattolico e protestante, nelle quali furono arrostite 60.000 persone, per lo più donne. La Spagna fu risparmiata da questo isterismo perché l'Inquisizione spagnola lo fermò al confine. Quando le prime accuse di stregoneria cominciarono a levarsi, nella Spagna settentrionale, l'Inquisizione spedì i suoi ispettori per controllare. Questi esperti legali non trovarono alcuna evidenza credibile per il sabba infernale, la magia nera o il sacrificio umano. Fu altresì riportato che i rei confessi di stregoneria mostravano una singolare incapacità di volare attraverso il buco della serratura. Mentre gli europei si dedicavano al lancio delle donne sui falò, l'Inquisizione spagnola sbarrò la porta a questa alienazione mentale (per inciso, neppure l'Inquisizione romana permise alla fobìa delle streghe di infettare l'Italia).

E le oscure prigioni sotterranee? E le camere di tortura? L'Inquisizione spagnola possedeva prigioni, naturalmente. Ma non erano né particolarmente oscure, né sotterranee. In realtà, dato lo standard delle prigioni dell'epoca, erano considerate addirittura le migliori d'Europa. Si può citare l'esempio dei criminali, nella stessa Spagna, che bestemmiavano a bella posta per poter essere trasferiti nelle prigioni dell'Inquisizione. Circa l'altro argomento, come tutte le corti d'Europa, anche l'Inquisizione spagnola si servì della tortura. Ma lo faceva molto meno spesso delle altre corti. I ricercatori moderni hanno scoperto che l'Inquisizione spagnola applicò la tortura nel solo due per cento dei suoi casi. Che ogni sessione di tortura fu limitata ad un massimo di 15 minuti. Che solo nell'un per cento dei casi la tortura fu ripetuta due volte e mai per una terza volta.

La conclusione inequivocabile è che, visti i tempi, l'Inquisizione spagnola va vista sotto una nuova luce. E tale era la luce sotto cui era vista dai più degli europei, fino al 1530. Fu da allora in poi che l'Inquisizione spagnola volse la sua attenzione dai conversos alla nuova Riforma protestante. La gente di Spagna e i suoi monarchi si impegnarono a che il Protestantesimo non si infiltrasse nel loro paese, come aveva fatto in Germania e in Francia. I metodi dell'Inquisizione non cambiarono. Esecuzioni e torture rimasero rare. Ma il suo nuovo obiettivo avrebbe cambiato la sua immagine per sempre.

Nella metà del secolo sedicesimo, la Spagna era il più ricco e il più potente stato d'Europa. Re Filippo II considerò se stesso ed i suoi contadini difensori fedeli della Chiesa cattolica. Meno ricche e meno potenti erano le aree protestanti dell'Europa, compresi i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e l'Inghilterra. Ma avevano un'arma nuova e potente: la pressa tipografica. Anche se i protestanti fossero stati sconfitti dagli spagnoli sul campo di battaglia, avrebbero vinto la guerra di propaganda. Furono quelli gli anni in cui venne forgiata la famosa "Leggenda Nera" della Spagna. Innumerevoli libri, opuscoli e pamphlet si riversarono dalle stamperie settentrionali accusando l'Impero spagnolo di inumane depravazioni e di orribili atrocità nel Mondo Nuovo. L'opulenta Spagna fu dipinta come un luogo di oscurità, ignoranza e perversione. Per quanto gli studiosi moderni abbiano già da tempo ripudiato la Leggenda Nera, ancora ne rimane moltissimo, oggi. Basta fare un rapido test: "pensa ad un buon conquistador".

La propaganda protestante contro l'Inquisizione spagnola ha attinto a piene mani dalla Leggenda Nera. Ma disponeva anche di altre fonti. All'inizio della Riforma, i protestanti avevano non poche difficoltà nello spiegare i motivi della frattura tra l'istituzione di Cristo della Sua Chiesa e la fondazione delle chiese protestanti. I cattolici naturalmente insistevano su questo tasto, accusando i protestanti di avere creato una chiesa nuova, separata da quella di Cristo. I protestanti ribattevano col dire che era la loro chiesa quella creata da Cristo, e che era stata la Chiesa cattolica a costringerla nei sotterranei delle 'catacombe'. Dimodoché, come l'Impero romano aveva perseguitato i cristiani prima del Medio Evo, così il suo successore, la Chiesa Cattolica Romana, continuava a perseguitarli durante il Medio Evo. Non essendo purtroppo reperibili esemplari di protestanti, nel Medio Evo, gli autori protestanti li scovarono sotto le mentite spoglie di vari eretici medievali (che, tutto sommato, vivevano nelle 'catacombe' della latitanza). Vista così, l'Inquisizione medievale non era che un tentativo di schiacciare la nascosta, vera chiesa. E l'Inquisizione spagnola, ancora attiva ed estremamente efficiente nel tenere i protestanti alla larga dalla Spagna, non era che l'ultima versione di questa persecuzione. Si mescoli il tutto, a volontà, con la Leggenda Nera, e si ottiene ciò di cui si ha bisogno per confezionare l'orrendo ritratto dell'Inquisizione spagnola. È quanto fu fatto.

Gli spagnoli amavano la loro Inquisizione. Ecco perché durò così a lungo. Era una sentinella eretta a guardia contro l'errore e l'eresia, a tutela della fede della Spagna e a garanzia del favore di Dio. Ma il mondo stava cambiando. Il potere della Spagna si affievoliva. La ricchezza ed il potere si trasferivano nel nord, in particolare in Francia e in Inghilterra. Nel tardo 17° secolo, le idee nuove sulla tolleranza religiosa cominciavano a lievitare nelle bolle iridescenti dei caffè e dei salotti europei. L'Inquisizione, cattolica e protestante, appassiva. Gli spagnoli caparbiamente insistevano, con la loro, e perciò venivano ridicolizzati. I philosophes francesi alla Voltaire vedevano nella Spagna il prototipo del Medio Evo: debole, barbaro, superstizioso. L'Inquisizione spagnola, ormai catalogata come una belva assetata del sangue della persecuzione religiosa, era derisa dai pensatori illuministi come arma brutale dell'intolleranza e dell'ignoranza. Un'Inquisizione spagnola inedita, fittizia, virtuale, fu quella romanzata dai nemici della Spagna e della Chiesa cattolica.

Essendo professionale ed efficiente, l'Inquisizione spagnola stilava resoconti molto ben curati. Archivi enormi ne sono stipati. Questi documenti erano tenuti segreti, sicché non c'era motivo, per gli scrivani, di omettere qualcosa, nella registrazione accurata di ogni azione inquisitoria. Rappresentano una miniera d'oro, per gli storici moderni, che vi si sono immersi avidamente. Il frutto di tali ricerche è l'aver fatto piazza pulita: il mito dell'Inquisizione spagnola non ha assolutamente nulla a che vedere con la realtà.

 

Thomas F. Madden è professore associato e preside della cattedra di Storia della Saint Louis University. È autore di numerosi lavori, tra i quali "Storia concisa delle Crociate" (Rowman & Littlefield, 1999) e "Enrico Dandolo e l'ascesa di Venezia" (John Hopkins University Press, 2003).

Copyright Crisis Magazine © 2001 Washington DC, USA 1 ottobre 2003

 


I     sistemi    di     tortura   della   Chiesa
(da www.eretico.com)

 

"Io voglio scrivere su tutti i muri ovunque siano muri [...] Io chiamo il cristianesimo unica grande maledizione, unica grande intima perversione, unico grande istinto di vendetta [...] Io lo chiamo unico imperituro marchio d'abbominio dell'umanità...".
FONTE: F.W. Nietzsche, L'Anticristo, TEN, 2a ediz., 1992, pag. 92-93.



Ecco alcuni strumenti e sistemi di tortura che la Chiesa ha utilizzato per commettere i suoi efferati "crimini contro l'umanità" durante la Santa Inquisizione. Crimini rimasti impuniti!

Il Topo
Tortura applicata a streghe ed eretici. Un topo vivo veniva inserito nella vagina o nell'ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l'apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d'uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati. Chissà come i disgraziati riuscissero a sopportare il terrore provocato alla sola vista del topo che da li a poco sarebbe entrato nel suo corpo.

Dissanguamento
Era una credenza comune che il potere di una strega potesse essere annullato dal dissanguamento o dalla purificazione tramite fuoco del suo sangue. Le streghe condannate erano "segnate sopra il soffio" (sfregiate sopra il naso e la bocca) e lasciate a dissanguare fino alla morte.

Il Rogo
Una delle forme più antiche di punizione delle streghe era la morte per mezzo di roghi, un destino riservato anche agli eretici. Il rogo spesso era una grande manifestazione pubblica. L'esecuzione avveniva solitamente dopo breve tempo dall'emissione della sentenza. In Scozia, il rogo di una strega era preceduto da giorni di digiuno e di solenni prediche. La strega prima veniva strangolata e poi il suo corpo (In stato di semi-incoscienza) era scaricato in un barile di catrame prima di venire legato a un palo e messo a fuoco. Se la strega, nonostante tutto, riusciva a liberarsi e a tirarsi fuori dalle fiamme, la gente la respingeva dentro.

Le Turcas
Questo mezzo era usato per lacerare e strappare le unghie. Dopo lo strappo, degli aghi venivano solitamente inseriti nelle estremità delle falangi.

 

 

La Fanciulla di Ferro o Vergine di Norimberga
L'idea di meccanizzare la tortura è nata in Germania; è li che ha avuto origine "la Vergine di Norimberga". Fu così battezzata perchè, vista dall'esterno, le sue sembianze erano quelle di una ragazza bavarese, e inoltre perchè il suo prototipo venne costruito ed impiantato nei sotterranei del tribunale segreto di quella città. Era una specie di contenitore di metallo con porte pieghevoli; il condannato veniva rinchiuso all'interno, dove affilatissimi aculei trafiggevano il corpo dello sventurato in tutta la sua lunghezza. La disposizione di questi ultimi era così ben congegnata che, pur penetrando in varie parti del corpo, non trafiggevano organi vitali, quindi la vittima era destinata ad una lunga ed atroce agonia.

Pulizia Dell'Anima
Era spesso creduto, nei paesi cattolici, che l'anima di una strega o di un eretico fosse corrotta, sporca e covo di quanto di contrario ci fosse al mondo. Per pulirla prima del giudizio, qualche volta le vittime erano forzate a ingerire acqua calda, carbone, perfino sapone. La famosa frase "sciacquare la bocca con il sapone"' che si usa oggi, risale proprio a questa tortura.

Il Triangolo
Altro terribile strumento di tortura analogo alla "pera" e all'"impalamento". L'accusato veniva spogliato e issato su un palo alla cui estremità era fissato un grosso oggetto piramidale di ferro. La presunta strega veniva fatta sedere in modo che la punta entrasse nel retto o nella vagina. Alla fine alla poveretta venivano fissati dei pesi alle mani e ai piedi...

Immersione Dello Sgabello
Questa era una punizione che più spesso era usata nei confronti delle donne. Volgarmente sgradevole, e spesso fatale, la donna veniva legata a un sedile che impediva ogni movimento delle braccia. Questo sedile veniva poi immerso in uno stagno o in un luogo paludoso. Varie donne anziane che subirono questa tortura morirono per lo shock provocato dall'acqua gelida.

 

Impalamento
Questo strumento, riservato per lo più ai sospetti di stregoneria o agli eretici, era realizzato in tre diverse versioni. La prima consisteva in un blocco di legno a forma di piramide, mentre la seconda, meno letale, aveva l'aspetto di un cavalletto a costa tagliente.
In ambedue i casi, l'indiziata veniva posta a cavalcioni di tale strumento sino a far penetrare la punta, nel primo caso, o lo spigolo nel secondo, direttamente nelle carni, squassando in modo spesso permanente, gli organi genitali. Quasi sempre poi venivano aggiunti dei pesi alle caviglie e sistemati scrupolosamente dei braceri o delle fiaccole accese sotto ai piedi. La terza versione è una delle più rivoltanti e vergognose torture concepite dalla mente umana. Veniva attuata per mezzo di un palo aguzzo inserito nel retto della presunta strega, forzato a passare lungo il corpo per fuoriuscire dalla testa o dalla gola. Il palo era poi invertito e piantato nel terreno, così, queste miserabili vittime, quando non avevano la fortuna di morire subito, soffrivano per alcuni giorni prima di spirare. Tutto ciò veniva fatto ed esposto pubblicamente.


La Strappata
Una delle più comuni e anche una delle tecniche più facili. L'accusato veniva legato a una fune e issato su una sorta di carrucola. L'esecutore faceva il resto tirando e lasciando di colpo la corda e slogando, così, le articolazioni.

Lo Squassamento
Era una forma di tortura usata insieme alla 'strappata'. L'accusato qui veniva sempre issato sulla carrucola, ma con dei pesi legati al suo corpo che andavano dai 25 ai 250 chili. Le conseguenze erano gravissime.

La Culla Della Strega
Questa era una tortura a cui venivano sottoposte solamente le streghe. La strega veniva chiusa in un sacco poi legato a un ramo e veniva fatta continuamente oscillare. Apparentemente non sembra una tortura ma il dondolìo causava profondo disorientamento e aiutava a indurre a confessare. Vari soggetti hanno anche sofferto durante questa tortura di profonde allucinazioni. Ciò sicuramente ha contribuito a colorire le loro confessioni.

 

Mastectomia
Alcune torture erano elaborate non solo per infliggere dolore fisico ma anche per sconvolgere la mente delle vittime. La mastectomia era una di queste: la carne delle donne era lacerata per mezzo di tenaglie, a volte arroventate. Uno dei più famosi casi che si conosca in cui fu usata questa tortura era quello di Anna Pappenheimer. Dopo essere già stata torturata con lo strappado, fu spogliata, i suoi seni furono strappati e, davanti ai suoi occhi, furono spinti a forza nelle bocche dei suoi figli adulti... Questa vergogna era più di una tortura fisica; l'esecuzione faceva una parodia sul ruolo di madre e nutrice della donna, imponendole un'estrema umiliazione.

Annodamento
Questa era una tortura specifica per le donne. Si attorcigliavano strettamente i capelli delle streghe a un bastone. Quando l'inquisitore non riusciva ad ottenere una testimonianza si serviva di questa tortura; robusti uomini ruotavano l'attrezzo in modo veloce provocando un enorme dolore e in alcuni casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto.

La Garrotta
Non è altro che un palo con un anello in ferro collegato. Alla vittima, seduta o in piedi, veniva fissato questo collare che veniva stretto poi per mezzo di viti o di una fune. Spesso si rompevano le ossa della colonna vertebrale.

Il Forno
Questa barbara sentenza era eseguita in Nord Europa e assomiglia ai forni crematori dei nazisti. La differenza era che nei campi di concentramento le vittime erano uccise prima di essere cremate (Ma non sempre).

 

Il Supplizio Del Trono
Questo attrezzo consisteva in una specie di seggiola gogna, sarcasticamente definita "trono". L'imputata veniva posta in posizione capovolta, con i piedi bloccati nei ceppi di legno. Era questa una delle torture preferite da quei giudici che intendevano attenersi alla legge. Difatti la legislazione che regolamentava l'uso della tortura, prevedeva che si potesse effettuare una sola seduta, durante l'interrogatorio della sospetta. Malgrado ciò, la maggioranza degli inquisitori ovviava a questa normativa, definendo le successive applicazioni di tortura, come semplici continuazioni della prima. L'uso di questo strumento invece, permetteva di dichiarare una sola effettiva seduta, sorvolando sul fatto che questa fosse magari durata dieci giorni. Il "trono", non lasciando segni permanenti sul corpo della vittima, si prestava particolarmente ad un uso prolungato. E' da notare che, talvolta, unicamente a questo supplizio, venivano effettuate, sulla presunta strega, anche le torture dell'acqua o dei ferri roventi.


La Pressa
Anche conosciuta come pena forte et dura, era una sentenza di morte. Adottata come misura giudiziaria durante il quattordicesimo secolo, raggiunse il suo apice durante il regno di Enrico IV. In Bretagna venne abolita nel 1772.

La Cremagliera
Era un modo semplice e popolare per estorcere confessioni. La vittima veniva legata su una tavola, caviglie e polsi. Rulli erano passati sopra la tavola (E in modo preciso sul corpo) fino a slogare tutte le articolazioni.

La Pera
La Pera era un terribile strumento che veniva impiegato il più delle volte per via orale. La pera era usata anche nel retto e nella vagina. Questo strumento era aperto con un giro di vite da un minimo, a un massimo dei suoi segmenti. L'interno della cavità in questione era orrendamente mutilato e spesso mortalmente. I rebbi costruiti alla fine dei segmenti servivano meglio per strappare e lacerare la gola o gli intestini. Quando applicato alla vagina i chiodi dilaniavano la cervice della povera donna. Questa era una pena riservata a quelle donne che intrattenevano rapporti sessuali col Maligno o i suoi familiari.

Sedia Delle Streghe
La sedia inquisitoria, comunemente detta sedia delle streghe, era un rimedio molto apprezzato per l'ostinato silenzio di talune indiziate di stregoneria. Tale attrezzo, pur universalmente diffuso, fu particolarmente sfruttato dagli inquisitori austriaci. La sedia era di varie dimensioni, diverse forge e fantasiose varianti; tutte comunque chiodate, fornite di manette o blocchi per immobilizzare la vittima ed, in svariati casi, aveva il pianale di seduta in ferro, così da poterlo arroventare. Vengono riportate notizie di processi dai quale risulta come l'uso di questo strumento potesse venir prolungato, sino a trasformarsi in vera e propria pena capitale.

La Ruota
In Francia e Germania la ruota era popolare come pena capitale. Era simile alla crocifissione. Alle presunte streghe ed eretici venivano spezzati gli arti e il corpo veniva sistemato tra i raggi della ruota che veniva poi fissata su un palo. L'agonia era lunghissima e poteva anche durare dei giorni.

Tormentum Insominae
Consisteva nel privare le streghe del sonno. La vittima, legata, era costretta a immersioni nei fossati anche durante tutta la notte per evitare che si addormentasse.

Ordalia Del Fuoco
Prima di iniziare l'ordalìa del fuoco tutte le persone coinvolte dovevano prendere parte a un rito religioso. Questo rito durava tre giorni e gli accusati dovevano sopportare benedizioni, esorcismi, preghiere, digiuni e dovevano prendere i sacramenti. Dopodiché si veniva sottoposti all'ordalìa: gli accusati dovevano trasportare un pezzo di ferro rovente per una certa distanza. Il peso di questo peso era variabile: si andava da un minimo di circa mezzo chilo per reati minori, fino a un chilo e mezzo. Un altro tipo di ordalìa del fuoco consisteva nel camminare bendati e nudi sopra i carboni ardenti. Le ferite venivano coperte e dopo tre giorni una giuria controllava se l'accusato era colpevole o innocente. Se le ferite non erano rimarginate l'accusato era colpevole, altrimenti era considerato innocente. Si poteva aver salva la vita, però, corrompendo i clerici che dovevano officiare la prova: si poteva fare in modo che ferro e carboni avessero una temperatura sufficientemente tollerabile.

Ordalia Dell'Acqua
In questo tipo di ordalìa l'acqua simboleggia il diluvio dell'Antico Testamento. Come il diluvio spazzò via i peccati anche l'acqua 'pulirà' la strega. Dopo tre giorni di penitenze l'accusata doveva immergere le mani in acqua bollente, alla profondità dei polsi. Spesso erano costrette a immergerle fino ai gomiti. Si aspettava poi tre giorni per valutare le colpe dell'accusata (Come per l'ordalìa del fuoco). Veniva messa in pratica anche un'ordalìa dell'acqua fredda. Alla strega venivano legate le mani con i piedi con una fune, in modo tale che la posizione non fosse certo propizia per rimanere a galla. Dopodiché veniva immersa in acqua; se galleggiava era sicuramente una strega in quanto l'acqua 'rifiutava' una creatura demoniaca, se andava a fondo era innocente ma difficilmente sarebbe stata salvata in tempo.

 

 


La Santa Inquisizione

 

L'Inquisizione, dichiarata Santa da Santa Romana Chiesa come lo sono state le Crociate, anche se nei fatti esisteva già dagli inizi dell'anno 1000, fu ufficialmente riconosciuta e legittimata sotto Papa Gregorio IX nel 1215 allorché la sua gestione fu affidata all'ordine dei domenicani fondato da Domenico da Guzman (anche lui santo) il quale perseguitò gli eretici con un cinismo tale da essere ricordato dalla storia come uno dei più sanguinari carnefici di tutti i tempi.

Qualche cenno esplicativo:

Eretico era considerato chi con scritti o con parole si opponeva alle norme dettate dalla Chiesa.
Abiura: L'abiura era la ritrattazione delle proprie convinzioni, quasi sempre estorta sotto tortura, che un eretico scriveva in forma solenne davanti al consiglio dell'inquisizione. Le abiure a cui era sottoposto un eretico erano sempre due perché alla prima ne doveva seguire per legge una seconda di conferma. Normalmente il tempo che intercorreva tra le due era di un anno.
L'eretico che rifiutava di firmare la seconda abiura, considerato "relapso", cioè eretico irriducibile, veniva bruciato vivo.
Gli argomenti che maggiormente determinarono le eresie furono la Santissima Trinità, la verginità della Madonna e la sua attribuzione di madre di Gesù che fu fortemente contestata da quei credenti che seguitavano a sostenere ciò che era stato affermato nei primi secoli della Chiesa da una gran parte dei teologi i quali ritenevano impossibile che Dio avesse concesso un tale privilegio ad una donna allorché le donne venivano considerate così immonde da essere ritenute prive di anima.
L'altro motivo che determinò gli eretici furono le contestazioni rivolte alla Chiesa per la sua lussuria e la sua ingordigia.

Tra le innumerevoli vittime della Chiesa nel periodo precedente all'avvento dell'Inquisizione istituita da Innocenzo III, rimaste purtroppo nella maggior parte anonime per via di mancanza di documenti, giganteggia la figura di Arnaldo da Brescia bruciato vivo nel 1155 sotto il pontificato di Adriano IV per aver denunciato l'immoralità della Chiesa.

 

I papi che seguirono Adriano IV (1154-1159), promettendo ai persecutori degli eretici le stesse indulgenze riservate ai crociati, spinsero i cattolici ad eseguire delle vere e proprie stragi come quelle volute da Innocenzo III che si servì delle milizie di Simone de Monfort per distruggere città intere, come Carcassonne, Tolosa e Beziers, perché gli abitanti si erano rifiutati di consegnare i seguaci di Valdo (Valdesi). Soltanto a Beziers furono massacrati oltre 7.000 dei suoi abitanti. Le milizie cattoliche entrarono in queste città e senza curarsi di selezionare gli eretici dai non eretici, eseguirono le carneficine al grido: <<Uccideteli tutti perché Dio saprà poi riconoscere i suoi!>>.
Da ricordare che Innocenzo III nell'ultimo anno del suo pontificato fece votare dal Concilio Lateranense IV una legge che obbligava gli ebrei a vestire di giallo perché fossero sottoposti al pubblico ludibrio... e ci si chiede ancora da dove originino i campi di stermino nazisti!
Sotto il Papa Innocenzo IV, successore di Innocenzo III, le leggi inquisitorie furono confermate e aggravate. Chiunque fosse stato dichiarato eretico veniva automaticamente imprigionato e condannato a morte con la confisca dei beni se non avesse abiurato. Come conseguenza di questa legge, che considerava la confisca del beni, molti furono i figli che furono potati all'infamia di accusare i propri genitori di eresia pur di salvare le proprietà di cui erano eredi.
Delle centinaia di processi terminanti con condanne a morte, l'unico che ci è pervenuto è quello contro Paolo Gioacchino dei Rusconi che fu torturato e bruciato vivo quale relapso.

I nomi dei martiri riportati qui di seguito nei vari pontificati che si susseguirono, essendo tratti dai pochi documenti rimasti, non sono che una minima parte di quanti furono in realtà uccisi da Santa Madre Chiesa. Nell'elenco ci sono anche tre martiri uccisi per aver celebrato la messa da spretati (si trovano sottolineati nei pontificati di Paolo VI - Urbano VIII - Clemente XIII).

 

 

 

 

 

— Papa Clemente V

Fra Dolcino, per nulla intimorito dalle minacce dell'Inquisizione, si scaglia contro Clemente V accusandolo di immoralità. Ridotto a brandelli il suo corpo viene bruciato al rogo. 13 marzo 1307
Suor Margherita e Frate Longino insieme ad oltre mille seguaci dell'eretico Dolcino, bruciati al rogo. 1307.
Soppressione dei Templari con stragi di massa con "torture inimmaginabili" perché accusati di eresia. Molay, Gran Maestro, fu arso vivo a Parigi dopo anni di atroci torture.

 

 

— Papa Benedetto XII (beatificato)

Francesco da Pistoia, Lorenzo Gherardi, Bartolomeo Greco, Bartolomeo da Bucciano, Antonio Bevilacqua e altri dieci frati Francescani, arsi vivi per predicare la povertà di Cristo - Venezia 1337.
Stessa sorte a Parma per Donna Oliva anch'essa perché seguace di S. Francesco.

— Papa Clemente VI

Migliaia di vittime dell'inquisizione delle quali ci sono pervenuti soltanto i processi di:
Francesco Stabili, detto Cecco d'Ascoli, il quale fu arso vivo per aver detto, a proposito delle tentazione di Gesù, che non è possibile vedere tutta la terra da una montagna per quanto alta fosse stata come veniva affermato da vangelo.

 

Pietro d'Albano, medico, bruciato vivo perché accusato di stregoneria.
Domenico Savi condannato al rogo come eretico per aver eretto un ospedale senza la benedizione della Chiesa.

 

 

— Innocenzo VI

Tra le numerose vittime di Santa Madre Chiesa da ricordare i frati Pietro da Novara, Bernardo da Sicilia, Fra Tommaso vescovo d'Aquino e Francesco Marchesino vescovo di Trivento accusati di appartenere ai fraticelli di S.Francesco. Torturati e bruciati vivi.



 

— Gregorio XI

Intere città furono teatro di stragi perché avevano ospitato gli eretici. Nelle piazze di Firenze, Venezia, Roma e Ferrara fu un continuo accendersi di roghi.
Belramo Agosti, umile calzolaio, torturato e bruciato vivo per aver bestemmiato durane una partita a carte: 5 giugno 1382.
Menelao Santori perché conviveva con due donne: 10 ottobre 1387.
Lorenzo di Bologna costretto sotto tortura a confessare di aver rubato una pisside. Reso moribondo dalle torture, fu accompagnato al rogo a colpi frusta. 1 novembre 1388.
La descrizione dei moltissimi decapitati, impiccati e squartati dall'Inquisizione sotto Gregorio XI è riportata in un libri scritto da Mastro Titta.

— Gregorio XII

Dopo il periodo di tregua passato sotto Urbano VI, con Gregorio XII riprendono le stragi e i roghi in una maniera estremamente spietata. La città che fu particolarmente colpita fu Pisa. Un certo giovane di nome Andreani fu torturato e bruciato vivo insieme alla moglie e alla figlia perché aveva osato deridere i Padri Conciliari. I cardinali appartenenti al concilio assistettero in massa alle esecuzioni per il piacere di veder morire insieme alla sua famiglia colui che essi "avevano condannato per solo sentimento di vendetta". 1413.
Jean Hus e Gerolamo da Praga macellati e bruciati vivi per aver detto che la morale del vangelo proibisce ai religiosi di possedere beni materiali. 1414.

— Papa Eugenio IV

Giovanna d'Arco, bruciata viva accusata di stregoneria (1431).
Merenda e Matteo, due popolani, bruciati vivi dall'Inquisizione per rendere un favore alle famiglie dei Colonna e dei Savelli delle quali avevano parlato male.

 

Ripetute stragi in Boemia contro gli Hussidi (seguaci di Jean Hus), per le rimostranze fatte in seguito alla uccisione del loro maestro. Una delle stragi fu eseguita facendo entrare gli Ussidi in un fienile al quale dettero fuoco dopo aver chiuso le porte. Il fatto fu così commentato da uno scrittore cattolico: <<Appena entrati, si chiusero le porte e si appiccò il fuoco; e in tal modo quella feccia, quel rifiuto della razza umana, dopo aver commesso tanti delitti, pagò finalmente tra le fiamme la pena del suo disprezzo per la religione>>.

Ma il peggio verrà allorché la Chiesa dovrà difendersi dall'avvento del Rinascimento.

— Papa Sisto IV(Per conoscere l'immoralità di questi papi consultare: Le Léman Hérétique , scritto in inglese, francese, italiano).

In Spagna eccelse per la sua crudeltà il domenicano Tommaso Torquemada il quale, confiscando i beni degli accusati di eresia e di stregoneria, era arrivato ad accumulare tante ricchezze da essere temuto dallo stesso Papa che lo obbligò a versargli la metà del bottino. Quando costui arrivava in un paese come inquisitore, la popolazione fuggiva in massa lasciando tutto nelle sue mani.
Nell'impossibilità di elencare tutte le vittime di Torquemada mi limiterò a dire che in

 

18 anni della sua inquisizione ci furono:
800.000 ebrei allontanati dalla Spagna, con confisca dei beni, sotto pena di morte se fossero restati.
10.200 bruciati vivi.
6.860 cadaveri riesumati per essere bruciati al rogo in seguito a processi (terminati tutti con la confisca dei beni) celebrati "post mortem" (dopo la morte).
97.000 condannati alla prigione perpetua con confisca delle proprietà.
E intanto che Torquemada faceva il macellaio in Spagna, a Roma l'inquisizione accendeva roghi in tutte le sue piazze per bruciare gli eretici i cui patrimoni venivano automaticamente requisiti per conto del Papa dalla confraternita di San Giovanni Decollato.

— Papa Alessandro VI

Gerolamo Savanarola bruciato vivo in Piazza della Signoria a Firenze. 23 maggio 1498 insieme ai suoi due suoi discepoli Domenico da Pescia e Sivestro da Firenze.
Tre ebrei arsi vivi in campo dei Fiori a Roma. 13 gennaio 1498
Gentile Cimeli, accusata di stregoneria arsa viva a campo dei Fiori 14 luglio 1498
Marcello da Fiorentino arso vivo in piazza S. Pietro. 29 luglio 1498.

— Giulio II

4 donne giustiziate per stregoneria a Cavalese (Trento). 1505.
Diego Portoghese impiccato per eresia. 14 ottobre 1606.
30 persone bruciate vive a Logrono (Spagna) per stregoneria.
Fra Agostino Grimaldi giustiziato per eresia. 6 agosto. 1507
15 cittadini romani massacrati dalle guardie svizzere per eresia.1513.
Orazio e Giacomo di Riffredo, giustiziati per eresia. 30 aprile 1513.

 

 

— Leone X (Il Papa che ha dichiarato la non esistenza di Cristo)

30 donne accusate di stregoneria arse vive a Bormio. 1514.
Martino Jacopo giustiziato per eresia a Vercelli. 18 febbraio 1517.
80 donne bruciate vive in Valcamonica per stregoneria. 1518.
5 eretici arsi vivi a Brescia. 13 aprile 1519.
Baglione Paolo da Perugia decapitato per eresia alla Traspontina. 4 giugno 1520.
Fra Camillo Lomaccio, Fra Giulio Carino, Leonardo Cesalpini strangolati in carcere per eresia.
8 luglio 1520.

— Clemente VII

Anna Furabach, giustiziata per eresia. 9 maggio 1524.
Migliaia di protestanti Anabattisti decapitati, arsi vivi, annegati e torturati a morte. 1525.
Una donna accusata di stregoneria arsa viva in Campidoglio. 30 settembre 1525
Claudio Artoidi e Lerenza di Pietro giustiziati per eresia. 16 maggio 1526.
Rinaldo di Colonia giustiziato per eresia. 26 agosto 1528.
Lorenzo di Gabriele da Parma e Tiberio di Giannantonio torturati e giustiziati per eresia. 9 sett. 1528.
Berrnardino da Palestrina Burciato vivo per eresia. 20 novembre 1529.
Giovanni Milanese bruciato vivo per eresia. 23 novembre 1530.

— Paolo III (Un altro Papa ateo che ha affermato la non esistenza di Cristo. Gli altri lo sanno come lui ma non li dicono).

Uccisi tutti gli abitanti della città di Mérindol (Francia) per aver abbracciato la fede dei protestanti Evangelici. I loro beni furono confiscati e la città rimase deserta e inabitabile.1540.
Tutti gli Anabattisti della città di Munster (Germania) furono massacrati. Giovanni di Leida, loro capo, fu ucciso dopo essere stato sottoposto "a orrendo supplizio". 4 aprile 1535.
Martino Govinin giustiziato nelle carceri di Grenoble. 26 aprile 1536.
Francesco di Giovanni di Capocena ucciso per eresia. 1538.
Ene di Ambrogio giustiziato per eresia. 1539.
Galateo di Girolamo giustiziato nelle carceri dell'Inquisizione per eresia. 17 gennaio 1541.
Giandomenico dell'Aquila. Eretico, bruciato vivo. 4 febbraio 1542.
Federico d'Abbruzzo ucciso per eresia. Il suo corpo fu portato al supplizio trascinato da un cavallo. Quello che rimase del suo corpo fu appeso alla forca. 12 luglio 1542.
2.740 Valdesi furono massacrati dai cattolici in Provenza (Francia). Aprile 1545.
Girolamo Francese impiccato perchè luterano. 27 settembre 1546.
Baldassarre Altieri, dell'Ambasciat inglese, fatto sparire nelle carceri dell'Inquisizione. 1548
Federico Consalvo, eretico, giustiziato. 25 maggio 1549.
Annibale di Lattanzio giustiziato per eresia. 25 maggio 1549.

 

 

— Giulio III

Fanino Faenza impiccato e briciato per eresia. 18 febbraio 1550.
Domenico della Casa Bianca, luterano. Decapitato. 20 febbraio 1550.
Geronimo Geril Francese, Impiccato per eresiae poi squartato. 20 marzo 1550.
Giovanni Buzio e Giovanni Teodori, impiccati e bruciati per eresia. 4 settembre 1553.
Francesco Gamba, decapitato e briciato vivo per eresia. 21 lugio 1554.
Giovanni Moglio e Tisserando da Perugia, luterani. Impiccati e bruciati vivi. 5 settembre 1554.

— Paolo IV

 

 

Istituzione del Ghetto a Roma con restrizioni contro gli ebrei ancor più severe del ghetto di Venezia.
Cola Francesco di Salerno, giustiziato per eresia. 14 giugno 1555
Bartolomeo Hector, bruciato vivo per aver venduto due Bibbie. 20 giugno 1555.
Golla Elia e Paolo Rappi, protestanti, bruciati vivi a Torino. 22 giugno 1555.
Vernon Giovanni e Labori Antonio, evangelisti, bruciati vivi. 28 agosto 1555.
Stefano di Girolamo, giustiziato per eresia. 11 gennaio 1556.
Giulio Napolitano, bruciato vivo per eresia. 6 marzo 1556.
Ambrogio de Cavoli, impiccato e bruciato per eresia. 15 giugno 1556.
Don Pompeo dei Monti, bruciato vivo per eresia. 4 luglio 1556.
Pomponio Angerio, bruciato vivo per eresia. 19 agosto 1556.
Nicola Sartonio, luterano, bruciato vivo. 13 maggio 1557.
Jeronimo da Bergamo, Alessandra Fiorentina e Madonna Caterina, impiccati e bruciati per
omosessualità. 22 dicembre 1557.
Fra Gioffredo Varaglia, francescano, bruciato vivo per eresia. 25 marzo 1558.
Gisberto di Milanuccio, eretico, bruciato vivo. 15 giugno 1558.
Francesco Cartone, eretico, bruciato vivo. 3 agosto 1558.
14 protestanti bruciati vivi a Siviglia in Spagna. 1559.
15 protestanti bruciati vivi a Valadolid in Spagna. 1559.
Gabriello di Thomaien, bruciato vivo per omosessualità. 8 febbraio 1559.
Antonio di Colella arso vivo per eresia. 8 febbraio 1559.
Leonardo da Meola e Giovanni Antonio del Bò, impiccati e bruciati per eresia. 8 febbr.1559.
13 eretici più un tedesco di Augsburg accusato di omosessualità arsi vivi. 17 febbraio 1559.
Antonio Gesualdi, luterano, giustiziato per eresia. 16 marzo 1559.
Ferrante Bisantino, eretico, arso vivo.24 agosto 1559.
Scipione Retio, eretico, uccico nelle carceri della Santa Inquisizione. 1559.

— Papa Pio IV

I monaci dell'Abazia di Perosa (Pinerolo) si divertirono a briciare vivi a fuoco lento un prete evangelico insieme ai suoi fedeli. Dicembre 1559.
Carneficina di Valdesi in Calabria per opera di bande di delinquenti assoldate da Santa Madre Chiesa (uomini, donne, vecchi e bambini atrocemente torturati prime di essere uccisi su diretto ordine del Papa). Dicembre 1559.
"A Santo-Xisto, alla Guardia, a Montalto e a Sant'Agata si fecero cose inaudite: gente sgozzata, squartata, bruciata e orrendamente mutilata. Pezzi di resti umani furono appesi alle porte delle case come esempio alle genti. Quelli che fuggirono sulle montagne furono assediati fino a che morirono di fame. Molte donne e fanciulli furono ridotti in schiavitù". I559. (Da "La Santa Inquisizione di Maurizio Marchetti. Ed. La Fiaccola).
4000 valdesi massacrati su ordine di Santa Madre Chiesa. 1560.
Giulio Ghirlanda, Baudo Lupettino, Marcello Spinola, Nicola Bucello, Antonio Rietto, Francesco Sega, condannati a morte perchè sorpresi a svolgere una funzione religiosa in una casa privata officiante la messa uno spretato. 1560.
Giacomo Bonello, bruciato vivo perché evangelista. 18 febbraio 1560.
Mermetto Savoiardo, eretico, arso vivo. 13 agosto 1560.
Dionigi di Cola, eretico, bruciato vivo. 13 agosto 1560.
Aloisio Pascale, evangelista, impiccato e bruciato. 8 settembre 1560.
Gian Pascali di Cuneo, bruciato vivo per eresia. 15 settembre 1560.
Stefano Negrone, eretico, lasciato morire di fame nelle prigioni della Santa Inquisizione.
15 settembre 1560.
Stefano Morello, eretico, impiccato e bruciato. 25 settembre 1560.
Bernardino Conte, bruciato vivo per eresia. 1560.
300 persone a Oppenau, 63 donne a Wiesensteig e 54 a Obermachtal in Gemania, bruciate vive per stregoneria. 1562.
Macario, vescovo di Macedonia, eretico, bruciato vivo. 10 giugno 1562.
Cornelio di Olanda, eretico, impiccato e bruciato. 23 g3nnaio 1563.
Franceso Cipriotto, inpiccato ebruciato per eresia. 4 settembre 1564.
Giulio Cesare Vanini, panteista, bruciato vivo dopo avergli strappato la lingua.
Giulio di Grifone, eretico, giustiziato.

— Pio V(elevato dalla Chiesa agli onori degli altari).

Con bolla papale viene imposta a Roma la chiusura di tutte le sinagoghe.
Muzio della Torella, eretico, giustiziato. 1 marzo 1566.
Giulio Napolitano, eretico, bruciato vivo. 6 marzo 1566.
Don Pompeo dei Monti, decapitato per eresia. 3 luglio 1566.
Curzio di Cave, francescano, decapitato per eresia. 9 lugio 1566.
17.000 (diciassettemila) protestanti massacrati nelle Fiandre da cattolici spagnoli.
Giorgio Olivetto arso vivo perché luterano. 27 gennaio 1567.
Domenico Zocchi, ebreo, impiccato e bruciato a Piazza Giudia nel Ghetto di Roma. 1 febbraio 1567.
Girolamo Landi, impiccato e bruciato per eresia.. 25 febbraio 1567.
Pietro Carnesecchi, impiccato e bruciato per eresia. 30 settembre 1567.
Giulio Maresco, decapitato e arso per eresia. 30 settembre 1567.
Paolo e Matteo murato vivo per eresia. 30 sett.1567.
Ottaviano Fioravanti, murato vivo per eresia. 30 sett. 1567. .
Giovannino Guastavillani, eretico, murato vivo. 30 settembre 1567.
Geronimo del Puzo, murato vivo per eresia. 30 settembre 1567.
Gerolamo Donato con altri suoi confratelli dell'Ordine degli Umiliati, vengono giustiziati su ordine di Carlo Borromeo (santo), vescovo di Milano, dopo lunghe ore di torture, per eresia. 2 agosto 1570.
Macario Giulio da Cetona, decapitato e bruciato per eresia. 1 ottobre 1567.
Lorenzo da Mugnano, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1668.
Matteo d'Ippolito, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1568.
Francesco Stanga, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1568.
Donato Matteo Minoli, lasciato morire nelle carceri dopo avergli rotto le ossa e bruciato i piedi. 27 maggio 1568.
Francesco Castellani, eretico, impiccato. 6 dicembre 1568.
Pietro Gelosi, eretico, impiccato e bruciato. 6 dicembre 1568
Marcantonio Verotti, eretico, impiccato e bruciato. 6 dicembre 1568.
Luca di Faenza, eretico, bruciato vivo. 28 febbraio 1568.
Borghesi Filippo, decapitato e bruciato per eresia. 2 maggio 1569.
Giovanni dei Blasi, impiccato e bruciato per eresia. 2 maggio 1569.
Camillo Ragnolo, impiccato e bruciato per eresia. 25 maggio 1569.
Fra Cellario Francesco, impiccato e bruciato per eresia. 25 maggio 1569.
Bartolomeo Bartoccio, bruciato vivo per eresia. 25 maggio 1569.
Guido Zanetti, murato vivo per eresia. 27 maggio 1569.
Filippo Porroni, eretico luterano, impiccato. 11 febbraio 1570.
Gian Matteo di Giulianello, giustiziato per eresia. 25 febbraio 1570.
Nicolò Franco, impiccato per aver deriso il papa con degli scritti. Impiccato. 11 marzo 1570.
Giovanni di Pietro, eretico, impiccato e bruciato. 13 maggio 1570.
Aolio Paliero, eretico, impiccato e bruciato su espreso desiderio di Papa Pio V (santo).3 luglio1570.
Fra Arnaldo di Santo Zeno, eretico, bruciato vivo. 4 novembre 1570.
Don Girolamo di Pesaro, Giovanni Antonio di Jesi e Pitro Paolo di Maranzano, giustiziati per eresia. 6 ottobre 1571.
Francesco Galatieri, pugnalato a morte dai sicari pontifi perché eretico. 5 gennaio 1572.
Madonna Dianora di Montpelier, eretica, impiccata e bruciata. 9 febbraio 1572.
Madonna Pellegrina di Valenza, eretica impiccata e bruciata. 9 febbraio 1972.
Madonna Girolama Guanziana, eretica impiccata e bruciata. 9 febbraio 1572
Madonna Isabella di Montpelier, eretica impiccatae bruciata. 9 febbraio 1572.
Domenico della Xenia, eretico impiccato e bruciato. 9 febbraio 1572.
Teofilo Penarelli, eretico impiccato e bruciato. 22 febbraio 1572.
Alessandro di Giulio, eretico impiccato e bruciato.

— Gregorio XIII

Alessandro di Giulio, impiccato e bruciato per eresia. 15 marzo 1572.
Giovanni di Giovan Battista, impiccato e bruciato perchè eretico. 15 marzo 1572.
Girolamo Pellegrino, impiccato e bruciato per eresia. 19 luglio 1572.
10.000 (diecimila) eretici massacrati in Francia per ordine del Papa (strage degli Ugonotti- Notte di S. Bartolomeo). 24 agosto 1572.
500 eretici massacrati in Croazia per ordine del vescovo cattolico Juraj Draskovic. 1573.
Nicolò Colonici eretico impiccato e bruciato.
Giovanni Francesco Ghisleri, strangolato nelle carceri dell'Inquisizione. 25 ottobre del 1574.
Alessandro di Giacomo, arso vivo. 19 novembre 1574.
Benedetto Thomaria, eretico bruciato vivo. 12 Maggio 1574.
Don Antonio Nolfo, eretico giustiziato. 29 luglio 1578.
Giovanni Battista di Tigoni, eretico giustiziato. 29 lugio 1578.
Baldassarre di Nicolò, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Antonio Valies de la Malta, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Francesco di Giovanni Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Bernardino di Alfar, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Alfonso di Poglis, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Marco di Giovanni Pinto, eretico impiccato e bruciato.13 agosto 1578.
Girolamo di Giovanni da Toledo, eretico impiccato e bruciato 13 agosto 1578.
Gasparre di Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Fra Clemente Sapone, eretico impiccato e bruciato. 29 novembre 1578.
Pompeo Loiani, eretico impiccato e briciato. 12 giugno 1579.
Cosimo Tranconi, eretico impiccato e bruciato. 12 giugno 1579.
222 (duecentoventidue) ebrei bruciati al rogo per ordine della Santa Inquisizione. 1558.
Salomone, ebreo impiccato per aver rifiutato il battesimo. 13 marzo 1580.
Un inglese bruciato vivo per aver offeso un prete. 2 agosto 1581.
Diego Lopez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Domenico Danzarelli, impiccato e bruciato per eresia. 18 febbraio 1583.
Prospero di Barberia, eretico impiccato e bruciato. 18 febbraio 1583.
Gabriello Henriquez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Borro d'Arezzo, bruciato vivo per eresia. 7 febbraio 1583.
Ludovico Moro, eretico arso vivo. 10 lugio 1583.
Fra Camillo Lomaccio, Fra Giulio Carino, Leonardo di Andrea strangolati nel carcere di Tor Nona per eresia. 23 luglio 1583.
Lorenzo Perna, arrestato per ordine del cardinale Savelli per eresia, si ignora la sua fine. 16 giugno
1584.
<<La Signora di Bellegard>>, arrestata per eresia, si ignora la sua fine. ottobre 1584.
Giacomo Paleologo, decapitato e bruciato. 22 marzo 1585.
I fratelli Missori decapitati per aver espresso il diritto alla libertà di stampa. Le loro teste furono lasciate in esposizione al pubblico. 22 marzo 1585.
(Il corpo di Gregorio XIII, di questo carnefice, viene onorato e riverito dai cattolici nella sua monumentale tomba in S.Pietro a Roma).

 

 

— Papa Sisto V

Questo Papa fece impiccare uno spagnolo per aver ucciso con una bastonata un soldato svizzero che lo aveva ferito con l'alabarda.
Respinta la richiesta di sostituire la forca con la mannaia, Sisto V assisteva gioiosamente alle esecuzioni facendosi portare da mangiare perchè "questi atti di giustizia gli accrescevano l'appetito". Dopo l'esecuzione di una sentenza disse: << Dio sia benedetto per il grande appetito con cui ho mangiato>>.
Pietro Benato, arso vivo per eresia. 26 aprile 85.
Pomponio Rustici, Gasparre Ravelli, Antonio Nantrò, Fra Giovanni Bellinelli, impiccati e
bruciati vivi per eresia. 5 agosto 1587.
Vittorio, conte di Saluzzo, giustiziato per eresia. 9 dicembre 1589.
Valerio Marliano, eretico impiccato e bruciato. 16 febbraio 1590.
Don Domenico Bravo, decapitato per eresia. 30 marzo 1590.
Fra Lorenzo dell'Aglio, impiccato e bruciato.13 aprile 1590.

 

 

— Gregorio XIV

Fra Andrea Forzati, Fra Flaminio Fabrizi, Fra Francesco Serafini, impiccati e bruciati.
6 febbraio 1591.
Giovanni Battista Corobinacci, Giovanni Antonio de Manno Rosario, Alexandro d'Arcangelo, Fulvio Luparino, Francesco de Alexandro, giustiziati. Giugno 1590.
Giovanni Angelo Fullo, Giò Carlo di Luna, Decio Panella, Domenico Brailo, Antonio Costa, Fra Giovanni Battista Grosso, l'Abate Volpino, insieme ad altri seguaci di Fra Girolamo da Milano, arrestati dalla Santa Inquisizione, si ignora la loro fine... 1590.
( Totto questo in un solo anno di Santo Pontificato!).

 

 

— Clemente VIII

Giordano Bruno, bruciato vivo per eresia il 17 febbraio 1600.
Quattro donne e un vecchio bruciate vive per eresia. 16 febbraio 1600.
Francesco Gambonelli, eretico arso vivo. 17 febbraio 1594.
Marcantonio Valena e un altro luterano, arsi vivi. agosto 1594.
Graziani Agostini, eretico impiccato e bruciato. 1596.
Prestini Menandro, eretico impiccato ebruciato. 1596.
Achille della Regina, se ne ignora la fine. Giugno 1597.
Cesare di Giuliano, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Damiano di Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Baldo di Francesco, impiccato e bruciato per eresia. 1957.
De Magistri Giovanni Angelo, eretico impiccato e bruciato.1597.
Don Ottavio Scipione, eretico, decapitato e bruciato.1597.
Giovanni Antonio da Verona e Fra Celestino, eretici bruciati vivi. 16 settembre 1599.
Fra Cierrente Mancini e Don Galeazzo Porta decapitati per eresia. 9 novembre 1599.
Maurizio Rinaldi, eretico bruciato vivo. 23 febbraio 1600.
Francesco Moreno, eretico impiccato e bruciato. 9 giugno 1600.
Nunzio Servandio, ebreo impiccato. 25 giugno 1600.
Bartolomeo Coppino, luterano arso vivo. 7 aprile 1601.
Tommaso Caraffa e Onorio Costanzo eretici decapitati e bruciati. 10 maggio 1601.

 

 

— Papa Paolo V

Giovanni Pietro di Tunisi, impiccato e bruciato. 1607.
Giuseppe Teodoro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Felice d'Ottavio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Rossi Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Antonio di Jacopo, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fortunato Aniello, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Vincenti Pietro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Umberto Marcantonio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fra Manfredi Fulgenzio, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Lucarelli Battista, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Emilio di Valerio, ebreo, impiccato e bruciato. 1610.
Don Domenico di Giovanni, per essere passato dal cristianesimo all'ebraismo, impiccato. 1611.
Giovanni Milo, luterano impiccato. marzo 1611.
Giovanni Mancini, per aver celebrato la messa da spretato impiccato e bruciato. 22 ottobre 1611
Jacopo de Elia, ebreo impiccato e bruciato. 22 gennaio 1616.
Francesco Maria Sagni, eretico impiccato e bruciato. 1 luglio 1616.
Arrestato un negromante zoppo, arso vivo per stregoneria. 1617.
Lucilio Vanini, arso vivo per aver messo in dubbio l'esistenza di Dio. 17 febbraio 1618.
Migliaia di eretici trucidati dai cattolici nei Grigioni in Valtellina. 1620.
(La Chiesa, rimasta nella convinzione che in Valtellina ci siano ancora tendenze religiose eretico-pagane, mantiene tutt'oggi la regione sotto controllo tramite la "Missione Rezia", affidata ai cappuccini, dipendenti direttamente da "Propaganda Fidei") ... e il Santo Padre Gian Paolo II chiede perdono!!!

 

 

— Urbano VIII

Galileo Galilei, torturato e condannato al carcere perpetuo quale eretico per aver affermato che la Terra gira intorno al Sole. 1633.
Ferrari Ambrogio, eretico impiccato. 1624.
Donna Anna Sobrero, morta di peste in carcere dove era stata condannata a vita. 1627. (nei mesi che seguirono, tutti coloro che passarono per quel carcere, morirono di peste).
Frate Serafino, eretico, inpiccato e bruciato. 1634.
Giacinto Centini, decapitato per aver offeso la sovranità papale. 1635.
Fra Diego Giavaloni, eretico impiccato e bruciato. 1635.
Alverez Ferdinando, bruciato vivo per essersi convertito all'ebraismo. 19 marzo 140.
Policarpo Angelo, impiccato ebruciato per aver celebrato la messa da spretato. 19 maggio 1642.
Ferrante Pallavicino, eretico impiccato e bruciato. 1644.
Fra Camillo d'Angelo, Ludovico Domenico, Simone Cossio, Domenico da Sterlignano, giiustiziati per eresia. 1644.

 

 

— Papa Innocenzo X

Brugnarello Giuseppe e Claudio Borgegnone, impiccati e bruciati per aver falsificato alcune lettere apostoliche. 1652. ( Se questo Papa applicò in prevaleza condanne di carceri a vita ciò dipese dal fatto che in quegli anni ricorreva l'anno Santo).

— Papa Alessandro II

Fello Giovanni, sacerdote, decapitato per eresia. 1657.
1.712 Valdesi massacrati dai cattolici nelle Valli Alpine. 1655.

 

 

— Papa Innocenzo XI (santificato)

20 ebrei condannati al rogo. 1680.
Vincenzo Scatolari, per aver esercitato la professione di giornalista senza autorizzazione di Santa Madre Chiesa. Decapitato. 2 agosto 1685.
2.000 (duemila) Valdesi massacrati dai cattolici nelle Valli Alpine per ordine diretto del Papa. Maggio 1686.
24 protestanti uccisi dai cattolici a Pressov in Slovacchia. 1687.

 

 

— Papa Innacenzo XII

Martino Alessandro, morto in carcere per torura. 3 maggio 1690.
37 ebrei bruciati vivi. 1691. (poi si cercano le cause che hanno generato l'antisemitismo!).
Antonio Bevilacqua e Carlo Maria Campana, cappuccini, decapitati perchè seguaci del Quietismo di Molinos. 26 marzo 1695.

— Clemente XI

Filippo Rivarola, portato al patibolo in barella per le torture ricevute, decapitato. 4 agosto 1708.
Spallaccini Domenico, impiccato e bruciato per aver bestemmiato a causa di un colpo di alabarda ricevuta da una guardia papalina. 28 luglio 1711.
Gaetano Volpini, decapitato per aver scritto una poesia contro il Papa. 3 febbraio 1720.

— Clemente XII

Questo Papa, ripristinando la "mazzolatura" (rottura delle ossa a colpi di bastone), si dimostrò uno dei più cinici sostenitori dell'arte della tortura.
Pietro Giarinone, filosofo e storico, morì sotto tortura per aver sostenuto la supremazia del re sulla curia romana. 24 marzo 1736.
Enrico Trivelli, decapitato per aver scritto frasi di rivolta contro il Papa. 23 febbraio 1737.
Le numerose vittime di questo Papa sono rimaste sconosciute perchè egli peferiva più uccidere sotto tortura nella carceri dell'Inquisizione che giustiziarle nelle pubbliche piazze.

L'EUROPA COMINCIA A RISENTIRE DEL BENFICO EFFETTO DELL'ILLUMINISMO CHE SI MANIFESTA LIMITANDO L'ALTERIGIA DELLA CHIESA CHE RIDUCE LE SUE PERSECUZIONI RELIGIOSE ORINTANDOSI VERSO DELITTI POLITICI, CRIMINI COMUNI OPPURE REATI RIGUARDANTI GLI ORDINAMENTI INTERNI ECCLESIASTI. QUELLO CHE PER LEI CONTA SOPRA OGNI COSA È L'IMPORRE IL SUO POTERE ATRAVERSO IL TERRORE.

 

 

— Clemente XIII

Tommaso Crudeli, condannato al carcere a vita per massoneria. 2 agosto 1740.
Giuseppe Morelli, impiccato per aver celebrato l'Eucaristia da spretato. 22 agosto 1761.
Carlo Sala, eretico, giustiziato. 25 settembre. 1765. (Carlo Sala è l'ultimo martire ucciso dalla Chiesa per eresia).
I massacri, non più di carattere religioso, continuarono contro i cospiratori politici, i giornalistI e tutti quei progressisti che intendevano rovesciare l'immoralità dell'oscurantismo religioso attraverso una rivoluzione armata.
Le atrocità furono come nel passato. Tagli di teste, torture con mazzolature, impiccaggioni e sevizie che spesso portavano allo squartamento degli accusati.
Pur di mantenere il terrore venivano puniti di morte anche i delitti meno gravi come i semplici furti.

— Pio VI

Nei suoi quattro anni di pontificato ci furono soltanto cinque esecuzioni capitali per reati comuni, anche se la sua lotta si intensificò aspramente contro gli ebrei che furono costretti, tra le tante umiliazioni e minacce che subiro, a indossare vestiti di colore giallo perchè fossero pubblicamente oltraggiati.

 

 

— Pio VII

Gregorio Silvestri, impiccato per cospirazione politica. 18 gennaio 1800.
Ottavio Cappello, impiccato perchè patriota rivoluzionario. 29 gennaio 1800.
Giovanni Battista Genovesi, patriota squartato e bruciato. La sua testa fu esposta al pubblico. 7 febbr. 1800.
Teodoro Cacciona, impiccato e squartato per furto di un abito ecclesiastico. 9 febbraio 1801.
Paolo Salvati, impiccato e squartato per aver derubato un corriere del Papa. 11 dicembre 1805.
Bernardo Fortuna, impiccato e squartato per furto ai danni di un corriere francese. 22 aprile 1806.
Tommaso Rotilesi, impiccato per aver ferito un ufficiale francese.
161 furono le esecuzioni capitali per reati comuni nei 15 anni del pontificato di questo vice Dio in terra che prese il mite e devoto nome di Pio.

— Leone XII

Leonida Montanari, decapitato per aver offeso pubblicamente il Papa. 23 novembre 1825.
Angelo Targhini, decapitato per aver ferito una spia papalina. 23 novembre 1825.
Luigi Zanoli, decapitato per aver ucciso uno sbirro papalino. 13 maggio 1828.
Angelo Ortolani, impiccato per aver ucciso guardia papalina. 13 maggio 1828.
Gaetano Montanari, squartato per tentato omicidio dell'emissario papalino Rivolta. 1828
Gaetano Rambelli, impiccato per aver ferito emissario papalino. 1828.
Le esecuzioni capitali, oltre queste sopra elencate, furono 29 e sempre per reati comuni.

— Pio VIII

In un anno di Pontificato eseguì 13 condanne capitali per reati comuni.

— Gregorio XVI

Impose divieto assoluto ad ogni libertà di parola o di espressione scritta che non seguisse i dettami di Santa Madre Chiesa. Dietro le minacce più gravi obbligò gli ebrei di non esercitare nessuna attività fuori del Ghetto.
Giuseppe Balzani, decapitato per offese la Papa. 14 maggio 1833.
Luigi Scopigno, decapitato per furto di oggetti sactri. 21 luglio 1840.
Pietro Rossi, decapitato per piccolo furto. 9 gennaio 1844.
Luigi Muzi, decapitato per piccolo furto. 19 gennaio 1844.
Giovanni Battista Rossi, decapitato per piccolo furto. 3 agosto 1844.
Oltre a queste ci furono sotto il pontificato di questo Santo Padre altre 110 condanne a morte per reati comuni.

 

 

— Pio IX (santificato da Gian Paolo II, chiamato metro cubo di merda da Garibaldi)

Romolo Salvatori, decapitato per aver consegnato ai Garibaldini l'Arciprete di Anagni.

10 settembre 1851.
Gustavo Paolo Rambelli, Gustavo Marloni, Ignazio Mancini, decapitati per aver ucciso tre preti.

24 gennaio 1854.
Antonio de Felici,decapitato per aver attentato al Cardinale Antonelli.

Per comprendere la criminalità di questo Papa (santo), basta dire che quando i patrioti dell'unificazione italiana entrarono nelle carceri pontificie per liberare alcune decine di prigionieri che vi vivevano incatenati da così lungo tempo da aver perso la vista e l'uso delle gambe, trovarono in quei sotterranei mucchi di scheletri e di cadaveri in decomposizione in un misto di tonache di frati e di monache, di vestiti civili di uomini e di donne, divise militari e scarpe come quando furono liberati i campi di sterminio nazisti. Vi furono trovati anche giocattoli di bambini morti insieme ai loro genitori.
SE QUESTI SONO I SANTI, CHI SONO ALLORA I DEMONI?


L’Inquisizione anti-eretica come coerente  sistema terroristico, sacro strumento di polizia pastorale della “chiesa universale”

 

Siamo dunque al tragico quadro penale e psichiatrico dell’Inquisizione cattolica (“universale”), come atroce “risposta” ecclesiale all’onda dei tempi nuovi, della secolarità, della laicità, della modernità incipiente: tutte offese minacciose alla sua dogmatica arcaica. O magari solo come una conferma tronfia e sanguinosa del sommo potere giudiziale, dell’anticipato esercizio universalmente punitivo, raramente premiale (santificale), e solo all’interno delle sue strutture e in funzione auto-celebrativa, di questa ecclesia onnisciente e onnipotente che incombe sulle sorti dell’Occidente sventurato, brutalmente pervasiva nella esistenza e coscienza di ogni singolo uomo. Questa chiesa si è arrogata dai primi secoli anche il diritto “divino” più dispotico, illimitato di competizione e collaborazione con quel primigenio diritto all’esercizio criminale (rapina e assassinio), che pare privilegio tacito non solo della “regali-tà” riconosciuta o comunque vittoriosa, ma di ogni aspirante al potere, al “comando”, al “dominio” sull’uomo, che tenti di praticarne la violenza organizzata della conquista.

Ma nessuna organizzazione imperiale mai, a nostra scienza storica, fu così accuratamente preordinata, per comando divino, e non per analogia ma per identità effettuale, nella storia umana, così totalitariamente, così capillarmente, con tale gigantesca impostura, con tale resistenza e durata, per il possesso totale, vitale e oltrevitale, dell’uomo “peccatore”, della sua intera vita dal concepimento alla morte, e della sua preventivata destinazione oltremondana, finanche “eterna”. Eresia, inquisizione, torture, roghi allora non sono che sequenze derivate, momenti e fasi di una prassi autoritaria globale, programmata canonicamente e perfino meticolosamente regolamentata, secondo il vanto di recenti storici militanti cattolici. Tutto fu sempre nelle regole. Quali? certo quelle inquisitorie, istruttorie, poliziesche del sistema penale, che la santa chiesa dell’amore, dell’agàpe, dello “Spirito Santo” si è dato, e che ha perfezionato con l’assistenza ininterrompibile della “grazia di Dio”. Perché nella sacralità rituale e cerimoniale artificiosa della chiesa cattolica, più che in qualunque altra istituzione “profana”, per quanto macchinosa, tutto è realmente regolato da “sacre procedure”, anche l’Inquisizione.

Qualche anno fa (1998) la stracattolica Piemme ha pubblicato un famoso Manuale dell’inquisitore A.D. 1376, dovuto alla competenza collaudata del domenicano Nicolau Eymerich, inquisitore generale di Aragona: “ad uso degli inquisitori per consigliarli nel loro lavoro quotidiano e soprattutto aiutarli a districarsi tra le regole della minuziosa procedura”. In pratica, “come riconoscere un eretico, come istruire un processo per eresia, quale domanda-tranello porre per smascherare la malafede di teologi in odore di eresia, da quali segni riconoscere negromanti, adoratori del diavolo e streghe, quando richiedere l’intervento del boia per torturare…”. Sono voci dell’indice compendiate sulla fascetta editoriale, per invogliare il sensibile lettore odierno: e spigolarvi dentro potrebbe dilettarci di diletto macabro (nero), a cominciare dall’Avvertenza. Vi è naturalmente un curatore clericale, R.Cammilleri, un davvero mediocre pubblicista cattolico, che adempie nel modo più plateale e volgare il mandato ecclesiastico di tradurre la “leggenda nera” dell’Inquisizione cattolica, data sùbito falsamente per “smantellata da tempo dagli storici”, in una svergognata – tutta cattolica – “leggenda rosa”. Che può chiudere con l’asserzione irresponsabile, appena attenuata da un “forse” parentetico: “molto rumore per nulla” (p.14)!

E’ la storia criminale, la Kriminalgeschichte del cristianesimo ovvero della sua chiesa, che continua in tutto il Medioevo e nei primi secoli “moderni”. In stile ecclesiastico, oltretutto il libro è una mistificazione editoriale, che sconfina nella frode, perché non pubblica affatto il testo originale indicato con firma, ma è per intero una confezione arbitraria, una specie di sunto-parafrasi-plagio del detto “curatore”, che sfrutta dichiaratamente un compendio francese del manuale, nell’edizione cinquecentesca commentata da F.Peña, canonista aragonese: un autentico pasticcio, inutilizzabile filologicamente, quindi da prendere o lasciare, seppure difficilmente rinunziabile per le molte informazioni, che dovrebbero essere “di prima mano”, e per le sconcertanti risposte agli interrogativi impliciti e espliciti in cui il libro si articola, relativi al mestiere e alle pratiche giudiziali di un inquisitore ecclesiastico. Un ampio e squallido prospetto, a cominciare dal campionario di vergogne, qui esibite come titoli di legittimo e probo esercizio applicativo del diritto canonico.

Precede una sintesi minima della storia dell’inquisizione medioevale, spiegata come ritorsione nongià dell’ecclesia ma dei poteri “civili”, per la repressione del catarismo nongià come “eresia” ma in quanto “sovversione sociale”, o dell’eresia stessa nongià come deviazione teologica dall’ortodossia dogmatica, come “errore” così qualificato e blasfemia demoniaca, ma come sovversione dell’ordine costituito nella società intera: da qui per es. la legittimità “civile” della ventennale crociata, ossia guerra di coalizione, contro gli albigesi sovversivi sanguinari. Ma questa non è che la volgarizzazione plebea di alcuni interventi storici “revisionistici” di militanti cattolici, “prudenti” fino all’impudenza. Vi è un caso di fortuna editoriale prolungata o rilanciata, quello dello storico francese J.B.Guiraud, che in un paio di libelli proto-novecenteschi, su L’Inquisizione medievale (tr.it. Corbaccio 1933) professava la più grande “obbiettività”, intesa all’accertamento della verità storica sull’Inquisizione, quindi a rettificare gli errori e le esagerazioni correnti, dettati da ostilità verso la chiesa, povera santa sempre malgiudicataa, calunniata, aggredita proditoriamente. Malintesa pure nelle sue tradizionali manifestazioni così limpide, così serene di superiore giustizia ecclesiastica, come la millenaria lotta alle eresie e la “santa inquisizione” (un tribunale beatifico), col concorso libero di stati e governi politici.

E realmente una grande imparzialità ispirava Guiraud, se si considera che questo testo libello era la voce Inquisition del grande Dictionnaire apologétique de la foi  catholique, “contenant les preuves de la verité de la réligion et les réponses aux objections tirées des sciences humaines”, diretto dal gesuita A.D’Alès: una “voce” sicuramente graziata dallo “Spirito Santo”! Bè oggi lo stesso pubblicista Cammilleri, su “invito alla lettura” del più noto suo collega V.Messori, coronato di largo successo editoriale,  ripropone con la più scoperta oscenità la traduzione dell’altra voce-libello coeva del medesimo autore, tratta dal medesimo Dictionnaire, che viene intitolata sfacciatamente Elogio della Inquisizionne (Leonardo 1994), molto aldilà della prospettiva pure apologetica, cioè difensiva, riduttiva, omissiva, giustificativa dello “storico” cattolico. Era lui, nato e vissuto nella Francia del sud, a incentrare sul catarismo, che caratterizzava tout court come manicheo, i suoi studi sulla Inquisizione medioevale, alla quale la clemente ecclesia alla fine si decise a malincuore, dopo lunga tolleranza (tolérance), anzi addirittura con un “eccesso di tolleranza”!

L’aggancio sicuro  al manicheismo non era casuale, poiché permetteva di caricare già sulle remote repressioni di Diocleziano, che colpirono anche i Manichei, la responsabilità originaria, e direi metodologica e tipologica, dell’inquisizione politico-religiosa; e inoltre consentiva di arretrare di molti secoli l’origine e la diffusione e permanenza della grave “eresia”, così a lungo “tollerata” dall’ecclesia santamente tollerante. Altro espediente era quello, imitato oggi dagli italiani, di puntare su singoli casi anomali (un folle di Châlons, il sobillatore di Utrecht, il bretone che crede di essere un “eone”), come estremi di agitazione e asserita violenza sovversiva, là dove si parla di un vasto “movimento”  cataro, amplificato in alternativa terroristica come invasione di un’orda di barbari nel regno dei cieli ecclesiale cattolico.

Un criterio generale di rilettura “storica”, già evidente in questa sorta di protòtipo primo-novecentesco di “risposta cattolica” all’assalto critico pluri-secolare, che si fa risalire al protestantesimo, patito dalla chiesa della tolleranza calunniata, è quello tattico-strategico di associare strumentalmente agli interessi “spirituali” della chiesa gli interessi economico-politici dei prìncipi, degli stati, dei governi professanti “cristiani”. S’intende specialmente la responsabilità esecutiva del cosiddetto “brac-cio secolare”, essendo tuttavia sempre la chiesa la “mente” sovrana di questo “brac-cio”, oltretutto in molti casi riluttante. Lo “storico” sembra però dimenticarlo, o meglio rimuoverlo troppo spesso, tanto da mettere spesso paradossalmente in competizione  handicappata col loro “braccio secolare”, il vescovo o il papa, quasi fossero impotenti o impediti a esercitare nobilmente e con diritto “divino” prioritario la “santa inquisizione” canonica: oltre a mettere anche il “popolo contro gli eretici”, in una generale revulsione della intera società cristiana. E’ l’augusta ecclesia che, decidendo di “cambiare sistema”, dopo avere troppo a lungo tollerato, dice basta! ai catari sovversivi e nel 1139 – si esprimeva così lo storico cattolico – “ordina al potere civile di reprimere l’eresia con pene temporali” (Elogio dell’Inquisizione, pp.27ss.). Tanto più che i prìncipi scalpitano, vogliono punire a ogni costo quei lazzaroni pericolosi: e qui ci si riferisce con distacco “spirituale” agli eventi drammatici della condanna di Abelardo e di Arnaldo morto acciso.

La formulazione e la formula sono esattamente queste del concilio Laterano (1139 appunto) di Innocenzo II, canone 23: “Gli eretici che condannano il matrimonio, rigettano i sacramenti del corpo e del sangue del Signore, il battesimo dei bambini, il sacerdozio e gli altri ordini, siano espulsi dalla Chiesa di Dio come eretici, noi li condanniamo e ordiniamo al potere civile di reprimerli. Includiamo nella stessa sentenza chiunque prenderà le loro difese” (cit. ivi, pp.27-28). E ancora minacciosamente nel concilio di Reims del 1148, presieduto dal papa Eugenio III: “Nessuno – dice – deve difendere o proteggere i Catari; nessun signore deve accoglierli sulle sue terre, dietro pena di scomunica e di interdizione” (L’Inquisizione medievale, p.67). Ma ciò nonostante, lo storico militante continuava a mistificare, scrivendo poi che “i papi si impegnarono sempre più in questa via repressiva che era stata loro così ben tracciata dai principi. Al concilio Lasterano del 1179 Alessandro III, pur continuando a ricordare che il clero aveva in orrore il sangue, chiedeva al potere secolare sanzioni penali contro i Catari (…). Il papa lanciò l’anatema contro di loro, contro i loro protettori e chiunque li avesse ricevuti nella propria casa o sulle proprie terre, o avesse avuto commercio con loro. Ma c’è di più: egli chiamava alle armi contro l’eresia e i prìncipi e i popoli…” (Elogio dell’Inquisizione, p.32).

E’ la solita ipocrisia falsificante di sole parole, che si smaschera nell’evidenza degli atti, ma non basta allo storico nonché uomo di verità cristiana Guiraud, che riassumendo il capitolo poteva concludere con tranquilla impudicizia clericale: 1) ripugnando da principio le pene temporali e limitandosi a quelle spirituali, la Chiesa sottopose l’eresia a castighi materiali solo alla fine del XII secolo; 2) essa fu portata a tale recrudescenza non soltanto da re pii e sottomessi alla sua direzione come Luigi VII, ma anche da principi in frequente rivolta contro di essa, come Enrico II d’Inghilterra e l’imperatore Federico Barbarossa; 3) l’inquisizione era pressoché universalmente praticata dall’autorità civile già prima che intervenisse a istituirla ufficialmente nel mondo cristiano una decisione ecclesiastica (p.35). Asserzioni tutte smentite dai suoi stessi dati, ma soprattutto inauditamente fuori di ogni seria ragione etico-religiosa che non siano i retoremi della tradizione ecclesiastica.

Come potrebbe nel XII secolo l’eventuale priorità del potere “civile”, in subordine preteso e conclamato del potere ecclesiastico, potrebbe non dico legittimare ma anche solo motivare un apparecchio inquisitoriale e altamente terroristico e penalmente rovinoso, deltutto coerente con la pratica dogmatica, esclusiva autoritaria totalitaria, di un millennio di caccia aberrante e di lotta senza quartiere alle cosiddette “eresie”, cioè a ogni altra libera interpretazione del “messaggio cristiano”? A misurare il suo livello di inattendibilità storica, si noti come nell’altro libello su L’Inquisizione medievale Guiraud componeva, per il XII secolo di Bernardo e di Innocenzo III, incredibili quadri provinciali francesi di una chiesa fragile e “perseguitata” (pp.56ss.). La rappresentazione demonizzante che lo “storico” dava degli “eretici”, nella sua ottica ecclesiastica eusebiana, è quella di facinorosi esagitati semi-demoniaci, anarcoidi antisociali disposti a ogni violenza, non escluso l’assassinio, il cui scopo era di “di-struggere la società”, nei confronti di un clero bòno, “perseguitato” (nel colmo Medioevo!), inerte, impotente, scoraggiato, passivo senon complice della “eresia”.

Guiraud raccoglie ogni diceria, ogni aneddoto, ogni racconto o leggenda di parte clericale, mescolando “eretici” e banditi, anzi identificando quelli con questi: “Man mano che si propagavano le predicazioni ereticali, si moltiplicavano le bande che, in nome delle nuove dottrine, portavano la devastazione in un gran numero di regioni dell’Europa cristiana. Nei primi anni del regno di Filippo Augusto il centro della Francia fu messo e ferro e fuoco da forsennati che venivano chiamati, a seconda dei luoghi, Coteraux, Routiers, Paliarii, Arriens, Patarins. Il cronista contemporaneo Rigord ce li mostra intenti a saccheggiare e bruciare le chiese, a profanare l’Eucarestia e i vasi sacri, a sottoporre a trattamenti sacrileghi e crudeli i preti, che facevano non di rado morire tra i più atroci tormenti. Calpestavano coi piedi le ostie consacrate e facevano coi corporali oggetti da toilette per le loro amanti…” (Elogio dell’Inquisizione, p.59). Al contrario, della storia dell’inquisizione medioevale, come esemplarmente nella lunga crociata contro gli albigesi, si compone qui una storia tutta extra-ecclesiastica di prìncipi, re e capi militari in guerra fra loro e contro gli “eretici”, in cui la chiesa ha una partecipazione laterale: ma la “Santa Inquisizione” chi l’avrebbe santificata senon l’eccclesia santa?

Quasi a smentita fattuale di quella prospettiva de-responsabilizzante, lo stesso storico Guiraud assicurava,  che “quando l’Inquisizione fu organizzata, nella prima metà del XIII secolo, ebbe la missione di combattere le varie sette di estrazione manichea; estese poi la sua azione a tutte quelle altre eresie che avevano, come i Valdesi, affinità con le prime. Infine, colpì non solo quelli che predicavano e praticavanoo apertamente queste dottrine anticristiane e antisociali, ma anche quelli che ne favorivano in qualunque maniera la diffusione” (ivi, p.115). Piccole transizioni della “tolleran-za” ecclesiastica, che tranquillizzano il lettore cristiano male informato o fuorviato da letture tendenziose sulla reale “mitezza dell’inquisizione”, sulla “vigilanza” e sulla “mansuetudine” della “Santa Sede”, virtù ecclesiastiche arcinote, sebbene spesso misconosciute. E sempre senza l’obbrobrio di una chiesa cristiana, e in realtà di una gerarchia di potere politico-economico letteralmente criminale che, con sprezzo tradizionale dell’uomo, organizzava una tale mostruosa macchina poliziesca e penale per la soppressione di critici, dissenzienti e oppositori politico-religiosi.

Sicché lo “storico” cattolico, da piccolo servitore cieco della sua chiesa, poteva concludere sordamente, senza accorgersi della tragica enormità dei suoi enunciati, come in un laconico orrido-cinico verbale di servizio: “L’Inquisizione riuscì a soffocare il Catarismo. Il numero degli adepti perseguiti diminuì considerevolmente nel primo quarto del XIV secolo, dopo il 1340 non si incontra che qualche caso isolato. Schmidt dichiara che nel XIV secolo ‘la setta sparì senza lasciare traccia nelle nostre province meridionali’. Stessa constatazione per la Spagna: ‘Nel 1292 troviamo le ultime tracce dell’eresia catara in quelle province. Il re Giacomo II, i vescovi adunati in assemblea a Tarragona e gli inquisitori si riunirono per farle scomparire del tutto: a partire da quel momento in Spagna non se ne sente più parlare’. In Italia l’Inquisizione scovò ancora Catari fino alla fine del XIV secolo; si erano rifugiati nelle valli remote delle Alpi e nelle inestricabili macchie della Corsica. In questa isola ‘i rifugiati abitavano per la gran parte nelle foreste e nelle montagne; per contenerli fu creata una linea di fortezze ecclesiastiche sotto forma di residenze di francescani’” (pp.149-50). Degna clausola di questo infame “elogio”!

Tale maestro e modello, autore inoltre di una più ampia Histoire de l’Inquisition in due volumi (Paris 1934), e di cui si ristampa ancora in Francia anche l’altro libello su L’Inquisition médiévale (Paris 1978), ha avuto ovvio seguito pure indichiarato, specialmente negli ultimi decenni del secolo e millennio trascorso. Si noti però che il tema è deltutto rimosso anche nelle maggiori storie della chiesa (da quella di Saba a quella collettanea diretta da Jedin, dove si parla di eresie e di eretici, non di inquisizione), e nelle storie del cristianesimo (da quella di Buonaiuti, vol.II Evo Medio (Dall’Oglio 1943) all’ultima diretta da Filoramo e Menozzi). E’ pure escluso nella Enciclopedia delle religioni americana, diretta da Eliade, e minimizzata in quella italiana, in cui Msurilio Adriani se ne esce in questa speciosa definizione: perifrastica:  “Se d’Inquisizione si può parlare genericamente come di quell’atteggiamento proprio dell’autorità religiosa costituita (e quindi anche e soprattutto della Chiesa) in quanto depositaria dell’ortodossia e incline dunque a cercare, prima ancora di constatare e di reagire, le forme e le figure aberranti, le ‘eresie’ letteralmente intese, il senso più preciso del termine si determina come linea metodica, sistematicamente perseguita sul piano religioso e su quello giuridico, attraverso la quale si provvede a difendere la ‘verità’ – il dogma, la fede, il costume -  attraverso un’azione tanto preventiva quanto repressiva, intesa evidentemente a conservare o a ripristinare l’ortodossia di fondo. Ed è anche da notare che l’Inquisizione sia sempre e comunque segno di una unicità almeno tendenziale del regime spirituale, e quindi si trovidi fatto associata e talora immedesimata nell’intolleranza, sacra e civile che vessa sia” (vol.III, col.1171).

Nei volumi IX/2 e X della grande Histoire de l’Église cattolica, si dedicano due brevo capitoli a “La lotta contro l’eresia”, in cui si esprime quasi sorpresa nel “constata-re quanto poco la Chiesa si sia curata di determinare e punire il delitto di eresia. Al riguardo non esisteva né una dottrina chiaramente formulata, né una procedura determinata, né sanzioni sicuramente stabilite. Questa negligenza si spiega col fatto che, in Occidente almeno – fatta eccezione per le antiche eresie represse dal potere civile – nessuna eresia aveva conosciuto uno sviluppo inquietante prima della penetrazione delle correnti neo-manichee” (vol.IX/2, p.864). Il finto candore meriterebbe varie precisazioni, ma presto comunque la casta chiesa riorganizzò nel XIII secolo, specialmente per la promozione indefessa di Innocenzo III; così che in un’altra decina di pagine in Appendice del vol.X p.Mariano d’Alatri illustra l’impiego dei francescani in rinforzo inquisitorio ai domenicani, e l’accurata “ripartizione di tutto il territorio nazionale in zone o province inquisitoriali” (pp.683ss.). Primizie organizzative di quello che qui è chiamato “l’ufficio della fede”.

Ma l’imitazione del modello francese si può constatarla più largamente in libri firmati dallo stesso p.Mariano d’Alatri, come Eretici e inquisitori in Italia (dal duecento al quattrocento), voll.2, Istituto Storico Cappuccino, 1986-87); in cui è rilevante la sentenza che “L’Inquisizione è una pagina della storia della Chiesa; ma essa costituisce forse, addirittura un capitolo della storia della civiltà occidentale”. Vedremo quanto ciò sia purtroppo verificabile. Odierni prodotti cattolici minori possono indicarsi nel libello-saggio di J.P.Dedieu, L’Inquisizione (1987, tr.it. ed. Paoline 1990), che rivendica “una visione da storico”, revisionando la “leggenda nera” del-l’inquisizione; o capitoli ripetitivi come quello di F.Pappalardo, “Lo scandalo del-l’Inquisizione”, nella raccolta collettanea citata, a cura di F.Cardini, Processi alla Chiesa (Piemme 1994). Un esteso indirizzo di “revisionismo” cattolico ha in genere puntato, più difficilmente, sulla Storia dell’inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, come il libro collettaneo francese diretto da B. Bennassar (1979, tr.it. Rizzoli 1980); ma preferibilmente sulla tarda inquisizione contro-riformistica “romana”, come i testi dell’italo-americano John Tedeschi, per es. Il giudice e l’eretico. Studi sull’inquisizione romana, recentemente tradotto (Vita e Pensiero 1997).

Così che pure il vaticanista “laico” dell’“Espresso” (18/6/1998), Sandro Magister, mettendo a frutto come altri il suo mestiere ambiguo, a cavallo fra critica e propaganda clericale, raccoglieva le enfatizzazioni mistificanti dei fogli cattolici, che hanno azzardato a parlare finanche di “rivoluzione copernicana” negli studi sull’inquisi-zione ecclesiastica, e a esporre con soddisfazione e gaudio onanistico i pretesi nuovi dati più recenti sui processati e condannati dell’inquisizione spagnola, anti-ebraica e anti-musulmana, fra XVI e XVIII secolo. Solo 44.000 processati, appena 11.000 condannati, di cui 820 giustiziati cioè mandati al rogo, nemmeno l’1,9 per cento, una miseria che smaschera la colossale speculazione anti-ecclesiastica otto-novecente-sca! Nella inquisizione romana anti-protestantica poi, nel medesimo periodo – lo riferisce Tedeschi, non so su quale calcolo –, dal “sacro tribunale” furono decise solo 97 condanne a morte, un’attività davvero fallimentare! Questi ineffabili storici e pubblicisti cristiani non sembrano minimamente chiedersi che colpe reali avevano, senon di opinione o di pretesa “stregoneria”, quegli uomini e quelle donne, per essere coinvolti a migliaia nello spaventoso sistema inquisitorio ecclesiastico, sempre minaccioso e incombente, e per subire condanne le più diverse, comunque angoscianti, dolorose e infamanti.

Nessuno si accorge della relativa coordinazione istituzionale di tali “rivelazioni” studiose, fra le quali si registrano, a proposito di inquisizione romana, tanto prudente e ponderata e normativa, anche libri come Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma di G.Romeo (Sansoni1990), su cui avremo occasione di ritorno, nella parte terza, in tema di caccia alle streghe, di esorcismi ecc. Si direbbe una nobile gara se non all’assoluzione alla ridimensione dell’immagine pubblica della santa giustizia cattolica Si arriva a esprimere lieta sorpresa cristiana, perché una gentildonna ebrea a nome Anna Foa avrebbe scoperto che “dal punto di vista giuridico non vi sono dubbi che il processo a Bruno [inquisito per otto anni, la cui atroce storia e la sua eroica e tragica fine sul rogo sono arcinote] si sia svolto nel più rigoroso rispetto delle norme, senza abusi o volontà precostituite di condanna. Il tribunale non nega a Bruno nessuna possibilità di difesa. Si ha addirittura l’impressione che facesse di tutto per ottenere da lui una ritrattazione, e quindi salvarlo”. “Non solo – riferisce Magister senza vergogna – Anna Foa si chiede, in conclusione, ‘se gli inquisitori non fossero partecipi ben più di Bruno, in quell’inizio del XVII secolo, di una mentalità moderna’”. Non conosco e non leggerò questo ennesimo Giordano Bruno (Il Mulino 1998), ma vorrei chiedere  all’autrice se lei consentirebbe che altri usi criteri analoghi ai suoi, nella “revisione” storica dei genocidi di ebrei. fra l’altro della stessa Inquisizione.

Ma intanto, nel libro collettaneo citato Storia dell’Inquisizione spagnola, documentato e spesso di una onesta intelligenza, rilevo dati e punti di vista interessanti, anche sotto un profilo generale. D.Peyre parla di “politica della presenza”, s’intende del potere ecclesiastico e monarchico, nel senso del “controllo politico e sociale” (pp.41ss.), scrivendo fra l’altro che per questo il “Santo Uffizio” mirava in Spagna al controllo totale di ogni “categoria sociale” e dell’intero territorio, vi sia riuscito o meno. Bennassar poi tratta espressamente di una “Pedagogia della paura”, rifacendosi a valutazioni del citato canonista Peña, per il quale il nobile scopo reale dei processi e delle condanne non era la dichiarata “salvezza dell’anima” del reo presunto, ma quello di “terrorizzare il popolo”, E Bennassar commenta: “E’ vero: per tre secoli, l’Inquisizione ha dominato mediante la paura. L’ordine che ha ispirato era la misura stessa della paura. Gli inquisitori più coscienziosi si sono augurati di ottenere questo risultato: la paura doveva innalzare il più insormontabile degli ostacoli sui sentieri dell’eresia” (p.95).

Non importano le attenuazioni, che riguardano le ovvie somiglianze con le procedure ordinarie d’epoca, e le concordanze d’interessi dei poteri politico-religiosi, che per noi erano scontati all’origine, nell’organizzazione ecclesiastica e in quella della monarchia cattolica spagnola. Perciò non importa affatto che l’inquisizione ecclesiastica sia stata sfruttata massimamente dalla monarchia, com’è nella logica del potere, e come insiste con vano fervore Bennassar anche alla fine (pp.325ss.). Essa fu sempre inquisizione ecclesiastica, una istituzione accurata e complessa programmata e controllata dal “Santo Uffizio”, e tanto peggio se fu asservita a prevalenti interessi politici monarchici, convergenti con quelli pontifici.

Ma qui interessano molto più le conclusioni oneste dello storico cattolico Bennassar, su tale capitolo fondamentale dell’inquisizione spagnola, riassunta nei seguenti dati: la quasi totale occupazione territoriale, la rete di collaboratori e di informatori, hanno assicurato, per almeno due secoli, un controllo sociale perfetto, rafforzato dal prestigio dell’istituzione e dal sacro terrore che essa ispirava, poiché il prestigio e il terrore suscitavano spesso le confessioni spontanee e la delazione, protette qui come altrove dal segreto delle testimonianze” (p.341). Per cui “pensare è diventato pericoloso e migliaia di spagnoli l’hanno imparato a proprie spese” (p.344). Ma ancora di rilievo maggiore è la conclusione etico-culturale che ne trae: “Il peccato contro lo spirito non si limita a questo soffocamento della riflessione creatrice. E’ anche di natura religiosa. La Chiesa cattolica del Rinascimento, poi il Concilio di Trento hanno affermato contro Lutero il libero arbitrio dell’uomo, la maggiore libertà dell’uo-mo, quella di salvarsi o di perdersi, per l’eternità. L’Inquisizione, componendo un unico modello di fede, sottoponendo ogni individuo alla sorveglianza permanente di un’opinione pubblica condizionata, ha distrutto le possibilità autentiche di esercitare il libero arbitrio, ha fatto morire in Spagna l’idea stessa della libertà religiosa” (pp.344-45).

Si deve a B. e L. Bennassar pure la ricostruzione di un’altra storia quasi inedita, quella dei cristiani convertiti all’Islàm (circa 300.000), volontari o costretti in prigionia (ma con lusinghe), e colpiti dalle Inquisizioni spagnola, portoghese e veneziana, in 1550 processi fra XVI e XVII secolo, una inezia trascurabile (I cristiani di Allah, tr.it. Rizzoli 1991). Qui si ha la non-sorpresa – per quanto ci riguarda – di avere conferma che “la società musulmana dell’epoca è molto più aperta e accogliente di quella cristiana” (p.15): ma perché parlare ancora di “società”, per nascondere che si tratta sempre di gerarchie e “autorità” politico-religiose, e insomma della solita atroce ecclesia inquisitoria e giudiziale, che li condanna quei “convertiti” come “apostati” e “rinnegati”?

Ma si direbbe che il vero punto di forza dei “revisionisti” cattolici sia il ponderoso libro di G.Prosperi, Tribunali della coscienza, edito da Einaudi nel 1996, pluri-citato pure dai pubblicisti cattolici, è difficile capire perché, essendo un’opera seriamente lavorata e costrutta di uno storico di mestiere; ma la spiegazione di superficie può trovarsi nella prima parte del libro, intitolata “L’Inquisizione”, in parte debitamente fraintesa o amplificata, profittando delle ambiguità del testo. Lo storico Prosperi sembra affrontare la storia della chiesa nell’età moderna, come se questa fosse un qualunque stato moderno, e infatti parla di “Stato della Chiesa”, e addirittura curiosamente di “agenzie” all’americana (agency), per le sue istituzioni storiche fondamentali come appunto l’inquisizione e la propaganda missionaria, che lui dice paradossalmente “incaricate della conquista culturale” (p.XVIII): conquista di quale cul-tura? E’ una sorta di promozione storica della chiesa contro-riformistica a organizzazione moderna, che non può nemmeno integrare metodologie pragmatiche di azione tradizionali, senon sotto il profilo e le prassi organizzative della conservazione proterva e della concreta applicazione resa in parte flessibile nelle situazioni reali: promozione moderna che però sicuramente resta impropria e finanche stridente sotto il profilo essenziale dei contenuti etico-religiosi dogmatici, e quindi della “cultura” più anacronistica.

Quindi insistere sulla presenza dominante, ancora egemonica della chiesa nella “Italia moderna”, aldilà del fondamento storico avalla l’idea di una sottintesa o sospettabile equivalenza della “Italia moderna” con una “chiesa moderna” Ma al contrario fornisce le motivazioni storiche della assai tardiva e stenta modernizzazione secolare nella lungamente disarticolata nazione italiana. La generale arretratezza della società italiana è il prodotto storico di quella divisione, prolungata dalla politica pontificia, che ha perpetuato fino a ieri e fino a oggi questa antica e sempre attiva e appropriativa e invadente e ancora minacciosa “presenza” politico-religiosa. “Tri-bunali della coscienza”? “Conquiste di coscienze”, che non comporterebbero solo prepotere inquisitorio ma anche “persuasione”? Lo storico trascura, per grave sotto-valutazione, che non si tratta del difficile governo di uno stato moderno, ma si parla della chiesa cristiana, di una potente e capillare organizzazione millenaria, auto-pre-posta alla gestione magico-suggestiva di mistificate “verità” etico-religiose, che investono non solo gli interessi economici e i diritti civili, ma l’intera esistenza e il “destino” dell’uomo. E nelle cui operazioni realizzative predomina dalle origini la suscitazione irrazionale della “paura”, della illusione, della speranza, e per questo ovviamente della più facile “persuasione” emotiva, e del controllo reale delle “co-scienze”.  Sarebbe questa una “conquista culturale”?

Ma questo è l’originario fondamento (“arcaico”) di ogni religione, e nella chiesa cattolica con la più larga invasività e possessione “coscienziale”: è solo questo che spiega la sua durata che sconfina oltre gli imperi e i tracolli del suo stesso imperialismo politico, la sua perpetuazione illimitata sul dolore e il terrore sempre alimentati, sull'illusione e la speranza sempre risuscitate, dell’uomo solo: la cui “coscienza” si vuole eteronoma, irresponsabile, dipendente da quelle sovrane “autorità” (obbedienza, umiltà ecc.) e dalle loro “agenzie” strumentali. Ecco la pretesa “nuova inquisizione” dunque, quella contro-riformistica romana (pontificia), quindi e comunque storicamente e direi geograficamente delimitata, ma comprendente pure la famigerata “caccia alle streghe” europea. Non interessa qui seguire lo storico nelle sue continue accortezze revisionistiche, con cui molto probabilmente, movendo da intenti storiografici con attenzione alla realtà storica molteplice, relativamente diversificata nel tempo e nello spazio, non si rende però conto di prestarsi (anche fuori di questo libro, in articoli come quello citato e ricitato dai pubblicisti cattolici, “L’inquisizione? verso una nuova immagine”, in “Critica storica”, n.25 1988) a speculazioni ecclesiastiche e comunque clericali, pure volgari.

Quale “nuova immagine” può sortire da una infamia sistematica totale, organizzata e gestita per secoli dalla chiesa cattolica, per sua aberrazione fondativa originaria, di proporsi cioè come religione unica e vera, nel senso più esclusivo e impositivo, con l’unica “conquista” demonicamente ossessiva dei pretesi poteri “soprannaturali” (“divini”), e realmente politico-amministrativi, polizieschi e giudiziali, per l’e-sercizio della più dispotica e tetra “autorità” di oppressione dell’uomo? Si potrebbe chiedere cosa vuole salvare o riscattare lo storico Prosperi, cattedrato di “storia moderna” nella tradizionalmente laica università di Pisa: il moderno “Stato della Chiesa” contro-riformistico, a beneficio di questa ecclesia disonorata nei millenni, e per “l’eterno”? Cosa può dimostrare col sottotitolo “La crudele Inquisizione”, poi in parte smentito dal testo che ne corregge la tradizionale interpretazione “liberale e democratica”, con l’interrogativo retorico interno: “lo era veramente?” (pp.155ss.), e la risposta assai malfondata che erano più crudeli i tribunali ordinari d’epoca? Risposta isolata e carpita dai miseri militanti cattolici, ma già nella tradizione della loro propaganda ecclesiastica, in un auto-confronto vergognoso nel solo pronunciarlo, da parte di falsi detentori di “poteri spirituali”, distinti e contrapposti alla violenza reale del loro stesso “potere temporale”.

Ma se si fa attenzione, questa speculazione ecclesiastica è pure denunciata dallo storico nel medesimo contesto da cui è estratto quel confronto: “In realtà, le cose andavano molto diversamente da come quell’immagine di facciata voleva far credere. Da un lato, sul piano pratico, le autorità dell’Inquisizione non lasciarono mai niente di intentato per ottenere che gli eretici scomunicati venissero mandati a morire con la massima sollecitudine e nella maniera più clamorosa; dall’altro, la giurisprudenza inquisitoriale trattò esplicitamente la questione di come si potessero costringere vle autorità laiche a mandare a morte gli eretici”. Il ‘braccio secolare’ aveva una sua autonomia in materia, per cui non era infrequente il caso di sentenze di scomunica che tardavano a trasformarsi in condanne capitali. Ma la giurisprudenza inquisitoriale aveva le sue astuzie poliziesche: le autorità renitenti potevano sempre essere accusate di sospetta amicizia con gli eretici e sottoposte a loro volta a processo inquisitoriale” (pp.156-57).

In realtà Prosperi fa perlopiù opera di storico, e questo dovrebbe rappresentare la sua linea di novità relativa, descrivendo in opposizione con scrupolo puntiglioso i due punti di vista antagonistici, le denunce particolareggiate delle atrocità subìte dalle vittime, i protestanti luterani e calvinisti anche italiani come Fanino Fanini qui citato, e le tetragone difese ecclesiastiche. Infatti, “dinanzi a questo fuoco di fila di accuse l’ostinazione inquisitoriale appare inflessibile e come arroccata nelle sue certezze” (p.158). Con “equilibrio” o equilibrismo quindi Prosperi descrive i pubblici spettacoli dell’orrore e del macabro, della cui regìa l’ecclesia si compiace, ai suoi santi fini “pedagogici” della paura persuasiva: “così come i tribunali criminali del-l’epoca,, quello dell’Inquisizione credeva necessario sfruttare al massimo lo spettacolo dei corpi martoriati e bruciati per spaventare e dissuadere. Per questo poteva servire non solo l’esecuzione capitale, ma anche la scena della pubblica abiura”. E’ falso che a Roma questo non si facesse: “Il gusto tutto spagnolo della ‘processione d’ignominia’, come momento essenziale di una religione militante capace di unire saldamente la società, trovò in Italia echi favorevoli solo nei rituali romani” (p.170). Sì, e “lo scenario doveva essere imponente e terribile” (p.172).

Seguono “imparzialmente” le giustificazioni ecclesiastiche, raccolte nell’esibizione delle stesse sentenze, l’istituzionale, connaturale, raccapricciante ipocrisia del sacro dovere da compiere, per mandato e alto esempio di Paolo apostolo (San Paulo), per debellare, punire, cancellare gli eretici seminatori di divisioni, di disordine e di scandalo nell’unità dell’eletto popolo cristiano, governato vigilato, posseduto e difeso dall’ecclesia divina. Anche questo capitolo dunque, di cui si profitta con la medesima malafede clericale della gerarchia ispiratrice, appare complessivamente fintroppo bilanciato, per una caratterizzazione storica a più dimensioni, sebbene graviti dichiaratamente sui temi della “coscienza”, di cui si colma la più ampia parte seconda, “La confessione”. Che solo per istupidimento fideistico può ritenersi una correzione riparatrice delle denunce orrifiche otto-novecentesche, mentre procura non minore raccapriccio.

Quello che suscita una tortura forse più crudele, anzi una prolungata azione-tortura “morale”, “mentale”, “coscienziale” sul malcapitato “peccato- re” mortale, colpito da inquisizione: oltre che per estorcere confessioni, per svilirlo, mortificarlo, con-vincerlo impositiviamente di “colpevolezza”, e della colpa più grave, l’eresia, contro il Dio Padre, il Dio Figlio e lo Spirito Santo, contro l’ecclesia santa e il suo divino ordinamento, e altre mistificazioni simili. Con l’intento insomma di schiacciare l’uomo, a cui si nega il libero arbitrio in materia religiosa, sotto il peso di tale colpa mortale, sempre nella tradizionale e antica annichilazione anti-umanistica. Non seguo il percorso attento, apparentemente il più documentato, dell’ampia trattazione di Prosperi, e piuttosto torno per informazione e per istruzione cristiana al Manuale dell’inquisitore, pure così manipolato e ridotto, elencando dall’indice la studiatissima sequenza dei tredici “verdetti e sentenze”, a conclusione del laborioso “proce-dimento”:

“Primo verdetto: l’assoluzione. Secondo verdetto: l’espiazione o purgazione canonica. Terzo verdetto: la tortura. Quarto verdetto: l’abiura per debole sospetto. Istruzione perfettamente dettagliata sulla tortura. Quinto verdetto: abiura da forte sospetto. Modello di abiura di eresia nel caso di forte sospetto. Sesto verdetto: abiura da sospetto violento. Settimo verdetto: espiazione canonica e abiura. Ottavo verdetto: abiura di un eretico penitente. Nono verdetto: il penitente relapso. Decimo verdetto: condanna di un eretico impenitente e non relapso [cioè recidivo]. Undicesimo verdetto: condanna di un eretico impenitente e relapso. dodicesimo verdetto: condanna dell’eretico convinto di eresia ma non confesso. Tredicesimo verdetto: condanna per contumacia di un eretico in fuga”.

La casistica del “peccato” mortale, si sa, e specialmente di quello massimo di “ere-sia”, è oltremodo variaCome ho accennato, è completamente falso che le autorità civili avessero la guida delle operazioni inquisitorie e penali: è vero il contrario, che il giudizio e la condanna ecclesiastica erano preminenti e prioritari. E’ vero invece che le autorità civili non potevano sottrarsi alle obbligazioni assunte in materia di eresia, senza subirne esse le conseguenze anche penali, come attestano i manuali degli inquisitori. Le autorità locali erano obbligate a concorrere all’inquisizione, co-me si legge nel citato Manuale, devotamente curato da cattolici: “Considerato che spetta a tutti coloro che sono nati alla vera vita con l’acqua del battesimo, e in particolare ai signori temporali, prìncipi, nobili, consiglieri ecc., aiutare secondo i loro poteri la Chiesa cattolica a estirpare l’eresia, e che spetta a loro prestare giuramento quando ne vengano all’uopo richiesti dal vescovo o dall’inquisitore, se vogliono evitare di subire le molteplici e gravi pene che sono state previste in caso di rifiuto”.

Sempre con le buone maniere dello “spirito” e con la “persuasione” più sorrisa, il Manuale dell’inquisitore prosegue: “In virtù dell’autorità apostolica che noi deteniamo in questo luogo, noi chiediamo a voi tutti nominati, vi esortiamo in virtù della santa obbedienza e, sotto le pene previste dal diritto, vi ordiniamo di presentarvi entro itre giorni seguenti a partire da oggi, ogni giorno valendo come un’ingiunzione, personalmente nel luogo tale, davanti a noi, al fine di prestare giuramento con la mano sui santi vangeli e di promettere di assistere in ogni cosa l’inquisitore, di applicare tutte le regole canoniche contro gli eretici, i loro difensori, i loro figli e i loro nipoti. Se non comparirete entro questo tempo sarete scomunicati in quanto ribelli, contumaci e disobbedienti ai nostri ordini, che sono ordini del papa. E sappiate che, se in qualsiasi modo vi opporrete a questa pena, ve ne infliggeremo di più gravi” (pp.115-16).

E.Le Roy Ladurie ha profittato di una documentazione eccezionale pubblicata da J.Duvernoy, del voluminoso manoscritto latino che registra gli interrogatori di Jacques Fournier, vescovo di Pamiers dal 1317 al 1326, futuro papa avignonese Benedetto XII, implacabile e meticoloso cacciatore di eretici catari, nella Francia del sud di lingua e cultura occitanico. Sono interrogatori di contadini, fatti da un uomo, un vescovo che lo storico del College de France definisce “inquisitore diocesano di un formidabile tribunale dell’Inquisizione” (Storia di un paese: Montaillou, 1975, tr.it. Rizzoli 1991, p.9):un tipico inquisitore medioevale, conduttore come molti altri di “processi ossessivi, maniacali e competenti, contro i sospetti di ogni tipo” (p.8). Si noti bene che l’Inquisizione qui registrata operava in una piccola località sperduta sui monti, Montaillou, sita sui Pirenei a 1800 metri di altezza, che contava 250 abitanti di livello umile, quasi tutti contadini e pastori. Una comunità “oppressa da un clero dominatore e dal clan tirannico dei Clergue”, i ricchi del paese (pp.67ss.): sospettato rifugio di Albigesi, perseguiti dunque fino in cima alle montagne, pure dopo la guerra-massacro ventennale, era perciò sede incredibile di un esemplare tribunale dell’inquisizione vescovile. Indipendentemente dallo studio etno-storico che ne ha composto l’autore, e senza entrare quindi nei dettagli delle sue risultanze, a noi basti tale dato di esemplarità ancora raccapricciante, di un episodio apparentemente marginale che conferma l’organizzazione capillare della macchina poliziesca e giudiziale, allora affidata alle iniziative vescovili, ma sempre coordinata dal centro della cristianità ecclesiale.

Per la fase contro-riformistica invece vorrei citare brevemente un altro libro, di Brian Pullan, Gli ebrei d’Europa e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670 (1983, tr.it. Il Veltro 1985), che mostra dall’inizio come l’accordo d’interessi fra potere ecclesiastico e potere civile portava a escogitare una sorta di fusione istituzionale, come appunto a Venezia: “Per decreto del Doge e dei suoi consiglieri, il 22 aprile del 1547 la Repubblica di Venezia si ingegnò di conferire nuovo vigore ad un’istitu-zione antica. Tre patrizi veneziani, descritti come uomini riservati e cattolici integri, dovevano unirsi al legato pontificio, al Patriarca di Venezia e all’Inquisitore Francescano nella comune impresa di perseguire e punire l’eresia” (p.17). Un organo misto dunque, motivato per la chiesa da uno scopo specifico in una situazione particolare, “quello di garantire la supremazia della religione cattolica in una città dove per vantaggio economico o per ragion di stato altri credi erano tollerati” (p.19). Il passaggio dalla tolleranza pluri-confessionale all’intolleranza cattolica, per Venezia invece fu una risoluzione politica determinata dal fallimento dei suoi tentativi di accordo coi monarchi e i principi europei in senso deltutto opposto, di farsi “protettrice della religione riformata” (pp.19-20)! La “spiritualità” della fede presiede sempre alle bassezze della politica.

Ma infine ritengo sia da abbordare l’altra letteratura, le più serie fra le opere di denuncia, che più interessano qui, e che i libellisti chiesastici fanno credere siano “superate”, vediamo sùbito perché. Ovviamente trascuro le più vecchie istorie ottocentesche anche ampie, come la Storia critica della Inquisizione in Spagna, di G.A.Llorente (1817, “compendiata in lingua italiana” in sei volumi, ed. Pagnoni 1860), di cui si riconosce ancora oggi l’importanza; e la Storia generale della Inquisizione di quel singolare e famoso prete, Pietro Tamburrini (1818, ed.Sanvito 1862, in due volumi che ancora si pubblicano in ristampa anastatica, Bastogi 1992), persuaso che “lo stabilimento della santa inquisizione e delle pene con le quali puniva gli eretici ed i sospetti di esserlo sono contrarie allo spirito di tolleranza, di dolcezza, edi carità dal suo divino fondatore impresso alla nostra santa religione” (p.16)!

Il nostro interesse si accentra su un’opera centrale e in certo modo unica, la cui validità resiste ancora dopo un secolo, per riconoscimento vasto: la Storia dell’Inqui-sizione nel Medioevo dell’americano Henry Ch.Lea, che aspparve a Londra in tre grossi volumi nel 1888, relativamente presto tradotta in francese, edita da Picard fra il 1900-1902, ma ancora inedita integralmente in Italia. Bocca ne ha pubblicato il vol.I (“Origine e organizzazione”) nel 1912, solo nel 1974 ristampato da Feltrinelli,  come libro di grande formato e con testo a due colonne. Ci mancano dunque due volumi della sua prima opera: II. “L’Inquisizione nei diversi paesi della cristianità; III. Fasi particolari dell’attività inquisitoriale. Pure inedita è la sua Storia della Inquisizione di Spagna, edita in quattro volumi a New York (1906-7). Altri libri di Lea invece circolano in Italia nel secolo XX sono quello corposo intitolato Forza e superstizione, e che è una “storia delle torture e superstizioni legali in Europa”, tradotta in Italia per la Soc.Editrice Pontremolese nel 1910, e riedita in rist.an. da Melita nel 1989; e Il processo ai Templari e altri roghi, che è solo una parte del vol.III della Storia dell’Inquisizione nel Medioevo (Celuc 1982). Da registrare che Lea, scomparso all’inizio del 900 (1909), fu pure autore di una Storia della confessione auricolare e dell’indulgenza, in tre volumi (1896).

Lea procede giustamente dal contesto, dalla situazione ecclesiale nel XII secolo e suttutto dalla corruzione ecclesiastica, su cui riporta testimonianze convincenti, trattandosi di impressionanti denunce ecclesiastiche, a cominciare dal “grande” Bernardo: “Potete indicarmi un solo vescovo che non vuoti le tasche delle sue greggi piuttosto che guarire dei loro vizi?”.(cit. Lea, p.28). Ma lui incorreva in vizi più gravi d’intolleranza, come si è visto, e viene il dubbio che questi lamenti volessero essere un alibi autorizzante per la loro pratica inquisitoria, giacché – come è noto – molte “eresie” popolari, e quelle riassunte nella qualificazione di “catari” espressamente, erano realmente originate da reazioni di rivolta contro il clero simoniaco e corrotto. Lea ne rifà qui la storia documentata, sinteticamente ma efficacemente, marcandone proprio il carattere “anti-sacerdotale”, il loro rifiuto della chiesa di Roma, “sinagoga di Satana” (p.49), il loro proselitismo missionario e la loro ricerca del martirio, la loro diffusione in Europa, specialmente nella Francia meridionale. Anche Lea riteneva che la chiesa nel XII secolo fu inizialmente “impotente” dinanzi allo sviluppo dell’eresia catara e, dopo il fallimento della crociata del 1181, perfino forzatamente “tollerante”, ma in termini valutativi assai diversi da quelli apologetici di Guiraud.

E qui vorrei fare un esempio dello sfruttamento disonesto che da parte dei libellisti cattolici si fa di queste o simili parziali e motivate ammissioni di Lea, come di altri storici, estraendo frasi e semifrasi dal contesto. Se lo storico scriveva che per un po’ la chiesa impreparata fu costretta alla moderazione, e poi organizztasi incrudelì nell’inquisizione di cui il testo tratta, per assunzione tematica eclatante, si cita come asserto centrale e unico il lacerto positivo decontestuato, come dichiarazione generale: la chiesa fu tollerante e moderata. Così – ripeto – non solo i libellisti dell’apologetica, ma anche uno storico di mestiere, sia pure devoto, come il sorbonico Guiraud, che con i libri di Lea polemizzava ma ne sfruttava le pieghe utili al suo “revisionismo” pseudo-storico.

Qui invece segue immediatamente un ampio capitolo su “Le crociate albigesi”, che ebbero protagonista scatenato Innocenzo III (pp.67ss.), al quale fa seguito “La persecuzione” inquisitoriale organizzata e continuata (pp.107ss.). Per cui Lea però risaliva opportunamente alle origini, alla “semplicità” dell’inquisizione dei primi secoli, alla persecuzione istituzionalizzata nell’“impero cristiano”, da Costantino ai Teodosio, quando “la Chiesa adotta la pena di morte contro l’eresia” (p.109). Lea pareva mettere generalmente in rilievo come la linea politica della “spirituale” ecclesia sia sempre stata quella di negare evangelicamente la violenza, di esibire un’antica riluttanza e comunque grandi scrupoli morali, delegando la repressione al “potere temporale”, mentre era e fu sempre essa (la sua gerarchia vescovile) a determinare e a pretendere le persecuzioni anti-eretiche, a cui era massimamente interessata, a difesa non certo del Cristo o della “Fede”, ma del proprio potere reale.

Come si è letto nel Manuale dell’inquisitore, fu sempre la chiesa a fare obbligo all’autorità civile, a pena di scomuniche per coinvolgimento e complicità nella medesima eresia, e nelle “pene spaventose che le erano annesse, in questo mondo e nell’altro” (p.118), di eseguire i suoi verdetti di condanna (Lea pp.115ss.).Lea cita in particolare i “crudeli editti” e decreti contro l’eresia, di Federico II accogliente obbligato. E qui bisogna dire che, se è vero che il giovane Federico, per essere coronato dal papa imperatore a Roma, dovette sottostare alle imposizioni papali, e quindi emise i terribili decreti, ma Lea non diceva che essi riproducevano i canoni del precedente concilio Laterano del 1216, voluto dal crociato Innocenzo III: con disposizioni che risalivano addirittura ai codici imperiali di Teodosio e di Giustiniano (v. V.La Mantia, Origini e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio 1977, pp. 9ss.). Comunque è certo che così, “tacitamente o espressamente, questi princìpi entravano a far parte del diritto pubblico europeo” (p.106). La conseguenza storica che se ne trae è la conferma che fu sempre la chiesa la “mente” divina e sovrana di quel “brac-cio” secolare così profano e così utile ai suoi scopi, come dimostrano le insistenti obbligazioni, così imperative, e le severe ritorsioni minacciate fino nel diritto canonico.

E’ dunque confermato quanto sia falso che la chiesa operava normalmente per richiesta sollecitante dei regnanti o delle autorità “civili”, come è falso che le procedure dell’Inquisizione ecclesiastica siano state “ispirate” e istigate dai tribunali statali. Ripeto, al contrario ebbe sempre la chiesa (i suoi vescovi) l’iniziativa “spirituale”, in una materia di sua competenza specifica esclusiva, e fu semmai l’organizzazione ecclesiastica dell’Inquisizione a fornire modelli repressivi anche alle amministrazioni della giustizia nelle monarchie europee. “Di tutti i flagelli che l’Inquisizione riuscì a scatenare o si trasse dietro al suo carro trionfale, questo fu forse il peggiore; nella maggior parte dell’Europa, incominciando dagli inizi dell’Inquisizione e scendendo sino alla fine del secolo XVIII, la procedura inquisitoriale, sviluppatasi allo scopo di distruggere l’eresia, divenne il metodo ordinario di cui le autorità civili si servivano di fronte ad ogni genere di accusati”(p.300).

Col senso dell’eterno così peculiare della chiesa cattolica, la persecuzione ecclesiastica fu estesa finanche ai defunti (pp.119ss.). Da qui in avanti, per oltre la metà del grosso volume, Lea descriveva la fondazione e l’organizzazione e le fasi procedurali (la prova, la difesa, la sentenza, la confisca, il rogo), che sarebbe assai interessante rievocare tecnicamente, se non eccedesse i nostri temi storico-religiosi generali. Mi limito a ribadire, a proposito delle condanne alla confisca dei beni e al rogo, che la sconfinata ipocrisia rituale della chiesa e delle sue gerarchie, deltutto consentanea a un sistema di rappresentazione scenica, aduso all’impostura, alla falsificazione, al mendacio e alla finzione “affindibene”, prevedeva la recita del ruolo tragico-farsesco della “estraneità” alla violenza. Questo, dopo avere pronunciato essa la condanna, e pretendendone minacciosamente la più rigorosa e sollecita applicazione, dal potere civile degradato a “braccio secolare” (pp.287ss.): mentre cioè esercitava, appellandosi allo “Spirito”, la violenza autoritaria d’imporre la sua “ortodossia”.

“Abbiamo già visto come la Chiesa fosse responsabile della legislazione feroce che puniva l’eresia con la pena di morte, e come intervenisse con atti d’autorità, per annullare ogni legge civile che potesse opporre ostacolo all’applicazione pronta ed efficace della pena. Così pretendeva anche delle misure assai severe contro quei magistrati che le sembrava dessero prova di tiepidezza e di trascuratezza nell’esecuzione delle sentenze emanate dall’Inquisizione. Secondo la credenza unanime del tempo, [inculcata dal clero], la Chiesa agendo in tal modo non faceva altro che compiere i suoi doveri più elevati e più evidenti. Bonifacio VIII, quando incorporò nel diritto canonico il provvedimento col quale si ingiungeva alle autorità civili, sotto pena di scomunica, di punire prontamente e giustamente tutti coloro che venissero consegnati dagli inquisitori, non faceva che formulare una pratica allora universale” (p.288).

In questo senso, anche per ciò che riguarda la fase più tarda dell’Inquisizione contro-riformistica “romana”, che comprese l’orrenda caccia alle streghe, e di cui oggi storici e libellisti cattolici si affannano a precisare e descrivere la parvente “modera-zione”, nonché la regolistica osservanza delle procedure che essa stessa si è data, in realtà tutto resta nella tradizione, coi “perfezionamenti” apportati nel tempo. Specialmente nella fondamentale tattica e tecnica dell’interrogatorio, per ottenere comunque la voluta “confessione spontanea”, assistita dal “Santo Spirito” come era impossibile negli ordinari procedimenti polizieschi. Si deve ora fare conto e si può fare confronto con un’altra recente opera italiana, del giudice Romano Canosa, Storia dell’Inquisizione in Italia (“dalla metà del cinquecento alla fine del settecento”), in cinque volumi (Sapere 2000, 1986-90), che ha sfruttato archivi – quando resi accessibili – di Modena (vol.I), Venezia (vol.II), Torino e Genova (vol.III), Milano e Firenze (vol.IV), Napoli e Bologna (vol.V). Canosa è pure autore di una Storia del-l’Inquisizione spagnola in Italia (Sapere 2000, 1992), necessariamente limitata ai tribunali di Sicilia e Sardegna.

Quella complessivamente ri-evocata in questi volumi, su una documentazione aggiornata, da un giudice di mestiere (che vive e opera a Milano, autore di altre opere storiche, con predilezione cinque-seicentesca), competente in materia processuale, è appunto la storia della cosiddetta e falsa “Inquisizione moderna” (“contro il ‘vomito’ luterano”!), che si è modellata su quella esemplare spagnola, allestita a metà del cinquecento, centralizzata e gestita a Roma dal sempre “Santo Uffizio” cardinalizio, che vi era preposto con attiva partecipazione papale. Organizzazione “romana” che ebbe la più lunga durata fino a tutto il settecento: Canosa, laico ponderato, lo chiama “tribunale della fede”, e lo studia e descrive tecnicamente come un qualunque tribunale d’epoca, da cui proceduralmente non differiva molto, solo che criminalizzava le “coscienze”! Lo storico contribuisce scientemente alla “revisione” normalizzante, confermando che gli inquisitori non erano “mostri”, erano “uomini” (in tonaca) più o meno come tutti i giudici anche “moderni”, con tutte le accortezze, le astuzie, le crudeltà mentali, le nevrosi di tutti i giudici. Ma il fatto è che l’organizzazione al cui interno e al cui servizio operavano, esercitava di fatto, esercitò per secoli, un “con-trollo minuzioso sulle coscienze”, “tutto subordinando alla corrispondenza fra pensiero individuale e imperativi dell’ortodossia religiosa ufficiale” (Storia dell’Inquisi-zione spagnola in Italia, p.293). Tutto qui.

Anche Canosa, che pure ostenta di volersi porre aldiquà dei giustificati “eccessi” di scandalo dei laici otto-novecenteschi, non può quindi che confermare, in linea generale, quanto era già noto. La conclusione sulla inquisizione contro-riformistica, “equilibrata”, “realistica” ecc., sotto un certo profilo è perfino più cupa, per l’analo-gia diretta con i regimi totalitari, che Canosa non osa proporre, ma che si desume dalla sua caratterizzazione “ideologica” e strutturale. Per Canosa, “l’Inquisizione ‘romana’, dal momento della sua istituzione sino alla fine del Settecento, ebbe tutte le caratteristiche di una ‘polizia’ ideologica al servizio della Chiesa”. E prosegue: “Essa si vide affidati compiti non dissimili da quelli che negli stati sono di solito assegnati alla polizia ‘politica’, vale a dire a quella particolare branca della polizia che si occupa di vigilare sulla sicurezza dello stato e dei fondamenti primari del suo ordinamento. Sotto questo aspetto essa anticipò addirittura gli stati, i quali arrivarono ad istituire e a ‘razionalizzare’ la loro polizia politica soltanto molto più tardi (la più antica di queste, quella veneziana degli Inquisitori di Stato, vide infatti la luce soltanto alla fine del Cinquecento). Come la polizia politica ‘laica’ fu chiamata a vegliare sulle basi essenziali dello stato, così quella ecclesiastica fu chiamata ad operare affinché non fossero da nessuno negati i princìpi essenziali sui quali si fondava la religione cattolica romana, princìpi di vario tipo e natura, ma tutti caratterizzati, agli occhi di Roma, dalla loro indispensabilità per la conservazione della Chiesa” (vol.V, pp.257-58).

Ma in questa parificazione insistita è in grave errore, poiché non rileva che quella qui largamente descritta come “Inquisizione” romana non aveva affatto i caratteri ordinari di una moderna polizia di stato, preposta alla tutela dell’ordine pubblico e alla repressione della criminalità comune, o sia pure dei tentativi di “sovversione” sociale. L’Inquisizione ecclesiastica ebbe sempre fino all’ultimo suo rantolo, con la sua ossessiva penalizzazione del “libero pensiero”, e la pretesa paranoica della “ortodossia” cattolica, i caratteri spiccati degli ordinamenti detti “totalitari”, i soli in cui i reati di opinione sono criminalizzati. Quella cattolica infatti è stata letteralmente una super-dittatura, e non solo “spirituale” ma appunto poliziesca, tanto più bieca e ripugnante perché la sua coazione investiva le “coscienze” e il destino dell’uomo, tanto più criminale perché la sua violenza istituzionale fu esercitata da altri uomini organizzati (da altri cristiani) contro le fondamentali libertà dell’uomo, non per la sua mistificata “salvezza” (oltremondana), ma per la sua schiavitù attuale e reale, a difesa politica di enormi concreti poteri auto-attribuiti come sovraumani per antica rapina.

Uno dei capitoli principali relativi all’attività dell’Inquisizione medioevale e “mo-derna” concerne gli ebrei, soggetti a trattamenti differenziati in Spagna e in Italia, e anche qui diversificati secondo condizioni e situazioni diverse, in una casistica com-plicata. Fra la immensa letteratura contemporanea, storica e pseudo-storica, pubblicistica e propagandistica, veramente fluviale, sull’ebraismo e sulla storia ebraica, sull’ultimo genocidio e sull’antisemitismo in Europa e nei vari paesi europei, in URSS ecc., prodotta generalmente da ebrei, mi soffermo su un recente libro contenente gli atti di un congresso tenuto a Livorno, promosso dalla comunità ebraica, sul tema L’Inquisizione e gli ebrei in Italia (Laterza 1994). A cura dello storico Michele Luzzati, raccoglie il frutto di ricerche storiche interessanti di numerosi altri storici, prevalentemente ma non solo italiani. E’ però proprio Luzzati, nelle sue scarne pagine introduttive, a fornire uno schizzo significativo sulla situazione degli ebrei in Italia e sulla persecuzione variegata che subirono, nelle prassi procedurali dei tribunali  ecclesiastici, in Spagna e in Portogallo e nei domìni spagnoli in Italia (Sicilia e Sardegna), quindi comparativamente negli altri stati italiani.

Occorre però rammentare prima la “peste nera” del 1348, descritta nel Decameron, che falcidiò le popolazioni europee, in quello che Poliakov ha chiamato “Il secolo del diavolo” (Storia dell’antisemitismo, tr.cit., vol.I, pp.116ss.): evento di cui furono accusati per “voce popolare” i giudei, senza considerare che anche gli ebrei morivano di peste come i cristiani. Lo ricordo perché bisogna mettere sempre nel quadro della storia ebraica i fomentati pregiudizi e l’odio sovreccitato (ovviamente dal clero), in tutta la storia del cristianesimo post-imperiale, diciamo da Costantino e oltre. Per Poliakov il 1348 è paragonabile, per le stragi di ebrei (con elezione speciale in Germania), al 1096 anno della prima crociata: infatti “le ripercussioni dell’epidemia furono di due specie: effetti immediati, consistenti nella decimazione degli ebrei in Europa, ed effetti remoti, cioè la compiuta maturazione dello specifico fenomeno rappresentato dall’antisemitismo cristiano” (p.117). La “peste nera” è l’evento  da cui partono alcune sintesi odierne sugli Ebrei in Europa, come quella recente di Anna Foa (Laterza 1992, 2^ 1999).

Luzzati dunque, parla anzitutto di una “secolare ambivalenza della Chiesa nei confronti degli ebrei”, ma comunque di un “soffocamento della libertà della cultura nel-l’età della Controriforma”, quasi fosse solo episodica o epocale e non millenaria, per egemonia strutturale ecclesiastica. In ogni caso definisce con moderazione l’attività inquisitoria come “l’azione della Chiesa indirizzata sia a contenere l’espansione degli insediamenti ebraici (istituzione dei ghetti, limitazioni professionali, pressioni conversionistiche ecc.), sia ad impedire il ritorno all’ebraismo dei convertiti e ad evitare il diffondersi fra i cristiani di pratiche e di idee religiose di impronta ebraica”(p.IX). Sono precisamente i temi centrali di questi studi, che moltiplicano le Inquisizioni come istituzioni diverse, in rapporto appunto al “diverso atteggiarsi dei tribunali e degli inquisitori nei diversi stati”. Interessa sapere che anche in Spagna l’ebreo non era giuridicamente perseguibile come tale, lo erano i veri e falsi convertiti (conversos), i cosiddetti “marrani”, i cristiani giudaizzanti, insomma le “multifor-me movenze di un giudaismo dai contorni assai sfumati, idee e sentimenti giudaici e adesioni, spesso soltanto di vaga ispirazione ebraica, al deismo e all’agnosticismo” (p.X).

Perché gli ebrei sparsi largamente nella diaspora millenaria avevano a loro volta atteggiamenti di gruppo e individuali assai diversi, e spesso dissimulati per condizionamento ambientale o coazione, come tanti cristiani delresto, obbligando a distinzioni e sofisticazioni o finzioni giuridiche gli inquisitori ostinati a perseguire le minoranze. Si aggiunga la rete d’interessi socio-economici, in cui gli ebrei in genere erano attivamente inseriti, pure a livelli professionali responsabili, per es. medici, detentori o di capitalizzazioni e redditi cospicui, socialmente e politicamente utili, che producevano relazioni di solidarietà e protezioni, anche ecclesiastiche, complicando le sante azioni inquisitorie a difesa della “fede”. In breve si verificavano paradossi spesso drammatici se non tragici, per cui in linea di principio la chiesa cattolica riconosceva “il diritto alla sopravvivenza del popolo ebraico e la conseguente possibile ammissibilità degli ebrei, pure in condizioni di inferiorità, in un contesto cristiano” (ivi).

In pratica però nel Medioevo e oltre, la gerarchia pontificia pretese di esercitare, mediante i suoi tribunali gestiti da domenicani e francescani, un controllo generale sull’ebraismo, sempre per garantire la sicurezza alla religione unica e vera, cioè alla grande chiesa davvero unica e purtroppo vera. Insomma erano perseguiti i cristiani giudaizzanti (ex giudei), convertiti ecc., sospettati di “credere” ancora in tutto o in parte nella blasfema Legge giudaica senon di praticarne i riti, di possedere e leggere il Talmud anziché bruciarlo, di avere riserve critiche nei confronti del cristianesimo e della sua chiesa. Come si è visto infatti, i quasi vantati “tribunali di coscienza” (an-che qui figura un capitolo di A.Prosperi sul “Santo Uffizio”) pretendevano di penetrare con ogni mezzo, con la “persuasione”, coi tranelli dialettici, con la tortura, nella mente dei malcapitati, di accertare frugando nelle “coscienze” la sincerità e solidità e costanza delle conversioni “spontanee” ecc.: si scomunicarono così anche degli ebrei conversi, specialmente nei paesi in cui  gli ebrei furono espulsi (Spagna e Portogallo, poi Sardegna e Sicilia, “dove era concentrata quasi la metà di tutti gli ebrei italiani”, p.XII), e non pochi ebrei si “convertirono” (o finsero) per restare nella loro nuova patria. “L’attenzione delle Inquisizioni moderne si rivolse principalmente a coloro che, considerati dalla Chiesa usciti dall’ebraismo a seguito del battesimo, per lo più forzato, erano sospettati di continuare in qualche modo ad aderirvi” (p.XI).

La pure succinta rassegna casistica di Luzzati, coi suoi vari distinguo politico-geo-grafici e procedurali, concorre a formare un quadro terrificante della “cristianità” capillarmente inquisitoria dei tribunali ecclesiastici del sospetto, in questi secoli in cui pure gli ebrei dichiarati e professanti erano altamente sospetti di favoreggiamento di eretici, e di sollecitazione dei conversi al ritorno all’ebraismo. Gli ebrei furono apparentemente cancellati come tali nella penisola iberica, nelle isole e nel-l’Italia del sud, con una persecuzione “atroce e spietata”. Canosa riporta ”, dal libro citato di La Mantia, con nomi e cognomi perlopiù di “neofiti giudaizzanti, che tra il 1511-13 in Sicilia vi furono 54 bruciati nei roghi dell’Inquisizione. A.Milano, nella sua Storia degli ebrei in Italia (Einaudi 1963, 1992, p.222), aveva calcolato in 40.000 gli ebrei costretti a lasciare l’isola dal bando reale; Canosa però propende per l’ipotesi che un certo numero di ebrei abbiano preferito restare convertendosi, essendo questa l’alternativa di salvezza (relativa) che era data alle loro ”coscienze” (L’inquisizione spagnola in Italia, pp.21ss.).

Si conferma che l’Inquisizione romana, operante nel centro-nord Italia, ebbe un “atteggiamento” e direi piuttosto una condotta procedurale più politicamente “mode-rata”, ma è proprio qui che la casistica inquisitoriale si complica, e l’indagine di “co-scienza” si fa più insidiosa, pressante e subdola nei confronti anche degli ebrei come tali, specialmente i transfughi provenienti dal sud, isolati nei ghetti e investiti col solito autoritarismo e anacronismo storico contro-riformistico di anti-cristianesimo e di influenze religiose nocive sui limpidi cristiani cattolici rinascimentali. Il mondo ebraico – ironizza concludendo Luzzati, e concordiamo – “diveniva così per l’Inqui-sizione, nell’Italia centro-settentrionale dell’era moderna, un irrisolto e irrisolvibile rompicapo”; ma è benpiù generalmente vero che “le idre inquisitoriali, con le loro molte teste, certo di variabile ma imprevedibile pericolosità, pesavano in modo angoscioso sugli ebrei, e non solo sugli ebrei, per il solo fatto di esistere” (p.XV).

Un accenno veloce a una sintesi recentissima della coppia Baigent-Leigh su L’Inqui-sizione (tr.it. Tropea 2000) non aggiunge niente di essenziale senon raccogliere e riesporre i dati noti, con un coinvolgimento forse più largo nei controlli e nelle indagini inquisitorie della chiesa irriducibilmente poliziesca. Che colpiva ugualmente mistici come Eckhart o Giovanni della Croce, il “Nuovo Mondo”, a Città del Messico, a Lima, a Nuova Granada, la massoneria (Coustos, Cagliostro, Casanova), nelle sue persecuzioni espansive fino ai… “rotoli del Mar Morto”, mediante il famigerato” Istituto Biblico”  diretto da padre De Vaux, di cui si è detto sopra. Fra molto altro, i due autori evocano la presenza del “Sant’Uffizio” nel 900, in particolare nella persona del card.R.Merry del Val che ne fu prefetto ovvero “Grande Inquisitore”, fino alla morte nel 1930. Danno pure rilievo alla figura di mons.U.Benigni, di cui ho parlato a proposito della sua Storia sociale della Chiesa, e che qui si ritrae come un personaggio alquanto equivoco. Infatti lavorava nella Curia papale, come segretario della Congregazione De propaganda fide, ex Santuffizio, e fu impegnato nella lotta al modernismo perfino con una associazione segreta internazionale d’informatori spionistici, chiamata Sodalitium pianum (di Pio X), legato all’Action Françasise ecc., e da rapporti perfino con l’OVRA fascista. (pp.237ss.).

Ne riferisco solo per ciò che trapela della solerte attività inquisitoria resistente in questi “sacri” organi vaticani. Canosa scrive corrivamente che l’Inquisizione è solo un aspetto della chiesa: no, l’Inquisizione rappresenta storicamente, giuridicamente, istituzionalmente la monarchia ecclesiastica cattolica, in totale coerenza ideologica, etico-religiosa e politica. Se qualcuno ha detto, come riferiva Lea, che è “un’inven-zione del demonio”, si deve correggere riaffermando che la “Santa Inquisizione” fu un’invenzione e una pratica umana, come tutte le “sante” invenzioni, le “sacre” falsificazioni e le violenze bimillenarie della potente chiesa costruita sulla memoria abusiva del povero Cristo crocifisso.

Ma infine, come denuncia attualizzata, in certi limiti clamorosa nel più tardo 900, si è obbligati a rifarsi alla cospicua Storia dell’intolleranza in Europa, del giurista Italo Mereu (Mondadori 1979, 3^ Bompiani 1995, il cui titolo è piuttosto abusivo o, se si vuole, estensivamente polemico, nel suo stesso assumere come modello storico dei sistemi giudiziari non solo italiani ma europei moderni, proprio quello inquisitoriale cattolico. Che è descritto e discusso e denunciato lungamente, appunto perché sarebbe il modello anti-giuridico di “violenza legale”, di inquisizione poliziesca, comune agli attuali ordinamenti europei, escluso quello inglese, e in particolare a quello italiano per antica eredità “cattolica”. Il modello è quello noto, basato sui princìpi anti-giuridici del “sospetto” e dell’inquisizione obbligata: “Il sospetto dell’autorità come presunzione di colpevolezza”, “Il sospetto come l’istituzione del ricatto legale”, “Il sospetto come instrumentum regni” ecc., in realtà non illegittimi dipersé.

Occorre tenere conto delle ragioni contingenti di questa denuncia, negli “anni di piombo” della vita pubblica italiana, del terrorismo programmato con la complicità di organi dello stato, della legislazione di emergenza ecc. Ma Mereu appartiene a quelle aree “liberali” che hanno promosso e ottenuto la riforma in senso “garantista” del codice penale italiano. non si direbbe con risultati funzionali lusinghieri per l’amministrazione della giustizia in Italia, enormemente favoritiva nei confronti del sospetto “reo”. Si potrebbe aggiungere che il “garantismo” in Italia ha avuto come “padri” anche giuristi “umanitari” cattolici, ma in genere è promosso dall’interesse concreto dei “difensori” professionali, l’esercito più o meno agguerrito degli “avvo-cati”, a cui la preminenza dell’interesse pubblico è generalmente estranea.

Ma tralasciando questi temi di attualità, in cui è difficile non essere coinvolti, resta il dato storico non rimovibile che il “metodo inquisitorio”, fondato sul “sospetto” istituzionale, ha caratterizzato lungamente la pratica poliziesca anche degli “stati” europei e dello “stato unitario” in Italia, con tutte le sue storture e violenze: la “purga” canonica, le “confessioni” e le “abiure” imposte, cioè estorte comunque, la tortura, la crescita del sospetto e delle pene per i contumaci e per i recidivi presunti ecc. E tutto questo è l’eredità etico-giuridica dell’assunzione ecclesiastica, prioritaria e pre-minente, “egemonica” per oltre un millennio, di una “superiore” giustizia a difesa esclusiva della “fede” cristiana, cioè della pretesa “religione unica e vera”, e dei “sacri” poteri di una “chiesa” centralizzata con ambizioni “universali”, che la rappresenta e la gestisce da secoli innumerevoli, tentando d’imporla con ogni mezzo nel “civile” mondo occidentale.

Quello che ritengo affrettato, pubblicistico non storico-giuridico, superficiale e indimostrato e perciò inaccettabile, è l’equiparazione in “copia” (“Il modello e le copie”), nell’ultimo capitolo, a queste prassi e strutture inquisitoriali ecclesiastiche, di quelle reali (pubbliche) degli stati europei anche “liberal-democratici”. Tanto da potere addirittura premettere, senza il minimo confronto probante, l’alibi cattolico circa la “moderazione” ecclesiastica, rispetto alle “copie” degli ordinamenti statali, nel quadro complessivo di una “civiltà inquisitoria” del sospetto e dell’intolleranza, un “medioevo giuridico” perdurante nei sistemi giuridici dell’intero Occidente. Tranne smentirsi lui stesso, dimostrando con un’ampia documentazione in appendice – parole sue –, “l’inconsistenza dell’affermazione sulla ‘mitezza’ dell’Inquisi-zione ‘riformata” (p.IX).

Ma ancora una volta la confusione lascia indistinte, nelle prassi violente, il fondamentale divario di motivazioni della “fede” religiosa, del “libero aribitrio”, della “coscienza” interiore, e quelle ideologico-politiche inerenti all’“ordine sociale” nel governo autonomo degli stati moderni. Trovo assurdo che un giurista come Mereu confonda, nella comune e generica formula machiavellica (e nella pratica più antica) del “sospetto” anche legittimo, se corroborato dalla ricerca della “prova”, normative e istituti giuridici ottocenteschi assimilabili, ma strutturalmente e ideologicamente assai diversi. E’ assurdo che si metta sullo stesso piano etico-giuridico l’eresia colpita dall’inquisizione cattolica, e il sospetto poliziesco di possibili reati, generico o solo ipotetico nell’Italia unita, nei confronti di “vagabondi”, di “oziosi”, di “disoc-cupati”, di contadini o di operai, pure “schedati” per “misure di prevenzione”, cioè di “pubblica sicurezza”, per reati comuni bene o male intesi.

Cosa c’entra questo, che concerne il governo ordinario (“civile”) degli stati, sia pure a difesa della “proprietà”, dell’“unità” del paese o dell’”ordine” sociale ecc., col dissenso ideologico consistente nell’esercizio del “libero pensiero”, con l’eterodossia rispetto a una rigida “ortodossia” dogmatica in materia religiosa, difesa da un’au-torità sacra dotatasi di poteri umani e sovrumani, che solo strumentalmente poteva assumere motivazioni fuorvianti di “ordine pubblico”?. Quale confronto può reggere una ordinaria e sia pure rugginosa o addirittura antiquata legislazione anti-crimi-nale (oggi poi che gli stati affrontano non gli “oziosi”, ma la criminalità e un terrorismo organizzati a livello internazionale), col terrorismo magistrale esercitato storicamente dal sacro potere ecclesiale, dal suo poderoso sistema inquisitoriale?

Ripeto, l’analogia o omologia dirette possono porsi solo col dissenso politico nei regimi totalitari, in cui l’ideologia politica si fa dogmatica, esigendo l’esercizio violento di una autorità assoluta, incarnata da dittatori crudeli ecc., che governa non solo la società ma la vita intera dell’individuo, che ne dispone e indirizza dispoticamente il pensiero, inibendo ogni manifestazione di opinione autonoma. E’ proprio in tale analogia e omologia ideo-strutturale, che la denuncia circostanziata di Mereu non attenua ma enfatizza un metodo e un modello aberranti di oppressione repressiva dell’uomo, che ha improntato la “civiltà cattolica” e si proietta ancora nell’oggi, come ombra di un “medioevo” perenne (sui poteri selvaggi e sull’ampia casistica delle torture fisiche e morali, durante le lunghe permanenze nelle buie e fetide prigioni ecclesiastiche, è sempre utile rifarsi al capitolo 10, “La Santa Inquisizione”, della Storia della tortura di G.Riley Scott, 1940, tr.it. Mondadori 1999).


 

Quanto segue e' l'introduzione scritta da Valerio Evangelisti al volume "il manuale dell'inquisitore" di Nicolas Eymerich a cura del Prof.  Louis Sala-Molins  editore Fanucci,  viene riproposto per diffondere conoscenza e verità, e come omaggio personale a Valerio Evangelisti ed al Prof. Sala-Molins.

Valerio Evangelisti e' sicuramente l'autore italiano piu' acclamato del momento, forse di tutti i momenti che la fantascienza italiana abbia mai vissuto, autore della mirabile saga di Eymerich, e della saga della vita di Michel de Nostredame, e' anche autorevole autore di innumerevoli saggi storici.               
 
 

 

 


I VOLONTEROSI CARNEFICI DEL PAPA

Il fatto di essere stato scelto per presentare Louis Sala-Molins al pubblico italiano costituisce per me motivo di orgoglio e di piacere. Per almeno tre motivi. Il primo è che devo ai suoi libri – primo tra tutti questo Directorium Inquisitorum, da lui riscoperto e offerto agli studiosi in una versione che ha fatto testo – l’incontro col terribile domenicano Nicolau (Nicolás in castigliano, Nicolas in francese) Eymerich, che poi ho fatto oggetto di una serie di romanzi apprezzati dal pubblico.
Il secondo motivo è apparentemente meno personale. Proprio per questa mia gratitudine, non mi davo pace del fatto che, dopo l’edizione francese e spagnola del Directorium, citata da legioni di studiosi di tutto il mondo, proprio in Italia il lavoro di Sala-Molins fosse diventato oggetto di un atto vergognoso di pirateria editoriale, attuato da chi si illudeva che l’Europa avesse ancora le frontiere rigide di un tempo. Ma di ciò rende conto lo stesso Sala-Molins nella breve nota che precede la sua introduzione al testo. Da parte mia, posso solo dirmi rammaricato che un episodio tanto squallido abbia avuto luogo in questo paese.
Il terzo motivo riguarda la personalità stessa del professor Sala-Molins, luminosa come poche. Catalano, nato alla vigilia della guerra civile spagnola, trascorre l’adolescenza sotto la cappa opprimente del franchismo. Insofferente di quel clima bigotto e reazionario, a 19 anni prende a vagabondare per l’Europa. Si reca in Germania, in Italia, in Francia, dove metterà radici. Sono viaggi di studio. Si accosta alla storia, soprattutto medioevale, alla filosofia, alle scienze politiche.
Sulle prime si dedica al pensiero di un suo illustre conterraneo, Raimondo Lullo, poi passa a occuparsi del funzionamento dell’Inquisizione. Ciò lo spinge a condurre ricerche sui rapporti aberranti tra filosofia e teologia (ai suoi occhi spesso coincidenti) da una parte, e tra il diritto e la nozione di giustizia dall’altra. Gli è naturale imbattersi, lungo questa strada, nelle moderne codificazioni della schiavitù e della tratta dei neri, scandalosamente tollerate o appoggiate dagli Illuministi.
A tutti questi temi dedica una serie di studi. Circa l’Inquisizione pubblica, dopo la propria versione del Directorium di Eymerich con le note di Fernando Peña (Le Manuel des Inquisiteurs, Mouton, Parigi, 1974), il Repertorium Inquisitorum, un prontuario a uso del Santo Uffizio compilato nel 1494 da un anonimo domenicano di Valenza (Le Dictionnaire des Inquisiteurs, Galilée, Parigi, 1981). Scrive la prefazione alla riedizione francese di un’opera classica di H. Ch. Lea (Histoire de l’Inquisition au Moyen Age, Millon, Grenoble, 1986 e 1997) e vi inserisce in appendice la propria traduzione di un altro testo di Eymerich, il Tractatus brevis super iurisdictione inquisitorum contra infideles fidem catholicam agitantes.
Mi limiterò a citare solo i titoli e le date dei testi di Louis Sala-Molins riguardanti le sue altre sfere di interesse: La philosophie de l’amour chez Raymond Lulle (1974), La loi, de quel droit?
(1977), Amérique Latine: philosophie de la conquête (1977), Sodome. Exargue à la philosophie du droit (1991), L’Afrique aux Amériques. Le Code noir espagnol (1992), Les misères des Lumières. Sous la raison l’outrage (1992) ; Le Code noir, ou le calvaire de Canaan (1998).
Sala-Molins viene chiamato a insegnare alla Sorbona, e succede nella cattedra al grande filosofo Vladimir Jankélévic, di cui era stato allievo, assistente e grande amico, e col quale si era laureato. Alcuni anni dopo passa all’università di Tolosa, per essere più vicino alla propria Catalogna natale, e anche per continuare un’antica battaglia contro la monarchia spagnola.
Mi fermo qui, ma questo è l’uomo che qualcuno, in Italia, ha cercato di derubare. Confidando in un’incomunicabilità culturale tra nazioni che, grazie al cielo, non esiste più.

Ciò che dirò ora mi imbarazza un poco. Non è naturale che un romanziere molto marginale sollevi critiche su storici di professione. Il fatto è che il mio lavoro, e il tema della mia narrativa, mi inducono a leggere tutto quanto riesco a reperire sull’Inquisizione. Non essendo un lettore imbecille, è ovvio che io mi formi un giudizio.
Bene, eccolo. In quel campo di studi sta avvenendo un fenomeno curioso e, per molti versi, inquietante. Quasi tutte le ricerche sull’Inquisizione che escono oggi oscillano tra la riabilitazione e l’apologia dichiarata del Santo Uffizio. Quasi tutte si aprono con la solenne dichiarazione che la “leggenda nera” dell’Inquisizione è definitivamente sfatata. Seguono le argomentazioni, che provo a sintetizzare: le vittime degli inquisitori furono meno numerose di quanto si è finora creduto; l’Inquisizione era molto meno crudele della coeva giustizia civile, e offriva all’imputato maggiori garanzie; i sovrani perseguitavano gli eretici o le cosiddette streghe con severità maggiore di quella dispiegata dal Santo Uffizio; i manuali procedurali restavano per lo più lettera morta; gli inquisitori erano gente dabbene, sinceramente preoccupata della conversione degli imputati; il ricorso alla tortura era occasionale, e riguardava solo adulti maschi in buone condizioni fisiche; e così via.
Elencare gli autori che sostengono queste posizioni – l’una, l’altra o tutte - sarebbe lunghissimo: Tedeschi, Monter, Benassar, Henningsen, Prosperi, Kamen, Dedieu, Cardini, ecc., fino a una serie di pamphlettisti che, in Italia o in Spagna, traducono la stessa visione in scritti divulgativi di chiara matrice cattolico-integralista (1) e, talora, persino di tono antisemita.
Alcuni autori, come Henry Kamen, parlano apertamente di “revisione storica” (2), agganciandosi alle correnti che, un po’ in tutto il mondo, muovono all’attacco della Rivoluzione francese, dell’antifascismo italiano ed europeo, della Spagna repubblicana ecc:; in poche parole, di ogni evento storico che abbia visto manifestarsi idee più o meno egualitarie. Altri, o perché più intelligenti, o perché più cauti, evitano di adottare il termine “revisionismo”, ben sapendo le insidie che nasconde. E l’insidia è una soprattutto: quella del “negazionismo”. Termine applicato a chi, per motivi squisitamente ideologici, nega, basandosi su una congerie di dettagli, che il nazismo si sia mai proposto l’eliminazione in massa degli ebrei (3).
Naturalmente mi guardo bene dall’assimilare studiosi di tutto rispetto e di assoluta serietà, come quelli che ho citato, alla melma dei Faurisson, dei Rassinier e degli Irving. Eppure l’operazione che i primi conducono presenta a volte talune pericolose analogie, che rischiano di condurre a risultati perversi. Lo si è visto in occasione della recente ricorrenza del quattrocentesimo anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno. Qualche storico di valore non ha esitato a dire che in fondo Bruno non era altro che uno stregone, bruciato per via della sua testardaggine. Se si fosse pentito, si sarebbe risparmiato una fine tanto crudele, e avrebbe risparmiato ai suoi aguzzini il dolore per la sua sorte. Argomentazione, mi sia consentito dirlo, che lascia senza fiato.
Ma procediamo con ordine. Quasi nessuno dei “revisionisti” odierni tenta di mettere mano a una storia complessiva dell’Inquisizione. La base sono ricerche locali e circoscritte sul piano temporale. Invece, il bersaglio sono due opere che hanno il carattere della generalità: la già menzionata History of the Inquisition in the Middle-Age e la History of the Inquisition of Spain di Henry-Charles Lea (non viene più presa in considerazione l’antica bestia nera, la Historia critica de la Inquisición en España di Juan Antonio Llorente, che già Lea si era incaricato di emendare). Un’obiezione ricorrente mossa a Lea è quanto meno bizzarra. Il grande storico statunitense non avrebbe condotto tutte le proprie ricerche in prima persona, ma avrebbe sguinzagliato per la Spagna e per l’Europa un manipolo di aiutanti. La bizzarria dell’accusa sta nel fatto che la maggior parte degli accademici che ho citato ha seguito lo stesso metodo, peraltro conforme alle modalità attuali della ricerca universitaria. Semmai, avrebbero dovuto riconoscere a Lea la palma della modernità.
Vediamo ora gli elementi che mi inducono a ravvicinare, sia pure con cautela, la riscrittura in corso della storia dell’Inquisizione ai risvolti più spiacevoli del “revisionismo”:
1) La conta arbitraria delle vittime. La storiografia detta “quantitativa” ha molte responsabilità in questo misfatto, se così vogliamo chiamarlo. L’Inquisizione ha avuto periodi di virulenza e altri di quiete, in cui ha quasi cessato di esistere. Basta scegliere un lasso temporale abbastanza lungo per dimostrare che i condannati furono una percentuale esigua dei processati. Fissati i primi in un 1-1,5% si potrà dire che il Santo Uffizio era portato all’indulgenza.
E’ un geniale ma palese travisamento. Cercherò di dimostrarlo. Prendiamo una pagina dell’introduzione di un’autorità nel campo, Franco Cardini, alla riedizione del Manuale dell’inquisitore di Bernard Gui (4). Il noto medievalista snocciola dati raccolti da varie ricerche, per accreditare la tesi secondo la quale la repressione dei tribunali ecclesiastici “fu meno pesante in essi che non in quelli laici”. Tra la successione delle cifre, tutte parziali e riferite a periodi circoscritti (o addirittura a organi estranei al Santo Uffizio, come la cosiddetta “Inquisizione veneziana”), ma idonee a colpire il lettore, l’ultima sembra particolarmente eloquente: “In Sicilia si tennero 2.000 processi tra il 1537 e il 1618, ma i condannati a morte furono 29” (5). Un’inezia, evidentemente.
Però – caso rarissimo – dell’Inquisizione siciliana (appendice di quella spagnola) ci sono giunti quasi integralmente i registri delle condanne riferiti al periodo che va dal 1487 al 1732 (6) . Conosciamo i nomi dei condannati, la colpa loro attribuita (si trattava nella maggior parte dei casi di neofiti, cioè di ebrei sospettati di praticare la religione di origine, malgrado la conversione forzata al cristianesimo) e i dettagli dell’esecuzione, talora in effigie, talaltra sul rogo.
Bene, è facilissimo notare che, dal 1534 in poi, le condanne capitali calano drasticamente di numero. Ma ciò non è affatto vero per gli anni precedenti. Tra il 1511 e il 1533, salvo anni isolati, le condanne sono numerosissime. Prendiamo il 1527, anno di caccia grossa, ma nemmeno il peggiore. Vengono bruciati vivi, in fastose cerimonie di piazza, Angelo da Sassari, Agatuzza Vanarco, Antonio da Alagona, Andrea Certa, Cristoforo Pellegrino, Gracia moglie di Nicolò Golisano, Pietro di Polizzi, Pace di Xurtino, Petrucchio de Amico. Si tratta di nove persone (a cui se ne dovrebbero aggiungere altre 27, condannate a morte ma bruciate in effigie perché latitanti). Se fosse valida la percentuale dell’1%, ci sarebbe da supporre che l’Inquisizione siciliana abbia celebrato, quell’anno, 900 processi. Cifra destituita di ogni credibilità.
Insomma, basta prendere a riferimento l’anno giusto per dimostrare ciò che si vuole. Ma ha un senso un’operazione contabile del genere? Le persone citate erano uomini e donne in carne e ossa, bruciati vivi, dopo una serie interminabile di umiliazioni e di tormenti, perché erano o erano stati ebrei. Però questo dato di fatto, alla storiografia “quantitativa”, sembra importare poco o nulla. L’importante è sfatare la “leggenda nera”.
2) La disomogeneità di tempo e di luogo. Questo elemento era già emerso nell’argomentazione precedente, ma qui mi riferisco a qualcosa di diverso. I “negazionisti” dell’Olocausto hanno buon gioco nel dimostrare che in questo o in quel campo di concentramento nazista non esistevano camere a gas, e nel trarne la deduzione arbitraria che le camere a gas non sono mai esistite in nessun campo. Ora, sempre senza voler fare paragoni offensivi, mi sembra che quando alcuni storici (per esempio H. Kamen e G. Henningsen) fanno leva sul fatto che l’Inquisizione spagnola non si sia data alla caccia alle streghe per trarne conclusioni di portata generale, si accostino, consapevoli o meno, alla metodologia “negazionista”. Sì, gli inquisitori spagnoli del Rinascimento trascurano le streghe, ma si dedicano agli ebrei; quelli romani non si accaniscono (troppo) sugli ebrei, e perseguitano invece i luterani e gli omosessuali; quelli dei Paesi Bassi ignorano gli omosessuali e infieriscono invece sulle streghe; e così via.
Ma il problema non è giudicare questa o quella filiale del Santo Uffizio per ciò che non ha commesso. A meno che il fine inespresso della ricerca non sia la semplice assoluzione complessiva dell’Inquisizione, e non si ritenga il gioco delle tre carte il metodo più adatto allo scopo.
3) L’assoluzione del mandante. Certo “negazionismo” (David Irving e altri) non mette troppo in discussione la realtà dell’Olocausto; si limita a negare che si trattasse di un piano di sterminio, e soprattutto che Hitler ne fosse al corrente.
E’ preoccupante l’analogia con chi, nel campo infinitamente più nobile degli studiosi dell’Inquisizione, cerca di scindere tra loro le varie realtà locali, fino a negare la responsabilità dei papi in ciò che avveniva alla periferia della Chiesa. Per esempio, presentando l’Inquisizione spagnola come un fenomeno totalmente indipendente dalla volontà dei pontefici.
Su questo non mi dilungo troppo, dato che proprio Sala-Molins, nelle pagine a dir poco brillanti che precedono il Repertorium Inquisitorum (7), ha abbondantemente dimostrato l’infondatezza della tesi. Del resto, se i contrasti tra Inquisizione spagnola e Inquisizione romana furono relativamente frequenti, nessun papa si preoccupò mai di censurare l’operato della prima. Anzi, con lettere datate 3 aprile 1487, Innocenzo VIII invitò i principi d’Europa ad assecondare la creatura di Torquemada anche entro le loro frontiere (8) . Se la prescrizione rimase in gran parte lettera morta, fu per la riluttanza dei principi, e non di quel pontefice e dei suoi successori.
Nella stessa categoria di giochi di prestigio rientra la costante contrapposizione tra giustizia ecclesiastica, moderata, e giustizia civile, incline agli eccessi e alle crudeltà. Ora, se parliamo di Santo Uffizio, non è il caso, come fanno alcuni, di citare la cosiddetta “Inquisizione veneziana” quale esempio di clemenza, visto che con la macchina allestita dai papi per la repressione della dissidenza non c’entrava nulla. Se invece parliamo di giustizia ecclesiastica, è più onesto ricordare che molto spesso, nei tribunali civili, sedevano religiosi e prelati, obbedienti alle direttive provenienti dal pontefice (9) .
Esiste una figura di cattolico realmente prossima alla santità, che si trovò a vivere un’esperienza del genere e che, per fortuna nostra e della Chiesa stessa, ce ne ha lasciato testimonianza. Si tratta del padre gesuita Friedrich Von Spee (1591-1635). Non era un inquisitore, bensì un religioso membro dei tribunali “civili” allestiti dai principi tedeschi per reprimere la stregoneria, nel corso della cosiddetta “Riconquista cattolica” della Germania. Disgustato dalle atrocità di cui fu testimone, le denunciò in un testo, la Cautio Criminalis, mirabile per lucidità e coraggio (10) . Da esso apprendiamo, intanto, che i più feroci persecutori di donne innocenti erano sì principi, ma principi-vescovi. Ecclesiastici, insomma. Ma vi apprendiamo anche che i giudizi erano ispirati ai manuali che altri ecclesiastici avevano scritto (Binsfeld, Del Rio, Institor e Sprenger, ecc.), diffusi in tutta Europa con pieno benestare del papato.
La comoda favoletta del capo (il papa o Stalin, Mussolini o Hitler) che ignora l’operato di esecutori troppo zelanti torna di continuo nella divulgazione storica più scadente. Storici consapevoli della dignità del loro lavoro dovrebbero sapervi rinunciare, anche quando il risultato sembra ledere l’ideologia o la religione che professano.
4) La comprensione per i carnefici, il disprezzo per le vittime. Leggiamo in Benassar, che peraltro è studioso di alto livello e indulge meno dei suoi colleghi al giustificazionismo, che non pochi inquisitori “potevano amare la musica, la danza, la poesia e citare Gongora. E se fra di essi vi erano dei sadici, altri erano accessibili alla pietà, capaci di generosità”(11).  Pare di capire che i sadici fossero minoranza. Del resto, tutti i recenti interventi giornalistici di Adriano Prosperi, meno prudenti della sua saggistica, tendono ad accreditare l’immagine dell’inquisitore come uomo pio e mite, sinceramente angosciato del mancato pentimento dell’indiziato che ha tra le mani.
Permettetemi qui di ricorrere alla fiction, che poi è il mio mestiere. Immaginiamoci la tortura di una di quelle donne ebree che ho citato in precedenza, per esempio Pace di Xurtino. Viene dal carcere duro (il murus arctus), è provata dalle sofferenze, parla a fatica. L’inquisitore la trova reticente e decide di sottoporla alla quaestio. Per prima cosa la fa denudare completamente, perché così, senz’altro motivo che non sia l’umiliazione della vittima, prescrive la procedura. Poi le fa legare i polsi e la fa sollevare dal suolo per mezzo di una carrucola. Le braccia iniziano a slogarsi. La donna urla, piange, si contorce. L’inquisitore ammonisce quel miserabile fagotto umano a dirgli la verità. Più passa il tempo, meno il dolore è sostenibile, le grida aumentano d’intensità. A quel punto il religioso la fa calare a terra e riportare nelle segrete. Si ricomincerà più tardi, o il giorno dopo.
Credo che nessuno psicologo (lascio perdere gli psichiatri, ormai divenuti quasi tutti dei chimici) si azzarderebbe a sostenere che un uomo potrebbe abbandonarsi ad azioni del genere se non recasse in sé una qualche patologia mentale, probabilmente schizoide. Diagnosi tanto più certa se, tra una sessione e l’altra, si abbandonasse alla danza o alla poesia.
D’altra parte, vediamo come il domenicano Bernard Gui, in un’appendice al suo manuale che non figura nell’edizione italiana, descrive l’esecuzione dell’eretico Dolcino e della sua compagna, Margherita: “Detta Margherita fu tagliata a pezzi sotto gli occhi di Dolcino; poi costui fu a sua volta tagliato a pezzi. Le ossa e le membra dei due suppliziati furono gettati tra le fiamme, assieme ad alcuni dei complici: era il meritato castigo per i loro crimini” (12). Il compiacimento è evidente. Un compiacimento che mal si accorda con la mitezza attribuita agli inquisitori dalla storiografia “revisionista”.
Di contro, abbiamo già visto il disprezzo riservato a Giordano Bruno e alla sua inspiegabile ostinazione nel difendere le proprie idee. In generale, però, le vittime dell’Inquisizione non sono tanto disprezzate, quanto oscurate nella loro personalità, mutilate della loro natura di uomini e donne in carne e ossa. Henningsen ci ha spiegato con abbondanza di dati e riferimenti come le “streghe” godessero di garanzie moderne, a partire dall’avvocato difensore, e spesso – anzi, nella maggioranza dei casi da lui studiati - se la cavassero con un po’ di carcere e qualche rara seduta di tortura (13). Così va completamente perduto il dato centrale, ben presente in Von Spee, che le streghe, intese quali adoratrici del demonio, non sono mai esistite. E’ questo il perno obbligatorio di ogni discorso. Le poverette trascinate in prigione, sottoposte a processo, tormentate in varie forme, non erano affatto “streghe”: erano donne e basta, che non avevano commesso nulla. Che poi godessero di un difensore non attenua affatto la colpa originaria dei giudici, intenti a processare crimini di fantasia esistenti solo nella mente di Martin del Rio e di frate Guaccio.
Credo che Adorno abbia scritto da qualche parte che nessuno studio storico renderà mai l’orrore indescrivibile dei campi di concentramento nazisti, non possedendo la storiografia strumenti disciplinari atti a rappresentarlo. Molto peggio avviene, a mio avviso, quando l’occultamento dell’orrore è così radicale da sembrare deliberato, oppure discende dalla fredda chirurgia della storia “quantitativa”.
5) La svalutazione delle testimonianze e delle fonti. Naturalmente, non di tutte le testimonianze e di tutte le fonti, ma solo di quelle che contrastano con la tesi “revisionista”. Le storie documentate e imponenti di Lea sono state denigrate con tale foga che ormai sembrano l’opera di un collezionista di leggende, e non del maggiore storico che gli Stati Uniti abbiano finora prodotto. Le ricerche locali non conformi vengono sistematicamente ignorate. Ma l’operazione più sottile e ardua è stato asserire e propagare l’idea che i manuali a uso degli inquisitori restassero per lo più lettera morta.
Si deve considerare che tanti registri dell’Inquisizione sono andati perduti (quando non furono volutamente distrutti), e che, per ovvi motivi, le testimonianze delle vittime raramente sono dirette, salvo un pugno di casi (14): possono essere desunte solo dai verbali dei loro giudici, dunque filtrate dall’angolo visuale di questi ultimi. Importanza primaria, per conoscere non solo le procedure, ma anche la prassi quotidiana e i presupposti teorici del Santo Uffizio, assumono quindi i manuali - il più importante dei quali è tra le mani di chi mi sta leggendo.
Ed ecco i benigni storici dell’Inquisizione asserire, con categorica certezza, che le indicazioni della manualistica non venivano quasi mai applicate, almeno nelle loro parti più truci; per cui chi ha preteso giudicare il tribunale ecclesiastico sulla base di quei testi (come Italo Mereu, in uno studio di raro vigore (15)) avrebbe preso una solenne cantonata. Se ciò fosse vero, non si capirebbe poi come mai tanti verbali di processi (tra cui quello, completo ed eloquente, a “Gostanza, la strega di San Miniato”, restituitoci da Franco Cardini in una bellissima edizione (16) ) rispecchino fedelmente le indicazioni di Eymerich e degli altri giuristi; come mai gli autori ripetano nei secoli le stesse prescrizioni, e il Malleus maleficarum copi il Directorium, questo a sua volta riprenda interi capitoli della Practica Inquisitionis di Gui, e così via; come mai Eymerich sia stato tante volte ristampato. Sterile esercizio intellettuale, nascita di un genere letterario bizzarro senza ricadute concrete? Ne dubito molto; anzi, sono convinto che la ricaduta concreta ci fosse: quei libri uccidevano.

Ci sarebbe molto altro da dire, ma mi fermo qui. Certamente uno storico ha il dovere di rivedere anche tesi consolidate, se si imbatte in elementi atti a confutarle. Se però dimostra troppo accanimento, suscita il sospetto di essere mosso da pregiudizio ideologico. Quale, nel nostro caso? Quello dell’anticomunismo, come accade in altre forme di “revisionismo”? Be’, se l’intendimento è quello di diminuire le responsabilità passate della Chiesa cattolica per presentare come più sanguinosi i crimini del cosiddetto “socialismo reale”, il terreno dell’Inquisizione è il peggiore che si potesse scegliere: Vishinskij deriva in linea diretta da Torquemada, i tribunali sovietici che spedivano i dissidenti nelle cliniche psichiatriche erano “tribunali della coscienza” (per usare la felice espressione di Adriano Prosperi) quanto quelli del Santo Uffizio. Entrambi avevano al centro la triste nozione di “rieducazione” forzata del detenuto, fino all’eliminazione fisica o pratica in caso di insuccesso.
Se poi l’obiettivo fosse quello di “riabilitare” la Chiesa cattolica da colpe del passato (non è l’intento della maggior parte degli storici che ho citato, ma di alcuni sì), mi sembra superfluo. La Chiesa cattolica odierna non è la stessa del Medioevo o del Rinascimento, e la Congregazione per la dottrina della fede del cardinale Ratzinger ha poco a che vedere con la vecchia Inquisizione. Non occorreva attendere la richiesta di perdono di Giovanni Paolo II per capire che, comunque si giudichi l’operato odierno della Chiesa di Roma, il giudizio non può fondarsi su fenomeni remoti ormai espulsi dalla vita ecclesiale. Del resto, personalità nobili come Friedrich von Spee, ma anche come Juan Antonio Llorrente, preoccupato a ogni pagina di non infangare il cattolicesimo, appartenevano alla stessa Chiesa in cui militavano i Del Rio, i Nider e i Krämer.
Ovviamente anche uno storico può avere propri, rispettabili moventi. Quello che è inaccettabile è che dalla sua opera scaturisca la banalizzazione di un crimine. Distorsione peggiore della negazione e dell’apologia, perché nega personalità a chi l’ha subito.
E’ uscita di recente una raccolta dei graffiti incisi dai prigionieri dell’Inquisizione siciliana sulle pareti delle loro celle (17). Sono frasi e disegni strazianti, che mettono angoscia. Non è lecito cercare di spegnere nuovamente quelle voci. Il Directorium di Eymerich, nell’edizione di Louis Sala-Molins, aiuterà il lettore a capire quale logica spaventosa sia stata all’origini di quelle sofferenze inaudite. E a comprendere che l’espressione “leggenda nera” è in effetti impropria. Il colore era quello, ma non si trattò affatto di una leggenda. 
(1)   In uno dei libri più demenziali dell’ultimo cinquantennio, è dato leggere che “al contrario di quanto vuol far crederci la ‘leggenda nera’, l’Inquisizione godeva dell’appoggio pieno e convinto di ogni classe sociale, a cominciare dal popolo, che vi aveva visto un riparo contro i temuti moriscos e marranos”. M. Messori, Il miracolo. Spagna, 1640: indagine sul più sconvolgente prodigio mariano, Milano, 1999 (una spietata e minuziosa demolizione del volume, a firma del chimico Luigi Garlaschelli, è nel n. 29 di “Scienza & Paranormale”, gennaio-febbraio 2000).
(^)
(2)  Cfr. H. Kamen, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, Yale, 1999.(
^)
(3)  Per una disamina dei caratteri essenziali del negazionismo rimando a due testi soprattutto: V. Pisanty, L’irritante que-stione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, 1998; V. Igounet, Histoire du négationnisme en France, Parigi, 2000.  (^)
(4)  B. Gui, Manuale dell’inquisitore, con commento di F. Cardini, Milano, 1998.(^)
(5)Ivi, pp. XXI-XXII.(^)
(6)Cfr. V. La Mantia, Origini e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo, 1977.(^)
(7) L. Sala-Molins, Sodome c’est Noël, in “Le Dictionnaire des Inquisiteurs”, Parigi, 1981.
(^)
(8) H.C. Lea, History of the Inquisition of Spain, vol. I, New York, 1988, p. 253.(
^)
(9) Cfr. G. Bechtel, Les quatre fennes de Dieu: La putain, la sorcière, la sainte & Bécassine, Parigi, 2000, pp. 159-163.(
^)
(10) F. Von Spee, Cautio Criminalis, ovvero dei processi alle streghe, Roma, 1986.(^)
(11) B. Bennassar (a cura di), Storia dell’Inquisizione spagnola, Milano, 1994, p. 83.(^)
(12) B. Gui, Manuel de l’Inquisiteur, a cura di G. Mollat, vol. II, Parigi, 1964, p. 107.(^)
(13) Cfr. in particolare G. Henningsen, L’avvocato delle streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, Milano, 1990.(^)
(14) Un’antologia delle poche testimonianze tramandateci è in F. Max, Prisonniers de l’Inquisition, Parigi, 1989. Lo stesso curatore mette in guardia dall’autenticità di alcuni di questi resoconti, che spesso gli autori, ad anni di distanza dalla loro esperienza nelle mani del Santo Uffizio, tendevano a colorire un po’ troppo.(^)
(15) I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, Milano, 1988.(^)
(16) F. Cardini (a cura di), Gostanza, la strega di San Miniato, Bari, 1989).(^)
(17) G. Pitré, L. Sciascia, Urla senza suono. Graffiti e disegni dei prigionieri dell’Inquisizione, Palermo, 1999.(^)

 

 

        


 

L'INQUISIZIONE...
... era la procedura seguita da un tribunale ecclesiastico per reprimere ed estirpare l'eresia; il tribunale stesso. Fu creata nel XII secolo, quando la Chiesa dovette lottare contro i Catari e i Valdesi. Più tardi il Concilio Lateranense (1215) e il Concilio di Tolosa (1229) dichiararono essere doveri dei vescovi ricercare e giudicare gli eretici e consegnarli per il castigo al braccio secolare. Nel 1231-35 Gregorio IX sottraeva l'Inquisiazione alla giurisdizione dei vescovi e l'affidava a inquisitori permanenti dell'ordine domenicano, di nomina pontificia. Lo Stato (Re, Principi, Nobiltà) si schierò con la Chiesa contro gli eretici, poichè l'eresia religiosa costituiva una concreta minaccia contro l'ordine costituito, contro la sicurezza dello Stato. L'eretico, una volta accertata la sua colpevolezza, veniva invitato a ritrattare. In caso di rifiuto, era condannato a pene corporali o alla morte per rogo.
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L'Inquisizione possedeva un vero e proprio apparato di informazione con un grande numero di agenti. Che godevano di previlegi fiscali e dell'eccezionale permesso di girare armati

COME LA SANTA INQUISIZIONE CATTURAVA ERETICI E PECCATORI

di Ilaria Tremolada

L'8 marzo 2000, papa Wojtila pronunciava la "richiesta di perdono" per i mali inferti dalla chiesa nei secoli a tutta l'umanità. In particolare, Giovanni Paolo II recitava il "mea culpa" pensando alle vittime della Santa Inquisizione. Il processo che metteva sotto esame il tribunale medievale accanitosi nei secoli contro coloro che venivano definiti eretici, si concludeva con le pubbliche scuse del papa, dopo essersi aperto 6 anni prima. Nel 1994, con la lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente datata 10 novembre, Giovanni Paolo II avviava la preparazione del Giubileo chiedendo ai cristiani di "pentirsi" soprattutto per Giovanna d'Arco alla testa del suo esercito "l'acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e perfino di violenza nel servizio della verità."

La lettera papale aprì la strada a due incontri che si tennero, il primo nel '98 dedicato alla "Shoah", sulla quale si invitava a riflettere, mentre il secondo, che più ci interessa, aveva come tema centrale l'"Inquisizione" e si svolse tra il 29 e il 31 ottobre 1999 in Vaticano. Il Simposio internazionale fu presieduto dal Cardinale Roger Etchegaray e dalla Commissione teologico-storica del Comitato centrale del Grande Giubileo, sovrintendente del quale era il domenicano padre Georges Cottier. Dando inizio ai lavori, quest'ultimo ha specificato che "la considerazione delle circostanze attenuanti [quelle storiche riguardanti la società dei tempi e la sua grettezza] non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto".

Queste "debolezze", per usare il termine di Cottier, provocarono decine di migliaia di morti che formano un filo nero ininterrotto capace di dare alla storia della Chiesa di quei secoli che fanno l'età medievale e moderna, un unico e macabro denominatore.
Il grande pubblico identifica la storia delle persecuzioni religiose con uomini importanti come Galileo Galilei e Giordano Bruno o più in generale con i roghi delle streghe. Ciò che si scopre studiando la storia della Santa Inquisizione è qualcosa che, per noi figli del XX secolo ha dell'incredibile. I Pensieri e i fatti che hanno generato tale meccanismo di morte ci appaiono così distanti, eppure anche gli ultimi decenni non sono stati privi di quelle distorsioni ideologiche che più appaiono come il sostrato di scempiaggini catastrofiche come quella esemplare generata dalla mente malata di Adolf Hitler. L'accostamento può sembrare azzardato soprattutto perché poche sono le coincidenze, nei tempi e nei fatti, tra l'odio nazista per gli ebrei e lo stesso sentimento mostrato dalla Chiesa cattolica nei confronti degli eretici.

Ciò che comunque appare confrontabile è la perdita di ogni senso della realtà in nome di un'idea delirante che genera morte.
Oltremodo, la lotta della Chiesa contro i suoi nemici solletica un vasto interesse nel pubblico, dovuto in parte al fascino morboso che aleggia intorno ai metodi inquisitori. L'Inquisizione, che si affermò alla fine del XII secolo, quando in Occidente si diffondevano movimenti eretici come il manicheismo, il valdismo e poi il catarismo, trae il suo nome dalla inquisitio, una procedura del diritto romano sconosciuta e basata sulla formulazione di un'accusa da parte dell'autorità giudiziaria pur in assenza di denunce sostenute da testimoni attendibili. Tale procedura trova con il decreto Ad abolendam, emanato da papa Lucio III nel 1184, quando cioè si cominciò a infliggere ai peccatori la pena del rogo, la sua codificazione.

Alcuni anni dopo venne autorizzata la confisca dei beni degli eretici e l'impiego della tortura in questioni di fede, mentre si stabilivano particolari disposizioni che garantissero la segretezza delle procedure, l'anonimato dei testimoni e l'applicazione delle sentenze. Con il papato di Gregorio IX (1227-1241) la procedura inquisitoria si trasforma in una nuova istituzione che avrà in principio larga diffusione nella Francia meridionale e che verrà ufficializzata nei suoi compiti con il nome di Sacra Inquisizione. Tra i tanti manuali scritti all'epoca per riassumere la procedura sulla base della quale lavorava il tribunale è rimasta celebre la Practica Inquisitionis hereticae pravitatis (ca.1320).

Il successore di Gregorio IX, Innocenzo IV, non trascurò di proseguire nell'opera iniziata dal suo predecessore. Nel 1252, infatti, con la bolla Ad extirpanda ribadiva l'importanza della ricerca dei peccatori che si nascondevano nella società minandone non solo le basi religiose ma anche quelle politiche, e rafforzava il significato della punizione corporale indicando la tortura come mezzo per "portare alla luce la verità".

Durante il XIII e il XIV secolo, l'Inquisizione, parallelamente alla crescita di alcuni dei più importanti movimenti considerati eretici, accrebbe le proprie zone d'influenza e le proprie competenze. All'inizio del '300, in buona parte dell'Europa erano attivi dei tribunali inquisitori competenti a livello territoriale che avevano l'ordine di indagare anche su reati quali la blasfemia, la bigamia e la stregoneria, e gli utopisti della politica e della religione.
( vedi la storia di FRA DOLCINO )

La stregoneria, della quale parleremo diffusamente più avanti, nasce dalla trasformazione in reato di tutti quei riti pagani, bagaglio di una forte tradizione popolare ancora parte irrinunciabile della vita di molte zone dell'Europa. Attraverso i secoli bui, la Santa Inquisizione, come abbiamo visto, seppur brevemente, accresce la sua importanza, ma soprattutto la sua ingerenza nella vita sociale. Di fondamentale importanza in questo processo di penetrazione sarà il ruolo svolto dai re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona. Unendo le loro corone in un grande e potente regno i due monarchi trasformarono il tribunale dell'Inquisizione in uno strumento di controllo del loro potere. Esercitarono pressioni sul pontefice affinché istituisse una nuova Inquisizione nel regno di Castiglia che ancora non ne aveva conosciuto le opere.

Fu così che con la bolla papale, Exigit sinceras devotionis affectus, del 1° novembre 1478 Sisto IV concesse ai sovrani spagnoli la potestà di nominare due o tre inquisitori nelle città e nelle diocesi dei loro regni. Da quel momento si aprì una contesa tra la concezione ecclesiastica della Santa Inquisizione e quella temporale dei due re Cattolici, che vedevano nel tribunale antiereticale un valido collaboratore attraverso il quale mantenere e rafforzare il proprio potere. Il braccio di ferro si protrasse fino all'ottobre 1483 quando con la nomina del frate Tomás de Torquemada....

 

 

... a inquisitore generale dei regni di Castiglia e di Aragona, nasceva l'Inquisizione moderna. Il papa Sisto IV, al quale ormai la situazione era sfuggita di mano non aveva potuto far altro che riconoscere l'estensione delle competenze giuridiche anche al regno di Aragona, per il quale inizialmente il pontefice aveva negato la concessione.
A questo punto la chiesa di Roma si trovava ad aver ceduto, passo dopo passo, al regno governato da Isabella e Ferdinando, il controllo sui tribunali della Santa Inquisizione in Spagna.
Sostanzialmente, il potere di nominare il Grande Inquisitore demandava nei fatti alla Corona la gestione di tutta la macchina costruita in difesa della verità dei dogmi, pur rimanendo il papa il depositario dell'autentica legittimità dell'istituzione.

Tra le figure più importanti dell'Inquisizione spagnola, spicca per la sua spietatezza verso gli ebrei il già ricordato Tomás de Torquemada. Al momento dell'investitura, gli inquisitori spagnoli recitavano davanti al Grande Inquisitore, una formula che rimase invariata fino al 1820:
"Noi, per misericordia divina inquisitore generale, fidando nelle vostre cognizioni e nella vostra retta coscienza, vi nominiamo, costituiamo, creiamo e deputiamo inquisitori apostolici contro la depravazione eretica e l'apostasia nell'inquisizione di [qui veniva inserito di volta in volta il nome del luogo dove l'inquisitore veniva mandato] e vi diamo potere e facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o presente, di qualsiasi stato e condizione che risultasse colpevole, sospetta o accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori, difensori e favoreggiatori delle medesime".

Negli altri paesi europei si ebbero situazioni anche molto diverse tra loro. La Francia non conobbe l'Inquisizione nella sua forma moderna. I Parlamenti continuarono ad occuparsi dei processi agli eretici senza che per questi reati venisse aggiornata la versione medievale dell'istituto.
Il Portogallo vide nascere il tribunale dell'Inquisizione solo nel 1547, mentre in Italia apparvero solo verso la fine del XVI secolo, qualche decennio più tardi della nascita di un'Inquisizione tutta speciale che il papa aveva creato appositamente per "se" nel 1542. Ad oggi, quella papale è l'unica Inquisizione sopravvissuta con il nome di Congregazione per la Dottrina della Fede.

Il funzionamento del Santo Uffizio era garantito in primo luogo dal lavoro dell'inquisitore generale che si appoggiava al Consiglio della Suprema, e in secondo luogo dalla presenza capillare sul territorio dei tribunali di distretto. Nella carica di inquisitore generale si è già visto che il più tragicamente illustre fu il frate Tomás de Torquemada. Sulla sua figura sono stati dati pareri contrastanti: lo storico Juan Antonio Llorente ne parla come di "...una persona dai tratti raccapriccianti responsabile della morte sul rogo di 10.280 persone, e della punizione con infamia e confisca dei beni di altre 27.321". Al contrario lo storico inglese Walsh dice che Torquemada "era un pacifico dotto che abbandonò il chiostro per espletare un incarico sgradevole ma necessario, cosa che fece con spirito di giustizia temperato da pietà e sempre con grande abilità e prudenza.[…] Fu l'uomo che più efficacemente contribuì alla grandezza della Spagna dell'epoca del siglo de oro."

È abbastanza evidente che il giudizio dello storico ha in entrambi i casi influenzato il racconto della vita di un uomo che comunque al di là di queste critiche senza appello fu un grigio ed efficiente funzionario che servì i re cattolici con esemplare lealtà, pur tributata a idee sbagliate, fornendo il modello essenzialmente politico a cui si sarebbero ispirati gli inquisitori generali per un lunghissimo arco di tempo.
A partire da questa che era la carica più importante, l'inquisizione era organizzata in base ad una struttura fortemente gerarchizzata che prevedeva il Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione che si riuniva tutte le mattine dei giorni non festivi per discutere le questioni di fede, mentre nelle sedute pomeridiane del martedì, giovedì e sabato si tenevano i processi pubblici e si parlava dei casi si sodomia, bigamia, stregoneria e superstizione.

Da questo organo dipendevano i tribunali distrettuali in ognuno dei quali operavano due inquisitori. Quasi sempre erano un teologo e un giurista così da poter avere una competenza che coprisse tutti gli aspetti della problematica inquisitoria. Nel XVI secolo si accentuò, fra gli inquisitori, il predominio del clero secolare nei confronti di quello regolare (i membri degli ordini religiosi). La maggior parte degli inquisitori, comunque, proveniva dalla piccola nobiltà e aveva frequentato l'Università.

Tra le altre cariche previste dal Santo Uffizio per il suo funzionamento va sicuramente ricordata quella importantissima dei famigli (familiares), ovvero di quei servitori laici che collaboravano con i funzionari dell'Inquisizione, partecipavano alle ricerche e agli arresti e costituivano un vero e proprio apparato di informazione e spionaggio. Il loro numero crebbe smisuratamente nei tempi. Fare parte di quella che con termini attuali potremmo chiamare la "polizia segreta" della Santa Inquisizione comportava numerosi vantaggi: i famigli godevano di un privilegio giurisdizionale secondo il quale potevano essere giudicati solo dalla stessa Inquisizione, inoltre avevano privilegi fiscali e il permesso di girare armati. Poiché si poté presto intuire il rischio che questa casta privilegiata diventasse molto potente, ogni distretto adottò un regolamento che innanzitutto fissava il numero massimo dei famigli. L'estrazione sociale di questi ultimi era assai eterogenea.

A Valencia nel XVI secolo oltre i tre quarti erano di origine popolare, ma il rapporto si sarebbe presto ribaltato a favore delle classi medie. In Andalusia i famigli vennero invece reclutati tra la piccola nobiltà all'interno della quale alcune dinastie finirono per imporre un vero e proprio monopolio servendosi della mansione per esercitare un'assoluta autorità locale sintomo di corruzione e di nepotismo.
Gli apparati inquisitori vennero messi sotto inchiesta raramente, nonostante la loro condotta riprovevole e spesso macchiata dalla scorrettezza fosse sotto gli occhi di tutti. Il lavoro svolto dai famigli era il punto di partenza della fase istruttoria dei processi che proseguiva con la denuncia e l'immediato arresto della persona oggetto della denuncia stessa. Seguivano poi tre udienze durante le quali veniva presentata l'accusa ed era prevista una discolpa dell'imputato.

Il verdetto era pronunciato collegialmente dagli inquisitori e dal vescovo. Al termine del processo, ogni sentenza prevedeva tre categorie di pene: spirituali, corporali e finanziarie. Momento culminante di ogni processo era l'autodafé, "atto di fede", cerimonia solenne con messa, sermone e lettura delle sentenze che nel tempo si trasformò in una specie di evento teatrale che nella sostanza doveva attirare quanta più gente possibile per mostrare il potere della Santa Inquisizione nel riportare le anime smarrite sulla strada della verità.

Di solito l'autodafé si celebrava una volta l'anno. La condanna a morte era comminata ai recidivi o rei convinti che rifiutavano di ammettere la falsità delle loro credenze. La sanzione più comune per chi decideva di collaborare era l'abiura alla quale erano connesse diversi tipi di penitenza: obbligo di indossare il sambenito (termine derivante da saco bendito "sacco benedetto"), ovvero una mantellina gialla, con una o due croci disegnate diagonalmente, che i penitenti erano obbligati a portare in segno di indegnità per un periodo che poteva essere lungo pochi mesi ma anche tutta la vita; c'erano poi le pene corporali come le frustate, con un numero che poteva variare da 100 a 200; lavoro forzato sulle galere e confisca dei beni.


Una delle abiure più importanti che la storia ricorda è senza dubbio quella di Galileo.

Davanti al tribunale che lo inquisiva di eresia, l'autore del Dialogo dei massimi sistemi pronunciò il 22 giugno 1633 queste parole: "....avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la
falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova.
Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d'ogni fedel Cristiano queste veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d'adempiere e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte […] Io Galileo soddetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obbligato come sopra […] In Roma nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633."

(vedi altre pagine in GALILEO GALILEI)

Spesso durante i processi lo strumento più utilizzato per portare il peccatore alla confessione dell'errore era la tortura. Rigorose norme ne fissavano durata, modalità e frequenza. Le dichiarazioni rese sotto tortura erano considerate nulle se non venivano confermate 24 ore dopo. I metodi più usati erano la garrocha, la toca e il potro . Nel primo caso la vittima veniva appesa per i polsi a una corda pendente dal soffitto che serviva per issare il corpo poi fatto ricadere di colpo. La Toca era invece più complicata: la vittima veniva immobilizzata su un telaio inclinato, costretta a spalancare la bocca nella quale veniva introdotto un panno che costringeva il torturato a inghiottire tutta l'acqua che veniva versata lentamente. Infine c'era il potro, il sistema più utilizzato a partire dal XVI secolo che consisteva nel legare il peccatore a un cavalletto con canapi che si avvolgevano intorno al corpo e alle estremità. Accorciando la lunghezza delle corde il carnefice le faceva penetrare nel corpo del torturato.

 

Le migliaia di persone, si parla di 150.000, che furono chiamate a rendere conto in molti casi di una vita "normale" inquisita a volte perché i funzionari potessero dimostrare zelo e attaccamento al lavoro senza però che ce ne fosse neanche il pretesto, appartenevano al movimento dei catari, a quello valdese, oppure erano ebrei, musulmani, marranos, cioè ebrei e mussulmani convertiti, o ancora protestanti e templari. Se non rientravano in nessuno di questi gruppi potevano essere streghe o semplicemente individui dalle "strane" convinzioni non coincidenti con quelle ecclesiastiche, come Giordano Bruno, filosofo arso sul rogo a Roma nell'anno 1600, Gioachino da Fiore teologo e filosofo le cui idee vennero condannate dal Concilio lateranense nel 1215, Arnaldo da Brescia canonico e riformatore religioso impiccato e arso come eretico a Roma nel 1155, Copernico che sostenendo che la terra gira intorno al sole vide la sua opera messa all'indice nel 1616, il già ricordato Galileo Galilei accusato di avere sostenuto le tesi copernicane e costretto ad abiurare, e poi ancora Giovanna D'Arco messa al rogo nel 1431 con l'accusa di essere eretica recidiva, apostata e idolatra.

In modo del tutto indicativo e assolutamente casuale nella scelta degli esempi, questa breve lista dà però un'idea di quanto profondamente l'Inquisizione seppe condizionare la crescita del pensiero impedendo quella libertà d'espressione fonte del progresso della società civile.
Le vicende di questi uomini e donne vittime della Santa Inquisizione non sembra poter acquisire un senso preciso. Pur invocando un vago rispetto del dogma cristiano si rimane senza risposte di fronte ad un così diffuso uso della violenza, ad una così spietata quanto gratuita umiliazione del pensiero umano.

Dopo la decadenza della Santa Inquisizione iniziata nel XVIII secolo ed in conseguenza all'apertura degli archivi del tribunale avvenuta negli anni '20 dell'800 sono comparsi una messe di studi che hanno fatto chiarezza sulle vicende oscure legate all'organismo nato nel medioevo e sono riuscite a spiegare motivandole, alcune delle condanne e delle azioni più eclatanti.
La parte che sembra ancora avvolta dal mistero, ma che forse non potrà mai trovare un suo perché, data la stessa assurdità che la caratterizza è l'inquisizione delle streghe. Tra i tanti episodi che fanno parte di questa storia si è scelto di raccontarne uno in particolare che per la quantità di documenti ritrovati si presta ad una ricostruzione precisa. Ha poi particolare senso, quando si parla di persecuzione delle streghe, fare riferimento a casi particolari evitando di abbandonarsi così ad una caratterizzazione generica che toglierebbe all'argomento il sapore intenso dei suoi particolari.

La caccia alle streghe attuata, con spietata intensità, soprattutto tra i secoli XVI e XVII è stata letta dalla storiografia come uno scontro culturale tra il mondo colto rappresentato dalla chiesa e il mondo popolare identificato nelle pratiche magico-tradizionali. Spinta da un rinnovato spirito di evangelizzazione, la chiesa mosse sistematicamente guerra, dal '500 in avanti, a superstizioni, vecchie credenze, riti post-pagani facenti parte della cultura folklorica e pratiche magiche.
Gli storici che hanno tentato di fare una stima numerica delle vittime delle accuse di stregoneria si sono sempre fermati di fronte alla mancanza delle fonti cioè alla mancanza dei verbali dei processi. Nei rari casi in cui si può disporre di queste carte si rimane sconvolti dalla loro durezza e drammaticità e dalla capacità in essi insita di trasmettere un vivido spaccato del mondo delle streghe e della sua persecuzione.

È quanto accade con il Corpus di carte riguardanti i processi eseguiti nella valle di Poschiavo, una valle della Svizzera italiana. L'insieme di questi documenti unici per quantità e coerenza interna permette di studiare, attraverso l'analisi dei rescritti di 65 processi, le caratteristiche di una caccia alle streghe che in questo luogo assume caratteristiche diverse da tutti gli altri episodi che fanno parte della stessa vicenda.
Non emerge infatti, in questo caso particolare, quella cesura tra mondo colto degli inquisitori e mondo popolare degli inquisiti che invece sotto forma di scontro aperto è la base di ogni processo di stregoneria. In questa valle delle Alpi Retiche non si riscontra un nucleo di credenze pagane o precristiane conviventi con quelle della religione ufficiale. Solo alcune imputate ammettevano di usare scongiuri o antiche parole magiche che pareva potessero aiutarle a fronteggiare una vita sempre al limite della sussistenza.

Nella maggioranza dei casi però le imputate erano povere donne, come povera era la buona parte della popolazione, accusate più che per pratiche o comportamenti sospetti, per futili motivi che possono essere ricondotti alla difficoltà di un vivere sociale nel quale rancori, battibecchi, invidie e liti, che spesso animavano i rapporti di vicinato, diventavano le reali cause che portavano all'accusa.
Oltretutto, in quegli stessi anni la Valtellina era stata pesantemente colpita dalla peste che aveva reso, se possibile, ancora più fragile l'economia della zona. Considerando tutte le varianti endogene, nell'accusa di stregoneria si possono vedere riflesse tutte quelle paure e quelle angosce da sempre caratteri del mondo contadino, "che da se rivelavano i punti deboli di quella economia, creando un rapporto di causa-effetto tra le presunte streghe con le loro pratiche che "agivano" e le disgrazie della vita che diventavano il risultato del loro agire; dall'altra, l'accusa sconvolgeva i rapporti sociali e familiari di chi era accusato […] incrinando equilibri e generando reazioni a catena".

Motivo cardine della persecuzione delle streghe erano i loro ritrovi notturni: i sabba, come venivano chiamati. Secondo i persecutori, durante queste adunanze presiedute dal diavolo, si svolgevano riti che parodiavano in modo blasfemo la liturgia cristiana, cui si aggiungevano unioni bestiali, orge collettive, balli, banchetti e sacrifici umani. Anche le presunte streghe di Poschiavo avevano le loro riunioni sataniche. A questi incontri, che si svolgevano quasi sempre di giovedì, mancava però, quella ritualità blasfema tipica di queste riunioni. Le donne della valle si incontravano per ballare e divertirsi non compivano riti di nessun genere, anche se dalle testimonianze rese durante i processi sembra che il diavolo fosse presente, pur con sembianze del tutto normali e non mostruose.

Le donne interrogate dicevano che satana aveva le sembianze di un uomo di mezza età o di un giovane ragazzo. Più raramente veniva descritto come un animale, anche se non è da escludere che le sue repellenti malformazioni fossero più il frutto delle fantasie morbose degli inquisitori che non delle imputate, come si rileva dal processo a Orsola Lardo, durante il quale la descrizione si delinea, a poco a poco, sotto l'insinuante interrogatorio dei giudici che le chiedono (le parole dell'imputata vengono lasciate nel dialetto del luogo): "Era come un homo?"
e l'imputata risponde:
"Al pareva alli vestimenti, ma l'era il demonio"
e ancora:
"Come era in faccia?"
"Al'era un brut lavor [= cosa], era negro in facia".
"haveva barba, et capelli in testa?".
"L'aveva una brutta barbascia, et in testa l'era come motto [= calvo]".
"Haveva corni in testa?".
"Signor no ma l'haveva come dei cap [= corna]".
"Haveva mani come homo?".
"Signor no che l'haveva come due griffe [= artigli]".
"E li piedi come li haveva?".
"Li haveva come quelli di un bosc [= caprone]".
"Et nella vitta come era, et come lo cognoscevate?".
"Mi nol sei l'era un soz lavor".


Altre donne raccontano anche di avere avuto con il diavolo rapporti sessuali...

 

... ma il tutto si limita a qualche descrizione che comunque sia non muta il carattere modesto di questi incontri che di satanico non avevano granché. Durante il loro svolgimento non vi erano riti parodistici del culto cristiano, né un uso blasfemo degli oggetti sacri, né riti sacrificali di nessun genere. In conclusione i ritrovi di Poschiavo sembrano essere state semplici e allegre feste che dato il clima di censura morale venivano volutamente visti come la realizzazione di riti satanici.
Tutt'al più, gli incontri di queste donne, peraltro quasi tutte provenienti dalle stesse famiglie e dalle stesse contrade, il che indica una limitata pubblicizzazione dei ritrovi stessi, potevano essere visti come una compensazione delle privazioni materiali a cui erano sottoposte ogni giorno. La conoscenza delle erbe, che in alcuni casi potevano provocare lievi allucinazioni, le aiutava così a straniarsi da una realtà spesso troppo dura.

Questi innocui tentativi di evasione venivano invece scambiati per pratiche di magia nera che facevano paura soprattutto per il loro impatto sulla società e non per la sfida religiosa che essi ponevano. Ciò di cui ci si preoccupava maggiormente era la loro capacità di recare danno a tutta la società attraverso la distruzione dei raccolti che poteva essere ottenuta facendo grandinare, piovere, tempestare, facendo franare il terreno. Era così che queste donne venivano ritenute capaci di sovvertire e distruggere un'esistenza quotidiana difficile, dalla quale esse cercavano di sottrarsi con metodi del tutto innocui, ma capaci di rendere insicuri e sospettosi uomini e donne attaccati alla consuetudine, prime che alla religione, e spaventati dalla loro stessa ignoranza.

Ilaria Tremolada
BIBLIOGRAFIA
Il martirio delle streghe, di Tiziana mazzali, Xenia edizioni, Milano, 1988
Il giudice e l'eretico, di John Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano, 1997
L'inquisizione, di Ricardo Garcia Cárcel, Fenice 2000, Milano, 1994
Domenico Scandella detto Menocchio, a cura di Andrea Del Col, Edizioni biblioteca dell'immagine, Pordenone, 1990
Il manuale dell'inquisitore, a cura di Louis Sala-Molins, Fanucci, Roma, 2000
Storia generale dell'Inquisizione corredata da rarissimi documenti, di Pietro Tamburini, Bastogi, Foggia, 1998
Giordano Bruno: tra magia e avventure, tra lotte e sortilegi la storia appassionata di un uomo che, ritenuto mago dai contemporanei, fu condannato per eresie dall'Inquisizione e arso vivo sul rogo, di Gabriele La Porta, Newton Compton, Roma, 1988
L'Avvocato delle streghe: stregoneria basca e Inquisizione spagnola, di Gustav Henningsen, garzanti, Milano, 1990


Il codice inquisitorio

 

         Il codice dell'Inquisizione deriva dall'editto imperiale di Teodosio ed i tribunali speciali sono stati istituiti da Gregorio IX. Incarcerazioni interminabili e confisca di beni per colui che era semplicemente incolpato, torture per ottenere confessioni, torture più orribili e più lunghe ancora in caso di ritrattazione, diminuzione della pena per coloro che denunciavano complici... Era soprattutto l'eresia ad essere perseguita, ma molto spesso gli eretici erano accusati di magie.

Nel 1260, una bolla di Alessandro IV stabilì i rapporti tra eresia e stregoneria e definì tutte le categorie dei sortilegi. I capi d'accusa erano di quindici specie:

1.  Rinnegano Dio;

2.  Lo bestemmiano;

3.  Adorano il diavolo;

4.  Gli consacrano i loro bambini;

5.  Spesso glieli sacrificano;

6.  Li consacrano a Satana nel ventre materno;

7.  Gli promettono di attirare al suo servizio tutti coloro che potranno;

8.  Giurano nel nome del demonio e se ne vantano;

9.  Non rispettano alcuna legge e commettono perfino incesto;

10.  Uccidono le persone, le fanno bollire e le mangiano;

11.  Si nutrono di carne umana ed anche di impiccati;

12.  Fanno morire la gente con veleni e sortilegi;

13.  Fanno crepare il bestiame;

14.  Fanno perire i frutti e causare la sterilità;

15.  Diventano in tutto schiavi del diavolo.

 

I sintomi medici sui quali si basavano i giudici dell'inquisizione per stabilire il crimine di stregoneria non lasciavano dubbi:

- Se la malattia è tale che i medici non possono né scoprirla né conoscerla.

- Se aumenta invece di diminuire nonostante che siano state tentate tutte le possibili cure.

- Se, sin dall'inizio, si presenta con sintomi e dolori violenti, contrariamente alle malattie comuni che aumentano poco a poco.

- Se è incostante e variabile da giorno a giorno, da ora ad ora, ed inoltre se ha parecchie cose diverse da quelle naturali, sebbene apparentemente si presenti simile a queste ultime.

- Se il paziente non può dire in quale parte del corpo sente il dolore, anche se è molto malato.

- Se emette sospiri tristi e pietosi senza alcuna causa legittima.

- Se perde l'appetito e vomita la carne mangiata; se ha lo stomaco contratto e chiuso o se gli sembra di averci dentro qualcosa di pesante.

- Se sente calori pungenti ed altri spasimi acuti nella regione del cuore, tanto che gli sembra che qualcosa lo roda e lo smembri a pezzi.

- Se è reso impotente al mestiere di Venere.

- Se suda leggermente, anche durante la notte, quando il tempo e l' aria sono molto freddi.

- Se si sente le membra e parti del corpo legate.

- Se si sente ebete e dice sciocchezze, oppure sia preso da malinconia. Se guarda storto. Se gli sembra di vedere qualche fantasma.

- Infine, se quando il prete, per guarirlo dal male, gli applica delle unzioni sugli occhi, sulle orecchie, sulla fronte o su altre parti del corpo, tali parti cominciano a far uscire sudore o mostrano qualche altro cambiamento.


L'Inquisizione medioevale

 
di
Francesco Pappalardo

 

1. Le origini

È opinione comune che il tribunale dell'Inquisizione sia stato lo strumento ordinario utilizzato dalla Chiesa cattolica per combattere l'eresia. In realtà, garantire l'ortodossia è compito anzitutto dell'episcopato, cui spetta non solo insegnare le verità della fede, ma anche difenderle contro quanti le insidiano; inoltre, soltanto entro certi limiti è corretto parlare di un tribunale inquisitoriale. Infine, occorre specificare che lo stesso nome spetta sia all'istituzione sorta nel secolo XIII, la cosiddetta Inquisizione medioevale, sia all'Inquisizione spagnola, creata da Papa Sisto IV (1471-1484), nel 1478, su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia (1451-1504) e di re Ferdinando d'Aragona (1452-1516), sia alla Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, istituita da Papa Paolo III (1534-1549) nel 1542.

L'Inquisizione nasce verso la fine del Medioevo propriamente detto come risposta della Chiesa agli eccessi di movimenti ereticali, che non si limitavano a propugnare deviazioni di contenuto esclusivamente teologico - contrastati fino ad allora sul piano dottrinale e solo con mezzi spirituali -, ma insidiavano mortalmente la società civile. La ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli eretici costringe le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e per frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.

Oggi è difficile immaginare il profondo malessere suscitato nella Cristianità dalla diffusione del catarismo, che, sotto il fascino esercitato dall'apparente austerità di vita dei suoi proseliti, nascondeva un'ideologia sovversiva. Il pericolo era rappresentato soprattutto dalla condanna del mondo materiale, che implicava il divieto assoluto di procreare e, come culmine della perfezione, il suicidio rituale, e dal rifiuto di prestare giuramento, che comportava il dissolvimento del legame feudale, uno dei capisaldi della società medievale. Dunque, considerata l'omogeneità religiosa della società del tempo, l'eresia costituiva un attentato non solo all'ortodossia ma anche all'ordine sociale e politico. Lo storico protestante Henry Charles Lea (1825-1909), pur poco benevolo nei confronti dell'Inquisizione, scrive che, in quei tempi, "[...] la causa dell'ortodossia non era altro che la causa della civiltà e del progresso".

L'autorità temporale e quella spirituale, dopo aver agito a lungo separatamente - la prima con i suoi tribunali, l'impiccagione e il rogo, la seconda con la scomunica e le censure ecclesiastiche - finiscono per unire i loro sforzi in un'azione comune contro l'eresia. L'Inquisizione medioevale, dunque, è definita dallo storico francese Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953), come "[...] un sistema di misure repressive, le une di ordine spirituale, le altre di ordine temporale, emanate simultaneamente dall'autorità ecclesiastica e dal potere civile per la difesa dell'ortodossia religiosa e dell'ordine sociale, ugualmente minacciati dalle dottrine teologiche e sociali dell'eresia". Le tappe attraverso cui prende corpo il nuovo organismo sono la costituzione Ad abolendam di Papa Lucio III (1181-1185), del 1184, che obbliga tutti i vescovi a visitare due volte l'anno le loro diocesi alla ricerca, inquisitio, degli eretici; l'istituzione della cosiddetta Inquisizione "legatina" da parte di Papa Innocenzo III (1198-1216), che invia i monaci dell'ordine cistercense a predicare nei paesi più colpiti e a disputare pubblicamente con gli eretici, la costituzione Excommunicamus di Papa Gregorio IX (1227-1247), del 1231, con cui sono nominati i primi inquisitori permanenti, scelti in preferenza fra i domenicani e i francescani.

La qualità costitutiva del nuovo organismo non era nella natura del delitto o in quella della pena e neppure nella procedura, ma nella figura del giudice delegato in materia ecclesiastica criminale. Non si provvede, pertanto, all'istituzione di un tribunale speciale per una determinata categoria di reati o di rei - in questo senso, per tutto il Medioevo, un tribunale dell'Inquisizione non è mai esistito -, ma alla nomina di un giudice straordinario, la cui competenza si affianca a quella del giudice ordinario, il vescovo. Va ricordato, infine, che gli inquisitori erano competenti a giudicare solo i battezzati e che, dunque, gli ebrei e i musulmani non ricadevano sotto la loro giurisdizione.

 

2. La procedura

L'Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le testimonianze, è una delle prime istituzioni del passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico, sia relativamente all'organizzazione sia alla prassi adottata. Infatti, gli studiosi che negli ultimi anni hanno cominciato a esplorare l'imponente documentazione archivistica, si sono trovati, con stupore, al cospetto di tribunali dotati di regole eque e di procedure non arbitrarie, di corti giudiziarie pronte a sconsigliare l'uso della tortura o a scoraggiare denunce infondate e delazioni, di organismi molto più miti e indulgenti dei tribunali civili del tempo. Inoltre, sebbene certa propaganda insista sul carattere ideologico e totalitario dell'Inquisizione, è sempre più evidente l'abisso esistente fra i metodi propri di questa istituzione e i sistemi di controllo delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in atto negli Stati moderni.

E falsa è l'immagine dell'inquisitore feroce e ignorante: gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, poco inclini a decidere in fretta e arbitrariamente la sorte dell'imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. L'Inquisizione del secolo XIV inventa la giuria, consilium che consente all'imputato di essere giudicato da un collegio numeroso, e altri istituti in favore del condannato, come la semilibertà, la licenza per buona condotta e gli sconti di pena. Falsa è anche l'affermazione secondo cui si faceva un uso generalizzato e indiscriminato della tortura, cui gli inquisitori del secolo XIV, a differenza dei giudici civili, ricorrevano raramente e nel rispetto di regole molto severe. L'immaginario secondo cui i tribunali inquisitoriali erano teatro di raffinatissime scene di crudeltà, di modi ingegnosi di infliggere l'agonia e di un'insistenza criminale nell'estorcere le confessioni, è l'esito della propaganda degli scrittori a sensazione, che hanno sfruttato la credulità di molti.

Falsa, infine, è l'immagine dell'Inquisizione come tribunale sanguinario. Infatti, lo spoglio statistico delle sentenze, da cui si ricava la bassa percentuale delle condanne, soprattutto di quelle alla pena capitale, ha ormai dimostrato l'infondatezza di questa tesi. L'Inquisizione perseguiva lo scopo di correggere e di riavvicinare l'eretico alla fede; a questo scopo gli inquisitori imponevano penitenze di ordine spirituale, che davano al reo la possibilità di emendarsi, attenuavano le pene più gravi quando ravvisavano in lui indizi di ravvedimento e abbandonavano al braccio secolare, cioè alla morte, i recidivi che, essendo tornati ai loro errori, facevano perdere ogni fiducia nella loro conversione e nella loro sincerità. La pena capitale non trovava esecuzione rigorosa presso l'Inquisizione e la sentenza era spesso modificata, in netto contrasto con l'immancabile esecuzione del colpevole da parte dei tribunali secolari e con la crudeltà degli organismi inquisitoriali nei paesi protestanti. Dall'esame degli archivi risulta, per esempio, che nella seconda metà del secolo XIII gli inquisitori di Tolosa pronunciarono condanne a morte nella misura dell'1% delle sentenze emesse. Inoltre, gli studiosi hanno completato lo spoglio dei processi inquisitoriali di Bernard Gui (?-1331) - il domenicano calunniato nel romanzo Il nome della rosa, di Umberto Eco, del 1980, e nel film omonimo del regista Jean-Jacques Annaud, del 1986 - constatando che su novecentotrenta imputati solo quarantadue furono rimessi al braccio secolare, mentre centotrentanove vennero assolti e gli altri condannati a pene minori, spesso di straordinaria mitezza.

Raggiunti i suoi scopi con la distruzione dell'eresia, l'Inquisizione medievale declina ovunque lentamente e, sottoposta sempre più al controllo del potere secolare, scompare da sola, in epoche diverse. La svolta più significativa è compiuta dalla monarchia francese, che sottrae gradualmente agli inquisitori la competenza in materia d'eresia e l'affida ai tribunali reali e al parlamento; durante il grande scisma d'Occidente, anche la facoltà teologica dell'università di Parigi rivendica l'esame e il giudizio sui delitti di eresia. Così, l'Inquisizione in Francia diventa una sigla di cui si appropria il potere politico e su cui la Chiesa non ha più potestà. I tribunali che processano i templari nel 1307 e santa Giovanna d'Arco (1412-1431) non rappresentano più la vera Inquisizione, ma sono espressione del potere "laico".

 

3. L'Inquisizione romana

Nel secolo XVI, di fronte al pericolo rappresentato dalle nuove eresie di Martin Lutero (1483-1546) e di Giovanni Calvino (1509-1564), che devastavano le più fiorenti comunità cristiane d'Europa, la Chiesa cattolica deve intervenire ancora una volta con energia, dopo aver sperimentato invano un atteggiamento conciliante. Il 21 luglio 1542, con la bolla Licet ab initio, Papa Paolo III (1534-1549) riorganizza il sistema inquisitoriale medioevale e istituisce la Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione o Sant'Uffizio.

In sostanza, l'autorità dell'Inquisizione romana è limitata agli Stati della penisola italiana, dove ha costituito un bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale e ha difeso il patrimonio spirituale del popolo italiano, contribuendo alla vittoria della Contro-Riforma sull'Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Pseudo-Riforma protestante.

La storia di questa istituzione non è stata ancora studiata in modo adeguato. Infatti, il carattere anticattolico dell'unificazione dell'Italia ha ridato fiato alla polemica illuminista e alla propaganda protestante, che dipingevano questo organismo come simbolo dell'oscurantismo, conferendo un carattere ideologico alla ricostruzione storica. Uno studio rigoroso delle fonti documentarie avrebbe contribuito non poco a sfatare i luoghi comuni sull'Inquisizione romana. Lo storico Luigi Firpo, esponente di rilievo della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso anche ai documenti riservati del Sant'Uffizio, intervistato dallo scrittore Vittorio Messori, si è espresso così: "Sono sicuro che l'apertura di quell'archivio, sinora assai limitata anche per esigenze organizzative, gioverebbe molto all'immagine della Chiesa [...]. Aprendo a tutti gli studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi dell'abusiva leggenda nera che circonda l'Inquisizione".

Riorganizzata da Papa san Pio X (1903-1914) con la costituzione Sapienti consilio, del 29 giugno 1908, la vecchia Inquisizione è stata riformata da Papa Paolo VI (1963-1978) con il motu proprio Integrae servandae, del 7 dicembre 1965, che ne ha anche mutato il nome in Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. La riforma ha modificato le procedure del Sant'Ufficio, ma ne ha confermato il compito primario: "tutelare la dottrina riguardante la fede e i costumi di tutto il mondo cattolico" (n. 29), soprattutto mediante la promozione della sana dottrina.

Per approfondire: vedi un'introduzione, in Leo Moulin (1906-1996), L'Inquisizione sotto inquisizione, trad. it., a cura dell'Associazione Culturale ICARO, Cagliari 1992; i risultati della rinnovata ricerca storica - poco noti al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori -, in Brian van Hove S.J., Oltre il mito dell'Inquisizione, in La Civiltà Cattolica, anno 143, n. 3419, 5-12-1992, pp. 458-467; e n. 3420, 19-12-1992, pp. 578-588; vedi pure la voce Inquisition, scritta da Jean-Baptiste Guiraud per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911 e il 1913, trad. it. con il titolo Elogio della Inquisizione, Leonardo, Milano 1994, a cura di Rino Cammilleri, con un invito alla lettura di Vittorio Messori e con preziose Integrazioni bibliografiche, redatte da Marco Invernizzi e da Oscar Sanguinetti, rassegna ragionata e aggiornata delle correnti storiografiche sul tema; e una sintesi nel mio Lo "scandalo dell'Inquisizione". Tra realtà storica e leggenda storiografica, AA. VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, a cura di Franco Cardini, 3a ed., Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1995, pp. 353-371.


 

 

L'Inquisizione spagnola

di Francesco Pappalardo

 

1. Le origini

Lo storico napoletano Giuseppe Galasso, prendendo spunto dalla polemica sulle presunte "colpe" della Spagna nel Mezzogiorno d'Italia, denuncia la "leggenda nera" antispagnola, da sempre "[...] permeata di elementi ideologici che hanno fatto fortemente premio non solo sulla ragione storica, ma pressoché su ogni altra ragione. La Spagna baluardo della "reazione cattolica", di un "assolutismo" oppressivo o totalitario, di dominazioni distruttive su popoli e paesi, di irrazionalismo e sfruttamenti economici di ogni genere, di autentici genocidi di popoli e di civiltà, insomma vero e proprio "impero del male", di cui l'"Inquisizione spagnola" era il simbolo più eloquente".

Proprio sull'Inquisizione spagnola la storiografia, grazie ad approfondite ricerche d'archivio e a un atteggiamento meno prevenuto degli studiosi, sta pervenendo a risultati più equilibrati e più obbiettivi. È significativa la vicenda dello storico inglese Henry Arthur Francis Kamen, di formazione marxista, che nella prima edizione del suo studio L'Inquisizione spagnola - l'unica tradotta in italiano - indicava nei tribunali inquisitoriali la causa principale di un presunto ritardo culturale del paese iberico, mentre nell'edizione più recente sostiene che la Spagna di quel tempo "[...] era una delle nazioni europee più libere".

Dall'analisi di Kamen emerge che l'Inquisizione è stata espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra le diverse comunità religiose a un'altra sempre più contrassegnata da conflitti, e che essa fu la risposta della Chiesa e della Cristianità alla minaccia rappresentata dall'eresia e, successivamente, in Spagna, dalle false conversioni di ebrei e di musulmani.

Anche Jean Dumont, storico francese specializzato in ispanistica, ritiene che il punto di partenza corretto per parlare dell'Inquisizione spagnola stia nel mettere a fuoco la questione ebraica in Spagna. Nei regni della penisola iberica gli ebrei, molto numerosi, erano soggetti da secoli a uno statuto, non scritto, di tolleranza e godevano di una particolare protezione da parte dei sovrani. Invece, i rapporti a livello popolare fra ebrei e cristiani erano più difficili, soprattutto perché era consentito ai primi non soltanto di tenere aperte le botteghe in occasione delle festività religiose, che a quell'epoca erano molto numerose, ma anche di effettuare prestiti a interesse, in un'epoca in cui il denaro non veniva ancora considerato un mezzo per ottenere ricchezza. La situazione era complicata dalla presenza di numerosi conversos, cioè di ebrei convertiti al cattolicesimo, che dominavano l'economia e la cultura e rivestivano anche cariche ecclesiastiche. In alcuni casi evidenti, gruppi di conversos mostravano che la loro adesione alla fede cattolica era puramente formale e celebravano in pubblico riti inequivocabilmente giudaici. A partire dal 1391 nei regni spagnoli esplodono episodi di violenza popolare contro ebrei e falsi convertiti, che le autorità arginano con difficoltà. Quando Isabella di Castiglia (1451-1504) sale al trono, nel 1474, la convivenza fra ebrei e cristiani è molto deteriorata e il problema dei falsi convertiti è tale che, secondo l'autorevole storico della Chiesa Ludwig von Pastor (1854-1928), era in questione l'esistenza o la non esistenza della Spagna cristiana. In quella situazione si moltiplicano le richieste, provenienti anche da autorevoli conversos, in favore dell'istituzione dell'Inquisizione.

La Castiglia non aveva mai avuto un organismo che si occupasse specificamente dell'eresia, perché era stata ritenuta sufficiente l'attività dei tribunali ecclesiastici, dipendenti dai vescovi. Invece, l'Inquisizione era stata operante nei domini della corona aragonese dal 1238, ma era del tutto inattiva dal secolo XV. Su sollecitazione di Isabella di Castiglia e del marito Ferdinando d'Aragona (1452-1516) - che avevano promosso invano una campagna pacifica di persuasione nei confronti dei giudaizzanti - il 1° novembre 1478 Papa Sisto IV (1471-1484) istituisce l'Inquisizione in Castiglia e autorizza i Re Cattolici a nominare nei loro Stati alcuni inquisitori di fiducia con giurisdizione esclusivamente sui cristiani battezzati. Pertanto, nessun ebreo è stato mai condannato perché tale, mentre sono stati condannati quanti si fingevano cattolici per ricavarne vantaggi.

 

2. La procedura e le pene

L'attività del nuovo organismo si fonda sulla copiosa legislazione elaborata dai canonisti medievali e riprende, salvo qualche lieve differenza, l'organizzazione, la procedura e la progressione delle pene della prima Inquisizione. Tuttavia, i poteri di nomina e di rimozione degli inquisitori erano concessi alla Corona tramite la figura di un intermediario, l'inquisitore generale, assistito dal Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione.

L'azione dei primi inquisitori a Siviglia è molto rigorosa ed esercitata, talvolta, al di fuori delle garanzie canoniche, così che la Santa Sede ritiene opportuno intervenire per nominare l'inquisitore generale nella persona del domenicano Tomas de Torquemada (1420-1498), confessore della regina Isabella, sul quale una letteratura di propaganda ha diffuso grandi menzogne. Uomo di costumi integerrimi, nonché uno dei maggiori mecenati e protettori di artisti della sua epoca, Torquemada fu, invece, un inquisitore generale relativamente mite e liberale e s'impegnò per ottenere ampie amnistie, come quella del 1484.

Lo storico francese Bartolomé Bennassar, confrontando i tribunali inquisitoriali con le corti civili dell'epoca, descrive l'Inquisizione spagnola in questi termini: "Senza alcun dubbio più efficace. Ma anche più esatta, più scrupolosa [...]. Una giustizia che esamina attentamente le testimonianze, che le sottopone a uno scrupoloso controllo, che accetta liberamente la ricusazione da parte degli accusati dei testimoni sospetti (e spesso per i motivi più insignificanti); una giustizia che tortura raramente e che rispetta le norme legali, contrariamente ad alcune giurisdizioni civili [...]. Una giustizia preoccupata di educare, di spiegare all'accusato perché ha errato, che ammonisce e consiglia, le cui condanne a morte colpiscono solo i recidivi".

Lo studioso danese Gustav Henningsen, dopo aver analizzato statisticamente circa quarantamila casi di inquisiti fra il 1540 e il 1700, rileva che soltanto l'1% di essi fu giustiziato. Lo storico statunitense Edward Peters conferma questi dati: "La valutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari".

 

3. Indulgenza verso la stregoneria

La relativa mitezza dei tribunali inquisitoriali emerge anche dall'atteggiamento tollerante tenuto nei confronti della stregoneria, proprio nel periodo in cui dilagava in Europa la fobia antistregonica, legata direttamente alla diffusione dell'occultismo e del pensiero magico nel Rinascimento e alla psicosi del demoniaco, indotta dalla Pseudo-Riforma protestante. È ormai certo che in Spagna fu proprio l'Inquisizione - dopo una prima incontrollata diffusione di timori popolari e di repressione statale - a impedire lo sviluppo di una vera e propria caccia alle streghe, così come è poco noto che a Roma l'Inquisizione fece giustiziare per stregoneria una sola persona, nel 1424. È significativo, inoltre, che furono i principi più legati ai valori cavallereschi e feudali ad attestarsi su posizioni di moderazione e di scetticismo verso i supposti poteri delle streghe, mentre la parte più "progressista" della cultura ufficiale sposò la causa dell'intolleranza e della persecuzione in nome del progresso della ragione. Da parte loro, i Pontefici raccomandarono sempre agli inquisitori di limitare il loro interesse per gli stregoni ai soli casi in cui fossero presenti elementi sacrileghi o idolatrici, cioè quando, alla superstizione, potessero essere attribuiti con evidenza i caratteri dell'eresia.

L'Inquisizione spagnola interviene per la prima volta nel 1526, a seguito della persecuzione scatenata dalla popolazione di Navarra negli anni precedenti; la maggioranza degli inquisitori si pronuncia a favore di una politica di clemenza, sollecitando inoltre l'invio di predicatori per istruire i superstiziosi. La successiva ondata contro le streghe si verifica nel 1610, ancora in Navarra. L'emozione suscitata dal dilagare dei fenomeni attribuiti alla magia investe perfino gli inquisitori di Logrono, ma interviene il Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione, annullando tutte le sentenze e consigliando maggiori precauzioni nel prosieguo delle indagini.

 

4. Popolarità dell'Inquisizione

Il ruolo svolto dall'Inquisizione spagnola, che godette sempre di grande popolarità, è decisivo non soltanto per preservare il paese da quella sanguinosa fobia di massa costituita dalla caccia alle streghe, ma anche e soprattutto per assicurare la pace sociale e religiosa alla Spagna. Infatti quel tribunale, colpendo una percentuale ridotta di conversos e di moriscos, cioè musulmani diventati cristiani solo per opportunismo, certifica che tutti gli altri erano veri convertiti, che nessuno aveva il diritto di discriminare o di attaccare con la violenza, ed evita un bagno di sangue. Inoltre, contribuendo alla repressione dell'eresia e sostenendo l'operato della Contro-Riforma, svolge una preziosa azione educativa sul basso clero e il resto della popolazione, confortandone la fede e la morale. Non può essere sottovalutata la portata di tale impresa, che costituisce una nazione spiritualmente compatta di fronte alla Francia lacerata dalle guerre di religione, all'Inghilterra sulla strada dell'eresia e al sultano difensore del mondo islamico. Inoltre, l'Inquisizione non ostacola mai le grandi imprese culturali dei secoli XVI e XVII; anzi, ripiegandosi su sé stessa, la Spagna giunge in quegli anni al culmine del suo splendore. Personaggi come il giurista Francisco de Vitoria (1492-1546), i teologi Domenico de Soto (1495-1560), Melchor Cano (1509-1560) e Francisco Suarez (1548-1617), i drammaturghi Felix Lope de Vega (1562-1635) e Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), il romanziere Miguel de Cervantes (1547-1616), i pittori El Greco (1545-1614), Bartolomé Murillo (1617-1682) e Diego Velázquez (1599-1660) dominano la cultura europea e danno vita al cosiddetto siglo de oro spagnolo. Anche la vita religiosa conosce la sua epoca aurea, attraverso le figure di sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, di san Giovanni di Dio (1495-1550), fondatore dell'Ordine degli Ospedalieri, dei mistici santa Teresa d'Avila (1515-1582) e san Giovanni della Croce (1542-1591), riformatori dell'ordine carmelitano, del francescano san Pietro di Alcantara (1499-1562) e del gesuita san Francesco Borgia (1510-1572).

Pertanto, non fu un'impresa facile sopprimere l'Inquisizione. Soltanto con la diffusione dell'illuminismo e con la laicizzazione della monarchia, con l'invasione napoleonica e con la propaganda liberale si perviene alle soppressioni del 1813 e del 1834, che suscitano l'opposizione degli spagnoli di tutti i ceti, per i quali l'Inquisizione era il simbolo di quanto costituiva l'identità del paese, cioè la fedeltà incondizionata al cattolicesimo.

Per approfondire: vedi Henry Kamen, L'Inquisizione spagnola, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973; e Bartolomé Benassar, Storia dell'Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, trad. it., Rizzoli, Milano 1985; vedi pure, sinteticamente, Jean Dumont, L'Inquisizione fra miti e interpretazioni, intervista a cura di Massimo Introvigne, in Cristianità, anno XIV, n. 131, marzo 1986, pp. 11-13; vedi elementi molto utili nelle Integrazioni bibliografiche - redatte da Marco Invernizzi e da Oscar Sanguinetti - in appendice a Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953), Elogio della Inquisizione, trad. it., Leonardo, Milano 1994; una ricostruzione dell'opera e della figura di Isabella di Castiglia, in Joseph Perez, Isabella e Ferdinando, trad. it., SEI, Torino 1991, che si sofferma su La Spagna inquisitoriale, pp. 267-318; il rapporto dell'Inquisizione cattolica con la stregoneria, in Giovanni Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990; e in Gustav Henningsen, L'avvocato delle streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990.


 

 

"Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana"
Una lettura

Uno studio dello storico italo-americano John Tedeschi descrive l'organizzazione e le procedure adottate dall'Inquisizione romana per la salvaguardia della fede cattolica e nella lotta contro l'eresia, sfatando numerosi luoghi comuni - soprattutto relativi all'arbitrarietà e alla severità dei tribunali inquisitoriali - ed evidenziando i limiti d'interpretazioni purtroppo sedimentate nell'immaginario collettivo.

 

Il 23 gennaio 1998, con l'apertura degli archivi del Sant'Uffizio - peraltro già disposta dal 1902 per casi particolari e limitati -, si è concluso un lento e prudente processo iniziato nel 1881, quando Papa Leone XIII (1878-1903) volle aprire agli studiosi l'Archivio Segreto Vaticano. "L'apertura del nostro Archivio - ha dichiarato il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - si ispira in realtà al compito stesso assegnato dal Santo Padre alla nostra Congregazione di "promuovere e tutelare la dottrina sulla fede e i costumi di tutto l'orbe cattolico". Sono sicuro che aprendo i nostri Archivi si risponderà non solo alle legittime aspirazioni degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di servire l'uomo aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la propria storia" (1).

Intervistato dallo scrittore Vittorio Messori nel 1984, lo storico Luigi Firpo (1915-1989), esponente di rilievo della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso anche ai documenti riservati del Sant'Uffizio, si è espresso così: "Sono sicuro che l'apertura di quell'archivio, sinora assai limitata anche per esigenze organizzative, gioverebbe molto all'immagine della Chiesa [...]. Aprendo a tutti gli studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi della abusiva leggenda nera che circonda l'Inquisizione" (2).

L'immagine dell'Inquisizione sta infatti mutando, e in senso favorevole, presso gli specialisti, grazie ai risultati della rinnovata ricerca storica. Inoltre, alcune apprezzabili iniziative editoriali stanno mettendo a disposizione di un vasto pubblico testi poco conosciuti al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. È questo il caso dell'Elogio della Inquisizione, traduzione della voce Inquisition, scritta dallo storico e giornalista francese Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953) per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911 e il 1913 (3), nota finora soltanto ai frequentatori di biblioteche specializzate e molto utile per un primo approccio allo studio dell'Inquisizione medioevale, la cui fondazione è fatta risalire a Papa Gregorio IX (1227-1247). Anche la storiografia sull'Inquisizione spagnola - l'istituzione creata nel 1478 da Papa Sisto IV (1471-1484), su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia (1451-1504) e di re Ferdinando d'Aragona (1452-1516) - ha prodotto negli ultimi decenni rilevanti contributi, sostanziati da approfondite ricerche d'archivio, che hanno consentito di superare i pregiudizi di carattere ideologico su questa istituzione e che sono a disposizione del lettore comune, anche in Italia, grazie alle sintesi offerte dall'inglese Henry Arthur Francis Kamen, dal francese Bartolomé Bennassar e dal danese Gustav Henningsen (4). Una rivisitazione degli studi storici è in corso anche per quanto riguarda l'Inquisizione romana - più precisamente la Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, o Sant'Uffizio, istituita da Papa Paolo III (1534-1549) nel 1542 -, la cui autorità si estendeva soltanto su una parte della penisola italiana, perché in Sicilia e in Sardegna operava l'Inquisizione spagnola, mentre negli altri domìni asburgici, il Regno di Napoli e lo Stato di Milano, le funzioni inquisitoriali erano svolte dai tribunali episcopali del luogo (5).

Uno studio innovativo

Autore dei "primi studi realmente innovativi sul tema" (6)  è John Tedeschi, di cui nel 1997 è stato pubblicato in Italia Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana (7)  - raccolta di undici saggi scritti fra il 1971 e il 1988, tutti ampiamente rivisti e aggiornati, nonché corredati di un imponente apparato critico e bibliografico -, che offre finalmente al grande pubblico i risultati di una ricerca ventennale.

Nato a Modena nel 1931, Tedeschi è emigrato negli Stati Uniti d'America all'età di otto anni, ha studiato all'Università di Harvard, dove la sua attenzione si è concentrata sulla diffusione del protestantesimo in Italia, è stato professore associato nelle università di Chicago, dell'Illinois a Chicago e del Wisconsin a Madison, ha lavorato per quasi due decenni alla Newberry Library, sempre a Chicago, dove ha fondato il Center for Reformation Research Studies. Ha inoltre ricoperto la carica di presidente della Society for Reformation Research e della Sixteenth Century Studies Conference, e ha fatto parte del comitato esecutivo della Renaissance Society of America dal 1971 al 1996.

Quando, nel 1967, ha cominciato a occuparsi dell'Inquisizione romana, ben poco era offerto a chi non volesse fermarsi alle generalizzazioni dello storico statunitense Henry Charles Lea (1825-1909), autore di uno studio monumentale sull'Inquisizione medioevale (8). Le fonti inquisitoriali, infatti, erano state utilizzate fino ad allora soltanto da quanti si occupavano degli eretici italiani con l'intenzione di studiare non l'Inquisizione ma quanti ne erano stati vittime: "[...] il carattere liberale e anticlericale dell'unificazione italiana - osserva lo storico Adriano Prosperi - ha portato a inseguire un'identità nazionale attraverso la storia della cultura e degli intellettuali che avevano unito l'Italia all'Europa (in particolare, l'Europa protestante e liberale) [...]. Insomma, l'autobiografia immaginaria della borghesia risorgimentale incluse da allora una serie di illustri precursori, di spiriti liberi, le cui vicissitudini con la Chiesa e con l'Inquisizione vennero studiate amorevolmente. Ma proprio il carattere ideologico di quell'interesse si rivela nella scarsità di indagini storiche che ne derivava" (9).

Lo studioso italo-americano decide dunque di fondare le sue ricerche sull'esame rigoroso delle molteplici fonti a disposizione per ricostruire correttamente l'iter di un processo inquisitoriale, dalle prime convocazioni alle deliberazioni finali. Fin dall'inizio dei suoi studi, consultando la ricca collezione dei manoscritti conservati nel Trinity College di Dublino, in Irlanda - contenenti sentenze emesse in Italia fra il 1564 e il 1659 - s'imbatte in una serie di elementi che forniscono un quadro nuovo della giustizia inquisitoriale: "il convento o l'abitazione come luoghi prevalenti in cui scontare una pena detentiva; l'importanza attribuita alle circostanze attenuanti e alla consulenza di specialisti nel campo del diritto e della teologia; la relativa mitezza delle sentenze dei processi per stregoneria; il gran numero di casi che si concludevano con abiure sulle gradinate delle chiese; la rarità del ricorso alla pena capitale" (p. 25) e la constatazione che il "carcere perpetuo" non comportava mai l'imprigionamento a vita ma, generalmente, una detenzione di tre anni. "Un banale fraintendimento della terminologia inquisitoriale ha quindi fuorviato più di uno studioso in buona fede, e contribuito alla cattiva fama dell'istituzione" (p. 26), osserva lo storico, che rievoca anche il caso di uno studio sull'eresia a Mantova, il cui autore aveva scorrettamente sostituito "abiurare" con "abbruciare" tutte le volte in cui la prima espressione compariva nel testo: "E quando un autore successivo si sentì tenuto a parlare di "eccessi" dell'Inquisizione mantovana, la sua fonte fu quel resoconto filologicamente inquinato. È chiaro che simili leggerezze autoperpetuantisi non hanno contribuito a un esame obiettivo dell'argomento" (p. 20).

L'esame delle fonti

Tedeschi non si propone di chiarire le origini della leggenda nera sulla spietatezza e sull'arbitrarietà dell'Inquisizione, rinviando a uno studio specifico sul tema (10), ma prende in esame alcuni fattori che hanno contribuito al perpetuarsi di vecchi stereotipi e di fraintendimenti: "Si va dall'uso improprio delle fonti alle affermazioni non sorrette dai dati di fatto e, in qualche caso, a quelli che appaiono deliberati tentativi di distorcere la realtà" (p. 29), cui si aggiungono la tendenza da parte di alcuni autori a considerare regola le aberrazioni, la presenza di contraddizioni anche in una stessa opera e il disaccordo fra gli storici su punti fondamentali pure se facilmente verificabili sulla base dei documenti consultabili. Infatti, la gamma di fonti a disposizione degli studiosi è piuttosto ampia, nonostante le gravi perdite subìte dagli archivi dell'Inquisizione romana, distrutti o dispersi in Irlanda, in Belgio, in Francia, in Italia e, in misura minore, negli Stati Uniti d'America, in conseguenza del saccheggio del Sant'Uffizio operato da funzionari napoleonici nel 1810 e dei danni patiti dalle Inquisizioni provinciali di Firenze, di Milano e di Palermo a causa del vandalismo giacobino o della soppressione delle istituzioni religiose. "La politica della porta chiusa del Sant'Uffizio - osserva Tedeschi - si basa su una decisione burocratica interna e non rappresenta la posizione ufficiale della Chiesa cattolica riguardo all'accesso ai documenti dell'Inquisizione. Raccolte ecclesiastiche provinciali ricche di documenti su tale argomento a Napoli, Pisa, Udine, Firenze e altrove, in misura crescente vengono messe a disposizione degli storici a scopo di ricerca; e innumerevoli codici inquisitoriali conservati presso la Biblioteca Vaticana e l'Archivio Segreto Vaticano sono stati messi a disposizione di studiosi di tutto il mondo, anche sotto forma di microfilm" (p. 214, nota 1).

Alcuni studiosi, anche in anni recenti, hanno sollevato il problema dell'attendibilità dei processi inquisitoriali come documenti storici, e Carlo Ginzburg, in particolare, ha sottolineato il divario di estrazione sociale e culturale che spesso separava giudice e imputato, chiedendosi se tali fonti, pervenuteci attraverso il filtro dei rappresentanti delle classi colte, siano in grado di informarci correttamente sulle idee e sulle affermazioni dell'imputato e dei testimoni (11). A questa domanda - in merito alla quale è già stato osservato, in occasione dell'esame di particolari fonti inquisitoriali medioevali, che "[...] i verbali degli interrogatori sono assai più pieni di vita e aderenti alla verità di quanto normalmente, ma erroneamente, si creda" (12)  - Tedeschi risponde che i più responsabili fra i funzionari del Sant'Uffizio erano consapevoli di questa difficoltà e cercavano di evitare possibili abusi. La raccomandazione di evitare scrupolosamente le domande tendenziose e, in generale, di spingere l'interrogatorio in una direzione prestabilita era ripetuta in continuazione sia nei manuali di teoria dei procedimenti inquisitoriali sia nella corrispondenza fra Roma e i tribunali provinciali. La Congregazione del Sant'Uffizio, inoltre, vigilava sulle articolazioni locali, imponendo la puntuale applicazione della legislazione e mirando all'uniformità dei procedimenti: "Decisioni capricciose e arbitrarie, abusi di potere e flagranti violazioni dei diritti umani non erano tollerati" (p. 30).

 

Oltre la leggenda nera

Le ricerche di Tedeschi consentono di sfatare una lunga serie di luoghi comuni. L'Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le testimonianze - gli inquisitori "[...] non ritenevano di avere niente di vergognoso da nascondere" (p. 97) -, è una delle prime istituzioni del passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico sia sull'organizzazione sia sulla prassi adottata. Gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, poco inclini a decidere in fretta e arbitrariamente la sorte dell'imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. Diverse garanzie giuridiche a tutela dell'accusato erano parte integrante della procedura inquisitoriale. È accertato che più di un imputato abbia chiesto e ottenuto il cambiamento della sede e la sostituzione dell'inquisitore che si occupava del suo caso, avendo potuto dimostrarne la mancanza di obbiettività. "Non è un'esagerazione affermare che il Sant'Uffizio fu in certi casi un pioniere della riforma giudiziaria. L'avvocato difensore era parte integrante della sua procedura [...], nei tribunali dell'Inquisizione l'imputato riceveva una copia autenticata dell'intero processo [...] e disponeva di un ragionevole lasso di tempo per preparare la propria replica" (p. 30). Inoltre, molti manuali inquisitoriali abbondavano di consigli su possibili strategie difensive.

Nella prassi giudiziaria romana l'uso della tortura era attentamente controllato e sottoposto a una serie di limitazioni: in particolare, occorreva l'autorizzazione del tribunale centrale, che la concedeva soltanto quando i cardinali inquisitori, assistiti da un'équipe di teologi e di specialisti in diritto canonico, ritenevano di aver ricevuto tutte le informazioni importanti sul caso in esame. La tortura doveva essere moderata affinché la vittima, se innocente, potesse tornare a godere la libertà, e, se colpevole, potesse ricevere la giusta punizione. Sebbene fino al secolo XVII l'Inquisizione, come tutti gli altri sistemi giudiziari europei, non abbia rinunciato a ricorrere alla tortura in quelle particolari situazioni in cui si riteneva che una parte essenziale della verità venisse celata pervicacemente, gli inquisitori, a differenza dei giudici civili, ne facevano uso raramente, ritenendo che fosse un fragile e rischioso strumento, spesso incapace di condurre alla verità, soprattutto perché molti riuscivano a sopportare i tormenti grazie alla loro forza d'animo e fisica (13).

Sebbene si pensi generalmente il contrario, solo una piccola percentuale di procedimenti inquisitoriali si concludeva con la condanna a morte, che era riservata ai pertinaci, non disposti in alcun caso a riconciliarsi con la Chiesa, e ai relapsi, i ricaduti, giudicati colpevoli di eresia già in passato. "I dati disponibili sui rei consegnati dall'Inquisizione al braccio secolare indicano che una percentuale decisamente modesta di essi fu giustiziata" (p. 85). Fra i primi mille imputati che comparvero davanti al tribunale di Aquileia fra il 1551 e il 1647 solo quattro furono giustiziati. A Milano nella seconda metà del 1500 si contarono dodici esecuzioni capitali per eresia e soltanto una a Modena, nel 1567. Quanto alle oltre duecento sentenze, alcune concernenti più di un imputato, contenute nei manoscritti del Trinity College, solo in tre di esse era invocata l'estrema sanzione, mentre a Roma si contarono novantasette condannati a morte dal Sant'Uffizio fra il 1542 e il 1761. Dati analoghi emergono dal confronto con l'Inquisizione spagnola, che fra il 1540 e il 1700 ha comminato 820 volte la pena capitale su un totale di 44.000 casi, cioè una percentuale dell'1,9 per cento.

Inoltre, poiché la carcerazione come pena anziché come misura precauzionale durante il procedimento fece la sua comparsa in Europa negli ultimi decenni del 1500, "[...] l'Inquisizione, col suo secolare ricorso alla detenzione ad poenam, dev'essere considerata all'avanguardia anche nel diritto penale, in un'epoca in cui le altre opzioni a disposizione del giudice si riducevano al rogo, alla mutilazione, alle galee e all'esilio" (p. 31). Basandosi su vari documenti, compresi quelli del processo a Giordano Bruno (1548-1600), nonché su un sopralluogo in prima persona, Luigi Firpo ha ricostruito le condizioni di vita nelle prigioni romane del Sant'Uffizio, demolendo le teorie fantasiose di alcuni autori: "Si scoprirebbe poi che gli Ucciardone e le Rebibbia di oggi sono le vere bolge infernali rispetto alle troppo diffamate celle dell'Inquisizione, dove la vita era ritmata da regolamenti severi ma non disumani. Era, per esempio, prescritto che lenzuola e federe si cambiassero due volte alla settimana: roba da grande albergo.... [...] Una volta al mese, i cardinali responsabili dovevano ricevere uno a uno i prigionieri per sapere di che avessero bisogno. Mi sono imbattuto in un recluso friulano che chiese di avere birra al posto del vino. Il cardinale ordinò che si provvedesse, ma, non riuscendo a trovare birra a Roma, ci si scusò con il prigioniero, offrendogli in cambio una somma di denaro perché si facesse venire la bevanda preferita dalla sua patria" (14).

Ai responsabili di reati particolarmente gravi e ripugnanti era riservata invece la detenzione sulle galee, "[...] che possono essere considerate, in un certo senso, l'equivalente delle nostre carceri di massima sicurezza" (p. 117).

Se il rogo, la reclusione "a vita" e i lavori forzati sulle galee sono le sanzioni associate nella mente dei più ai processi dell'Inquisizione, l'esame delle sentenze mostra il predominio di pene molto più lievi. "Con particolare frequenza si incontrano atti di umiliazione pubblica sotto forma di abiure lette sulle gradinate delle chiese, di domenica o in occasione di festività religiose, di fronte a folle di fedeli; multe o servigi a favore di istituzioni caritative; e cicli apparentemente interminabili di preghiere e atti di devozione da compiere per mesi e anni" (p. 119). Spesso erano comminati gli arresti domiciliari, generalmente congiunti allo svolgimento di attività utili alla comunità e al ricupero morale del reo (15).

Per quanto riguarda la tipologia dei reati si colgono sostanziali differenze fra i due grandi sistemi inquisitoriali dell'età moderna, derivanti dal fatto che l'Inquisizione romana era stata rifondata nel 1542 per fronteggiare la diffusione del protestantesimo nella penisola italiana, mentre quella spagnola era stata istituita più di mezzo secolo prima per affrontare il problema delle false conversioni dall'ebraismo al cristianesimo. Negli Stati italiani, quindi, il "luteranesimo" fu la preoccupazione maggiore dei funzionari inquisitoriali, finché nel secolo XVII la pratica della magia soppiantò il protestantesimo come capo d'imputazione più comune. Peraltro, l'assidua vigilanza di Roma nei confronti della magia - nella quale raramente erano incluse la stregoneria o il satanismo - non comportò una grande severità in termini di pene. "Come riconosciuto anche da Lea quasi un secolo fa, entrambe le grandi Inquisizioni del Mediterraneo erano assai caute e moderate a questo riguardo, in confronto ai tribunali secolari" (p. 85). Tedeschi, fra l'altro, contesta la tesi secondo cui il manuale inquisitoriale Malleus maleficarum, scritto dai domenicani tedeschi Heinrich Kramer (1430 ca.-1505) e Jakob Sprenger (1436 ca.-1495) e pubblicato nel 1486, sia stato il testo canonico per la persecuzione dei sospettati di stregoneria nei due secoli seguenti, documentando come una filosofia radicalmente opposta trovasse consensi crescenti nei tribunali del Sant'Uffizio nella seconda metà del 1500 fino a raggiungere dignità di norma con l'Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, del 1624.

Conclusione

L'Inquisizione ha rappresentato un fenomeno plurisecolare e dalle molteplici caratteristiche a seconda dei luoghi e dei contesti storici nei quali si è esplicato, ma è stata comunque "[...] espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra le diverse comunità religiose a un'altra sempre più contrassegnata da conflitti, e [...] la risposta della Chiesa e della cristianità alla minaccia rappresentata dall'eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in Spagna, dalle false conversioni di giudei e musulmani" (16). Come il ruolo svolto dai tribunali inquisitoriali fu decisivo per assicurare la pace sociale e religiosa in Spagna, così l'Inquisizione romana ha rappresentato nella penisola italiana un bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale in tempi "[...] in cui la Chiesa - come ricorda il cardinale Ratzinger - ha dovuto difendere la fede dei più piccoli in contesti frequentemente polemici se non manifestamente aggressivi" (17).

La storia di questa istituzione è stata travisata e deformata per secoli, finché accurate ricerche documentarie hanno aperto la strada a lavori scientifici innovativi, anche grazie all'esempio e allo stimolo forniti dall'opera di John Tedeschi. È auspicabile ora che la nuova immagine dell'Inquisizione esca dall'ambito specialistico ed entri a pieno titolo nel patrimonio culturale anzitutto dei cattolici, i quali sono ancora affetti da un ingiustificato complesso d'inferiorità a causa di una scarsa conoscenza della loro storia.

Francesco Pappalardo

 

(1) Card. Joseph Ratzinger, "La soglia della verità", in Avvenire, anno XXXI, n. 19, 23-1-1998, p. 21. Già un secolo fa Papa Leone XIII, dopo aver osservato che, almeno negli ultimi tempi, "[...] si può asserire fondatamente che la scienza storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità" (Epistola Saepenumero considerantes, del 18-8-1883, in Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, vol. V, Leone XIII (1878-1903), parte prima, 1878-1891, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 158-165 [p. 159]), affermava: "I non travisati ricordi dei fatti, se analizzati con animo tranquillo e senza opinioni pregiudiziali, di per se stessi difendono, spontaneamente e magnificamente, la Chiesa e il Pontificato" (ibid., p. 158).

(2) Cit. in Vittorio Messori, Inchiesta sul cristianesimo, Società Editrice Italiana, Torino 1987, p. 27.

(3) Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della Inquisizione, a cura di Rino Cammilleri, con un invito alla lettura di Vittorio Messori, Leonardo, Milano 1994 (cfr. la mia recensione in Cristianità, anno XXIII, n. 239, marzo 1995, pp. 24-26). Sull'Inquisizione medioevale vedi anche Leo Moulin, L'Inquisizione sotto inquisizione, a cura dell'Associazione Culturale ICARO, Cagliari 1992; e il mio L'Inquisizione medioevale, in IDIS, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", a cura di Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 131-136.

(4) Henry Kamen, Inquisition and Society in Spain in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, Weidenfeld and Nicolson, Londra 1985, di cui esiste una successiva traduzione spagnola ampliata, La inquisición española, Editorial Crítica, Barcellona 1985, che modifica radicalmente il giudizio negativo espresso nel 1965 (cfr. L'Inquisizione spagnola, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973); nonché Idem, The Spanish Inquisition. A Historical Revision, Yale University Press, New Haven, Connecticut 1998; Bartolomé Bennassar, Storia dell'Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, trad. it., Rizzoli, Milano 1994; e Gustav Henningsen, L'avvocato delle streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990. Una rassegna bibliografica sull'argomento è stata compiuta da Brian van Hove S.J., Oltre il mito dell'Inquisizione, in La Civiltà Cattolica, anno 143, vol. IV, quaderno 3419, 5-12-1992, pp. 458-467, e quaderno 3420, 19-12-1992, pp. 578-588. Cfr. anche Joseph De Maistre (1753-1821), Elogio dell'Inquisizione di Spagna, con prefazione di Rino Cammilleri, Il Cerchio, Rimini 1998; e il mio L'Inquisizione spagnola, in IDIS, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", cit., pp. 137-142.

(5) Cfr. Adriano Prosperi, L'Inquisizione: verso una nuova immagine?, in Critica storica, anno XXV, gennaio-marzo 1988, n. 1, pp. 119-145, e Idem, L'Inquisizione romana. Dal declino della mentalità magica ai conflitti interni al clero, alla storia della censura, in Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia, anno 11, n. 44, dicembre 1993, pp. 18-29, nonché Idem, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1966. Cfr. anche AA.VV., L'Inquisizione romana in Italia nell'età moderna. Archivi, problemi di metodi e nuove ricerche, a cura di Andrea Del Col e Giovanna Paolin, Atti del seminario internazionale di Trieste (18/20-5-1988), Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1991. Sull'Inquisizione spagnola in Italia cfr. Agostino Borromeo, Contributo allo studio dell'Inquisizione e dei suoi rapporti con il potere episcopale nell'Italia spagnola, in Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, anno XXIX-XXX (1977-1978), Roma 1979, pp. 219-276. Sull'attività dei tribunali inquisitoriali a Napoli e a Milano, dove non fu mai accettata l'introduzione dell'Inquisizione spagnola, perché avrebbe minacciato privilegi e libertà tradizionali, cfr. Giovanni Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990; e Romano Canosa, Storia dell'Inquisizione in Italia dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento, 5 voll., Sapere 2000, Roma 1986-1990.

(6) A. Prosperi, L'Inquisizione in Italia, in Clero e società nell'Italia moderna, a cura di Mario Rosa, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 275-320 (p. 293).

(7) Cfr. John Tedeschi, Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1997 (The Prosecution of Heresy. Collected Studies on the Inquisition in Early Modern Italy, Binghamton, New York, 1991). Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest'opera.

(8) Cfr. Henry Charles Lea, A History of the Inquisition of the Middle Ages, New York 1887, 3 voll. È significativo che Lea, sebbene poco benevolo nei confronti dell'Inquisizione, abbia scritto che, nel Medioevo, "[...] la causa dell'ortodossia non era altro che la causa della civiltà e del progresso" (Storia dell'Inquisizione. Fondazione e procedura, trad. it. del primo volume, Fratelli Bocca Editori, Torino 1910, p. 118).

(9) A. Prosperi, L'Inquisizione: verso una nuova immagine?, cit., pp. 127-128.

(10) "Tanto la storia quanto il mito sono brillantemente discussi da E[dward]. Peters in Inquisition, New York-London 1988" (p. 201, n. 3).

(11) Cfr. Carlo Ginzburg, Stregoneria e pietà popolare. Note a proposito di un processo modenese del 1519, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Sezione II. Lettere, storia e filosofia, vol. XXX, 1961, pp. 269-287, e più in generale Idem, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966.

(12) Giovanni Grado Merlo, I registri inquisitoriali come fonti per la storia dei gruppi ereticali clandestini. Il caso del Piemonte basso medievale, in Histoire et clandestinité du Moyen-Âge à la première guerre mondiale. Colloque de Privas (Mai 1977), a cura di M. Tilloy, Gabriel Audisio e Jacques Chiffoleau, Albi 1979, pp. 59-74 (p. 72).

(13) Tedeschi in proposito riporta una considerazione di John Langbein, autore di Torture and the Law of Proof. Europe and England in the Ancien Régime (Chicago-Londra 1977, p. 185): "Dobbiamo tenere presente che nessun aspetto della condizione umana è mutato così radicalmente, nel ventesimo secolo, come la tolleranza della sofferenza fisica. I comuni analgesici e l'anestesia hanno in gran parte eliminato dalla nostra vita l'esperienza del dolore somatico. A causa di malattie, parti, interventi chirurgici e odontoiatrici i nostri antenati si abituavano a livelli di sofferenza che per noi risultano incomprensibili" (p. 300, nota 113).

(14) Cit. in V. Messori, Inchiesta sul cristianesimo, cit., p. 27.

(15) Lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642) fu condannato agli arresti domiciliari - scontati nella sua villa di Arcetri, presso Firenze, dove continuò a ricevere gli allievi e potè completare la stesura di alcune opere - e alla recita settimanale dei salmi penitenziali: cfr. Luciano Benassi, Galileo Galilei. La leggenda del "martire" della scienza moderna, in AA. VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, a cura di Franco Cardini, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1994, pp. 329-352.

(16) Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti, Integrazioni bibliografiche, in J.-B. Guiraud, Elogio della Inquisizione, cit., pp. 165-189 (pp. 167-168), che riprendono una considerazione di Henry Kamen.

(17) Cad. J. Ratzinger, art. cit.


 

 

 

FRA NICOLAU EYMERICH

MANUALE DELL'INQUISITORE - A.D. 1376

 

A cura di
RINO CAMMILLERI

 

INTRODUZIONE

La leggenda nera" sull'Inquisizione è stata da tempo smantellata dagli storici di professione, con un ridimensionamento di tali proporzioni da far temere ad uno dei maggiori specialisti italiani, Adriano Prosperi (non a caso di gran lunga il più citato nelle pagine che seguono), il passaggio ad una leggenda rosa". Il timore è che si finisca col non sottolineare a sufficienza l'intolleranza di quel tribunale ecclesiastico che pretendeva di uniformare tutte le idee in circolazione ad una sola, la sua. Prosperi: "La scoperta che i giudici di quel tribunale agivano sforzandosi in buona fede di fare correttamente il loro lavoro e che spesso riuscivano ad arginare ondate di sospetti e d'intolleranza, che la loro procedura era rigorosa, che non desideravano far soffrire gli imputati, non significa sostituire alla "1eyenda nigra" una "leyenda rosada"" (Inquisizione: verso una nuova immagine?, in "Critica storica" n. 25, [19881).Già. Ma il lettore comune quanto sa di tale "scoperta"?

Comunque, qui si ricade nel solito problema del "revisionismo" storico, termine d'origine marxista che postula una verità ` ufficiale" da salvaguardare per non correre il rischio che qualcuno possa, a furia "revisionare", subire tentazioni nostalgiche. Ma noi siamo convinti che, oggi come oggi (ma anche domani come domani) solo un visionario potrebbe pensare alla restaurazione di un Ancíen Régime in cui il Sant'Uffizio tenesse la conta di quelli che si confessano e fanno la comunione. Dunque, preferiamo subire la tentazione supremamente democratica di far sapere a tutti, anche al lettore medio, quel che gli storici accademici sanno bene da un pezzo. Perché il lettore (unico padrone e datore di lavoro di quelli come noi; l'unico, dunque, di cui c'importi il parere) di un argomento spinoso come l'Inquisizione dovrebbe continuare ad avere solo l'immagine fornita da romanzi "gotici" come Il pozzo e il pendolo o Il nome della rosa? Si deve ancora perpetuare la sgradevole distinzione tra cultura "alta" per le élites e "bassa" per il volgo? Nel nostro paese i cattolici sono tanti, e sono senz'altro interessati alla verità su uno "scheletro nell'armadio della loro storia, anche se qualche prelato o intellettuale potrà essere infastidito dalla riapertura d'antiche ferite.

Tuttavia, il libero mercato presenta un aspetto - nel caso in questione meraviglioso: uno è padrone di comprare o meno questo libro, senza che un'Inquisizione lo processi per averlo fatto.

Il materiale sull'Inquisizione è ormai davvero immenso, ed è il motivo per cui nelle pagine seguenti verranno citate solo le opere a nostro giudizio più rappresentative, a malincuore trascurando - per esempio cose notevoli ma ponderose come i cinque volumi della Storia dell'Inquisizione in Italia di Romano Canosa e privilegiando autori tutt'altro che teneri nei confronti dell'Inquisizione. La scelta di proporre e commentare il Directorium di Eymerich nella versione cinquecentesca del Peña è stata suggerita dal singolare revival che l'inquisitore medievale subisce ai nostri giorni, trasformato com'è in protagonista di romanzi di fantascienza da un autore d'Urania, Valerio Evangelisti. In questo modo si è avuta la possibilità di offrire una specie di "summa" sull'argomento sfruttando un personaggio che i giovani conoscono, un manuale da inquisitori medievali con un aggiornamento di due secoli dopo, una succinta panoramica di quanto la moderna storiografia ha assodato. Chi vuole avere un'idea "veloce" di quel che fu davvero l'Inquisizione, non deve fare altro che leggere questo libro.

Tuttavia è giusto avvisare il lettore, nostro signore e padrone, che commetterebbe un grossolano errore se leggesse le parole di Eymerich e di Peña con gli occhiali di fine XX secolo. Per due motivi. Il primo è che la "tolleranza", quale oggi la s'intende nel pensiero "debole" e politically correct, cinquecento anni fa (epoca di Peña) e - a maggior ragione - settecento anni fa (epoca di Eymerich) era invece intesa nel suo senso letterale di "sopportazione". Dall'Illuminismo in poi "tolleranza religiosa" ha significato indifferenza verso qualsiasi credo, religioso o no, adducendo che, se la religione porta a guerre e massacri, è meglio relegarla nel privato. Purtroppo i giacobini non trovarono altro mezzo c e imporre questa loro idea con guerre e massacri, il che ci riporta al punto di partenza. O meglio, fuori strada, perché un libro di storia è un libro di storia: lo si legge e poi, se si vuole, si esprime un giudizio; giudizio che è più lucido se si è avuta la possibilità di ascoltare tutte le campane.

Un altro errore da non commettere, nel leggere questo Manuale dell'inquisitore, è pensare che alle direttive dei compilatori di simili testi seguissero pronte applicazioni. Gli inquisitori consultavano questi manuali solo per la procedura. La pratica quotidiana di quelli che erano pur sempre dei preti - e non cessavano di esserlo per il fatto di trovarsi addosso un'incombenza pesante e non di rado pericolosa - può genericamente riassumersi nella formula "fulmini dal pulpito e misericordia nel confessionale". Anzi, proprio perché i contemporanei non sopportavano la clericalis mollities e tra il comandare e l'essere obbediti, a quei tempi, ce ne correva, Eymerich e chi per lui si vedevano costretti a rincarare la dose, sperando che dalla moltiplicazione delle minacce verbali scaturisse almeno un'accettabile percentuale di successo.

"Demonizzata dalla polemica protestante, attaccata con determinazione dagli illuministi fino a disinnescarne il legame col "braccio secolare", l'Inquisizione attirò poi le fantasie romantiche". Così il Prosperi (Introduzione, p. XVII) in un volume che il lettore troverà citato ad iosa: Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, 1996. A distanza di secoli c'è chi pubblica libri in cui si mostra un altro aspetto di Nerone; nulla di male, dunque, a far sapere che gli inquisitori costituivano di fatto l'ultima speranza del reo, ricercato come sovversivo dal "braccio secolare", cioè il potere civile. Se si pentiva e dimostrava di voler rientrare nella Chiesa, questa lo proteggeva e gli salvava il collo. In caso contrario, respinta l'ultima possibilità di salvezza, essa era costretta ad "abbandonarlo al braccio secolare", cioè a quel destino che il reo aveva volontariamente e ostinatamente perseguito.

Questo punto, di capitale importanza, va tenuto presente se si vuol comprendere il linguaggio crudo ed esplicito di Eymerich (e di Peña; del quale tuttavia, per non pesare troppo sui lettori, abbiamo preferito riportare solo i passi essenziali). Certo, oggi siamo abituati a ben altra prudenza da parte degli ecclesiastici.

Ma al tempo di Eymerich non c'era timore di venire equivocati. Anzi, una certa apparente spietatezza era quasi d'obbligo per non confermare A potere civile (e lo stesso popolo) nel sospetto che la Chiesa fosse di suo troppo indulgente con colpevoli del delitto più alto: lesa maestà, il crimine peggiore nel mondo antico, la cui pena fin dai tempi di Diocleziano era il rogo. La Chiesa aveva dovuto lottare a lungo e duramente per sottrarre l'eresia alla giurisdizione civile: se si fosse mostrata troppo intenzionata a risparmiare gli eretici, tale giurisdizione (sempre periclitante) le sarebbe stata sottratta e l'eretico non avrebbe avuto misericordia. Divergenti erano infatti gli interessi dei due "bracci": quello spirituale, tendeva a far rientrare l'eretico nell'ovile di Pietro; quello secolare, a eliminare ogni minaccia di sovversione.

Altra fantasmagoria entrata per sempre nel nostro immaginario è quella che vede negli eretici degli inermi "martiri del libero pensiero". "Ora, finché la letteratura sull'Inquisizione è stata soprattutto di origine protestante ( ... ) si è potuto tranquillamente demonizzare quell'istituzione (strumento dell'Anticristo, si diceva) ed esaltarne le vittime come martiri della verità. Una nozione schematica e superficiale" (L'inquisizione: verso una nuova immagine?, cit., pp. 141-142). Dalle pagine che seguono si vedrà che l'eresia fu oggetto degli affanni inquisitoriali solo in minima parte e in periodi circoscritti. Il più del tempo gli inquisitori lo dedicavano a truffatori che si fingevano preti, bigami o trigami, fattucchieri denunciati da clienti delusi. Non solo: gli eretici veri e propri, specialmente nel periodo della lotta al protestantesimo, erano quasi tutti frati e preti. In più, gli eretici propriamente detti erano le mille miglia lontani dal rivendicare la "tolleranza" o l'equivalenza delle fedi. Potendo, si sarebbero comportati (e dove furono maggioranza si comportarono) come gli inquisitori, e anche peggio.

Certo, per la sensibilità odierna la libertà è un valore molto superiore alla verità. Anzi, è l'unico valore, laddove alla nozione di "verità" ci si avvicina con l'atteggiamento sospettoso di Pilato ("Quid est veritas?") o, peggio, con quello condannatorio di Umberto Eco ne Il nome della rosa, il cui protagonista dichiara senza mezzi termini che l'unica passione insana da cui è d'uopo liberarsi è appunto quella per la verità. Chi crede che la verità esista è un sognatore (secondo Pilato) o un pericoloso fanatico (secondo Eco).

Beh, la Chiesa crede alla verità, e anche l'Inquisizione ci credeva. Girando il problema all'ultimo grande inquisitore vivente, il cardinale Joseph Ratzinger (che è prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ex Sant'Uffizio) centra il tema in un suo libro: La via della fede. Le ragioni dell'etica nell'epoca presente (Ares, 1996). E ribatte: già, ma che cos'è la libertà? La definizione di libertà non deve essere completata mediante il legame con la ragione, pena la caduta nella tirannia dell'irrazionalità? Per esempio, il marxismo si è presentato come liberatore ma si è risolto nel più grande sistema di schiavitù della storia. La Rivoluzione francese iniziò come idea democratica costituzionale, anzi fece sua l'idea rousseauiana di anarchia individualista, e divenne una dittatura sanguinaria e accentratrice. La Riforma protestante "liberò" l'individuo dalla gerarchia ecclesiastica e dal dogma, creò le chiese nazionali e finì con il rafforzare il potere dello Stato.

Leggendo Sartre ci si rende conto che la libertà radicale, totale, dell'individuo non porta in nessun posto, è un fallimento angosciante e senza senso. L'antica tentazione (" ... sarete come dei ... ") si ripete nel desiderio di indipendenza da tutto e da tutti: dalla legge, dall'autorità, dalla realtà stessa, come i paradisi drogastici promettono. Insomma, il problema è ancora e sempre teologico, perché solo Dio può godere della libertà assoluta; invece l'uomo è tanto più libero quanto più liberamente accetta la verità, dalla forza di gravità in su. Solo accettando le leggi fisiche, infatti, si può volare; se le si rifiuta, ci si sfracella.

Senza l'adesione alla verità, dice sant'Agostino, non c'è differenza strutturale tra uno Stato e una ben ordinata banda di predoni. E senza responsabilità non si dà libertà. Ma in che consista la responsabilità oggi è stabilito dal consenso. Solo che il consenso è manipolabile, e i miti sono più attraenti della verità.

Dice Ratzinger: "La patologia della religione è la malattia più pericolosa dello spirito umano. Essa si dà nelle religioni, ma esiste propriamente anche là dove la religione è respinta come tale e viene attribuito un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi ateistici dell'epoca moderna sono gli esempi più spaventosi di una passione religiosa alienata dalla sua essenza". Morale: se la verità non esiste, non esiste nemmeno la libertà. Come dice il Vangelo, solo la verità rende liberi. Questo concetto era chiarissimo e pacifico per tutti al tempo dell'Inquisizione.

E ci sia consentita un'ulteriore riflessione. Le recenti follie di fanatici settari (il suicidio di massa della Guyana, quello svizzero-canadese del Tempio Solare, quelli statunitensi di Internet, e poi "Satana" Manson, Waco o il gas nervino nella metropolitana di Tokyo) inducono a sospettare che forse l'attenzione inquisitoriale abbia davvero, nei secoli passati, salvato il cervello degli europei e rimandato il più possibile i disastri operati da utopie, ideologie e culti disumani. Forse. E, certo, la storia non si fa con i "se". Ma, grazie a Dio, nemmeno con i moralismi.

In ogni caso, il lettore a cui della diatriba sulle leggende nere o rosate non importa nulla potrà godersi, leggendo questo Manuale, uno spaccato di vita medievale (e anche rinascimentale) quale non sempre è dato di vedere direttamente sulle fonti.

Un'ultima cosa. Il Vaticano ha di recente aperto agli studiosi gli archivi del Sant'Uffizio. Correvano strane leggende metropolitane su questo archivio, la cui "chiusura" era attribuita a chissà quali segreti da nascondere. Le cose, al solito, erano più semplici. Quasi cinquecento anni di documenti rappresentano una mole immensa, una spaventosa congerie di carte che richiede catalogazione da parte di esperti. Finalmente, tale lavoro è stato completato e uno studioso interessato può utilmente chiedere il tal documento, ben sapendo che l'archivista è adesso in grado di trovargli in tempo ragionevole il volume in cui è contenuto. Come mai c'è voluto tanto? Anche qui, la risposta è semplice: le vicende politiche e umane. Muore un papa, se ne fa un altro (passa il tempo); muore l'archivista esperto, non ce n'è uno che possa sostituirlo subito; c'è una guerra di mezzo; c'è il papa, c'è l'archivista e non c'è guerra, ma la situazione è fortemente anticlericale, meglio allora rimandare. E così via. C'è anche un altro aspetto da tener presente: la maggior parte degli studiosi sono curiosi dei processi per eresia, ma questi costituiscono solo un'infima parte dell'archivio del Sant'Uffizio; il più è formato dalle grandi controversie teologiche del XVI secolo, i fenomeni di falso misticismo del secolo seguente, i movimenti spirituali di quello successivo, il confronto con l'illuminismo nel XVII secolo, con il liberalismo, il marxismo, il positivismo, l'evoluzionismo nel XIX. Si aggiunga che tra il 1816 e il 1817 l'intero archivio fu requisito e portato a Parigi dai napoleonici, cosa che causò la perdita pressoché totale dei documenti attinenti ai processi. Alla Restaurazione, pochissimo potè essere recuperato (molti documenti vennero usati come carta da camino, altri furono trovati nella bancarelle dei pescivendoli, che se ne servivano per avvolgere la merce), anche perché il governo francese non volle accollarsi le spese del trasporto a Roma. Nella vicenda rimasero coinvolti anche i documenti riguardanti i processi di Galileo e Giordano Bruno.

Le carte messe a disposizione degli studiosi arrivano fino al 1903. Qualche teologo sospeso a divinis se ne è lamentato, insinuando, anche qui, "cose da nascondere". Ma la storia del XX secolo è nota, e l'attività inquisitoriale del Novecento al massimo riguarda Padre Pio o beghe di monaci. In quel tempo il pontefice san Pio X rimaneggiò completamente l'istituzione, preparando il terreno alla riforma di Paolo VI. Dunque, gli ultimi novant'anni sono di scarso interesse laico".

Il famigerato Indice dei libri proibiti? L sempre stato, per ovvi motivi, a disposizione di tutti. Copie d'antiquariato possono reperirsi agevolmente sulle bancarelle dei Navigli a Milano. Tale Indice - è bene ricordarlo - serviva solo ai devoti obbedienti: a volte passavano quaranta, cinquant'anni prima che un libro venisse inserito nell'Indice. Infatti occorreva prima leggerlo, magari tradurlo, esaminarlo, sottoporlo agli esperti. Nel frattempo, quanti lo volevano leggere avevano avuto ogni agio per farlo. Non solo. Le censure dovevano essere apposte a mano, copia per copia, coprendo di inchiostro nero le righe censurate. Insomma, l'Indice aveva, di fatto, solo un valore, appunto, indicativo per i credenti.

Ed eccoci a questo Manuale. L'opera di Eymerich fu uno dei testi di consultazione più diffusi, con un'incidenza anche maggiore di quella, pur celebre, di Bernardo Gui. Un inquisitore, data la puntigliosità con cui doveva essere applicata la procedura, quasi non poteva farne a meno. Diviso in parti, in capitoli e in paragrafi (addirittura con, in certi punti, una scansione numerica a-domanda-risponde che ci fa facilmente immaginare il dito dell'inquisitore scorrere sulle righe alla ricerca della risposta che faccia al caso suo), assemblava in un unico, comodo volume una vasta congerie di disposizioni le più disparate provenienti da bolle, concili, decreti, canoni. In più, metteva a disposizione per una vastissima gamma di situazioni la consumata esperienza di un inquisitore rinomato per dottrina e precisione. La sua validità sfidò i secoli, tanto che, mutati i tempi e le eresie, non si stimò necessario provvedere alla confezione di un nuovo manuale; fu sufficiente incaricare Francisco Peña di aggiornarlo qua e là nelle parti divenute obsolete. Così, un manuale concepito in tempi di catarismo poté essere tranquillamente utilizzato anche per far fronte al protestantesimo. In fondo, come ha detto qualcuno, le posizioni eretiche sono come quelle erotiche: combinazioni monotonamente diverse all'interno di una gamma tutto sommato piuttosto ristretta.

Tuttavia, il discorso sull'Inquisizione (che è in fondo quel che più ci interessa) rischiava di restare monco. Il lettore, infatti, si sarebbe trovato ad avere a che fare con un testo specialistico concepito per ecclesiastici di settecento anni fa, e a delle chiose che avevano senso solo nel XVI secolo. Era opportuno, dunque, dare una "terza mano" di vernice sul tutto, per mostrare al lettore comune di fine millennio una figura per quanto possibile a tutto tondo del fenomeno Inquisizione. Ove opportuno, come un moderno giureconsulto (ma con intenti questa volta divulgatori), ho aggiunto esempi, chiarimenti, paragoni, citazioni, fatti storici, sperando che dal risultante mix di commenti e documenti scaturisca una panoramica generale quale non è dato di vedere nelle opere che parlano dell'Inquisizione ma non fanno parlare gli inquisitori.

E adesso, scusandomi per le troppe precisazioni e parentesi, passo la parola al libro. Ma mi chiedo: a chi interessa, in fondo, la vera storia dell'Inquisizione? Domanda legittima, visto che un quotidiano italiano di grande diffusione (L'Unità), nel dare notizia dell'apertura degli archivi inquisitoriali, datava al 1442 la Riforma luterana, papa Paolo III e il Concilio di Trento. Il che, come notava l'editorialista Socci su Il Giornale, "è come collocare nel 1848 la seconda guerra mondiale e la bomba atomica". Insomma, l'Inquisizione? (Forse) molto rumore per nulla.

 


 

 

Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della Inquisizione,
a cura di Rino Cammilleri, con un invito alla lettura di Vittorio Messori, Leonardo, Milano 1994, pp. 192, £. 22.000

I pregiudizi sulla storia della Chiesa sono numerosi e tenaci, radicati non solo nei ceti intellettuali più sensibili alle influenze della cultura laicista ma anche in molti cattolici, affetti da un ingiustificato complesso d’inferiorità a causa di una scarsa conoscenza della loro storia.

Esempio classico del radicamento di tali pregiudizi è l’esistenza, ancora oggi, di una "leggenda nera" sull’Inquisizione, costruita dall’Europa protestante nel Cinquecento, alimentata dai libelli degli illuministi nel Settecento e ripresa dalla letteratura popolare ottocentesca di ispirazione massonica. Eppure l’Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le testimonianze, è una delle poche istituzioni del passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico. Infatti, gli studiosi che negli ultimi anni hanno cominciato a esplorare l’imponente documentazione archivistica si sono trovati, con stupore, al cospetto di tribunali dotati di regole eque e di procedure non arbitrarie, di corti giudiziarie pronte a sconsigliare l’uso della tortura o a scoraggiare denunce infondate e delazioni, di organismi molto più miti e indulgenti dei tribunali civili del tempo. Inoltre, sebbene certa propaganda insista sul carattere ideologico e totalitario dell’Inquisizione, è sempre più evidente l’abisso esistente fra i metodi propri di questa istituzione e i sistemi di controllo delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in atto negli Stati moderni.

Tuttavia, se l’immagine dell’Inquisizione sta mutando, e in senso favorevole, presso gli specialisti, i risultati della rinnovata ricerca storica sono poco conosciuti al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Pertanto è quanto mai opportuna l’iniziativa della casa editrice Leonardo, che ha dato alle stampe il volume Elogio della Inquisizione — traduzione della voce Inquisition, scritta da Jean-Baptiste Guiraud per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911 e il 1913 —, allo scopo di mettere a disposizione di un vasto pubblico un testo noto finora soltanto ai frequentatori di biblioteche specializzate.

L’opera, curata da Rino Cammilleri, reca un Invito alla lettura (pp. 5-12) di Vittorio Messori, che traccia anzitutto un profilo biografico dell’autore, "cattolico a visiera alzata, che pagò di persona per le sue convinzioni, eppure lontano — da quello storico vero che era — da ogni doppia verità, da ogni forzatura di apologeta fazioso" (p. 12).

Jean-Baptiste Guiraud nasce nel 1866 nell’Aude, dipartimento della Francia meridionale che ha come capoluogo Carcassonne, frequenta l’École Normale Supérieure di Parigi e l’École Française di Roma e intraprende la carriera universitaria, diventando titolare della cattedra di Storia Medioevale presso l’Università di Besançon. Storico appassionato della Chiesa, e in particolare del Medioevo, nonché militante di combattivi organismi del laicato cattolico, si schiera sia con gli scritti, volti a ristabilire la verità storica gravemente travisata dalla cultura laicista dominante, sia con una serie di iniziative tese a difendere la scuola libera, contro la politica anticattolica della Terza Repubblica francese. "Questa sua lotta gli costò la carriera universitaria, già messa in pericolo dal taglio giudicato "intollerabilmente cattolico" delle opere, pur rigorosamente scientifiche, pubblicate nel frattempo sui temi di storia religiosa medioevale di cui era specialista. [...] Come non mancò di notare lo stesso Guiraud, dalla cultura che della "leggenda nera" sull’Inquisizione cattolica aveva fatto un suo cavallo di battaglia, giungeva un provvedimento di censura delle idee e di repressione di atteggiamenti non in linea con i dogmi ufficiali" (p. 6). Costretto a lasciare l’insegnamento, è redattore capo del quotidiano cattolico La Croix fino al 1939, quando riprende gli studi storici, peraltro mai abbandonati del tutto. Fra le sue opere principali vanno ricordate L’Inquisition médiévale (ultima edizione, Tallandier, Parigi 1978), pubblicato in Italia nel 1933 (L’Inquisizione medievale, Corbaccio, Milano), e Histoire de l’Inquisition au Moyen Âge (2 voll., Picard, Parigi 1935), incompiuta alla data della morte, avvenuta nel 1953.

Vittorio Messori spiega, quindi, che la scelta di tradurre e di pubblicare in Italia la voce Inquisition del Dictionnaire apologétique de la foi catholique — una "miniera che, malgrado il tempo trascorso e il cambiamento di clima nella Chiesa, sembra ben lungi dall’essere esaurita" (p. 8) — non è finalizzata al "recupero archeologico" (p. 11) di un testo ormai datato, ma vuole rappresentare un punto di partenza e offrire un’intelaiatura generale ancora valida per un primo approccio allo studio dell’Inquisizione.

Nei primi due capitoli — L’Inquisizione: una risposta cattolica (pp. 15-26) e Istituzione dell’Inquisizione (pp. 27-36) — Jean-Baptiste Guiraud descrive la nascita dell’Inquisizione, alla fine del secolo XII, dimostrando come essa rappresentasse la risposta della Chiesa agli eccessi di movimenti ereticali che non si limitavano a propugnare deviazioni di contenuto esclusivamente teologico — contrastati fino ad allora sul piano dottrinale e solo con mezzi spirituali — ma insidiavano mortalmente la società civile. La ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli eretici costrinse le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.

Nel terzo e nel quarto capitolo — Dottrine degli eretici (pp. 37-58) e La Chiesa e gli eretici medioevali (pp. 59-65) — l’autore si sofferma sui contenuti delle dottrine eterodosse più diffuse alla fine del Medioevo, dedicando attenzione particolare al catarismo, che "[...] non era, come le eresie precedenti, un’interpretazione eterodossa di questo o quel dogma cristiano. Era un sistema religioso completo [...]. Non c’è dunque da stupirsi che abbia cozzato frontalmente contro l’ordine sociale del Medioevo fondato sul cristianesimo. Di più: la sua concezione profondamente pessimistica della vita lo poneva contro qualunque ordine sociale" (p. 39).

Il pericolo era rappresentato soprattutto dalla condanna del mondo materiale, che implicava il divieto assoluto di procreare e, come culmine della perfezione, il suicidio rituale, e dal rifiuto di prestare giuramento, che comportava il dissolvimento del legame feudale, uno dei capisaldi della società medioevale. A questo proposito Jean-Baptiste Guiraud cita una nota affermazione dello scrittore protestante Henry Charles Lea, pur poco benevolo nei confronti dell’Inquisizione, secondo il quale in quei tempi "la causa dell’ortodossia non era altro che quella della civiltà e del progresso" (Storia dell’Inquisizione. Fondazione e procedura, trad. it. del primo volume, Bocca, Torino 1910, p. 118). L’autorità temporale e quella spirituale, dopo aver agito a lungo separatamente — la prima con i suoi tribunali, l’impiccagione e il rogo, la seconda con la scomunica e le censure ecclesiastiche — finirono per unire i loro sforzi in un’azione comune contro l’eresia. L’Inquisizione medioevale, dunque, è definita dall’autore come "un sistema di misure repressive, le une di ordine spirituale, le altre di ordine temporale, emanate simultaneamente dall’autorità ecclesiastica e dal potere civile per la difesa dell’ortodossia religiosa e dell’ordine sociale, ugualmente minacciati dalle dottrine teologiche e sociali dell’eresia" (p. 64). Le tappe attraverso cui prende corpo il nuovo organismo — la costituzione Ad abolendam di Papa Lucio III, nel 1184, che obbligava tutti i vescovi a visitare due volte l’anno le loro diocesi alla ricerca degli eretici, l’istituzione della cosiddetta Inquisizione "legatina" da parte di Papa Innocenzo III, che inviò i monaci dell’Ordine Cistercense a predicare nei paesi più colpiti e a disputare pubblicamente con gli eretici, la costituzione Excommunicamus di Papa Gregorio IX, nel 1231, con cui erano nominati i primi inquisitori permanenti, scelti in preferenza fra i domenicani e i frati minori — sono descritte nei capitoli quinto e sesto, Organizzazione dell’Inquisizione (pp. 67-78) e L’Inquisizione monastica (pp. 79-90).

Negli ultimi quattro capitoli — Procedura dell’Inquisizione (pp. 91-102), Tortura? (pp. 103-114), La leggenda nera (pp. 115-124) e Gli argomenti dei detrattori (pp. 125-133) — Jean-Baptiste Guiraud fà giustizia dei più noti luoghi comuni che hanno contribuito alla costruzione della "leggenda nera" sull’Inquisizione. Il lettore apprenderà, fra l’altro, che l’Inquisizione era tutt’altro che un tribunale di sadici, che seguiva una procedura molto rigorosa, che era competente a giudicare solo i battezzati e che dunque gli ebrei e i musulmani non ricadevano sotto la sua giurisdizione. L’Inquisizione del secolo XIV inventa la giuria, consilium che consente all’imputato di essere giudicato da un collegio numeroso, e altri istituti in favore del condannato, come la semi-libertà, la licenza per buona condotta e gli sconti di pena. Inoltre, è falsa l’immagine dell’inquisitore feroce e ignorante: gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, non inclini a decidere in poche ore e arbitrariamente sulla sorte dell’imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. "Ricondurre all’ortodossia un eretico era per loro una grande gioia e, anziché abbandonarlo al braccio secolare e a una morte che uccideva anche ogni speranza di conversione, preferivano molto di più far ricorso a quelle penitenze canoniche e sanzioni temporali che gli avrebbero dato la possibilità di emendarsi" (pp.110- 111). Falsa è anche l’affermazione secondo cui si faceva un uso generalizzato e indiscriminato della tortura, cui gli inquisitori del secolo XIV, a differenza dei giudici civili, ricorrevano raramente e nel rispetto di regole molto severe. L’immagine popolare secondo cui i tribunali inquisitoriali erano teatro di raffinatissime scene di crudeltà, di modi ingegnosi di infliggere l’agonia e di un’insistenza criminale nell’estorcere le confessioni, è l’esito della propaganda degli scrittori a sensazione, che hanno sfruttato la credulità di molti.

Falsa, infine, è l’immagine dell’Inquisizione come tribunale sanguinario. Lo spoglio statistico delle sentenze, da cui si ricava la bassa percentuale delle condanne, soprattutto di quelle alla pena capitale, ha ormai dimostrato che questa tesi è infondata, confermando quanto sostenuto da Jean-Baptiste Guiraud nell’Epilogo (pp. 135-151). L’Inquisizione perseguiva lo scopo di correggere e di riavvicinare alla fede l’eretico: "Ciò spiega perché essa imponeva penitenze di ordine spirituale che potessero inclinare il condannato alla pietà, perché attenuava le pene più gravi quando trovava in lui indizi di ravvedimento morale e perché abbandonava al braccio secolare, cioè alla morte, i recidivi che, essendo tornati ai loro errori, facevano perdere ogni fiducia nella loro conversione e nella loro sincerità" (p. 143).

Il volume si chiude con una Bibliografia (pp. 153-164) delle fonti utilizzate o segnalate dall’autore e con preziose Integrazioni bibliografiche (pp. 165-189), redatte da Marco Invernizzi e da Oscar Sanguinetti, che offrono una rassegna ragionata delle correnti storiografiche sul tema e suggeriscono "[...] alcune "piste" di indagine, da utilizzare nel caso si vogliano approfondire i diversi aspetti di un fenomeno plurisecolare e dalle molteplici peculiarità a seconda dei luoghi e dei contesti storici nel quale si è esplicato" (p. 165).

I due ricercatori distinguono accuratamente l’istituzione sorta nel secolo XIII, la cosiddetta Inquisizione medioevale, dall’Inquisizione spagnola, creata da Papa Sisto IV, nel 1478, su sollecitazione di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d’Aragona, e dalla Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, istituita da Papa Paolo III, nel 1542, e, sulla scia dello storico inglese Henry Arthur Francis Kamen, notano come "[...] l’Inquisizione fosse espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra le diverse comunità religiose a un’altra sempre più contrassegnata da conflitti, e come essa fosse la risposta della Chiesa e della cristianità alla minaccia rappresentata dall’eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in Spagna, dalle false conversioni di giudei e musulmani" (pp. 167-168).

Attenzione particolare è dedicata proprio alla storiografia sull’Inquisizione spagnola, che ha prodotto negli ultimi decenni rilevanti contributi, sostanziati da approfondite ricerche d’archivio, che hanno consentito di superare i pregiudizi di carattere ideologico. È oramai evidente che il ruolo svolto dai tribunali inquisitoriali fu decisivo per assicurare la pace sociale e religiosa in Spagna e che non può essere sottovalutata la portata di tale impresa, che costituì una nazione spiritualmente compatta di fronte alla Francia lacerata dalle guerre di religione, all’Inghilterra sulla strada dell’eresia e al sultano difensore del mondo islamico.

Analoghe considerazioni valgono per l’Inquisizione "romana", che rappresentò nella penisola italiana un bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale e che ha difeso il patrimonio spirituale del popolo italiano, contribuendo alla vittoria della Contro-Riforma sull’Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Rivoluzione protestante.

Francesco Pappalardo

 

 

Vittorio Messori,
da Pensare la storia, Ed. Paoline 1992, pp. 383-397

178. Galileo Galilei

Stando a un'inchiesta dei Consiglio d'Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase "sicuramente storica", un suo "Eppur si muove!", fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici.

Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest'ultimo falso: la "frase storica" fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.

Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo "vero" (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i quali c'erano uomini di scienza non inferiore alla sua - assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere.

Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un'altra che Galileo giudicava "da imbecilli": era, invece, quella giusta. L'alzarsi e l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta all'attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.

Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio non si opponeva affatto all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.

In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero.

Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua "scommessa" copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente - sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.

Niente frasi "titaniche" (il troppo celebre "Eppur si muove!") comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un "caso" che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l'incompatibilità tra scienza e fede.

Torture? carceri dell'Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il gioiello".

Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa "pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall'ergersi come difensore della ragione contro l'oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: "In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".

Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell'indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l'8 gennaio 1642, nove anni dopo la "condanna" e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: "Gesù!".

1 suoi guai, del resto, più che da parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.

In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto "grande" quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II "non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell'inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo". Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il "caso" è troppo importante, per non parlarne ancora.

 

179. Galileo Galilei /2

Il Galilei - alla pari, del resto, di un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo - convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli. "Provvisoriamente, mise le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una oro sistemazione definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Senonché le leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle - una di 13 e l'altra di 12 anni - entravano nel monastero di San Matteo d'Arcetri e dopo poco vestirono l'abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia" (Sofia Vanni Rovighi).

Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile.

"Sarebbe", diciamo, perché, grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant'Uffizio, quella Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. "Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i "concubini" come lui venivano decapitati" (Rino Canimilleri).

E' un'osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: "Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo "oscurantismo" che avrebbe bloccato la ricerca scientifica". Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l'affermazione di un altro studioso, il Dessauer: "Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati".

Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l'altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti: l'approvazione ecclesiastica per il libro "incriminato", i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com'era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.

Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant'anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.

Dei resto, proprio nell'astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana - ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti - consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un'eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.

Il governo dell'Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell'Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell'astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della "nuova Italia" che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.

Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico - fuori, cioè, dall'orbita di regioni cattoliche - le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell'onda possono permettersi, non certo l'Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.

La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un "filosofo" come era anche lo scienziato, darsi a simili attività "utilitarie". (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l'impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici "profani").

E' chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno - come gli olandesi o gli inglesi - grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all'intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all'arte stessa, a partire dall'epoca moderna è legata al commercio, all'industria, alla guerra. Al denaro, insomma.

Che questa - e non la pretesa "persecuzione cattolica" di cui, l'abbiamo visto, parlano anche storici cattolici - sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l'intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce. Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato "perseguitato") è un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L'opera fondamentale che pubblica nel 1543 - La rotazione dei corpi celesti - è dedicata al papa Paolo III, anch'egli, tra l'altro, appassionato astronomo. L'imprimatur è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo ascolterà la condanna.

Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com'è di possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non disapprovano la teoria "eliocentrica" copernicana, ma spesso l'incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e fatto membro dell'Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli al sistema eliocentrico.

Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: "La gente presta orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare all'aria tutti i princìpi dell'astronomia". E Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: "Simili fantasie da noi non saranno tollerate".

Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al "copernicano" e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.

Sempre Lutero ripeté più volte: "Si porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni". Questo "letteralismo", questo "fondamentalismo" che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno vigore, difeso com'è dall'ala in grande espansione - negli Usa e altrove - di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.

A proposito di università (e di "oscurantismo"): ci sarà pure una ragione se, all'inizio del Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università - questa tipica creazione del Medio Evo cattolico - ce ne sono 108 in Europa, alcune altre nelle Americhe spagnole e portoghesi e nessuna nei territori non cristiani. E ci sarà pure una ragione se le opere matematiche e geometriche degli antichi (prima fra tutte quelle di Euclide) che costituirono la base fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna, giunsero a noi soltanto perché ricopiate dai monaci benedettini e, appena inventata la tipografia, stampate sempre a cura di religiosi. Qualcuno ha addirittura rilevato che, proprio in quell'inizio del Seicento, è un Grande Inquisitore di Spagna che fonda a Salamanca la facoltà di scienze naturali dove si insegna con favore la teoria copernicana...

Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.

 

180. Galileo Galilei /3

Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.

E' successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito entusiastico della "modernità", e del conseguente "progresso", per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: "Pio IX e gli altri papi "reazionari" erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro tempo postmoderno che scopre l'altro volto, quello oscuro, della modernità e del progresso".

E' successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come "conservatrici", "superate", mentre ora quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli "attardati" di papi avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più profetico è anche quello che fu considerato il più "reazionario": l'Humanae Vitae.

Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è verificato anche per quel "caso Galileo" che ci ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.

Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.

Dai tempi dell'antichità classica sino ad allora, in tutto l'Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.

D'altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea. Un santo e un dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto - e con lui un'altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio - a dare alla Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un secolo dopo.

Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro deciso dal Sant'Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: "Un po' come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna rivista scientifica". D'altro canto, lo stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo riconferma l'apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: "L'intento dello Spirito Santo, nell'ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo".

Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua contraddizione, l'essersi anch'egli impelagato nel "concordismo biblico": davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch'egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella "fermata" una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza sperimentale.

Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti - al di là degli errori in cui possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi coscientemente avvertivano - giudicando una certa baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell'uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla "Ragione- al posto di quelli basati sulla Rivelazione. "La condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione, per ipotesi e non in modo assoluto". Così uno storico d'oggi. Dopo oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben conosciamo, c'è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano. Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la Tradizione nel loro senso più letterale. Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei positivisti - accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l'autorità del ragionare umano e dell'esperienza dei nostri sensi.

Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come Popper) - se non un'altra specie di fideismo - che ragione ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il "vero"? Come provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette "verità scientifiche" non sono affatto "verità" indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata "oggettività e infallibilità della Scienza").

Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant'Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano messi in campo.

L'irrigidimento avviene soltanto quando dall'ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello "scientismo" in cui in effetti degenererà. "In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all'Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino: raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i teologi!" (Agostino Gemelli).

Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con un'intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti, pur considerati "intolleranti" per definizione. La stima per lo scienziato e l'affetto per l'uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come "arroganza e vanità spesso assai vive". Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch'essi "sperimentali".

Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) "un imbecille con la testa tra le nuvole", uno "appena degno di essere chiamato uomo", "una macchia sull'onore del genere umano", uno "rimasto alla fanciullaggine"; e via insultando. In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell'autorità ecclesiastica.

Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell'intellettuale moderno, fu quella sua "vanità", quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l'altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l'altro, il suo rifiuto del latino: "Galileo scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all'uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza" (Rino Cammilleri).

Di recente, 1`erede" degli inquisitori, il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca - una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura "progressista" - che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi sull'oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere "perché la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all'origine del terrorismo degli scienziati, dell'autoritarismo dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti...". Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo stupito: semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era passata dal culto tutto "moderno" della Scienza alla consapevolezza "postmoderna" che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.

Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato - da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era - in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo:

"Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla trionfare, e dall'altra parte uomini che per la verità non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l'una e l'altra convinte della verità della loro opinione, l'una e l'altra in buona fede ma che adoperano l'una e l'altra anche mezzi extra-teorici per far trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel 1616, l'autorità ecclesiastica fu particolarmente benevola con Galileo e non lo nominò neppure nel decreto di condanna e nel 1633, sebbene sembrasse procedere con severità, gli concesse ogni possibile agevolazione materiale. Secondo il diritto di allora, prima, durante e, se condannato, dopo la procedura, Galileo avrebbe dovuto essere in carcerato; e invece non solo in carcere non fu neanche per un'ora, non solo non subì alcun maltrattamento, ma fu alloggiato e trattato con ogni conforto".

Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato: "Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti. Si osserverà che quell'azione di Galileo va giudicata tenendo presente l'epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza, usando gran e bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari di Galileo".

Prosegue la studiosa: "Occorrerà anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l'autorità che giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l'errore non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre a 12 anni. E se poi si osserva che - diamine! - Galileo è Galileo, mentre suor Arcangela non è che un'oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente che tormentare l'uno è colpa ben più grave che tormentare l'altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie".

Nella "Lettera alla Granduchessa Cristina", Galileo si fece giudice ed esegeta "scientifico" della Bibbia, dicendo - in merito all'arresto del sole e della luna al comando di Giosue' - che "coll'aiuto del sistema Copernicano noi abbiamo il senso facile, letterale e chiaro del comando".

Inoltre,

"[...] Galileo aveva scritto che alcune volte le Scritture "oscurano" il loro proprio significato. Nella copia mandata a Roma la parola "oscurano" era cambiata in "pervertono". Questa e l'altra parola contraffatta, "falso", furono le uniche due criticate dal consultore del Santo Uffizio al quale la lettera era stata sottoposta. La lettera nell'insieme fu trovata in accordo con l'insegnamento cattolico".

(cit. in James Brodrick s.j., "S. Roberto Bellarmino", Ancora, Milano 1965, p. 431-432 e 436)

 

 

AVVERTENZA 

L'Inquisizione non fu affatto un'istituzione monolitica, ed è più corretto parlare non d'Inquisizione ma delle Inquisizioni. Sommariamente, esse furono: Inquisizione episcopale (sec. XII); Inquisizione legatizia (sec. XII-XIII); Inquisizione papale-monastica (sec. XIII-XV; Inquisizione romana (dal 1542 in poi), diventata nel 1588 Congregazione del Sant'Uffizio. Abbiamo poi quella dogale veneziana (1249-1289), quella règia francese (1251-1314) e quella règia spagnola (1478-1834). In più, quelle laiche e governative dei vari principati, repubbliche, signorie, ducati, eccetera, nonché quelle dei paesi protestanti (Paesi Bassi, Inghilterra, Scozia, le colonie inglesi d'America, ecc.).

Qui ci occuperemo solo di quelle cattoliche.

È anche bene chiarire che l'uso del termine "inquisizione" è esatto, nella sostanza, a proposito delle regioni protestanti, ma non nella forma. Infatti la repressione dell'eresia non vi era affidata al clero (concetto molto sfumato e approssimativo nella composita galassia protestante), bensì ai tribunali regolari. Era uno dei risultati della fusione tra chiesa e stato, generata dal sorgere delle "chiese nazionali". Come in Inghilterra, di fatto era il capo dello stato il vertice della comunità religiosa.

 

 


il manifesto - 21 Febbraio 2005

Gli scheletri della santa Inquisizione

Una puntata di «Voyager», su Raidue, si fa complice del Vaticano per riscrivere la storia e riabilitare l'Inquisizione, madre di tutte le torture e stragi di innocenti

ADRIANO PETTA

Lo scorso 11 settembre su Alias apparve un mio articolo dal titolo Le radici dell'orrore (relativo agli atti del Simposio sull'Inquisizione pubblicati dal Vaticano). Venni poi invitato alla trasmissione televisiva Voyager per un'intervista che durò 14 minuti: mi dissero che avrebbero fatto dei tagli. Mercoledì 16, alle 23.10, è stata messa in onda. Due gli argomenti del programma: «Nazismo esoterico» e «Gli ultimi dati sull'Inquisizione». Il conduttore Roberto Giacobbo ha raccontato i legami tra Hitler, le SS e l'occulto, parlando anche di Montségur, dove il 16 marzo 1244 morirono arsi vivi in un enorme rogo oltre 200 fedeli perché si rifiutarono di abiurare la loro fede. La tesi esposta da Giacobbo è stata che la storia li ricorda come Catari attaccati dal re di Francia, e che le SS cercavano a Montségur il Santo Graal perché i catari, secondo alcuni, erano stati i custodi del sacro calice. E che l'ideologo nazista Otto Rahn individuava i catari come i precursori del nazismo...

Forse era il caso, da parte del conduttore di Voyager, di spendere due parole per chiarire che quei 200 fedeli erano martiri cristiani accusati d'eresia dall'Inquisizione, che combattevano la corrotta Chiesa di Roma e che vennero condannati al rogo... mentre la guarnigione del signore di Montségur - che aveva assassinato due inquisitori ad Avignonet - aveva invece avuto salva la vita. E che i capi della guarnigione militare che catturò i catari bruciandoli vivi erano Pierre Durant e Ferrier, due inquisitori domenicani: Chiesa e re di Francia alleati.

Roberto Giacobbo, forse a disagio per la rappresentazione a cui stava per assistere, manda avanti la sua collaboratrice Stefania La Fauci, che annuncia: «Questa sera vi sveleremo delle inaspettate verità». E ha inizio l'ultima parte della trasmissione, dedicata all'Inquisizione. Intervistati: Agostino Borromeo prof. della storia della Chiesa presso l'università La Sapienza di Roma, e l'accademico di nulla accademia Adriano Petta, studioso di storia delle religioni e storia della scienza (il sottoscritto). Al prof. universitario concedono tre interventi, al sottoscritto uno solo (95 secondi). Il prof. Borromeo - curatore degli atti del Simposio sull'Inquisizione e trait d'union tra il Vaticano e i mass media per trasformare la leggenda nera dell'Inquisizione in leggenda rosa - sviluppa tranquillamente e metodicamente la sua tesi, mentre al sottoscritto viene cancellato tutto... compresa una frase in cui dicevo che «i nazisti ammazzavano gli ebrei prima di metterli nei forni crematori... mentre l'inquisizione metteva gli eretici nei forni... vivi».

Volevo ricordare uno degli atti più infamanti dell'Inquisizione: i quemaderos di Siviglia (quattro enormi forni circolari, ognuno dei quali «ospitava» fino a 40 condannati, introdotti vivi, e che per «giustiziarli» occorrevano dalle 20 alle 30 ore di supplizio; i forni funzionarono ininterrottamente per oltre tre secoli, e vennero chiusi da Napoleone nel 1808).

A me hanno lasciato solo l'intervento in cui accenno sommariamente che, per avere un'idea del clima di terrore che si respirò in quei secoli, basta leggere gli atti del Simposio sull'Inquisizione promosso proprio dal Vaticano. Ma la conduttrice - nel ruolo di giudice supremo - afferma: «Insomma gli studi più recenti ci danno, dell'operato dell'Inquisizione, un quadro meno drammatico di quanto comunemente si crede».

A conclusione della trasmissione, la conduttrice ne spara poi una veramente grossa, tirando in ballo l'inizio della crociata degli albigesi (altro nome con cui erano conosciuti i catari): «Be', gli storici hanno poi appurato che a Béziers non c'erano albigesi, che nessuna crociata era mai passata da quelle parti, dove tra l'altro non risultava la presenza di legati pontifici; però la città venne realmente messa a ferro e fuoco, ma la cosa accadde nel quadro di una guerra feudale tra famiglie locali». E conclude tronfia e pettoruta: «Almeno in questo caso nessuno deve chiedere scusa!».

Allucinante... E chi sarebbero questi storici? Forse quelli segnalati da Voyager per poter approfondire i temi della puntata... come il sito internet Kattoliko.it?Occorre reagire a questa gente asservita al programma di revisionismo in atto, altrimenti tutti quei milioni di creature innocenti che sono stati torturati e bruciati vivi in sei secoli di terrore... è come se li bruciassero vivi un'altra volta, per cancellarli definitivamente dalla storia.

Il 22 luglio del 1209 a Béziers vennero scannati vivi oltre centomila persone (cattolici, catari-albigesi, donne, bambini), dall'armata di Cristo (così si chiamava il più grosso esercito dell'epoca, oltre 500 mila uomini) che per capo militare aveva il legato papale Arnauld-Amaury... l'abate bianco, il quale comandava i signori feudali del nord della Francia che avevano aderito alla crociata promossa da papa Innocenzo III per sterminare l'eresia catara: cataro vuol dire «puro», erano puri cristiani che combattevano la Chiesa romana corrotta. Quel giorno avvenne il primo genocidio della storia dell'umanità: un esercito cristiano sterminò una popolazione cristiana inerme, per soffocare chi osava ribellarsi alla Chiesa di Roma.

Il legato papale capo dell'armata Arnauld-Amaury, scrisse al papa Innocenzo III: «L'indomani, festa di Santa Maria Maddalena, noi cominciammo l'assedio di Béziers, città che pareva dover per lungo tempo fermare la più numerosa delle armate. Ma non c'è forza né prudenza contro Dio! I nostri non rispettarono né rango, né sesso, né età: ventimila uomini circa furono passati al filo della spada e questa immensa carneficina fu seguita dal saccheggio e dall'incendio della città intera: giusto risultato della vendetta divina contro i colpevoli!».

La lettera originale da cui è stato tratto questo documento si trova nella biblioteca Vaticana.

Pochi anni dopo, nel 1252, papa Innocenzo IV con la bolla Ad extirpanda, autorizzò l'uso della tortura durante i processi della Santa Inquisizione, uso che venne affinato nei successivi 600 anni di terrore.

Il prof. Agostino Borromeo - a nome della Santa Sede - sta cercando di convincere il mondo che i morti bruciati vivi per mano della Santa Inquisizione in 600 (seicento) anni non sono stati 9 milioni... bensì 99!

L'Inquisizione è stata uno strumento dottrinale-legislativo - creato, affinato e imposto dai papi - che ha introdotto nella mente dell'uomo il metodo della delazione, della tortura, del terrore. È stato lo strumento principe della Chiesa cattolica che nella sua storia non ha mai conosciuto la democrazia... e forse è proprio per questo che ha sempre appoggiato politicamente le dittature (di destra). Gli orrori espressi dagli stati moderni (Gulag, Auschwitz, Abu Graib, Guantanamo etc.) affondano le loro radici nella Santa Inquisizione.

Giovedì 17, in Campo de' Fiori, come ogni anno una piccola folla ha ricordato l'anniversario (il 405°) del rogo di Giordano Bruno. Invece di chiedere perdono per gli «eccessi» della Santa Inquisizione, la Santa Sede dovrebbe infine trovare il coraggio d'inviare un suo rappresentante di fronte a quella statua dove il rogo arse... smettendola con questi vani tentativi di revisionismo.


La Repubblica, 31 ottobre 1998

"Santa" l'Inquisizione? La Chiesa chiede scusa

Un convegno in Vaticano voluto da Wojtyla - di Marco Politi

Roma - Quando papa Wojtyla, qualche anno fa, riunì in Vaticano un'assemblea straordinaria di cardinali per trasmettere loro la sua intenzione di affrontare il giubileo dell'anno Duemila con un serio esame di coscienza sulle colpe della Chiesa, l'accoglienza tra i porporati fu fredda. Molti cardinali, specie dei paesi dell'Est europeo appena usciti dal vassallaggio sovietico, temevano di dare armi ai "nemici della fede", ammettendo errori ed orrori compiuti da personalità o organizzazioni ecclesiastiche. Ma Wojtyla è di natura tenace. Quando si impadronisce di un'idea, non la molla. Soprattutto perché - da filosofo - conosce il peso immenso che le posizioni di principio hanno nelle vicende storiche di una grande istituzione (come è la Chiesa). 

Sapeva e sa Wojtyla che è inutile pensare di potersi avvicinare alle altre Chiese cristiane né tanto meno di presentarsi al mondo per rievangelizzarlo, se continua a gravare sulla coscienza del cattolicesimo l'esperienza di un apparato totalitario e repressivo come è stata l'Inquisizione. Sicché, dopo averci lavorato per parecchi mesi, il pontefice ha pubblicato nel 1994 l'enciclica Tertio Millennio Adveniente, dedicata alla preparazione del giubileo e di quello che l'opinione pubblica ha chiamato efficacemente il "mea culpa" della Chiesa. E' in questo documento che si ritrovano le parole più forti, citate ripetutamente in questi giorni durante il simposio internazionale sull'Inquisizione organizzato dal Vaticano (una prima assoluta nella lunga storia della Chiesa).

Il Papa esorta i fedeli a "purificarsi nel pentimento di errori, infedeltà, incoerenze e ritardi". Parla di "peccati" commessi dai "figli della Chiesa". Denuncia lo scandalo provocato da coloro, che si sono allontanati dai valori cristiani. Ammette apertamente che certe azioni hanno "sfigurato il volto della Chiesa". In parecchi ambienti ecclesiastici la linea del Papa ha provocato uno shock. Ed è cominciata un'azione sotterranea di svuotamento. 

L'Inquisizione? Ma non era poi così terribile... C'è che dice che le crudeltà maggiori furono commesse sotto l'influsso del potere civile dei re di Spagna e Portogallo. C'è che dice che alla fin fine i morti e i torturati furono solo una minoranza. C'è che si affanna a spiegare che la tecnica degli interrogatori e le garanzie concesse ai sospettati erano di gran lunga migliori di quelle vigenti negli stati dell'epoca.

C'è del vero in ognuna di queste affermazioni, ma ognuna di esse - estrapolata dal clima in cui tutto avvenne - rischia di oscurare il nocciolo della questione. Che è molto semplice. La macchina dell'Inquisizione fu uno strumento di terrore (psicologico prima ancora che fisico) per controllare le coscienze e reprimere la dissidenza religiosa. Fu uno strumento di violenza fisica e psicologica, usato da parte dell'istituzione ecclesiastica in radicale contrasto con il messaggio di mitezza, di amore e di persuasione proclamato da Gesù Cristo. (E se nei Vangeli si incontrano anche invettive violente, lanciate da Cristo, "Guai a voi...", queste minacce hanno sempre avuto un valore profetico spirituale ed erano affidate all'azione punitiva di Dio e in nessun caso alla repressione di un'organizzazione terrena).

"L'Inquisizione? Voluta dalla Chiesa": ha titolato così un suo articolo il giornale dei vescovi Avvenire, dopo la prima giornata di lavori. Un segnale rivolto alla tendenza revisionista, che vuole ridimensionare le responsabilità dell'Inquisizione. Il "mea culpa" che Giovanni Paolo II pronuncerà solennemente a Roma nel Duemila avrà, infatti, tanto più impatto quanto più spassionato sarà l'esame storico del fenomeno. I documenti sono impressionanti. Pensare che la tortura del panno bagnato (inserito nella bocca o nelle narici del sospettato e alimentato da un intermittente flusso d'acqua per provocare sensazioni di soffocamento) facesse parte del bagaglio di un buon aguzzino al servizio dell'inquisitore, non può essere liquidato dall'affermazione che "quelli erano i tempi".

Rileggere ancora oggi il "Manuale dell'Inquisitore" di frate Nicolau Eymerich (anno 1376) fa venire i brividi per la sua prosa fredda e burocratica, di sapore quasi staliniano. Dal capitolo dedicato alla tortura (pagina 198 del libro pubblicato dall'editore Piemme): "Mentre si tortura l'accusato, lo si interroga dapprima sui punti meno gravi, poi su quelli più gravi, perché egli confesserà più facilmente le colpe leggere che non le gravi. Il notaio nel frattempo registra le torture, le domande e le risposte. Se dopo essere stato moderatamente torturato non confessa, gli verranno mostrati gli strumenti di un altro tipo di tortura, dicendogli che dovrà subirli tutti se non confesserà. Se non si ottiene nulla, si continuerà con la tortura l'indomani e il giorno appresso se occorre...". Per la gioia dei revisionisti il manuale di frate Eymerich dichiara a questo punto che "se l'accusato, sottoposto a tutte le torture previste, non confessa, non viene ulteriormente molestato e se ne va libero". Nei secoli seguenti questa norma, citata come esempio di garantismo, fu peraltro spesso disapplicata.

Grande è in Vaticano, ma anche negli ambienti esterni alla Chiesa, l'attesa per il discorso che Giovanni Paolo II rivolgerà sabato ai partecipanti al simposio sull'Inquisizione. Ancora oggi c'è molto da fare per cambiare le mentalità di quegli ecclesiastici che hanno sempre concepito la Chiesa come istituzione perfetta e trionfante. Si legga il brano dell'Enciclopedia Cattolica del 1951, dedicato all'Inquisizione di Spagna: «Gli ebrei, numerosissimi in Spagna, vi avevano raggiunto una posizione preponderante grazie alla loro abilità commerciale. La loro arroganza, il loro lusso e le loro ricchezze, oltre alla pratica dell'usura, eccitarono contro di essi l'espasperazione pubblica, che prorompeva di quando in quando in feroci rappresaglie e massacri...».

 

 


La Repubblica, 31 ottobre 1998

Dal secolo XII al Seicento storia di una istituzione

Città del Vaticano - L'Inquisizione nasce quando, tra la fine del Dodicesimo e il principio del Tredicesimo secolo, la Chiesa, ritenendo insufficienti per la repressione dell'eresia, soprattutto catara e valdese, i mezzi ordinari e l'autorità dei vescovi, nomina propri delegati con l'incarico di ricercare e giudicare gli eretici.

I tribunali permanenti dell'Inquisizione durante il Trecento si diffondono in tutta Europa e sono affidati in un primo tempo ai domenicani e successivamente anche ai frati minori.

In Spagna l'Inquisizione fa un "salto di qualità" nelle sue capacità di indagine e repressione, contribuendo, insieme alle espusioni di moriscos ed ebrei, all'obiettivo dell'uniformità religiosa del paese.

Dalla fine del Quattrocento l'Inquisizione spagnola (sulla quale nel corso dei secoli si è addensata una specifica "leggenda nera") si distinse così nella persecuzione degli ebrei convertiti, che venivano accusati di essersi fatti battezzare solo per fuggire alle espulsioni forzate ma di restare in realtà fedeli alla loro religione (marrani).

Nel Cinquecento, mentre il papato è impegnato nella lotta contro la riforma protestante, l'inquisizione si istituzionalizza in una congregazione romana, il Sant'Uffizio, competente in materia di ortodossia per tutto il mondo cristiano. 

Sotto papa Pio IV l'Inquisizione diventa sempre più severa, per tornare a fasi di maggior mitezza nei pontificati successivi.

Si distingue comunemente tra Inquisizione romana, istituita da Paolo III nel 1542 contro la diffusione della Riforma, e inquisizione spagnola, istituita in Spagna da Sisto V su richiesta di Isabella la Cattolica, con facoltà ai sovrani di Spagna di eleggere inquisitori di loro fiducia sotto un grande inquisitore. L'inquisizione spagnola agì con tremenda severità contro i marrani e i protestanti. L'inquisitore generale di Spagna dal 1483 Tomas de Torquemada, è il domenicano passato alla storia soprattutto per la spietatezza verso gli ebrei, dei quali ottenne l'espulsione dalla Spagna.

Tra i processi celebri del Sant'Uffizio figurano quello contro Galileo Galilei, colpevole di aver sostenuto nel "Dialogo dei massimi sistemi" le tesi copernicane condannate dalla Chiesa e quello contro Giordano Bruno, domenicano e filosofo, tra i massimi rappresentanti del pensiero del Rinascimento, accusato di eresia e bruciato sul rogo a Roma nel 1600.

Nel 1498 intanto era finito davanti a magistrati pontifici, accusato di impostura ed eresia, il predicatore Girolamo Savonarola, poi impiccato e bruciato sul rogo.

Nel 1968 il Sant'Uffizio ha cambiato nome ed è diventato Congregazione per la dottrina della fede. (Ansa)

 

 

La Repubblica, 31 ottobre 1998

Inquisizione: parla monsignor Rino Fisichella vicepresidente della commissione storia del Giubileo

"L'obiettivo era giusto Si discutono gli strumenti"

Città del Vaticano - Prima l'antigiudaismo, ora l'Inquisizione: la Chiesa continua a guardare il suo passato per chiedere perdono. Sul convegno che si è aperto oggi in Vaticano l'Ansa ha intervistato mons. Rino Fisichella, teologo, vescovo ausiliare di Roma, vicepresidente della Commissione storico-teologica del Giubileo. «Per noi l'obiettivo è uno solo - dice monsignor Fisichella -celebrare il Giubileo nel modo più coerente possibile. E questo, per i cristiani, deve significare una provocazione a esaminare la propria vita e saper chiedere perdono. Noi, uomini di Chiesa, vogliamo essere capaci di chiedere perdono non per la Chiesa, ma per quello che gli uomini di Chiesa hanno fatto quando non sono stati capaci di testimoniare il Vangelo fino in fondo».

E per questo il Papa pronuncerà un altro "mea culpa"?

«Nella Tertio millennio adveniente il Papa non ha parlato di 'mea culpa': questa è stata un'interpretazione successiva. Il Papa parla di un 'serio esame di coscienza' su quella che è stata la nostra storia, per prepararci al terzo millennio dell'era cristiana purificati nella memoria del nostro passato. Noi della Commissione siamo partiti da lì: dalla necessità di fare un esame di coscienza. Esame che è valido se ricomincia a ricostruire storicamente la verità che è accertabile. Noi non partiamo dall'assunto che abbiamo sbagliato, perché non sta a noi chiedere perdono. Il nostro compito è di leggere ciò che è stato, perché il Papa, se c'è stata una colpa da parte dei cristiani, possa dire 'Abbiamo sbagliato, e di questo vogliamo chiedere perdono'».

E quali sono state le colpe della Chiesa nell'Inquisizione?

«Nel momento in cui è stata istituita, l'Inquisizione ecclesiastica era nata per difendere la Verità. Sugli strumenti si discute, ma l'obiettivo resta valido. La Chiesa è sempre chiamata a difendere la verità che Gesù Cristo le ha consegnato. Certo, si tratta di una Verità 'in cammino', 'tesa verso un compimento escatologico'. Ma proprio perché non è una Verità costruita da noi, ma che ci è stata affidata, la Chiesa non può non intervenire, perché se si tirasse indietro verrebbe meno alla sua natura, alla sua stessa ragion d'essere. Solo all'interno di questo contesto si può capire perché la Chiesa, anche oggi, con la Congregazione per la dottrina della Fede, avvii un'indagine nel momento in cui viene negata l'ortodossia della fede».

Il principio era quello di difendere la Verità, dunque. Ma le obiezioni si soffermano quasi sempre sull'aspetto più noto, e più dolente, delle torture, dei roghi.

«Gli strumenti usati all'epoca erano quelli comuni, quelli che la società utilizzava. La Chiesa non è una realtà ipotetica. La Chiesa è nella sua componente spirituale, sì, il Corpo mistico di Cristo, ma vive nella Storia ed è composta dagli uomini del suo tempo. Non possiamo chiedere che si usassero gli strumenti che abbiamo oggi, perché nel Medioevo nessuno, e ripeto nessuno, poteva pensare con la coscienza che abbiamo oggi. Parliamoci chiaro: in Italia, e non in un Paese tribale, il voto elettorale è stato esteso alle donne solo nel 1948. Allora il nostro fino al 1948 cosa è stato? Un Paese anti-femminista?

«La Storia è fatta così, ha i suoi tempi. E bisogna rendersi conto delle realtà storiche in cui si vive. Oggi nessuno potrebbe pensare che la difesa della verità possa avvenire con strumenti coercitivi. Ma questo possiamo dirlo oggi, con una coscienza nuova, modificata nel tempo, proprio perché la coscienza è una realtà dinamica. Chi nega che quei metodi fossero dettati dai tempi, e pensa che qualcuno avrebbe potuto impedirne l'uso, compie un falso storico e culturale. L'evento storico deve essere ricostruito nel modo più fedele possibile, al di là di pregiudizi e luoghi comuni. E nella consapevolezza che non c'è nessun fatto storico neutrale: la Storia e la ricostruzione della Storia è sempre soggetta alle interpretazioni che ne danno gli uomini, nella fedeltà a una deontologia che si basa sull'analisi dei documenti, e anche sull'onestà intellettuale con cui vengono letti». (Ansa)

 

 

La Repubblica, 30 ottobre 1998

Etchegaray: no alle tesi revisionistiche - Il cardinale: "La Chiesa responsabile dell'Inquisizione"

La prima giornata di lavori del convegno - di Marco Politi

Città del Vaticano - Mai più violenze, roghi e torture. Da ieri, per volontà di Wojtyla, una pattuglia di cinquanta storici e religiosi è riunita in Vaticano per studiare gli orrori dell'Inquisizione. E' l'ora di affrontare a viso aperto i fenomeni che «hanno sfigurato il volto della Chiesa... (e che sono diventati) contro-testimonianza e scandalo», afferma il teologo papale Georges Cottier, citando alla lettera le parole di Giovanni Paolo II. 

La Chiesa apre il dossier dell'Inquisizione tra coraggio e imbarazzo. C'è la volontà di dire la verità, caricandosi delle proprie responsabilità (come esorta a fare papa Wojtyla), ma esiste anche una forte tendenza al revisionismo mitigatorio. Tendenza diffusa tra parecchi monsignori e vari storici impegnati a ripetere che va ridimensionata la cosiddetta "leggenda nera" dell'Inquisizione. La manifestazione più appariscente di questa rilettura è la tentazione di ridurre tutto ad un fatto numerico, affermando che rispetto alle sentenze pronunciate le condanne a morte erano "soltanto" una piccola percentuale. Come se la minaccia stessa del rogo e delle torture e l'esistenza di una macchina inquisitoria non abbiano conferito all'istituzione ecclesiastica caratteristiche repressive totalitarie tipiche di regimi successivi.

La conferenza sull'Inquisizione, che durerà fino a sabato, si svolge in Vaticano nell'ospizio di santa Marta, lo stesso residence dove staranno i cardinali durante il futuro conclave. La tre giorni ha il compito di elaborare il materiale, che servirà al Papa per pronunciare il suo "atto di pentimento" il Mercoledì delle Ceneri dell'anno 2000: atto che per la sua carica innovativa (e psicologicamente quasi eversiva) è diventato già celebre prima ancora di essere pronunciato. La Chiesa deve assumersi le sue responsabilità! Con questa nota dominante il cardinale Roger Etchegaray ha aperto i lavori ieri mattina. C'è una sola Inquisizione, ha detto, ed anche l'esistenza di diverse varianti storiche (con diversi gradi di violenza a seconda dell'ingerenza dei monarchi di singoli paesi) «non muta il carattere ecclesiastico dell'istituzione, perché (certi) poteri di intervento e di controllo furono riconosciuti a quei sovrani, in forma espressa o tacita, dal papato stesso e perché ecclesiastica fu la giurisdizione esercitata dagli inquisitori nei processi in materia di fede».

Etchegaray ha polemizzato con quanti cercano di «addossare al solo potere laico la responsabilità dell'operato dei tribunali iberici» di Spagna e Portogallo, particolarmente feroci. Contro l'altra tentazione revisionista di quanti sottolineano come le garanzie dei tribunali ecclesiastici fossero migliori di quelle degli stati dell'epoca (argomentazione formalmente vera, perché nella Chiesa la cultura giuridica era comunque più sviluppata), il cardinale non ha parlato apertamente. Ma le sue citazioni continue dell'enciclica papale Tertio Millennio Adveniente sono suonate come un monito a non cercare di minimizzare le colpe dell'istituzione.

L'Inquisizione, ha ricordato Etchegaray citando Giovanni Paolo II, «è un capitolo doloroso sul quale i figli della Chiesa non possono non tornare con animo aperto al pentimento». Vi fu «acquiescenza, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità». Agli scienziati il cardinale ha indicato l'obiettivo della "massima libertà" di ricerca, spiegando che dovranno essere esaminati tutti gli aspetti del fenomeno: le persecuzioni contro gli ebrei, i musulmani, i protestanti, la lotta contro la magia e la stregoneria o la censura dei libri.

Un riflesso della tendenza ridimensionatrice si coglie nelle Note storiche elaborate per il simposio da Agostino Borromeo, presidente dell'Istituto italiano di studi iberici. Scrive Borromeo, dati alla mano, che su 501 condanne pronunciate a Tolosa tra il 1307 e il 1323, le condanne a morte furono 29. E su 200 sentenze dell'Inquisizione piemontese, le esecuzioni capitali assommarono a 22. «E stando ai dati che possediamo sull'Inquisizione spagnola tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del XVII secolo, la percentuale degli imputati sottoposti a tortura oscilla, a seconda dei tribunali, tra il 7 e l'11 per cento». E ancora, spiega Borromeo, «tra il 1540 e il 1700 su un totale di 44.674 casi, il numero degli accusati effettivamente mandati sul rogo corrisponde all 1,8 per cento». Più un 1,7 per cento di condannati in contumacia.

Radicalmente diverso l'approccio di Natale Benazzi, autore del saggio Il libro nero dell'Inquisizione. «Quando la Chiesa si volge in tribunale e contesta a una persona un reato di coscienza - dichiara Benazzi sulle pagine di Avvenire - è evidente che l'accusato non ha modo di replicare. Così è nata un'epoca di terrore». Domani prenderà la parola il Papa.

 

 

La Repubblica, 6 settembre 1998

Intervista al professor Adriano Prosperi docente di Storia moderna a Pisa

Torquemada? L'uomo che "inventò" l'inquisizione - Di Nello Aiello

Pisa - Cinquecento anni fa, il 16 settembre 1498, moriva un uomo che fu ed è rimasto un simbolo. Era Tomas de Torquemada, primo Inquisitore di Spagna, organizzatore di un tipo di tribunale che - con alcune varianti - avrebbe operato per secoli anche in Italia. L'anniversario cade in una fase di intensa revisione storica dell'Inquisizione: metodi, effetti, scenario religioso e politico. Non può stupire che anche la figura di Torquemada e la sua leggenda siano oggetto di ripensamento. Resta da vedere in quale misura e su quali dati obiettivi. Lo abbiamo chiesto al massimo studioso italiano dell'Inquisizione, Adriano Prosperi, docente di Storia moderna e contemporanea all'università di Pisa.

Professor Prosperi, il valore simbolico di Torquemada, sinonimo di efferata durezza repressiva, si va appannando? 

«Direi di sì. Dall'Ottocento romantico in poi, era prevalsa, quasi senza contrasti, la tesi dell'arbitrarietà e della crudeltà dei tribunali dell'Inquisizione. I quali venivano considerati in contraddizione con lo spirito del Vangelo: con la sua indulgenza, la sua inclinazione al perdono, la sua comprensione verso l'errante. Simili stereotipi hanno avuto larga circolazione. Perfino Mussolini scrisse un libro su un esecrando Inquisitore».

Torquemada incarnava una parvenza quasi demoniaca.

«Fu lui il primo a formare e gestire un tribunale centrale, di natura religiosa ma al servizio del potere politico. Nel senso che i giudici dell'Inquisizione spagnola, di cui egli era a capo, venivano sì nominati dal Papa, ma su indicazione della monarchia spagnola. Torquemada fu lo strumento straordinariamente duttile ed efficace al servizio di questa operazione voluta da Ferdinando d'Aragona, il Cattolico, e da sua moglie Isabella di Castiglia. A quest'opera Torquemada dedicò la vita. Anche correndo forti rischi».

Rischi di che natura?

«Fisici. Nel 1495, ad esempio, venne ucciso a Saragozza Pedro Arbuès, poi elevato agli altari come Santo Inquisitore. Quanto a Torquemada, nei pochi dipinti che lo ritraggono, appare una figura imponente. Con intorno un gruppo di armati a difenderlo».

Sacre guardie del corpo...

«Appunto. L'Inquisitore era un uomo ieratico. Severo erga omnes. Nei documenti d'epoca lo si descrive disposto a sacrificare la vita per la sua missione. Ma, si capisce, qualche cautela era d'obbligo. Torquemada operava in base a regole precise da lui stesso dettate. Era suo compito scegliere i commissari dell'Inquisizione da impiegare nelle varie province. Si adoperò a tessere questa rete fino al 1495, tre anni prima di morire. Sul modello spagnolo sarebbe nata nel 1537 l'Inquisizione portoghese. Poco più tardi, nel 1542, quella romana. Del sistema spagnolo si eredita il criterio della centralità: c'è un tribunale principale che dirige le sedi periferiche, la cui azione si può svolgere in maniera mobile o fissa. Cioè mediante personale che lavora sul posto, o attraverso ispezioni o 'visite' predisposte dal centro. Inquisizione equivale a ricerca della verità. Dovunque la si trovi. Ecco la consegna cui Torquemada obbediva».

Ancora oggi, se è lecito il paragone, l'azione penale è obbligatoria.

«La differenza sta nella segretezza dei procedimenti. Una formula consueta nei documenti dell'Inquisizione suonava così: 'senza il rumore della litigiosità'. Vietato accogliere denunce anonime. Si scoraggiava la partecipazione della gente ai processi. Si diffidava di tutto ciò che venisse dal popolo. Ogni cosa doveva provenire da Dio. A Valenza, l'Inquisizione arrivò a reprimere - era già il 1620 - un moto di popolo a favore di un presunto Santo. La Gerarchia stroncò questa infatuazione con l'invio di truppe regolari».

Nel suo libro Tribunali della coscienza, che ha per tema l'Inquisizione nell'Italia della Controriforma, lei sostiene che i tribunali ecclesiastici furono spesso più miti di quelli del potere statale.

«Nei tribunali civili un certo grado di crudeltà era la norma. Prova regina veniva considerata la confessione. E per acquisirla si partiva dagli indizi. Se essi erano sufficienti, si passava alla tortura. In caso contrario, no. Ciò in teoria. Nella pratica, si sa che la polizia non sempre si attiene alle regole. Quanto all'Inquisizione, essa indagava su reati connessi con convinzioni interiori, segrete. L'eresia era considerata un crimine speciale, per il quale si poteva procedere ignorando le garanzie in uso per i reati comuni. Ai tribunali civili, per infliggere la tortura, occorrevano due testimoni. All'Inquisizione ne bastava uno. L'Inquisizione adopera molto più spesso il carcere d'isolamento, luogo di meditazione e di macerazione. Può tenere il reo recluso sine die, perché si penta. Una piramide di pentiti è il sogno dell'Inquisitore. Un pentito fa dieci nomi di eventuali rei. E presumendo che ciascun reo virtuale, una volta incarcerato, si penta a sua volta, si potrà arrivare a diecimila pentiti. O a centomila rei».

Centomila?

«Uno studioso francese, Francois Dedieu, ha calcolato che durante il dominio di Torquemada, per il solo tribunale di Toledo, gli inquisiti erano varie centinaia. Trattandosi di una comunità abbastanza ristretta, si arriva a circa metà della popolazione».

E le esecuzioni capitali?

«Qui ci si aggira nell'ordine delle decine. Stando ai calcoli di altri due noti studiosi, William Monter e John Tedeschi (quest'ultimo è un ebreo, non sospettabile di indulgenze) le condanne a morte emanate dall'Inquisizione sono nettamente più rare di quelle irrogate da qualsiasi tribunale penale ordinario».

Rispetto a quella italiana, l'Inquisizione spagnola stile Torquemada porta con sé almeno una macchia in più: la persecuzione giudiziaria degli ebrei.

«Fu un'azione sistematica, di grande portata anche economica. I condannati appartengono a comunità ricche e potenti. Perseguitarli può impoverire intere città. Requisendo i loro beni, la struttura capeggiata da Torquemada non solo arricchisce la monarchia, ma si autofinanzia. L'azione antiebraica assume aspetti atroci. Inflessibile è il meccanismo attraverso il quale si ricostruiscono le genealogie dei cristiani spagnoli, divisi in 'vecchi' e 'nuovi'. Basta avere un antenato ebreo per vedersi sistemare nella seconda categoria».

E i cristiani "nuovi" di quali angherie soffrivano?

«Chi discende da un convertito è escluso da ogni dignità o privilegio: dall'Ordine dei Cavalieri di Santiago a qualsiasi modesta confraternita».

Altro che religione. Siamo all'apartheid razziale.

«Un esempio celebre riguardò il Generale della compagnia di Gesù, diretto successore di Ignazio di Loyola. Si chiamava Diego Laynez. Era già morto quando si scoprì una sua remota origine ebraica. Seguì l'ordine di eliminare dagli Annali della Compagnia persino il suo nome. Che, di fatto, vi figura a stento».

Ma parliamo dell'Inquisizione italiana. Delle sue diversità.

«Al vertice della piramide inquisitoriale, in Spagna siede un uomo di fiducia del Re. In Italia, supremo Inquisitore è il Papa. È' lui che priesiede le riunioni della Congregazione del Sant'Uffizio».

Sant'Uffizio. Che soave denominazione per un organismo orribile.

«Questo termine, infatti, fu stravolto. I cristiani del Medioevo vedevano nel Sant'Uffizio un organismo pastorale, adibito - diciamo - a 'pascere le pecorelle del Signore'. Contro questo inganno Erasmo da Rotterdam protestò in un colloquio dal titolo Inquisitio de fide, nel quale mimava il dialogo fra l'Inquisitore e il reo. E' l'equivalente di un moderno lavaggio del cervello. L'Inquisitore è capzioso. Si fa più dolce via via che il reprobo dà segni di crollo. Quante più informazioni l'imputato fornisce ai giudici, tanto più sincera appare la sua confessione. E tanto più umano è il trattamento. La legislazione premiale non è mica un'invenzione recente...».

C'è una reale esigenza di rivedere la storia di tante impostazioni arbitrarie. Ma c'è anche un revisionismo ambulante, strumentale. Non si corre il rischio che allo sdegno tradizionalmente riservato all'Inquisizione subentri un'indulgenza ugualmente irriflessiva?

«Direi che, in generale, il rischio si è già realizzato. Si è confrontato, antistoricamente, il 'dopo' con il 'prima'. Himmler, poniamo, con Torquemada. E ne è nata l'idea che si possa risolvere i conti del passato, chiudendo ogni 'libro nero'. Tutto consiglierebbe, invece, di andar piano con i perdoni. E' più importante conoscere che perdonare. Non si tratta tanto di chiedere scusa a Giordano Bruno o di riabilitare Galileo, ma di capire il quando, il come, il perché. Studiando l'Inquisizione abbiamo capito quanto sia importante e perenne il tema dell'alterità e della tolleranza. Non per nulla, la storiografia sull'Inquisizione spagnola ad opera di studiosi spagnoli, già molto illustre, rinasce subito dopo la morte di Franco. Un moto di autocoscienza della Spagna moderna, nel momento del suo aggancio all'Europa».

Papa Wojtyla ha promesso, in occasione del Giubileo, un "mea culpa" in nome della Chiesa sul tema della santa Inquisizione. Non può accadere che venga sommerso da un coro: «Ma no, Santità, non esageri, non stia a fustigarsi, chi glielo fa fare, nessuno è perfetto»?

«Non è impossibile, ma sarebbe insensato».


Il Tribunale dell'Inquisizione

 

Il tribunale dell'Inquisizione fu creato nel basso Medioevo per castigare l'eresia e gli altri delitti contro la fede cristiana (apostasia, falsi miracoli, profanazione dell'eucaristia, stregoneria, superstizione); la sua storia si articola in due distinti momenti: quello medievale e quello moderno, ossia posteriore alla Riforma protestante.

 L’ETA’ MEDIEVALE

I primi tribunali dell’Inquisizione sorsero nel XII  secolo in diverse aree dell’Europa occidentale, talvolta su richiesta o con l'appoggio del potere civile, detto "braccio secolare", essendo considerata la disobbedienza al sovrano anche un delitto "religioso".

Lo sviluppo di moti neo- manichei in Francia e in Italia indusse papa Innocenzo III a inviare nelle regioni interessate speciali giudici-legati, come il cistercense Pierre de Castelnau, e lo spagnolo Domenico di Guzmán, con il compito di "inquisire", e, in caso disperato, consegnare alle autorità civili gli eretici.

Nel corso dei secoli i papi, in particolare Onorio III, tentarono ripetutamente di sottrarsi alla pesante e non disinteressata "collaborazione" dei sovrani, ma poiché i vescovi e le popolazioni locali erano più legati ai re che al papa, si ebbero frequenti scontri fra i sovrani e gli inquisitori domenicani, che invece dipendevano direttamente da Roma.

Frequenti furono anche i conflitti fra inquisitori e vescovi.

 L’ETA’ MODERNA

Un nuovo capitolo nella storia dell'Inquisizione si apre con la cosiddetta Inquisizione Romana, nell'età della Controriforma.

Nel 1542 Paolo III creò la Congregazione cardinalizia del Santo Uffizio (Sacra congregatio romanae et universalis inquisitionis seu Sancti Officii ), presieduta dal cardinale Giampietro Carafa. La bolla  “Licet ab inizio” (21 luglio 1542) ne centralizzava il potere e le funzioni, escludendo ogni possibilità d'intervento dei vescovi e dell'autorità laica e dando mandato a sei cardinali inquisitori di designare tutti i funzionari dipendenti, senza limiti di giurisdizione, attribuendo loro la facoltà di incriminare chiunque, principi e prelati compresi.

Dapprima il Santo Uffizio si limitò a perseguire i libri "eretici", pubblicandone vari "Indici", ma Pio IV accrebbe le sue competenze; il suo compito fu quello di esaminare tutte le insorgenze d'eresie e la sua autorità superiore ad ogni altra era finalizzata al fatto che nessun caso sfuggisse al suo controllo. Infine, con la “Costituzione  Immensa” (22 gennaio 1588) Sisto V le diede il primo posto fra le Congregazioni Romane.

 Conseguito in tal modo il controllo della vita religiosa e spirituale in Italia, la funzione dell'Inquisizione Romana venne restringendosi un po' alla volta alla cura di questioni di vita interna della Chiesa, sino a che, il 29 giugno 1908 con la bolla  “Sapienti Consilio” di San Pio X, il termine Inquisizione scomparve; rimasero la Congregazione del Santo Ufficio e l'Indice dei Libri Proibiti. Infine, dopo il Concilio Vaticano II,  il Santo Ufficio ha assunto la denominazione di Congregazione per la dottrina della fede (7 dicembre 1965), e l'Indice, di fatto, è venuto meno.

 

 LA PROCEDURA INQUISITORIALE

Fissata attraverso una serie di bolle papali e decisioni conciliari, venne riassunta in vari manuali, fra cui la celebre  “Practica inquisitionis” del domenicano Bernardo di Guido (ca. 1320).

Essa prevedeva un "tempo di grazia" (da 15 giorni a un mese), nel quale l'eretico denunciatosi spontaneamente avrebbe ricevuto lievi pene (preghiere, opere pie, pellegrinaggi), anche "segrete", se la colpa non fosse stata pubblica. Trascorso il termine, il tribunale procedeva citando l'indiziato o chiedendone l’arresto alle autorità civili; di regola due testimoni "onorevoli" (quasi mai messi a confronto con l'accusato) erano sufficienti per una condanna; in qualche caso  veniva ammessa l'assistenza di un avvocato noto al tribunale come non sospetto d'eresia. Il regime penitenziario durava a volte degli anni e la pratica della tortura, per estorcere la confessione, era ammessa  “citra membri diminutionem et mortis periculum” (salvo mutilazione e pericolo di morte). La sentenza (previo consenso del vescovo) veniva letta durante un pubblico "sermone generale"  e poteva essere di assoluzione, preceduta da abiura, di detenzione parziale o perpetua e di morte sul rogo (l'esecuzione di quest'ultima era affidata al "braccio secolare"). La prigionia perpetua e il rogo comportavano la confisca dei beni; qualche pena più lieve ( come il pellegrinaggio a un santuario) poteva essere riscattata col versamento di elemosine. La condanna al rogo poteva essere inflitta anche “post mortem”; in questo caso veniva bruciato il cadavere. Prima della sentenza, il reo poteva appellarsi al papa, che di fatto intervenne in più casi, anche destituendo giudici troppo severi.

 Tra i processi più celebri della storia ricordiamo, nella Firenze dell'ultimo Quattrocento, quello contro Savonarola, legato  a circostanze politiche e locali. Particolare risonanza ebbero poi anche i processi contro intellettuali, come Giordano Bruno e Galileo Galilei.


Adriano Prosperi, L’Inquisizione romana. Letture e ricerche,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003
[ISBN 88-8498-082-8; € 58,00]

Matteo Duni
Syracuse University in Florence

M Duni, "Review of A. Prosperi, L’Inquisizione romana. Letture e ricerche", Cromohs, 10 (2005): 1-7
< URL: http://www.cromohs.unifi.it/10_2005/duni_prosperi.html>



 

1. Gli studi sull’Inquisizione romana attraversano una fase di grande crescita quantitativa e di mutamento qualitativo nell’approccio all’oggetto, entrambi dipendenti in misura considerevole, anche se non esclusiva, dall’apertura dell’archivio centrale del Sant’Uffizio (ora Congregazione per la Dottrina della Fede) nel 1998. Si è trattato senza dubbio di un evento di grande rilevanza, che ha contribuito a orientare le ricerche su nuclei di problemi prima toccati solo marginalmente, e soprattutto sull’Inquisizione come istituzione, le sue logiche, il suo personale, il ruolo che svolse all’interno della Chiesa cattolica. Tra gli studiosi italiani protagonisti di questo nuovo orientamento Adriano Prosperi occupa una posizione di assoluto rilievo, grazie anzitutto all’opera più rappresentativa della nuova storiografia sull’argomento, Tribunali della coscienza (1996). L’origine dell’Inquisizione romana, la sua strutturazione e ideologia, i suoi rapporti con altri poteri e istituzioni sia all’interno che all’esterno del mondo ecclesiastico, le conseguenze della sua azione sui comportamenti e i pensieri delle popolazioni italiane nel “secolo di ferro” che corre tra l’istituzione dell’ufficio (1542) e la metà del Seicento sono alcuni dei temi di quel libro, che si ritrovano – insieme a diversi altri - nel volume L’Inquisizione romana Esso raccoglie diciassette contributi scritti nell’arco del ventennio 1982-2002: vi si leggono così studi appartenenti al periodo precedente l’apertura dell’archivio centrale romano, e che in parte anticipano riflessioni e orientamenti sviluppati pienamente in Tribunali della coscienza, accanto a lavori che hanno potuto giovarsi dei nuovi documenti ora disponibili, e che quindi hanno consentito da un lato di effettuare una prima verifica di ipotesi o anche di conclusioni prima espresse sempre in forma più o meno dubitativa, dall’altro di delineare nuove prospettive di ricerca per gli anni a venire. Nel complesso, la serie di studi consente di allargare e approfondire lo sguardo su questioni di primaria importanza, che escono dai limiti della storia della sola istituzione. Basti qui indicare due temi che si intrecciano, e percorrono più di un saggio della raccolta: l’impatto del modello di cristianesimo informato alla dottrina e alla prassi inquisitoriale sui processi di formazione di nuove identità - dei singoli come delle collettività - nello scenario dell’età della Controriforma e oltre; la collaborazione e la dialettica tra istituzioni ecclesiastiche e stati, per parte loro sempre più impegnati a partire dal ‘500 nella “politica della coscienza”, ossia nella creazione del consenso e nel controllo del dissenso. Il volume, inoltre, testimonia un impegno assiduo nell’interrogarsi sul passato e sul futuro degli studi sull’Inquisizione, sulla necessità di rivedere i presupposti storiografici soggiacenti a tanta parte delle ricerche del secolo scorso, senza cadere però in un revisionismo che sta già producendo frutti deleteri. L’Inquisizione romana da questo punto di vista integra e completa Tribunali della coscienza, in quanto dedica molto più spazio alla riflessione su questo tema di quanto facesse l’altro libro, e fornisce una messa a punto del problema storiografico assai stimolante, anche se non del tutto persuasiva in alcuni dei suoi esiti, come vedremo.

2. Il mutato clima e le condizioni diverse nelle quali le ricerche sull’Inquisizione si svolgono oggi sono tratteggiati nell’Introduzione, che vede l’aprirsi agli studiosi delle porte del palazzo del Sant’Uffizio come il punto finale di contrapposizioni secolari ed aspre tra detrattori e apologeti dell’Inquisizione, sempre e comunque mossi da pregiudizi ideologici, e interpreta la scelta compiuta da Giovanni Paolo II come un atto che costringe gli storici a mettere da parte antiche animosità e malintesi sensi di militanza per affrontare la messe documentaria con spirito obiettivo. Per la verità, l’autore riconosce che non tutti i ricercatori hanno obbedito a logiche preconcette, ricordando quelli che hanno anticipato la svolta storiografica: John Tedeschi, anzitutto, il primo ad aver messo al centro del suo interesse il Sant’Uffizio come istituzione e ad aver fornito una ricostruzione del suo funzionamento che sfatava molti e tenaci luoghi comuni; e Massimo Firpo, il quale, nell’approntare l’edizione monumentale del processo celebre per eresia contro il cardinal Giovanni Morone, ha messo a fuoco magistralmente il ruolo capitale dell’Inquisizione romana negli anni decisivi della costruzione del papato della Controriforma. Ora però, sottolinea Prosperi, la natura stessa della documentazione superstite tra le mura vaticane consente, e al tempo stesso richiede, che le ricerche future compiano una svolta più decisa, nel senso di mettere al centro – per semplificare - gli inquisitori, più che gli inquisiti. La chiave per studiare questi ultimi, infatti, i processi, andarono perduti nel corso delle disavventure di primo ’800 (sottratto l’archivio da Napoleone, l’immensa serie processuale fu poi mandata al macero a Parigi da autorità vaticane tanto preoccupate di risparmiare sui costi del trasporto a Roma quanto in fondo interessate alla sua distruzione). È quasi intatta, invece, la serie dei Decreta, i verbali delle riunioni dei cardinali supremi inquisitori, ossia lo strumento fondamentale per cogliere, sul filo delle decisioni e discussioni giorno per giorno, l’evoluzione delle posizioni di quella che era ormai la massima istanza dottrinale e insieme politica della Chiesa cattolica. L’insieme delle serie conservate – sulle quali sarebbe troppo lungo soffermarsi qui – permette quello “sguardo d’insieme, dal centro e dall’alto” (p. 229) che era finora mancato agli storici dell’Inquisizione romana, costretti a inseguire le tracce delle decisioni romane nei riflessi lasciati negli archivi dei tribunali locali della Penisola. Le domande che i ricercatori potranno rivolgere a questi documenti, dunque, saranno sostanzialmente diverse rispetto al passato, e potranno concentrarsi sugli aspetti multiformi dell’egemonia esercitata dalla Chiesa della Controriforma – e anche dei secoli successivi, fino a quello scorso - sulla società italiana, sui suoi strumenti (come l’Inquisizione) e i suoi limiti.

3. L’egemonia della Chiesa è vista anzitutto nella luce del cambiamento fondamentale tra tutti quelli causati dall’istituzione dell’Inquisizione romana, ossia della “riduzione della fede a materia di polizia governata direttamente dal papa” (p. 67), di contro ad una situazione precedente in cui figure e corpi diversi, non immediatamente sottoposti a Roma – le facoltà teologiche, i vescovi – potevano avere voce in capitolo. La spia più significativa dei tempi che cambiavano è individuata nel mutamento semantico dell’espressione “santo ufficio”, tradizionalmente riferita al compito pastorale supremo dei pontefici nei confronti della Chiesa: a partire dalla metà del Cinquecento, invece, essa comincia ad indicare un’istituzione burocratica, distinta dalla persona del papa per quanto sua espressione, incaricata di condurre con logica e mezzi polizieschi quel che fino ad allora si era detto il “negotium fidei”. Prosperi instaura un confronto interessante tra l’affermarsi della nuova concezione e le idee opposte di uno dei più prestigiosi e influenti prìncipi della Chiesa a metà del ‘500, il cardinale inglese Reginald Pole. Esponente massimo della fazione dei cosiddetti “spirituali”, inclini ad un accordo con i protestanti che ne riconoscesse alcune innovazioni, Pole fu autore di un dialogo De summo pontifice ... eiusque officio et dignitate in cui il papa era visto come titolare del dovere supremo verso il gregge cristiano, ma anche come il modello più alto di quel che un vero capo politico doveva essere, in quanto riuniva la dimensione spirituale a quella temporale, e poteva quindi legare meglio di chiunque altro i cittadini allo stato tramite il vincolo religioso. In realtà, la lezione dell’importanza della religione nella politica – e, inversamente, dell’impiego spregiudicato della seconda nella prima - fu imparata alla perfezione dall’avversario acerrimo di Pole, Gian Pietro Carafa (poi papa Paolo IV), che gli sbarrò l’ascesa al pontificato tramite l’uso politico dell’accusa di eresia imbastita proprio grazie al lavoro della sua creatura, il Sant’Uffizio. Fu quello il primo, e più clamoroso, esempio di quello che si poteva fare grazie al controllo dell’Inquisizione: le chiavi di accesso al soglio pietrino erano saldamente nelle mani dei supremi inquisitori, diversi dei quali divennero papi tra Cinque e Seicento. Al di là delle ricadute interne alla gerarchia ecclesiastica, comunque, l’instaurarsi del “regime del Sant’Uffizio” ebbe conseguenze profonde sulla natura delle credenze e dei comportamenti religiosi negli stati italiani, soprattutto perché esso avveniva in contemporanea al mutare della natura della fede, da pratica comunitaria ad esperienza sempre più privata ed interiorizzata, basata sull’assimilazione consapevole di insegnamenti teologici. Nella Penisola un tale processo fu bloccato sul nascere dalla Chiesa della Controriforma, che anche col tramite dell’Inquisizione incoraggiò una concezione della religione come adesione totale ed acritica, quanto formale, ai dettati del magistero ecclesiastico, al quale solo era riservata la conoscenza degli “arcana” della fede. L’impiantarsi di una cultura del sospetto e di una sorveglianza occhiuta su atti e pensieri difformi dall’ortodossia causò quella “scissione tra convinzioni segrete della coscienza e pratica rituale esteriore” (p. 308) – nota anche nel fenomeno del “nicodemismo” agli studiosi del Cinquecento religioso – che Prosperi individua come una delle origini remote del conformismo e dell’autoreferenzialità di tanta parte della cultura italiana. Inoltre, il disegno di un controllo degli atteggiamenti verso la religione e l’ordine ecclesiastico che mirava all’eliminazione delle diversità ebbe l’effetto, tra le altre cose, di sottoporre le comunità ebraiche alle più strette attenzioni del Sant’Uffizio, creando così l’humus nel quale avrebbe facilmente prosperato la pianta plurisecolare dell’antisemitismo, del resto ben presente nel corredo genetico dell’istituzione.

4. Le nuove e potenti strutture di controllo stesero le loro reti in àmbiti sempre più vasti, e ricorrendo a mezzi mai prima sperimentati: tale fu senza dubbio l’uso integrato dell’azione inquisitoriale, della pratica della confessione e della censura libraria, argomento centrale in diversi contributi e, direi, in quasi tutto il volume. Prosperi è stato infatti colui che meglio di chiunque altro ha individuato l’importanza del legame di subordinazione della confessione – e dei confessori – all’Inquisizione stabilito da pontefici come Paolo IV e Pio V, vera chiave di volta del sistema di controllo sulla vita e la cultura delle popolazioni italiane nell’età della Controriforma. Decretando infatti nel 1559 l’obbligo per i confessori di interrogare i penitenti su eventuali complici nell’eresia, e di rifiutare loro l’assoluzione se prima non ne avessero fatto denuncia all’inquisitore, papa Carafa attuava la saldatura tra foro esterno dell’Inquisizione e foro interno della confessione, quindi tra potere temporale e potere spirituale: una commistione di sfere e una somma di strumenti ai quali guardavano con interesse anche i nascenti stati assoluti, alla ricerca dei mezzi più idonei per attuare un crescente disciplinamento delle popolazioni non solo negli atteggiamenti esteriori ma anche nei convincimenti più intimi. L’obbligo di denuncia riguardava anche la materia dei libri proibiti, dei quali Paolo IV emanò nello stesso 1559 l’Indice più ampio e punitivo della storia: il risultato fu di introdurre il “clima soffocante della censura e del sospetto” in ogni àmbito della vita sociale, e soprattutto tra coloro che tenevano e leggevano libri per esigenze di lavoro, professori e studenti delle università. Alcune delle pagine più interessanti della raccolta (il saggio Anime in trappola) sono dedicate ad analizzare con finezza le forme e le conseguenze della penetrazione dei controlli inquisitoriali nelle università italiane, e segnatamente in quella di Pisa. Non difeso, come le università d’Oltralpe, dalle ingerenze ecclesiastiche per opera del potere politico, il mondo accademico italiano andò al confronto con censori e inquisitori in ordine sparso, cercando soluzioni di compromesso caso per caso, permessi speciali individuali di tenere testi proibiti, e mostrandosi anzi disponibile a collaborare con proposte di “miglioramento” della censura. La corrispondente flessibilità delle congregazioni romane, che spesso e volentieri derogarono alle norme con favori ad personam, finì per attutire il bisogno di libertà creato dalla proibizione e contribuì a stendere sulle università quella cappa di conformismo e di adeguamento alle imposizioni delle autorità religiose, che ne distrusse il carattere di luoghi di discussione libera ed aperta a tutte le “nazioni” – la scomparsa progressiva di studenti del nord-Europa è spia significativa del cambiamento. Il conformismo imposto nell’età della Controriforma rimase come caratteristica di tempo lungo nelle università italiane, tanto che Prosperi accosta l’attestato di confessione e comunione pasquale imposto dal Sant’Uffizio ai professori, al giuramento di fedeltà richiesto dal regime fascista, rilevando come entrambe le misure suscitarono ben poche resistenze. Ancor più importante è il fatto che il meccanismo dei controlli s’impiantò prima di tutto nell’interiorità dei fedeli attraverso la confessione, che fu “uno strumento di controllo sociale e [...] anticamera del tribunale inquisitoriale”: l’identificazione tra peccato e delitto valse a trasformare le coscienze nelle più valide alleate dell’Inquisizione, stimolando in ugual misura la delazione, l’autodenuncia e l’autocensura.

5. L’intreccio tra queste tre facce del “regime del Sant’Uffizio”, e soprattutto il rapporto complesso tra censori e censurati, è affrontato in uno dei saggi più ambiziosi, Censurare le favole, dedicato ad analizzare l’atteggiamento delle autorità romane nei confronti della letteratura nell’epoca della definizione delle prime versioni dell’Indice. Prosperi indica il secolo della Riforma come il momento di una rottura netta della concezione medievale della letteratura (soprattutto della poesia) come affine e alleata della teologia, soppiantata dalla coscienza di una distanza incolmabile tra “favole” e verità della Scrittura, che richiedeva l’adozione di provvedimenti per mettere sotto controllo le prime e tutelare la seconda. Tuttavia, avverte l’autore, l’attuazione della censura non deve essere vista come un attacco indiscriminato, condotto da ecclesiastici rozzi e fanatici, contro una cultura sostanzialmente espressione della società laica: respingendo semplificazioni schematiche, il saggio sottolinea il coinvolgimento di intellettuali laici nell’espurgazione, e anche nell’auto-espurgazione, di opere entrate nel mirino dell’Indice, accanto all’impegno appassionato di intellettuali che erano anche chierici per salvare quanto più possibile di opere capitali per la letteratura italiana – il caso più celebre fu l’espurgazione del Decameron ad opera del dottissimo abate Borghini. Di più, Prosperi individua come una delle istanze all’origine dell’apparato censorio proprio “la protesta contro l’incontrollata circolazione di libri” giudicati immorali che veniva dal “mondo degli umanisti e dei letterati militanti” (p. 356). Si tratta di un’interpretazione molto interessante, che a mio giudizio però avrebbe necessitato di una discussione più ampia e meglio argomentata di quella offerta nel saggio: gli esempi addotti in suo sostegno, in effetti, appaiono troppo pochi – Juan Luis Vives, Gianfrancesco Pico - oppure non abbastanza significativi o pertinenti – come l’ironica proposta di Francesco Berni di istituire una “inquisizione particolare sopra i poeti”, o le proteste di Erasmo contro l’irriverenza verso le Scritture – per riuscire del tutto persuasivi. Più convincente risulta l’affresco d’insieme di una situazione italiana senza dubbio peculiare – ad esempio nel confronto con quella quella spagnola – per il legame tra autori e censori, che divenne “consuetudine stretta e prolungata, assuefazione ai criteri e ai poteri che custodivano l’accesso alla stampa” (p. 381), e si tradusse in un’attenzione censoria verso le opere non teologiche inaudita nella penisola iberica. Il risultato fu, al di là dei testi direttamente colpiti, la scomparsa di intere categorie di opere, soprattutto in volgare, che entrarono nella dimensione carsica della circolazione manoscritta, e in ogni caso la fine di quello che Dionisotti aveva definito il “momento espansivo, euforico della letteratura italiana” Si deve dire, comunque, che il saggio lascia l’impressione di un’accentuazione eccessiva degli aspetti consensuali della censura, della “tradizione dell’intervento ecclesiastico sui letterati, fondata sul consenso e sulla comune partecipazione alla vita e agli interessi della ‘Repubblica delle lettere’” (p. 374) che, nel sottolineare l’importanza e la pervasività dell’autocensura, mette in secondo piano i caratteri e gli effetti violenti del clima che la imponeva agli autori. L’esempio della vicenda tormentatissima che condusse Torquato Tasso ad una riscrittura disastrosa della Gerusalemme liberata (stranamente trascurata da Prosperi) sta a ricordarci come la “via obbligata dai metodi dolcemente ‘pastorali’ del controllo ecclesiastico” (p. 382), ossia appunto l’autocensura, potesse avere conseguenze tutt’altro che dolci su coloro che finivano per sentirsi obbligati a compierla, e sulle loro creazioni.

6. Al tema del dispiegamento territoriale della rete inquisitoriale di controllo, al suo radicamento sociale, e ai mutevoli rapporti tra inquisitori e potere politico è dedicato un gruppo compatto di saggi, tutti precedenti l’apertura dell’archivio romano: si trattava allora (negli anni ’80 del secolo scorso) di studi quasi pionieristici, su argomenti che sono tuttora poco frequentati dai ricercatori italiani, a differenza di quanto avviene ad esempio in Spagna. Prosperi si concentra sul caso toscano, ma lo confronta con la situazione della Repubblica di Venezia, mettendo in evidenza le strategie diverse seguite dai due stati nei rapporti con Roma e nel controllo dei comportamenti e dei pensieri sulla religione. Mentre nella Serenissima le autorità politiche, ben consapevoli dell’importanza del “governo della fede”, lo volevano attuare in prima persona contro ogni ingerenza del Sant’Uffizio, i granduchi di casa Medici furono di solito assai ossequienti alle richieste romane, ma si servirono comunque del tribunale della fede come fonte d’informazioni per tenere sotto controllo l’opposizione repubblicana-savonaroliana, e ne limitarono il raggio d’azione attraverso il clero secolare (vescovi e parroci), espressione del potere politico, che fungeva da contraltare dei vicari locali dell’Inquisizione e non di rado si trovava in contrasto con loro. L’impianto capillare e saldo della rete inquisitoriale nel granducato a metà Seicento, comunque, rendeva l’appartenenza all’apparato – nella forma dei familiari dell’Inquisizione - molto appetibile agli esponenti delle élites locali, in quanto il potere che ne derivava poteva essere impiegato contro gli avversari nelle lotte per l’egemonia e il prestigio; e metteva l’Inquisizione in grado di esercitare ormai un condizionamento profondo sulle azioni e i pensieri, attraverso il quale ad esempio si denunciavano sempre più le bestemmie e i riferimenti irriguardosi verso il clero, mentre ad un altro livello era sottoposta a stretto controllo la circolazione dei libri in àmbito cittadino. Il confronto tra Sant’Uffizio e stati italiani, e le sue forme, è argomento sul quale Prosperi formula ipotesi tra le più suggestive per le ricerche future, come quella di vedere la relativa “mitezza” dell’azione inquisitoriale – dopo i decenni iniziali di ferro e fuoco – e il suo scrupolo per le regole del diritto come conseguenza della “delega” all’Inquisizione da parte del potere politico dei processi di disciplinamento delle società e degli individui, che richiedeva da parte dell’istituzione romana un costante spirito di collaborazione e un’attenzione particolare a non travalicare le norme per non guastare i rapporti con i governi suoi alleati (p. 342).

7. La messa a fuoco della prospettiva nuova con cui leggere la documentazione del Sant’Uffizio è invece al centro dei contributi più recenti, oltre che dell’Introduzione. Essa è condotta da Prosperi attraverso l’analisi dei “caratteri originali” di quella “controversia secolare” - per riprendere il titolo del saggio principale da questo punto di vista - che ha lasciato segni profondi sul campo di questi studi. Una lunga ostilità ha contrapposto una corrente di storici (prima organica alla Chiesa, poi comunque schierata in senso clericale) che difendeva il ruolo di baluardo dei valori cattolici rivestito dall’Inquisizione prima contro l’eresia, e in seguito contro l’avanzante secolarizzazione del mondo, alla tradizione storiografica protestante, più tardi illuministica e liberale, che vedeva nel Sant’Uffizio una creazione profondamente anticristiana, ed espressione massima dell’oscurantismo di epoche non ancora liberate dal pregiudizio per opera della ragione e della scienza. L’esame delle due scuole, i cui capostipiti sono individuati rispettivamente nell’inquisitore spagnolo Luís de Páramo e nel teologo arminiano olandese Philip van Limborch, mette in evidenza come i primi si siano di solito concentrati sull’istituzione e i suoi giudici, per dimostrarne la necessità e la moralità, mentre i secondi hanno privilegiato le sue vittime, viste come martiri dell’Evangelo o, più tardi, del libero pensiero; e che il risultato di queste opposte tendenze sia stato quello di confinare l’Inquisizione come oggetto storiografico in uno stato di immobilità e astoricità, sottraendola fino a decenni recenti ad ogni tentativo di esaminarne l’evoluzione e i cambiamenti. Per secoli, insomma, si è studiata l’Inquisizione solamente al fine di “inserirla nella storia di cui si è parte oppure di estrometterla” (p. 69); adesso i tempi sono maturi per ricerche volte a capire, più che a giudicare, ma stando bene attenti a non cadere nella riabilitazione del passato. In più di un saggio della raccolta Prosperi mette in guardia contro la tentazione attuale di sostituire la “leggenda nera” dell’Inquisizione romana costruita nei secoli passati con una “leggenda rosa” altrettanto inaccettabile (p. 95); e chiama gli storici al compito di studiare senza pregiudizi il Sant’Uffizio come realtà del passato “immodificabile e irrimediabile in quello che ha fatto, modificabile però nel presente per quello che ha lasciato in eredità” (p. 96). Tuttavia, quale sia questa eredità, e soprattutto se e come essa debba influire sull’atteggiamento di chi oggi s’interroga su cosa fu quella istituzione, non emerge in modo univoco da queste pagine di Prosperi. Egli, infatti, dopo essersi chiesto quale “guerra” condusse a morte le vittime dell’Inquisizione e quale ne sia stato il significato, si riferisce agli storici e in generale agli osservatori del tempo presente con “noi, che, in quanto siamo qui, siamo gli eredi dei vincitori” di quella guerra (p. 95), ossia degli uomini del Sant’Uffizio. Afferma contraddittoriamente poche righe oltre (ma anche, più diffusamente, a p. 310) che la nostra società attuale si fonda sui valori della libertà di pensiero e del rispetto assoluto per la sfera della coscienza, ossia proprio su principî che a lungo furono rivendicati solo da singoli o da gruppi minoritari, perseguitati tanto dalla Chiesa di Roma quanto dalle altre Chiese nate dalla crisi del ’500. Accenna infine alla libertà e inviolabilità della coscienza come un “fondamento cristiano essenziale delle regole sociali”, ma senza esplicitare il suo pensiero sul rapporto che legherebbe questa libertà al cristianesimo. Ci siamo soffermati su queste pagine non per il gusto pedantesco di rilevare incongruenze, ma perché riteniamo che la questione meriti la massima chiarezza. Certamente, il compito che come studiosi dobbiamo affrontare adesso è scrivere la storia del Sant’Uffizio con i documenti finalmente disponibili, interrogandoli senza piegarli entro schemi preconcetti; ma non dobbiamo dimenticare che è anche grazie all’eredità di taluni dei “vinti” di quella guerra - non dei vincitori - che noi possiamo oggi studiare con spirito libero dai condizionamenti di qualunque “chiesa” la storia di chi li perseguitò. Non si tratta di confondere l’esercizio del mestiere di storico con quelle ricerche di una qualche “genealogia” della modernità nelle quali ci si muove su strade già segnate in partenza; bensì di coniugare ad un uso critico e responsabile delle fonti la memoria consapevole dei processi storici – spesso drammatici – che forgiarono, insieme alla costellazione dei valori sui quali poggia il nostro vivere civile, anche gli strumenti indispensabili a quel mestiere. Senza una tale consapevolezza, io credo, non ci assumeremmo davvero quelle responsabilità alle quali chiama l’apertura dell’archivio dell’Inquisizione romana e, in ultima analisi, non coglieremmo appieno il valore del percorso che ha condotto i vertici della Chiesa cattolica a decretarla.


 

           MEDIOEVO ERETICALE

a cura di Andrea Moneti

 

   

 

      

Tra il III concilio lateranense del 1179 e la metà degli anni Trenta del Duecento la Chiesa cattolico-romana riuscì a dotarsi dei mezzi religiosi, giuridici, ideologici, politici e organizzativi per isolare i movimenti eretici, sottraendo loro ogni spazio e connotazione sociale. È in questo intervallo di tempo che si formalizzano teoria e prassi della campagna antiereticale, definendo i confini tra obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche (ortodossia) e deviazione (eresia). Il dissenso religioso si trasforma in un crimine di natura politica (di lesa maestà) e anche il linguaggio si adegua alla propaganda antiereticale, soprattutto con la creazione degli Ordini mendicanti. Si elaborano nuove e migliori tecniche repressive e strumenti della persuasione, arrivando all’istituzione dell’Inquisizione.

La lotta fu ovviamente impari per le forze che il papato riuscì a mettere in campo, non solo da un punto di vista religioso, ma soprattutto politico, con campagne di vasta portata sociali e istituzionali, fatte di azioni repressive, di predicazione, celebrazioni agiografiche e di diffamazione. Gli eretici e i dissidenti religiosi, se non rispondere attraverso la propria testimonianza personale, nulla potevano fare contro una Chiesa che controllava le anime e gli individui delle varie collettività. Confinati ai margini della società vennero ridotti in clandestinità dall’attività degli inquisitori, membri di quel tribunale itinerante creato dal papato per individuare e reprimere l’e­retica pravità in ogni provincia e luogo.

     

La Militia Christi

La lotta contro gli eretici assunse gradualmente i connotati di una vera e propria “crociata”, alla stregua di quella contro gli infedeli. L’ere­sia venne percepita e considerata come un attentato alla “pace di Dio” e alla convivenza tra gli uomini. Già nel canone Sicut ait beatus Leo del terzo concilio lateranense del 1179 troviamo scritto: «poiché in Guascogna, Albigese e Tolosano e in altri luoghi così è cresciuta la dannata perversità degli eretici variamente si siano assunti questo impegno di sconfiggere quelli, nello stesso modo di coloro che visitano il sepolcro del Signore». La congiuntura di eventi e cause per la crociata interna venne rimandata di circa trent’anni e trovò la sua piena giustificazione, sotto il papato di Innocenzo III, nel canone Excommunicavimus del IV concilio lateranense del 1215: «i cattolici che, assunto il segno della croce, si siano accinti allo sterminio degli eretici, godano di quella indulgenza e siano muniti di quel santo privilegio che sono concessi a coloro che recano aiuto in Terrasanta».

Con questo decreto papale lo status dei “crociati” contro gli eretici veniva definitivamente equiparato a quello dei crociati in Terrasanta, coinvolgendo, oltre agli eretici, anche qualsiasi potere civile li protegga, opponendosi alla repressione antiereticale promossa dalla Chiesa. Queste idee non erano nuove poiché, sin dai primi mesi del suo pontificato, Innocenzo III si era già mostrato deciso a risolvere la questione “albigese” in ogni modo. Già nel 1198, infatti, aveva lanciato un appello per invitare i francesi della Linguadoca a mobilitarsi contro gli eretici, concedendo la stessa indulgenza prevista per coloro che visitavano le tombe degli apostoli Pietro e Giacomo. Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’occasione per risolvere una volta per tutte la situazione occitanica e per sradicare l’eresia in quelle terre, fu l’uccisione del legato pontificio Pietro di Castelnuovo nel 1208. Dopo questo fatto Innocenzo III poté lanciare una crociata vera e propria, invitando tutte le forze ecclesiastiche e laiche del regno di Francia a mobilitarsi contro l’eretica pravità.

Accanto alla repressione armata, si delineò un’altra forma di contrapposizione nei confronti delle varie sette o movimenti ereticali, in particolare quelle dei catari e dei valdesi. Già nel 1206 Innocenzo III ricordava al suo legato Radulfo, della provincia narbonese, che la difesa dell’ortodossia doveva avvenire anche per mezzo dell’esempio. Dispose, quindi, che venissero individuati dei “viri probati” affinché potessero dedicarsi alla predicazione, seguendo un rigoroso stile di vita pauperistico-evangelico, In questo modo, “imitando la povertà del povero Cristo», tali predicatori, con l’esempio e la predica, dovevano rivolgersi agli eretici per riportarli all’ortodossia. È in questo contesto che Folco, vescovo di Tolosa, istituì nella sua diocesi i «predicatores in episcopatu (...) fratrem Dominicum et socios eius» per contrastare con l’esempio e la parola l’eretica pravità. Due anni dopo, nel 1217, Onorio III definì Domenico e i suoi compagni la militia Christi della parola e gli invicti Christi adlete. Accanto alla milizia della crociata in armi si era aggiunta la milizia della parola. Nel 1220 lo stesso Onorio III interpretò la nascita dell’Ordine dei Frati Predicatori come un segno della volontà divina contro la “peste” dell’eresia. Con Gregorio IX questa “milizia evangelizzatrice” si completerà con l’ingresso dei Frati Minori, accomunati ai Predicatori nella lotta contro “le volpi (gli eretici) nella vigna del Signore».

 

La demonizzazione degli eretici

Tra le armi controversistiche la Chiesa pose un forte accento anche sulla demonizzazione degli eretici definiti come “membra Diaboli” o “ministri Diaboli”. Ne consegue che sempre più numerosi e vari sono gli exempla che, a partire dal XIII secolo, associano i loro comportamenti e le loro idee al rapporto speciale che intrattengono con il maligno. Le accuse più comunemente lanciate contro i dissidenti religiosi riguardano il l’ordinamento morale e la sfera sessuale. Denominatore comune, presente, infatti, nelle polemiche cattoliche nei confronti dei vari eterodossi è la partecipazione a orge e incesti sfrenati durante le loro riunioni, indipendentemente dal movimento considerato. Altre accuse frequenti sono atti blasfemi e sacrileghi contro le cose sacre, altari, arredi, immagini, e così via.

In questo modo la propaganda cattolico-romana intendeva sottolineare il comportamento perverso e il disordine morale degli eretici, capace di travolgere la vita sociale. Evidenziando la potenzialità corruttrice, indistintamente, di ogni eresia la Chiesa riuscì a mobilitare la collettività in chiave antiereticale e a giustificare la repressione violenta nei confronti dei dissidenti religiosi (un esempio su tutti il massacro degli abitanti della città di Béziers). Inoltre, richiamando alla mente atti corporali e triviali era molto più facile smuovere le masse anziché adducendo questioni teologiche e dottrinali.

La demonizzazione degli eretici rese possibile anche la loro criminalizzazione nell’ambito del diritto pubblico. A partire dalla decretale Vergentis in senium del 1199 di Innocenzo III, in cui l’eresia religiosa venne equiparata al crimine lesae maiestatis, e quindi definitivamente collocata in un ambito sociale e politico. Da questo momento in poi, mantenendo viva l’immagine di strette rela­zioni tra demoni ed eretici, il ricorso alla violenza era giustificato dall’e­normità del pericolo rappresentato dagli eterodossi per l’ordinamento religioso e civile nel suo complesso, in altre parole per la cristianità tutta. Per un’istituzione come quella della Chiesa cattolico-romana, impegnata nella realizzazione di un controllo totalizzante della coscienza degli individui e collettiva, la demonizzazione degli eretici si dimostrò uno strumento utile e indispensabile per la propria affermazione.  

Negando alla radice le argomentazioni addotte dai vari movimenti ereticali e coerentemente all’equazione eretici uguali a demoni e quindi uguali a criminali, a partire dal XIII secolo la persuasione nei loro confronti non poté che avvenire attraverso metodi coercitivi, alimentando continuamente le coscienze con immagini paurose e ignominiose degli eretici, conformando il contenuto degli exempla che li riguardano. Man mano che la demonizzazione degli eretici procedeva, la repressione si faceva più violenta E il passo fu breve perché il rogo divenisse una legittima anticipazione, quasi un atto di giustizia, delle pene eterne. Conseguenza di tutto questo fu che la difesa l’ortodossia equivalse difendere la Chiesa e, quindi, il papato. Chiunque insidiava la libertas ecclesiae, o si opponeva ai mandata ecclesiae, si trasformava in un avversario della Chiesa romana, indipendentemente dalle proprie idee religiose, con non poche strumentalizzazioni.

Questa linea la ritroviamo anche negli editti antiereticali emanati da Federico II di Svevia tra il 1220 e il 1239, via via sempre più crudeli, che ricalcavano precedenti provvedimenti ecclesiastici. Non furono, infatti, solo il frutto di un calcolo politico per ingraziarsi il papato, ma anche di una consapevolezza interiore dell’imperatore del proprio dovere di repri­mere eretici ed eresie e difendere l’ordinamento sociale voluto da Dio. La persecuzione dell’eresia divenne una questione di diritto pubblico, liberando, di fatto, la Chiesa dall’ambigua ed inaccettabile posizione se mettere a morte o no gli eretici. L’intransigenza e l’intolleranza imperiale è la stessa di quella della Chiesa, stesso è anche il linguaggio impiegato. L’eresia era considerata una vera e propria malattia che minacciava la salute del corpus ecclesiae. Per questo, le punizioni per gli eretici e i loro fautori sono tra le più dure, compresa la pena di morte: per incutere terrore nei “dissidenti” e persuaderli a ritornare nella comunione con la chiesa, o, nel caso di non pentimento, per eliminare fisicamente l’eretico.

Ovviamente la lotta antiereticale fu oggetto di inevitabili strumentalizzazioni, sia da parte dell’imperatore, sia da parte dei pontefici. Per Federico II, infatti, combattere il pericolo eterodosso nelle terre lombarde significava poter isolare, ideologicamente e politicamente, l’area italiana nella quale la più forte era l’opposizione nei suoi confronti (dopo essere stato scomunicato nel 1239, Federico II giunse persino ad accusare Gregorio IX di essere un ricettatore di eretici, poiché alleato con la lega lombarda). Dopo la scomunica di Gregorio IX, Federico II si servì delle leggi antiereticali nel Regno di Sicilia per colpire i ribelli senza consentire, ovviamente, che operassero poteri giudiziari autonomi e concorrenti (lui stesso decretò l’espulsione di tutti i membri degli ordini mendicanti, ai suoi occhi agenti del papato). Allo stesso modo, agli inizi del Duecento, i Lombardi, erano stati spesso accusati di eresia dai papi poiché disobbedienti ai mandata della Chiesa romana. Spesso, tra gli anni Venti e Cinquanta del secolo XIII, nel grande scontro che vedeva coinvolti l’Impero e il Papato, l’accusa di eresia aveva un significato ambiguo e veniva usata come propaganda per colpire l’avversario, o gli avversari.

 

Il moto dell’Alleluia

Nel 1233 si ebbe il grande moto cosiddetto dell’Alleluia che coinvolse una vasta area dell’Italia settentrionale e centrale. Si trattò di una vera e propria svolta nella lotta contro gli eretici con­dotta dall’apparato ecclesiastico che rese possibile un’ampia e dura repressione contro gli eretici, con numerosi fatti violenti e roghi. Grazie all’azione decisa di alcuni attivissimi frati Predicatori e Minori e attraverso una vivace campagna di pacificazione e di moralizzazione, che si svolse in tutte le principali città italiane, nel giro di alcune settimane fu possibile suggestionare ampi strati della popolazione e convincere i ceti dirigenti cittadini della necessità di ricomporre le fratture con le gerarchie di chiesa e con il papato.

Gli ordini mendicanti con­dannando duramente il lusso e invitando a superare discordie e lotte intestine, posero quelle basi morali che permisero loro di ottenere un largo consenso presso i ceti urbani, che risultò indispensabile per la lotta contro eretici ed eresie. I predicatori francescani e domenicani, con la loro capillare presenza e mobilità, riuscirono a tradurre i contenuti delle loro prediche in norme da inserire negli statuti comunali. La svolta avvenne con gli statuti di Brescia del 1230, che accolsero molte delle norme della legislazione antiereticale federiciana e papale, che negli anni successivi furono presi come modello anche dai comuni di Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara e da altre città dell’Italia centro-settentrionale.

Nonostante fossero passati che pochi decenni dalla fondazione delle rispettive formazioni religiose, l’Ordine dei Mendicanti e quello dei Predicatori, nel moto dell’Alleluia, rivelarono una capacità d’azione davvero straordinaria, che andò oltre le stesse intenzioni di Gregorio IX. Furono i protagonisti in assoluto che permisero l’estensione anche nel campo politico del proprio impegno antieterodosso. Nella loro ampia opera di propaganda e normalizzatrice fecero un largo impiego di simboli vincenti, come il mito dei nuovi santi, in particolare Francesco d'Assisi, e di forme di comunicazione fortemente evocative, in particolare la predicazione basata sugli exempla (brevi narrazioni con messaggi immediati e diretti).

Gli ordini mendicanti dettero anche un forte impulso alle confraternite per venire incontro alla domanda di partecipazione dei laici che, nate per scopi spirituali e religiosi, divennero presto uno strumento del papato nella lotta contro l’eresia. L’attivismo pastorale dei frati e la repressione ecclesiastica da essi sollecitata (e, dove possibile, imposta), ridussero drammaticamente gli spazi per gli eretici nelle città dell’Italia settentrionale, che, fino ad allora, avevano consentito una certa diffusione ereticale, non sempre avvertita come tale, per il carattere pauperistico-evangelico della maggioranza dei gruppi ereticali. A seguito del moto dell’Alleluia si realizzò l’isolamento istituzionale e sociale degli eretici, che conobbero una rapida parabola discendente tanto in Italia, quanto negli altri paesi della cristianità occidentale.

  

L’inquisizione: la nascita dei tribunali per la fede

Nella Chiesa delle origini la pena abituale per gli eretici era la scomunica. Come abbiamo visto, soltanto alla fine del XII secolo e agli inizi del XIII secolo si cominciò introdurre pene fisiche. In particolare l’ordalia che, fino alla fine del XII secolo, fu in pratica l’unico vero e proprio modello di procedura penale nel caso dei sospetti di eresia. Tra le forme più famose di ordalia ricordiamo il “giudizio del fuoco”, in cui l’eretico doveva camminare scalzo su carboni ardenti senza riportare ustioni e l’uomo che riusciva a superare immune la prova non poteva che essere pro­tetto da Dio. L’istituzione dell’Inquisizione sostituì, invece, il “giudizio di Dio” il “giudizio dell’uomo” e una prassi giudicante consolidata e strutturata. La nascita della Sacra Inquisizione si può datare al 1233 quando papa Gregorio IX, con una bolla, Inquisitio Hereticae Pravitatis, creò l’inquisizione papale al fine di scoprire, giudicare e condannare i colpevoli di eresia. E affidò tale compito ai frati Predicatori e ai frati Minori, per la loro preparazione teologica. L’impulso principale che dette origine alla sua istituzione va ovviamente ricercato nella vasta diffusione dell’eresia catara nella Francia meridionale, quando Innocenzo III benedisse la famosa crociata contro gli Albigesi nel 1208, portata avanti da Simon de Montfort. La Provenza e Linguadoca furono teatro di roghi collettivi, confische di beni e dure misure repressive (le fonti storiche narrano che nel sacco a cui fu sottoposta la città di Beziers, nel 1209, siano state uccise circa 20.000 persone). Alcune misure inquisitoriali, comunque, le troviamo già nel concilio Laterano III, nel 1179, quando venne condannata ogni forma di devianza eterodossa, misure ribadite, poi, nel 1184 nella decretale Ad abolendam di Papa Lucio III, che obbligava i vescovi a visitare due volte l’anno le loro diocesi alla ricerca, appunto inquisitio, degli eretici. Posizioni ulteriormente rafforzate e istituzionalizzate nel concilio Laterano IV del 1215.

Ma la vera e definitiva definizione canonica e giuridica dell’Inquisizione medievale si ebbe nel 1252 quando, all'indomani dell’assassinio dell’inquisitore Pietro da Verona, Innocenzo IV emanò la famosa decretale Ad extirpanda. È in questo documento, infatti, che vennero definite chiaramente le competenze e l’ambito d’azione degli inquisitori, totalmente svincolati dalle giurisdizioni diocesane e direttamente sottoposti all’autorità papale, ammettendo, per la prima volta, anche l’uso della tortura nei processi inquisitoriali. Nel 1254 Innocenzo IV divise l’Italia in 8 province inquisitoriali, affidando ai Domenicani la Lombardia e Genova, mentre ai Francescani spettava la gestione della parte centrale della penisola, la Toscana, Umbria, Romagna, la Marca Trevigiana e Lazio. A partire da questo momento, nel tentativo di definire una procedura inquisitoriale “standard” che raccogliesse e definisse organicamente le varie sedimentazioni giuridiche e canoniche successive, si assiste, soprattutto tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo, a una vasta produzione manualistica al servizio degli inquisitori. Su iniziativa degli inquisitori provenienti dagli ordini mendicanti, vennero, quindi, definite le categorie di eretici, le sanzioni e le misure dirette all’isolamento del dissidente religioso di grande dissuasione sui suoi sostenitori, come la confisca dei beni, la distruzione delle case, e così via. Questa prassi, codificata nel Liber sextus di Bonifacio VIII e nei manuali inquisitoriali, durò per secoli.

La nomina degli inquisitori, formalmente di competenza romana, in realtà veniva fatta dai provinciali, poi la conferma da Roma. Svuotando quasi completamente l’autorità dei vescovi in materia, già durante il pontificato di Gregorio IX ma, soprattutto, in quello di Innocenzo IV, l’inquisizione divenne una struttura repressiva alle dirette dipendenze del pontefice. Pur cercando di salvaguardare il ruolo del vescovo mantenendo la giurisdizione vescovile in qualche modo paritetica a quella dell’inquisitore, come, ad esempio, il gradimento circa i laici chiamati a collaborare con l’inquisitore, e la consegna degli elenchi degli eretici e delle bolle papali riguardanti l’eresia, i pontefici si pronunciarono in più di un’occasione per confermare le prerogative inquisitoriali, emanando una successione di bolle in cui la limitazione imposta all’azione degli inquisitori da parte dei vescovi si riduceva sempre più, fino a quando, nella prassi, il ruolo vescovile cadde sempre più nell’ombra. E non mancarono casi di vescovi sottoposti ad inchiesta da parte degli inquisitori. Solo agli inizi del Trecento, dopo alcuni casi di generalizzata malversazione da parte di un gran numero di inquisitori, con tanto di inchiesta papale, l’inquisizione vescovile conobbe una nuova vitalità e dignità, quando prima Bonifacio VIII, poi Clemente V, ingiunsero la necessità di un accordo procedurale tra gli inquisitori e i vescovi, prevedendo un’azione congiunta e obbligandoli alla conoscenza reciproca dei risultati raggiunti (venne proibito anche che i vescovi venissero sottoposti a procedimento da parte dell’inquisitore senza un mandato da parte della Santa Sede).

Con la repressione pressoché definitiva dell’eresia, l’inquisizione medievale conobbe un lento ma inesorabile periodo di declino che durò fino al XV secolo, quando venne sostituita prima dall’Inquisizione Spagnola, creata da Sisto IV nel 1478 su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia e del re Ferdinando d’Aragona, tesa a reprimere gli ebrei e i musulmani in Spagna, e, successivamente, dall’Inquisizione Romana, istituita da papa Paolo III nel 1542 con la fondazione della Congregazione Sacra Romana e Universale Inquisizione o del Santo Uffizio, durante la Riforma luterana.

    

La procedura inquisitoriale

Gli inquisitori erano dei giudici che potevano procedere d’ufficio anche in assenza d’accusa (non a caso il termine inquisizione deriva dal latino inquisitio, ovvero ricerca). Ogni tribunale era presieduto da due inquisitori, investiti di pari potere, che agivano distintamente, assistiti da notai, aiutanti, nunzi e guardie armate (la famiglia inquisitoriale). A questi va aggiunta una rete di spie e informatori al servizio dell’officio. Gli inquisitori rendevano conto esclusivamente al papa, ed erano quindi assolutamente liberi di muoversi nelle diocesi, svincolati com’erano da ogni giurisdizione. Nel processo l’imputato, tramite giuramento, si impegnava a dire la verità alla presenza di notai e di una giuria, composta da rappresentanti del clero e da laici (non sempre, però). Tutte le deposizioni venivano registrate da notai e le testimonianze a carico dell’inquisito potevano essere invalidate qualora fosse stato comprovato un pregiudizio di avversione e rancore da parte degli accusatori. Per ottenere la confessione gli inquisitori ricorrevano a qualsiasi mezzo come interrogatori ripetuti, carcere duro e, nei casi estremi, la tortura, eufemisticamente denominata con il termine domanda, con un uso, però, meno indiscriminato rispetto ai tribunali civili dell’epoca.

Quella dell’inquisitore era una figura tutt’altro che minoritaria, non solo per l’autorità conferitagli, ma anche per la preparazione culturale e teologica che doveva possedere. Non sono rari casi di carriere esemplari, come vescovi e legati papali. L’inquisitore non era solo un teologo, era un uoomo dotto che aveva una grande dimestichezza con l’ambiente giuridico. Trattava tanto il Corpus Iuris, sia civile che canonico, quanto le varie decretali, canoni e concili (soprattutto di quelli Tolosa e di quello Narbonne, divenuti quasi subito punti di riferimento fissi nella procedura contro gli eretici). Le sentenze, come i manuali, richiamavano continuamente citazioni scritturistiche, bolle papali, atti di concili. La presenza dei notai era indispensabile durante gli interrogatori, per poi stendere i verbali, redatti secondo formulari precisi, traducendo in latino deposizioni, confessioni e abiure.

Durante il processo l’inquisitore tentava sempre di far rientrare il caso specifico, o gli inquisiti, nelle casistiche dottrinali descritte nei manuali. Agli occhi degli inquisitori, infatti, era più rilevante stabilire il numero delle persone coinvolte, i luoghi dove si sono svolti i fatti sospetti di eresia e le relazioni interpersonali rispetto alle idee eterodosse che stavano giudicando. Più volte i manuali mettono in guardia l’inquisitore dall’entrare in discussione con i sottoposti a indagine, sia per evitare il rischio di acuire le convinzioni eterodosse dell’accusato, sia per impedire che idee pericolose si diffondessero presso chi, fino ad allora, era stato estraneo. Il fatto che ci fosse un processo e degli inquisiti stava a significare che l’eresia era già stata identificata e classificata. I manuali erano anche rigidi nello stabilire i tempi e i modi dell’inchiesta; comunque l’inquisitore aveva di un’ampia libertà di movimento per comporre le tessere a sua disposizione e incastrare le varie testimonianze con i capi d’accusa. Gli elenchi di coloro che erano stati inquisiti per eresia venivano letti pubblicamente e periodicamente durante le prediche degli inquisitori, che ricorrevano anche al sostegno delle confraternite, nate nel Duecento, in particolare dopo il moto dell’Alleluia, come strumenti antiereticali e per incanalare le forme di pietà laiche.

Terminato il processo veniva emessa una sentenza, previa la consultazione della giuria e l’approvazione del vescovo di quella diocesi, letta in pubblico e perciò detta Sermo generalis. Lo scopo principale di un inquisitore era (o doveva essere) la correzione e il riavvicinamento dell’eretico alla fede cattolica e farlo rientrare in seno alla Chiesa. In genere si cercava di dare al “reo” la possibilità di emendarsi, e, a questo scopo, gli inquisitori tendevano a comminare penitenze come pellegrinaggi, multe, la pubblica fustigazione e la crocesignatura. Nel caso di sanzioni economiche, il ricavato doveva essere diviso in tre parti: una per l’inquisitore e i suoi famigli, una per la corte papale, una per il comune che forniva la collaborazione necessaria all’inquisitore, per custodire gli inquisiti, e, eventualmente, la legna per il rogo. Nei casi più gravi si poteva arrivare alla confisca dei beni, alla consegna al braccio secolare, cioè al rogo, o al “muro”, il carcere perpetuo.

Ovviamente durante il processo non era prevista alcuna forma di difesa da parte dell’accusato, né alcuna possibilità di ricorrere in appello. Ma è anche vero che la procedura inquisitoriale prevedeva delle commissioni di giuristi, per lo più laici, i “consilia sapientum”, che coadiuvavano l’inquisitore durante il processo. Nonostante il loro parere non fosse vincolante, non  sono rari i casi di pareri divergenti e in aperto contrasto tra questi consiglieri e l’inquisitore. E a onor del vero, sebbene sia opinione comune il contrario, va comunque detto che solo una piccola percentuale dei processi si concludeva con la condanna al rogo, riservata agli eretici pertinaci e ai relapsi, coloro, cioè, che erano già stati giudicati colpevoli di eresia in passato, ed essendo tornati ai loro errori, ritenuti non degni di fiducia (questo valeva anche per le ossa dei defunti in caso di processo postumo). Non mancarono, ovviamente, gli abusi e gli atti di crudeltà. Famosi sono i roghi di 250 catari a Montsegur, nella Linguadoca, e di quasi altri 200 catari nell’arena di Verona nel 1278, catturati a Sirmione, come l’impiccagione e il rogo di 100 valdesi a Graz in Austria nel 1397.

    

Il fine ultimo dell’Inquisizione

Lo scopo per cui venne creata l’inquisizione fu, chiaramente, quello di individuare ed estirpare l’eresia, intervenendo sia sull’individuo che su gruppi di persone. L’azione giudicante e penale dell’inquisitore si muoveva su due piani: il recupero, quindi il convincimento personale, dell’eretico e la manifestazione pubblica del suo pentimento, o abiura, oppure della sua condanna. Praticamente senza eccezioni, il processo veniva sempre innescato dall’esterno, da una denuncia o da voci giunte all’inquisitore. La sua azione coinvolgeva persone cadute in qualche modo nel sospetto e non era di suo interesse approfondire le posizioni dottrinali degli inquisiti, ma accertare comportamenti indice di una eresia, come la frequentazione con eretici e rapporti, conversazioni, colloqui e contiguità con persone, in altre sedi, già giudicate eretiche. Per questo motivo gli atti dei processi si assomigliano tutti e finiscono con il ridursi ad un elenco di persone, sospette o manifestamente eretiche, con le quali l'inquisito ha avuto rapporti.

Lo scopo dell’attività inquisitoriale era esclusivamente di accertamento e di repressione, non quello di convincere l’eretico a cambiare opinione. All'inquisitore non interessava discutere con l'accusato di eresia riguardo i problemi di fede, ma sapere dall’eretico che stava inquisendo la sua decisione di conformarsi o meno ai mandata ecclesiae, e rinunciare al suo passato. Non era il suo compito stabilire cosa fosse eresia: altri lo avevano già fatto prima di lui e per lui. Piuttosto il suo scopo era quello di incasellare il comportamento dei sospetti nelle griglie già disegnate. Tutti i manuali inquisitoriali mettono in guardia il giudice dall’entrare in dialogo con gli eretici sulla loro dottrina. Discutere era un errore perché l’eresia era male e basta e non poteva avere dimora. Ma se il cardine del processo era l’azione repressiva, dobbiamo ridimensionare l’idea generalizzata di torture e roghi che la storiografia ci ha lasciato. Infatti, rilevanti non furono tanto le pene corporali inflitte ai condannati, quanto piuttosto le sanzioni economiche comminate e la confisca dei beni, che colpivano anche i parenti e gli eredi. In questo modo non solo gli eretici si ritrovavano privati delle loro possibilità economiche, ma venivano infamati e socialmente isolati.

L’oggetto della repressione, l’ex-eretico redento, doveva divenire un esempio di fede cattolica, frequentando assiduamente le celebrazioni liturgiche, giurando un’obbedienza cieca al papa e alla Chiesa di Roma e, soprattutto, promettere una collaborazione totale per la denuncia d’ogni persona sospetta d’eresia. Per questo motivo si spiegano i numerosi passaggi di “pentiti” da movimenti ereticali all’altra parte: inquisitori che erano stati eretici, membri della famiglia inquisitoriale e informatori (un esempio su tutti è quello del domenicano Raniero Sacconi che, nel 1250, dichiarò apertamente, nel suo scritto antieterodosso, di essere stato “un tempo eresiarca” prima di divenire un frate predicatore). L’inquisizione attraverso umilianti autodafè e penitenze, che prima di tutto avevano un fine persuasivo prima che punitivo, pretendeva un’adesione pubblica degli eretici al con­formismo religioso, obbligandoli a riconoscere apertamente e davanti alla collettività il loro errore, sempre attraverso una ritualità solenne e toccante. Anche la pena rientrava in quest’ottica esemplare, come, ad esempio, la crocesignatura, l’applicazione, cioè, di una croce, di solito di colore giallo, sul mantello, oppure l’obbligo di sostare, in veste di penitente, alle porte della chiese nelle festività solenni. In questo modo, l’eretico, per mezzo delle penitenze alle quali era costretto, non solo faceva il suo ritorno nel “gregge del Signore”, ma diventava addirittura un modello di perfezione cristiana attraverso il pentimento, sacrificio e la mortificazione di sé.

    

L’inquisizione come instrumentum regni

L’Inquisizione, nata per combattere il catarismo, mantenne la sua logica repressiva anche nei secoli successivi nelle persecuzioni contro ebrei, moriscos, streghe, dissidenti e liberi pensatori. La vera e uniformante motivazione di fondo che ha accompagnato questa istituzione era il rifiuto della differenza, o in altre parole, della coscienza libera e individuale. Non poteva essere altrimenti in secoli in cui la religiosità non era esclusiva della spiritualità dell’individuo, ma sociale e quindi apparteneva alla collettività. La fede e le modalità con cui il sin­golo interpretava la propria religiosità, nella logica medievale aveva una rilevanza pubblica: per colpe del singole poteva venire macchiata l’intera comunità. La diversità nella fede, nelle opinioni, nei costumi e nella morale, veniva vista come un potenziale pericolo in grado di dissolvere la struttura sociale. Solo così si può interpretare il sor­gere dell’Inquisizione e la portata, oltre alla durata, della sua azione.

Sono secoli estranei al concetto di tolleranza e di rispetto di libertà degli individui. Per questo a partire dal XIV secolo il potere civile e l’inquisizione andarono sempre più a braccetto; al potere politico apparve chiaro che questo strumento di pressione e di repres­sione delle coscienze garantiva anche il controllo del dissenso politico e sociale (casi eclatanti furono il processo ai Templari e quello a Giovanna d'Arco). Questa complicità in molti casi si tradusse addirittura in un rapporto di subordinazione dell’inquisizione rispetto al potere politico. Questo fu il caso della Spagna, in cui il potere monarchico trovò proprio nell’Inquisizione un’eccezionale strumento di controllo e di pressione di tipo “poliziesco” sui sudditi.

Per l’Inquisizione ciò che veramente contava, al di là dei mezzi di cui disponeva, era dimostrare che ci fosse e che fosse ben visibile il potere della Chiesa, ponendo gli individui in uno stato di piena sottomissione alla sua autorità morale e religiosa. La presenza del tribunale contava più della sua effettiva capacità operativa. Nella logica inquisitoriale era fondamentale dimostrare che chiunque poteva correre il rischio di venire posto a processo. Per fare questo erano sufficienti poche esecuzioni pubbliche e letture di sentenze dotate di una scenografia ben stu­diata e impressionante. Secondo questa pro­spettiva l’Inquisizione aveva bisogno di eretici perché era la loro per­secuzione a consentire un controllo pressoché totale delle coscienze: spesso se non li trovava li creava. Quando scomparve l’eresia ecco che gli inquisitori cominciarono a identificare nuove forme di devianza che come possibili segni di eresia, come, ad esempio, costumi sessuali canonicamente non accettati, la bestemmia, usi alimentari che violano le prescrizioni ec­clesiali (ad esempio il consumo di carne in particolari momenti dell’anno liturgico), il sostenere tesi non solo teologi­camente eterodosse ma anche di tipo filosofico-scientifico (pensiamo al processo a Galileo Galilei), oppure il leggere libri sospetti o condannati dalla Chiesa.

Accettando che ogni comportamento passibile di convinzioni o credenze eretiche giustifichi  la possibilità di essere sottoposto a un procedimento inquisitoriale, ogni azione o gesto può essere perseguito. Il peccato, anche veniale, cessa di essere tale e si trasforma in una convinzione eretica. L’esplosione della caccia alle streghe, fra il XV e il XVII secolo, si spiega in gran parte proprio in conseguenza di questa logica: in questo caso l’Inquisizione, adottando come modello di devianza tradizioni popolari, riuscì ad alimentare il sistema persecutorio e, a giustificare il proprio ruolo. Come istituzione l’Inquisizione non poteva essere inattiva poiché la sua esistenza dipendeva dalla sua capacità di identificare sempre nuovi potenziali avversari (un po’ come nei moderni totalitarismi, fascismo e comunismo, in cui si creano nemici potenzialmente pericolosi proprio per giustificare la macchina repressiva dello Stato e la sua paranoia). Sradicata l’eresia alla fine del XIV secolo, l’Inquisizione la faceva nascere dove non c’era in forme nuove e mutevoli.

Questo era favorito anche dal fatto che il metodo inquisitoriale era basato sul sospetto e partiva dalla presunzione di colpevolezza dell’accusato: chi veniva inquisito doveva dimostrare la propria innocenza, non viceversa, aggravato dal fatto che nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di persone di origine umile, spesso popolani e contadini, che difficilmente potevano controbattere efficacemente alle sottili domande dei giudici. Essendo un processo che aveva il suo fondamento sul sospetto, chiunque poteva rimanere impigliato nella rete inquisitoriale. Anche per la natura dell’oggetto del giudizio: l’anima dell’indagato, le sue opinioni, idee e credenze. E nessuno poteva dirsi immune.

  

  

©2005 Andrea Moneti

     


 

 

?  IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE

?  IL CODICE INQUISITORIO

?  IL LIBRO NERO






 

IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE


Fino alla seconda metà del XII secolo l'eresia non era considerata un problema assillante della pastorale. Per le singole eresie presenti nell'ambiente intellettuale del convento e della scuola bastavano i meccanismi di repressione già esistenti. La concentrazione delle eresie popolari, soprattutto nella Francia meridionale, ed il loro irradiarsi in ampie parti dell'Europa portò, dalla seconda metà del XII secolo, sotto la guida del papa, ad unificare e a rendere più rigorosa la legislazione sugli eretici; venne così creata l'inquisizione come nuova misura di difesa della Chiesa Cattolica. Il vescovo, quale giudice della fede, nominava dunque degli inquisitori, che dovevano mettersi sulla traccia delle eresie e portare i seguaci di queste davanti al tribunale vescovile.
Sembra tuttavia che non si sia giunti a una caccia sistematica degli eretici da parte degli inquisitori vescovili. Inoltre, soprattutto i vescovi della Francia meridionale facevano difronte ai loro compiti con negligenza. In un primo momento l'inasprimento della legislazione, unito alla nuova procedura, conseguì scarso successo. Proprio per questo motivo Innocenzo III ricorse al mezzo della crociata contro gli eretici. Dal 1231 Papa Gregorio IX, visti gli insuccessi della crociata, nominò degli inquisitori dotati di ampi poteri per singole provincie ecclesiastiche contagiate dall'eresia. Questi agivano per incarico del papa e possedevano funzioni non solo inquisitorie, ma anche giudiziali, risultando così al tempo stesso accusatori e giudici. In forza della competenza giurisdizionale universale del papa, Gregorio IX attribuì agli inquisitori che il potere di emettere sentenze.
Clamorose infrazioni del diritto, trasgressioni di competenze e durissima prassi inquisitoria nelle indagini come nel giudizio sugli eretici condussero fra il 1238 e il 1241 a una diffusa opposizione e a una crisi dell'inquisizione papale appena creata. Sotto Innocenzo IV si venne ad una organizzazione dei tribunali. Le competenze vennero precisate, la procedura regolata fin nei particolari, rimase in vigore la più ampia esenzione dalla giurisdizione episcopale, fu posto l'accento sull'incarico pontificio. Soltanto con la nomina di accusatori e di delegati, quali inquisitori papali, la lotta contro l'eresia divenne efficace.
Dopo la riorganizzazione, sotto Innocenzo IV, furono posti dei limiti anche all'arbitrio e alla prassi terrorizzante dei singoli inquisitori. La procedura era formalmente corretta, in rapporto alla prassi giurisdizionale e procedurale, tuttavia il tribunale, che agiva a porte chiuse, era incontrollabile e privava gli accusati di qualsiasi diritto. Di regola all'inquisitore, in quanto giudice, interessava veder confermati nel processo i propri accertamenti: all'imputato la confessione veniva estorta per mezzo di tortura. Per la loro qualità i processi dell'Inquisizione erano, per così dire, processi-spettacolo, in cui la sentenza era stabilita a priori, perchè la procedura era congegnata in modo da condurre regolarmente alla condanna l'accusato.
I giudici erano prigionieri del loro procedimento e convinti della regolarità del loro operato e della compiacenza divina per la loro funzione. All'inizio l'Inquisizione era pensata come una misura d'emergenza a termine e per determinate zone. Alcuni paesi, come l'Inghilterra non avevano affatto l'inquisizione papale. In altri essa rimase invece un fatto transitorio.
In Francia, Italia e Spagna, invece già nel XIII secolo ne nacquero istituzioni permanenti per un distretto giurisdizionale circoscritto. Alla guida di questi uffici con sede, personale e archivio propri, i papi nominarono prevalentemente, secondo la prassi di Gregorio IX, religiosi degli ordini mendicanti. Nella fase organizzativa, con Gregorio IX, per questo ruolo vennero dapprima incaricati i domenicani dotati di una preparazione scientificamente approfondita.
Oltre a questi naturalmente vi erano anche inquisitori provenienti dai sacerdoti secolari e da altri ordini. Ad esempio, non pochi francescani erano attivi inquisitori. Sia domenicani sia francescani fecero ben presto del loro incarico una finalità dell'ordine e videro nei loro fondatori i primi inquisitori. Eresia significava semplicemente delitto meritevole di punizione e non più bisognoso di predicazione mirante alla conversione.

 

 

IL CODICE INQUISITORIO


Il codice inquisitorio deriva dall'editto imperiale di Teodosio e fu utilizzato dai tribunali speciali istituiti da Gregorio IX. Il semplice sospetto di eresia autorizzava gl'inquisitori a confiscare i beni dell'accusato e a procedere con torture per ottenere confessioni, a torture peggiori per avere ritrattazioni e a una diminuzione della pena per chi denunciava eventuali complici o avvalorava questa o quella tesi. Ad essere perseguiti come eretici erano in prevalenza gli uomini: liberi pensatori che criticavano o non si assoggettavano ai dettami della Chiesa Cattolica (filosofi, scienziati, alchimisti) ma anche omosessuali, storpi e chiunque rientrava fra i cosiddetti "segnati da Dio". Per le donne, invece, l'accusa era spesso quella di stregoneria. Il prendersi cura di uno o più gatti neri, ammaliare un uomo o avere comportamenti atipici era motivo sufficente per accendere un rogo.

Questi i sintomi medici su cui si basavano i giudici dell'inquisizione per stabilire il crimine di stregoneria:

-malattia che i medici non conoscono;
-malattia che aumenta nonostante le cure;
-sintomi e dolori violenti;
-sintomi variabili che il paziente non riesce a localizzare;
-sospiri tristi e pietosi senza legittima causa;
-perdita di appetito e vomito della carne mangiata;
-spasmi acuti al petto e sensazione di calore;
-impotenza sessuale;
-sudore anche leggero quando fa freddo;
-sensazione di membra legate;
-sensazione malinconica, sguardo storto, visione di fantasmi;
-sudore dopo l'unzione del prete sugli occhi;

 

 

 

IL LIBRO NERO


1278
200 catari e valdesi sono arsi vivi nell'arena di Verona per ordine dell'inquisizione.

1370
20 ebrei sono arsi vivi dai cattolici a Bruxelles.

1377
2500 abitanti di Cesena sono massacrati dai mercenari pontifici in quanto ribelli antipapali.

1391
4000 ebrei sono massacrati dai cattolici a Siviglia in Spagna.

1397
100 valdesi di Graz in Austria sono impiccati e bruciati per ordine dell'inquisizione.

1405
12 cittadini romani sono massacrati da mercenari pontifici guidati dal nipote di Innocenzo VII.

1415
Il predicatore e teologo boemo Jan Hus, viene bruciato a Praga per aver criticato il commercio delle indulgenze.

1416
300 donne accusate di stregoneria sono arse nel comasco per ordine dell'inquisizione.

1485
49 persone sono giustiziate per ordine dell'inquisizione a Guadalupe in Spagna.

1485
41 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Bormio per ordine dell'inquisizione.

1486
31 ebrei sono giustiziati a Belalcazar in Spagna per ordine dell'inquisizione.

1483/1498
L'inquisitore spagnolo Tomas de Torquemada condanna personalmente 10220 sospettati di eresia.

1505
14 donne accusate di stregoneria sono ammazzate a Cavalese su ordine del vicario del vescovo di Trento.

1507
30 persone accusate di stregoneria sono bruciate a Logrono in Spagna per ordine dell'inquisizione.

1513
15 cittadini romani sono massacrati dalle guardie svizzere del papa.

1514
30 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Bormio per ordine dell'inquisizione.

1518
80 donne accusate di stregoneria sono bruciate an Valcamonica per ordine dell'inquisizione.

1538
Il professore universitario B. Hubmaier viene condannato al rogo.

1545
2740 valdesi sono massacrati dai cattolici in Provenza.

1559
15 protestanti sono arsi vivi a Valladolid in Spagna su ordine dell'inquisizione.

1559
14 protestanti sono arsi vivi a Siviglia in Spagna su ordine dell'inquisizione.

1561
2000 valdesi sono massacrati dai cattolici in Calabria.

1562
300 persone accusate di stregoneria sono arse vive a Oppenau in Germania.

1562
63 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Wiesensteig in Germania su ordine dell'inquisizione.

1562
54 persone accusate si stregoneria sono bruciate a Obermachtal in Germania su ordine dell'inquisizione.

1567
17000 protestanti delle Fiandre sono massacrati dagli spagnoli.

1573
5000 servi della gleba croati in rivolta sono massacrati per ordine del vescovo cattolico Jurai Draskovic.

1580
222 ebrei sono condannati al rogo per ordine dell'inquisizione in Portogallo.

1600
il filosofo Giordano Bruno viene bruciato vivo a Roma.

1655
1712 valdesi sono massacrati dai cattolici.

1680
20 ebrei sono condannati al rogo a Madrid per ordine dell'inquisizione.

1686
2000 valdesi sono massacrati dai cattolici penetrati nelle loro valli per sterminarli.

1691
37 ebrei sono bruciati a Maiorca in Spagna per ordine dell'inquisizione.

1697
24 protestanti sono giustiziati dai cattolici a Presov in Slovacchia.

1680
20 ebrei sono condannati al rogo a Madrid per ordine dell'inquisizione.

1691
37 ebrei sono bruciati a Maiorca in Spagna per ordine dell'inquisizione.

 


L'INQUISIZIONE E GLI ITALO-GRECI



 

Agli inizi del 1200, il Meridione d'Italia si presentava ancora con il suo consueto volto di crogiuolo di civiltà etniche, linguistiche e religiose, costituendo un'autentica regione di frontiera mediterranea. Incluso definitivamente nel mondo occidentale dalla conquista normanna, esso aveva subito posto il problema della gestione del pluralismo ad una Chiesa latina postgregoriana lanciata nella direzione opposta dell'uniformità e dell'accentramento. La situazione delle regioni più meridionali, infatti, richiedeva un approccio più moderato sia alla Chiesa che al nuovo potere statuale latino: non si trattava di eliminare una minoranza religiosa, ma più realisticamente far sì che la maggioranza non latina di Greci, Arabi ed Ebrei diventasse minoranza. La moderazione era inoltre favorita dal fatto che i non conformismi avevano una spiccata caratterizzazione etnica, privi di motivazioni proselitistiche. Questa impostazione, che riponeva fra gli ideali irrealizzabili a breve scadenza l'eliminazione della diversità, non rifuggiva al tempo stesso dall'agire con gradualità per affrettarne l'avvento con il ridimensionamento e l'indebolimento delle comunità "concorrenti". Essa sarebbe stata trasmessa al secolo successivo, soprattutto per quello che riguardava la comunità italo-greca, diffusa principalmente
in Calabria, nella Puglia meridionale e nella Sicilia  nordorientale, alla nuova struttura inquisitoriale, principale organo deputato al controllo del non conformismo. La tolleranza verso gli Italo-greci era chiaramente soggetta a delle condizioni essenziali, il cui rispetto avrebbe differenziato questo gruppo sia nei riguardi del proprio passato sia verso gli altri Greci, che 

rimanevano incorreggibilmente attaccati alla loro superba libertas Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.. Il greco, infatti, era per antonomasia "scismatico", creava cioè per prima cosa un puro problema di potere, con la non sottomissione e con la rivendicazione di una pluralità di centri decisionali e di una collegialità all'interno della Chiesa. Al tempo stesso, egli era fautore di "errori" contro i quali i teologi occidentali avevano scritto fin dall'epoca carolingia Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido., definiti però da Roma ufficialmente eresie solamente nel secolo XIV.  I superstiti vescovi italo-greci, quindi, dovettero accettare formalmente nel 1089, al concilio di Melfi, il potere papale in se stesso ed il suo reale esercizio sulle loro comunità, punto che aveva la precedenza assoluta nella strategia romana: Ea enim, quae inter Latinos et Graecos fidei vel consuetudinum (diversitatem) faciunt, non videtur aliter posse sedari, nisi prius 

 

 

capiti membra cohaerent Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.. La seconda condizione, implicita ma ugualmente fondamentale, fu la rinuncia a rivendicare l'acribia della propria tradizione teologica e liturgica in cambio della sua tolleranza. Terza condizione fu la cessazione di ogni contatto con la Chiesa e l'impero bizantini. Sottomissione, umiltà, isolamento: queste erano le virtù che rendevano accetta la comunità italo-greca al potere ecclesiastico latino; ma questa accettazione si basava su di un equilibrismo teorico, il concetto di rito. In definitiva, la tolleranza derivava dalla riduzione a forma, oggi diremmo sovrastruttura culturale, della diversità stessa, soluzione che aveva per illustre antecedente il comportamento di S. Ambrogio: Quando vengo a Roma digiuno, quando sono qui non digiuno [4]. Si negava che una forma diversa fosse la manifestazione necessaria di una sostanza, cioè di una fede, diversa.  L'identità di fede e la natura apparente ed esteriore della differenza rituale vennero sottolineate al massimo grado dal fatto che la maggior  parte del clero greco doveva ricevere l'ordinazione da superiori gerarchici di "rito latino" [5]. Come avrebbero potuto i chierici greci contestare la fede della Chiesa latina senza mettere a repentaglio la propria legittimità sacerdotale e sacramentale? Ma l'interpretazione formalistica del rito, necessaria ad autorizzare il mantenimento dell'identità di chi si sottometteva a Roma, non fu mai sinceramente accettata: anche quando si affermava che: Haec autem regina, id est ecclesia, varietate diversarum consuetudinum ... [6], si sottolineava la necessità di scrutinare le forme non romane prima dell'ammissione. La stessa ambiguità si ritrova nelle particolareggiate risposte di Innocenzo IV, che riconfermavano il formalismo sostenendo la natura non sostanziale delle differenze rituali "superstiti": i fedeli del rito greco non dovevano essere inquietati o molestati nelle loro usanze che non contrastavano la fede cattolica, ma ve n'erano delle altre che dovevano essere modificate, ed altre ancora che avrebbero dovuto esserlo, ma che purtroppo dovevano essere tollerate per non creare scandalo. [7] Del resto, anche un'ammissione integrale della tradizione greca avrebbe ugualmente negato l'essenza stessa di Tradizione autoritativa e vincolante, giudice del magistero ecclesiastico, quale avevano gli Orientali [7a].


Mantenuto sempre "sub iudice", il rito greco sembrò superare ufficialmente gli esami nel concilio unionista fiorentino del 1439, ma ben presto tale "promozione" venne considerata voce dal sen fuggita [8]Il pluralismo non poteva essere adottato apertamente da una élite ecclesiastica che usava il terrore per conservare il suo dominio assoluto sulla società cristiana medievale ed aveva sradicato senza esitazione i ben più compatibili riti latini della Spagna e dell'Italia meridionale: il mozarabico ed il beneventano. Non era però solamente una questione di potere: un autore tra i più letti ed ammirati dell'Occidente, Gioacchino da Fiore, ci fa capire da una parte che la resistenza degli ortodossi alla monarchia papale veniva percepita come un ostacolo alla realizzazione escatologica dell'unità cristiana e quindi dell'umanità intera, mentre gli usi greci del sabato senza digiuno, del pane eucaristico fermentato e, sicuramente, del clero sposato, da lui definiti ed attaccati come giudaici e carnali, offendevano la religiosità spiritualistica affermatasi tra i Latini. Per il "profeta" cistercense la separazione dalla Chiesa romana privava della Grazia e gli usi ad essa contrari erano superstiziosi e fondati su autorità apocrife [9]. Avendo tali motivazioni così prestigiosamente legittimate, chi sceglieva l'opzione dell'intolleranza non solo faceva ripetere di continuo gli "esami" ai Greci, ma aveva la possibilità dell'affermazione inversa dell'acribia rituale latina e quindi del tentativo di sopprimere il rito altrui, riconoscendo in esso la credenza erronea. Il caso più eclatante avvenne nel 1231, quando il papa Gregorio IX arrivò drammaticamente a decretare nullo il battesimo amministrato con la forma passiva del rito bizantino: Si battezza il servo di Dio ..., pretendendo che i Greci fossero ribattezzati, negando addirittura nei fatti la realtà della loro iniziazione cristiana. In seguito, il papa sospese il provvedimento, concedendo una patente di tolleranza, ma non di legittimità, alla prassi greca, non senza ironica condiscendenza verso l'imperizia degli Italo-greci che si opponevano strenuamente all'imposizione della formula romana [10]. La guerra teologica, dunque, poteva continuare su di un altro e forse più efficace piano, con l'accusa ai riti greci di essere forme irrazionali difese da ignoranti, cercando di far introiettare agli antagonisti di Roma un sentimento d'inferiorità culturale, sociale e religioso. La politica del doppio binario nei confronti della diversità rituale non è, del resto, un fenomeno esclusivo del lontano passato, ma essa si presenta ben riconoscibile ancora ai giorni nostri: la possibilità disciplinare di un clero uxorato prevista dal Codice di Diritto canonico orientale per le Chiese unite a Roma come perfettamente legittima e tradizionale [11], viene, al contrario, dichiarata da teologi e storici cattolici di punta, come il cardinale Stickler e i pp. Cochini e Cholij, una violazione della tradizione apostolica [12].

 

Mantenersi in equilibrio nel compromesso sul "rito" riusciva specularmente difficile anche agli Italo-greci: quando il polemista Nicola di Casole nei supplementi ai suoi Syntagmata antilatini apriva uno spiraglio all'idea di tradizione religiosa come forma e quindi di legittima e compatibile pluralità di culture, dicendo: non è necessario scrivere sulle altre consuetudini, poiché non riguardano la fede allo stesso modo [13], appena entrato nel merito subito si contraddiceva, sostenendo la superiorità della tradizione greca, non certo per formali o strumentali qualità estetiche o didattiche, ma in base alla sua verità dottrinale. Allo stesso modo, un altro teologo italo-greco del XIII secolo, Nicola di Taranto, nella sua difesa dei riti greci del matrimonio e del mattutino pasquale, passava immediatamente dalla difesa della legittimità dell'uso greco alla necessità di quella stessa forma, che diventava ortoprassi [14]. Una situazione così ambivalente poteva generare anche il perseguimento dei Greci per eresia. Le fonti ci tramandano almeno due casi di processo con questa motivazione nel secolo XII: Luca d'Isola, vescovo ufficioso dei greci della zona dello Stretto che, trascinato in una disputa sull'uso del pane lievitato nell'eucarestia, aveva affermato che l'uso del pane azimo era solo una delle tante eresie dei Latini[15]. Negazione clamorosa dell'interpretazione formalistica! Condannato ad essere bruciato vivo, secondo la vita fu risparmiato miracolosamente dalle fiamme. Il secondo caso riguarda il fondatore dei monasteri greci del Patirion di Rossano e del Ss. Salvatore di Messina, Bartolomeo di Simeri. Al ritorno da un viaggio nell'Impero bizantino effettuato allo scopo di procurarsi libri, e dove era stato accolto coi più grandi onori dallo stesso imperatore Alessio Comneno, fu accusato da due altri monaci di falsità, corruzione e di eresia, presso la corte normanna. Sottoposto a giudizio, anch'egli fu assolto in conseguenza di un miracolo, ma quell'episodio fu un pesante avvertimento verso gli Italo-greci: chi voleva mantenere contatti con l'Oriente lo faceva a suo rischio e pericolo, nel sospetto di una duplice infidelitas, cioè di lealtà all'impero bizantino ed alla sua Chiesa [16]

Tale era la complessa posizione della Chiesa latina verso gli Italo-greci, quando nel 1266, con ritardo rispetto al resto d'Italia dove lavorava già a pieno regime, comparve nel Meridione l'inquisizione affidata agli Ordini mendicanti. Essa non vi aveva potuto operare nel periodo precedente a causa dell'ostilità della dinastia sveva. Federico II, infatti, aveva affidato ad una struttura inquisitoriale composta di suoi funzionari, organizzata seguendo la divisione amministrativa per giustizierati, il compito di perseguire gli eretici all'interno del Regnum Siciliae [17]. L'eresia contro cui l'imperatore lottava era chiaramente il patarinismo di origine settentrionale, da lui visto come il fumo degli occhi, per essere fomite e contagio delle aspirazioni autonomistiche cittadine. Fu dunque la conquista angioina del Sud che concesse all'apparato ecclesiastico nel Meridione quel pieno sostegno politico necessario ad un'attività repressiva che comportasse anche l'eliminazione fisica dei non conformisti.  La spedizione militare del 1266 era stata concepita dal papa Clemente IV come una vera e propria crociata cismarinacontro i "cattivi" cristiani [18], e i proclami papali che l'avevano preceduta parlavano di Saraceni e di scismatici che nel Regno di Sicilia ottenevano precedenza sui cattolici [19]. Le truppe angioine vittoriose erano accompagnate dal legato papale Rodolfo, cardinale vescovo di Albano, che aveva alle sue dipendenze frati domenicani e francescani. Nell'ottobre del 1268, dopo la vittoria nella "crociata" seguente, quella contro Corradino, Carlo d'Angiò decise di sostituire l'inquisizione federiciana con quella ecclesiastica col mandato ed il beneplacito dalla Santa Sede e col pieno coinvolgimento del Provinciale romano dell'Ordine domenicano[20]. Egli, allo scopo di combattere i sospetti d'eresia, nominò quattro inquisitori domenicani in tutto il suo Regno, uno per quattro parti in cui a questo scopo veniva suddiviso il territorio [21]. Nelle due circoscrizioni più settentrionali, l'Abruzzo e la Terra di lavoro l'obiettivo dichiarato degli inquisitori domenicani fu la cattura dei "patarini"; in quelle più meridionali, la Puglia e la Sicilia con la Calabria, terre dove viveva la minoranza degli Italo-greci, si ripropose anche il tema della "fidelitas", intesa come fusione dei due concetti di fedeltà politica e di fedeltà religiosa. Proprio dalla comunità greca, infatti, era venuto il più grosso esempio di infidelitas prima della rivolta dei Vespri. La città di Gallipoli, roccaforte del grecismo e del ghibellinismo (il palazzo del vescovo greco aveva sulla facciata proprio le insegne degli svevi: i leoni e l'aquila), aveva preso le parti di Corradino e fu spietatamente punita da Carlo d'Angiò. L'abitato fu devastato dopo un lungo assedio; al suo interno la cattedrale fu saccheggiata dai soldati ed anche, secondo il poeta italo-greco Giorgio di Gallipoli, da ecclesiastici latini: "ministri di abominevoli sacrifici e veramente sacerdoti della vergogna." [22]

 

 

Non sappiamo se l'inquisitore domenicano della Puglia, Simone di Benevento, fosse stato a fianco della Chiesa militante vittoriosa, come si può ragionevolmente ipotizzare, ma in ogni caso non avrebbe senso parlare di una sua responsabilità per la mancanza di pietà verso i colpiti da una "fatwa" crociata. Sicuramente il problema della fedeltà greca agli Angiò, campioni del papato, fu centrale nei pochi anni dal 1269 al 1274, anno dell'unione delle due Chiese ratificata a Lione, tenuto conto che i re angioini intendevano anche restaurare l'Impero latino d'Oriente, caduto nel 1261. Di questo periodo le scarse fonti ci tramandano notizia di ispezioni alle istituzioni monastiche greche. [23]

Questo compito ispettivo trovava i Domenicani preparati: gli Ordini mendicanti, infatti, avevano acquisito gli strumenti teologici necessari per confrontarsi con le tesi degli Orientali, grazie alla loro presenza nell'Impero latino d'Oriente. Uno sconosciuto frate domenicano del convento di Pera, colonia genovese sulla riva orientale del Corno d'oro Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido., aveva scritto nel 1252 un Contra Graecos, che ebbe grande diffusione ed influenzò sia l'opera del francescano Nicola, vescovo di Cotrone, autore qualche anno dopo di un Liber de fide Trinitatis, sia Tommaso d'Aquino, che compose il suo Contra errores Graecorum. Le opere di Tommaso e di Nicola di Cotrone avevano molto in comune: l'impostazione rigorosamente teologica dava importanza solo a quattro elementi dottrinali che dividevano ai loro occhi i Greci dai Latini: oltre alla processione dello Spirito santo, gli altri punti dogmatici erano il primato papale e il purgatorio. Attraverso l'ultimo punto, quello degli azimi, essi esprimevano la loro opinione sul tema delle "consuetudini": infatti, costretti a trattarne dai loro avversari greci, che arrivavano a negare la transustanziazione del pane latino e consideravano, quindi, la disciplina eucaristica un problema teologico, i teologi degli Ordini mendicanti affermavano invece che gli azimi erano una controversia sulle forme, di cui si ammetteva il pluralismo. L'impostazione data da questi teologi fu talmente importante da fornire il modello alla dichiarazione d'unione del Concilio di Firenze, che ugualmente riportava gli stessi quattro punti dei domenicani e di Nicola di Cotrone come le uniche differenze da superare tra le due Chiese [24]. La lunga lista di malae consuetudines greche per niente dottrinali, inserita nel testo del domenicano di Pera, era stata redatta nel XII secolo da Leone Toscano, interprete latino a Costantinopoli; essa aveva solamente funzione di replica ad un analogo elenco greco. L'autore domenicano provava un moto d'insofferenza per quel materiale, che la sua formazione riteneva privo di dignità teologica ovvero stultae curiositates.[25]

Non è un caso, allora, che l'unico esempio di attività inquisitoriale domenicana diretta proprio contro un aderente alla Chiesa greca, pronta ad applicare le misure più estreme contro i dissenzienti, non abbia niente a che fare con le "consuetudini", ma sia nettamente e teologicamente motivato. Esso è riportato unicamente dal codice Vat. gr. 316 e precisamente nell'ultima sua pagina, il foglio 167v.

Questa parte riprende il testo di

http://www.ktistes.altervista.org/calabrese.html


La vicenda dimostrava che nel Meridione angioino per chi rifiutava la sottomissione non c'era posto: o il martirio o la fuga, la quale era pur sempre un successo ed un obiettivo della repressione [30]. Qualche anno dopo, nel 1272-1273, al maestro dei Domenicani Umberto di Romans gli Italo-greci apparivano completamente sottomessi alla Chiesa di Roma per la loro "fidelitas" al potere dei governanti latini, ed egli indicava nel fattore politico la principale causa della divisione fra le due Chiese: Sexta et maxima est dissensio de imperio, quod ecclesia vult haberi et teneri a Latinis, ipsi vero a suis. Nam Graeci, qui sunt in potestate Latinorum, sicut patet in Calabria, oboediunt  Romanae ecclesiae. Veniva a cadere, quindi, per il massimo esponente dei Predicatori ogni motivo di inquisizione sulla fede [31]. Dopo la fine dell'unione di Lione nel 1283,  il controllo degli Italo-greci fu l'oggetto del sinodo di Melfi del 1284. Anch'esso continuò la linea di tolleranza delle "consuetudines" greche, ma si pose l'obiettivo "teologico" di obbligare i Greci ad inserire il Filioque nel Credo; tale misura era un'applicazione su scala locale dell'interpretazione romana dell'unione di Lione, fallita nel risorto impero bizantino proprio perché Roma non volle considerare la recita del simbolo senza l'aggiunta una consuetudine priva d'importanza, ma una contraddizione dogmatica: unitas fidei non patitur diversitatem in professoribus suis [32]. Essa poté essere applicata nel Sud Italia in mano agli angioini, rappresentando una rottura con la prassi latina precedente ed il più esplicito tentativo di modifica della tradizione degli Italo-greci. Non ci si avvalse dell'inquisizione per controllare l'osservanza della decisione sinodale  contro i Greci, che venne affidata ad un regime di visite ed ispezioni annuali dei vescovi e di altri prelati [33].

Ma nel giro di pochi anni il clima cominciò a cambiare decisamente per la pressione dei sovrani napoletani: dopo che essi ebbero ottenuto nel 1289 l'insediamento nel loro Regno di un'inquisizione domenicana indipendente dalla Provincia romana, con un proprio inquisitore generale [34], il fanatismo crebbe e i domenicani diventarono molto più intolleranti verso le comunità dei "diversi". Essi costrinsero la numerosa popolazione degli Ebrei meridionali ad un battesimo forzoso e si dedicarono a perseguitare i neofiti insinceri [35]. Nel 1307 il Meridione, divenuto la retrovia del fronte antigreco nella crociata, poi abortita, per la restaurazione dell'impero latino d'Oriente rivendicato dal fratello del re di Francia, Carlo di Valois, fu percorso dai predicatori papali i quali, nei loro sermoni, poterono insinuare dubbi sulla fedeltà cattolica della comunità italo-greca. Pochi anni dopo, nel 1312 l'inquisitore domenicano Roberto di San Valentino arrestando per eresia alcuni chierici armeni vicino Siponto e distruggendo la loro chiesa, dimostrava quanto grande era stato il cambiamento di mentalità tra gli stessi domenicani: per l'inquisitore, gli Armeni uniti a Roma ritus servabant eorum et per hoc ipsos errare in fide [36]. Ad Avignone i tempi non erano ancora maturi ed egli venne sconfessato per calunnia, ma il giudizio negativo e le tendenze persecutorie verso il rito greco nel regno di Napoli continuarono a consolidarsi. L'idea che la difformità rituale fosse espressione di una fede erronea si affermava sempre di più nel Sud Italia: nel 1346, l'arcivescovo di Messina Raimondo affermava di aver corretto nei libri di un monastero greco molte cose che dovevano essere corrette, in particolare quelle contro la santa Chiesa romana ed i suoi riti [37]. Già nel 1334 la dirimpettaia città di Reggio era stata teatro dell'accesa attività antigreca dell'arcivescovo latino Pietro de Galganis, che aveva cercato invano di sopprimere il rito greco nella zona orientale della sua diocesi e nelle sue suffraganee. Alla fine, anche i papi avignonesi fecero proprio il tema teologico, fino ad allora posto in ombra, della diversità rituale come mala consuetudo: nel  1363 papa Urbano V indicava ai frati minori di Cirò la comunità greca come una delle due comunità anticonformiste da inquisire insieme ai fraticelli [38]. Lo stesso papa aveva precedentemente definito la Calabria ricetto di una nefanda moltitudine di eretici proveniente da diversi popoli e parti del mondo [39], mentre nel 1370 diede l'incarico ad un prelato di sua fiducia di eliminare gli "errori" dei testi liturgici greci dell'Italia meridionale.

 

Furono i francescani, che già negli anni trenta del XIV secolo avevano creato un'impressionante rete di insediamenti nel Regno, incomparabilmente più fitta di quella domenicana: nella Puglia meridionale i loro centri di azione erano Taranto, Oria, Ostuni, Monopoli, Gioia, Conversano, Brindisi, Lecce, Otranto, Alessano e Nardò [40] ad assumersi la lotta contro la sopravvivenza fra la popolazione del rito greco del Meridione; essi che erano profondamente coinvolti nell'istituto della Vicaria Bosnae (1391-1446) al quale fornivano le combattive truppe della latinità contro gli "scismatici" dei Balcani [41], la cui sede centrale era il loro nuovo convento di S. Caterina a Galatina, in pieno Salento greco. L'attività dei frati Minori si ispirava ad un modello diverso rispetto all'Inquisizione classica: la missione antieretica e antiscismatica da essi svolta sull'altra sponda dell'Adriatico era un proselitismo con appoggio statale, dove la devianza non bisognava "scoprirla" e gli strumenti andavano dalle lusinghe verbali all'esilio per gli acattolici irriducibili, a seconda del sostegno che i governanti fornivano all'opera di conversione [42]. Da notare che i francescani praticavano la pura latinizzazione delle comunità sottomesse, non essendo interessati alla creazione di comunità cattoliche di rito orientale. L'importanza dell'attività antieretica dei frati minori fu tale che in epoca aragonese sottrassero in pratica ai domenicani il titolo e le funzioni inquisitoriali nelle Due Sicilie [43].

Alcuni Latini, i frati vagabondi di questi ordini mendicanti, perseguitavano i Greci e li costringevano ad usare come pane per il sacramento quello azimo al posto di quello fermentato..
. [44], così scriveva l'umanista greco-salentino Galateo al principio del Cinquecento, alludendo all'attività antigreca dei francescani [45]. Lo stesso Galateo, ovvero Antonio De Ferrariis, ci fornisce la nuda notizia che il proprio padre Pietro, esponente di spicco della comunità greca, morì eroicamente pro veritate et fide servanda poco prima del 1463; se questo sacrificio dovesse attribuirsi ad "odio teologico", Pietro De Ferraris sarebbe l'unico martire della grecità religiosa italiana che al momento possiamo identificare [46]. Gli ignoti esecutori di quell'uccisione non dovevano avere alcuna legittimazione istituzionale, come indica il fatto che furono catturati e giustiziati dal signore feudale del Salento, Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, ma nulla esclude che vi fossero stati mandanti e ispiratori tra il clero latino locale. Un documento del 1446, lo stesso anno della soppressione da parte del papa Eugenio IV della Vicaria Bosnae, testimonia la presenza tra le due stirpi del Salento di una polemica interconfessionale, centrata principalmente sulla differenza "rituale" eucaristica, cioè sull'uso da parte greca del normale pane fermentato. In esso, lo stesso principe Orsini ordinava di far rispettare nella città e nel contado di Lecce la lettera papale che, letta ed affissa nella cattedrale di quella città, proibiva quelle "scandalose" dispute; era un fatto che implicava l'avvenuta diffusione a livello laicale e popolare dell'intolleranza. In quel contesto diventa verosimile un inaudito atto di fanatismo, specie se rafforzato da motivi personali o da interessi illeciti che vedevano nella moralità del notaio Pietro De Ferraris un ostacolo insormontabile [47].

Di fronte alle pressioni per cambiare identità, che attaccavano il rito greco definendolo al tempo stesso sconveniente ed esigente, chi rimaneva incrollabilmente attaccato alla propria forma faceva ragionevolmente pensare che per lui di forma non si trattasse, dando paradossalmente ragione al suo persecutore. Solamente chi sapeva appellarsi alle ragioni estrinseche della diversità linguistica ed etnica, aveva l'argomento necessario per resistere agli zelanti normalizzatori. Era però una dilazione nel tempo, perché nel Cinquecento lo scardinamento del tessuto culturale e sociale degli Italo-greci era ormai arrivato al suo punto d'arrivo, cioè l'assimilazione: res graeca quae cotidie retro labitur [48]. Dove i Latini avevano saputo attendere, la scomparsa della grecità linguistica fornì loro l'ineccepibile pretesto all'eliminazione della Chiesa Italo-greca, la cui esistenza era stata privata, dalla stessa interpretazione formalistica che l'aveva  legittimata, di valore intrinseco e di consistenza spirituale.

 

 

 

[1] Cfr. M. Damiata, Olivi inquieto: la cristianità dilacerata da Catari, Ortodossi e Saraceni, "Studi francescani" 88 (1981) 1, p.17-18.

[2] Vd. Ratramno di Corbie,Contra opposita Graecorum, PL 121, coll. 721-739.
[3] Pasquale II, (a. 1112). Pontificia commissio ad redigendum codicem iuris canonici orientalis. Series III,Fontes, I, 385, (d'ora in poi citeremo tale raccolta come Fontes).
[4] Agostino,Ep. A Januario, (56) 2, 3, Op. Omnia XXI, Roma 1966, 438.
[5]Dell'epoca di Celestino e di Innocenzo III abbiamo documenti romani di condanna del fenomeno dei preti greci che cercavano di essere consacrati da un loro vescovo più vicino e non dal loro ordinario latino. L'ultimo data al 1204: Fontes, II 61. Da notare che l'ordinario greco non aveva uguale potere di consacrare i preti latini della sua diocesi. Tutto ciò contribuiva efficacemente alla rarefazione del clero greco. La situazione si ripresenterà nel XVI secolo, quando la Controriforma avrà a che fare con i cristiani albanesi, profughi nel Sud Italia.

[6] Alessandro IV papa, Fontes, IV/2, 10.

[7] vd. Innocenzo IV papa (1254), Fontes, IV/1, 105 e 43. Interessante notare nelle fonti latine un duplice uso del concetto di scandalo: nel primo, che riguarda i Greci, esso definiva la loro prevedibile ribellione contro una modifica apportata da altri al culto esistente, che essi avvertivano come una mancanza di pietà religiosa; nel secondo, riguardante i Latini, lo scandalo derivava al contrario dalla constatazione dell’esistenza di un diverso culto, fatto che sembrava suscitare dubbi relativistici nei confronti del proprio culto (vd. V. Peri, L’unione della Chiesa Orientale con Roma. Il moderno regime canonico occidentale nel suo sviluppo storico, in "Kanonika", IV 1994, 131, reprint da Aevum 58 (1984), 439-498.

[7a]Della concezione orientale della tradizione come rivelazione divina, un significativo esempio viene dagli atti del Concilio Niceno II (787): Costoro, però, hanno osato condannare la tradizione che ci è stata affidata da Cristo nella sua santa Chiesa in memoria della sua dispensazione redentrice, non rendendosi conto, in questo modo, che niente nella Chiesa è stato fatto senza di Lui. ed. J.-D. Mansi: "Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio", t. XIII, 212C; trad. C. Gelmino, "Vedere l'invisibile. Nicea e lo statuto dell'immagine", a cura di L. Russo, Palermo 1999, 61.

[8] vd.  V. Peri, art. cit,,  72-75; 101; 133-136,. cfr.  Definitio sanctae oecumenicae synodi Florentinae (ed. H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, "Bulla" Laetentur coeli, 450 e 451.

[9] Gioacchino da Fiore, Enchiridion super Apocalypsim (1184 Ð 1200), ed. A. Tagliapietra, Milano 1994, 196 e 23.

[10] vd. C. Giannelli, Un documento sconosciuto della polemica tra Greci e Latini intorno alla formula battesimale, "Orientalia Christiana Periodica" X 1944, 158 - 161. vd. Les regestes de Grégoire IX, t. I, ed. L. Auvray, Paris 1896, n¡ 797, col. 498.

[11] Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, can. 373: la condizione degli ecclesiastici uniti in matrimonio deve essere tenuta in onore, in quanto prassi della Chiesa primitiva, da sempre legittima nelle Chiese orientali, 194, Roma 1990.

[12] Cfr. A. Stickler, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, 49, Città del Vaticano 1994; R. Cholij, Married Clergy and Ecclesiastical Continence in Light of the Council in Trullo (691), Leominster 1989, 190-193; N. Cochini, Les origins apostoliques du célibat ecclèsiastique, Paris 1981, 410.

[13]  Nicola di Casole: Parerga , cod. Laur. gr. 5.36, f.8.

[14]  vd. F. Quaranta: In difesa dei matrimoni greci e del mattutino pasquale. Un inedito testo pugliese del XIII secolo. "Studi sull'Oriente Cristiano", (V2) 2001,  91-117.

[15]  vd. G. Schirò, Vita di Luca, vescovo di Isola Capo Rizzuto, Palermo 1954.

[16] Vd. G. Zaccagni, Il Bios di san Bartolomeo da Simeri (BGH 235), "Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici", N.S. 33 (1996), 193 e 274; A. Acconcia Longo, recensione a: Caruso S., Il santo, il re, la curia, l'impero. Sul processo per eresia contro Bartolomeo di Simeri (XI-XII). "Bizantinistica" s. II, 1 1999 51-72, in "Byzantinische Zeitschrift" 93 2000 t.II, p. 708 2503. In effetti, il viaggio in sé ed i gesti che lo accompagnarono, erano eloquenti manifestazioni di lealtà al sovrano dei romei, che a sua volta riconobbe in Bartolomeo un fedele e illustre suddito (vd. G. Breccia, Dalla "regina delle città". I manoscritti della donazione di Alessio Comneno a Bartolomeo di Simeri, "Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata", 51 (1997), 215.

[17] G. Miccoli, La Storia religiosa, in Storia d'Italia, vol. 2, t. 2, Torino, 1974, 609.

[18] N. Housley, The italian crusades. The Papal - Angevin alliance and the Crusades against Christian Lay Powers, 1254 - 1343 , Oxford, 1982, 18.

[19] ibidem, pag. 63. Vd. Regestes de Urbane IV, n° 809 (ed. J. Guiraud, Paris, 1901).

[20]Modifico qui la mia opinione di un'inquisizione angioina erede di quella federiciana, espressa in Un profugo a Bisanzio prima di Barlaam. L'anonimo calabrese del Vat. Gr. 316, "Barlaam Calabro. L'uomo, l'opera, il pensiero" (a cura di A. Fyrigos), Roma 2001, 85.

[21]G. Miccoli: op. cit., 690.

[22]Giorgio di Gallipoli, (ed.) M. Gigante,  Poeti italogreci di terra d'Otranto nel secolo XIII , Napoli 1979, 174. Un'ipotesi affacciata da A. Acconcia Longo ("Diptycha", Nota su Giorgio di Gallipoli, IV 1986, 431), che, nella tragedia dell'intera loro collettività, i saccheggiatori potessero essere stati dei sacerdoti greci guelfi o appartenenti a una diversa opinione liturgica, appare piuttosto inverosimile. Non è privo di significato, inoltre, riguardo agli orientamenti della città di Gallipoli, che l'ultimo segno visibile di comunione fra gli Italo-greci e il patriarcato di Costantinopoli fu una richiesta di chiarimenti liturgici del vescovo locale Paolo al patriarca Michele III (1170-1178).

[23] M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza sec. XI - XIV, Roma, 1982, 291-292.

[23a] Su questo centro della propaganda cattolica, vedi C. Delacroix-Besnier, Les dominicains et la Chrétienté grecque aux siècles XIV et XV, Roma 1997,

[24] L'autorità patristica che obbligava questi autori al rispetto della pluralità di riti era un testo attribuito a papa Gregorio Magno. In realtà tale brano, entrato in circolazione intorno alla metà del secolo XII, era una citazione del "Commento a Matteo" di Gerolamo (PL 26, col. 94B), preceduta da un commento, opera di un latino conciliante che, partendo dal testo di Gerolamo di una Chiesa che usa esclusivamente il lievito, induceva gli occidentali ad accettare l'uso orientale del pane fermentato. Eccone il testo: (Nicolaus de Cotrone, Liber de fide Trinitatis, in "S. Thomae Aquinatis Opera Omnia, (aliorum medii aevi auctorum scripta)", a cura di R. Busa, Stuttgart 1980, vol. 7, p. 360): Solet plane movere nonnullos, quod in ecclesia alii offerunt panes azimos, alii fermentatos. Esse namque ecclesiam quatuor ordinibus distributam novimus: Romanorum videlicet, Alexandrinorum, Ierosolimorum et Antiochenorum, que generaliter ecclesie nuncupantur; cum unam teneant fidem catholicam, diversis autem utuntur officiorum ministeriis. Unde fit ut romana ecclesia offerat azimos panes propter quod dominus sine ulla commixtione suscepit carnem, sicut scriptum est: "Verbum caro factum est et habitavit in nobis". Sic azimo pane efficitur corpus Christi. Nam cetere ecclesie supradicte offerunt fermentatum pro eo quod Verbum Patris indutum est carne et est verus deus et verus homo. Ita et fermentum commiscetur farine et efficitur corpus Domini nostri Jhesu Christi verum. Sed tamen tam Romana ecclesia quam et cetere ecclesie supra memorate pro inviolabili fide, tam azimum quam fermentatum dum sumimus, unum corpus Domini nostri Salvatoris efficitur. Certissimum autem sicut diximus, divinum interest sacramentum, secundum quod legimus in evangelio: - Mulier illa que accepto fermento abscondit in farine sata tria, donec fermentatum est totum-. mulier hec videtur mihi esse apostolica predicatio vel ecclesia, que de diversis partibus vel gentibus congregata est. Hec tollit fermentum, id est notitiam vel intelligentiam sanctarum scripturarum, et abscondit illud in farine sata tria, ut spiritus, anima et corpus in unum redacta inter se non discrepent, sed impetrent a patre quodcumque postulaverint. Amen. Testi paralleli: Tommaso d’Aquino, Contra errores graecorum, in "Opera Omnia", ed. cit, vol. 3, p. 509; (Pseudo-)Pantaleo Diaconus, Tractatus contra errores graecorum, PG 140, 524CD. Cfr. A. Dondaine, "Contra Graecos", premiers écrits polémiques des Dominicains d'Orient, "Archivum Fratrum Praedicatorum, 21 (1951) 357 e 362; R. Loenertz L'épitre de Théorien le Philosophe aux prêtres d'Oréiné, "Mémorial Louis Petit", Bucarest 1948, 332.

[25] (Pseudo-)Pantaleo: ibidem, PG 140, col. 525b.
[30] vd. G. Miccoli, op. cit., 694.

[31] Umberto di Romans, Opus Tripertitum, II, 11, in Mansi, Sacrorum conciliorum collectio, vol. XXIV, 126A.
 [32]  Niccolò III papa,(a. 1278), Fontes V, t. II, p. 72

[33] Gerardo di Sabina, Costituzioni di Melfi 1 (P. Herder,  Die Legation des Cardinalbischofs Gerhard von Sabina, "Rivista della Storia della Chiesa in Italia" 21 (1967), 47).

[34] Vd. Regestes de Nicolas IV,  n¡ 892 (ed. E. Langlois, Paris, 1905).

[35] Vd. D. Abulafia, Il Mezzogiorno peninsulare dai bizantini all'espulsione, in "Storia d'Italia. Annali 11. Gli Ebrei italiani", Torino 1996, 19-26.

[36]  Vd. Fontes VII/1, 69.

[37] Fontes, IX, 113.

[38]  Fontes XI, 39.

[39] Fontes, X, 64.

[40] Vd. L. Pellegrini, Insediamenti francescani nell'Italia del Duecento, Roma 1984, 307. Al contrario, i domenicani nel XIV non avevano alcun convento in Calabria e solo sei nella Puglia meridionale: Brindisi, Monopoli, Nardò, Brindisi La Maddalena, Taranto, Lecce (vd. G. Cioffari, Storia dei Domenicani nell'Italia meridionale, Napoli 1993, vol. I, 95.

[41] P. Coco, I  francescani nel Salento,1517-1927, Taranto 1928, vol. I, 128-130 e vol. II, 525-542. Idem, Saggio di storia francescana di Calabria. Dalle origini al secolo XVII. Taranto 1931, 49 e 58.

[42]  Vd. J. Fine,The Bosnian Church: a New Interpretation, New York 1975, 179 e 299.

[43] Vd. L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, 80-83.

[44]A. Galateo, De situ Japigiae, Basilea, 1558, 112.

[45] Vd. T. Hofmann: Papsttum und griechische Kirche in Süditalien in nachnormannischer Zeit  (13. - 15. Jahrundert), Ph. D. dissertation, Bamberg, 1994, 185.

[46] A. Galateo, ibidem, 110.
[47] Vd. M. Pastore, Il codice di Maria D'Enghien, Galatina 1979, 72. Il fatto che Pietro avesse esercitato la professione notarile (vd. Visite pastorali in diocesi di Nardò 1452-1501, a cura di B. Vetere, Galatina 1988, 67),  potrebbe far attribuire alle parole verità e fede, causa della sua morte, un significato più professionale e laico. A favore dell'interpretazione religiosa V. Zacchino, La stirpe e la famiglia di Antonio De Ferrariis Galateo, in "Familiare '82. Studi per le nozze d'argento Jurlaro Ditonno", Brindisi 1982, 131.

[48] A. Galateo, ibidem, 45.


Inquisizione e teocrazia

di Gabriele Segalla

dal libro “La strategia del Sospetto

Non esiste danno più devastante, per le istituzioni e per i diritti primari del cittadino, di quello prodotto dall’intervento poliziesco e vessatorio di un’autorità inquirente che autentica e alimenta una spietata caccia alle streghe. Ciò è ancor più deleterio quanto più la reale motivazione di un siffatto intervento, come vedremo più in dettaglio, è “deviata”: non diretta a far luce su un certo fenomeno, a torto o a ragione oggetto dell’interesse sociale, ma rivolta ad autenticare la santità o sanità di pochi rappresentanti istituzionali, affetti da protagonismo o avida sete di carrierismo. In altre parole, l’obiettivo rimane sempre lo stesso: salvaguardare, attraverso quei pochi, gli interessi di potere dell’ideologia dominante, cioè la Norma maggioritaria, la media ponderale degli accordi ed interessi di dominio sociale, politico ed economico, intorno ai quali ruota l’intero sistema delle prevaricazioni e degli esclusivismi sociali. O meglio antisociali.

Le streghe, cioè gli agnelli sacrificali, i capri espiatori e le valvole di sfogo per l’efferatezza del sistema inquisitorio, si trovano ad ogni angolo: sono tutti gli invisi e scomodi “fuori-norma” (non fuori-legge, il che è tutt’altra cosa), che osano criticare e interferire con l’ideologia collettivistica dominante, o peggio ostacolarla o addirittura rinnegarla. L’agenda inquisitoria si arricchisce di tappe “evolutive” apparentemente casuali ma aventi, ognuna, un valore cumulativo, un crescendo psico-strategico inteso ad alimentare a sua volta l’indignazione della cosiddetta opinione pubblica: prima ad esempio si comincia a opprimere e reprimere i valdesi, poi i pentecostali, poi il Muccioli, poi il Verdiglione, poi i Testimoni di Geova, poi i fastidiosissimi (perché troppi e troppo rumorosi) scientologi, eccetera, ad libitum. Con il comune o comunistico o consumistico scopo di eliminare qualsiasi potenziale o reale nemico dell’Élite teocratica o psicoterapeutica dominante, uniche autorevoli guide erogatrici del benessere spirituale e psico-fisico della nazione.

Potrebbe apparire una tesi audace, se non esistessero ormai troppi riscontri storici, e non solo storici. La farsa delle loro menzogne e calunnie si è ormai fatta troppo grottesca per non venire facilmente smascherata anche dal più superficiale degli osservatori. Occorre solo armarsi di buon senso e di analisi logica, cioè della capacità di distinguere il vero soggetto, il vero oggetto ed il vero predicato. Inquisitorio ha sempre fatto rima con espiatorio, in una lunga e inarrestabile sequela di condanne esemplari e terapeutiche, spesso giustificate e suffragate dalla pretesa di esercitare un potere diagnostico ed esorcizzante sui pericolosi soggetti diversi, “ fuori-norma”.

Inquisire è un verbo relativistico: in esso la dimensione tempo subisce una dilatazione proporzionale all’intento persecutorio e repressivo di colui che lo coniuga. Con calma, anno dopo anno, ventennio dopo ventennio. Non c’è fretta. L’inquisitore è un analista sempre paziente, caritatevole, pio, probo, giusto e dedito al bene della comunità. La lentezza dell’agonia dell’eretico svolge l’importante ruolo di deterrente e di monito per tutti gli altri potenziali eretici. Così è sempre stato nei secoli dei secoli...

Nei secoli XV, XVI, XVII e XVIII vennero eliminate nel mondo occidentale più di 100.000 streghe, persone cioè accusate di aver stretto un patto criminale con il diavolo. Il fenomeno, se così si può definire, venne posto in essere dalla creazione di un ente preposto alla difesa dell’ideologia teocratica dominante: l’Inquisizione. Che, di quel fenomeno, fu la causa e non, come molti ancora credono, l’effetto. L’Inquisizione era nata come istituzione ecclesiastica destinata a scoprire e punire l’eresia, massimo crimine “ideologico” del tempo, essendo l’ideologia allora dominante quella della Santa Sede. Dominante a tal punto che i reati di eresia vennero secolarizzati, resi cioè perseguibili e punibili anche dai poteri secolari, asserviti alla conservazione e preservazione di un’unica Norma. La Norma, appunto, teocratica.

Norma che, alimentata dalla sete di dominio, si trasforma in Intolleranza. O, come la definisce Italo Mereu, “Intolleranza istituzionalizzata”, «... che tutto abbatte e tutto unifica e tutto sottopone al raggio mortale delle sole ideologie ufficiali...». Ciò che rese possibile l’estensione del concetto criminologico di eresia a quello di stregoneria e il successivo innescarsi della grande caccia alle streghe, fu una serie di trasformazioni giuridiche introdotte in Europa tra il XIII e il XVI secolo. La prima di tali trasformazioni fu l’adozione del processo cosiddetto inquisitorio.

Prima di allora i tribunali europei avevano seguito un sistema di procedura penale che rendeva più arduo il perseguimento del crimine, specie quello di natura ideologica e religiosa. Tale sistema, normalmente definito accusatorio, era adottato nella sua forma pura dai tribunali secolari dell’Europa Nordoccidentale, ma era anche parzialmente applicato dai tribunali secolari ed ecclesiastici del Sud Europa.

In breve, il sistema accusatorio consisteva in un’azione penale promossa da un soggetto privato, solitamente la parte lesa o i suoi familiari. L’accusa consisteva in un’affermazione formale, pubblica e giurata, che innescava il processo dell’accusato davanti al giudice. Se l’accusato ammetteva la sua colpa, o se il privato accusatore riusciva a provarla (onere della prova), il giudice lo condannava. Nel corso del processo, a prescindere dalla sua forma, il giudice restava un arbitro imparziale che regolava la procedura del tribunale ma che non esercitava in alcun modo l’accusa. L’accusa era promossa dallo stesso accusatore e, se l’imputato dimostrava la propria innocenza, l’accusatore era perseguibile penalmente secondo la vecchia tradizione romana della lex talionis .

Il passaggio al nuovo sistema, indicato come inquisitorio, fu favorito dalla ripresa dello studio del diritto romano. E dalla consapevolezza che la criminalità, sia di ordine ecclesiastico che secolare, era in aumento e bisognava adottare dei mezzi più idonei a combatterla. La principale differenza fra il nuovo sistema e quello precedente fu che l’accusatore non era più tenuto a esercitare l’accusa nel corso del procedimento. Inoltre la procedura inquisitoria dava agli inquirenti la possibilità di perseguire un presunto criminale o eretico o strega solo sulla base di “informazioni” talvolta fondate semplicemente su voci o dicerie di alcuni membri della comunità. È ovvio che ciò diede luogo ad una innumerevole sequela di processi penali basati su accuse inconsistenti e, spesso, maliziose, interessate o comunque arbitrarie. Invece di limitarsi a presiedere, imparziale e neutrale, al conflitto fra due parti, il magistrato assunse il compito di investigare il crimine e di determinare se l’imputato fosse o meno colpevole. Ciò facilitò il perseguimento di ogni tipo di crimine, ma si dimostrò efficace soprattutto nell’istituire processi per eresia e stregoneria. Thomas Szasz, in un suo dettagliato studio comparativo dell’Inquisizione e della moderna psichiatria istituzionale, scrive: «Sebbene vecchio di più di cinquecento anni, il procedimento inquisitorio non pervenne realmente alla sua pienezza prima del XX secolo. La differenza fondamentale tra le procedure accusatorie e inquisitorie sta nei metodi di cui una persona o un istituto (spesso lo stato) dispongono, per imporre un ruolo sociale degradato e disonorevole ad un’altra persona (spesso il componente di un gruppo minoritario). Il procedimento accusatorio fornisce elaborate salvaguardie all’individuo, proteggendolo dal venire collocato in un ruolo prestabilito, quale quello di criminale; in genere, bisogna che vi sia prima la prova che egli abbia commesso atti proibiti per legge. Il procedimento inquisitorio toglie tale protezione all’individuo, e dà all’accusa il potere illimitato di gettare l’accusato nel ruolo prestabilito o di nemico dello stato o di malato mentale. Negli stati totalitari, i procedimenti di imposizione della legge criminale sono tipicamente inquisitori; e così sono le leggi e le pratiche di salute mentale negli stati non totalitari».

Accompagnato dall’uso della tortura per i casi più “difficili”, il sistema inquisitorio raggiunse ben presto lo scopo per cui era stato introdotto: la protezione ed il consolidamento dell’ ideologia dominante. Eretici e streghe apparvero ovunque in numero impressionante, e il fuoco dei roghi ricoprì di infausti bagliori tutta l’Europa, placandosi solo quando ecclesiastici e laici, preposti alla gestione della giustizia sociale, si resero conto, qualche secolo dopo, che stavano mandando al patibolo troppe persone innocenti.

In molte zone i processi contro le streghe ebbero luogo in concomitanza con i processi contro gli eretici valdesi. Accusati, entrambi i gruppi, di riunirsi segretamente e di praticare “l’infanticidio cannibalistico”, ricevettero lo stesso trattamento.

Le credenze sul patto satanico stipulato dalla strega, la possessione diabolica, le riunioni in orgiastici sabba, durante i quali si sarebbero mangiati bambini, non erano, come si potrebbe a prima vista supporre, dominio della folcloristica cultura popolare di allora, ma erano divenute dogmi assimilati dalle classi più colte e più potenti, come per l’appunto, quella dei giudici. Questa assimilazione delle nozioni relative all’esistenza e alla criminogenesi della stregoneria sono riassumibili e spiegabili, secondo Brian P. Levack, professore di Storia all’Università del Texas di Austin, nel “concetto cumulativo di stregoneria”: «... Si sa che ogni cultura ha sempre prodotto miti relativi a persone, dotate a volte di peculiari poteri o di caratteristiche fisiche particolari, che sovvertirebbero le norme morali e religiose della società e che perciò rappresenterebbero una minaccia al tessuto stesso di quella società. Se ne può arguire che una credenza nell’esistenza di simili individui sia necessaria per definire quelle norme, o quanto meno per rafforzare quelle che sono generalmente accettate...».

Levack descrive come, nel tempo, sia possibile costruire delle “immagini” mitiche atte a soddisfare determinate funzioni e definizioni della Norma, per esempio: «... Una di queste era l’immagine che i Romani avevano concepito dei cristiani delle origini come membri di una organizzazione segreta che praticava l’infanticidio cannibalistico e l’incesto; un’immagine che aveva acquistato popolarità sia perché i cristiani effettivamente s’incontravano in segreto sia perché il rito fondamentale della cristianità, l’eucarestia, si prestava facilmente ad essere frainteso come una forma di cannibalismo».

La trasmissione, scritta e verbale, delle credenze via via elaborate dall’opportunismo del sistema teocratico conduce alla creazione e al consolidarsi dell’immagine dell’eretico o della strega. Immagine sempre più rafforzata e autenticata dagli interventi dell’autorità inquisitoria: «... Molte credenze colte in materia di stregoneria si svilupparono e si fusero con altre nozioni nel corso di processi a carico sia di maghi che di streghe. Lo sviluppo o la fusione furono invariabilmente il risultato dell’opera del giudice o dell’inquisitore, che mescolava l’accusa contro l’imputato con le sue stesse fantasie o ossessioni, a loro volta alimentate dalla cultura teologica o demonologica o da resoconti di altri processi in cui lui o un collega erano stati giudici. Nelle confessioni estorte, di solito con la tortura, delle attività che credeva praticate dalla strega, l’inquisitore trovava una conferma ai suoi sospetti, e perciò le credenze acquistavano validità. I risultati dei processi venivano a conoscenza di altri giudici – prima per via orale e poi attraverso manuali ad uso degli inquisitori – che utilizzavano le testimonianze rese nei processi per dimostrare le varie attività delle streghe. In questo modo il complesso di credenze colte poteva divenire cumulativo, poiché l’inquisitore di un nuovo processo avrebbe usato l’informazione contenuta nel manuale per formulare le domande da porre ai testimoni e all’accusata. Ma, al tempo stesso, avrebbe potuto utilizzare alcune accuse specifiche nei confronti dell’accusata, o la sua stessa fantasia, per aggiungere nuovi aspetti e risvolti alle accuse classiche».

«... Man mano che lo stereotipo della strega si consolidò, tuttavia, la letteratura divenne il principale veicolo di trasmissione della conoscenza relativa a quel crimine. L’importanza di quella letteratura aumentò inoltre significativamente con l’introduzione della stampa, nella seconda metà del ’400. Tale innovazione fece in modo che le credenze colte si diffondessero più ampiamente e più rapidamente che nell’epoca del manoscritto».

Potenza dei mass media, molti di loro succubi ed abietti veicoli dell’informazione e disinformazione del sistema. Nefasti araldi della Norma e volgari banditori dell’Integrità teocratica ieri e di quella psichica oggi. Fertilizzano, con il loro inchiostro venefico, l’humus sociale per meglio coltivarvi e radicarvi l’ideologia dominante. “La linea totalizzante”, come la definisce Italo Mereu, “imposta da chi sta a capo delle istituzioni”.

Il primo trattato diagnostico sulla stregoneria fu il Malleus Maleficarum, scritto da due inquisitori domenicani tedeschi, Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, pubblicato nel 1486 e ristampato ben 14 volte. Il Malleus, valido supporto teologico per i ceti giudiziari, asseriva che chiunque avesse negato l’esistenza della stregoneria sarebbe stato automaticamente ritenuto un eretico (“Haeresis est maxima opera maleficarum non credere”). È ovvio quindi supporre che gli zelanti propugnatori del verbo inquisitorio si facessero una cultura approfondita sulla indiscutibile esistenza delle streghe, onde non incorrere nella circostanza (punibile) di farsene scappare qualcuna... E fu così che la maniera più incisiva per allontanare da sé pericolosi sospetti di eresia divenne quella di denunciare altri di stregoneria, magari facendosi passare per vittime degli stessi accusati. E inoltre l’accusare qualcuno di stregoneria era un ottimo e rapido sistema per liberarsi di un concorrente sgradito, o di una moglie divenuta insopportabile.

Ma a parte le furbizie artificiosamente architettate per sfruttare la credenza nelle streghe a fini più spiccioli e gretti, è un dato di fatto che tale credenza venne inculcata in maniera profonda e convincente anche nelle classi meno colte, mediante una vasta e capillare opera di propaganda teocratica. Un’opera di vera chirurgia sociale: la strega, voluta, teorizzata e prodotta dall’alto della Norma inquisitoria, venne finalmente ricercata, perseguita e giustiziata con il supporto estorto dal basso della comunità. Tale supporto venne lentamente ma incisivamente conseguito istruendo la popolazione, per esempio, mediante la lettura pubblica delle accuse contro le streghe effettuata in occasione della loro esecuzione. O sfruttando il diffondersi di un grande panico (pestilenza, carestia, ecc.), facendone ricadere la causa e la colpa sulla stregoneria e mettendo in circolazione voci a proposito. E, non ultime, le prediche dai pulpiti e nelle piazze, che ripetevano ossessivamente gli slogan funesti dei vari trattati e bolle pontificie sull’argomento.

Ogni riferimento al ruolo dei sistemi propagandistici usati nel XX secolo da certi nostri modernissimi ed integerrimi mass media, fabbricatori della disinformazione del regime, è qui volutamente evidenziato e non certo casuale. Mutatis mutandis.

In Italia, uno dei massimi esegeti delle teorie e pratiche contemplate nel Malleus Maleficarum, fu il frate milanese Francesco Maria Guazzo, autore di quella che fu definita l’opera italiana più esaustiva per diagnosticare e reprimere il pericolo della stregoneria: il Compendium Maleficarum (1608). Seppur tardivo, il trattato di Guazzo, che attinge a centinaia di altre autorevoli fonti inquisitoriali, dimostra come fosse ormai ben radicata, anche nei ceti più colti, la convinzione dell’esistenza di numerosi individui che avevano fatto un patto scellerato con il demonio, che si dedicavano a maleficia di vario genere, che partecipavano collettivamente a sabba e cerimonie sataniche in cui venivano bruciati e mangiati infanti, calpestate le croci in segno di abiura e battezzate le nuove promesse spose del Diavolo.

Brian Levack conduce un’accurata analisi dell’atmosfera impregnata di fervente devozione cristiana e profondo senso del peccato di quei secoli. L’etica dominante era quella cristiana e praticamente tutti gli aspetti della vita vi venivano riflessi e con essa misurati e raffrontati. Il peccato era una qualsiasi trasgressione a quell’etica, sottoscritta in ore di penitenze e autopunizioni corporali, assimilata in lunghe e sofferte orazioni corali, subita in prediche colpevolizzanti ed enfatiche. Il reato non era altro che la traduzione secolarizzata della trasgressione morale a quell’etica dominante, senza la quale non avrebbe avuto natura criminosa. Esso scaturiva direttamente, prendeva corpo dalla matrice ideologica dominante, quella cioè cristiana cattolica romana. Ad essa allacciato da un indissolubile legame teologico. E punito, prima che dal potere secolare, da un insopportabile senso di colpa.

«... Quando una persona provava questo senso di colpa, naturalmente, faceva il possibile per sbarazzarsene, e uno dei modi cui faceva ricorso più frequentemente era quello di trasferirlo su un’altra persona. Nemmeno la confessione dei cattolici e degli anglicani poté evitare che si verificasse questo fenomeno di proiezione. Oggetto ideale di questa proiezione era la strega, una persona che nella visione della società del tempo incarnava il male. In quel modo indiretto la strega offriva sia all’individuo che alla comunità un’occasione per rassicurarsi sul proprio valore morale».

«... Nel caso dei preti, un peccato frequente era l’incontinenza sessuale. Spesso, quando i preti provavano un profondo senso di colpa e di debolezza morale, proiettavano la propria colpa sulle streghe e si impegnavano attivamente nella loro cattura e nel loro interrogatorio. Poiché le streghe erano solitamente donne – in un certo senso, il simbolo stesso della sessualità – il meccanismo di proiezione era abbastanza evidente. Nel procedere contro le streghe, inoltre, i preti non agivano da soli, ma congiuntamente ad altri membri della comunità, ai quali i preti avevano trasmesso il messaggio del cattolicesimo riformato. Le streghe divennero perciò non solo l’oggetto della proiezione della colpa dei preti ma anche i “capri espiatori” di un’intera comunità che stava lottando per affermare un nuovo ordine morale».

Questa forma di transfert criminologico, di cui Hubbard tratta ampiamente in alcuni suoi scritti definendola “criminal mind” (la mente criminale), si manifesta con: 1) una trasgressione alle regole dell’etica dominante (quindi “immorale” in quanto contraria ai “mores” dell’epoca); 2) il tentativo, talvolta vano, di tenere nascosta la trasgressione; 3) un conseguente senso di colpa latente; 4) il tentativo di sfuggire ad una paventata incriminazione mediante l’autenticazione della propria integrità morale, proiettando su altri la propria colpa. Levack, dopo un accurato esame della metodologia adottata dall’Inquisizione nel perpetrare i più indicibili e vergognosi errori giudiziari che la storia annoveri, formula un motivato giudizio, che fa sicuramente indulgere in più di una riflessione amara e perfettamente applicabile ai nostri attuali “mores” e tempi:

«... Quando, perciò, nel mondo moderno vari tribunali o commissioni di indagine conducono interminabili inchieste nei confronti di presunti movimenti sovversivi di natura politica, ideologica o religiosa, nel presupposto che tale indagine porterà a rivelare i nomi e le attività dei nemici della società, siamo di fronte a un fenomeno che presenta una forte somiglianza con le centinaia di cacce alle streghe svoltesi in Europa all’inizio dell’Età moderna».

Quando un sistema giudiziario si sente autorizzato dalla Norma a prevaricare i diritti naturali degli utenti della giustizia stessa e giunge al punto di proiettare le proprie colpe su altri membri della comunità per rivendicare la propria santità o rettitudine morale, allora le tenebre di una nuova inquisizione si stanno abbattendo sulla società. Inizia il declino irreversibile di quell’ideologia dominante nel cui nome sono state commesse troppe infamie, troppe turpitudini paludate sotto le sembianze di una giustizia che sta inevitabilmente perdendo ogni credibilità e decenza.

Ma, si dirà, tutto questo è avvenuto qualche secolo fa. Oggi è un’altra cosa. Non è razionalmente ammissibile che si ripetano scelleratezze come quelle dei secoli bui. Nello stato laico moderno, la teocrazia è estinta. Perché parlare ancora di inquisizione? È solo un parallelismo storico facilmente confutabile come surrettizio e opportunistico? Come vedremo più in dettaglio nei prossimi capitoli, l’attuale inquisizione è molto più perversa e pericolosa della precedente, proprio perché la sua perversione e la sua pericolosità si esplicano e si mascherano all’ombra di quell’avverbio che avrebbe dovuto, in teoria, prevenirla: “razionalmente”. Attraverso cioè il paradigma razionale, moderno, scientifico dell’induzione e del sospetto.

Bibliografia:

Italo Mereu. "Storia dell’Intolleranza in Europa", Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas, 1988

Thomas S. Szasz. "I manipolatori della pazzia - Studio comparato dell’Inquisizione e del Movimento per la salute mentale in America", Feltrinelli Editore Milano, seconda edizione luglio 1976

Brian P. Levack, La caccia alle streghe in Europa agli inizi dell’età moderna, Editori Laterza

L. Ron Hubbard, "The Criminal mind", HCOB 15 September 1981


LA RIFORMA BRUNIANA
di
Alessandro Bardi  

La vera riforma spirituale dell'Occidente poteva avverarsi, e può tuttora, non nelle pochezze teologiche di Lutero, ma con la missione ermetica europea del grande panteista Giordano Bruno. Essa voleva combattere le superstizioni del cristianesimo clericale, la visione del Divino come essere simile all' uomo, sgorgata dall' istinto egoista ed orgoglioso dell' uomo stesso, la visione assurdamente contraddittoria del tre in uno correggendola col suo monismo rigoroso di ascendenza pitagorica, la partenogenesi e altri assurdi dogmi, costruiti dai teologi su allegorie esoteriche quali sono le vicende della vita di Cristo nel Vangelo, assurde se prese alla lettera. Il tentativo di riforma dell' occidente cristiano attuatosi col luteranesimo, puramente politico e organizzativo e non già spirituale e metafisico,  aveva portato un nuovo bigottismo per la certezza fanatica di avere imboccato la strada della ragione e della libertà, sostituendo , in realtà, solo il conformismo alla lettera biblica al conformismo papista. La riforma aveva portato la guerra civile, lo scisma e il caos in Europa, distrutta dal settarismo delle varie conventicole e dalla lotta con la mai morta tirannia totalizzante dei cattolici, che si andava rincrudendo con la controriforma, della quale Bruno fu vittima. L' etica calvinista diffuse l' attuale ingiustizia del potere del denaro, con la sua teoria della superiorità predestinata dei ricchi, avviando così secolari e progressive devastazioni della natura, della morale e  dell' unità tra gli uomini col suo spietato arrivismo e individualismo, la concorrenza tra uomini e nazioni, foriera di imperialismi e nuovi disordini. La sua riforma ermetica voleva invece instaurare un' epoca di pace e fratellanza tra i popoli, unificare gli uomini e le nazioni, secondo un principio di cosmopolitismo, nella piena solidarietà ermetica come cristiana.
Egli tentò un Primato Spirituale dei Saggi, una supremazia naturale ed etica dei più spirituali, geniali, virtuosi nel senso più alto.
Menzognero é il tentativo degli atei e dei materialisti di far passare la sua filosofia e la sua opera per anticipatrice del materialismo, accentuando le sue tendenze democratiche e una sua presunta funzione iconoclasta della religione tout-court, rimpicciolendo il personaggio in una figura di povero scientista ancora indeciso d' abbandonare vecchie corbellerie.
Anticipò l' illuminismo teorizzando e adoprandosi perché si diffondessero la critica delle deformazioni della religione, la religione naturale alla base di tutte, la tolleranza e il libero pensiero, intendendoli non nel senso utilitaristico e individualista dell' egoismo moderno, ma come legge OGGETTIVA del mondo, il tutto, la verità, riunificantesi nelle parti, le diverse religioni, mediante il dio Eros del Simposio platonico, l' Amore, che é la forza somma del cosmo e dell' uomo, la vera libertà e azione vitale della cose. Fuori dalla METAFISICA e riassunto nell' etica ( fraintesa completamente ), in quel modo deformante come viene presentato oggi, non c' é NULLA di Bruno, se non una specie di iconcina della cultura e della filosofia, la "cultura" della modernità, estremista, irragionevole, erede della controriforma nelle sue dottrine e istinti peggiori, materialista e  dogmatica.
La chiesa addirittura ha tentato quasi di farlo apparire un antesignano di Roncalli, o piuttosto dell' opera "ecumenica" dell' attuale papa. I cosiddetti "laici" ( che non sanno che "laico" in ogni dizionario vuol dire " profano, ignorante, non addentro alla saggezza, escluso dalla Ecclesia dei Saggi", nome che, quindi, loro ben s' adatta ) scettici, frivoli e vanesi come il bel mondo dei Diderot e dei D' Alembert, ne han fatto un prodotto dell' "industria culturale".
Egli fu il "Mercurio inviato dagli Dei", la Sacra Scienza che attraverso il grande polemico campano si manifestò, della quale egli fu degna espressione iniziatica, che servì con onore e la vita, rese operativa, spirituale, viva, benefica Magia, Arte Divina, testimoniò e resse il sisifico pronante fardello di pena.
Fu testimonio non della libertà di pensiero solo, ma del pensier sì, il Pensiero Divino operante ne e tra i mondi.

 

 



Gli orrori della Santa Inquisizione

di Roberto Giammanco

Per il Santo Tribunale la matrice “diabolica” dell’eresia era unica: diversa sunt nomina, sed una porfidia. Una complessa casistica regolava il grado di pericolosità e coinvolgimento nelle varie eresie. Chi erano da considerarsi eretici?:

“Tutti quelli che dicono, insegnano, predicano o scrivono contro la sacra Scrittura, contro gli articoli della Santa Fede, contro i SS. Sacramenti e riti, ovvero uso d’essi; contro i decreti dei S.Concilii e determinazioni fatte dai Sommi Pontefici; contro la suprema autorità del sommo Pontefice; contro le tradizioni apostoliche; contro il Purgatorio e le indulgenze; quelli che rinnegano la Santa Fede facendosi turchi o ebrei o d’altre sette e lodano le loro osservanze e vivono conforme ad esse; quelli che dicono che ognuno si salva nella sua fede…”

Chi si doveva considerare sospetto di eresia?

“Quelli che dicono prepositioni, le quali offendono gli audienti e non le dichiarano; quelli che se non dicono parole, fanno fatti ereticali, come abusare i SS. Sacramenti e in particolare l’Hostia consacrata e il Santo Battesimo, battezzando cose inanimate come calamita, carta vergine, fave, candele altri simili; quelli che abusano cose sacramentali, , come Oglio santo, Cresima, Parole della Consacratione, Acqua benedetta, candele benedette; quelli che feriscono e percuotono immagini sacre; quelli che scrivono, tengono, leggono o danno ad altri da leggere libri proibiti nell’Indice o negli altri Nostri editti particolari; quelli che notabilmente si allontanano dal vivere comune dei Cattolici come il non confessarsi e comunicarsi una volta l’anno, in mangiare cibi proibiti senza necessità, nei giorni determinati dalla Santa Chiesa e simili”.

(Breve informazione del modo di trattare le cause del S. Officio per i molto reverendi Vicarii della S. Inquisizione istituiti nelle diocesi di Parma e di Borgo S. Donino…Parma, 1628).


La richiesta di perdono che Papa Wojtyla pronuncia a Napoli il 12 marzo di questo anno 2000 è stata preparata, prima ancora che dalla martellante campagna d’immagine vaticana, dai laici giubilari accorsi in fretta per la bisogna. Senza roghi o scomuniche, sponte sua, sono stati accesi, al bagliore accecante dei media, i roghi della memoria.
La damnatio memoriae giubilare prende la forma di una correctio memoriae concordataria, riconversione di fatti storici inequivocabili, che credevamo acquisiti, con l’omertà che basta a trasfigurare in “errori”, debolezze umane”, “casi specifici” la continuità e la ferrea, spietata logica di potere di istituzioni burocratiche di raffinata efferatezza capaci di imporre e perfezionare meccanismi collettivi di infantilizzazione, sospetto, terrore, conformismo.


I falsari del grande Giubileo


Il quattrocentesimo anniversario del rogo su cui salì, “con la lingua in giova”, il 17 febbraio dell’anno giubilare 1600, Giordano Bruno è al centro di questa damnatio-correctio memoriae che, in accordo con i tempi, è rigorosamente politically correct.
Da tempo, l’istituto della Congregazione della Santa Inquisizione dell’eretica gravità, e il suo Santissimo Tribunale, sono presentati con un volto umano, tra l’esercizio di una rigorosa legalità e una caritatevole soavità nei confronti dei reprobi a loro affidati.
Si è scoperta e privilegiata la “buona fede”dei giudici, i loro sforzi “per arginare sospetti e intolleranza”e/o “per non far soffrire gli imputati” fino ad affermare che “…finche la letteratura sull’Inquisizione è stata soprattutto di origine protestante…si è potuto tranquillamente demonizzare quell’istituzione( strumento dell’Anticristo, si diceva) ad esaltarne le vittime come martiri della verità. Una nozione schematica e superficiale” ( A. Prosperi, 1988).
Più recentemente, si è spinto lo zelo fino ad affermare che “l’eresia fu oggetto degli affanni inquisitoriali solo in minima parte e in periodi circoscritti. Il più del tempo gli inquisitori lo dedicavano a truffatori che si fingevano preti, bigami e trigami, fattucchieri denunciati da clienti delusi…gli eretici veri e propri erano quasi tutti frati e preti”. Per concludere, visto che gli eretici erano i primi a non volere la tolleranza né tanto meno “l’equivalenza delle fedi”, si sarebbero comportati ( e dove furono maggioranza si comportarono) come gli inquisitori, e anche peggio”. Sempre se avessero potuto…( Rino Cammileri, 1998).
E non basta. Il Santissimo Tribunale che “non amava versare il sangue e preferiva salvare le anime”trattò con caritatevole pazienza e severa clemenza Giordano Bruno il quale, del resto, era litigioso ed insopportabilmente pieno di sé”, pertinace e impenitente, nella cui tattica difensiva “avevan gran parte le bestemmie più orribili…Fu questo il motivo per cui lo condussero al rogo con la bocca serrata “(Rino Cammileri, 2000).
Questi ed altri contributi all’astratto spettacolo del “perdono” papale sembrano predominanti nella cultura diffusa dell’Italia giubilare, se non altro per la loro visibilità ufficiale.
La damnatio-correctio memoriae si articola a vari livelli, dal più formale e raffinato al più rozzo ed emotivo, che convergono nel ribadire la legalità, addirittura quasi “garantista” dell’istituto inquisitorio, a mettere in luce la severa clemenza nel perseguire i reprobi dei quali, come nel caso di Giordano Bruno, si ammette l’ostinazione e la pervicacia(“…ed insomma il meschino, se l’Iddio non l’aiuta, vuol morire ostinatamente ed essere abbruciato vivo”, Avviso di Roma, 12 febbraio 1600, sabato). Quello che viene sfumato, distorto, o del tutto relegato alle critiche ed annose polemiche degli specialisti, è il discorso sui fondamenti, le procedure , e il ruolo storico che ha avuto il processo inquisitorio con lo strascico dei suoi principi fondanti lasciati in eredità anche al mondo moderno e ai suoi universi totalitari.
L’Inquisizione fu nient’altro che la logica conseguenza della sacralizzazione del potere papale, che direttamente, e senza mediazioni, ne concesse e legittimò gli immensi poteri. A monte il carattere divino “ delle Chiesa, il potere del Pontefice di definire la verità e perseguire l’errore, di mediare tra l’aldilà e l’aldiquà, di sciogliere e legare, alla luce della “verità” definita, tutti gli aspetti della vita sociale. Attraverso i secoli, l’Inquisizione fu il più efficiente meccanismo di controllo sociale della storia dell’Occidente cristiano: il suo potere, prima che sulle azioni, si abbatteva sui pensieri, sulle intenzioni, sulle scelte devianti. Non è un caso che il termine “eresia” voleva dire originariamente “scelta”.


Un controllo sociale di massa


Le risposte alla damnatio-correctio memoriae giubilare, vero e proprio rifiuto di responsabilità storiche, morali e culturali, vanno cercate meno nei singoli “casi” che, per esempio, nei principi fondanti e nei meccanismi del processo inquisitorio, strumento burocratico al servizio di un universo teocratico coercitivocce ha gestito, per secoli, comportamenti sociali e intenzioni, vivi e morti, a sua immagine e somiglianza.
Il processo inquisitorio fu definitivamente codificato nella Nuova Inquisizione post- Riforma luterana, a partire dal 1542 (Bolla Licet ab inizio di Paolo III). La Congregazione del Santo Uffizio, presieduta dal papa, sempre quando erano in gioco casi”difficili”, mantenne intatti i principi fondanti dell’Inquisizione medioevale (crociata contro gli albigesi e loro sterminio), dell’inquisizione di Spagna (“estirpazione” e conversione forzata degli ebrei e dei musulmani) dandosi un’organizzazione totalmente centralizzata, a guardia della burocratizzazione capillare della fede cattolica e del controllo sociale di massa che la Controriforma stava consolidando. Il sentimento religioso fu gestito come un modello chiuso, coercitivo, trionfalistico.
I principi fondanti del processo inquisitorio sono dedotti dal suo fine supremo: perseguire “l’eretica pravità” che si macchia del crimine supremo: “lesa maestà divina”. Qualsiasi altro crimine, se ci sono i segni della “peste eretica” o della trasgressione al modello del magistero, è associato all’eresia.
Il sospetto faceva scattare il meccanismo inquisitorio. Era di per sé il segno della colpa. Tutti ( nobili), alti prelati compresi i cardinali, funzionari reali, al di fuori soltanto del re) potevano essere inquisiti, se denunciati come sospetti.


La cultura della delazione


Per chi si affanna per addolcire l’immagine dell’Inquisizione e, al tempo stesso, per isolarla dal modello coercitivo globale della Controriforma, l’imbarazzo maggiore viene dalla centralità della delazione.
Praticata da sempre, all’interno e verso l’esterno, spetta al Santo Uffizio - che razionalizza il sospetto come presunzione di colpa e ne introduce la capillarizzazione sistematica nell’area cattolica – il compito di assicurarne la tutela, e naturalmente la sacralizzazione.
La delazione è segreta (“…all’imputato deve essere comunicata solo la sostanza delle deposizioni dei testimoni a carico, senza nomi né possibilità di individuarli”: decreto della Congregazione del Santo Uffizio, 1566) ed è ”un dovere per il popolo cristiano”, perché se si è obbligati a denunciare i crimini di lesa maestà, a maggior ragione è doveroso denunciare il supremo peccato-crimini di lesa maestà divina. Così il padre è obbligato a denunciare il figlio, il marito la moglie, e viceversa, anche perché chi rivela al Santo Tribunale l’eresia dei propri consanguinei (“de’ loro padri ancorché eglino fossero nati dopo il paterno delitto”, 1621) non solo non incorre nelle pene stabilite e compie “un’impareggiabile opera di carità”, ma può anche usufruire di speciali indulgenze per sé e per gli altri suoi defunti. Soprattutto – insistono decreti e manuali – si affida alla guida sicura dell’Inquisitore che è padre; il che vuol dire – come suona una delle iperbole retoriche dell’epoca – a Dio stesso, “Primo Inquisitore, che castigò Adamo ed Eva, il popolo di Israele e giù giù tanti altri”.
Il Santo Tribunale obbligava anche le stesse autorità secolari a denunciare, a pena di essere denunciate a loro volta, come complici dell’eresia nella congiura contro il bene pubblico. Chiunque poi si fosse impegnato a tacere, con qualsiasi forma di giuramento, quando si trattava della “eretica pravità”, era dispensato d’ufficio.
I confessori si trovavano di fronte a un dilemma assai difficile. Se, interrogati dall’Inquisizione su cose coperte dal segreto confessionale (sanzionato nel 1215 dal IV Concilio Laterano) non rispondevano, correvano forse il rischio di essere loro stessi inquisiti come fautores ?
Al culmine di secolari controversie sull’argomento, in piena Controriforma, Dominico Soto (1582) così rispondeva al dilemma: “…le orecchie umane giudicano le parole dal suono, ma il giudizio divino considera quei suoni se sono o no in accordo con l’intenzione…Dio ode le parole non pronunciate e le giudica vere anche se l’uomo non è in grado di accorgersi della discrepanza”. La tacita cogitatio, il pensare senza parole permette di dirigere l’intenzione in senso contrario rispetto a quanto è indicato dalle parole!


La tortura per l’intenzione


Sin dai tempi della bolla Ad extirpanda (1252) la tortura era sta legittimata come elemento (fondamentale e spesso, di fatto, unico) di prova ed era applicata con puntiglioso formalismo burocratico( la damnatio – correctio giubilare insiste sui ”precisi limiti di durata”).
Tutti potevano essere torturati ( i ragazzi al di sopra dei nove anni erano sottoposti alla tortura delle bacchette) e chi, sotto tortura, rispondeva alle domande del giudice inquisitore in modo non chiaro o tralasciava qualche dettaglio veniva torturato finche non completava la sua confessione.
Il massimo dell’astrazione (“la banalità del male”), e della spietatezza, era la “tortura per l’intenzione”. Se, dopo una confessione completa, il sospetto-reo negava di avere avuto intenzioni eretiche mentre si comportava da eretico, veniva torturato non sul fatto ma sulla ”sua empia credulità ed intenzione”. Rovesciamento del principio giuridico antico secondo cui nessuno può essere punito per quello che pensa (Cogitatio poena nemo patitur).
E che dire dei processi dell’Inquisizione a carico dei defunti? In quanto crimine di lesa maestà divina, il crimine die resia non si estingueva con la morte del reo. Condannando gli eretici morti, il Santo Tribunale condannava la loro “empia e immonda memoria” e, al tempo stesso confermava “l’eternità” dei suoi decreti e la mediazione della Chiesa sull’aldilà dell’aldiquà. Le ossa degli eretici morti venivano disseppellite e bruciate in pubblico con il consueto rituale, così come gli eretici latitanti che non si presentavano entro un anno venivano processatio e condannati ad essere bruciati in effige. Sul rogo veniva messa una statua con su scritto il nome e il cognome.
Di regola, ilo Santo tribunale presumeva che l’accusato di eresia che, in carcere, si toglieva la vita l’avesse fatto per rimorso. Il suo gesto equivaleva dunque a una piena confessione e per questo doveva essere processato e punito. Ai figli era concessa la possibilità di evitare la damnatio memoriae del padre se riuscivano a dimostrare che si era suicidato per il terrore.Dopo tutto, la tortura poteva uccidere tanto i colpevoli quanto gli innocenti. Ma questi – è detto in una delle guide dell’inquisitore – andranno comunque in paradiso”.
L’Inquisizione era il modello operativo di una lunga tradizione di organizzazione dell’immaginario della salvezza. Si proponeva di salvare le anime attraverso l’imposizione di un’autorità definita “divina”, di un potere di definizione che era al di sopra di ogni altro potere.
Con la confessione, la Chiesa si assumeva il compito e, per la sua definita origine “divina”, il dovere di gestire, giudicare il mondo interiore dei fedeli con premi e castighi per le loro pulsioni e comportamenti.


L’invenzione del Purgatorio


Con il Purgatorio fu ridisegnata la mappa antropomorfica dell’aldilà e riconfermato il potere papale della mediazione. Le indulgenze, quel formidabile moltiplicatore economico che la Controriforma regolò su solide basi amministrative, furono dedotte, anch’esse, dal potere di sciogliere e di legare nell’aldiquà e nell’aldilà, in tutti e due i sensi.
Grazie alla deduzione del Purgatorio, superba “invenzione” che dava un ordine “certo” alle angosce e alle speranze dell’immaginario collettivo, Bonifazio VIII, primo Jiubilee maker, poté riaffermare la supremazia papale. Tra l’auctoritas e il perdono c’éra pur sempre la scappatoia del Purgatorio.
Nel 1335 in Piemonte, all’Inquisitore che li interroga, i valligiani valdesi, che poi furono tutti impiccati o bruciati, risposero che nell’altra vita si aspettavano solo l’inferno o il Paradiso e che il purgatorio è qui sulla terra.
A chi è rivolto il perdono che chiede oggi l’autorità papale, e da chi sarà accolto? Dai valdesi impiccati e bruciati perché non credevano nel Purgatorio in cui la Chiesa cattolica insegna a credere ancora oggi, oppure dallo stesso Dio in nome del quale quella auctoritas sterminava gli eretici?
E come farà l’auctoritas papale a chiedere perdono per conto dei suoi grandi Santi Inquisitori, per i Papi delle Crociate nella notte di san Bartolomeo e così via, pur continuando a venerarli come Santi?
Forse, nel tripudio giubilare, l’auctoritas papale dovrà accogliere la sua propria richiesta di perdono con la solenne promessa di non accendere più roghi. Chissà che non avessero ragione i Valdesi affermando che il Purgatorio è qui in questa vita.

Lettera Internazionale 64
(2° trimestre 2000)

Vittime dell'intolleranza: gli anniversari del 2000

1600-2000 :400° del rogo del frate filosofo eretico GI0RDAN0 BRUNO arso vivo il 17 febbraio 1600 a Roma in piazza Campo de' Fiori per ordine della santissima romana Inquisizione.

1500-2000 :500° del rogo di tre presunte streghe arse vive a Saragozza per ordine dell'Inquisizione spagnola

1450-2000 :550° del rogo del medico eretico fiorentino Giovanni de' Cani colpevole solo di alcuni reati di opinione per lo più di carattere anticlericale

1300-2000 :700 ° del rogo dell'eretico Andrea di Ferrara arso vivo in una località imprecisata dell'Emi1ia

1200-2000 :800° dei roghi di Troyes in Francia, otto eretici "pubblicani" sono arsi vivi, cinque uomini e tre donne. Non credevano nel purgatorio, ne alla divina provvidenza, né alla gerarchia ecclesiastica di cui respingevano tutti gli scritti

1100-2000 :900 ° del rogo di un medico eretico greco di nome Basi1io. Fu bruciato vivo spettacolarmente nell'ippodromo di Costantinopoli in quanto rimase fermo nella sua fede proclamando1a a gran voce. Apparteneva alla setta dei Bogomi1i (da Bogomil=amico di Dio in lingua bulgara)


Santa Inquisizione alla sbarra. Con prudenza

Di David Gabrielli

Le ombre (o le luci?) dei tempi in cui la Chiesa cattolica romana usava il rogo per punire chi negava la (sua) verità è stato il tema del Simposio internazionale su "L’Inquisizione" organizzato in Vaticano – 29-31 ottobre 1999 – dal Comitato centrale del Grande Giubileo, presieduto dal card. Roger Etchegaray, e dalla Commissione teologico-storica dello stesso organismo, presieduta dal domenicano p. Georges Cottier. All’incontro, svoltosi rigorosamente a porte chiuse (ma saranno pubblicati gli atti), hanno preso parte una sessantina di persone: storici di vari paesi, teologi di università pontificie, curiali, più esperti invitati.

ALL’INIZIO FU IL PAPATO

Secondo la Tertio Millennio Adveniente (TMA) – la lettera apostolica del 10 novembre ’94 con cui papa Wojtyla avviava la preparazione del Giubileo – nel 2000 i cristiani dovranno "pentirsi" soprattutto per la "acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e perfino di violenza nel servizio della verità". In questa luce, il Comitato centrale del Giubileo ha organizzato due simposi. Un anno fa, su "Le radici dell’antigiudaismo nell’ambiente cristiano", sviluppatosi poi nel documento vaticano Noi ricordiamo: una riflessione sulla "Shoah" (16 marzo ’98: vedi Confronti 5/98), criticato da molti ebrei; e, ora, su "L’Inquisizione". Introducendo i lavori, Etchegaray ha detto: "Se per alcuni studiosi l’uso del termine "inquisizione" al plurale rispondeva ad una semplice esigenza di classificazione, non si può ignorare che per altri esso ha rappresentato un argomento di carattere apologetico per addossare al solo potere laico la responsabilità dell’operato dei tribunali iberici. È stato proprio per sgomberare il campo da qualsiasi equivoco" che si è voluto Inquisizione, al singolare, come tema del Simposio. Infatti, seppure l’Inquisizione ha usato "modelli organizzativi differenziati, dal suo sorgere (sec. XIII) alla sua scomparsa, essa è stata una sola", perché anche i poteri inquisitoriali riconosciuti alla Corona spagnola e portoghese lo furono, "in forma espressa o tacita, dal papato stesso, e perché ecclesiastica fu la giurisdizione esercitata dagli inquisitori nei processi in materia di fede". Cottier ha sottolineato che non si può giudicare la storia con il senno di poi; ma "la considerazione delle circostanze attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto (TMA)... Tocchiamo qui un difficilissimo problema teologico, quello della relazione della Chiesa, che è santa, con i peccati dei suoi figli". Agostino Borromeo, presidente dell’Istituto italiano di studi iberici, ha fatto la storia dell’Inquisizione (dal latino inquisitio, ricerca dei "delitti contro la fede"). Mentre nell’alto Medio Evo "l’eretico" veniva colpito con pene materiali (fino all’esilio) e spirituali (scomunica), dopo che si diffondono "ampi movimenti ereticali collettivi, quali quelli dei catari o dei valdesi, la Chiesa è posta dinanzi alla necessità di ricorrere a più efficaci strumenti di lotta contro ogni forma di eterodossia. La creazione dei tribunali dell’Inquisizione rispondeva a questa esigenza. Nel vincolare gli inquisitori all’applicazione della procedura inquisitoria, il papato finì con il recepire anche la relativa normativa laica, in particolare quella che stabiliva l’equiparazione dell’eresia con il più grave delitto previsto dalla legislazione civile, il delitto di lesa maestà, e quella che stabiliva la pena di morte sul rogo per gli eretici. Nel 1252, Innocenzo IV autorizzò l’uso della tortura, procedimento già in uso nei tribunali laici".

Con la progressiva scomparsa dei grandi movimenti ereticali – ha aggiunto Borromeo – l’Inquisizione si attenua; poi, però, riacquista vigore: i sovrani spagnoli nel 1478 ottengono da papa Sisto IV l’autorizzazione a designare inquisitori per reprimere i conversos, ebrei solo apparentemente convertiti al cattolicesimo. Poi anche il Portogallo nel 1547 ottiene la "sua" Inquisizione da Paolo III. Lo stesso papa, "cedendo alle pressioni di quanti, nella Curia romana, seguivano con preoccupazione il diffondersi nella penisola delle dottrine protestanti, già nel 1542 aveva istituito una speciale commissione cardinalizia permanente, più tardi conosciuta con il nome di Congregazione dell’Inquisizione o del Sant’Uffizio". Negli stati italiani l’Inquisizione fu abolita durante il ’700, in Portogallo nel 1821, in Spagna nel 1834. "A partire da quell’anno, del precedente apparato inquisitoriale rimase attiva soltanto la Congregazione romana del Sant’Uffizio. Sulla sua attività e sulle sue procedure durante il secolo XIX e la prima metà del XX siamo poco e male informati". Con Paolo VI, nel 1965, il nome del Dicastero divenne Congregazione per la dottrina della fede.

LA DATA FATIDICA: 8 MARZO DEL 2000

Quante le vittime dell’Inquisizione? Alcuni dati forniti da Borromeo: per l’Inquisizione spagnola, "tra il 1540 e il 1700, su un totale di 44.674 casi, il numero degli accusati effettivamente mandati sul rogo corrisponde all’1,8%, al quale va aggiunto l’1,7% di condannati a morte in contumacia... Dei primi mille imputati che comparvero dinanzi all’Inquisizione di Aquileia-Concordia (Veneto) dal 1551 al 1647, non più di 5 furono condannati al rogo. Su 13.255 processi celebrati dall’Inquisizione portoghese tra il 1540 e il 1629, le condanne a morte rappresentano il 5,7%". Insomma, sarebbe una "leggenda nera" attribuire all’Inquisizione molti milioni di vittime. Parlando al consesso, papa Wojtyla ha detto che, prima di pronunciare la "richiesta di perdono", il Magistero ecclesiale deve essere "esattamente informato circa la situazione (del tempo dell’Inquisizione). Esso non può appoggiarsi sulle immagini del passato veicolate dalla pubblica opinione, giacché esse sono spesso sovraccariche di una emotività passionale che impedisce la diagnosi serena ed obiettiva". Parole sorprendenti. Infatti, già Lutero diceva: "è contro la volontà dello Spirito che gli eretici siano bruciati", ma Leone X nel 1520 condannò questa tesi. E, se in passato taluni hanno esagerato il numero delle vittime dell’Inquisizione, e seppure si ammetta che essa fu "meno crudele" dei poteri laici, una cosa è certa: il Tribunale, in nome di Dio e per volontà papale, ha processato, torturato e mandato al rogo migliaia di "eretici". Dov’era, allora, la "difesa della vita"? E dove il carisma – rivendicato dai successori di Pietro, e da nessun altro al mondo – di essere "infallibili", quando parlano ex cathedra, anche in materia di costumi? Ma far appiccare il rogo (fosse pure uno solo), e benedire questa eretica ortoprassi contro l’uomo, non significa bruciare le fondamenta dell’etica e nel contempo, in realtà, anche il rivendicato carisma?

Questo è il nodo irrisolto della "richiesta di perdono" preannunciata da papa Wojtyla, e che dovrebbe culminare nel grande "mea culpa" previsto durante il Giubileo, l’8 marzo del 2000, mercoledì delle ceneri. Un nodo teologico, storico ed ecclesiale che divide il Sacro Collegio – scisso tra pochi "colpevolisti" e molti "innocentisti"; tra chi vuole, e chi no, pentirsi per le repressioni oggi in atto nella Chiesa cattolica e per gli errori che oggi essa compie – e dunque incomberà sul prossimo conclave, quale cartina di tornasole che chiarisce come ogni "papabile" intenda il "pentimento": riforma, o abile cosmesi, della Chiesa romana?


Articolo tratto dal sito "La strega del Biferno"

La «Santa Inquisizione» e le Streghe

IL MANUALE PER CACCIATORI DI STREGHE

Il Malleus maleficarum, pubblicato nel 1486, fu il più popolare fra i manuali per cacciatori di streghe durante il XVI e XVII secolo. La sua stesura si deve a due frati tedeschi, Jacob Sprenger e Heinrich Kramer, persecutori d’eretici.

Il Malleus forniva un avallo teologico alle superstizioni più grottesche e portò alla tortura e alla morte di migliaia di innocenti, soprattutto donne.

Alle streghe si attribuiva un forte influsso sulla sessualità, e spesso le si riteneva responsabili di causare infatuazioni inopportune, impotenza e sterilità.

Per cementare il loro patto con il diavolo, esse dovevano sovente avere rapporti sessuali con lui, mangiare bambini e fabbricare unguenti con i loro resti. Una volta stipulato il patto, i gesti magici della strega, erano un segnale per il demonio, che faceva accadere l’evento sottinteso. Il demonio era a disposizione della strega in ogni occasione.

Le streghe accusate di malefici venivano di solito torturate finché confessavano, ma il Malleus raccomandava anche che le confessioni fossero estorte con promesse di clemenza che, però, venivano poi invariabilmente disattese.

IL LIBRO NERO DELLE STREGHE

I manuali di magia, erano letti non solo durante il Medio evo, ma anche nel XVI e XVII secolo. Essi si proponevano di istruire il lettore su come invocare i demoni senza perdere l’anima e su come usare i nuovi poteri acquisiti per assicurarsi ricchezza, potere o vendetta.

I manuali fornivano precise indicazioni per disegnare cerchi magici, per l’uso di amuleti e talismani, per i sacrifici di animali, per la pratica dell’astinenza sessuale, per il modo corretto di fare il bagno in vista dell’incontro con le schiere diaboliche. La maggior parte dei manuali, rivendicava la propria antichità, e in effetti molti si rifacevano a famosi testi greci, egizi, ebraici e latino.

Per molti è difficile prendere sul serio i manuali sulla stregoneria, poiché le pratiche diaboliche che vi sono descritte appaiono più ridicole che terrificanti. Eppure, ancora oggi ci sono persone ingenue e sprovvedute che si rivolgono ai manuali, che vengono tuttora scritti e pubblicati.

STREGONERIA A WARBOYS

Il villaggio di Warboys trae fama da uno dei più straordinari casi di stregoneria, verificatosi in Inghilterra. Tutto ebbe inizio nel novembre 1589, quando Jane Throckmorton, figlia decenne di genitori benestanti, si ammalò: starnutiva, cadeva in trance "e la pancia le si gonfiava, sollevandola al punto che non si riusciva a riportarla giù". A nulla servirono le medicine.

Fra coloro che andava a trovare la bambina, c’era una vicina di casa, tale Alice Samuel, in sua presente, Jane peggiorava e gridava che Alice era una strega. Nel giro di due mesi, anche le quattro sorelle di Jane si ammalarono e accusarono gli stessi sintomi. Anch’esse davanti alla vicina peggioravano e dicevano che era una strega, ma questa respinse le accuse dicendo che erano stupidaggini.

La storia giunge all’orecchio della moglie del signore del paese, lady Cromwell, la quale convocò Alice, la quale negò ogni addebito. Poco tempo dopo Lady Cromwell accusò attacchi convulsivi e di lì a un anno morì. Le bambine, intanto, si dicevano tormentate da una "cosa" mandata da Alice.

I genitori pregarono la donna di ammettere la sua colpevolezza, affinché le figlie potessero guarire ed ella, nell’interesse delle bimbe, fece una specie di confessione. Subito le bimbe migliorarono, ma in seguito la donna, rendendosi conto del pericolo che correva, ritrattò, definendo i fenomeni puri e semplici capricci infantili.

Alla fine, nel 1593, Alice fu arrestata e impiccata insieme al marito e la figlia. I disturbi delle bambine cessarono, ma furono in molti a chiedersi se realmente giustizia era stata fatta o se le accuse erano false.

I FRIULANI CONTRO LE STREGHE

Tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo, in Friuli, si formò la compagnia dei cosiddetti "benandanti". I benandanti erano scelti fra i cosiddetti "nati con la camicia", ossia con la membrana amniotica in cui talvolta sono avvolti i neonati; essa era considerata una specie di ponte, che l’anima poteva utilizzare per passare dal mondo reale a quello degli spiriti.

Costoro, d’adulti, sarebbero stati visitati in sogno da un angelo, che li avrebbe chiamati a combattere.

Le battaglie dei benandanti erano un’esperienza spirituale collettiva: mentre il loro corpo giaceva a letto in stato di trance, il loro spirito cavalcava contro le streghe, anch’esse presenti solo in spirito. Se all’alba, lo spirito non rientrava nel corpo, avrebbe vagato finché questo non andava incontro alla morte.

Viaggi extra corporei di questo tipo, secondo gli antropologi, sono ancora praticati dagli Shona nello Zimbabwe e in qualche altra parte dell’Africa e dell’America. Nel volgere di un secolo, sotto la pressione degli inquisitori, avvenne spontaneamente l’assimilazione dei benandanti alle streghe stesse, e i loro convegni notturni si trasformarono in orge e festini sacrileghi.

IL VODOO

Originariamente vudù nel linguaggio del Dahomey e di Togo, significava "dio, spirito, oggetto pieno di potere. Il vudù si pratica invocando gli dei e gli spiriti, dai quali sono posseduti i sacerdoti, e questo consente ai fedeli l’accesso alla loro protezione, alle cure e alla divinazione.

I fedeli vengono a conoscenza della causa delle loro sventure, e dei mezzi per neutralizzarla. Fra questi vi sono i gris-gris, sacchetti pieni d’erbe, oli, capelli, ossa frammenti d’unghia, pezzi di stoffa intrisi sudore e così via. Gli zombie, sono un aspetto particolare del vudù. Si crede che siano morti privi d’anima fatti vivificare per magia, oppure anime senza corpo.

Ma il vudù non ha solo connotazioni sinistre. New Orleans rivendica una quantità di re e regine vudù, la più famosa delle quali e Maria Laveau, una mulatta amata per i sui numerosi atti di bontà, che fecero dimenticare a molti il lato più oscuro del suo culto, che includeva sacrifici di animali e lancio di maledizioni.

I SEGNI DELLA STREGONERIA

Demoni minori erano assegnati dal diavolo alle streghe come servi, e di solito assumevano sembianze di gatti, cani, rospi, civette o topi, ma mai di colombe o di agnelli bianchi. I demoni-servi potevano cambiare aspetto a piacimento, se per esempio, la loro padrona era chiusa in una stanza, essi si trasformavano in minuscoli insetti per raggiungere lo speciale capezzolo – segno della strega – da cui succhiavano il sangue.

La scoperta di questo segno, era fondamentale per accusare una donna di stregoneria. A tal fine, cicatrici, verruche e nei erano guardati con sospetto. In Spagna il segno doveva trovarsi nell’occhio sinistro; in Inghilterra su un dito; nell’Europa centrale nelle parti intime, specialmente nella donna; altro segno inconfondibile era la croce sulla pianta dei piedi.

I cacciatori di streghe esaminavano i corpi degli accusatori e sottoponevano il "segno" alla prova, pungendolo con uno spillone: l’assenza di dolore o di sangue confermava il patto con il diavolo. Un vero specialista di questo metodo era il famoso Hopkins, che con i suoi assistenti, eliminò almeno 230 persone fra il 1645 e il 1646. Usava probabilmente aghi retrattili , che simulavano la puntura ritraendosi nel manico.

STREGHE VOLANTI

Nel 1609, durante una caccia alle streghe a Pays de Labourd, nella Francia, l’inquisitore Pierre de Lancre ottenne una confessione straordinaria. Sotto tortura, la diciassettenne Maria Dindarte affermò che la notte del 27 settembre si era spalmata un unguento e aveva preso il volo. Molti, durante il Medio evo, credevano che certe donne cavalcassero bestie.

Per anni la chiesa deplorò tali credenze, imponendo penitenze; poi cambiò atteggiamento. Nel XVII secolo, papa Alessandro IV stabilì che l’eresia era implicata nella stregoneria e dal XVI secolo chi negava l’esistenza delle streghe che volavano di notte poteva essere condannato per stregoneria. I siciliani, credevano che il giovedì notte, le streghe abbandonassero il proprio corpo nel letto, e si recassero in volo nell’oscurità per danzare e far festa con le anime dei morti.

Secondo la chiesa questi viaggi notturni erano opera di satana. Nel corso del XVI e del XVII secolo molte donne confessarono di recarsi in volo ai sabba, e anche qualche uomo fu trasportato. A poco a poco, i mezzi di trasporto inclusero sedie, pale, bastoni, e scope spalmate di belladonna, aconito, cicuta e altre piante velenose. La sostanza oleosa degli unguenti, si diceva fosse ricavata dal grasso bollito di bambini non battezzati, rapiti o esumati dalle tombe. Oggi si ritiene che i voli fossero frutto di allucinazioni prodotti dall’assunzione di droghe, oltre che di sbrigliata fantasia.

Nel 1558, lo scienziato e letterato napoletano Giambattista della Porta osservò una strega che, dopo essersi spalmata un unguento, cadde in trance; svegliatasi, affermò di aver volato, benché egli non avesse visto il corpo muoversi. Nel 1527, Avellaneda, inquisitore della regione basca, poco prima della mezzanotte di un venerdì, mandò alcuni uomini in una locanda per torturare una strega.

La donna fu portata in una camera e "si unse come al solito con un unguento velenoso, e andò a una finestra posta in alto, chiese aiuto al diavolo, che venne, la prese e la portò a terra". Uno degli uomini, terrorizzato, invocò il nome di Cristo, al che la strega e il diavolo sparirono. Qualche giorno dopo la strega fu catturata in un’altra città.

UN’EPIDEMIA DI STREGONERIA

Le autorità svedesi furono colte in contropiede quando, a Mora, il 5 luglio 1668, il quindicenne Eric Ericsen, accusò la diciottenne Gertrud Svensen di rapire bambini per conto del diavolo. I bambini raccontarono tutti la stessa storia: il diavolo, aveva promesso di ammettere le streghe ai suoi sabba, a condizioni che portassero con sé i propri figli e quelli dei vicini.

Al Blocula – un bel prato, il cui ingresso era noto solo al demonio e ai suoi accolti – le streghe firmavano con il loro sangue il registro degli ospiti del diavolo, venivano battezzate nel suo nome e gli giuravano obbedienza. Dopodiché gli adulti festeggiavano, mentre i bambini stavano in piedi contro un muro. Seguivano musiche e danze, e ogni strega, a turno, si abbandonava a intimi sollazzi con il maligno. Si credeva a qualsiasi accusa, per quanto assurda.

Se un bambino accusava una donna, la si arrestava, credendo che i bambini non siano capaci di mentire. Furono identificate 70 streghe: 23 confessarono e furono arse vive; le altre 47 furono mandate nella vicina Falun, dove anch’esse furono bruciate.

I bambini accusarono anche alcuni loro compagni e 15 di questi furono bruciati, altri 40 dovettero correre fra due file di uomini armati di fruste, e in seguito furono frustati sulle mani una volta la settimana per un anno intero. L’incredibile assurdità delle accuse, l’orribile tributo di morti e la spietatezza dei castighi, fanno della psicosi delle streghe di Mora un terribile esempio di dove possa portare la credulità male indirizzata.

I SABBA DELLE STREGHE

Era opinione comune che i sabba fossero occasioni importanti, in cui le streghe incontravano il diavolo per adorarlo, riceve istruzioni e abbandonarsi a orge di ogni genere. Migliaia di donne affermano di avervi preso parte, quando stavano invece dormendo nei loro letti. Le confessioni venivano estorte con la tortura.

Alcune donne confondevano le proprie fantasie e paure con la realtà, altre volevano vendicarsi di qualcuno. Spesso un’imputata era costretta a denunciare altre partecipanti al sabba. Le descrizioni di ciò che vi accadeva erano molto varie, ma la sostanza era abbastanza costante. Le streghe si recavano al sabba con il favore della tenebre, con mezzi dei trasporto magici, spesso a cavallo di manici di scopa. Giuravano fedeltà al diavolo, riferivano sulle loro attività malefiche, poi banchettavano, danzavano e si abbandonavano a licenziosità di ogni genere.

Pierre de Lancre, il grande cacciatore di streghe francese dell’inizio del XVII secolo, riportò molte descrizioni di feste orgiastiche nelle province basche. Lì le streghe praticavano anche il vampirismo sui bambini, violavano le tombe e divoravano i cadaveri. Altrove predominavano il sacrilegio e la bestemmia: le ostie venivano profanate in tutti i modi possibili. Si riteneva che il sabba si svolgesse regolarmente il 31 ottobre, il 30 aprile e ognuna delle quattro festività pagane che erano assorbite nel cristianesimo. Il numero dei partecipanti era lasciato alla fantasia dei cacciatori di streghe.

LE STREGHE DI SALEM

Una delle più grandi esplosioni di isteria collegata alla stregoneria, fu quella degli intorno al 1690, a Salem, nel Massachusetts. Il famoso processo per stregoneria a carico di 141 persone ebbe inizio nel 1692, dopo che alcune ragazzine del villaggio cominciarono inspiegabilmente a gemere e a urlare, sostenendo di essere state stregate da alcune donne del posto.

Gli inquisitori accolsero la tesi che il demonio si servisse di gente cattiva per far del male ai buoni e che, per proteggere i suoi malefici aiutanti, egli creasse fantasmi di costoro in modo che, mentre i cattivi tormentavano le vittime, le loro immagini comparivano altrove, occupate in attività innocenti. Fattore che vanificava ogni alibi difensivo. Durante questa parodia di giustizia vennero impiccate 19 persone. L’ultima sentenza capitale fu eseguita nel settembre del 1692.

A creare questa atmosfera di panico aveva contribuito in gran parte Cotton Mather un eminente prelato. Infatti, quando il caso di Salem cominciò a smorzarsi, fu Mather a servirsi di Margaret Rule per riaccendere l’interesse. Oltre ad altri comportamenti anomali, ella aveva avuto un attacco di convulsione nella chiesa di Mather, che aveva subito diagnosticato una possessione diabolica e fatto pressione sulla ragazza perché denunciasse le streghe sfuggite ai processi.

Ma, la ragione prevalse e si evitò un’altra ondata di isterismo. Quattro anni dopo i processi di Salem, i giurati firmarono una confessione in cui dichiaravano di essersi sbagliati, chiedendo perdono.

VITTIMA DI UN INCANTESIMO

Fatti straordinari cominciarono ad accadere il 22 agosto 1696 a Christian Shaw. Questa bambina di 10 anni, fu colta da strane crisi, durante le quali perdeva la vista, o l’udito. Altre volte il suo corpo si contorceva e si irrigidiva, o si piegava all’indietro fino ad appoggiarsi al suolo con i piedi e la nuca.

Poi parlava con persone che nessun altro, nella stanza, vedeva, o veniva sbatacchiata contro le pareti e volava per i corridoi senza toccare terra. Sentiva dolori terribili in alcune parti del corpo, su cui apparivano ferite da pugnale e segni di morso. Vomitava ciuffi di capelli, manciate di paglia, fieno sporco di letame, cenere, spilli ricurvi e ossi di pollo.

Ma in quelle crisi la bambina coinvolse 26 persone, facendo i nomi e raccontando di averle viste prendere parte a riti e danze con un uomo in nero, che ella affermava essere il diavolo, il quale, diceva, tentava di farle rinnegare i voti battesimali. Pur riluttanti, i religiosi chiesero che le 26 persone fossero arrestate per stregoneria. A ogni arresto, i dolori e i tormenti che Christian aveva collegato a quella particolare persona, cessavano. I processi agli imputati ebbero inizio nel marzo del 1697.

Alcuni furono dichiarati colpevoli e impiccati, altri furono rilasciati per mancanza di prove; i restanti rimasero in prigione e ne uscirono qualche anno dopo. In quanto a Christian, non si trovò altra spiegazione che la stregoneria per i suoi disturbi e per la loro scomparsa non appena i processi ebbero inizio.

NOSTRADAMUS

Michel de Notredame, noto con il nome latinizzato di Nostradamus, nasce in Provenza nel 1503. Studiò medicina a Montpellier, curò con coraggio e disponibilità molti appestati. Verso il 1524, sposò una donna bella e ricca, dalla quale ebbe due figli. Purtroppo, la peste uccise tutta la sua famiglia.

Il suo interesse per la magia e l’occultismo lo portò a viaggiare in lungo e in largo e la sua fama di veggente si diffuse molto presto.

Era in Italia quando avrebbe incontrato un monaco e si sarebbe inginocchiato davanti a lui, chiamandolo "Sua Santità".

Circa 45 anni dopo, il monaco sarebbe diventato papa Sisto V.

Nel 1554 si risposò con una ricca vedova, che gli diede sei figli, e l’anno dopo iniziò a pubblicare le sue profezie.

Per le sue divinazioni, Nostradamus usava un metodo antico: di notte, guardava in una ciotola d’acqua posata su un tripode di ottone, finché l’ispirazione non s’impossessava di lui: allora, udiva e vedeva gli eventi futuri.

I pronostici venivano espressi in quartine che, a gruppi di 100, formano le Centurie, eccetto la settima centuria, che ne comprende 42.

L’ordine cronologico è deliberatamente confuso, ma molte quartine sembrano confermare eventi verificatisi nella realtà.

Sembra che Nostradamus abbia predetto il destino di Napoleone; la rivoluzione americana e la guerra di secessione; l’abdicazione di Eduardo VIII; gli assassini di Abramo Lincoln, John F. Kennedy e Robert Kennedy, il successo, in Iran, dell’ayatollah Khomeini.

Malgrado una così lunga durata della sua influenza, Nostradamus, che credeva che la conoscenza e l’intervento umano permettesse di mutare l’avvenire, sarebbe molto deluso nel constatare quanto poco siano serviti all’umanità i suoi pronostici per evitare i disastri in cui è incorsa.

UN MISTERIOSO MANOSCRITTO

I libri sono, per definizione, destinati a essere letti. Ma questo non è certamente il caso del misterioso " Manoscritto Voynich", che prese il nome da Wilfred Voynich, un libraio antiquario americano, che acquistò la singolare opera nel 1912 da una scuola di gesuiti vicino Roma.

Le sue origini e il suo autore restano ignoti, sebbene esso fosse accompagnato da una lettera del 19 agosto del 1666, di Johannes Marcus Marci, rettore dell’Università di Praga, ad Atanasio Kircher, uno studioso gesuita. Secondo la lettera, il manoscritto era opera dello scienziato del XIII secolo Ruggero Bacone.

Il manoscritto, un volume in ottavo, di soli 15x23 cm, consiste in 204 pagine (altre 28 pagine sono andate perdute), ciascuna piena di disegni a colori e di annotazioni scritte a mano in un codice segreto. Nonostante gli sforzi degli studiosi, non si sa in che lingua sia scritto o cifrato, o quale fosse l’intento del suo autore.

A prima vista si direbbe un erbaio medievale, che descrive la raccolta e la preparazione delle piante medicinali, con numerose mappe astronomiche e diagrammi, il tutto decorato da curiosi piccoli nudi femminili. Ma la maggior parte delle piante illustrate è immaginaria, una flora di pura invenzione.

Quando la vedova di Voynich morì a 96 anni, nel 1960, il manoscritto fu acquistato da un altro libraio antiquario, che lo donò alla biblioteca dell’Università di Yale nel 1969, dove si trova tuttora, con i suoi segreti mai letti, in attesa di essere tradotti da qualche futuro scrittografo.


Di Filippo Gentiloni

Le Crociate di ieri, quelle di oggi

Il 15 luglio 1099, esattamente nove secoli fa, i crociati entravano in Gerusalemme e conquistavano i "luoghi santi". Immersi come siamo in un mare di celebrazioni giubilari – anniversari, centenari, millenari – forse è bene non dimenticare anche questo compleanno. Sia perché questa "madre" ha dato poi vita ad una serie infinita di crociate, più o meno eroiche e sanguinose; sia perché quella conquista di novecento anni fa ha determinato e condizionato, per secoli, i rapporti fra Oriente e Occidente, fra cristiani e "barbari". E ha fortemente condizionato anche il nostro modo di essere cristiani.

"Dio lo vuole" tuonava Pietro l’Eremita. Ma, chissà se lo voleva veramente? E se quei luoghi erano veramente così "santi"? Non aveva forse detto Gesù che i "veri adoratori" avrebbero adorato non più su monti o colli "santi", ma dovunque? E tutto quel sangue non ha contaminato e resa infetta per secoli la tradizione cristiana? Sangue che davvero – come qualcuno aveva detto molto prima sul Golgota – è ricaduto sui figli e sui figli dei figli. Ricordando quella data, anche chi non è storico di professione non può non porsi alcuni interrogativi che riguardano l’oggi. Come mai, prima di tutto, la forza di questa tradizione crociatesca? Come mai è così scarso il pentimento, è così reticente la vergogna? È vero che è in atto un discreto processo di revisione: ci dicono che le crociate non furono una semplice conquista da parte cristiana, che ebbero motivazioni economiche oltre che ideologiche, che è superficiale vederle come una semplice partita fra vincitori – i cristiani – e vinti, i musulmani; ci dicono soprattutto che dalle crociate ebbe inizio una scambio positivo fra Occidente e Oriente, un reciproco, anche se difficile, colloquio. Tutto vero, ma non basta. Lo stesso termine "crociata" è divenuto un termine comune nel vocabolario cristiano. Purtroppo. Ha indirizzato la storia, sollevando muri e barricate, alzando bandiere sui pennoni più alti, determinando atteggiamenti. Ha scavato fossati fra il bene e il male, fra il vero e il falso. Fossati profondi, da superare soltanto – se possibile – sparando, emarginando, escludendo, se necessario uccidendo. Infedeli, ma anche eretici e scismatici. La verità lo esige, Dio lo vuole. Siamo asserragliati all’interno di una fortezza, come, allora, i cristiani in quella di San Giovanni d’Acri. Il modello "crociata", inaugurato nove secoli fa, regge ancora.

Come mai? Chiederselo significa celebrare correttamente il nono centenario di quel "glorioso" 15 luglio 1099. Lo spirito "crociatesco" si alimenta di alcuni concetti che sorreggono come pilastri l’edificio di molte fedi religiose, fra cui quella cristiana. Due fra i pilastri incriminati sono essenziali: verità e identità. Reggono l’edificio, spingono a partire per le crociate, oggi come nove secoli fa.

Da una parte la sicurezza che gli altri stanno nel torto e che quindi la crociata è per il loro bene. Porta non tanto sangue e dolore quanto luce e bene. Dall’altra l’identità che significa gruppo, compattezza, unione, solidarietà. Anche, se volete, chiesa. Bene identificato e saldo nel vero, il gruppo guidato dal Goffredo di Buglione di turno parte verso la conquista di una terra che, se non era già "santa", ora lo può divenire. Non è una ricostruzione fantastica: è una parte consistente della nostra storia di ieri e della nostra realtà di oggi.

Ricordiamo la crociata del 1099 perché vogliamo una fede senza crociate. Non una negazione della verità e non un appiattimento di tutte le posizioni in una informe marmellata. Una verità dialogica, in cammino, che vive non delle battaglie ma del confronto. Una verità che "si fa" nell’amore, come dice un famoso testo biblico. E così per l’identità che non si deve negare, ma che vive e si struttura nella conoscenza e nel confronto con l’altro che mi fa essere me stesso. Non una identità Narciso, non una verità ingessata. È la sfida che attende nel secolo XXI tutte le fedi.


Una Chiesa di martiri. Cause delle persecuzioni. L’IMPORTANZA DELLE CATACOMBE

 

Di Giovanni Del Col
Direttore delle Catacombe di San Callisto

Dopo una visita virtuale o reale alle catacombe cristiane di Roma, la lettura di libri e la visione di videocassette su di loro viene spontaneo chiedersi: qual è l’importanza delle catacombe cristiane di Roma sotto l’aspetto storico-archeologico e quale sotto l’aspetto religioso-spirituale? La prima e più immediata impressione è che le catacombe sono la prova storica che la Chiesa delle origini fu una Chiesa di martiri. I martiri furono moltissimi e le catacombe ne conservano la testimonianza. In questa traccia ci proponiamo di approfondire l’argomento sul numero dei martiri romani, sul significato e valore del martirio, sulle cause delle persecuzioni e sul loro svolgimento.

Un altro aspetto dell’importanza delle catacombe è la loro testimonianza sulla vita della Chiesa primitiva, sulla continuità della nostra fede con quella dei primi secoli, sulla loro spiritualità e sull’attrattiva che le Catacombe hanno esercitato sui cristiani nel corso dei secoli.

Quanti furono i martiri?

Non ne conosciamo il numero esatto. Gli storici ritengono che furono approssimativamente alcune migliaia; gli Atti dei Martiri, che sono i protocolli giudiziari dei processi ai cristiani, ci hanno conservato il ricordo di tanti martiri, ma non possiamo trarre da loro una lista completa dei martiri.

Secondo Tacito, nella grande persecuzione scatenata da Nerone, essi furono una "ingens multitudo". S. Clemente Romano parla di "una grande moltitudine di eletti". Il martirologio Geronimiano ne enumera ben 979. In seguito S.Cipriano scriverà che "il popolo dei martiri fu incalcolabile"("martyrum innumerabilis populus"). Più ancora che negli scrittori cristiani del tempo noi troviamo la testimonianza dei martiri nelle catacombe, cui era legato lo stesso culto dei martiri.

Accenniamo brevemente ai martiri più conosciuti delle catacombe romane aperte al pubblico. Nella sola catacomba di S. Callisto furono sepolti ben 46 martiri, conosciuti per nome. Tra questi i papi martiri Zefirino, Ponziano, Fabiano, Sisto II, Eusebio, Cornelio; i quattro diaconi dei papa Sisto II, Santa Cecilia, Santa Sotere, Marco e Marcelliano, Calocero e Partenio, Cereale e Sallustio,Tarcisio,ecc.

A Domitilla i martiri Nerco ed Achilleo; a S. Sebastiano lo stesso titolare della catacomba S. Sebastiano e S. Massimo; a Priscilla i martiri Felice e Filippo, Marcellino papa, Crescenzione, Prisca, Paolo, Mauro, Simetrio e molti loro compagni; a S. Agnese la martire fanciulla e S. Emerenziana. Anche le altre catacombe, situate lungo le vie consolari, conservano il ricordo di numerosi martiri. Ai martiri conosciuti per nome e venerati nella Chiesa dei primi secoli dobbiamo aggiungere il numero certamente molto più grande dei martiri ignoti sepolti nelle catacombe. I martiri appartengono ad ogni categoria d’età, sesso, provenienza sociale, mestiere e cultura. Essi costituiscono modelli per i cristiani di ogni luogo e di ogni tempo. Sono i testimoni di una fede invincibile, di una fedeltà totale a Cristo confermata con l’offerta della propria vita.

Significato e valore del martirio.

Il discorso dei martiri ci fa riflettere sul significato e sul valore del martirio. Martire, dal greco "martire", vuoi dire testimone e indica chi si sacrifica e soffre o muore per un ideale o per una missione. Il termine fu applicato propriamente ai cristiani dei primi secoli che hanno affrontato persecuzione e morte a difesa della fede.

La Chiesa delle origini ebbe tanti martiri da meritare il titolo di "Chiesa dei martiri" e quei secoli di persecuzione furono detti "l’era dei martiri" (Aera Martyrum).

L’importanza e la valenza ecumenica dei martirio nella Chiesa delle origini, come pure nella Chiesa del nostro tempo, è stata fortemente rilevata dal papa Giovanni Paolo Il nella Lettera Apostolica "Tertio Millennio Adveniente": " La Chiesa del primo millennio nacque dal sangue dei martiri "Sanguis martyrum semen christianorum" (Tertulliano). Gli eventi storici legati alla figura di Costantino Il Grande non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della Chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane.

Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri.

Le persecuzioni nei riguardi dei credenti – sacerdoti, religiosi e laici – hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo. La testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti, come rilevava già Paolo VI nella omelia per la canonizzazione dei martiri ugandesi.

È una testimonianza da non dimenticare. La Chiesa dei primi secoli, pur incontrando notevoli difficoltà organizzative, si è adoperata per fissare in appositi martirologi la testimonianza dei martiri. Tali martirologi sono stati aggiornati costantemente attraverso i secoli… Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi "militi ignoti " della grande causa di Dio … Occorre che le Chiese locali facciano di tutto per non lasciar perire la memoria di quanti hanno subito il martirio… Ciò potrà avere anche un respiro e un eloquenza ecumenica. L’ecumenismo dei santi, dei martiri, è forse il più convincente".

LE PERSECUZIONI E LE LORO CAUSE

Lasciando agli studiosi la presentazione storica di questo periodo glorioso della diffusione del Cristianesimo, ci limitiamo qui ad elencare brevemente le varie persecuzioni e i loro responsabili. 1 testi di storia della Chiesa, come quelli specifici sulle persecuzioni, riportano ampie bibliografie alle quali rimandiamo per uno studio approfondito dell’argomento in questione. Fin dalla sua origine il cristianesimo si diffuse rapidamente in tutto l’impero romano, esercitando un fascino irresistibile in ogni classe sociale. Esso infatti proponeva uno stile di vita nuovo, fondato sulla libertà e sull’amore: uno stile che si differenzia radicalmente da quello della società e della religione romana.

La religione cristiana fu totalmente rifiutata dai Romani, posta fuori legge come "strana, illecita, perniciosa, malvagia, sfrenata, nuova e malefica, oscura e nemica della luce, detestabile" e perseguitata, anche se non in una forma continua e generale. Come è possibile che la religione per eccellenza della giustizia e dell’amore sia stata giudicata così duramente e perseguitata sia dagli imperatori e dall’autorità politica come anche dalla gente comune, dai pagani che convivevano con i cristiani?

I primi secoli del Cristianesimo segnano il passaggio dalla civiltà romana pagana alla civiltà cristiana. Le due civiltà si presentano in antitesi nei loro principi, esigenze e giustificazioni. Il processo di transizione si attua attraverso alterne vicende che provocarono urti e resistenze presso gli organi di governo politico, l’imperatore e il Senato e presso le stesse masse popolari. In realtà le persecuzioni sono la manifestazione della lotta del mondo pagano contro la religione cristiana.

La religione cristiana è una religione nuova, soprannazionale, universale, liberatrice. I suoi principi investono tutta la vita dell’uomo e della società. I cristiani infatti sanciscono l’indissolubilità del matrimonio ed esaltano la fedeltà coniugale e il valore della verginità; il culto all’unico Dio, con il rigetto di ogni altra divinità; affermano il principio della libertà e dignità di ogni uomo, rifiutando ogni forma di sfruttamento del prossimo, in particolare della schiavitù che costituiva il necessario supporto della società romana; diffondono la dottrina dell’immortalità dell’anima e della vita futura, oltre la morte; praticano una morale severa, e svolgono un’intensa opera caritativa, specialmente verso i bisognosi e gli schiavi, tale da suscitare il riconoscimento e l’ammirazione degli stessi avversari pagani.

Tutti questi principi di libertà, di eguaglianza, di giustizia, di carità sono valori insoliti e in parte sconosciuti e incomprensibili al modo di pensare e di vivere pagano. La filosofia e la cultura pagana manifestano disprezzo verso la religione cristiana, ritenuta religione di barbari e di incolti. Per confutare l’ingiustizia delle persecuzioni e l’incomprensione della cultura pagana, gli Apologisti scrivono le difese dell’innocenza dei cristiani, della loro fedeltà alle leggi e all’imperatore e della loro partecipazione attiva alla vita della società romana ed affermano il valore della dottrina e dell’ideale di vita cristiani, in sostanza la superiorità della religione cristiana su quella pagana.

Una delle cause principali delle persecuzioni fu appunto il contrasto tra le due religioni pagana e cristiana. La religione cristiana fu quindi considerata come il nemico più pericoloso dell’impero, perché ostacolava la restaurazione delle tradizioni e dei potere di Roma, basato sull’antica religione e sul culto dell’imperatore, strumento e simbolo dell’unità dell’impero. Le persecuzioni hanno quindi un motivo religioso-politico. La religione cristiana è nuova e rivoluzionaria; rifiuta la religione tradizionale di Roma. Per questo il governo romano, generalmente così aperto e tollerante verso le religioni straniere, si dimostrò sovente ostile e intransigente verso la religione cristiana, per la differenza radicale tra la religione cristiana e le altre religioni.

Inoltre le altre religioni erano considerate sostanzialmente come un affare privato, senza importanza sociale e politica. Esse si abbassarono infatti al compromesso, adattandosi al culto ufficiale dell’imperatore. Invece la religione cristiana lo rifiutava decisamente, perché ciò avrebbe costituito un atto di empietà, una negazione di Dio.

Secondo molti studiosi, il fondamento giuridico delle persecuzioni è il Senato-consulto dell’anno 35, quando l’imperatore Tiberio propose al Senato di Roma la "consecratio Christi", cioè il riconoscimento della sua divinità e quindi la legittimità dei suo culto. Il senato romano respinse la proposta e dichiarò la religione cristiana "illecita ". "Non licet esse christianos". Con il suo "veto" Tiberio si oppose all’applicazione del decreto dei Senato. Così il decreto rimase lettera morta fino a Nerone, che per salvarsi dall’accusa di aver incendiato Roma ne scaricò la colpa sui cristiani, accusandoli di praticare una religione nuova e malefica. Sul loro conto furono diffuse tra la gente comune le calunnie più fantasiose ed infamanti, che fomentarono l’odio e il furore popolare. Sono i "flagitia", le infamie vergognose attribuite ai cristiani, pratiche atroci ed oscene.

Travisando mostruosamente la cena eucaristica, i cristiani furono accusati di cannibalismo e di infanticidio; furono accusati di incesto per l’uso di chiamarsi fratelli e sorelle e di darsi il bacio di pace; di ateismo e di empietà perché rifiutavano il culto tradizionale agli dei di Roma; di delitto di lesa maestà (crimen maiestatis) perché non offrivano il sacrificio all’imperatore; di associazione segreta ed illegale, pericolosa per l’impero; di odio contro il genere umano, perché ritenuti la causa delle pubbliche calamità, come la peste, le inondazioni, la carestia, le invasioni barbariche. Difatti i cristiani si rifiutavano di partecipare alle celebrazioni religiose in onore degli dei per placarne la maledizione. Per comprendere la dinamica delle persecuzioni bisogna tenere sempre presente questo atteggiamento ostile delle masse popolari, anche se, in generale, l’atteggiamento del governo romano verso i cristiani fu tollerante e talora benevolo.

STORIA DELLE PERSECUZIONI

Le persecuzioni sono un argomento di studio vasto e complesso, con molti aspetti politici e religiosi che investirono sia la classe dirigente (imperatore, senato, governatori delle province romane), sia gli stessi cittadini. Le persecuzioni costituiscono la difesa a oltranza, in parte utopistica, di un ordine giuridico incapace ormai di garantire la pax romana, la sicurezza e il benessere delle popolazioni dell’impero.

Quante furono le persecuzioni e per quanto tempo durarono?

Fin dall’inizio, al messianismo politicamente rivoluzionario e apertamente antiromano dei Giudei, i cristiani opposero un messianismo senza implicazioni politiche e pacifico; per questo gli organi di governo romani furono neutrali o addirittura benevoli nei confronti della nuova religione, che trovava ascolto e simpatia persino in ambienti della classe dirigente. La svolta decisiva avvenne durante il regno di Nerone (54-68), che accusò i cristiani dell’incendio di Roma, incriminandoli come membri di una "superstitio illicita", formula che richiama la dichiarazione del Senato-consulto dei 35. Pare che questa fosse in sostanza la giustificazione giuridica di tutte le persecuzioni, anche se si aggiunsero altre motivazioni politiche e religiose.

La prima grande persecuzione durò quattro anni, dall’incendio di Roma dei 19 luglio 64 al 9 giugno 68, morte di Nerone.

Seguì un periodo di circa trent’anni di completa tranquillità. Domiziano (81-96), che aveva accentuato il culto dell’imperatore, negli ultimi due anni dì vita scatenò un breve persecuzione.

Nel secondo secolo scoppiò una nuova persecuzione sotto Traiano (98-117), per il divieto di costituire società non permesse (le "eterie").La quarta grande persecuzione avvenne al tempo dell’imperatore Marco Aurelio (161-180), quando l’impero fu funestato da carestie e pestilenze e minacciato dai barbari. Di tutte queste calamità furono accusati i cristiani.

All’inizio del terzo secolo, sotto Settimio Severo (193-21 1) ci furono altri fenomeni di persecuzione scatenati dal furore popolare contro i cristiani dichiarati nemici pubblici e accusati di lesa maestà. Non sembra tuttavia che l’imperatore abbia mai pubblicato un editto di persecuzione. Una persecuzione più di natura politico-personale che religiosa fu poi ordinata da Massimino Trace (235-238), che infierì contro i sostenitori, tra cui molti cristiani, del suo predecessore Alessandro Severo. Nel 244 assunse il potere imperiale il cristiano M. Giulio Filippo (244-249) che nei cinque anni di regno si oppose decisamente agli ambienti più intransigenti del paganesimo e al fanatismo delle folle. Per questo fu da loro odiato e disprezzato come un traditore della religione e della tradizione pagana.

Il suo avversario Decio (249-251) praticò infatti una politica di restaurazione dell’antica religione nazionale romana. Con un editto del 249-250 ordinò a tutti i sudditi dell’impero di offrire pubblicamente un sacrificio propiziatorio ("una supplicatio") agli dei della patria. Una delle prime vittime fu il papa Fabiano. La persecuzione fu breve, ma intensissima e generale.

Il successore di Decio, Treboniano Gallo (251-253), in occasione di una nuova grave pestilenza che devastò tutto l’impero, ordinò sacrifici espiatori (holocausta), ai quali i cristiani non poterono partecipare, scatenando così ancora una volta, come reazione, l’odio e il furore del popolo.

Al tempo di Valeriano (253-260) la persecuzione, da individuale e limitata a determinate regioni, divenne collettiva e generale; cioè il cristianesimo fu perseguitato in tutto l’impero come chiesa, come gerarchia, come struttura. Fu imposta la chiusura degli edifici sacri, la confisca dei cimiteri (editto del 257), la pena di morte per i capi religiosi (vescovi, preti e diaconi); la perdita della dignità e la confisca dei beni per tutti gli altri cristiani (editto del 258).

L’anno seguente la persecuzione cessò sostanzialmente con la cattura dell’imperatore nella guerra persiana (259). La persecuzione fu ripresa in forma violenta e generalizzata da Diocleziano e Galerio agli inizi del IV secolo con gli editti dei 303 e 304, che imponevano la distruzione delle chiese, la consegna dei libri sacri e l’ordine a tutti i cristiani di sacrificare agli dei, pena la condanna a morte.

Con l’editto di tolleranza del 311 e l’editto di Milano del 313 cessarono le persecuzioni e furono concesse alla Chiesa piena libertà di culto e di riunione e la restituzione dei beni ecclesiastici confiscati. La religione cristiana fu così apertamente riconosciuta come "religio licita", ma sarà solo nel 394 che l’imperatore Teodosio I obbligherà il Senato a decretare l’abolizione del paganesimo in tutte le sue forme e da quel momento il Cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’impero romano.

LA VITA DELLA CHIESA DELLE ORIGINI TESTIMONIATA DALLE CATACOMBE

Le catacombe ci fanno rivivere la vita della primitiva Roma cristiana. È vero che le catacombe sono soltanto dei cimiteri, ma esse ci parlano con la testimonianza storica di un patrimonio ricchissimo di pitture, sculture, iscrizioni che illustrano gli usi, i costumi, la vita degli antichi cristiani, la loro cultura, la loro fede. Infatti ogni comunità che vive, necessariamente si esprime e traduce la propria fede in documenti scritti o visivi. I cimiteri, in molte civiltà, sono luoghi dove si "oggettiva" l’interpretazione della vita e della morte. Così, per esempio, la maggior parte di quello che conosciamo della cultura egiziana proviene dalle tombe. Le catacombe non raccontano solo la storia delle persecuzioni, l’olocausto e il culto dei martiri; presentano anche con chiarezza la fede della Chiesa apostolica e dei primi secoli. La visita alle tombe degli Apostoli e alle catacombe, memoriale dei martiri, è un ritorno alle radici, alle sorgenti antiche della fede e della vita della Chiesa dei primi secoli. Le catacombe ne sono la testimonianza storica. Esse sono state giustamente definite "la culla del cristianesimo e l’archivio della Chiesa delle origini" (0. Marchi).

La spiritualità delle Catacombe è cristocentrica, sacramentale, sociale, escatologica, biblica, nuova e trasformatrice. Essa non è solo una documentazione della fede della Chiesa primitiva, ma è uno stimolo forte a rinnovare personalmente la fede e a testimoniarla nella propria vita. I pellegrini, che ogni giorno visitano le catacombe, ne colgono il valore apologetico e ritengono la visita una vera esperienza spirituale. Sono soprattutto i giovani che scoprono il valore religioso delle catacombe. "Le catacombe non mi erano mai piaciute… ora mi mancano". "Di tutti i centri religiosi che abbiamo visto, incluse le grandi basiliche, le catacombe hanno avuto su di noi l’impatto maggiore. La purezza di fede dei primi cristiani, l’offerta totale della loro vita ci ha umiliati… Ci eravamo immaginati un luogo buio e repellente; abbiamo trovato un luogo che irraggia pace e grazia". "La visita ci ha offerto una vera e propria lezione di vita". "Ricorderò le catacombe come la cosa più bella della mia vita". "Sono la cosa più bella che abbia mai visitato". "Alle catacombe ho capito bene tutto il coraggio e l’amore dei Martiri. Nelle cripte dei Papi e di Santa Cecilia ho capito che di fronte al coraggio di quegli uomini e donne tutto quello di cui noi siamo capaci e proprio niente…".

Le catacombe svelano l’intimo segreto della spiritualità della Chiesa dei primi secoli nella sua giovinezza di conquista e di martirio. Questo è il motivo per cui fin dall’inizio si sviluppò il culto dei martiri. 1 cristiani sentirono il bisogno di radunarsi presso le loro tombe per festeggiare la ricorrenza del martirio e invocare la protezione di quei gloriosi campioni della fede.

Milioni di visitatori da ogni parte del mondo, nel corso dei secoli, hanno compiuto il pellegrinaggio alle catacombe cristiane di Roma accolti dai martiri della Chiesa e dagli innumerevoli cristiani che hanno testimoniato la loro fede nella vita di ogni giorno. È interessante notare che molti pellegrini hanno anche firmato la visita, incidendo nell’intonaco delle pareti il loro nome e, talvolta, frasi di invocazione per ottenere la protezione dei martiri stessi. Sono i graffiti che si vedono numerosi vicino alle tombe dei martiri.

I pellegrini vengono da ogni contrada dell’impero, dall’Oriente vescovi illustri come Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Abercio di Gerapoli e semplici fedeli, perché tutti – al dire di S. Giovanni Crisostomo – "guardano a Roma con i suoi due luminari Pietro e Paolo, i cui raggi rischiarano il mondo".

Dai paesi occidentali arrivano pellegrini, fin dalla lontana Irlanda. Sull’esempio di S. Patrizio (5° sec.), che fu creato da Papa Leone primate di quella nazione, schiere di pellegrini affrontano a piedi un viaggio lungo, faticoso e rischioso. Anche dagli altri paesi il flusso dei pellegrini è notevole e costante. Ricordiamo che dai paesi nordici sono soprattutto i missionari apostoli che giungono a Roma per attingere alle tombe sante e dal papa autorità e forza per predicare la fede, riportando talora in patria reliquie di martiri e di santi.

Dal primo giubileo del 1300 le Cronache degli Anni Santi registrano la presenza di folle di pellegrini sempre in aumento, che fanno della visita alle catacombe una meta quasi obbligata del loro itinerario di fede e di devozione.

Tra i pellegrini meritano particolare menzione quelli divenuti santi, come S. Brigida di Svezia ( 14° sec.), S. Filippo Neri e S. Carlo Borromeo (16° sec.), S. Giovanni Bosco, S. Teresa di Gesù Bambino e S. Maria Mazzarello. Commuove pure vedere nei registri di S. Callisto le firme dei moderni testimoni della fede, come il Card. Giuseppe Slipy, martire dell’Ucraina e il card. Giuseppe Mindzenty, primate d’Ungheria.

Il card. Slipy era stato condannato ai lavori forzati in Siberia, nel durissimo carcere di Mordavia, da dove fu liberato per interessamento di papa Giovanni nel 1963. Venuto a Roma visitò le catacombe di S. Callisto, scrivendo che lo faceva "post quadraginta annos miraculosae liberationis" "dopo 40 anni di una miracolosa liberazione".

I 40 anni risalgono agli inizi degli anni 20, quando i comunisti assunsero il controllo dell’Ucraina che divenne Repubblica Sovietica Socialista. "Ho dovuto soffrire – spiegò il Cardinale – di essere arrestato di notte, tribunali segreti, interrogatori interminabili, sorveglianza continua, maltrattamenti morali e fisici, umiliazioni, tortura e fame. Mi sono trovato davanti a inquisitori e giudici perfidi, prigioniero inerme, silenzioso testimone che, fisicamente e psicologicamente esausto, difendeva la sua Chiesa, essa stessa silenziosa e condannata a morte. Prigioniero per la causa di Cristo, trovavo la forza sapendo che il mio gregge spirituale, il mio popolo, tutti i Vescovi, sacerdoti e fedeli, padri e madri, bambini, gioventù militante come vecchi inermi, camminavano al mio fianco. Non ero solo". Sembra di leggere una pagina degli Atti dei Martiri!

Il secondo, arrestato nel 1948, dopo inaudite torture e un processo-farsa, era stato condannato all’ergastolo. Dopo gli anni di prigione e il domicilio coatto nell’ambasciata degli USA a Budapest, appena liberato venne a Roma e visitò di nuovo le catacombe, scrivendo sul registro dei Visitatori illustri: "Plenus consolationibus fidei prim. suae Ecclesiae – pieno di consolazioni per la fede della sua Chiesa delle origini". Schiere di consacrati, personaggi illustri, Re e Regine, Capi di Stato, Autorità civili di ogni rango e di tanti paesi hanno visitato con interesse e con fede le catacombe cristiane di Roma. Ma i pellegrini più illustri sono stati i Sommi Pontefici e questo fin dai primissima secoli dei Cristianesimo, anzi fin dalle origini stesse delle catacombe. Come non ricordare tra i Papi che hanno amato le Catacombe lo stesso Papa Callisto, scelto ancora diacono da Papa Zeffirino quale amministratore e custode del Cimitero ufficiale della Chiesa, le catacombe che da lui presero il nome? E nel 4° secolo il grande papa S. Damaso, che curò, abbellì e illustrò con splendide iscrizioni latine le catacombe di Roma?

Nei secoli bui delle invasioni barbariche i Pontefici assistettero impotenti alla distruzione sistematica dei monumenti, ai saccheggi e alle ripetute devastazione delle catacombe. All’inizio dei 7° secolo, S. Gregorio Magno esclamava: "Ubique mors, ubique luctus, ubique desolatio, undique percutimur, undique amaritudinibus replemur" "Dovunque la morte, il lutto, le desolazioni; da ogni parte siamo percossi, da ogni parte ripieni di amarezze".

I Papi Paolo I, Adriano I, Leone III e soprattutto Pasquale I furono quindi costretti ad ordinare la traslazione dei corpi dei martiri nelle chiese della città, per motivi di sicurezza, per evitare la loro profanazione: nella sola basilica di S. Prassede il 20 luglio dell’817 furono portati ben 2.300 corpi santi. In seguito molti altri furono portati al Pantheon, già dedicato da Bonifacio IV (608-615) al culto della Vergine col nome di S. Maria ad martyres.

Dopo le clamorose scoperte delle tombe dei martiri a S. Callisto, il papa Pio IX istituì la Commissione di Archeologia Sacra (6 -1 -1852) e nel 1854 visitò le catacombe di S. Callisto. Con profonda commozione sostò in preghiera nella cripta dei Papi, prendendo in mano i frammenti delle iscrizioni dei suoi predecessori.

Pio XI e Pio XII nel ministero della parola hanno frequenti riferimenti alle catacombe, gemma che rende bella la Chiesa di Roma. Pio XII così si esprimeva: "La Roma cristiana vive di vita indistruttibile; la sua archeologia è l’archeologia della vita e i documenti di vita cristiana nei suoi primordi e nel suo svolgimento storico, dottrinale, artistico, iconografico, epigrafico e liturgico, alimenta la nostra Chiesa". Giovanni XXIII fu il primo papa dopo Pio IX a visitare le catacombe. Raccontò allora di aver visitato per la prima volta le catacombe di S. Callisto quand’era seminarista al Laterano e gustava le lezioni dell’insigne archeologo Orazio Marucchi. Eletto papa, egli aveva detto: "Voglio venire alle catacombe. Devo venire a pellegrinare e a pregare, come fanno tanti visitatori" e il 19 settembre 1961 il papa poté attuare il suo proposito. La visita – secondo il desiderio del Pontefice – doveva servire di esempio a tutti i fedeli di Roma.

"La storia della Chiesa – disse allora il Papa – è storia di lotta, ma anche storia di trionfi. Noi, persone consacrate, ne siamo a conoscenza più di tutti. Quindi serena fiducia nonostante tutto; Dio è con noi. La Chiesa di oggi trionferà, come ha trionfato la Chiesa delle Catacombe". A sua volta il Papa Paolo VI volle visitare due insigni santuari dei Martiri Romani: le catacombe di Domitilla e quelle di S. Callisto. A S. Callisto il 12 settembre 1965 sostò lungamente in preghiera nella cripta dei Papi e in quella di S. Cecilia, e raccomandò alle guide di aiutare i pellegrini "a intravedere l’umile splendore della primitiva testimonianza cristiana". Infine Giovanni Paolo II già da vescovo (1965) era giunto pellegrino presso le tombe dei Martiri. Eletto Papa, volle che con lui anche i giovani romani rinnovassero i sentimenti di fede meditando sulle tombe dei primi cristiani. Il Papa ha confidato che giovane sacerdote aveva letto "Roma sotterranea" del grande archeologo maltese Antonio Bosio (1575-1629) e che riteneva le catacombe una valida testimonianza storica ed apologetica della Chiesa delle origini.

Le catacombe sono i monumenti archeologia più significativi della Roma cristiana dei primi secoli. "Questi monumenti – ha affermato recentemente il papa Giovanni Paolo II, ricevendo, il 7 giugno 1996, i membri della Commissione Archeologica e i Direttori delle Catacombe – rivestono un alto significato storico e spirituale. Visitando questi monumenti, si viene a contatto con suggestive tracce del cristianesimo di primi secoli e si può, per così dire, toccare con mano la fede che animava quelle antiche Comunità cristiane… Come non commuoversi dinanzi alle vestigia, umili, ma così eloquenti di questi primi testimoni della fede?

"Lo sguardo si proietta ora verso lo storico appuntamento del grande Giubileo, durante il quale le catacombe di Roma assurgeranno a luogo privilegiato di preghiera e di pellegrinaggio. Insieme alle grandi basiliche romane, le catacombe dovranno rappresentare una meta irrinunciabile per i pellegrini dell’Anno Santo"

Già fin d’ora – aveva notato il papa – "le catacombe sono meta significativa di tanti pellegrini che giungono nella Città eterna". Non c’è luogo, infatti, più adatto di questo per riaffermare e testimoniare la propria fede alle soglie del terzo millennio.


Estratti dal libro "La grande Apostasia" di James E. Talmage

La Perdita storica del Vangelo

UNA DICHIARAZIONE DI FONTE CATTOLICA

Molti anni fa, un dotto esponente della chiesa Cattolica Romana venne nello Utah e parlò dal pulpito del tabernacolo di Salt Lake City. In seguito questi divenne amico del fu anziano Orson F. Whitney ed in una occasione ebbe modo di esprimersi liberamente. Questo studioso, che conosceva forse una dozzina di lingue, sembrava conoscere tutto su teologia, legge, letteratura, scienza e filosofia. Un giorno confidò all’anziano Whitney: «Voi mormoni siete tutti ignorantoni. Non vi rendete neppure conto della forza della vostra posizione. Questa è così forte che ne esiste soltanto un’altra di pari forza nel mondo cristiano, e cioè quella della chiesa Cattolica. La battaglia si sta combattendo tra il cattolicesimo ed il Mormonismo. Se abbiamo ragione noi, avete torto voi, se avete ragione voi, abbiamo torto noi: i protestanti non hanno un palmo di terreno su cui poggiare, in quanto, se noi siamo nell’errore, essi sono nell’errore con noi, dal momento che essi facevano parte della nostra chiesa e se ne sono allontanati; se invece siamo nel giusto, essi non sono che apostati che abbiamo cacciato lontano da noi tanto tempo fa. Se, come asseriamo, siamo i depositari della successione di Pietro, non c’è alcun bisogno di Joseph Smith e del mormonismo. Ma se non siamo i depositari di questa successione, allora un uomo come Joseph Smith era necessario e la posizione del mormonismo è la sola che abbia consistenza. Possiamo avere soltanto o la perpetuazione del vangelo dai tempi antichi, o la restaurazione del vangelo negli ultimi giorni».

Avendo discusso l’argomento dell’apostasia, o allontanamento della verità, attraverso le scritture, adesso cercheremo di fare un’analisi di questo grande problema descritto dalle scritture, attraverso una analisi storica, che documenteremo con avvenimenti facilmente riscontrabili presso tutti i testi accreditati della storia comune.

ALCUNE FONTI AUTOREVOLI D’INFORMAZIONE SULLA STORIA ECCLESIASTICA

Eusebio.

Eusebio di Cesarea. Egli nacque intorno al 26 in Palestina, probabilmente a Cesarea, e morì intorno al 339 a.c. Fu un testimone oculare e condivise parte delle sofferenze delle persecuzioni pagane contro i Cristiani. Egli è chiamato "Padre della storia della chiesa". Fu autore di varie opere, delle quali "La storia ecclesiastica" fu fra le prime.

Mosheim.

Il dottor J.L. von Mosheim, cancelliere dell’Università di Gottingen,scrittore tedesco, famoso per i suoi contributi alla storia della chiesa. Egli è autore di una esauriente opera "Istituzioni di Storia ecclesiastica" (6 Volumi) datata 1755. Milner Rev. Joseph Milner. Autorità inglese sulla storia della chiesa, ed autore di una esauriente opera "Storia della chiesa di Cristo".

CAUSE DELL’APOSTASIA (CAUSE ESTERNE)

Prenderemo ora in esame, e vedremo come operarono, alcune delle cause principali che determinarono l’apostasia o allontanamento dalla verità. Le condizioni esterne che operarono contro la chiesa, tendendo a limitarne lo sviluppo e contribuendo al suo declino, possono essere indicate con il termine generale di "persecuzioni".

È un fatto storico incontrastato ed incontrastabile che, dal tempo del suo inizio fino a quello della sua reale cessazione, la Chiesa istituita da Gesù’ Cristo fu oggetto di violente persecuzioni. Se queste ultime debbano essere considerate fra le principali cause dell’apostasia, è una questione che vale la pena di trattare. Non sempre l’opposizione è distruttiva: al contrario, essa in certi campi può contribuire al miglioramento di specifiche situazioni. Le persecuzioni possono spingere a maggior zelo dimostrandosi così un potente fattore di progresso. Un proverbio tuttora valido dice che: "il sangue dei martiri è il seme della chiesa". Ma i proverbi e gli adagi, gli aforismi e le parabole, pur se veri in generale, non sempre si applicano a condizioni particolari. Indubbiamente le persistenti persecuzioni cui la chiesa ai suoi albori era fatta segno, indussero molti suoi adepti a rinunciare a quella fede e ritornarono alle loro precedenti convinzioni, fossero esse giudaiche o pagane. Così i membri della chiesa diminuirono. Ma questi episodi di apostasia della chiesa possono essere ritenuti diserzioni individuali e relativamente poco importanti nei loro effetti sulla chiesa stessa come organismo. I pericoli che in generale intimorivano, in certi individui determinavano una decisa presa di posizione; i ranghi disertati dai deboli disaffezionati venivano riempiti dai convertiti zelanti. Ripetiamo che l’apostasia della chiesa è insignificante se paragonata all’apostasia della chiesa come istituzione. Le persecuzioni contro la chiesa di Cristo come una delle cause dell’apostasia influirono indirettamente ma efficacemente.

Un’altra ragione per fare qui un breve sommario delle persecuzioni di cui la chiesa nascente fu vittima, è quella di offrire la base per un facile confronto fra queste persecuzioni e quelle condotte dalla chiesa apostata stessa nei secoli successivi. Scopriremo che le sofferenze della chiesa nei giorni della sua integrità sono superate dalle pene crudeli perpetrate nel nome di Cristo. Inoltre, lo studio delle prime persecuzioni ci permetterà di contrapporre le condizioni di opposizione e di miseria con quelle di agiatezza e di abbondanza che influirono sull’integrità della chiesa e sulla devozione dei suoi adepti.

Le persecuzioni cui la chiesa primitiva andò soggetta furono di duplice origine: giudaiche e pagane. Si deve ricordare che gli Ebrei si distinguevano fra tutte le nazioni dell’antichità perché credevano nell’esistenza di un Dio vivente. Il resto del mondo prima ed al tempo di Cristo era idolatra e pagano, dichiaratamente credente in un esercito di divinità, senza tuttavia riconoscere un Essere Supremo quale persona vivente. Gli ebrei erano molto aspri nella loro opposizione al Cristianesimo, che consideravano come una religione rivale della loro; ed inoltre, essi riconoscevano il fatto che se il Cristianesimo giungeva ad essere accettato generalmente come depositario della verità, la loro nazione sarebbe stata giudicata colpevole di aver messo a morte il Messia.

Questa qui di seguito è una dichiarazione di B.H.Roberts ("A new witness for God" pagina 47-48): «Non vi sorprenda il fatto che io classifichi quelle persecuzioni fra i mezzi con cui la chiesa fu distrutta. La furia della collera pagana era diretta ai capi ed agli uomini forti del corpo religioso; ed essendo tali persecuzioni durate parecchio ed inoltre essendo state condotte con inesorabile crudeltà, coloro che erano più tenaci nella fedeltà alla chiesa ne divennero le vittime più sicure. Quando queste persone furono abbattute, non rimasero che i deboli a lottare per la fede, e questo rese possibile quelle successive innovazioni nella religione di Cristo che il comune sentimento pagano esigeva. Tali innovazioni mutarono così profondamente la religione cristiana, sia nello spirito che nella forma, da minarla totalmente. Nessuno deve sorprendersi che in questo caso sia permesso alla violenza di operare. La convinzione secondo cui in questo mondo il bene trionfa sempre, che la verità è sempre vittoriosa e che l’innocenza è sempre protetta dal cielo è una cara vecchia favola con cui gli uomini ben intenzionati hanno continuato ad allettare un gran numero di persone credule. Ma i crudi fatti della storia (ed anche delle scritture "e le fu dato di far guerra ai santi e di vincerli" Apocalisse) e dell’esperienza reale della vita correggono questa piacevole illusione. Non fraintendetemi: io credo nella vittoria finale del bene, nel trionfo definitivo della Verità, nell’immunità finale dell’innocenza dalla violenza. Alla fine l’innocenza, la Verità ed il bene saranno più che dei conquistatori, essi vinceranno la guerra, ma questo non impedirà loro di perdere qualche battaglia. Si dovrebbe sempre ricordare che Dio ha dato all’uomo il libero arbitrio, e questo fatto significa che un uomo è libero di agire sia con malvagità che con giustizia. Caino era libero di uccidere suo fratello, quanto lo era quest’ultimo di adorare Iddio. E così come i pagani e gli ebrei erano liberi di perseguitare ed uccidere i Cristiani allo stesso modo i Cristiani erano liberi di vivere virtuosamente ed adorare Cristo come Dio. Il libero arbitrio dell’uomo non varrebbe il suo nome se non concedesse ai malfattori la libertà di riempire il calice della loro iniquità, e, ai virtuosi, di completare la misura della loro rettitudine. Questa perfetta libertà, o azione spontanea, è un dono di Dio all’uomo, ed essa è modificata in varie maniere perché queste non ostacolino i Suoi Fini generali».

Questa invece è una dichiarazione di Mosheim ("Istituzioni di Storia ecclesiastica" 1 secolo parte 1 5:1): «L’innocenza e la virtù che caratterizzavano così considerevolmente la vita dei servi di Cristo, nonché la purezza della dottrina insegnata dagli apostoli, non erano sufficienti a difenderli dalla mordacità e dalla malvagità dei giudei. I sacerdoti ed i governanti di questo popolo abbandonato, presero di mira gli apostoli di Gesù e i loro discepoli, non solo li coprivano di insulti e di ingiurie, ma ne mandavano a morte quanti più potevano, eseguendo le ingiuste condanne quanto più barbaramente possibile. L’assassinio di Stefano, di Giacomo figlio di Zebedeo e di Giacomo soprannominato il Giusto, Vescovo di Gerusalemme, è un esempio spaventoso della veridicità di quello che noi qui sosteniamo. Questa ripugnante malvagità dei dottori giudaici contro i messaggeri del vangelo era indubbiamente dovuta a un segreto timore che la diffusione del Cristianesimo potesse rovinare la reputazione del Giudaismo causando lo sfacelo delle loro pompose cerimonie.» In una nota a piè di pagina della citazione summenzionata si leggono i seguenti riferimenti: «Il martirio di Stefano è descritto negli Atti 7:55, quello di Giacomo figlio di Zebedeo atti 11:1,2 e quello di Giacomo il Giusto, vescovo di Gerusalemme è menzionato da Giuseppe Flavio nella sua opera "antichità giudaiche" (Libro XX capitolo 8, e da Eusebio nella sua "Storia ecclesiastica" libro II Capitolo 23).

LE PERSECUZIONI PAGANE

Fra i persecutori pagani della chiesa, l’impero romano è il principale responsabile. Questo può sembrare strano in considerazione della tolleranza generale esercitata da Roma verso i suoi principali tributari, la causa effettiva dell’opposizione romana al cristianesimo ha dato adito a molte congetture. È probabile che l’eccessivo zelo e la poca tolleranza dei Cristiani portassero questi ultimi alla impopolarità presso le nazioni pagane. Questo argomento è prudenzialmente riassunto da Mosheim con queste parole: «Una curiosità alquanto naturale ci spinge a chiederci com’è che i Romani, che non procuravano fastidi a nessuna nazione, quale che fosse la sua religione, e che permettevano perfino agli Ebrei di vivere secondo le loro leggi e di seguire il loro culto, trattassero con molta severità soltanto i Cristiani. A questo importante interrogativo sembra ancor più difficile rispondere se si considera che l’eccellente natura della religione cristiana, nonché la sua ammirevole tendenza a promuovere, sia il benessere collettivo che la felicità individuale, le procuravano il favore e la protezione delle potenze regnanti. Una delle principali ragioni della severità con cui i Romani perseguitavano i Cristiani, malgrado queste considerazioni, sembra vada ricercata nell’avversione e nello sdegno con cui questi ultimi consideravano la religione dell’Impero, che era tanto intimamente connessa con la forma e, in verità, con la vera e propria essenza della sua costituzione politica. Perché, sebbene i Romani avessero una tolleranza illimitata verso tutte le religioni i cui principi non contenessero niente di pericoloso per l’Impero, tuttavia essi non permettevano che la religione dei loro antenati, che era stabilita dalle leggi dello Stato, fosse oggetto di derisione, né che il popolo fosse allontanato dal suo attaccamento ad essa. Tuttavia queste furono le due cose di cui vennero accusati i Cristiani, e a buona ragione, anche se ciò fa loro onore. Essi osavano mettere in ridicolo le assurdità della superstizione pagana, ed erano zelanti e assidui nel fare proseliti della verità. Essi non soltanto attaccavano la religione di Roma, ma anche tutte le differenti forme sotto cui si presentava la superstizione nei vari paesi dove esercitavano il loro ministero. Da questo i Romani conclusero che la setta cristiana non era soltanto insopportabilmente audace ed arrogante, ma anche un nemico della tranquillità pubblica e una causa probabile di tumulti, e forse anche di guerre civili, a danno dell’Impero. È probabilmente per questo motivo che Tacito li rimprovera, chiamandoli nemici del genere umano e definendo la religione di Gesù una superstizione distruttiva. Anche Svetonio quando parla dei Cristiani e della loro dottrina si esprime negli stessi termini.»

Un’altra cosa dei Cristiani che irritava i Romani era la semplicità del loro culto, in contrasto con la pomposa impalcatura religiosa ed il suo austero rituale di qualsiasi altro popolo. I Cristiani non offrivano sacrifici, né avevano templi, né avevano immagini, né oracoli, né ordini sacerdotali e questo era sufficiente per attirarsi i rimproveri delle masse ignoranti che immaginavano che non potesse esistere religione senza queste cose.

Si può dire che le persecuzioni contro la chiesa da parte dell’autorità romana abbiano avuto inizio sotto il regno di Diocleziano (305 d.C.) In questo arco di tempo vi furono molti periodi di minore severità, se non di relativa tranquillità. Tuttavia la chiesa fu oggetto della oppressione pagana per circa 2 secoli e mezzo. Gli scrittori Cristiani hanno fatto dei tentativi per isolare le persecuzioni in 10 distinti e separati assalti furiosi; ed alcuni dichiarano di trovare un rapporto mistico fra le 10 persecuzioni così classificate e le 10 piaghe d’Egitto, come pure vi vedono un’analogia con le 10 corna menzionate da Giovanni il Rivelatore. Come realtà dimostrata dalla storia, il numero di persecuzioni di insolita gravita fu inferiore a 10, mentre il totale di tutte, inclusi gli assalti locali e limitati, sarebbe molto più grande.

La prima grande persecuzione avvenne nel 64 d.C. ordinata da Nerone nel tentativo di discolparsi dall’incendio di Roma. Queste che furono le prime persecuzioni sotto un editto romano, praticamente cessarono con la morte del tiranno avvenuta nel 68 d.C. Secondo la tradizione tramandata dai primi scrittori Cristiani, durante le dette persecuzioni gli apostoli Pietro e Paolo subirono il martirio, il primo per decapitazione, il secondo per crocifissione. Inoltre è detto che la moglie di Pietro fu messa a morte poco prima del marito, ma su questo punto vi sono molte incertezze.

LE PERSECUZIONI SOTTO DOMIZIANO

La seconda ondata di persecuzioni legalmente ordinate dall’autorità imperiale ebbe inizio intorno al 93-94 d.C. sotto il regno di Domiziano. Sia i Cristiani che gli ebrei incorsero nella disapprovazione di questo imperatore perché si rifiutavano di adorare le statue erette come divinità da propiziarsi. Un’altra ragione della sua particolare animosità contro i Cristiani, come dichiaravano i primi scrittori, era quella del continuo timore di perdere il trono; egli teneva sempre presente la predizione secondo la quale dalla famiglia cui apparteneva Gesù sarebbe sorto uno che avrebbe indebolito, se non rovesciato, il potere di Roma. Forte di questa motivazione, il malvagio regnante diresse la terribile campagna di annientamento di un popolo innocente. Fortunatamente, la persecuzione iniziata durò soltanto pochi anni. Mosheim ed altri affermano che la fine della persecuzione fu causata dalla prematura morte dell’imperatore. Secondo altri invece, per esempio secondo uno scrittore citato da Eusebio, Domiziano dopo aver fatto tradurre dinanzi a sé, quelli che erano ritenuti i DISCENDENTI DELLA FAMIGLIA DEL SALVATORE e dopo averli interrogati, mise fine alle persecuzioni perché si convinse di non correre alcun pericolo. Si pensa che nel tempo in cui era in vigore l’editto di Domiziano, l’apostolo Giovanni sia stato esiliato nell’isola di Patmos.

LE PERSECUZIONI SOTTO TRAIANO

Quella che nella storia ecclesiastica va sotto il nome di terza ondata di persecuzioni contro la chiesa ebbe luogo sotto Traiano, il quale occupò il trono imperiale dal 98 al 117 d.C.

Egli fu ed è considerato come uno dei migliori imperatori romani. Tuttavia approvò violente persecuzioni contro i Cristiani a causa della loro inflessibile ostinazione nel rifiutarsi di offrire sacrifici alle divinità romane. La storia ci ha tramandato una lettera molto importante di Plinio il Giovane, governatore del Ponto, diretta all’imperatore, e la risposta di quest’ultimo. Questa corrispondenza è interessante perché dimostra sino a qual punto il Cristianesimo si era diffuso a quel tempo ed il modo in cui i credenti venivano trattati dai funzionari di stato. Plinio chiedeva all’imperatore quale linea di condotta dovesse tenere nei rapporti con i Cristiani che erano sotto la sua giurisdizione. I giovani e i vecchi, i deboli ed i forti dovevano essere trattati allo stesso modo, oppure l’applicazione del castigo doveva essere diversa? All’accusato doveva essere dato il modo di ripudiare la sua religione, oppure il fatto che egli seguiva o aveva seguito il cristianesimo doveva essere considerato un reato imperdonabile? Quelli che erano accusati di essere Cristiani, dovevano essere puniti solo per la religione oppure per colpe specifiche derivanti dalla loro appartenenza alla chiesa? Dopo aver proposto questi interrogativi, il governatore procedeva ad elencare all’imperatore quello che egli aveva fatto in mancanza di istruzioni precise. L’imperatore rispose ordinando che i Cristiani non dovevano essere perseguitati per vendetta, ma arrestati se sospettati di reato e processati: e se davanti al tribunale si fossero rifiutati di rinunciare alla loro fede, allora dovevano essere messi a morte.

LE PERSECUZIONI SOTTO MARCO AURELIO

Marco Aurelio regnò dal 161 al 180 d.C. Egli era famoso perché desiderava il bene massimo del suo popolo; tuttavia sotto il suo governo i Cristiani subirono altre crudeltà Le persecuzioni furono molto aspre nella Gallia. Fra coloro che a quel tempo subirono il destino dei martiri si annoveravano Policarpo, vescovo di Smirne e Giustino, che la storia ricorda come filosofo. Con riferimento all’apparente irregolarità che anche i migliori regnanti permettevano, arrivando persino ad esercitare una energica opposizione ai Cristiani, come si è esemplificato dagli atti di questo imperatore, uno scrittore moderno ha detto: «Si dovrebbe notare che le persecuzioni contro i Cristiani sotto gli imperatori pagani ebbero origine da motivi politici anziché religiosi, e questa è la ragione per cui nell’elenco dei persecutori troviamo accanto al nome dei peggiori imperatori anche quello dei migliori. Si credeva che il benessere dello stato dipendesse dall’accurato svolgimento dei riti del culto nazionale, quindi, mentre i sovrani romani erano solitamente molto tolleranti, permettendo che fra i loro sudditi vi fosse la massima libertà religiosa, tuttavia essi esigevano dai cittadini di diversa fede il riconoscimento e la devozione degli dei romani bruciando incenso davanti alle loro statue. E poiché i Cristiani si rifiutavano di compiere siffatto rito, si giunse a ritenere che la loro trascuratezza nel servizio del tempio suscitasse la collera degli dei e mettesse in pericolo la sicurezza e la vita della nazione con la siccità, la pestilenza ed ogni altro disastro. Questa era la causa principale delle persecuzioni da parte degli imperatori romani contro il Cristianesimo.» (General History di P.V.N. Myers edizione del 1889 pagina 232).

PERSECUZIONI SUCCESSIVE

Tranne alcuni periodi di tranquillità parziale, per tutto il secondo e terzo secolo i credenti Cristiani continuarono a soffrire a causa degli oppositori pagani. Nel primo decennio del terzo secolo una violenta persecuzione ebbe luogo sotto il regno di Severo (193-211 d.C.). Un’altra si scatenò sotto il regno di Massimo (235 238 d.C.). Un periodo in cui le persecuzioni furono particolarmente violente e le sofferenze dei Cristiani assai feroci fu durante il breve regno di Decio Traiano (249-251 d.C.) Dalla storia ecclesiastica la persecuzione avvenuta sotto Traiano è chiamata le settima persecuzione. Ne seguirono altre in rapida successione, ma noi le salteremo nella nostra disamina e ci soffermeremo a considerare quella più importante.

PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO

Nota anche come la decima e fortunatamente ultima. Diocleziano regnò dal 284 al 305 d.C. In principio egli fu molto tollerante verso i Cristiani. Infatti la storia dice che sua moglie e sua figlia erano Cristiane, anche se "in un certo senso lo erano segretamente". Tuttavia, in seguito Diocleziano divenne ostile alla chiesa e s’impegnò nella totale soppressione della religione di Cristo. A questo scopo egli ordinò la distruzione generale dei libri Cristiani, decretando la pena di morte contro tutti coloro che tenevano in possesso tali opere.

Il palazzo reale di Nicodemia s’incendiò 2 volte, e ogni volta la responsabilità fu attribuita ai Cristiani con terribili risultati. Quattro editti separati, ognuno dei quali superava quello precedente per ferocia, furono emanati contro quei poveri infelici, i quali per un periodo di 10 anni furono vittime di sfrenate rapine, estorsioni e torture. Alla fine del decennio di terrore, la chiesa era sparpagliata e apparentemente senza speranza. I sacri libri erano stati bruciati; i luoghi di culto erano stati rasi al suolo, migliaia di Cristiani erano stati messi a morte. Era stato fatto ogni possibile sforzo per annientare la Chiesa Cristiana e tutto il suo seguito. Le descrizioni delle punte massime cui giunse la brutalità imperiale suscitarono orrore. Un solo esempio può bastare e ce lo da Eusebio, parlando delle persecuzioni in Egitto: «Tale era la gravità della lotta sopportata dagli Egiziani che a Tiro, combattendo gloriosamente per la fede, migliaia di uomini, donne e bambini, sdegnando la vita presente per amore della dottrina del Nostro Salvatore, si assoggettarono alla morte sotto varie forme. Alcuni, dopo essere stati torturati alla ruota e spaventosamente frustrati o dopo aver sopportato altre innumerevoli agonie che al solo udirle ci farebbero rabbrividire, alla fine venivano dati alle fiamme, o gettati in mare e li lasciati affogare, o decapitati, o inchiodati su rozze croci a testa in giù, o lasciati morire in mezzo a tormenti di terribili privazioni.» (Eusebio "Storia ecclesiastica, libro 8 capitolo 8).

Quella di Diocleziano fu l’ultima delle grandi persecuzioni della Roma pagana. Uno stupendo cambiamento, equivalente ad una rivoluzione, apparve all’orizzonte della chiesa. Costantino, che la storia chiama Costantino il Grande, divenne imperatore di Roma nel 306 e regnò per 31 anni. Sin dagli inizi del suo regno egli sposò la causa dei Cristiani e prese la chiesa sotto la sua protezione ufficiale. Secondo la leggenda la conversione dell’imperatore fu dovuta ad una manifestazione sovrannaturale, in cui egli vide una croce luminosa nei cieli, con la scritta:"In questo segno vincerai." L’autenticità di questa manifestazione è dubbia e il dubbio è posto soprattutto dalla storia. Questo fatto è qui citato per dimostrare a quali mezzi si ricorse per rendere il cristianesimo benvoluto a quel tempo. Molti storici prudenti sostengono che la cosiddetta conversione di Costantino fu più una questione politica che non un sincero riconoscimento delle verità predicate dal cristianesimo. Il grande sovrano rimase comunque un catecumeno vale a dire un credente non battezzato, fino all’ultimo periodo della sua vita, quando sentendosi morire, volle ricevere il battesimo e divenne Cristiano. Ma, quali che fossero i suoi motivi, nel 313 egli emanò un decreto più noto come "l’editto di Milano" con il quale proclamava la libertà di culto per i Cristiani in tutto l’impero. Myers scrive: «Egli fece della croce l’insegna reale; e ora, per la prima volta, le legioni romane marciavano sotto il vessillo del Cristianesimo.»

Immediatamente dopo questa trasformazione ci fu una grande gara per riscuotere il favore della Chiesa. La carica di vescovo giunse ad essere più ambita del grado di generale. L’imperatore stesso era il capo effettivo della chiesa. Ora le cose erano capovolte: essere conosciuti come non Cristiani era impopolare e decisamente svantaggioso nel senso materiale. I templi pagani furono trasformati in chiese, e gli idoli pagani abbattuti. Si legge che in un anno, nella sola Roma, si battezzarono 12.000 fra uomini donne e bambini. Costantino, trasferì la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, città che egli ribattezzò con il suo nome Costantinopoli. Questa città, che oggi è la capitale della Turchia, divenne il quartier generale della chiesa.

Come sembra vana la millanteria di Diocleziano secondo la quale il cristianesimo era stato annientato per sempre! E quanto era differente la chiesa sotto il patrocinio di Costantino rispetto alla chiesa istituita da Cristo ed edificata dai suoi apostoli! Se si giudica in base alle norme della sua istituzione originale la Chiesa era già divenuta apostata.

CAUSE INTERNE

Come naturalmente ci si potrebbe aspettare, gli effetti immediati delle continue persecuzioni furono vari: essi andavano dall’entusiasmo sfrenato espresso con delirante clamore per il martirio all’apostasia più improvvisa e spregevole, con l’ostentazione di un autentico culto nei servizi idolatrici.

«In molti fedeli Cristiani nacque uno zelo che rasentava il fanatismo, tanto che senza riguardo alcuno alla dignità e alla discrezione, manifestavano una folle e scomposta eccitazione di gioia di fronte al proprio martirio. Alcuni di quelli che non erano stati assaliti, dispiacendosene, divennero accusatori di sé medesimi, mentre altri commisero apertamente atti di aggressione, con l’intento di attirare su di sé l’indignazione degli uomini.» (Gibbon "Storia del declino dell’Impero romano capitolo 16).

Queste stravaganze erano indubbiamente incoraggiate dalla eccessiva venerazione concessa alla memoria dei resti mortali di coloro che erano periti per la causa cristiana. In seguito questo rispetto reverenziale divenne un’empia pratica di culto dei martiri.

Commentando l’imprudente entusiasmo degli antichi Cristiani, Gibbon dice: «Talvolta i Cristiani, con la loro spontanea confessione, esprimevano il desiderio di essere condannati; a questo scopo disturbavano anche il servizio pubblico del paganesimo e, assiepandosi intorno al tribunale dei magistrati, li invitavano a pronunciare ed ad infliggere la sentenza della legge. Il comportamento dei Cristiani era troppo fuori dall’ordinario per sfuggire all’osservazione degli antichi filosofi; ma sembra che questi lo considerassero con molto meno ammirazione che stupore. Incapaci di capire i motivi che talvolta spingevano il coraggio morale dei credenti oltre i limiti della prudenza e della ragione, essi consideravano questa bramosia di morire come lo strano risultato di una disperazione ostinata, di una stupida insensibilità o di un delirio superstizioso.»

Ma c’è anche un altro atteggiamento. Mentre gli imprudenti fanatici richiamavano su di sé pericoli dai quali avrebbero potuto rimanere immuni, altri, terrorizzati dall’idea di poter essere inclusi fra le vittime, volontariamente disertarono la Chiesa ritornando alla fede pagana. Milner, parlando delle condizioni esistenti nel terzo secolo, e facendo sue le parole di Cipriano, Vescovo di Cartagine, che visse nel periodo dell’episodio descritto, dice: «Immediatamente moltissimi passarono all’idolatria. Ancor prima di essere accusati di essere Cristiani, molti correvano al foro e offrivano sacrifici agli dei, come veniva ordinato loro; ed il numero degli apostati era talmente grande che i magistrati desideravano rimandarli al giorno dopo, ma venivano importunati dagli sventurati supplicanti, i quali chiedevano che fosse concesso loro di dimostrare proprio quella stessa sera di essere pagani.» (Milner "Storia della Chiesa", secolo III, capitolo 8).

«In concomitanza con questa apostasia individuale dei membri della chiesa sotto la spinta delle persecuzioni, i governatori delle province cominciarono a vendere certificati, o "libelli" che attestavano che le persone in essi menzionate avevano ottemperato alle leggi e offerto sacrifici alle divinità romane. Esibendo queste dichiarazioni, il più delle volte false, gli opulenti e timidi Cristiani potevano tacitare la cattiveria di un informatore conciliando in una certa misura la loro sicurezza con la loro religione.» (Gibbon "Storia del declino e caduta dell’impero romano" capitolo XVI).

«Una variazione a questa pratica di quasi apostasia consisteva nel procurarsi attestati di persone di buona reputazione, nei quali era dichiarato che i latori avevano abiurato il Vangelo. Questi documenti venivano presentati ai magistrati pagani, i quali, dietro pagamento di una determinata somma, accordavano l’esenzione dall’offerta di sacrifici agli dei pagani». Millner "Storia della chiesa" secolo III capitolo 9.

A seguito di queste pratiche, per le quali i ricchi potevano comperarsi l’immunità dalle persecuzioni e nello stesso tempo mantenere una parvenza di buona reputazione nella chiesa, sorsero grandi dissensi sul fatto se coloro che avevano in questo modo dimostrato la loro debolezza potevano essere accolti di nuovo in seno alla chiesa.

Al massimo le persecuzioni non furono che una causa indiretta della decadenza del Cristianesimo e del pervertimento dei princìpi di salvezza del vangelo di Cristo. I pericoli più grandi ed immediati che minacciavano la chiesa vanno ricercati nel corpo stesso della medesima. In effetti le pressioni dell’opposizione dall’esterno servirono a frenare le gorgoglianti fonti di discordia interna, ed in realtà ritardarono le eruzioni più rovinose dello scisma ed eresia. Uno sguardo generale alla storia della chiesa sino alla fine del terzo secolo dimostra che i periodi di pace relativa erano periodo di debolezza e di decadenza spirituale e che, con il ritorno delle persecuzioni, si ebbe un risveglio ed una rinascita della devozione cristiana. I capi devoti del popolo non erano riluttanti nel dichiarare che ogni ritorno periodico delle persecuzioni era un periodo di castigo necessario e naturale per i peccati e la corruzione che avevano fatto progressi nell’ambito della chiesa.

In merito alle condizioni della chiesa nella metà del secolo terzo, Cipriano, vescovo di Cartagine, così si esprime: «Se si indagasse sulla causa delle nostre sofferenze, si potrebbe trovare la cura per guarire la piaga. Il Signore vuole che la sua famiglia sia mesa alla prova. E poiché la lunga pace aveva corrotto la disciplina rivelataci da Dio, il castigo celeste ha fatto risorgere in noi la fede che giaceva quasi addormentata; e quando, per i nostri peccati, abbiamo meritato di soffrire ancora di più, il Signore misericordioso ha moderato le cose in modo tale che vale la pena considerare l’intera questione più come una prova che non come una persecuzione». Ciascuno si era dedicato al miglioramento del proprio patrimonio, dimenticando quello che i credenti avevano fatto sotto gli apostoli, e quello che dovevano fare sempre: essi stavano rimuginando sul sistema di ammassare ricchezze; i pastori e i diaconi avevano dimenticato il loro dovere; le opere di misericordia furono trascurate, e la disciplina era in decadenza; predominavano la lussuria e l’effeminatezza; si coltivavano le arti dell’appariscenza nell’abbigliamento; fra i fratelli si praticavano la frode e l’inganno; i Cristiani si univano in matrimonio con i miscredenti; si bestemmiava senza rispetto e senza coscienza. Con altezzosa rudezza disprezzavano i loro superiori ecclesiastici; inveivano l’uno contro l’altro con oltraggiosa acrimonia, e litigavano con grande cattiveria; perfino molti vescovi, che dovevano essere una guida ed un esempio per gli altri, trascurando i doveri della loro carica, si dedicavano alle questioni secolari. Essi disertavano i loro luoghi di residenza e i loro greggi; viaggiavano di provincia in provincia, a volte in località lontanissime, in cerca di piaceri e di profitto, e presi da una insaziabile sete di denaro trascuravano di porgere aiuto ai fratelli bisognosi. Con la frode si impossessavano di proprietà e praticavano l’usura.

«Cosa non abbiamo meritato di subire per una simile condotta? Anche la parola divina ci aveva predetto quello che avremmo dovuto aspettarci: "Se i suoi figli abbandonano la mia legge e non camminano secondo i miei precetti, io punirò le loro offese con la verga, e i loro peccati con la sferza." Queste cose erano state proclamate e predette, ma invano. I nostri peccati avevano portato i nostri affari a mal passo, e poiché avevamo disprezzato gli ordini del Signore, eravamo costretti a subire la punizione per le nostri molteplici malvagità e la prova della nostra fede mediante rimedi severi.» (Citato da Milner, "Storia della Chiesa" secolo III capitolo 8).

Milner, il quale cita con approvazione il severo biasimo verso la chiesa del secolo terzo, come appena indicato, non può essere giudicato di pregiudizio contro le istituzioni cristiane, poiché il suo scopo dichiarato nel presentare al mondo una ulteriore "Storia della chiesa di Cristo" era quello di dedicare la dovuta attenzione a determinati aspetti della questione che erano stati trascurati dagli scrittori precedenti, ed inoltre il metter in risalto la pietà, non la malvagità, di coloro che si professavano seguaci di Cristo.

Questo autore, che evidentemente era amico della chiesa e dei suoi devoti, ammette la crescente depravazione della setta cristiana, e dichiara che verso la fine del terzo secolo l’effetto della discesa dello Spirito santo nel giorno della Pentecoste si era esaurito, e che rimanevano poche prove di qualsiasi rapporto stretto fra Cristo e la chiesa.

Per dimostrare ulteriormente il declino dello spirito cristiano verso la fine del terzo secolo, Milner cita la seguente osservazione di Eusebio, uno dei testimoni oculari delle condizioni descritte: «La pesante mano del castigo divino cominciò debolmente, poco a poco, a farsi sentire su di noi, nella sua maniera abituale, ma noi non ci lasciammo impressionare dalla sua mano, ne ci preoccupammo di ritornare a Dio. Accumulammo peccato su peccato, giudicando come incauti Epicurei, che a Dio non interessavano i nostri peccati, né egli ci avrebbe mai castigato a cagion loro. E i nostri sedicenti pastori, accantonando la regola della pietà, si buttavano nelle contese e nelle divisioni.» Egli aggiunge che la terribile persecuzione di Diocleziano veniva allora inflitta ai Cristiani come un giusto castigo per la loro iniquità. (Milner "Storia della chiesa" secolo III capitolo 17).

Si ricorderà che il grande cambiamento con cui la chiesa fu innalzata ad un posto d’onore dello stato, avvenne nei primi decenni del quarto secolo. È errore comune supporre che la decadenza della chiesa come istituzione spirituale risalga a quel tempo. L’immagine della chiesa, il cui potere spirituale declina in proporzione al suo aumento dell’influenza e della ricchezza temporale, ha interessato storici e scrittori di opere a carattere sensazionale. Ma tale immagine non rispecchia la verità. La chiesa era satura dello spirito dell’apostasia molto tempo prima che Costantino la prendesse sotto la sua potente protezione accordandole una posizione ufficiale nello stato. A conforto di questa affermazione, io cito nuovamente Milner, l’amico dichiarato della chiesa: «So che gli scrittori sono d’accordo nel dichiarare che la grande decadenza del cristianesimo avvenne soltanto dopo il suo riconoscimento ufficiale da parte di Costantino. Ma l’evidenza storica mi ha indotto a dissentire da questa immagine delle cose. Infatti abbiamo veduto che per un’intera generazione, prima della persecuzione di Diocleziano, erano apparsi pochi segni della pietà superiore. In realtà raramente gli uomini si erano dimostrati devoti; e sappiamo che comunemente le grandi opere dello Spirito di Dio non si sono mai esplicate se non attraverso la guida di qualche straordinario pastore, santo e riformatore. Tutto questo periodo, con l’intero quadro della persecuzione, è molto sterile per ciò che attiene a figure di uomini di questa specie. Le direttive morali, filosofiche e monastiche non faranno per gli uomini quello che invece potrà fare la dottrina evangelica. E se la fede in Cristo era tanto decaduta (il suo declino dovrebbe esser fatto risalire intorno all’anno 270), non dobbiamo meravigliarci se scene quali quelle cui accenna Eusebio senza alcun particolare circostanziato, accaddero nel mondo cristiano. Egli parla anche dello spirito ambizioso di molti nell’aspirare agli uffici della chiesa, delle ordinazioni illegali e sconsiderate, delle liti fra gli stessi confessori della fede, delle contese suscitate dai giovani demagoghi proprio fra i residui della chiesa perseguitata, ed infine degli accresciuti mali che i propri vizi suscitavano fra i Cristiani. Questi mali non ebbero origine dal Cristianesimo, ma dall’allontanamento da esso.» (Milner storia della Chiesa" secolo IV capitolo 1).

Il tentativo di innesto di dottrine estranee al Vangelo di Cristo fu una cosa tipica dei primi anni del periodo apostolico. Si legge del mago Simone, il quale aveva abbracciato la chiesa di Cristo mediante il battesimo, che era talmente privo del vero spirito del Vangelo da cercare di acquistare con il denaro l’autorità e il potere del sacerdozio. Quest’uomo, benché rimproverato da Pietro e apparentemente pentito continuò ad infastidire la chiesa inculcando eresie nella mente dei fedeli e facendo proseliti fra i membri della chiesa stessa. I suoi seguaci costituirono una setta, o culto, fino al quarto secolo, e, scrivendo a quel tempo Eusebio dice di loro: «Essi, seguendo il sistema del loro fondatore, s’insinuarono nella chiesa come una malattia pestilenziale infettando della più grande corruzione quelli in cui essi riuscivano ad infondere il loro veleno segreto, irrimediabile e distruttivo.» (Eusebio "Storia ecclesiastica" libro II cap 1).

Questo Simone, noto nella storia come Simone il mago, è citato dagli antichi scrittori Cristiani come il fondatore dell’eresia, a causa dei suoi continui tentativi di fondere insieme il cristianesimo e lo Gnosticismo. Dalla sua presunzione di acquistare l’autorità spirituale prese nome di Simonia, il commercio delle cose sacre.

Per il tramite del Rivelatore, il Signore sconfessò certe chiese perché avevano adottato o tollerato dottrine e pratiche estranee al Vangelo. In particolare questo si riferisce ai Nicolaiti ed a i seguaci delle dottrine di Balaam.

Il pervertimento della vera teologia così creatosi nell’ambito della chiesa è da attribuire alla introduzione dei sofismi sia giudaici che pagani. In verità, all’inizio dell’era cristiana e per secoli dopo, il Giudaismo fu più o meno strettamente unito alla filosofia pagana e contaminato dalle cerimonie omonime. Esistevano numerose sette o gruppi, culti e scuole, ognuno dei quali propugnava teorie opposte circa la composizione dell’anima, l’essenza del peccato, la natura della divinità e tutta una serie di altri misteri. Ben preso i Cristiani si trovarono coinvolti in controversie senza fine fra loro stessi.

I seguaci del giudaismo convertitisi al Cristianesimo cercavano di modificare i principi della nuova fede in modo da armonizzarli col loro ereditato amore per il giudaismo, ed il risultato fu distruttivo per entrambi. Nostro Signore aveva indicato la futilità di qualsiasi tentativo del genere tendente a mischiare nuovi princìpi con i vecchi sistemi, o a rattoppare i pregiudizi del passato con parti frammentarie della nuova dottrina :«Or niuno,» disse Egli, «mette un pezzo di stoffa nuova sopra un vestito vecchio, perché quella toppa porta via qualcosa dal vestito, e lo strappo si fa peggiore. Neppur si mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti gli otri si rompono, il vino si spande e gli otri si perdono, ma si mette il vin nuovo in otri nuovi, e l’uno e gli altri si conservano.» (Matteo 9:16-17).

Il Vangelo giunse come una nuova rivelazione che segnava il compimento della Legge. Esso non era una semplice aggiunta, né un semplice ripristino dei passati dettami. Il giudaismo fu sminuito ed il Cristianesimo corrotto da questa assurda unione.

Fra le prime e più dannose adulterazioni della dottrina cristiana si ricorda l’introduzione degli insegnamenti degli gnostici. Questi sedicenti filosofi proclamavano l’audace rivendicazione del diritto di saper guidare la mente umana alla completa comprensione dell’Essere Supremo ed alla conoscenza del vero rapporto fra la Divinità ed i mortali. In effetti essi dicevano che esisteva un essere eterno che si manifestava come una luce radiosa diffusa attraverso lo spazio, che essi chiamavano "Pleroma". «La natura eterna, infinitamente perfetta ed infinitamente felice, essendo rimasta da sempre in una profonda solitudine e in una beata tranquillità, alla fine produsse da sé stessa due menti di diverso sesso, le quali rassomigliavano al loro supremo genitore nella maniera più perfetta. Dalla prolifica unione di questi due esseri, altri ebbero origine, i quali a loro volta si riprodussero per generazioni successive, talché nel processo del tempo nel Pleroma, si formò una famiglia celeste. Questa divina progenie, immutabile nella sua natura, e al di sopra del potere della mortalità era chiamata dai filosofi "Aeon", termine che nella lingua greca significa "natura eterna". Quanti fossero questi Aeon è questione molto controversa presso i saggi orientali.» (Mosheim "Istituzioni di storia ecclesiastica" Secolo I parte II).

L’Eone (dal greco aion = eterno), chiamato il "Demiurgo" creò questo mondo e arrogantemente asserì il dominio su di esso,negando nel modo più assoluto l’autorità del supremo genitore. La dottrina gnostica afferma che l’uomo è l’unione fra un corpo che, essendo creazione del Demiurgo, è essenzialmente malvagio, e uno spirito che, avendo origine dalla Divinità, è prevalentemente buono. Gli spiriti così imprigionati nei corpi cattivi, alla fine saranno liberati, ed allora il potere del Demiurgo cesserà; e la terra si dissolverà nel nulla.

La nostra giustificazione per introdurre qui questo parziale sommario dello gnosticismo sta nel fatto che anticamente furono fatti tentativi per adattare i princìpi di questa setta alle esigenze del Cristianesimo e nel fatto che era stato affermato che sia Cristo che il Santo Spirito appartenevano alla famiglia degli Eoni previsti da questo disegno. Ciò portò alla esosa assurdità del negare che Gesù avesse un corpo anche quando viveva da uomo e come uomo, e che il suo aspetto fisico fosse un inganno dei sensi compiuto dal suo potere soprannaturale.

Un’altra setta, o scuola, le cui dottrine erano in un certo grado amalgamate a quelle del cristianesimo era quella dei Neoplatonici. Le antiche sette dei Platonici erano per alcuni punti dottrinali affini a quella degli Epicurei ed erano rivali degli Stoici. Gli antichi Platonici sostenevano che la materia esiste dall’eternità, e che il suo organizzatore, Dio, è ugualmente eterno. Come Dio è eterno, così anche la sua volontà o intelligenza è senza principio; e questa intelligenza eterna, esistente come la volontà o proposito divino, era chiamata "Logos". Questi precetti venivano insegnati molto tempo prima dell’era cristiana, e la filosofia seguita da alcune delle sette giudaiche contrapposte al tempo di Cristo ne era stata influenzata.

A guisa che i princìpi del Cristianesimo divenivano conosciuti universalmente, certi capi della setta dei Platonici trovavano nella nuova dottrina molte cose da studiare e da ammirare. A quel tempo, tuttavia, il Platonismo stesso aveva subito molti cambiamenti, e i seguaci più liberali avevano formato una nuova organizzazione, chiamata "Neoplatonici". Essi professavano di trovare in Gesù Cristo l’incarnazione del Logos, e accettavano con avidità la dichiarazione di S.Giovanni: «Nel principio era la Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio…. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi.» (Giovanni 1:1,14). Secondo la filosofia eclettica e neoplatonica, la "Parola" cui si riferiva San Giovanni era il "Logos" descritto da Platone. La concezione Platonica della Divinità formata dalla divinità e dal Logos, si allargò secondo i princìpi Cristiani, per includervi tre membri, lo Spirito Santo essendo il terzo. Da questo sorse un serio e lungo contrasto circa i poteri relativi di ciascun membro della Trinità, con particolare riguardo alla posizione e all’autorità del Logos, o figlio. Le molte controversie relative alla fusione della teoria platonica con la dottrina cristiana proseguirono attraverso i secoli e, in un certo senso, esse turbano la mente degli uomini anche in questa età moderna.

È completamente estraneo al nostro scopo classificare o descrivere gli ibridi frutti risultanti dall’innaturale unione della filosofia pagana con la verità cristiana, né tenteremo di seguire nei particolari i dissensi e le dispute sulle questioni teologiche e dottrinali. Il nostro scopo è raggiunto quando per l’ammissione dei fatti e la citazioni di fonti autorevoli la realtà dell’apostasia è stabilita. Considereremo pertanto solo le discordie più importanti che agitarono la chiesa.

Intorno alla metà del terzo secolo, Sibellio, un presbitero o vescovo della chiesa d’Africa, propugnò strenuamente la dottrina della trinità nell’unità come caratteristica della divinità. Egli asseriva che la natura divina di Cristo non è un attributo né distinto né personale dell’uomo Gesù, ma semplicemente una parte dell’energia divina, una emanazione dal Padre, di cui il figlio è temporaneamente dotato, così come analogamente lo Spirito Santo è parte del divino Padre. Queste concezioni furono vigorosamente confutate da alcuni, così come furono difese da altri, ed il disaccordo era al massimo quando Costantino improvvisamente mutò la condizione della Chiesa intervenendo in suo favore. Agli inizi del quarto secolo la controversia assunse un aspetto burrascoso: si era accesa un’aspra polemica fra Alessandro, Vescovo di Alessandria e Ario, uno dei dirigenti subordinati della medesima chiesa. Alessandro proclamava che il figlio è sotto ogni profilo uguale al Padre, ed uguale nella sostanza ed essenza. Ario insisteva nel sostenere che il Figlio è stato creato dal Padre, e quindi non può essere coetaneo con il suo divino genitore; che il Figlio è il mezzo con cui è eseguita la Volontà del Padre, e che per questa ragione il Figlio è inferiore al Padre sia nella natura che nella dignità. Allo stesso modo lo Spirito Santo è inferiore agli altri membri della Divinità.

L’Arianesimo, come si chiamò la dottrina di Ario, veniva predicata con zelo e con zelo combattuta. Le conseguenze di tali dispute minacciavano di minare la chiesa nelle sue fondamenta. Alla fine l’imperatore Costantino fu costretto a intervenire nel tentativo di appianare i contrasti fra le due parti in lizza. Egli indisse un concilio ecumenico che fu tenuto a Nicea (concilio di Nicea). Correva l’anno 325. La dottrina di Ario fu condannata ed egli stesso scomunicato ed esiliato. Quella che fu dichiarata essere la dottrina ortodossa della chiesa Cattolica, o universale, in merito alla Divinità fu promulgata con queste parole.

«Noi crediamo in un Dio solo, Padre Onnipotente, artefice di tutte le cose visibili e invisibili; ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, fatto della stessa sostanza del Padre, Dio di Dio, Luce della Luce; Vero Dio del Vero Dio; generato, non fatto; della stessa materia del Padre, dal quale tutte le cose furono fatte, sia quelle del cielo che quelle della terra; il quale, per nostra salvezza, discese in terra e s’incarnò, e divenne uomo; soffrì e risorse il terzo dì, ascese nei cieli e verrà a giudicare i vivi ed i morti; e nello Spirito Santo. Ma quelli che dicono che c’è stato un tempo in cui Egli (il Figlio) non era, e che Egli non era prima che fosse generato, e che Egli è stato fatto dal nulla, o affermano che Egli è di qualsiasi altra sostanza o essenza, e che il Figlio di Dio è stato creato, ed è mutabile o cambiabile, la Chiesa Cattolica li dichiara maledetti.»

Questa è la versione generalmente riconosciuta del credo di Nicea promulgato originariamente. Nella forma esso fu alquanto modificato, anche se i suoi elementi essenziali furono lasciati praticamente immutati dal concilio tenuto a Costantinopoli mezzo secolo dopo. Quella che è considerata una riesposizione del credo di Nicea è stata attribuita ad Attanasio, uno dei principali oppositori dell’Arianesimo, anche se il suo diritto di esserne considerato l’autore è messo in dubbio da molti ed enfaticamente negato dalle stesse fonti autorevoli nel campo della storia ecclesiastica. Cionondimeno la dichiarazione sopra esposta viene riconosciuta dalla letteratura come il "Credo di Attanasio", e , a torto o ragione, con tale nome esso continua ad essere una dichiarazione di fede di alcune sette cristiane del nostro tempo. Il medesimo attualmente occupa un posto nel rituale prescritto della chiesa d’Inghilterra.

Nella storia ecclesiastica il concilio di Nicea è noto come uno dei più famosi e più importanti che mai siano stati tenuti; vi parteciparono 318 vescovi e i temi trattati furono tanti. Fu risolta non solo la controversia Ariana, ma anche altre questioni. Così la vertenza che durava da lunga data sul problema della celebrazione della Pasqua fu sistemato con il voto, come lo fu la questione dibattuta da Novato e i suoi seguaci circa la giustezza di riammettere nella Chiesa gli apostati pentiti e lo scisma causato da Melezio, vescovo del Nord Africa, il quale si era rifiutato di riconoscere l’autorità superiore del vescovo di Alessandria. Alla luce del numero e delle varietà delle questioni presentate al concilio di Nicea per un giudizio, possiamo tranquillamente concludere che la chiesa da poco insediata sul trono non era caratterizzata dall’unità di intento, né dall’armonia di azione. Tuttavia, a confronto con le aspre contese che ne seguirono, i dissensi che vi furono sotto il regno di Costantino non erano che l’inizio dei disordini.

Una delle eresie che nacquero agli inizi della chiesa e che furono di rapida diffusione fu la dottrina del dualismo fra il corpo e lo spirito, per cui il primo era considerato come un incubo ed una maledizione. Da quello che è stato detto ciò sarà riconosciuto come una delle alterazioni derivanti dall’alleanza fra lo gnosticismo ed il cristianesimo. Uno dei risultati di questo innesto con le dottrine pagane fu un’ampia diffusione delle pratiche eremitiche con cui gli uomini cercavano di indebolire, torturare, e sottomettere il corpo, affinché lo spirito, o "anima", potesse acquistare maggiore libertà. Molti di coloro che seguivano in pratica questo sconcertante punto di vista si ritirarono in solitudine nel deserto, e qui trascorsero il tempo dedicandosi a pratiche di rigida astinenza e compiendo atti di delirante autotortura. Altri si chiusero in una prigione cercando la gloria nelle privazioni e nelle penitenze che si imponevano da soli. Fu questa innaturale visione della vita che dette origine ai vari ordini di reclusi, eremiti e monaci.

Non ritenete che il Salvatore pensasse a queste pratiche quando, mettendo in guardia i discepoli contro le false rivendicazioni della santità che ben presto avrebbero caratterizzato quel tempo, disse: «Se dunque vi dicono: – eccolo, è nel deserto, non v’andate; eccolo, è nelle stanze intere, non lo credete?» (Matteo 24:26).

Mosheim scrisse: «Sostenevano che la comunione con Dio andava cercata nella mortificazione dei sensi, estraniando la mente da ogni interesse esterno, macerando il corpo con la fame e la fatica e da una sacra specie d’indolenza, che restringeva ogni attività dell’anima a una pigra contemplazione delle cose spirituali ed esterne. La chiesa cristiana non sarebbe mai stata disonorata da questo entusiasmo crudele e asociale, né alcuno si sarebbe assoggettato a quelle atroci torture della mente e del corpo, se molti Cristiani non fossero stati ingannevolmente attirati dall’aspetto specioso e del pomposo suono di quella massima dell’antica filosofia che dice: – Per poter raggiungere la vera felicità e la comunione con Dio è necessario che anche in terra l’anima si separi dal corpo il quale, per il raggiungimento dello scopo, deve essere macerato e mortificato» (Mosheim "Istituzioni della storia ecclesiastica" Secolo IV, parte II cap 3:12,13).

Molto presto nella sua storia la Chiesa manifestò la tendenza a soppiantare la semplicità originaria del suo culto con cerimonie complicate, modellate secondo il rituale dei seguaci del giudaismo e le idolatrie pagane.

Per ciò che concerne queste innovazioni, Mosheim scrive quanto segue come riferimento alle condizioni esistenti nel secondo secolo: «Non c’è alcuna istituzione così pura ed eccellente che, con l’andare del tempo, la corruzione e la follia dell’uomo non alterino in peggio e non la soverchino di corollari estranei alla sua natura e al suo schema originale. Questo in modo particolare fu il destino della Cristianità. In quel secolo molti inutili riti e cerimonie furono aggiunti al culto cristiano, e l’introduzione fu estremamente offensiva per gli uomini saggi e buoni. Questi cambiamenti, mentre distruggevano la bella semplicità del vangelo, attiravano il volgo, il quale faceva poca attenzione a qualsiasi cosa che non colpisse i suoi sensi esteriori e perciò si dilettava più della pompa e dello splendore delle istituzioni esteriori che del semplice fascino della devozione razionale e solida.» Mosheim spiega che i vescovi di quel tempo aumentarono le cerimonie e cercarono di dar loro splendore «per compiacere le debolezze e i pregiudizi sia degli ebrei che dei pagani.» (Mosheim "Istituzioni di storia ecclesiastica" Secolo II parte II cap 4).

Per conciliare più efficacemente i dettami evangelici con i pregiudizi ebraici, ancora legati al rispetto della lettera della legge mosaica, i dirigenti della chiesa del primo e secondo secolo fecero propri gli antichi titoli, così i vescovi si dichiarano sommi sacerdoti, e i diaconi, Leviti. «Allo stesso modo» dice Mosheim «il paragone fra l’oblazione cristiana e il sacrificio propiziatorio ebraico produsse una serie di riti ibridi, e fu un’occasione per introdurre l’errato concetto dell’eucarestia, rappresentandolo come un sacrificio reale e non semplicemente come una commemorazione di quella grande offerta che un tempo fu fatta sulla croce per i peccati mortali» (Moshei "Istituzioni di storia ecclesiastica" secondo secolo Parte II cap 4:4).

Nel quarto secolo troviamo la chiesa ancora più impegnata nel formalismo e nella superstizione. Il rispetto con cui i resti degli antichi martiri erano stati onorati degenerò o divenne una venerazione superstiziosa pari ad un culto. Questa pratica era permessa per riguardo all’adorazione pagana per gli eroi deificati. Anche i pellegrinaggi alle tombe dei martiri divenne una forma esteriore di culto. Le ceneri di tali martiri, nonché la polvere e la terra trasportata dai luoghi che si dicevano fossero stati resi santi a seguito di qualche fatto insolito, venivano vendute come estremi rimedi contro le malattie e come mezzo di protezione contro gli assalti degli spiriti maligni.

«Durante il secondo e terzo secolo la forma del culto era talmente mutata da aver poca somiglianza con la semplicità e la devozione delle antiche congregazioni. I discorsi filosofici presero il posto delle ferventi testimonianze, e l’arte del dire e del disputare soppiantò la vera eloquenza delle convinzioni religiose. Gli applausi erano consentiti e desiderati perché erano la prova della popolarità del predicatore. L’offerta dell’incenso, originariamente aborrita dalle congregazioni cristiane, perché di origine pagana come il suo significato, divenne comune nelle cerimonie della chiesa cristiana sullo scorcio del terzo secolo. Nel quarto secolo l’adorazione delle immagini, sculture o dipinti, venne ad occupare un posto di rilievo nel culto cristiano. Nell’ottavo secolo il tentativo di mettere un freno agli abusi derivanti da questa pratica idolatrica portò alla guerra civile.» (Mosheim "Istituzioni di storia ecclesiastica" Secolo VIII parte II cap. 3:9-10).

Considerando queste dimostrazioni del cerimoniale pagano e dei riti superstiziosi che presero il posto delle celebrazioni religiose semplicissime della chiesa al tempo della sua integrità. Chi può dubitare della vasta e spiacevole apostasia? Ma ancor più importanti, ancora più significative delle semplici appendici al cerimoniale, sono le alterazioni e le modifiche introdotte nelle ordinanze più sacre ed essenziali della chiesa di Cristo. Poiché è comune presso le autorità ecclesiastiche considerare il battesimo e il sacramento della cena del Signore come le ordinanze più essenziali del Vangelo istituite da Cristo e seguite dai suoi Apostoli. Esamineremo soltanto queste come esempi delle alterazioni non autorizzate prima citate. In questa limitazione dei nostri esempi, noi non diciamo che il battesimo ed il sacramento della cena erano le uniche ordinanze che la chiesa tenesse in grande considerazione, in verità ve n’erano delle altre. Per esempio, l’imposizione delle mani da parte di persone autorizzate per il conferimento dello Spirito Santo nel caso di credenti battezzati era importante quante il battesimo stesso (vedere Atti 8:5-8, 12:14-17, inoltre atti 19:1-7, Matteo 3:11 Marco 1:8), e certamente questa ordinanza era considerata altrettanto essenziale quanto la prima (vedere Matteo 3:11). Inoltre l’ordinazione al sacerdozio, cerimonia di autorizzazione divina, era indispensabile al mantenimento di una chiesa organizzata.

CONTRAFFAZIONE DELL’ORDINANZA BATTESIMALE

Prima di tutto parliamo del battesimo. In cosa consisteva originariamente questa ordinanza? Quale era il suo scopo ed il modo di amministrarla? E quali trasformazioni essa subì nel corso dell’apostasia progressiva attraverso cui passò la Chiesa? Che il battesimo fosse essenziale (come lo è anche adesso) per la salvezza dell’uomo non c’è bisogno di dimostrarlo qui; Lo scopo del battesimo era ed è quello di ottenere la remissione dei peccati. L’osservanza di questo sacramento è stata sin dal principio la condizione essenziale per poter essere ammessi nella chiesa di Cristo. Nell’antica chiesa il battesimo veniva amministrato dietro la professione di fede e la dimostrazione del pentimento; si effettuava per immersione (vedere Marco 1:4, Luca 3:3, inoltre Atti 2:38 1, Pietro 3:21, Atti 22:16), ed il rito veniva celebrato da una persona investita della necessaria autorità sacerdotale. Come esempi posiamo citare la rapidità con cui venne amministrato il battesimo ai credenti in quel fatidico giorno di Pentecoste, il battesimo amministrato da Filippo al convertito etiope immediatamente dopo la dovuta confessione di fede, il tempestivo battesimo del devoto Cornelio e della sua famiglia ed infine il battesimo del carceriere convertito da Paolo, suo prigioniero. (Atti 2:37-41, Atti 8:26-39, Atti 10:47-48, Atti 16:31-33).

Tuttavia nel secondo secolo un ordine sacerdotale aveva limitato l’ordinanza sacerdotale del battesimo al tempo delle due festività della chiesa: la Pasqua e la settimana di Pentecoste. Prima di essere ritenuto idoneo per ricevere il battesimo, il candidato doveva sottoporsi ad un lungo e tedioso corso di preparazione. Durante questo tempo egli era chiamato "Catecumeno" o novizio. Secondo alcune fonti autorevoli, in tutti i casi, tranne che in quelli eccezionali, il corso preparatorio durava tre anni.

Durante il secondo secolo il simbolismo battesimale della nuova nascita venne messo in risalto con molte aggiunte a questa ordinanza, talché i nuovi battezzati erano trattati come neonati e perciò nutriti con latte e miele come segno della loro immaturità. Inoltre, essendo il battesimo ritenuto una cerimonia di liberazione dalla schiavitù di Satana, vi furono aggiunte certe formule usate nel rito di liberazione degli schiavi. Anche l’unzione con olio entrò a far parte di questa cerimonia. Nel terzo secolo la semplice ordinanza del battesimo fu ulteriormente alterata dagli uffici di un esorcista. Questo funzionario religioso si abbandonava a "minacce e a spaventose grida e declamazioni" per cui i demoni o gli spiriti maligni che si supponeva affliggessero il candidato venivano scacciati." Lo scacciare questi demoni era ora considerato essenziale per il battesimo, dopo di che i candidati ritornavano a casa adornati di corone e di vesti bianche come emblemi sacri. Le corone stavano ad indicare la loro vittoria sul peccato e sul mondo; le vesti bianche la loro purezza ed innocenza interiore. Nel quarto secolo si cominciò a mettere il sale in bocca ai battezzandi, come simbolo della purificazione, e il battesimo vero e proprio era sia preceduto che seguito da unzione con olio.

La forma o modo del battesimo subì anche un cambiamento radicale durante la prima metà del terzo secolo, cambiamento a seguito del quale il suo simbolismo essenziale venne a cessare. L’immersione che rappresentava la morte seguita dalla resurrezione, non fu più ritenuta un requisito essenziale, e al suo posto s’introdusse l’aspersione con acqua. Cipriano, dotto vescovo di Cartagine, propugnò la giustezza dell’aspersione al posto dell’immersione nei casi di debolezza fisica, e questa pratica in seguito divenne generale. Il primo di cui si legge è quello di Navota, un eretico che chiese di essere battezzato quando pensava che la morte fosse vicina.

«Non soltanto la forma del rito battesimale fu radicalmente cambiata, ma fu alterata anche l’applicazione dell’ordinanza La pratica dell’amministrazione del battesimo dei neonati fu riconosciuta come ortodossa nel terzo secolo e indubbiamente risaliva ad epoca precedente. In una lunga disputa sulla questione se fosse opportuno posporre il battesimo dei neonati fino all’ottavo giorno dopo la nascita, in ossequio all’usanza giudaica per cui la circoncisione si eseguiva in quel giorno, fu deciso che tale ritardo sarebbe stato pericoloso, perché avrebbe potuto pregiudicare il benessere futuro del bambino se questi fosse morte prima degli otto giorni, per cui il battesimo doveva essere amministrato quanto prima possibile dopo la nascita.» (Milner "Storia della Chiesa" secolo III cap 13).

Non si può immaginare una dottrina più ignominiosamente irrazionale di quella della condanna dei neonati non battezzati, e non c’è necessità di cercare una prova più valida delle eresie che avevano invaso e corrotto l’antica chiesa. Le parole di Moroni nel libro di mormon suonano profetiche al riguardo, (Moroni 8:10-20) «Ecco! Io ti dico ciò che devi insegnare: la penitenza ed il battesimo per COLORO CHE SONO RESPONSABILI E CAPACI DI COMMETTER PECCATO, si insegna ai genitori che debbono pentirsi per essere battezzati ed umiliarsi come i loro figlioletti, allora saranno tutti salvati come i loro bambini. Ed I LORO FIGLIOLETTI NON HANNO BISOGNO né DI PENTIRSI né DI ESSERE BATTEZZATI. Ecco il battesimo è per il pentimento a compimento dei comandamenti, per la remissione dei peccati. Ma i fanciulli sono viventi in Cristo fin dalla fondazione del mondo; se no Iddio sarebbe un Dio mutevole ed anche un Dio parziale e di rispetto umano; quanti bambini infatti sono morti senza battesimo! Dunque, se i fanciulli non potessero essere salvati senza battesimo, essi sarebbero andati eternamente in inferno! Ora ti affermo che chi suppone che i fanciullini abbiano bisogno di battesimo è NEL FIELE DELL’AMAREZZA E NELLE CATENE DELL’INIQUITÀ E NON HA né FEDE né SPERANZA E né CARITÀ, per cui, se dovesse essere reciso mentre nutre tali pensieri, dovrebbe scendere giù in inferno. È terribile malvagità supporre che Iddio salvi un bambino a causa del battesimo e che l’altro debba perire perché non è battezzato (…)»

I fanciulli non possono pentirsi; perciò è orribile malvagità il negare le pure misericordie di Dio per loro, poiché sono tutti viventi, grazie alla sua Misericordia. E chiunque dice che i fanciulli hanno bisogno di battesimo, nega la misericordia di Cristo, annulla LA SUA ESPIAZIONE ed il potere della sua redenzione.

Una simile dottrina è estranea al vangelo ed alla chiesa di Cristo, e la sua adozione quale principio essenziale è una prova dell’apostasia.

ALTERAZIONI DELL’ORDINANZA DEL SACRAMENTO DELLA CENA DEL SIGNORE

Il sacramento della cena del Signore è stato considerato un’ordinanza essenziale sino dal tempo della sua istituzione nella Chiesa di Gesù Cristo. Tuttavia, malgrado la sua santità esso ha subito radicali trasformazioni sia per ciò che riguarda il suo simbolismo che il suo scopo riconosciuto. Questo sacramento, così come fu istituito dal Salvatore, e come era amministrato durante il tempo apostolico, era tanto semplice quanto sacro e solenne. Accompagnata dal vero spirito del vangelo la sua semplicità era santificatrice; interpretata dallo spirito dell’apostasia, tale semplicità divenne un biasimo. Così troviamo che nel terzo secolo, oltre a lunghe preghiere sacramentali, fu introdotta anche una gran pompa. Le congregazioni che se lo potevano permettere usavano calici d’oro e d’argento, e questo con grande ostentazione. Coloro che non erano membri della chiesa, o i membri "che erano in condizioni di penitenti" venivano esclusi dal servizio, a imitazione della esclusività che caratterizzava i misteri pagani. Sorsero dispute e divergenze circa la scelta del tempo per amministrare il sacramento, cioè se la mattina, il mezzogiorno o la sera, e anche circa la frequenza con cui si doveva celebrare questa ordinanza. In epoca successiva fu istituita la dottrina della "transustanziazione" come canone essenziale della Chiesa Romana. Descritta sommariamente, questa dottrina dice che il pane e il vino usati nel sacramento perdono il loro carattere di semplice pane e vino e diventano di fatto la carne ed il sangue del Cristo crocifisso. Si pensa che la trasformazione avvenga in modo mistico da ingannare i sensi, cioè il pane ed il vino appaiono sempre come tali anche dopo essere divenuti realmente carne e sangue del Salvatore. Questa concezione, tanto saldamente difesa e rispettata dai membri ortodossi della chiesa Romana, è veementemente attaccata da altri come un «canone assurdo» (Milner) e una dottrina «mostruosa e innaturale» (Mosheim). Si è fatto un gran parlare dell’origine di questa dottrina, i cattolici romani sostengono che essa è molto antica, mentre i loro oppositori insistono nell’affermare che fu una innovazione dell’ottavo o nono secolo. Secondo Milner «essa veniva insegnata apertamente nel secolo nono». (Milner "Storia della Chiesa" secolo IX Capitolo 1). «Fu ufficialmente istituita come dogma della chiesa dal concilio di Piacenza nel 1095.» (Milner "Storia della Chiesa" secolo XIII cap. 1), e «divenne un articolo essenziale della fede, cui tutti dovevano credere, con un provvedimento del tribunale ecclesiastico romano intorno al 1160. Nel 1215 un editto ufficiale del papa Innocenzo III confermò il dogma come principio e dettame vincolante della chiesa.» (Mosheim "Istituzioni della chiesa ecclesiastica" secolo XIII parte II cap. 3:2) ed è tuttora in vigore.

Il simbolo consacrato dell’"ostia" che è considerato la vera carne e sangue di Cristo, veniva adorato come divino in sé stesso. Così «alla ricezione di questa dottrina fu collegata una pratica idolatra molto dannosa. Gli uomini si prostravano davanti all’ostia consacrata perché la identificavano con Dio; e la novità, l’assurdità e l’empietà di questa pratica colpirono profondamente la mente di tutti gli uomini che non erano sordi al senso della vera religione.» Milner "Storia della Chiesa" secolo XIII cap 1. La Chiesa Cattolica insegna che la celebrazione della messa è un reale sacrificio, seppure mistico, in cui il Figlio di Dio è offerto ogni giorno quale continua espiazione per i peccati presenti dei fedeli che partecipano alla messa. Un’altra alterazione di questo sacramento è rappresentata dalla somministrazione del solo pane, anziché del pane e del vino come era originariamente richiesto.

Analizziamo adesso alcune cose più strettamente inerenti il papato. Roma che da molto tempo era la padrona del mondo nelle questioni secolari, lo divenne anche in quelle religiose, grazie al vescovo di Roma che ne rivendicava la supremazia. Ma stando a "Rivelazione" la chiesa di Roma non era importante nel primo secolo e non vi era alcuna leader, infatti delle sette chiese menzionate in Apocalisse non solo non si fa riferimento a Roma, ma parlando della città di Roma l’apostolo Giovanni la chiama Babilonia, una bella differenza. Secondo Atti la chiesa si riuniva sempre a Gerusalemme per discutere i vari problemi dottrinali, leggere il capitolo 15. Non vi è alcun passo, nemmeno quando Paolo va a Roma, che lasci intendere che la sede fosse stata spostata proprio a Babilonia la grande.

È senz’altro vero che la chiesa di Roma fu organizzata da Pietro e Paolo, ché forse fu l’unica chiesa che loro organizzarono? Sicuramente no! In ossequio alla tradizione si diceva che l’apostolo Pietro era stato il primo vescovo di Roma, ma la Bibbia non conferma. La Chiesa Cattolica di oggi rivendica la stessa cosa, e cioè l’attuale papa è l’ultimo successore diretto, non soltanto del vescovato, ma anche dell’apostolato.

La legittima supremazia dei vescovi di Roma, o sommi pontefici, come furono chiamati in nome dell’umiltà cristiana, fu ben presto messa in discussione; e quando Costantino trasferì la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio (Costantinopoli), il vescovo di questa città, avendo oramai imparato come si giocava, reclamò l’uguaglianza con quello di Roma. La contesa divise la Chiesa, ed i dissensi si trascinarono per secoli fino a quando divenuti più aspri nel 1054 culminarono in quello conosciuto come scisma d’Oriente, a seguito del quale il Vescovo di Costantinopoli, noto particolarmente come il Patriarca, disconobbe ogni e qualsiasi dipendenza dal vescovo di Roma. Questa rottura è oggi caratterizzata dalla distinzione fra i cattolici romani ed i cattolici greci.

L’elezione del pontefice, o vescovo di Roma, fu per molto tempo lasciata al voto del popolo e del clero. Successivamente la funzione elettorale fu assegnata al clero soltanto, e nell’undicesimo secolo tale potere fu conferito al collegio dei cardinali che lo detiene tuttora. I pontefici romani fecero di tutto per acquisire anche l’autorità temporale, oltre a quella spirituale, ed in un certo senso vi riuscirono; la loro influenza era divenuta talmente grande che nell’undicesimo secolo li troviamo rivendicare tale diritto presso principi, re ed imperatori nelle questioni delle varie nazioni. Fu a questo punto, cioè agli inizi del loro più grande potere temporale, che i pontefici assunsero il titolo di "Papa", parola che significa "Padre", nel senso di genitore universale. Il potere dei Papi aumentò ancora durante il dodicesimo secolo fino a raggiungere il suo apice nel tredicesimo.

Non contenti della supremazia su tutti gli affari della chiesa, i papi «portarono le loro insolenti pretese fino al punto di farsi passare per signori dell’universo, arbitri del destino di regni ed imperi, e supremi regnanti al disopra dei re e dei principi della terra.» (Mosheim "Istituzioni di storia ecclesiastica" secolo XI parte II cap 2:2). Paragonate questa arrogante e tirannica chiesa del mondo con la Chiesa di Cristo. Sotto Ponzio Pilato nostro Signore dichiarò: «Il mio regno non è di questo mondo».

«Nel secolo quarto la chiesa aveva emanato quella che è stata definita una legge iniqua ed infame, e cioè che gli errori nella religione, se sostenuti dopo giusti ammonimenti, erano punibili con pene civili e torture corporali» (Mosheim "Istituzione di storia ecclesiastica" secolo IV parte II cap 3:16). Con il passare degli anni l’applicazione di questa legge appariva sempre più atroce, tanto che nell’undicesimo secolo, ed anche più tardi, troviamo che la chiesa impone pene pecuniarie, prigionia, torture corporali e persino la morte, per l’infrazione di leggi ecclesiastiche, e, più ignominioso ancora, che tali sentenze venivano mitigate o annullate dietro pagamento di denaro. Questo portò alla ripugnante consuetudine della vendita delle "indulgenze", commercio questo che in seguito prese le vie più tortuose arrivando al disonorevole estremo di concedere le indulgenze prima ancora di aver commesso la colpa, evidentemente essi pensavano in grande.

In principio la concessione delle indulgenze come esonero dalle pene temporali era ristretta ai vescovi e come commercio organizzato questa abitudine risale alla metà del dodicesimo secolo. Tuttavia stava ai papi giungere all’empio limite di pensare di rimettere i castighi dell’aldilà dietro pagamento delle somme prescritte. La loro pretesa giustificazione dell’empia presunzione era orribile quanto l’azione in sé stessa, e costituisce la spaventosa dottrina della"supererogazione". Questa dottrina, che fu formulata nel tredicesimo secolo, diceva questo: «Esisteva veramente un immenso tesoro di meriti, consistenti nelle azioni pie e virtuose che i santi avevano compiuto al di là di quello che era necessario per la loro salvezza, e che dunque si applicavano a vantaggio degli altri; che il custode e dispensiere di questo prezioso tesoro era il pontefice romano e che, conseguentemente, egli aveva la facoltà di assegnare a coloro che riteneva meritevoli una porzione di questa inestinguibile fonte di meriti, in misura idonee alle loro rispettive colpe, e in quantità sufficiente a liberali dal castigo che avrebbero dovuto subire per le loro colpe.» (Mosheim vedere "Istituzioni di Storia ecclesiastica" XII secolo parte II cap 3:4).

A dimostrazione delle indulgenze vendute in Germania nel sedicesimo secolo, abbiamo la descrizione delle azioni di Johann Tetzel, rappresentante del papa, il quale andava in giro vendendo il perdono dei peccati. Dice Milner: «Miconio ci assicura che egli stesso udì Tetzel declamare con incredibile impudenza l’illimitato potere del papa e l’efficacia delle indulgenze, la gente credeva che nel momento in cui la persona pagava i soldi per un’indulgenza la sua salvezza fosse certa, e che le anime per cui si comperavano le indulgenze venissero seduta stante fatte uscire dal purgatorio. Johann Tetzel si vantava di aver salvato con le sue indulgenze più anime dall’inferno di quante non ne avesse convertite S. Pietro al Cristianesimo con le sue prediche. Egli assicurava a chi acquistava le indulgenze che i suoi peccati, per quanto gravi, sarebbero stati perdonati; per cui divenne quasi inutile per lui invitare i peccatori a redimersi col pentimento se volevano salvarsi.» (Milner "Storia della chiesa XVI secolo cap. 2).

Una copia di una indulgenza scritta da Tretzel stesso, il venditore della grazia papale, ci è stata tramandata come segue: «Possa nostro Signore Gesù Cristo, avere misericordia di te ed assolverti per i meriti della sua santissima passione. Ed io, per la sua autorità, per quella dei suoi apostoli Pietro e Paolo, e del santissimo papa, a me concessa e affidata, ti assolvo, prima di tutto da ogni biasimo ecclesiastico, quale che sia il modo in cui tu sia incorso in esso, quindi da tutti i peccati, trasgressioni ed eccessi, per quanto enormi possano essi essere, persino da quelli che sono di competenza del papa. E per quello che le chiavi della Santa Chiesa hanno il potere di fare, io ti rimetto tutti i castighi che ti meriti nel purgatorio a causa delle tue colpe e ti reintegro nei tuoi diritti, nel diritto ai santi sacramenti della chiesa, nel diritto all’unità dei fedeli, e nel diritto a quella innocenza e purezza che possedevi al momento del battesimo. Così quando morirai, le porte del castigo resteranno chiuse, e quelle del paradiso ti saranno aperte. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.» (Millener "Storia della Chiesa" XVI secolo cap. 2).

A mo’ di scusa o di difesa, la chiesa Cattolica Romana asseriva che una dichiarazione di contrizione o di pentimento era necessaria da parte della persona che chiedeva l’indulgenza e che la grazia veniva accordata in base di tale pentimento e non dietro compenso pecuniario o di qualche altra cosa. Se la chiesa accettava qualcosa dai beneficiari delle indulgenze, era per rispetto all’usanza di fare un dono alla Chiesa. Inoltre sappiamo che intorno alla metà del sedicesimo secolo il Concilio di Trento disapprovò gli abusi inerenti alla vendita delle indulgenze. Tuttavia rimane il terribile fatto che per centinaia di anni la chiesa aveva rivendicato per il suo papa il potere di rimettere i peccati, e che il provvedimento di perdono dei medesimi veniva venduto come una qualsiasi altra merce.

Un altro abuso perpetrato dai concilii per il cui tramite i sommi pontefici esercitavano poteri autocratici, si riscontra nelle restrizioni imposte nella lettura e nella interpretazione della scrittura. Lo stesso concilio di Trento, che aveva disconosciuto l’autorità o la responsabilità delle azioni compiute dai funzionari ecclesiastici in merito allo scandaloso traffico delle indulgenze, ordinò l’emissione di una serie di provvedimenti atti ad impedire al popolo la lettura delle Scritture. Così: «Fu promulgata una legge severa e intollerabile che faceva divieto a tutti gli interpreti e commentatori delle Scritture di non dare, del contenuto di questi libri divini, un significato diverso da quello espresso dal linguaggio della Chiesa e dei suoi antichi dottori. La stessa legge dichiara inoltre che la Chiesa soltanto (cioè il suo capo, il papa) aveva il diritto di stabilire il vero significato della scrittura. Per colmare la misura di questi provvedimenti tirannici ed iniqui, la chiesa di Roma continuò ostinatamente ad affermare, anche se non sempre con la stessa imprudenza e chiarezza di parola, che le sacre Scritture non erano state composte per uso della moltitudine, ma soltanto per quello dei suoi insegnanti spirituali; e di conseguenza, ordinò che questa divina documentazione fosse sottratta al popolo in tutti i luoghi che erano sotto la sua giurisdizione.» (Mosheim"Istituzioni di storia ecclesiastica" XVI secolo parte I cap 1:25).

Indubbiamente una cappa di tenebre si era abbattuta sulla terra. Da lungo tempo la chiesa di Cristo aveva cessato di esistere. Al posto del Sacerdozio conferito per autorità divina, c’era un papato creato dall’uomo che governava con la mano di ferro della tirannia e della costrizione morale. In una sua valente opera il Dr. J.W. Draper fa un elenco dei pontefici che si succedettero dalla metà dell’ottavo secolo alla metà dell’undicesimo secolo, con note biografiche su ciascuno.

IL PAPATO CONDANNA SÉ STESSO

Considerando gli interessi della religione soltanto, ad alcuni può sembrare desiderabile omettere qualsiasi riferimento biografico sui papi; ma ciò non può essere fatto con giustizia verso la questione. Il principio essenziale del papato, secondo cui il pontefice romano è il vicario di Cristo in terra, necessariamente comporta un suo rapporto personale con noi. Come faremo noi a capire la sua fede, se non la vediamo esemplificata dalla sua vita? Infatti, l’infelice natura di quei rapporti fu la causa che suscitò i movimenti della Germania, Francia e Inghilterra, che terminarono con l’estinzione del papato quale potere polito reale, movimenti che si capiscono soltanto attraverso una sufficiente conoscenza della vita privata dei papi. Per quanto possibile, è bene astenersi dall’attribuire ai sistemi le imperfezioni dei singoli individui. In questo caso essi sono inseparabilmente connessi. Un contrassegno non certo apprezzabile del papato è che, sebbene la sua storia possa essere grandiosa, la sua biografia è disgustosa. Tuttavia eviterò di parlarne in questi termini più di quanto la circostanza sembri necessariamente richiedere; tacerò su alcuni di quei casi che impressionerebbero profondamente il lettore veramente religioso, e mi limiterò a prendere in considerazione solo il periodo che va dalla metà dell’ottavo secolo alla metà dell’undicesimo, adducendo per il critico imparziale la scusa che tale periodo è quello di cui mi sono principalmente interessato in questo capitolo.

«Alla morte del papa Paolo I, che era salito al pontificato nel 757 d.C., il Duca di Nepi costrinse alcuni vescovi a consacrare "papa" Costantino, uno dei suoi fratelli. Ma successivamente, dopo che gli elettori più legittimi ebbero scelto Stefano IV (768 d.C.) l’usurpatore ed i suoi accoliti furono severamente puniti; a Costantino furono cavati gli occhi; al vecchio Teodoro fu tagliata la lingua, e poi fu gettato in una prigione e lasciato morire dall’agonia della sete. I nipoti del papa Adriano, con l’aiuto di alcuni nobili, aggredirono il nuovo papa Leone III durante una processione e lo picchiarono a sangue lasciandolo in mezzo al Corso con la lingua mozza e gli occhi accecati (799 d.C.). In seguito a questo fatto si aprì a Roma un altro periodo di complotti, attentati, uccisioni, ecc. Il successore di Leone III, Stefano V (816 d.C.) fu ignominiosamente scacciato dalla città e sostituito con Pasquale I. Ma anch’egli fu accusato di aver accecato ed ucciso due ecclesiastici nel palazzo Laterano. Di fronte a tale accusa era necessario che i commissari imperiali indagassero sulla faccenda, ma il papa morì dopo essersi discolpato giurando davanti a 30 vescovi. Giovanni VIII (872 d.C.) incapace di resistere ai Maomettani, fu costretto a pagar loro una certa somma, parte della quale andò nelle tasche del Vescovo di Napoli, che aveva stretto un’alleanza segreta con loro. Giovanni lo scomunicò, e minacciò di non assolverlo se non avesse tradito il capo dei Maomettani e non avesse assassinato alcuni di loro. In seno al clero vi fu una cospirazione per uccidere il papa; parte del tesoro della chiesa fu trafugato, e la porta di S. Pancrazio fu aperta con chiavi false per far entrare i saraceni nella città. Formoso, che aveva preso parte a queste operazioni e che fu scomunicato come cospiratore per l’assassinio di Giovanni, fu in seguito eletto papa (891 d.C.)… Gli succedette Bonifacio VI (896 d.C.), il quale era stato deposto dal diaconato, e quindi dal sacerdozio, per la sua vita immorale e dissoluta. Da Stefano che gli succedette, venne aperto un processo postumo contro Formoso, il cui cadavere fu esumato dalla tomba, vestito delle vesti papali e puntellato su di una seggiola. Stefano VI aprì l’udienza; Formoso fu riconosciuto colpevole e deposto. Al termine del processo un prete strappò di dosso al cadavere i paramenti sacri, gli recise le tre dita dalla mano destra, gli tagliò la testa e fra i lazzi osceni del popolino gettò le sue ossa nel Tevere. Ma Stefano stesso era destinato ad esemplificare quanto il papato fosse caduto in basso; egli fu tradotto in prigione e strangolato. Nel corso di 5 anni, dal 896 .d.C. al 900 d.C. furono consacrati 5 papi. Leone V, che fu eletto nel 904 d.C., in meno di 2 mesi fu gettato in prigione da Cristoforo, uno dei suoi cappellani, il quale, dopo averne usurpata la tiara, fu poco dopo espulso da Roma da Sergio III, il quale, con l’aiuto di una forza militare, nel 905 d.C. si impadronì del pontificato. Quest’uomo, secondo la testimonianza di quei tempi, visse mantenendo rapporti sessuali con le prostitute Teodora, la quale insieme alle sue figlie Marozia e Teodora, esse pure prostitute, esercitò uno straordinario potere su di lui. Teodora amò pure Giovanni X; essa prima gli dette l’arcivescovado di Ravenna, e poi nel 915 d.C., lo trasferì a Roma come papa. Giovanni non era all’altezza dei tempi e tuttavia seppe organizzare la difesa di Roma contro i Saraceni. Il mondo rimase stupefatto dell’apparizione di questo pontefice alla testa delle sue truppe. Per l’amore di Teodora, come abbiamo detto, egli tenne la tiara per 14 anni; poi per gli intrighi e l’odio della di lei figlia Marozia, fu gettato in prigione e soffocato con un cuscino. Dopo un breve intervallo, Marozia fece salire sul trono di Pietro il figlio, che prese il nome di Giovanni XI, nel 931 d.C. Molti affermarono che il papa Sergio era suo padre, ma essa stessa era incline ad attribuirlo a suo marito Alberico. Un altro dei suoi figli, Alberico, chiamato come il padre, un po’ per odio e un po’ per gelosia fece arrestare il fratellastro Giovanni e lo gettò in prigione insieme alla loro madre Marozia. Dopo un certo tempo fu eletto papa, il figlio di Alberico, 956 d.C., che prese il nome di Giovanni XII. Giovanni aveva soltanto 19 anni quando divenne papa (Giovanni XI ne aveva 12). Il suo regno fu caratterizzato dalle più disgustose immoralità, tanto che l’imperatore Ottone I fu costretto dal clero germanico ad intervenire. Fu indetto un sinodo per processarlo nella chiesa di S. Pietro.

Egli era accusato di aver accettato denaro per la consacrazione di certi vescovi; di aver ordinato un ragazzo di soli 10 anni, di aver celebrato quella ed un’altra cerimonia in una stalla, di aver commesso incesto con una delle concubine di suo padre, e di così tanti altri adulteri che il palazzo Laterano era divenuto un bordello. Egli tolse gli occhi ad un ecclesiastico, ed un altro fu castrato, e tutti e due morirono a causa delle sue sevizie. Era dedito all’ubriachezza, al gioco d’azzardo e all’invocazione di Giove e Venere. Quando gli fu ordinato di apparire dinanzi al consiglio, egli fece sapere che "era andato fuori a caccia" ed ai padri che protestarono contro di lui osservò che "Giuda, come gli altri apostoli, aveva ricevuto dal suo maestro il potere di legare e di sciogliere, ma che non appena fu provato che egli era un traditore della causa comune, il solo potere che conservò fu quello di legare il proprio collo." Al che egli fu deposto e al suo posto venne eletto nel 963 d.C. Leone VIII, ma successivamente prese il sopravvento, s’impadronì dei suoi antagonisti, tagliò la mano ad uno, il naso, un dito, la lingua ad altri. Alla fine fu ucciso per vendetta da un uomo la cui moglie aveva sedotto.

Dopo tali particolari, è quasi inutile citare gli annali dei papi successivi, cioè raccontare per esempio, che Giovanni XIII fu strangolato in prigione, che Bonifacio VII mise in prigione Benedetto VIII e lo uccise facendolo morire di fame, che Giovanni XIV fu segretamente messo a morte nelle prigioni di Castel Sant’Angelo, che il cadavere di Bonifacio fu trascinato dalla popolazione lungo le strade. Il sentimento di venerazione per il pontefice sovrano, o meglio, di rispetto, in Roma si era estinto; in tutta l’Europa il clero era così impressionato dallo stato di cose che, nella sua indignazione, cominciò a considerare favorevolmente l’intenzione dell’imperatore Ottone di togliere agli italiani il privilegio di nominare il successore di Pietro, e di limitarlo alla sua stessa famiglia. ma il suo congiunto, Gregorio V, che egli mise sul trono pontificio, fu ben presto costretto dai Romani a fuggire; le sue scomuniche ed i suoi rimbombi religiosi furono pubblicamente derisi; i Romani conoscevano troppo bene la vera natura di quei terrori: essi vivevano dietro le quinte. Un terribile castigo aspettava l’antipapa Giovanni XVI. Ottone ritornò in Italia, lo catturò, gli tolse gli occhi, gli tagliò il naso e la lingua, e lo mandò per le strade a cavallo di un asino con la faccia rivolta verso la coda dell’animale, con sul capo un’otre di vino. Sembrava impossibile che le cose potessero peggiorare; tuttavia Roma doveva ancora vedere Benedetto IX (1033) un ragazzo che ancora non dodicenne fu elevato al trono apostolico. Di questo pontefice uno dei suoi successori, Vittorio III, dichiarò che la sua vita era stata così vergognosa, così indecente, così esecrabile da farlo rabbrividire al solo descriverla. Egli aveva governato come un capitano di banditi, anziché come un prelato. Alla fine, la popolazione, incapace di sopportare oltre i suoi adulteri, i suoi omicidi e le sue gesta abominevoli, era insorta contro di lui. Per la disperazione di non saper conservare la sua posizione, egli aveva messo all’asta la tiara, che era stata acquistata da un presbitero di nome Giovanni conosciuto come Gregorio VI (1045)» (J.W. Draper "Intellectual development of Europe" Vol 1 cap XII pag 378-381).

CONSEGUENZE DELL’APOSTASIA

Il periodo che va dal decimo secolo fino al tempo dell’umanesimo va sotto il nome di secoli bui, caratterizzati dal ristagno nel progresso delle arti, delle scienze e delle lettere, con un conseguente stato generale di ignoranza e di analfabetismo fra le masse.

L’ignoranza è un terreno fertile per le erbe maligne, e il governo dispotico e gli errori dottrinali della chiesa durante questo periodo di tenebre erano nutriti dall’ignoranza di quei tempi. Con la trasformazione nota nella storia come il "Rinascimento" venne la lotta per la libertà dalla tirannia della chiesa.

Una delle prime rivolte contro il dispotismo temporale e spirituale della chiesa fu quella degli Albigesi, in Francia, durante il tredicesimo secolo. Questa insurrezione era stata soffocata dall’autocrazia papale con grande crudeltà e spargimento di sangue. La successiva rivolta importante fu quella di John Wickliffe, nel secolo quattordicesimo. Wickliffe era un professore dell’Università di Oxford, Inghilterra. Egli attaccò apertamente l’abuso del potere esercitato dai monaci, e denunciò la corruzione della chiesa e tutti i suoi errori dottrinali. Nella sua opposizione alle restrizioni papali sullo studio popolare delle scritture egli fu particolarmente energico, e dette al mondo una versione inglese della Sacra Bibbia tradotta dalla Volgata. Malgrado le persecuzioni e la sentenza, egli morì di morte naturale. Anni dopo però la chiesa insistette sulla vendetta, e di conseguenza le sue ossa furono esumate e bruciate e le ceneri sparse al vento.

Nel continente europeo le rivolte contro la chiesa furono promosse da Jan Huss e da Gerolamo da Praga i quali subirono il martirio come premio del loro giusto zelo. Questi esempi sono qui citati per dimostrare che, benché la chiesa fosse stata per lungo tempo apostata fino al midollo, c’erano uomini pronti a sacrificare la propria vita per difendere quella che essi ritenevano essere la causa della Verità.

Le condizioni che esistevano all’inizio del sedicesimo secolo sono state brevemente riassunte da uno storico moderno cone le seguenti parole: «Prima dell’inizio del sedicesimo secolo c’erano state popolazioni come gli Albrigesi nella Francia meridionale, i Wicliffiani in Inghilterra, e gli Hussiti in Boemia, i quali avevano negato l’autorità suprema e l’infallibilità del papa in tutte le questioni che riguardavano la religione. Parlando in termini molto generali sarebbe corretto dire che alla fine del quindicesimo secolo tutte le nazioni dell’Europa occidentale professavano la fede della Chiesa Cattolica Romana, o latina, e obbedivano alla Santa Sede.» (Myers"Gen. Hist." pagina 520).

La successiva rivolta, quella più importante, contro la chiesa di Roma ebbe luogo nel sedicesimo secolo ed assunse proporzioni tali da essere chiamata "La Riforma". Questo movimento ebbe origine in Germania intorno al 1517, quando Martin Lutero, monaco agostiniano e professore dell’Università di Wittemberg, si oppose pubblicamente a Tetzel, il già ricordato incaricato papale per la vendita delle indulgenze. Lutero era intimamente convinto che l’intero sistema delle penitenze ed indulgenze era contrario alle scritture, alla ragione ed alla giustizia. Egli scrisse le sue famose 95 tesi contro le indulgenze, quindi ne affisse una copia alla porta della chiesa di Wittemberg, esortando tutti gli studiosi a presentare le loro eventuali critiche. La notizia si diffuse in tutti i centri di studio d’Europa. Lutero attaccò altri abusi e altre dottrine della Chiesa Romana, per cui il papa Leone X lo invitò ad una ritrattazione incondizionata, pena la scomunica. Lutero bruciò pubblicamente il documento papale di ingiunzione dichiarando così la sua aperta rivolta. Contro di lui fu allora pronunciata la sentenza di scomunica.

Questa è la dichiarazione che Lutero rese dinanzi al consiglio o "Dieta" di Worms: «Io non posso sottomettere la mia fede né al papa né al consiglio perché è chiaro come il giorno che essi hanno sbagliato e si sono reciprocamente contraddetti. Perciò, a meno che io non sia convinto dalla testimonianza della scrittura e dalla logica più lampante, a meno che io non sia persuaso in base ai passi che ho citato, e a meno che essi non rendano la mia coscienza vincolata dalla Parola di Dio, io non posso ritrattare, né ritratterò, perché è pericoloso per un cristiano andare contro la sua coscienza. Questa è la mia posizione, non posso fare diversamente. Dio mi aiuti! Amen.»

La controversia religiosa si diffuse in tutta l’Europa. Nella seconda dieta di Spira (1529) fu promulgato un editto contro i riformatori. A questo editto i rappresentanti di 7 principati germanici ed altri delegati contrapposero una protesta ufficiale, e da ciò presero il nome di "Protestanti". Lutero morì nel 1546, ma l’opera riformatrice continuò ad espandersi. Presto però i Protestanti si divisero e formarono molte sette in lotta fra di loro.

Una conseguenza del protestantesimo fu il parziale risveglio della Chiesa romana alla necessità di una riforma interna, e così si tentò una seria riaffermazione dei princìpi cattolici. Il concilio di Trento (1545-1562) negò per la chiesa le rivendicazioni avanzate per le indulgenze, e disconobbe la sua responsabilità di gran parte degli abusi di cui la chiesa era stata accusata. Ma in concomitanza con il tentativo di riforma venne anche la richiesta di una più completa obbedienza ai dettami della chiesa.

Verso la fine del quindicesimo secolo, sotto il regno di Ferdinando ed Isabella di Spagna, fu istituito il tribunale dell’inquisizione, allora noto come il Santo Ufficio. Lo scopo principale di tale istituzione era quello di perseguire e di condannare gli eretici con pene severissime. Di questo ignominioso Santo Uffizio che aveva il suo quartier generale in Spagna, Myers dice: «Il Santo Uffizio divenne così strumento della crudeltà più incredibile. Migliaia di persone furono arse sul rogo, e decine di migliaia furono condannate a scontare pene terribili. La regina Isabella, per aver dato il suo nulla osta alla fondazione di un si crudele strumento di persecuzione e di morte, deve essere stata spinta da uno zelo eccessivo religioso e dalla deprecabile presunzione che sopprimendo l’eresia essa espletava un semplice dovere e rendeva un servizio a Dio "Nell’amore di Cristo e della sua Vergine Madre" essa dice "ho causato grande dolore. Ho spopolato città e distretti, province e regni» (Myers "Gen Hist" pagina 500).

Ora, nel sedicesimo secolo, in concomitanza con il tentativo di riforma delle dottrine cattoliche, la terribile Inquisizione «prende nuovo vigore e attività, e l’eresia è tratta con estrema severità». Quanto segue getta luce sulle condizioni di quel tempo: «A questo punto, in concomitanza con le persecuzioni dell’Inquisizione, non dobbiamo dimenticare che nel sedicesimo secolo il rifiuto di uniformarsi al culto stabilito era considerato da tutti, Protestanti e Cattolici, una specie di tradimento contro la società e veniva trattato di conseguenza. Così troviamo Calvino a Ginevra che da il suo consenso perché Serveto (1553) sia arso sul rogo per aver diffuso concezioni che i Calvinisti ritenevano eretiche; ed in Inghilterra vediamo che i protestanti anglicani che conducono le persecuzioni più crudeli, senza interruzione, non solo contro i Cattolici, ma anche contro tutti i protestanti che si rifiutavano di uniformarsi alla chiesa ufficiale dello stato.»

Possiamo dire tranquillamente che a questo punto, cattolici e protestanti dessero dimostrazione che per certo non praticavano per niente il comandamento più importante che Gesù aveva insegnato "Ama il prossimo tuo come te stesso", "Ama il tuo nemico e se questi ti costringe a fare un miglio fanne due", molto probabilmente tutte queste persone facevano il secondo miglio per trovare un buon posto per accendere il fuoco. Da queste cose risulta evidente che non solo la Chiesa Cattolica, che aveva prodotto questo stato di cose, aveva commesso molte atrocità, ma gli stessi nuovi adepti delle nuove comunità religiose stavano intraprendendo la stessa via che essa aveva battuta: "L’intolleranza".

Cosa dire di una chiesa che cerca di propagare la sua fede con tali metodi? Il fuoco e la spada sono le armi con cui la Verità combatte le sue battaglie? La tortura e la morte sono argomenti evangelici? Se le persecuzioni subite dagli antichi Cristiani ad opera dei loro nemici pagani avevano la stessa matrice, può una simile esser la chiesa di Cristo?

In Inghilterra nacque la chiesa anglicana solo perché il loro regnante, che era stato appena definito "difensore della fede" voleva avere il divorzio per sposare Anna Bolena. Dato che il papa tergiversava Enrico VIII divenuto impaziente, si sposò segretamente. Il papa non poté fare altro che scomunicarlo e così Enrico VIII fondò la chiesa di Inghilterra e se ne fece il capo. Direi che espediente più ridicolo ed infamante per edificare una chiesa non sia mai stato trovato.

Nelle profezie dello stesso Cristo vi è l’avvertimento che negli ultimi giorni vi sarebbe stato "Ecco, quello è Cristo, ecco questo è Cristo". Vi sono chiese come la chiesa di Inghilterra che portano il nome della loro nazione di origine, oppure come la Chiesa Cattolica, che significa "Universale", altre sette portano il nome dei loro promotori: Luterani, Calvinisti, Wesleiani, altre sono nate per qualche particolarità di credo o dottrina, come i Metodisti, i Battisti, i Presbiteriani, ma possibile che nessuna chiesa si sia chiamata con il nome del suo vero Fondatore o Pietra Angolare?

Se la madre chiesa è senza autorità divina, come era nel caso della Chiesa Cattolica. Infatti se Dio tolse il sacerdozio agli ebrei per lo stesso motivo (l’apostasia) non aveva forse molti più motivi per fare altrettanto con una chiesa tirannica, dispotica che niente aveva a che fare con la religione di Cristo? Se la Chiesa Cattolica non aveva l’autorità, come giustamente i protestanti affermavano, e qui essi avevano pieno diritto di affermarlo, da chi essi ebbero questo importante riconoscimento, e cioè il sigillo dell’autorità divina? Quasi tutti i protestanti affermano che lo hanno avuto tramite lo Spirito Santo, ma è lo Spirito Santo diviso? mi spiego se il movimento protestante avesse formato una Chiesa, anche se scritturalmente non sarebbe provabile che lo Spirito Santo avrebbe dato loro l’autorità almeno si potrebbe dire che lo Spirito Santo aveva riprodotto UNA SOLA VERITÀ, invece il movimento protestante costituì una miriade di chiese con una miriade di differenti dottrine, allora dovremmo dire che il vero ricercatore dovrebbe individuare quale fra questa miriade era la chiesa che Dio voleva restaurare. Ma andiamo avanti, nei tempi passati Dio aveva già avuto modo di risolvere questo problema dell’apostasia e come lo aveva risolto? Aveva forse lasciato agli uomini il modo oppure era intervenuto Egli stesso inviando messaggeri celesti, o profeti o che dir si voglia? Se insistete nel dire che i protestanti erano mandati da Dio, dovreste convenire che ne mandò troppi e con idee diverse, ma nessuno di loro ebbe l’ardire di dire che era stato mandato da Dio, nessuno ebbe il coraggio di dire: "Così dice il Signore" nessuno mai dichiarò "ho l’autorità per fare questo, perché…". Questo tasto non è mai stato toccato, perché era un tasto dolente e tale è rimasto fino ad oggi.

La conseguenza della Grande Apostasia è la restaurazione del Vangelo che segna l’inizio della dispensazione della pienezza dei tempi. Noi affermiamo che questo è avvenuto nella prima parte del diciannovesimo secolo, con l’avvento della chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Se ciò non è vero allora il mondo è ancora in piena apostasia e senza il Sacerdozio di Dio e per chi non crede che ciò non sia accaduto non ha altra speranza che quella di attendere un’altra restaurazione, ma come diceva il profeta Isaia: «Iddio farà maraviglie su maraviglie».

Apocalisse 14:6-7 «poi vidi un altro angelo che volava in mezzo al cielo, recante l’Evangelo eterno PER ANNUNZIARLO A QUELLI CHE ABITANO SULLA TERRA e ad ogni nazione e tribù e lingua e popolo; e diceva con gran voce: temete Iddio e dategli gloria, poiché l’ora del suo giudizio è venuta; e adorate Colui che ha fatto il cielo e la terra e il mare.»


AIRESIS: LE RAGIONI DELL’ERESIA
Paolo Aldo Rossi - Ordinario di Storia del pensiero Scientifico - Università di Genova

 

E’ venuto il tempo di chiamare un sito web www.airesis.net ovvero eresia in rete.

Il significato letterale del termine (che deriva dal greco airesiς - airesis) significa “ scelta” (dal verbo airew = scelgo, preferisco, approvo una opinione, eleggo una parte politica …).

Il concetto di “airesis-scelta” è strettamente legato a quello di “dùnaton-possibilità”, solo dove c’è l’una ci può essere anche l’altra. La scelta-possibilità è una delle indicazioni fondamentali del concetto di libertà e di libero arbitrio.

Platone, nel mito di Er, fa dipendere l’intero destino dell'uomo dalla preferenza che egli fa del modello di vita (o di virtù) che gli è più proprio: “Per la virtù non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a seconda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l'autore della sua scelta, la divinità è fuori causa ... Non c'era nulla di necessariamente preordinato per l'anima perché ciascuna doveva cambiare secondo la scelta che essa faceva (Rep., X, 617 618 b). E Aristotele afferma “Nelle cose infatti in cui l'agire dipende da noi, anche il non agire dipende da noi; e là dove siamo in grado di dire no, possiamo anche dire si. Sicché se il compiere un'azione bella dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere un'azione brutta … l'uomo è il principio e il padre dei suoi atti, come dei suoi figli ”e la scelta“ è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero” (Et. Nic., 111, 5, 111,3 b, 112 a 15-16)

Poi, a poco a poco, eresia cessa di significare una scelta, fatta da un uomo libero, fra varie possibilità, per diventare l’assenso ad una verità incontrastabile e indiscussa che, risultando socialmente e universalmente vincente o ,diviene anche  eternamente vera.

Hobbes nel Leviatano scriveva “Quelli che approvano un’opinione privata la chiamano opinione; ma quelli che la disapprovano la chiamano eresia”. Ovvio che la retta opinione è la mia (o la nostra “ortodossia” o retta opinione), invece l’eterodossia è quella degli estranei, degli altri, dei diversi  che a lungo andare finisce con il diventare eresia (ma con il nuova significato di dottrina erronea, sacrilega, bestiale … ).

L’eresia – diceva Voltaire -  è “frutto  di un po’ di scienza e un po’ d’ozio” perché tipico del lavoro scientifico è lo scegliere e determinazione specifica dell’ozio è il sognare.

Un tempo, nei primi anni '80, esisteva una famosa rivista mensile dal titolo "Abstracta: curiosità della cultura, cultura della curiosità". A quell'epoca, dove non esistevano i siti in Internet, le riviste si stampavano su carta e, come si sa, i prezzi dell’arte tipografica erano molto alti, specialmente per pubblicazioni di elevato livello grafico e di notevole parametro di scrittura. Abstracta non era solo una rivista graficamente bella, ma era anche contenutisticamente il meglio che la cultura italiana avesse mai prodotto in quel campo: l’ambito degli studi sul pensiero “altro”
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a) lo studio di sistemi di razionalità "altre" rispetto all'attuale modello della razionalità scientifica;

b) la ricostituzione dell'originale portato semantico dei linguaggi magico-esoterici sia sotto l'aspetto storico che sotto l'aspetto simbolico;

c) l'indagine delle tecniche del corpo e della mente come vie verso il rapporto con il numinoso;

d) L'esplorazione delle molteplici modalità proprie dell'esperienza religiosa e della sapienza mitica;

e) L'analisi delle interazioni specifiche tra complessi culturali attivi nello stesso ambito storico-geografico e l'analisi delle loro rispettive stratificazioni;

f) lo studio dei meccanismi consci ed inconsci attraverso i quali la cultura di­scriminata si difende dalla rimozione operata dalla cultura dominante e si rigenera costantemente.

E il tutto attraverso la ricostruzione storica delle discipline prese in considerazione, ma come ci ammoniva il Burckhardt: "Ciò che un tempo fu gioia e dolore, ora deve diventare conoscenza, come del resto è anche la vita del singolo. Così anche la massima: Historia magistra vitae acquista un senso più alto e al tempo stesso più modesto. Mediante l'esperienza vogliamo divenire non tanto accorti (per un'altra volta) quanto piuttosto saggi (per sempre)"

In questa prospettiva Marc Bloch, al fanciullo che chiedeva: "Papà a cosa serve la storia?" non avrebbe potuto dare altra risposta che quella cartesiana circa l'inutilità di un sapere basato esclusivamente su esperienza e memoria e, quindi, condurre il tema alle sue estreme conseguenze logiche affermando con il Fontenelle: "Chiunque avesse abbastanza spirito studiando semplicemente la natura umana indovinerebbe tutta la storia passata e tutta la storia futura, senza avere mai inteso parlare di nessun avvenimento". Al contrario, come sappiamo, Marc Bloch assume la domanda del fanciullo come epigrafe ad un libro che porta il significativo titolo: Apologia della storia o il mestiere dello storico, nel corso del quale egli ricerca il senso della storiografia nel lavoro quotidiano dello storico ossia nella costante appassionata ricostruzione di un passato che si svela con toni di cangiante iridescenza proteiforme e mai come costante ripetizione di eventi sempre simili a se medesimi. Quest'ultima è sicuramente la storia di una colonia di insetti costretta da sempre alla rigidità dei comportamenti istintuali, non certamente quella del destino dell'uomo che gravido di scelte non può essere la somma di rigide prescrizioni sul presente.

In uno dei più suggestivi testi vedici Krisna indica al discepolo Arjuna i cinque oggetti di studio della Bagavad-gita: l'Isvara (il Signore supremo), lo jiva (l'anima individuale), la prakrti (la natura materiale), il Kula (l'eternità) e il karma (l'azione). Solo il karma, fra questi, non è eterno né immutabile, esso è la rete che imprigiona gli uomini nell'agire temporale, nel ciclo delle nascite e delle morti dove l'azione comporta tutta una serie di incalcolabili conseguenze e modificazioni sull'intero contesto; in altre parole esso è la storia.

E' vero che gli uomini nascono, amano e muoiono, ma il modo in cui tutto questo avviene è sempre diverso, in quanto l'uomo è libero di scegliere sapendo di essere responsabile delle sue scelte e possiede una intelligenza in grado di creare. P. Ricoeur scriveva: “La storia non è storia se non nella misura in cui essa non ha avuto accesso né al discorso assoluto, né alla singolarità assoluta, nella misura in cui il senso ne resta confuso, mescolato... la storia è essenzialmente equivoca nel senso che è virtualmente evenementielle e virtualmente strutturale. La storia è per davvero il regno dell'inesatto. Questa scoperta non è inutile, giustifica lo storico. Lo giustifica di tutte le sue incertezze. Il suo metodo non può essere che il metodo inesatto. La storia vuole essere obiettiva e non può esserlo. Vuole rendere le cose contemporanee, ma al tempo stesso le occorre restituire le distanze e la profondità della lontananza storica. Alla fine questa riflessione tende a giustificare tutte le aporie del mestiere dello storico. Queste difficoltà non riguardano vizi di metodo, ma sono equivoci ben fondati”.

 Ad Abstracta collaboravano (ovviamente pagati, anche se molto poco) duecento studiosi di cui la metà erano professori di varie università, italiane e straniere, ricercatori e esperti di storia del mondo simbolico e magico, giornalisti e cultori delle varie materie, la filosofia, la scienza, la storia, l'antropologia, le religioni, la letteratura ... E’ chiaro che non erano iniziati, adepti, seguaci, discepoli, proseliti di “qualcosa e qualcuno” …ma solo dei seri studiosi. Se poi nel privato fossero tifosi della Lazio o della Juventus, gli piacesse il Pippo Baudo o i films di Fellini e Bergman, votassero per Andreotti o per Berlinguer, credessero nel cristianesimo, nell’islamismo, nel buddismo e nello sciamanesimo, aderissero all’esoterismo, alla cabala, alle dottrine misteriosofiche e occulte o leggessero Diabolik o Spider Man non aveva nessuna importanza.


L’unica cosa da noi richiesta è che fossero “storici” e che lavorassero con impegno e coscienziosità. La stessa che ancor oggi richiediamo.

 

“Non v'è esercizio intellettuale - scriveva Jorge Luis Borges in  Pierre Menard autore  del Chisciotte - che non sia finalmente inutile. Una dottrina filosofica è dapprincipio una descrizione verisimile dell' universo; passano gli anni e si riduce a un capitolo o magari un paragrafo o un nome nella storia della filosofia”.

Puntuale e caustico, come gli è d'abitudine, il Grande Bibliotecario sintetizza così la sottile vendetta che la storico può prendersi sul filosofo. Nei brevi spazi del sincronico, la filosofia ha sempre escluso e relegato la storia ai margini di quell'itinerario di pensiero il quale, dopo aver riconosciuto che l'immediato non è l'originario, crea e sistematizza la conseguente necessaria ed incontrovertibile teoria fondazionale su cui si regge l' inevitabile Weltanshauung definitiva (o almeno quella, di volta in volta, reputata tale). Sul lungo periodo, il diacronico in cui ogni weltanschauung  supera quelle che l'hanno preceduta ed è a sua volta superata dalle successive, lo storico si ripaga concedendosi il privilegio di compilare un suo elenco "ragionato" delle "grandi visioni del mondo" ed una propria interpretazione e valutazione di queste, condotta secondo il metro  con cui è solito misurare ciò che fa parte del proprio universo d'oggetti: la descrizione, sub specie contingentiae, del mondo umano nel processo del divenire. Egli può allora erigersi a "pantocratore" di tutti coloro che hanno giudicato l'universo adattandolo e costringendolo nei loro sistemi. Così facendo, utilizza una propria, per quanto inespressa, visione del mondo, ingenuamente reputata capace di contenere, sotto l'ala di una generale filosofia della storia  tutte le altre che l'hanno preceduta. Sfortunatamente la figura del Protrepticon  aristotelico sta sempre in agguato e gioca ineluttabilmente il ruolo che nella mitologia greca era stato affidato alla Severe Signore Gendarmi di Dike.  Un perfido circuito a "strano anello" in cui, inaspettatamente, salendo o scendendo i gradini di una gerarchia fatta di filosofi che hanno ricostruito l'originale progetto "divino" del mondo e di storici che hanno esaltato, sfumato, riposizionato o cancellato dalla storia alcune di queste ricostruzioni, ci si ritrova al punto di partenza: la costruzione di un sistema che vuole fondare, nell'identificazione con la propria rappresentazione, il fondamento stesso del suo essere. Come Narciso, preso dalla vertigine dello specchio, il sistema filosofico s'affonda nel fondamento, mentre la descrizione storica, che sopraggiunge ad evento concluso, non coglie che frammenti di bellezza riflessi sui cerchi dell'acqua racchiusasi attorno al giovane inghiottito dal gorgo e con questi frammenti riproduce ancora uno specchio fatto di infinite superfici nelle quali nuovamente si riflettono gli infiniti "narcisi" che hanno percorso i sentieri del fondamento. Della limpidezza e delle dimensioni di tali frammenti è lo storico a giudicare e a scegliere, e queste sue scelte sono spesso in disaccordo con quelle fatte da altri storici che lo hanno preceduto o che gli sono contemporanei.

Un compito scomodo, ingrato ed, in fin dei conti, irto di infinite difficoltà.

Un nostro Maestro era solito ripetere che una tradizione di sapere è come una foresta di alberi giganti in grado di vivere per millenni, dove le foglie e il legno d'oggi sono la pioggia e il sole di tanti secoli fa. Detta così la cosa è affascinante e lascia credere ad un processo lineare per cui è sempre possibile ritornare indietro alla ricerca non solo degli autunni in cui sono state inseminati larghi spazi di terreno, alle primavere che han visto germogliare i semi ed alle estati che li hanno fatti maturare, ma addirittura alle piogge che li hanno irrigati ed ai fertilizzanti che li hanno fatti crescere. Sfortunatamente, però, l'indagine storica su questa foresta é influenzata dagli infiniti fattori di mutamento cui il nostro stesso "sapere" è sottoposto e di conseguenza ogni nostra scelta teoretica, metodologica ed epistemologica porta con sé l'elisione di interi mondi della cui effettiva significanza ci è impedito e ci si impedisce di venire a conoscenza.

Sicuramente abbiamo sempre escluso dall’ambito dei sostenitori di Abstracta (ed ora anche dei collaboratori di airesis”) i “cicapisti” e gli “iniziati”.

Con il termine “cicapisti” intendiamo quei tizi che hanno sempre la verità in tasca perché l’hanno conquistata con il loro sudore e fatica, mentre gli iniziati, la stessa inoppugnabile verità (ovviamente diversa), ce l’hanno dai geni famiglia Una vera lotta fra giganti! Stakanov contro la Thule.

Vi sono uomini che, posti assieme ad altri dello stesso tipo, fondano delle “associazioni  scientifiche o esoteriche” che ben presto si trasformano in “congreghe”, la cui ragione d’essere è quella semplicissima d’esistere coerentemente con degli scopi ed esiti che mai mutano. Tale cerchia ha un’altra singolarità: d’essere l’unica e sola autentica portatrice di “Verità” e, di conseguenza, il gruppo ha la caratteristica di non trasformarsi ed evolversi mai. “L’unico mezzo per non cambiare  - scriveva Ernest Renan in L’avvenire della scienza  - è quello di non pensare” ed, in effetti, questi semplicemente “credono”. Ora tali “sette”  hanno la peculiarità  di non stare solo da una parte, e quindi d’essere facilmente riconoscibili, ma sono equamente distribuite sul sociale, sul politico, sul religioso, sull’etnico, ... ossia in ogni zona del tessuto pubblico.  Sono, per così dire, interclassiste, senza appartenere ad un casta, ad un rango, ad un ambiente  ... fanno parte di un diffuso settarismo che ha nell’intolleranza il suo maggior pregio.

Ad esempio, i “monaci della scienza”,  con la loro dottrina di un universo governato da un Dio trascendente attraverso leggi comunque accessibili alla ragione umana, vanno di pari passo con l’ateismo radicale per cui si elimina il dio e si lascia la sola ragione che dichiara reale solo ciò che è sperimentale, col misticismo sapienziale  per cui al Dio trascendente si coniuga un sapere che viene dal di fuori della ragione umana (cioè non si sa da dove), e infine con i “talebani dell’Assoluto” per i quali il “mondo” coincide senza resti con la loro “vera religione”.

Ma l’unico concetto che non capiamo è quello di esoterismo in web. L’occulto, il misterioso, l’arcano,  il magico, l’ invisibile… concetti tipici degli iniziati … che si parlano in internet … che poi è l’unico metodo per mantenere il segreto fra gli adepti.

 


INTRODUZIONE

 

 

La colpevolizzazione della sensualità femminile.

Strega a cavallo di una scopa.

 

Strega etimologicamente deriva da stryx, strige, uccello notturno, che si riteneva succhiasse il sangue dei bambini nella culla e istillasse nelle loro labbra il proprio latte avvelenato. Era ritenuto una specie di arpia, di vampiro; tale nome ricorre in Plauto, Ovidio e Plinio. Per tali caratteristiche il nome strega ha indicato le donne credute responsabili di aborti ed infanticidi.

Demoni femminili sono presenti nella cultura classica, come scrive Girolamo Tartarotti: "il moderno congresso notturno delle Streghe altro non è che un impasto della Lilith degli Ebrei, della Lamia e delle Gellone de' Greci, delle Strigi, Saghe e Volatiche de' Latini".

A tali leggende, Tartarotti affianca anche quella medioevale della brigata notturna, scorta di Diana o Erodiade. L'antichissima divinità italica, protettrice della plebs romana, è chiamata da Cicerone dea della caccia, della luna e degli incantesimi notturni; Orazio parla dei tria virginis ora Dianae (i tre volti della vergine Diana) o di Diana triformis (Diana triforme); Virgilio conferma tale aspetto quando parla della dea che è Luna in cielo, Diana in terra, Ecate nel mondo infernale.

"Gioco di Diana" è definito, in molti testi, il corteo di streghe, stregoni e spiriti infernali di cui si aveva notizia attraverso le deposizioni delle imputate di stregoneria. Diana è chiamata nei processi "Signora del gioco", dove "gioco" traduce il latino ludus, nel significato di "luogo dove s'impara" o anche di "passatempo dilettevole", dal momento che in queste riunioni si ballava e si cantava.

La strega è una figura letteraria, confezionata già in età classica, ma soprattutto moderna, con caratteristiche andate progressivamente perfezionandosi e configurate in un repertorio ben consolidato, grazie agli scritti di esponenti della cultura clericale dal Medioevo in poi, i quali, attraverso un lungo processo, ne selezionarono gli aspetti discriminanti, utilizzando materiale della provenienza più varia: racconti popolari, superstizioni locali, mitologia classica, ebraica, nordica; inchieste giudiziarie, verbali di processi, fino alla codificazione, sistematica ed accreditata dall'autorevolezza degli scrittori, della figura della strega secondo una tipologia precisa.

"La vecchia Maga, la Veggente celtica e germanica non sono ancora la vera Strega. Le innocenti Sabasie (da Bacco Sabasio), piccolo Sabba campestre che continuò nel Medioevo, niente hanno a che fare con la Messa nera del Quattordicesimo secolo, la grande solenne sfida a Gesù. Queste creazioni terribili non hanno proceduto sul lungo filo della tradizione. Uscirono dall'orrore del tempo.

A quando risale la strega? Rispondo senza esitare: 'Ai tempi negati alla speranza', alla profonda disperazione prodotta dal mondo della Chiesa. Senza esitare dichiaro: 'La Strega è il suo delitto'."

Alla costruzione del personaggio della strega, e alla cronologia morale della stregoneria, concorrono vari elementi: la componente culturale classica che parte da un culto di Diana - Ecate - Iside , divinità femminili che avevano anche aspetti inquietanti per il loro rapporto con la magia; la componente culturale popolare che Margaret Murray genericamente chiama "culto di Diana", sopravvivenza degli antichi culti precristiani della fertilità, ravvisabile in ogni cultura agricola; la componente culturale clericale che elabora i materiali folcloristi attribuendo ad essi un valore negativo.

Nella letteratura psicanalitica le streghe sono una proiezione dell'animo maschile, cioè dell'aspetto femminile primitivo che sussiste nell'inconscio dell'uomo. Le streghe materializzano questa ombra odiosa, di cui non possono liberarsi, e assumono al tempo stesso una potenza terribile. Per le donne, la strega è il capro espiatorio, sul quale trasferiscono gli elementi oscuri delle pulsioni. Ma tale proiezione è in realtà una partecipazione segreta alla natura immaginaria delle streghe. Finché le forze oscure dell'inconscio non assurgono alla chiarezza della conoscenza, la strega continua a vivere in noi. L'anima è spesso personificata da una strega o da una sacerdotessa, perché le donne hanno più legami con le forze oscure. La strega è l'antitesi dell'immagine idealizzata della donna.

Tutte le culture hanno sviluppato strategie di superamento dell'alienazione e della sofferenza, specialmente femminile, ma raramente si va oltre la fuga. Per le streghe il rito magico è tecnica di liberazione dalle ingiustizie sociali, la scoperta di una nuova esistenza che nasce dalla consapevolezza di sé, dalla gioia di conoscere il corpo. La donna diventa strega quando svela il suo erotismo incomprensibile agli uomini. 
Roland Barthes afferma che quando i rapporti sociali si basano sulla solidarietà le culture non hanno bisogno di creare emarginazione; al contrario le streghe e le "devianze" trionfano dove vi è una differenziazione tra i sessi, i ceti e le condizioni esistenziali. Le streghe rappresentano una funzione antiistituzionale che il potere utilizza per giustificare azioni repressive.

La realtà della strega è dunque socialmente determinata. Si è streghe per effetto di relazioni specifiche, che collegano l'individuo all'ambiente fisico-mentale che lo circonda. Jules Michelet scrive che nel mondo medievale pieno di orrori, di ingiustizie e di arbitrarietà, la strega era un prodotto della disperazione del popolo, che trovò in essa l'unica personalità che potesse rimediare ai suoi mali fisici e morali.

"Ogni popolo ha il medesimo principio; lo vediamo dai viaggi. L'uomo caccia e lotta. La donna gioca d'ingegno, immagina, genera sogni e dei. Dei giorni è veggente: possiede le ali infinite del desiderio e del sogno. Per valutare i tempi, osserva il cielo. Ma alla terra non offre meno cuore. Gli occhi chini sui teneri fiori, giovane e fiore anch'essa, ne fa conoscenza personale. Donna, chiede loro di guarire che ama.[…]

Una religione potente e vitale, come il paganesimo greco, ha inizio dalla Sibilla, termine nella Strega. La prima, vergine bella, in pieno sole, lo cullò, gli diede incanto e aureola. Più tardi, decaduto, malato, nelle tenebre medievali, tra le lande e i boschi, la strega lo riparò, dalla sua coraggiosa pietà gli venne il nutrimento, di cui continuò a vivere. Ecco che, per le religioni, la donna è madre, amorosa custode e nutrice fedele. Gli dei sono come gli uomini; le nascono e muoiono in grembo. Quanto la fedeltà le costa! Regine, magi di Persia, Circe maliarda, sublime Sibilla, che siete ormai? che barbara metamorfosi. Quella che, dal trono d'Oriente, insegnò le virtù delle piante e il cammino delle stelle che, al tripode di Delfi, splendida del dio di luce, porgeva oracoli al mondo prostrato, questa, mille anni più tardi, la si caccia come fosse una bestia selvaggia, è inseguita agli angoli delle strade, umiliata, straziata, lapidata, piegata sui carboni ardenti. […] La Sibilla predice la sorte, la Strega la fa. Ecco la grande, autentica differenza. Lei chiama, cospira, opera il destino. Non è l'antica Cassandra che tanto bene conosceva l'avvenire, lo lamentava, l'attendeva. Lei lo crea. Più di Circe, di Medea, possiede la verga del miracolo naturale, e per sostegno e sorella ha la natura. Tratti del Prometeo moderno son già suoi. Con lei ha inizio l'industria sovrana che guarisce, rinnova l'uomo."

La Chiese intuisce il pericolo: il nemico è lei, la sacerdotessa della natura. Con l'illuminismo della lucida follia, che, come scrive Michelet, nelle sue sfumature, è poesia, "raccatta tutti gli scarti": il cielo getta, ella raccoglie. Ad esempio, la Chiesa ha scartato la Natura come impura e sospetta. Ella la prende al volo, la coltiva e la sfrutta. "La Chiesa scarta un'altra cosetta, la Logica, la libera Ragione. Ghiotto boccone che l'Altro addenta con avidità. " Così iniziano le male scienze, la farmacia proibita dei veleni, e la maledetta anatomia. Unico dottore ammesso, Paracelso.

Il solo medico del popolo, per mille anni, è stata la strega. Le frontiere tra la scienza e la magia passano soprattutto attraverso la coscienza morale. "Gli imperatori, i re, i papi, i baroni più ricchi avevano qualche dottore di Salerno, qualche Moro, qualche Ebreo, ma la gente di ogni condizione, e si può dire tutti, non consultava che la Saga o Saggia Donna. Se non guariva, la insultavano, le dicevano strega. Ma in genere, per rispetto e paura insieme, la chiamavano Buonadonna o Belladonna, dal nome che si dava alle fate. Le capitò quel che ancora capita alla sua pianta prediletta, la Belladonna, e ai benefici altri veleni che usava, antidoti dei grandi flagelli del Medioevo. Il bambino, il passante ignaro, maledice queste erbe grigie senza conoscerle. I loro colori ambigui lo colmano di terrore. Arretra, passa alla larga. Eppure non sono che "Consolanti" (Solanee), che amministrate con discrezione, hanno guarito spesso, calmato tanti mali."

 

 

 

La maga Circe, dipinto di D. Dossi (1489 ca)

 

La credenza che certi uomini e donne possiedano dei poteri magici e malefici ("magia nera"), con i quali sono in grado di danneggiare gli altri, da sempre accompagna la storia dell'umanità; non c'è, dunque, motivo di sorprendersi se la ritroviamo diffusa anche nei secoli medievali. Il Medioevo appare come un'immensa nebbia di noia e di terrore che avvolge il mondo; solo la cultura popolare ne tenta un superamento. Tutto ciò che non collima con il potere, soprattutto ecclesiastico, diviene eresia, che per definizione è un atto di intelligenza, in opposizione a un atto di fede che è accettazione indiscussa dell'insegnamento della Chiesa. I contadini medievali in realtà conducono una vita estremamente precaria poiché devono tutto al signore delle terre, che può riprendersi in qualsiasi momento ciò che ha concesso. Così la donna è proprietà dell'uomo, anzi degli uomini, e costretta a darsi al signore.

E la strega? Semplificando, la strega è l'esclusa, la ribelle, la donna che da un isolamento forzato trae forza per un'esistenza diversa e creativa. "Quando appare, la Strega non ha né padre né madre, non ha figli, marito né famigli. E' un mostro, un aerolito, non si sa da dove venga. Chi oserebbe, Dio, avvicinarla? Dove vive? Dove non è possibile, nei boschi di rovi, sulla landa, dove la spina, il cardo intrecciati, impediscono il passaggio. La notte, sotto qualche vecchio dolmen. Se viene scoperta, è l'orrore della gente a tenerla ancora isolata". Le streghe sono donne anziane malviste per vari motivi, future mogli ripudiate prima, o subito dopo il matrimonio, perché si sono offerte al signore e quindi non più vergini, levatrici e curatrici che non possono esercitare alla luce del sole; donne frequentate da altre donne perché solo a loro possono rivolgersi, di nascosto, per partorire, abortire, alleviare i dolori e cercare consigli. Le malattie del Medioevo hanno origine dalla fame. La medicina viene esercitata solo sotto sorveglianza della Chiesa e si rivolge solo al genere maschile perché l'esistenza della donna è legata al sacrificio e alla sofferenza. Così sortilegi e malefici finiscono con il rappresentare una sorta di riscatto, una specie di potere occulto da contrapporre a tutte quelle coercizioni, di tipo padronale, signorile o ecclesiastico, che si devono subire.

Le streghe, costrette a vivere fuori dai centri abitati, amano la disobbedienza e utilizzano le piante spontanee che a quei tempi sono considerate velenose come quelle della famiglia delle "Consolanti", tra cui la belladonna, che contengono alcaloidi dotati di proprietà analgesiche e antinevralgiche e che, per non diventare intossicanti, vanno utilizzate in piccole dosi: è forse la nascita dell'omeopatia? Paracelso nel 1527 dichiara che tutto ciò che conosce della medicina l'ha appreso dalle streghe.
La Chiesa accusa e condanna con qualsiasi preteso, e occulta prove e documenti. Tuttavia, soltanto durante il periodo rinascimentale si creano le condizioni culturali e sociali che rendono possibile, in Europa, il fenomeno della cosiddetta "caccia alle streghe", che assume e in certi frangenti caratteri di una vera e propria persecuzione.

La "caccia alle streghe" ha infuocato due continenti durante i secoli dell'età moderna e la sua storia ha una periodizzazione finora rimasta indiscutibile. Il primo periodo vede i confessori avvertiti dai vescovi mettere attenzione ai racconti di donne che parlavano di strani viaggi e di incontri con una donna "superiore", la "signora del gioco", dai molti nomi. Il secondo periodo, inaugurato nel XVI secolo con il Malleus Maleficarum, vede invece la comparsa del diavolo nelle confessioni delle streghe. E su questo aspetto e sul rapporto sessuale con i demoni insistono gli interrogatori dei processi dell'Inquisizione. Dai verbali traspare il concetto di morte, l'avversione al pensiero scientifico, la misoginia. Ma, come scrive Michelet, l'università criminale della strega, del pastore, del boia, negli esperimenti loro, che sono sacrilegi, lontani dalla Scuola e dai dotti, anima la rivale, la costringe a studiare. Tutto è dovuto alla strega; avrebbero voltato le spalle al medico altrimenti. "A forza la Chiesa subì, permise quei crimini. Dovette riconoscere che esistono veleni buoni (Grillandus). Messa con le spalle al muro, lasciò sezionare in pubblico. Nel 1306, l'italiano Mondino apre e seziona una donna; una nel 1315. Rivelazione sacra. Scoperta di un mondo (non c'è confronto con Cristoforo Colombo). Gli sciocchi rabbrividirono. E i saggi caddero in ginocchio."

E' curioso che si cerchi proprio qui l'origine del Rinascimento. Per almeno tre secoli in tutta Europa le streghe portano le colpe di tutte le disgrazie del genere umano.

Uno dei libri più completi sui processi per stregoneria rimane il Malleus Maleficarum, ricco di confessioni sull'impotenza di Dio, scritto nel 1447 da Sprenger che viene incaricato dalla Chiesa romana di tornare in Germania, dove l'Inquisizione non è efficiente e si trova in difficoltà perché vi sono moti di rivolta popolare. È l'inquisitore perfetto, tedesco, domenicano, conoscitore di S. Tommaso, terrorizzato dalla concorrenza con Satana; qualsiasi diversa opinione diviene maleficio ed eresia. La Chiesa si sente minacciata dal diavolo che ne esce sempre vincitore; questo conflitto maschile tra Dio e Satana produce tragicamente vittime, solo o quasi, femminili. Per definizione l'Inquisizione è un'inchiesta condotta da un tribunale ecclesiastico con metodi lesivi dei diritti e delle libertà degli individui. Questa metodologia è ancora in vigore: la reclusione, la tortura, la richiesta all'accusato di dimostrarsi non colpevole; alle donne che denunciano lo stupro si chiede di giustificare pensieri e comportamenti.

Le persecuzioni sulla base di soli pregiudizi sono storia dei nostri giorni. La caccia alle streghe è ancora in atto, il potere crea sempre inquisizione.

 


STORIA

I cattolici e le streghe

di Andrea Menegotto

Il sociologo statunitense Rodney Stark confuta la "leggenda nera" della caccia alle streghe. In Spagna, l’inquisizione non le perseguitava. Anche nell’Italia cattolica il fenomeno fu limitato. Non così nei Paesi protestanti.

Molto raramente "sociologia" fa rima con "apologetica" e ciò - evidentemente - non per motivi linguistici, ma di metodo. Tuttavia, recentemente, proprio colui che è considerato il maggior sociologo delle religioni vivente, nell’ambito di un suo ampio e articolato studio sul monoteismo, pur nel rigore dell’approccio value free (cioè, privo di giudizi di valore) che caratterizza la sociologia coltivata negli ambienti accademici, ha permesso a chi si vuole occupare di apologetica di attingere a piene mani dai dati nudi e crudi elaborati in sede scientifica, sfatando alcune "leggende nere" che riguardano talune vicende della storia della Chiesa cattolica. Leggende che circolano ancora in maniera massiccia nella vulgata comune e di cui si trovano ampie tracce sia nella saggistica storica che nella letteratura divulgativa.

Rodney Stark - ordinario di Sociologia delle religioni all’Università di Washington e padre (con altri) della teoria dell’economia religiosa, che da qualche anno nell’ambiente accademico prevale rispetto alla teoria della secolarizzazione come chiave per comprendere dal punto di vista sociologico la situazione della religione in Occidente - è infatti l’autore del volume in lingua inglese (ma di cui auspichiamo la traduzione italiana, pur con qualche debita precisazione su sui ci soffermiamo di seguito) For the Glory of God. How Monotheism Led to Reformation, Science, Witch-Hunts, and the End of Slavery (Princeton University Press, Princeton 2003).

Nel nostro Paese, l’attenzione sull’opera di Stark è stata richiamata dal collega Massimo Introvigne - che con il sociologo americano è autore di un volume di prossima pubblicazione: Dio è tornato. La rivincita di Dio in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003 - attraverso un’ampia e articolata recensione, disponibile per la consultazione sul sito del CESNUR, di cui Introvigne è direttore:

http://www.cesnur.org/2003/mi_stark.htm

In For the Giory of God, Rodney Stark prende in esame in particolare quattro vicende della storia del cristianesimo in Occidente ritenute in qualche modo problematiche: le eresie medioevali e la Riforma, la nascita della scienza, la caccia alle streghe e la schiavitù. Particolarmente interessanti si rivelano le pagine sulla caccia alle streghe, una questione storiografica che costituisce un capitolo significativo dell’ampia "leggenda nera" di origine illuministico-massonico-marxista relativa all’Inquisizione (meglio sarebbe dire Inquisizioni, al plurale), tema a cui 11 Timone ha dedicato un dossier (cfr. il Timone, anno V - n. 23, gennaio/febbraio 2003, pp. 31-42), a cui chi scrive rimanda il lettore giustamente desideroso di inquadrare la problematica che affronteremo nel più ampio contesto storico in cui si colloca.

L’autore dichiara di accostarsi alla questione esaminando prima di tutto la letteratura storica, ma dedicando pure attenzione ai testi di carattere divulgativo e notando che, fortunatamente, le opere più recenti hanno ridimensionato la stima relativa addirittura a nove milioni di vittime - che peraltro compare ancora in alcune opere di carattere meno scientifico - quale risultato di una lotta sommaria alle streghe e riducendola a una più realistica cifra di circa 60.000. Ciò, naturalmente, non toglie nulla ai drammi individuali di chi ha rappresentato un’unità delle circa 60.000 vittime, ma mostra comunque con quanta disinvoltura i fautori della "leggenda nera" hanno spacciato dati tanto stratosferici quanto irreali. Se è vero che le scienze sociali della religione insistono sulla coesistenza nel tempo dell’esperienza magica - propria della stregoneria - con quella religiosa, è altrettanto vero che, secondo la distinzione tipica introdotta dal fenomenologo delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1986), la magia si distingue dalla religione in quanto l’esperienza magica più che un’esperienza del divino o del sacro (ìerofania) è un’esperienza del potere (cratofania), dove l’uomo manipola il sacro e lo mette al proprio servizio. Se dunque l’uomo religioso invoca l’intercessione di Dio, il mago e la strega pensano di manipolare forze soprannaturali o preternaturali. È in questo senso che la Chiesa cattolica già a partire dalla Didachè (il più antico manuale conosciuto per l’insegnamento cristiano) - e. ancor prima, dall’Antico Testamento - da sempre condanna l’esperienza magica, a negromanzia, i sortilegi e la stregoneria come pratiche superstiziose.

Dunque, è di fatto un luogo comune appartenente appunto alla "leggenda nera" l’idea per cui all’Inquisizione sia da collegare automaticamente la caccia alle streghe.

Infatti da sempre per il Magistero cattolico la magia è in primis configurabile come superstizione e per tale peccato, come per gli altri peccati, risultano competenti vescovi e sacerdoti confessori. L’Inquisizione se ne occupava nella sua attività ordinaria soltanto se le pratiche magiche lasciavano trapelare qualche sospetto di eresia. Abbiamo evidenza dai documenti pontifici che i Papi raccomandarono sempre agl’inquisitori d’intervenire in relazione alla stregoneria limitatamente ai casi in cui vi fossero presenti elementi tali da far supporre il sacrilegio o l’idolatria, ovvero quando alla superstizione si aggiungeva, di fatto, l’eresia.

Come riferisce Stark, fra il XIV e il XVI secolo in Spagna il tasso degl’imputati di stregoneria corrisponde allo 0,2 per milione di abitanti ed è il più basso d’Europa. Ciò, evidentemente, a dispetto di quanti, sedicenti storici, nel corso dei secoli hanno diffamato la "famigerata" e "sanguinaria" Inquisizione spagnola, che in realtà ebbe la funzione di impedire la caccia alle streghe, reprimendo duramente non le streghe ma i loro aspiranti cacciatori. Non stupisce pertanto se si nota che nelle Fiandre la caccia alle streghe cessò proprio con l’avvento dell’occupazione spagnola.

La situazione evidenziata dal sociologo relativamente alla Spagna trova conferma anche nel dato riferito all’Italia, dove nello stesso periodo si possono contare 14,4 imputati di stregoneria per milione di abitanti. Altre zone tuttavia, presentano dati meno confortevoli: in aree di lingua tedesca come la Svizzera si contano 376,9 imputati per milione di abitanti, mentre nell’area di Norimberga il tasso sale addirittura a 956,5.

L’ampia divergenza fra le stime che si riferiscono a zone geografiche contigue, nel medesimo periodo storico, non è da ricercarsi nella maggiore o minore diffusione della magia popolare, che appare ben presente sia in Italia che in Svizzera (d’altra parte è nota l’espansione dell’occultismo e del pensiero magico nel tardo Medioevo e nel Rinascimento). Piuttosto, se si vuole trovare una differenza fra l’Italia e la Svizzera (o l’area di Norimberga) si deve notare sia la debolezza dell’autorità centrale, politica e religiosa, sia la presenza di conflitti armati e di anarchia politica e, in seguito, soprattutto nelle zone di lingua tedesca, di un forte conflitto tra cattolici e protestanti.

Alla luce di questi dati il sociologo ritiene che la caccia alle streghe nasca dalla concomitanza di tre fattori: (1) la pratica diffusa della magia e la sua interpretazione demonologica da parte della teologia che, a partire dal Medioevo, ricercando il perché occasionalmente la magia "funzioni" ritiene logico ipotizzare l’intervento del Demonio; (2) una situazione di conflitto religioso - quale i ripetuti scontri fra cattolici e protestanti nel XVI secolo - che rende più difficile tollerare le espressioni di dissenso; (3) la debolezza dell’autorità centrale che non riesce a opporsi con successo alle proposte locali di perseguire le streghe.

Rodney Stark non è certo un apologeta e il suo scopo dichiarato è quello di studiare le conseguenze sociologiche del monoteismo (e non di scrivere una "contro-storia"). Tuttavia la sua lucida analisi ci consente - una volta in più - di confutare una "leggenda nera": quella della caccia alle streghe, a cui le autorità della Chiesa cattolica certamente si opposero e che altrettanto certamente non favorirono e addirittura impedirono, proprio nel momento in cui dilagava in Europa a livello popolare e locale una fobia antistregonica, legata direttamente alla diffusione dell’occultismo e poi alla psicosi del demoniaco introdotta dalla Riforma protestante, i cui eredi - sulla scia di Martin Lutero (1483-1546) e di Giovanni Calvino (1509-1564), di cui è nota una certa ossessione per il demoniaco - si resero attori di una caccia alle streghe che passa spesso sotto silenzio, ma di cui alcuni eventi storici - a partire dalla vicenda delle "streghe" di Salem (Massachusetts, 1692), che ha ispirato molta letteratura horror - danno testimonianza.

Dunque, nessuna persecuzione dei cattolici contro una religione pagana clandestina, secondo un’idea notevolmente diffusa negli ambienti del revival neo-pagano contemporaneo; nessuna prepotenza patriarcale e maschilista contro le donne, dato che molti dei condannati erano uomini; nessun desiderio di impadronirsi dei beni degli accusati, che spesso erano poveri e neppure alcun fanatismo del clero, dato che le campagne contro la stregoneria nascevano molto spesso da iniziative popolari: la verità storica dimostra che le autorità ecclesiastiche si opposero alla caccia alle streghe e il loro successo fu tanto più evidente dove il loro potere, unitamente a quello dell’autorità politica, era più forte, come dimostra l’eloquente caso della Spagna.

Le conclusioni di Stark - e ciò rappresenta il vero pregio e la forza "apologetica" intrinseca, peraltro non intenzionale, del suo volume - appaiono credibili anche per chi analizza le vicende storiche da una prospettiva diversa rispetto a quella cattolica, per il fatto stesso che l’autore rimarca di non essere mai stato cattolico e precisa di non voler in alcun modo far proprio il metodo dell’apologetica, ma unicamente quello dell’analisi sociologica. Al contrario, e a conferma di ciò, lo stesso volume talora contiene affermazioni non in linea con l’ortodossia cattolica (Stark ritiene, per esempio, valida la successione della Chiesa anglicana) che, se dal punto di vista della fede cattolica "macchiano" purtroppo il testo di qualche errore dottrinale, da un’altra prospettiva rendono l’autore disinteressato e perciò insospettabile e libero da qualunque accusa di faziosità, rendendo ancora più inoppugnabili i suoi dati.

Di fronte ai pregiudizi degli storici

Nel suo lavoro di ricognizione e analisi della letteratura storica, Rodney Stark afferma di essersi aspettato dagli autori di testi e manuali di storia pregiudizi di tipo materialista e marxista; tuttavia afferma con sorpresa: "~...1 quello cui non ero preparato era scoprire quanti degli storici che ho dovuto leggere per preparare questo studio esprimono un anti-cattolicesimo militante, e quanti pochi fra i loro pari abbiano obiettato a una litania di commenti dispregiativi di taglio anti-cattolico, talora espressi senza neppure rendersene conto" e prosegue: "[...] benché molti storici viventi oggi probabilmente non abbiano pregiudizi contro la religione cattolica, o almeno non più di quanti ne abbiano contro la religione in generale, spesso mantengono idee false senza rendersi conto che sono il prodotto dell’anti-cattolicesimo di passate generazioni" (For the Glory of God, pp. 12-13. Le traduzioni dall’inglese sono di Massimo Introvigne).

Ecco così spiegate in breve le origini di molte "leggende nere", che non gettano le loro radici nell’obiettività della storia, ma si fondano su letture dei fatti storici che nascono viziate all’origine da pregiudizi ideologici. Da queste considerazioni possiamo ricavare un implicito richiamo, rivolto in primis agli storici cattolici e a chi - come direbbe Nostro Signore - "ha orecchi per intendere" (cfr. Marco 4,9) a lavorare maggiormente per l’approfondimento della reale verità storica e per la difesa della Chiesa cattolica dalle false accuse e dalle menzogne che, a torto, i suoi nemici vorrebbero attribuirle. (A.M.)

Ricorda

"(...) la tesi che responsabile della caccia alle streghe sia anzitutto l’inquisizione (sia quella romana, sia quella spagnola) non regge più alla prova dei fatti e dei documenti: che al contrario dimostrano come sovente gli inquisitori siano stati un elemento di riequilibrio di fronte alle istanze persecutorie emerse dal basso e a livello locale".

(Franco Cardini, Quando le streghe venivano salvate dagli inquisitori, in Avvenire, 29 agosto 1990).

Bibliografia

In lingua italiana, sui temi affrontati da Rodney Stark:

Giovanni Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990.

Gustav Hennlngsen, L’avvocato delle streghe. Stregoneria basca e inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990.

Rino Cammillerl, La vera storia dell’inquisizione, Piemme, Casale Monferrato 2001.

© Il Timone n. 26 Luglio/Agosto 2003

 

 


"IL TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE" (1487 – 1782)

L’INQUISIZIONE fu introdotta in Sicilia prima del 1224 dall’imperatore Federico II, il quale, con la costituzione "Inconsutilem tunicam" emanata a Palermo, ordinò che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo. L’istituzione ufficiale del Tribunale dell’Inquisizione in Sicilia fu deliberata nel 1487 con Ferdinando II il Cattolico, il quale originariamente delegò a giudici i Padri Domenicani. Il 20 gennaio 1513 il compito fu affidato ai religiosi Regolari, che si insediarono nella nuova e definitiva sede del famoso palazzo dello Steri, noto pure con l’appellativo di "regium hospicium", che fu la dimora privata di Manfredi Chiaramonte.

*

L’Inquisizione, "invadendo progressivamente l’intero organismo costituzionale dello Stato, si mostrò arma utilissima dell’assolutismo spagnolo".

Con decreto regio del 6 marzo 1782 il sovrano Ferdinando III di Sicilia, "seguendo i saggi consigli e forse anche per le incessanti sollecitazioni del viceré, marchese Domenico Caracciolo, avverso ad ogni privilegio ed abuso ecclesiastico, e per il conforme parere espresso dal siciliano, primo suo ministro di Stato, marchese della Sambuca", ordinava l’abolizione dell’Inquisizione nell’Isola.

Premessa:

Torture, supplizi e feroci esecuzioni con scempio dei cadaveri, per secoli sono i normali mezzi con cui la giustizia, dovunque nel mondo, persegue non soltanto la punizione dei delitti, ma l’obiettivo di incutere terrore a chi al delitto si accinge, con la esemplarità delle esecuzioni. Esemplarità che a Palermo si credeva di conseguire col barbaro uso di appendere le membra squarciate dei condannati a degli uncini di ferro di una forca, eretti nella località dello Sperone (da cui ne prende il nome), nel quartiere Settecannoli, posta oltre la borgata di Romagnolo, all’ingresso della città, lato mare. Nel 1650, vi vengono esposti i quarti del procuratore Lorenzo Potamia, coinvolto in una congiura capeggiata dal conte di Mazzarino. Tale barbaro spettacolo fu abolito dal viceré d’Aquino, principe di Caramanico, nel 1783 e la forca fu distrutta. Ma la fantasia dei giudici non ha limiti: la pubblicità dell’esecuzione può essere assicurata anche da altri procedimenti, come, ad esempio, staccando dal tronco la testa del condannato e piantandola "ad un chiodo su d’una trave nella piazza Vigliena", come accade a Giuseppe Pesce, giureconsulto, "famoso per eloquenza", coinvolto nella stessa trama del Potamia, o portandola in giro per la città infissa ad una picca (lunga asta di legno munita di una punta di ferro).

La Sicilia, rispetto alle altre parti del mondo, non fa eccezione; ha soltanto una varietà infinita di autorità che hanno il potere di infliggere incondizionatamente pene: la giustizia vicereale, quella dei tanti fori privilegiati tra i quali spicca per ferocia quello dell’Inquisizione, nonché le corti di giustizia feudali dei baroni. Persino i governatori del Monte di Pietà di Palermo sono autorizzati a punire i reati contro il Monte "con pubbliche et esemplare pene, o privatione, tratti di corda o frusta et alli nobili pene pecuniarie ad essi governatori benviste".

Ognuna di queste giustizie esercita, senza eccessive formalità, processi più o meno regolari e infligge pene. I controlli non esistono o quasi; i ricorsi ai gradi superiori sono possibili soltanto a soggetti che dispongono di denaro con cui pagare l’assistenza di un buon giureconsulto. Tutti gli altri subiscono le decisioni giudiziarie che non raramente sono poco più che soprusi e violenze, legalizzate da una parvenza di giustizia e da consuetudini regolari.

 

Ma, ancor prima di dare inizio ad una serie di disumane torture, per estorcere delle false confessioni che legalizzassero la condanna, si procedeva all’ultimo interrogatorio dell’imputato, quello che veniva chiamato " l’interrogatorio sulla selletta ". La sgabello di legno che veniva posto al centro dell’aula selletta era semplicemente uno e sul quale sedeva l’imputato. Si pensava che, solo, davanti ai giudici in toga, ormai informati in modo completo su tutti gli atti del processo, egli sarebbe rimasto impressionato ed avrebbe senz’altro rivelato tutto ciò che aveva potuto dissimulare nel corso del dibattimento. E’ ovvio che il grande inquisitore tempestava di domande l’imputato e cercava di confonderlo, mettendo in rilievo le sue eventuali contraddizioni e le testimonianze che erano contrarie alle sue affermazioni, e, privo dell’aiuto di un avvocato, era particolarmente vulnerabile, e come tale vittima già destinata al rogo.

La tortura è un imprescindibile meccanismo procedurale; in una logica per noi oggi incomprensibile, ma valida fino al Settecento ed oltre, "la confessione stragiudiziale, la quale purtroppo, allora, prendeva la forma di confessione sotto la tortura". Tratti di corda, frustate e anni di remo nelle galere vengono inflitti anche per delle semplici contravvenzioni. I capitoli della città di Palermo ordinano che "siano in pena della frusta, e di quattro tratti di corda" coloro che faranno cattivo uso delle acque comunali per cui hanno ottenuto la concessione; che i cassieri della "Tavola di Palermo" (una banca pubblica istituita nel 1552-53) che non registrino subito le somme incassate "siano in pena la prima volta di pagar di proprio, la somma ritenuta, e di perdere il salario di un anno; e la seconda volta d’anni tre di galea"; che chi rompe i fanali dell’illuminazione cittadina (siamo nel 1748) subisca la "pena della suddetta frusta con venti cazzottate, e di anno uno di carcere"; che chi "abbia avuto l’ardimento di far mancare, o seccare, scorticare, e recidere gli alberi" piantati nelle strade fuori porta, subisca "la pena di onze ducento se saranno nobili, e di quattro tratti di corda ed anno uno di carcere se saranno ignobili".

Nel caso di un nobile insolvente, in Sicilia, Ministri Delegati e Procuratori dei creditori, nominati di volta in volta, facevano stimarne i beni più adatti alla vendita, ne pubblicavano il prezzo ed erano autorizzati a venderli, come se tale vendita procedesse dalla potestà sovrana del Re. All’acquirente consegnavano copia del contratto munito di "Verbo Regio", che toglieva al nobile il possesso ed ogni possibilità di rivendicazione, inoltre gli davano lo "Scudo di Perpetua Salvaguardia" contro pretesi diritti di altri.

Non ci sono limiti, invece, alle pene comminate per reati maggiori. Il viceré de Vega costumava, anche per lievi colpe, "di dare la tortura anche a’ nobili, e […] spesse volte li facea battere con lo staffile. Per delitti di menoma conseguenza non esitava punto di fare inchiodare una mano al reo, a’ bestemmiatori poi faceva delle volte forare la lingua, e spesso tagliare".

Il trionfo della Fede nella Palermo del S. Uffizio:

L’Inquisizione, questo tremendo istituto, costituito per il perseguimento della haeretica pravitas, fu in realtà, attraverso la feroce repressione delle eresie vere o presunte (e l’incameramento dei beni dei condannati), strumento dell’assolutismo regio, tant’è che gli inquisitori poterono sempre, nei confronti del sovrano, rivendicare il merito di "tener saldo il regno", e insomma di garantire alla monarchia di Spagna l’ordine statale e sociale in una regione "piena di infedeli": giudei, maomettani, luterani e in genere seguaci di correnti religiose eterodosse.

I pericoli, in verità, erano assai minori di quelli prospettati, né è da credersi a una Sicilia infestata da fermenti ereticali, come l’abbondanza dei giudizi e il gran numero di roghi accesi a consumare atrocemente i destini delle infelici vittime vorrebbero farci credere; valga al riguardo la testimonianza del letterato Argisto Giuffredi, che, scrivendo verso il 1585 gli "Avvenimenti cristiani" ai suoi figli, osservava che "bastava poco per essere accusati di eresia". Bastava poco per l’accusa e poco passava fra l’accusa e la condanna, ché, nel fanatico zelo dei giudici, nella sommarietà e nella violenza delle procedure, esperite senza rispetto dei diritti della difesa e al di fuori da ogni garanzia canonica, al disgraziato non era dato scampo una volta finito nel torchio del S. Uffizio: perciò ripetutamente il Parlamento ebbe a reclamare presso il sovrano contro gli abusi dell’Inquisizione, e sempre da Madrid le richieste vennero eluse e anzi i privilegi del tribunale accresciuti; non riuscirono nemmeno i viceré, del resto, a contrastare le esorbitanze degli inquisitori, coi quali più volte vennero a contese di giurisdizione e persino alle mani, ché in fondo quell’Inquisizione ben pasciuta, colma di "familiari laici", consultori e delatori, ben faceva il giuoco della Corona, alla quale assicurava il controllo politico del viceré e della burocrazia. Questo istituto era divenuto nel tempo fonte di prestigio e di notevoli vantaggi. Chiunque infatti avesse il diritto di portare il distintivo con la croce e i gigli dell’inquisizione era esente da tasse, non poteva essere giudicato dai tribunali ordinari ed era autorizzato a portare con sé armi. Inoltre, poiché i beni degli inquisiti venivano confiscati (e un decimo del loro valore diventava proprietà del delatore), il miraggio di facili guadagni induceva a ingiuste accuse. Certamente le torture e i roghi a S. Erasmo non sempre erano giustificati dalla difesa della religione, e il cerimoniale che li accompagnava rimane una vergognosa pagina di inciviltà nella storia. E viene spontanea la domanda: quante persone, dal 1487 al 1782, si trovarono, in Sicilia, ad avere dolorosamente a che fare con l’Inquisizione? Sappiamo per certo che almeno duecentotrentaquattro furono i rilasciati al braccio secolare per la suprema pena del rogo. Ma quanti sono stati gli inquisiti, i condannati a pene minori? E quanti tra loro i poeti, i filosofi, gli artisti?

Nel mese di luglio del 1780 il re Ferdinando III nominò viceré di Sicilia il marchese di Villamaina, Domenico Caracciolo, Ambasciatore a Parigi, che giunse a Palermo il 14 ottobre 1781, iniziando per l’isola le riforme che lo resero famoso, e prima fra tutte la soppressione del famigerato Tribunale dell’Inquisizione; ed il popolo esultò facendo pubbliche feste, mentre l’aristocrazia protestava, per fortuna inutilmente, presso il re di Spagna. Nelle carceri del palazzo Steri, dove erano le sinistre prigioni del S. Uffizio, erano ancora rinchiuse tre vecchie condannate per stregoneria. L’anno successivo, per ordine dell’ultimo inquisitore, tutti i documenti del Tribunale vennero bruciati. Le fiamme durarono un giorno e una notte e di tutta la secolare attività non restò traccia per la storia, tranne che in quelle carte della "Inquisición de Palermo o Sicilia", che si conservano nell’Archivio Nazionale di Madrid, dove ci si auspica che qualche storico si decida a studiarle, fornendoci un rapporto più completo di un pietoso dramma umano.

Così, per circa tre secoli, dalla sua istituzione nel 1487 alla definitiva eliminazione, avvenuta il 27 marzo1782, la Sicilia si pianse il S. Uffizio, con corale approvazione e partecipazione di quasi tutta la classe dei nobili, non escluso il marchese di Villabianca.

Si cominciò in sordina, nello stesso anno 1487, con un delegato senza stabile dimora, il domenicano Antonio La Pegna, il quale fu così zelante che ad agosto aveva già acceso il primo rogo: toccò ad Eulalia Tamarit di Saragozza, colpevole di essere ebrea. Fino al 1513, quando il Tribunale divenne permanente, utilizzando come carceri segrete per rinchiudervi i penitenziati alcune stanze del fabbricato che il S. Uffizio, nel primo Seicento, aggiunse allo Hosterium dei Chiaramonte (palazzo "Steri", divenuto sede del Tribunale dell’Inquisizione nel 1601, fino alla sua soppressione nel 1782) vennero condannati altri 27 poveri infelici; poi, nell’anno della stabilizzazione dell’organo, quasi a celebrare l’evento, d’un colpo solo i roghi furono 35, e non tutti di vivi, poiché tanto era il furore della vendetta che fra le fiamme platealmente furono spediti persino i cadaveri di coloro che avevano fatto la scortesia, nel frattempo, di morire: furono disseppelliti e arsi a pubblico esempio. La serie dei sacrifici umani finisce nel 1732 con il curiale Antonio Canzoneri da Ciminna. Questi, avendo abiurato, viene esonerato dalla condanna a morte, dall’essere arso vivo, ma destinato a vita alle carceri del Sant’Uffizio. Di conseguenza, il reo confesso, nella notte del 1° ottobre 1731, comincerà "a vomitare ingiurie e insolenze e bestemmie contro Dio e i Santi e a professare eresie". "Meglio morire che vivere tutta la vita in quel carcere" – gli fa dire Luigi Natoli – "in quel carcere, del resto, oscuro come una tomba". Lì dove Giuseppe Pitrè troverà scritto (non importa da chi): "Nun ci nd’è no scuntenti comu mia: mortu, e no pozzu la vita finiri".

Un fatto di cronaca:

Alcuni viceré non usano minore rigore. Il conte di Albadalista, il 15 dicembre 1590, tornava da Messina per mare, e il senato civico per l’occasione gli aveva preparato adeguate accoglienze, facendo costruire alla Cala un imbarcadero lungo trenta metri, destinato all’attracco della galera; su di esso i nobili e le autorità del regno e della città si affollarono per dare il benvenuto al governante. Ma quel pontone di legno e cordame, zelantemente allestito assai prima, era rimasto troppo tempo a mollo e ormai s’era infradicito, la calca dei convenuti era enorme, e per di più il viceré aveva gran fama di jettatore, provata nel corso del suo disgraziato governo, né si smentì in quell’occasione. Fatto sta che, proprio nel momento in cui, fra salve d’artiglieria e rulli di tamburi, stava per scendere dalla galera, questa, malamente imbrigliata a una trave del pontile, dando di bordo lo strattonò violentemente: l’imbarcadero oscillò, si disfece tra i flutti, portandosi dietro il suo carico umano. Un gran numero di nobili, venuti per accoglierlo, perisce nel disastro. L’arcivescovo Aedo, finito pure lui in mare, venne salvato a stento; da parte sua, il viceré si comportò nell’occorrenza da autentico cialtrone e senza il ben che minimo senso d’umanità: sbarcato con la moglie, pensò solo a tornarsene a palazzo.

Alcuni popolani, con la scusa di soccorrere le vittime, invece di aiutarle le annegano di proposito per rubar loro i gioielli. Preso uno di questi, "fu trascinato sopra una tavola attaccata alla coda di un cavallo al luogo del delitto, dove vivo ebbe tagliata la mano, e di poi condotto alla piazza della Marina fu impiccato per la gola".

Nel corso della mortale peste del 1575, il presidente del Regno, principe di Castelvetrano, nel punire i ladri di robe infette, supera ogni fantasia sadica.. Catturatili, "furono esemplarmente castigati, altri essendo stati trascinati alla coda de’ cavalli, e strozzati, altri tanagliati, e buttati dall’altezza del Palagio vecchio, detto dell’Osteri, ed altri impalati, e poi uccisi".

E così via, impiccando e squartando fino alla fine del Settecento, con gran sollazzo. Nel 1775, Francesco Maugeri, Giuseppe Pozzo e Ignazio Sorrentino, rei di tentata ribellione, ebbero "tagliate le teste e le mani, e appese in gabbie di ferro sopra l’accennata porta [della Vicaria] i quarti de’ loro corpi furono collocati allo Sperone".

L’ultima grande esecuzione pubblica palermitana è la decapitazione, eseguita il 10 aprile 1863, di Gaetano Castelli, Pasquale Musetto e Giuseppe Calì, tre dei pugnalatori del 1862. Per l’imperizia del boia nell’adoperare la ghigliottina, l’esecuzione fu di estrema crudeltà e molti spettatori svennero. La descrizione di quel raccapricciante spettacolo è fedelmente riferita nel feuilleton di Salvatore Mannino, "I pugnalatori di Palermo del 1862". Chi pensa che la civiltà giuridica abbia diritto di comminare pene capitali, farebbe bene a leggerla.

L’azione giudiziaria:

Il processo accusatorio "s’intraprende dal giudice colla precedenza dell’accusa per mezzo del libello accusatorio intentata, in cui devesi porre una succinta e precisa storia del fatto, il nome dell’accusatore, dell’accusato, del giudice, del delitto, della persona contro di cui e con cui fu commesso, nonché il tempo in cui è seguito, e niente più; poscia ricercasi in questo processo la sicurtà dell’accusatore, la risposta del reo, le prove e le riprove, e la sentenza".

Al contrario, nel "processo inquisitorio", che "il giudice intraprende ex officio, senza precedenza di formale accusa, per una nuda e semplice segreta notizia o denunzia, o anche per la sola fama, inquisire egli e intorno il delitto occulto e le di lui circostanze, ed intorno l’autore. Va egli ammassando prove di ogni genere, cita testimoni, li esamina e forma gli articoli inquisizionali ai quali il reo deve rispondere, e in difetto di piena prova contro il reo che nega il delitto, procede con mezzi straordinari per estorquere dalla bocca del medesimo quella parte di prova che lui manca per condannarlo, e finalmente si procede alla sentenza".

Anche le denuncie anonime, o "accuse segrete" a firme fantasiose (S.S. Trinità, o anime del Purgatorio, ecc.) innescano un procedimento penale, costituendo, di fatto, e "abusivamente" un "capo accusatorio", dopo quello pubblico e privato. "Non v’è paese nelle provincie [del Regno] dove non vi siano calunniatori di professione… ogni diceria, ogni sospetto, l’invidia istessa somministra materia ai loro iniqui romanzi".

I "mezzi straordinari" adottati dai giudici per far ammettere ai presunti rei la piena colpevolezza dei gravi reati a loro imputati, erano le inumane torture a cui venivano sottoposti incessantemente, fino a quando non avessero confessato (spesso il "falso").

Per Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene" – edita nel 1764) non può erogarsi la tortura poiché "un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice (…). Qual è dunque quel diritto, se non quello della forza che dia potestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino mentre si dubita se sia reo o innocente?".

Pratica criminale delle torture:

Tortura (da: torcere, piegare), era quindi il complesso di forme di coercizione fisica o morale inflitte specialmente a un imputato o al testimone, per indurlo a confessare o a deporre in modo attendibile (o di convenienza – diremmo noi – per gl’inquisitori) in uso dall’antichità all’Ottocento. Si distinguevano in: tortura lieve, della durata di sette minuti; in mediocre di trenta minuti; in acre, di un’ora più il tempo necessario a recitare un Miserere, sempre quando, sotto il supplizio, il martire rimaneva ancora in vita.

Alcuni tormenti gradualmente cadono in disuso o espressamente vengono aboliti, quali: "Il tormento del velo, che lungo palmi quattro, e bagnato tenendosi a forza, aperta la bocca del reo, con istrumento di ferro, pian piano coll’acqua, che gli si dava a sorso, tutto li si facea inghiottire, finché giungesse al fondo dello stomaco, dove giunto, li veniva strappato dal carnefice, e per lo più il reo soffocavasi: onde come troppo periglioso alla vita umana fu tralasciato". "Il tormento del fuoco: legatosi il reo ignudo, e seduto a terra, dopo essergli unti li piedi con grascia di porco, si poneano nella distanza di circa due palmi cinque rotoli di carboni accesi, i quali liquefacendo la parte untuosa ne’ piedi, li cagionavano un cruccio acerbissimo: indi scioglievasi il reo, e surto in piedi da due manigoldi sostenuto, faceasi camminare sopra alcuni bottoncini di ferro rovente, che entrando nelle infocate piante de’ piedi, ne restava il meschino paziente per tutta la sua vita offeso, e come tormento tirannico fu con bando abolito". "Assai molesto, ed al pari inumano era Il tormento della capra, poiché bagnati i piedi del reo vi si attaccava molta quantità di sale, e indi conduceasi una capra, la quale, avida del salso, con la scabrosa lingua tanto quelli lambiva, fino a che, rotta la cute, e consumata la parte carnosa giungeva a scoprire l’osso".

La lieve tortura:

"Addì 20 dicembre 1788, Regia Vicaria di questa Città nel luogo della tortura. Giovanna Bonanno (meglio conosciuta come "La Vecchia dell’Aceto") che secondo gli atti della Regia Curia Capitaniale il giorno 9 ottobre 1788 "in subitione" rese la sua confessione, condotta al luogo della tortura allo scopo di ratificare la confessione prossima e collaterale da lei resa "in subitione", legata dapprima con cordicelle, poi con la grossa fune, e con la tavoletta collocata ai piedi, sospesa alquanto da terra come si dice "a tocca e non tocca" e letta da me D. Gioacchino Firenda cancelliere di detta Regia Curia Capitaniale la deposizione prossima e collaterale in presenza dello Spettabile Sambuco Giudice di detta R.C. Capitaniale con l’intervento e l’assistenza del Magnifico Procuratore Fiscale della medesima Curia dalla prima all’ultima riga, parola per parola, così come è depositata, che con un duplice giuramento a voce e toccate le Scritture nelle mie mani, ratificò e ratifica, e confermò e conferma in modo assolutamente pieno secondo la serie, la successione e il contenuto e il tenore e così sulla base del predetto mandato fu fatta scendere a terra e sciolta dai lacci fu mandata in carcere".

Il "teatro" dell’Inquisizione:

Festa grande a Palermo il 5 aprile 1724, quando fu allestito un "teatro" nel piano della Cattedrale: era alto "sette palmi (…) lungo canne 21,4 e largo canne 14" e composto da circa dieci palchi. Alla destra stavano i "Qualificatori", i "Consultori" e i rappresentanti della Corte Pretoriana; alla sinistra i "Secretari", gli "Uffiziali" ed i rappresentanti del Senato; al centro veniva allestito il palco dei condannati, coperto di "panni neri". Il "teatro" veniva corredato di altri tre palchi ubicati ai lati "dell’altare": uno era destinato alle dame che assistevano bramose di emozioni al lugubre spettacolo, un altro era occupato dai "musici" e l’ultimo veniva assegnato ai confratelli della Compagnia dell’Assunta. Questi palchi erano "guardati per ogni parte da cancelli di legno"; sotto al palco si apriva una "secreta scala" che conduceva a "certe piccole basse camerette" dove i "fratelli" dell’Assunta, a turno, andavano a riposarsi.

Anche i confratelli della Compagnia dei Bianchi (fondata nel 1541 dal viceré di Sicilia conte di S. Stefano), tre giorni prima dell’esecuzione capitale, assistevano insieme al sacerdote i condannati, li facevano confessare e li accompagnavano al patibolo.

I rei stavano sopra alcuni gradini di legno; i meno colpevoli vestiti di sacco nero, quelli imputati di gravi reati vestiti del sacco nero e giallo, dipinto con repellenti figure. I condannati si facevano entrare nello steccato, al centro dei palchi stracolmi di spettatori di tutti i ceti, dove in mezzo erano posti due alti pali di ferro, ai cui piedi s’accumulavano le cataste della legna. Ai rei, in piedi sulla carretta, veniva letta la sentenza del S. Uffizio e quella della corte Capitanale, e la condanna capitale ad essere strozzati e poi bruciati, o direttamente arsi vivi. Le vittime, in coppia, tolte dal carro, venivano poste sulle cataste, e ciascuna incatenata al proprio palo. Il boia passava un nodo scorsoio intorno al collo di colui che avrebbe "beneficiato" della minor sofferenza con la concessione dello "strangolamento" al palo, e poi bruciato, appiccando il fuoco alle pire. Le fiamme avevano immediata presa sul sacco, unto di pece, lo avviluppavano e gli ardevano i capelli e la barba, sollevando una grande nube di fumo, mentre quei poveri disgraziati lanciavano delle grida disumane. Sulla pira le carni crepitavano, soffriggevano, spandevano intorno un odore nauseabondo… Le fiamme duravano più ore, fino all’alba; e di quei corpi non rimanevano che poche ossa nere, carbonizzate.

Secondo quanto riferisce Giuseppe Pitrè, il popolo aveva adottato una terribile frase, per preannunciare una grave minaccia, perché riportava subito alla mente le atrocità del passato, per il chiaro riferimento che si faceva, nel giorno delle esecuzioni, della fastosa e numerosa cavalcata di magnati, patrizi e nobili dei più alti ordini della città e di tutti gli officiali con essi della corte del Tribunale, oltre a tanti preti e monaci, essendo consultori e qualificatori del S. Uffizio, adorni della croce in petto e di un’altra a ricamo grande nelle cappe, donde si diceva: "Ti fazzu vidiri lu Sant’Uffiziu a cavaddu".

Il Pitrè trattò l'argomento di queste mostruose atrocità nella sua nota pubblicazione: "Del Sant'Uffizio a Palermo", al capitolo: "Il Tribunale dell'Inquisizione a lavoro", sotto l'aspetto folcloristico, con dovizia di particolari, dando una colorita descrizione dello scenario che si svolgeva in città, ogni volta che i condannati, con sentenza passata in giudicato, venivano mandati al rogo, con gran sollazzo della gente che vi accorreva numerosa: "Squillano le trombe, e tutto il popolo, preavvisato dai tamburi, esultando corre allo spettacolo. Preceduto dal vessillo della Santa Inquisizione, splendente della bellezza delle stelle e del sole, esce dal Palazzo del S. Uffizio il festivo corteo. Per le strade la gente schiamazza e commenta". Non si pensa che degli esseri umani, spesso innocenti, di lì a poco saranno arsi sul rogo. I Romani dicevano: "Mors tua vita mea!", i Palermitani adottavano l'altra frase, pure significativa: "Menu mali c'un attocca a mia!" Loro amano la vita, scordano facilmente le disgrazie davanti ai divertimenti, e questo chi li governa lo sa bene, ingannandoli per secoli con certe pietanze all'agrodolce. "La fama di tanto trionfo nel trofeo della fede insigne, con liete acclamazioni condotto e celebrato, vola per le bocche e le orecchie di tutti, così che nessuno, di qualunque condizione, sa trattenersi dal partecipare a tanto gaudio. Con cetere, cimbali e sistri celebrano i cantori la Santa Croce". Applaudono e gridano bene e prosperità al passaggio del personaggio che incute paura solamente a pronunciare il suo nome, a colui che in terra rappresenta l'Essere Assoluto, che decide della vita e della morte dei comuni mortali: "Ecco il sommo, l’ottimo, il massimo Inquisitore e Giudice, in cui si accentra ogni potestà del Cielo e della terra e che, secondo la divina Scrittura, sorge e primo giudica la causa di Dio". A volte si stenta a credere che realmente sia esistito un periodo in cui, sotto l'insegna della Santa Croce, siano stati commessi delitti contro i presunti "nemici della Fede, dando alla Chiesa un fulgore splendidissimo".

Alla fine della trionfale cavalcata per la città, il corteo giunge sul luogo della rappresentazione, dove la Gran Corte al completo si asside. "Alla loro vista paventano, sopraffatti da pensieri, i rei". Da questo momento si dà inizio allo spettacolo vero e proprio, a cui il popolo anela, aspettando impaziente fin dalle prime luci del mattino. Letti gli atti di ciascun reo, i "reconciliandi" si ammettono al perdono e alla penitenza: "Ginocchioni innanzi gli Inquisitori, ricevono accesa la candela che hanno portata spenta. Quindi, secondo la natura dei delitti, si fa l’abiura e si percuotono lievemente con la verga, e sono, per siffatta percussione, ammoniti i rei di non più ricadere nei delitti trascorsi. Finalmente, per l’aspersione dell’acqua santa, vengono cacciati i demoni, alla suggestione dei quali essi soggiacquero".

Quale sorte è riservata invece a coloro che si ostinano fino all'ultimo di rientrare nelle file del buon cristiano, obbediente alle leggi terrene e divine? "Costoro, coperti d’una tetra, fetida ed orribile veste, serpeggiata tutta di fiamme infernali, vengono tradotti allo spettacolo. Terminata la lettura del processo, questi empi vengono consegnati al braccio secolare per essere ridotti in cenere". A volte la scena che si descrive, anche a distanza di secoli, è così raccapricciante che il lettore è preso da certa rabbia per non poter intervenire in aiuto di quei poveri infelici, abbandonati a se stessi, senza difesa: "Tra i carboni che bruciano, le cataste di legna, le cruenti fiamme dell’accesa fornace ed i crepitanti fuochi, perseverano impavidi, per la salute delle loro anime, i sacri padri, e con parole, esempi ed orazioni anelano alla loro conversione; né li lasciano finché non abbiano essi esalato l’ultimo respiro. Che se si convertono, fatta la confessione sacramentale e ricevuta l’assoluzione, vengono strangolati e poi bruciati; e se impenitenti, senz’altro inceneriti tra le stridenti fiamme".

Ogni commento è vano sia per il mondo di ieri che per quello di oggi, perché nessuno è ancora riuscito a scovare ed a sopprimere le tre diaboliche sorelle, streghe del male: l'invidia, la malizia e la vendetta!

Gli "autos da fé" in Sicilia nei secoli XV - XVIII:

Espressione spagnola che significa "atto di fede". Gli autos da fé erano grandiose cerimonie pubbliche, nel corso delle quali l’Inquisizione notificava agli imputati le sentenze, che poi venivano eseguite sul posto. Nei bandi, che portavano a conoscenza della popolazione la data dell’"atto di fede", si prometteva che "tutti quilli chi asistiranno a la dicta predica et solepne Acto guadagneranno le indulgencie" e si minacciava "excomunicatione maiore" a chiunque tentasse di dare aiuto ai condannati. La presenza agli "atti di fede" era obbligatoria come alla messa domenicale per "fidelli christiani […] di etate de anni dudici in suso".tutti

Agli atti generali di fede, nel corso dei quali si pronunciavano decine di condanne, presenziavano le autorità e la nobiltà con in testa il viceré, il clero cittadino regolare e secolare con in testa l’arcivescovo, e una grande moltitudine di popolo. Tutta questa gente sfilava in lunghissima processione dal fosco palazzo Steri, sede dell’Inquisizione, al luogo dove si sarebbe svolto l’auto da fé.

Non c’era un posto fisso per il loro svolgimento, ma, a seconda delle circostanze, avevano luogo nei numerosi slarghi cittadini capaci di accogliere folle di spettatori. Se ne eseguirono nel piano della Marina, in quello dei Bologni, dell’Ucciardone, nella piazza della Vucciria Vecchia, nel piano della Loggia e in quello di S. Domenico.

I poveri disgraziati che subivano l’"atto di fede" erano detti penitenziati. I riconciliati, cioè coloro che avevano dichiarato di essere pronti ad abiurare alle loro eresie e a riconciliarsi con la Chiesa, scontando la pena a cui il Tribunale del S. Ufficio li avrebbe condannati, si presentavano indossando un saio giallo, chiamato sambenito, che ben presto divenne simbolo di vergogna sociale e di emarginazione non soltanto per chi lo indossava, ma anche per le famiglie dei condannati. Gli imputati, nel corso della cerimonia, dopo aver ascoltato la lettura dell’atto di accusa, abiuravano: de levi se erano stati soltanto in sospetto di eresia; de vehementi se la loro eresia era stata accertata. Indi, subivano le pene comminate loro, a cui si accompagnava sempre la confisca dei beni a beneficio dell’Inquisizione.

In genere, i riconciliati venivano sottoposti alla frusta del boia per un certo numero di cazzottate (frustate), che andavano da una decina ad oltre duecento. Dopodiché si avviavano a scontare la pena, che poteva consistere in un certo numero di anni di disterro, cioè di esilio dal proprio paese, o di lavori forzati al remo delle galee o in lunghi anni di triste detenzione nelle segrete di qualche carcere ecclesiastico.

 

Diversa era la sorte di chi non abiurava alle proprie convinzioni. Costoro, dichiarati ostinati e pertinaci, venivano rilasciati al braccio secolare della giustizia – dato che la santa Chiesa non uccide nessuno – per essere bruciati sul rogo. La stessa sorte toccava a chi, riconciliato in un "atto di fede", ricadeva poi negli stessi errori. Dichiarato relapso, veniva bruciato immancabilmente. Se si era pentito, gli si faceva la grazia di strozzarlo prima di essere bruciato.

Anche i morti venivano bruciati. Per accusa di eresia, l’Inquisizione faceva riesumare i cadaveri per bruciarli pubblicamente (l’anticipazione della odierna "cremazione"). I contumaci, invece, venivano bruciati in statua. In attesa di poterli bruciare in carne ed ossa, si poneva sul rogo un simulacro di cartapesta.

Durante la sua lunga attività, dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento, l’Inquisizione organizzò centinaia di autos da fé, tutti di inaudita crudeltà. Alcuni di essi, per la qualità dei condannati e per la grandiosità del cerimoniale, restarono fissati nei diari dei contemporanei e in pubblicazioni a stampa. Il più famoso è certamente l’auto da fé tenutosi il 6 aprile 1724, in cui, tra altri ventisei penitenti condannati a pene varie, furono bruciati vivi fra Romualdo e suor Geltrude. Il primo, a parere di molti, era poco sano di mente e mormorava a se stesso: "Fra Romualdo sta’ fermo"; l’altra era una povera suora che diceva agli inquisitori: "Io son donna, voi siete teologi; non posso mettermi a contendere con voi".

Nel 1790, il mai troppo apprezzato viceré, marchese Domenico Caracciolo, aboliva il feroce tribunale dell’Inquisizione, nemico dell’umanità, della tolleranza e del cristianesimo. Purtroppo, i siciliani dimostrarono di essere diseducati ad apprezzare questi valori. Agli atti della storia restano per sempre due terribili documenti: la "Supplica del Senato di Palermo perché il Re non permetta di abolire l’Inquisizione" e la "Supplica della Deputazione del Regno a S.M. per non abolirsi il Tribunale del S. Offizio". La Deputazione del Regno era la massima espressione del Parlamento siciliano. Rappresentava, o avrebbe dovuto rappresentare, tutti i siciliani.

L’Inquisizione, nella realtà storica:

Fu così chiamata l’istituzione fondata per ricercare (in lat. inquirere) ed esaminare coloro che si allontanavano dalla verità di fede e operavano in conseguenza, sul piano teorico o pratico. Nella realtà storica l’Inquisizione fu sempre legata a un tribunale nel quale venivano giudicati coloro che erano stati trovati colpevoli di eresia o di idee e azioni contrarie alla fede.

L’esigenza di difendere la purezza e l’integrità della fede, manifestatasi dopo che il cristianesimo era diventato l’unica religione di Stato, pose il problema del modo di comportarsi nei riguardi di coloro che o non avessero accettato il cristianesimo (pagani sia dell’antica religione greco-romana, sia delle popolazioni germaniche) o si fossero allontanati dall’ortodossia (eretici). Si ebbero allora le divergenti opinioni e di chi affermava il diritto per ciascuno di credere liberamente e di chi, invece, sosteneva l’opportunità di sospingere alla fede anche con la forza: S. Agostino – ed è un esempio interessante del mutamento di punto di vista in una stessa persona per effetto delle circostanze storiche – passò da una posizione assai tollerante al tempo della sua polemica contro i manichei (che concepivano la realtà come una continua lotta fra due principi opposti, come il bene e il male, lo spirito e la materia, ecc.) a una assai intransigente, verso la fine della sua vita, quando, in lotta contro i donatisti (che sostenevano la non validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti indegni e proclamavano la propria ostilità nei confronti dell’Impero Romano), enunciò il famoso principio: "Compelle entrare" (costringere a entrare, cioè nella Chiesa), che tanta influenza doveva esercitare nei secoli futuri.

A lungo, tuttavia, durante il Medioevo barbarico e i secoli dell’Alto Medioevo, l’atteggiamento della Chiesa, riguardo agli eretici e ai non cattolici, fu di tolleranza, anche quando, con l’inizio del sec. XI si cominciarono a manifestare dei fenomeni ereticali di vistosa importanza. Vi furono allora processi a eretici per conoscerne le idee e condannarle sì da impedire la loro diffusione, ma raramente condussero a sentenze capitali; comunque, non vi furono sistematiche ricerche per colpirli. Coloro che finirono sul rogo furono più vittime del furore popolare, che non del giudizio ecclesiastico. Non si trattò però ancora di Inquisizione, perché di questa mancò l’aspetto più caratteristico, la ricerca dell’eretico, e si ebbero, di solito, interrogatori e giudizi di individui o gruppi, casualmente emersi all’attenzione degli ecclesiastici o di fedeli.

Né possiamo ancora considerare Inquisizione la ricerca episodica di eretici che si ebbe lungo il sec. XII, in relazione al manifestarsi sempre più preoccupante dei vari gruppi eterodossi in Italia o in Francia, come quando S. Bernardo intervenne nel Tolosano contro il monaco Enrico e contro i Catari (setta ereticale che si fondava sul dualismo manicheo tra bene e male e predicava un profondo rinnovamento morale) o quando l’arcivescovo Galdino di Milano predicò, ancora, contro i Catari nella sua città. Però, è vero che proprio in questo secolo si venne lentamente formando l’opinione che bisognasse agire contro gli eretici e che questa azione costituisse uno dei più difficili e responsabili doveri del vescovo: questi dovrà ricercare e punire coloro che turbano e minano l’unità della fede: ma i vescovi operarono in questa direzione episodicamente e con debole impegno, sia per le difficoltà oggettive della ricerca stessa (gli eretici di qualsiasi tipo e credenza tendevano a mimetizzarsi) sia per lo scarso appoggio che riceveva dal clero, spesso insufficiente o fiacco.

L’Inquisizione, e il tribunale che la accompagnò, sorse da questa situazione, dalla preoccupante diffusione delle manifestazioni di eterodossia e soprattutto dalla necessità di identificare e precisare gli eretici perché potessero essere poi colpiti dall’autorità civile; la Chiesa, infatti, era riuscita a ottenerne ripetutamente l’appoggio nel 1183 con Federico Barbarossa, nel 1220 con Federico II, che aveva sanzionato solennemente il bando per l’eretico e infine nel 1224, ancora con Federico II, che decretò la pena di morte per l’eretico ostinato e pertinace, ribadendo in seguito più volte la sua decisione. L’Inquisizione venne resa possibile, inoltre, dalla circostanza decisiva della formazione dei nuovi Ordini mendicanti, specialmente dei predicatori, che operarono in tutta la Chiesa alle dirette dipendenze del pontefice.

Tra il 1231 e il 1233 Gregorio IX comunicava ai vescovi, in diversa formulazione ma con chiara unità d’intenti, l’incarico affidato ai Domenicani di svolgere la ricerca degli eretici d’accordo con i vescovi, ma anche in una precisa autonomia; proprio in questi stessi anni compare il termine inquisitor, che emerge la prima volta, come sembra, nel 1231, nello statuto contro gli eretici del senatore di Roma, Annibaldo degli Annibaldi. Ai Domenicani, e specialmente là dove questi dovettero essere sostituiti perché la loro azione troppo dura ed energica aveva suscitato opposizioni, come nell’Italia centrale e settentrionale, subentrarono talvolta i Francescani.

Partendo dalla generica esigenza della ricerca degli eretici e della loro esclusione dalla società cristiana, l’Inquisizione venne poi gradatamente precisando i suoi compiti in relazione ai problemi che via via le circostanze imponevano. Così l’interrogatorio venne aggravato dall’uso della tortura; l’inquisitore, prima solo, venne affiancato da un compagno; le decisioni dei due inquisitori vennero sottoposte al controllo del vescovo o d’un suo delegato, mentre l’andamento del processo inquisitoriale veniva, in ogni suo momento e caso per caso, esaminato da un consiglio di chierici, monaci, frati e giuristi, anche laici, per escludere errori di procedura e arbitri degli inquisitori. Inoltre una serie di norme venne fissata a tutela della verità delle accuse o delle discolpe, per evitare denunce calunniose di eresia, anche se all’inquisito non venne mai riconosciuto nel Medioevo il diritto di essere assistito da un avvocato durante le varie fasi del processo.

Qualora l’accusa fosse stata provata e confermata dalla confessione dell’accusato stesso, questi, se pentito, veniva condannato secondo il grado di colpevolezza o a pene mortificanti, come pellegrinaggi, penitenze pubbliche o croci colorate sugli abiti, se ostinato o ricaduto nell’eresia (ralapso) al rogo. Questa pena, però, non veniva eseguita dall’inquisitore, ma dal potere laico, o braccio secolare; nel linguaggio corrente quindi l’espressione "consegna al braccio secolare fu equivalente alla condanna al rogo". Le norme via via accumulatesi nel tempo, le esperienze acquisite con l’esercizio della Inquisizione, i testi relativi alla conoscenza delle varie eresie vennero raccolte da vari inquisitori per uso proprio e altrui in manuali, fra cui celebre quello del domenicano Bernardo Gui, attivo all’inizio del Trecento nella Francia meridionale.

Con la fine delle grandi eresie popolari, al tempo del papa Giovanni XXII (1316-34), l’Inquisizione ebbe l’ulteriore incarico di perseguire anche maghi e streghe, dopo che questi, per il preteso loro culto diabolico, vennero assimilati agli eretici.

Mentre quasi alla sola caccia stregonica venne restringendosi per circa due secoli il compito dell’Inquisizione, in quasi tutta l’Europa, e particolarmente in Spagna l’Inquisizione venne sempre più legandosi al potere politico che se ne servì per secoli, ma specialmente nel XV, per la lotta contro moriscos e marranos, cioè contro Arabi ed ebrei, che, convertitisi apparentemente al cristianesimo, continuavano in realtà a praticare i riti della fede avita. Né fu meno rigorosa e severa nelle colonie d’America, sì che all’Inquisizione spagnola e alle sue cerimonie fastose e insieme terribili l’Inquisizione deve molto della sua fama di terribilità inesorabile.

Nuovo impulso venne all’Inquisizione, durante il sec. XVI, dalla necessità della lotta contro i fautori della Riforma nei Paesi rimasti cattolici: fu allora unitariamente organizzata e posta alle dipendenze d’una speciale congregazione romana che proprio dall’Inquisizione (detta nel linguaggio curiale sanctum officium, e cioè santo dovere) prese il nome di Congregazione del Sant’Uffizio. Vennero allora irrigidite le norme più severe che la regolavano, come la segretezza dell’indagine, l’assenza d’un difensore, l’uso normale della tortura, mentre il desiderio sincero di ottenere la conversione, piuttosto che la morte dell’eretico indusse i giudici a forti coazioni morali, come nei casi ben noti di Giordano Bruno e Galileo Galilei.

Mentre la Congregazione del Sant’Uffizio in Roma rimase attenta a sorvegliare l’integrità della fede e si incaricò pertanto anche dell’INDICE DEI LIBRI PROIBITI come di ogni deviazione dottrinale, l’Inquisizione, in quanto istituzione diocesana venne sempre più perdendo di importanza effettiva, riducendosi a un controllo locale della ortodossia dei fedeli.

Oggetto di attacchi sempre più pesanti man mano che venne affermandosi l’idea della tolleranza, bersaglio prediletto di illuministi e di quanti rivendicavano la libertà di coscienza in epoca liberale, l’Inquisizione è un’istituzione legata a una precisa realtà storico-religiosa: in questa l’esigenza dell’unità della fede, trasformandosi in intolleranza per un malinteso desiderio di difendere il prossimo dal pericolo dell’eresia, ha bloccato il senso della carità fraterna verso chi sbaglia, anche nella fede. In questo senso solo il Concilio Vaticano II con la distinzione tra errante, che è sempre oggetto di carità, ed errore, che va combattuto con la forza della dialettica e della fede, ha tagliato alla radice le basi ideologiche d’ogni Inquisizione; non a caso la Congregazione del Sant’Uffizio ha assunto il nome di Congregazione per la dottrina della fede.

Calogero Antonio Pinnavaia. 2002

 

 


 

 

 

 

Apichati e abrusciati a Roma dal 1553 al 1761

 

 

1.        

Giovanni Buzio da Montalcino Frate dell'Ordine dei Concettuali

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

4 Settembre 1553

 

2.        

Giovanni Teodori da Perugia

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

4 Settembre 1553

 

3.        

Frate Ambrogio de Cavoli di Milano

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

15 Giugno 1556

 

4.        

Pomponio de Algerio di Nola

Menato in Piazza Nauona e abrusciato uiuo.

19 Agosto 1556

 

5.        

Gisberto di Milanuccio di Ciuita di Penne

Menato in Piazza Giudia e abrusciato uiuo

15 Giugno 1558

 

6.        

Antonio di Colella Grosso della Rocca di Policastro

Menato in Piazza Nauona e abrusciato uiuo

8 Febbraio 1559

 

7.        

Leonardo di Paolo da Meola da Pontecorvo

Menato in Piazza Nauona, abrusciato uiuo

8 Febbraio 1559

 

8.        

Giovanni Antonio del Bo Cremonese

Menato in Piazza Nauona, apichato e abrusciato 

8 Febbraio 1559

 

9.        

Mermetto di Desiderio Bricietto Savoiardo

Menato alla Traspontina, apichato e abrusciato

13 Agosto 1560

 

10.    

Giovanni Luigi Pasquali di Cuneo

Menato in Ponte e abrusciato uiuo

15 settembre 1560

 

11.    

Stefano Morello di Lione

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

25 settembre 1560

 

12.    

Macario Vescovo di Macedonia

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

10 Giugno 1562

 

13.    

Cornelio di Olanda

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

23 Gennaio 1563

 

14.    

Francesco Segretuzzo Cipriotto

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

4 Settembre 1564

 

15.    

Pompeo de' Monti di Napoli

Menato in Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato

3 Luglio 1566

 

16.    

Curzio di Cave Cappuccino

Menato in Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato

9 Luglio 1566

 

17.    

Domenico Zocchi di Treviso

Menato in Piazza Giudia e abrusciato uiuo

1 Febbraio 1567

 

18.    

Ippolito Figlio di Tonuccio da Rimini di Castiglione di Lucca

Menato in Piazza Giudia, apichato e poi abrusciato 

15 Febbraio 1567

 

19.    

Girolamo Landi da Fondi

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

25 Febbraio 1567

 

20.    

Gregorio Perini di Donato da Arezzo

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

23 Giugno 1567

 

21.    

Pietro Carnesecchi

Menato in Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato

1 Ottobre 1567

 

22.    

Macerio Giulio di Cetona

Menato in Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato

1 Ottobre 1567

 

23.    

Lorenzo da Mugnano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

10 Maggio 1568

 

24.    

Matteo di Ippolito da le Tombe di Faenza

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

10 Maggio 1568

 

25.    

Francesco Stanga da Faenza

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

10 Maggio 1568

 

26.    

Francesco Castellani da Faenza

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

6 Dicembre 1568

 

27.    

Pietro Gelosi di Spoleto

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

6 Dicembre 1568

 

28.    

Messer Marcantonio Verotti di Venezia

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

6 Dicembre 1568

 

29.    

Luca da Faenza

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

28 Febbraio 1569

 

30.    

Borghesi Filippo di Siena

Menato in Ponte nel qual luogo gli fu mozza la testa e poi abrusciato

2 Maggio 1569

 

31.    

Giovanni Maria De Blasi da Spoleto

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

2 Maggio 1569

 

32.    

Camillo Ragnolo da Faenza

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

25 Maggio 1569

 

33.    

Cellario Francesco

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

25 Maggio 1569

 

34.    

Alberto Boccadoro Borgognone

La Santa Chiesa Romana gli saluorno la vita

25 Maggio 1569

 

35.    

Bartolomeo Bartoccio di Città di Castello

Menato in Ponte e abrusciato uiuo

25 Maggio 1569

 

36.    

Pagolo Veloccio da Spalano

Menato alla Traspontina sopra il fiume, apichato e poi abrusciato

24 Agosto 1569

 

37.    

Filippo Porroni Romano

Menato fora del palazzo de l'Inquisitione e denanzi alla porta apichato

11 Febbraio 1570

 

38.    

Nicolò Franco

Menato in Ponte e apichato

11 Marzo 1570

 

39.    

Giovanni di Pietro Mançon Francese

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

13 Maggio 1570

 

40.    

Aonio Paleario

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

3 Luglio 1570

 

41.    

Madonna Dianora di Montpellier

Menata in Ponte, apichata e poi abrusciata

9 Febbraio  1572

 

42.    

Madonna Dianora Pellegrina di Valenza

Menata in Ponte, apichata e poi abrusciata

9 Febbraio 1572

 

43.    

Madonna Girolama Guanziana di Valenza

Menata in Ponte, apichata e poi abrusciata

9 Febbraio 1572

 

44.    

Madonna Isabella di Montpellier

Menata in Ponte, apichata e poi abrusciata

9 Febbraio 1572

 

45.    

Domenico della Xenia da Marsala

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

9 Febbraio 1572

 

46.    

Teofilo Panarelli di Monopoli

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

22 Febbraio 1572

 

47.    

Alessandro di Giulio Capuano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

15 Marzo 1572

 

48.    

Giovanni di Giovan Battista di Campagnano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

15 Marzo 1572

 

49.    

Girolamo Pellegrino Napoletano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

19 Luglio 1572

 

50.    

Nicolò Colonici Veneziano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

4 Settembre 1574

 

51.    

Giovan Francesco Ghisleri di Pinerolo

In carcere del Ofitio di Torre di Nona, su la mezza notte fu strangolato

25 Ottobre 1574

 

52.    

Alessandro Di Giacomo di Bassano Veneto

Menato in Ponte e abrusciato uiuo

19 novembre 1574

 

53.    

Baldassarre Di Nicolò Albanese

Menato in Ponte e apicato, poi abrusciato a Porta Latina.

13 Agosto 1578

 

54.    

Antonio Di Giovanni Valies

Menato in Ponte e apicato, poi abrusciato a Porta Latina

13 Agosto 1578

 

55.    

Francesco Di Giovanni Martino di Raditoldo

Menato in Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina

13 Agosto 1578

 

56.    

Bernardino De Alfar diSiviglia

Menato in Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina

13 Agosto 1578

 

57.    

Alfonso Di Poglis Spagnolo

Menato in Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina

13 Agosto 1578

 

58.    

Marco Di Giovanni Pinto da Vienna

Menato in Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina

13 Agosto 1578

 

59.    

Girolamo Di Giovanni da Toledo

Menato in Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina

13 Agosto 1578

 

60.    

Gaspare Di Martino Nestorio

Menato in Ponte e apichato, poi abrusciato a Porta Latina

13 Agosto 1578

 

61.    

Clemente Sapone Di Domenico Napoletano

Menato vicino alla Traspontina apichato e poi abrusciato.

29 novembre 1578

 

62.    

Pompeo Loiani di Bologna

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

12 Giugno 1579

 

63.    

Cosimo Tronconi Senese

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

12 Giugno 1579

 

64.    

Salomone Ebreo Siciliano

Menato in Piazza Giudia e abrusciato uiuo

13 Marzo 1580

 

65.    

Riccardo Arctinson

Menato in Piazza S. Pietro, stimulato con torce accese e mozzata la mano destra poi abrusciato uiuo.

2 Agosto 1581

 

66.    

Domenico Danzarelli da Piperno.

Prospero D'Imperatore D'Africa di Barberia. Giacomo di Teodoro Paleologo.

Gabriello Henriquez Portoghese.

Paleologo e Gabriello e  menati in Campo di Fiore e abrusciati uiui. Per Danzarelli e Prospero la Santa Chiesa Romana sospese la pena eseguita il 22 marzo 1585.

18 Febbraio 1583

67.    

Camillo Lomaccio. Giulio Carino Bresciano dell'Ordine Carmelitano, Leonardo Di Andrea Cesalpini

A hore VI secondo l'ordine del S. Offitio, furono condotti nel cortile delle carcere et ivi strangolati.

23 Luglio 1584

68.    

Domenico Danzarelli da Piperno.

Prospero d'Imperatore d'Africa di Barberia.

Tagliato il capo nel carcere di Torre di Nona e abrusciati a Campo di Fiore la mattina dopo.

22 Marzo 1585

69.    

Giuseppe Di Girolamo da Lecce

Pena sospesa 

29 Gennaio 1586

70.    

Gaspare Ravelli

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

5 Agosto 1587

71.    

Pomponio Rustici

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

5 Agosto 1587

72.    

Antonio Nantrò

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

5 Agosto 1587

73.    

Fra Giovanni Antonio Bellinelli

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

5 Agosto 1587

74.    

Valerio Marliano di Napoli

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

16 Febbraio 159

75.    

Domenico Bravo di Messina

Menato in Ponte e quiui gli fu mozzo la testa

23 Marzo 1590

76.    

Lorenzo dell'Aglio da Soncino Francescano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

13 Aprile 1590

77.    

Chuplenich Pietro di Carniola

Menato in Campo in Fiore e abrusciato uiuo

1595

78.    

Merse Gualtieri di Londra

Menato in Campo in Fiore e abrusciato uiuo

1595

79.    

Egidio Fra Antonio

Menato in Ponte e quiui gli fu mozzo la testa

1595

80.    

Antonio di Bernardino da Campoli

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1595

81.    

Angelo Carlaccio Napolitano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1595

82.    

Graziani Agostino Romano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1596

83.    

Prestini Menandro

Menato in Campo di Fiore, apichato e poi abrusciato

1596

84.    

Cesare di Giuliano da Camerino

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1597

85.    

Damiano di Francesco da Gubbio

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1597

86.    

Baldo di Francesco da Urbino

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1597

87.    

De Magistri Giovanni Angelo

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1597

88.    

Ottavio di Scipione da Rimini

Menato in Campo di Fiore e quiui gli fu mozzo la testa e poi abrusciato

1597

89.    

Giovanni Antonio di Verona

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

16 Settem. 1599

90.    

Frate Clemente Mancini

Menato in Ponte e quiui gli fu mozzo la testa

9 Novembre 1599

91.    

Galeazzo Porta di Milano

Menato in Ponte e quiui gli fu mozzo la testa

9 Novembre 1599

92.    

Giordano Bruno di Nola

Menato in Campo di Fiore e abrusciato uiuo

17 Febbraio 1600

93.    

Francesco Moreno di Minervino

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

9 Giugno 1600

94.    

Nunzio Alias Servadio Ebreo

Menato in Piazza Giudia e abrusciato uiuo

25 Giugno 1600

95.    

Giovan Tommaso Caraffa

Menato in Ponte e quiui gli fu mozzo la testa

10 Maggio 1601

96.    

Onorio Gostanzo

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

10 Maggio 1601

97.    

Giovan Pietro di Tunis

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1607

98.    

Giuseppe Teodoro Siciliano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1609

99.    

Felice Ottavio

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1609

100.                        

Rossi Francesco Romano

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1609

101.                        

Antonio Di Jacopo della diocesi di Troia

Menato in Campo di Fiore e abrusciato uiuo

1609

102.                        

Fortunati Aniello Napolitano

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

1609

103.                        

Vincenti Pietro di S. Massimo

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

1609

104.                        

Uberti Marcantonio

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

1609

105.                        

Manfredi Fra Fulgenzio 

Menato in Campo Vaccino, apichato e abrusciato

1610

106.                        

Lucarelli Giovan Battista

Menato in Ponte, apichato e poi abrusciato

1610

107.                        

Emilio di Valerio

Menato in Piazza Giudia e abrusciato uiuo

1611

108.                        

Domenico Di Giovanni della Diocesi di Milano

Menato in Piazza Giudia e abrusciato uiuo

1611

109.                        

Giovanni Mancino

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

22 Ottobre 1613

110.                        

Iacobo Di Elia da San Lorenzo, Ebreo

Menato in Ponte e apichato

22 Gennaio 1616

111.                        

Francesco Maria Sagni

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

1 Luglio 1616

112.                        

Ferrari Ambrogio Milanese

Menato in Ponte e apichato

1624

113.                        

Serafini Fra Cherubino

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

1635

114.                        

Giavaloni Fra Diego da Palermo

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

1635

115.                        

Centini Giacinto da Ascoli

Menato in Ponte e quiui gli fu mozzo la testa

1635

116.                        

Alvarez Ferdinando

Menato in Campo di Fiore e abrusciato uiuo

16 Marzo 1640

117.                        

Policarpo Angelico di Giulio

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

19 Maggio 1642

118.                        

Fello Giovan Giacomo da Celano

Menato in Piazza Montanara e quiui gli fu mozzo la testa

1657

119.                        

Spallaccini Domenico da Orvieto

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

1711

120.                        

Giuseppe Morelli di Montemilione

Menato in Campo di Fiore, apichato e abrusciato

22 Agosto 1761