HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli             

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            STORIA D'ITALIA

                                                  

            Francesco Guicciardini

                                                  

                                                  

                                                  

                                                 Lib.1, cap.1

                                                  

                                                 Proposito e fine dell'opera. Prosperità d'Italia intorno al 1490. La politica di Lorenzo de' Medici ed il desiderio di pace de' príncipi italiani. La confederazione de' príncipi e l'ambizione de' veneziani.

                                                  

                                                 Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l'armi de' franzesi, chiamate da' nostri príncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l'ira giusta d'Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati. Dalla cognizione de' quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da' venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a' popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.

                                            Ma le calamità d'Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l'origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora piú liete e piú felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono piú di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtú e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l'anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne' luoghi piú montuosi e piú sterili che nelle pianure e regioni sue piú fertili, né sottoposta a altro imperio che de' suoi medesimi, non solo era abbondantissima d'abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti príncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d'uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; né priva secondo l'uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.

                                            Nella quale felicità, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni: ma trall'altre, di consentimento comune, si attribuiva laude non piccola alla industria e virtú di Lorenzo de' Medici, cittadino tanto eminente sopra 'l grado privato nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella republica, potente piú per l'opportunità del sito, per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de' danari, che per grandezza di dominio. E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a' consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l'autorità. E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de' maggiori potentati ampliasse piú la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d'Italia in modo bilanciate si mantenessino che piú in una che in un'altra parte non pendessino: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare con somma diligenza ogni accidente benché minimo, succedere non poteva. Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli, principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; con tutto che molte volte per l'addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da' consigli della pace, e in questo tempo fusse molto stimolato da Alfonso duca di Calavria suo primogenito, il quale malvolentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza duca di Milano, suo genero, maggiore già di venti anni, benché di intelletto incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale fusse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio: il quale, avendo piú di dieci anni prima, per la imprudenza e impudichi costumi della madre madonna Bona, presa la tutela di lui e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le genti d'arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel governo; né come tutore o governatore, ma, dal titolo di duca di Milano in fuora, con tutte le dimostrazioni e azioni da principe. E nondimeno Ferdinando, avendo piú innanzi agli occhi l'utilità presente che l'antica inclinazione o la indegnazione del figliuolo, benché giusta, desiderava che Italia non si alterasse; o perché, avendo provato pochi anni prima, con gravissimo pericolo, l'odio contro a sé de' baroni e de' popoli suoi, e sapendo l'affezione che per la memoria delle cose passate molti de' sudditi avevano al nome della casa di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessino occasione a' franzesi di assaltare il reame di Napoli; o perché, per fare contrapeso alla potenza de' viniziani, formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere necessaria l'unione sua con gli altri, e specialmente con gli stati di Milano e di Firenze. Né a Lodovico Sforza, benché di spirito inquieto e ambizioso, poteva piacere altra deliberazione, soprastando non manco a quegli che dominavano a Milano che agli altri il pericolo dal senato viniziano, e perché gli era piú facile conservare nella tranquillità della pace che nelle molestie della guerra l'autorità usurpata. E se bene gli fussino sospetti sempre i pensieri di Ferdinando e di Alfonso d'Aragona, nondimeno, essendogli nota la disposizione di Lorenzo de' Medici alla pace e insieme il timore che egli medesimamente aveva della grandezza loro, e persuadendosi che, per la diversità degli animi e antichi odii tra Ferdinando e i viniziani, fusse vano il temere che tra loro si facesse fondata congiunzione, si riputava assai sicuro che gli Aragonesi non sarebbono accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere.

                                            Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della republica fiorentina, per difensione de' loro stati; la quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata nell'anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d'Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo per fine principalmente di non lasciare diventare piú potenti i viniziani; i quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de' confederati ma molto minori di tutti insieme, procedevano con consigli separati da' consigli comuni, e aspettando di crescere della altrui disunione e travagli, stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo imperio di tutta Italia: al quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente; e specialmente quando, presa occasione dalla morte di Filippo Maria Visconte duca di Milano, tentorono, sotto colore di difendere la libertà del popolo milanese, di farsi signori di quello stato; e piú frescamente quando, con guerra manifesta, di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono. Raffrenava facilmente questa confederazione la cupidità del senato viniziano, ma non congiugneva già i collegati in amicizia sincera e fedele: conciossiacosaché, pieni tra se medesimi di emulazione e di gelosia, non cessavano di osservare assiduamente gli andamenti l'uno dell'altro, sconciandosi scambievolmente tutti i disegni per i quali a qualunque di essi accrescere si potesse o imperio o riputazione: il che non rendeva manco stabile la pace, anzi destava in tutti maggiore prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte quelle faville che origine di nuovo incendio essere potessino.

                                                  

                                                 Lib.1, cap.2

                                                  

                                                 Morte di Lorenzo de' Medici. Morte di papa innocenzo VIII ed elezione di Alessandro VI. La politica amichevole di Piero de' Medici verso Ferdinando d'Aragona ed i primi timori di Lodovico Sforza.

                                                  

                                                 Tale era lo stato delle cose, tali erano i fondamenti della tranquillità d'Italia, disposti e contrapesati in modo che non solo di alterazione presente non si temeva ma né si poteva facilmente congetturare da quali consigli o per quali casi o con quali armi s'avesse a muovere tanta quiete. Quando, nel mese di aprile dell'anno mille quattrocento novantadue, sopravenne la morte di Lorenzo de' Medici; morte acerba a lui per l'età, perché morí non finiti ancora quarantaquattro anni; acerba alla patria, la quale, per la riputazione e prudenza sua e per lo ingegno attissimo a tutte le cose onorate e eccellenti, fioriva maravigliosamente di ricchezze e di tutti quegli beni e ornamenti da' quali suole essere nelle cose umane la lunga pace accompagnata. Ma e fu morte incomodissima al resto d'Italia, cosí per l'altre operazioni le quali da lui, per la sicurtà comune, continuamente si facevano, come perché era mezzo a moderare e quasi uno freno ne' dispareri e ne' sospetti i quali, per diverse cagioni, tra Ferdinando e Lodovico Sforza, príncipi di ambizione e di potenza quasi pari, spesse volte nascevano.

                                            La morte di Lorenzo, preparandosi già ogni dí piú le cose alle future calamità, seguitò, pochi mesi poi, la morte del pontefice; la vita del quale, inutile al publico bene per altro, era almeno utile per questo, che avendo deposte presto l'armi mosse infelicemente, per gli stimoli di molti baroni del regno di Napoli, nel principio del suo pontificato, contro a Ferdinando, e voltato poi totalmente l'animo a oziosi diletti, non aveva piú, né per sé né per i suoi, pensieri accesi a cose che la felicità d'Italia turbare potessino. A Innocenzio succedette Roderigo Borgia, di patria valenziano, una delle città regie di Spagna, antico cardinale, e de' maggiori della corte di Roma, ma assunto al pontificato per le discordie che erano tra i cardinali Ascanio Sforza e Giuliano di san Piero a Vincola, ma molto piú perché, con esempio nuovo in quella età, comperò palesemente, parte con danari parte con promesse degli uffici e benefici suoi, che erano amplissimi, molti voti di cardinali: i quali, disprezzatori dell'evangelico ammaestramento, non si vergognorono di vendere la facoltà di trafficare col nome della autorità celeste i sacri tesori, nella piú eccelsa parte del tempio. Indusse a contrattazione tanto abominevole molti di loro il cardinale Ascanio, ma non già piú con le persuasioni e co' prieghi che con lo esempio; perché corrotto dall'appetito infinito delle ricchezze, pattuí da lui per sé, per prezzo di tanta sceleratezza, la vicecancelleria, ufficio principale della corte romana, chiese, castella e il palagio suo di Roma, pieno di mobili di grandissima valuta. Ma non fuggí, per ciò, né poi il giudicio divino né allora l'infamia e odio giusto degli uomini, ripieni per questa elezione di spavento e di orrore, per essere stata celebrata con arti sí brutte; e non meno perché la natura e le condizioni della persona eletta erano conosciute in gran parte da molti: e, tra gli altri, è manifesto che il re di Napoli, benché in publico il dolore conceputo dissimulasse, significò alla reina sua moglie con lacrime, dalle quali era solito astenersi eziandio nella morte de' figliuoli, essere creato uno pontefice che sarebbe perniciosissimo a Italia e a tutta la republica cristiana: pronostico veramente non indegno della prudenza di Ferdinando. Perché in Alessandro sesto (cosí volle essere chiamato il nuovo pontefice) fu solerzia e sagacità singolare, consiglio eccellente, efficacia a persuadere maravigliosa, e a tutte le faccende gravi sollecitudine e destrezza incredibile; ma erano queste virtú avanzate di grande intervallo da' vizi: costumi oscenissimi, non sincerità non vergogna non verità non fede non religione, avarizia insaziabile, ambizione immoderata, crudeltà piú che barbara e ardentissima cupidità di esaltare in qualunque modo i figliuoli i quali erano molti; e tra questi qualcuno, acciocché a eseguire i pravi consigli non mancassino pravi instrumenti, non meno detestabile in parte alcuna del padre.

                                             

                                            Tanta variazione feciono per la morte di Innocenzio ottavo le cose della chiesa. Ma variazione di importanza non minore aveano fatta, per la morte di Lorenzo de' Medici, le cose di Firenze; ove senza contradizione alcuna era succeduto, nella grandezza del padre, Piero maggiore di tre figliuoli, ancora molto giovane, ma né per l'età né per l'altre sue qualità atto a reggere peso sí grave, né capace di procedere con quella moderazione con la quale procedendo, e dentro e fuori, il padre, e sapendosi prudentemente temporeggiare tra' príncipi collegati, aveva, vivendo, le publiche e le private condizioni amplificate, e, morendo, lasciata in ciascuno costante opinione che per opera sua principalmente si fusse la pace d'Italia conservata. Perché non prima entrato Piero nella amministrazione della republica che, con consiglio direttamente contrario a' consigli paterni né comunicato co' cittadini principali, senza i quali le cose gravi deliberare non si solevano, mosso dalle persuasioni di Verginio Orsino parente suo (erano la madre e la moglie di Piero nate della famiglia Orsina), si ristrinse talmente con Ferdinando e con Alfonso, da' quali Verginio dependeva, che ebbe Lodovico Sforza causa giusta di temere che qualunque volta gli Aragonesi volessino nuocergli arebbono per l'autorità di Piero de' Medici congiunte seco le forze della republica fiorentina. Questa intelligenza, seme e origine di tutti i mali, se bene da principio fusse trattata e stabilita molto segretamente, cominciò quasi incontinente, benché per oscure congetture, a essere sospetta a Lodovico, principe vigilantissimo e di ingegno molto acuto. Perché dovendosi, secondo la consuetudine inveterata di tutta la cristianità, mandare imbasciadori a adorare, come vicario di Cristo in terra, e a offerire di ubbidire il nuovo pontefice, aveva Lodovico Sforza, del quale fu proprio ingegnarsi di parere, con invenzioni non pensate da altri, superiore di prudenza a ciascuno, consigliato che tutti gli imbasciadori de' collegati entrassino in uno dí medesimo insieme in Roma, presentassinsi tutti insieme nel concistorio publico innanzi al pontefice, e che uno di essi orasse in nome comune, perché da questo, con grandissimo accrescimento della riputazione di tutti, a tutta Italia si dimostrerebbe essere tra loro non solo benivolenza e confederazione, ma piú tosto tanta congiunzione che e' paressino quasi un principe e un corpo medesimo. Manifestarsi, non solamente col discorso delle ragioni ma non meno con fresco esempio, l'utilità di questo consiglio; perché, secondo che si era creduto, il pontefice ultimamente morto, preso argomento della disunione de' collegati dall'avergli con separati consigli e in tempi diversi prestato l'ubbidienza, era stato piú pronto ad assaltare il regno di Napoli. Approvò facilmente Ferdinando il parere di Lodovico; approvoronlo per l'autorità dell'uno e dell'altro i fiorentini, non contradicendo ne' consigli publici Piero de' Medici, benché privatamente gli fusse molestissimo, perché, essendo uno degli oratori eletti in nome della republica e avendo deliberato di fare illustre la sua legazione con apparato molto superbo e quasi regio, si accorgeva che, entrando in Roma e presentandosi al pontefice insieme con gli altri imbasciadori de' collegati, non poteva in tanta moltitudine apparire agli occhi degli uomini lo splendore della pompa sua: la quale vanità giovenile fu confermata dagli ambiziosi conforti di Gentile vescovo aretino, uno medesimamente degli eletti imbasciadori; perché aspettandosi a lui, per la degnità episcopale e per la professione la quale negli studi che si chiamano d'umanità fatta avea, l'orare in nome de' fiorentini, si doleva incredibilmente di perdere, per questo modo insolito e inaspettato, l'occasione di ostentare la sua eloquenza in cospetto sí onorato e sí solenne. E però Piero, stimolato parte dalla leggierezza propria parte dall'ambizione di altri, ma non volendo che a notizia di Lodovico Sforza pervenisse che da sé si contradicesse al consiglio proposto da lui, richiese il re che, dimostrando d'avere dappoi considerato che senza molta confusione non si potrebbeno eseguire questi atti comunemente, confortasse che ciascuno, seguitando gli esempli passati, procedesse da se medesimo: nella quale domanda il re, desideroso di compiacergli, ma non tanto che totalmente ne dispiacesse a Lodovico, gli sodisfece piú dell'effetto che del modo; conciossiacosaché e' non celò che non per altra cagione si partiva da quel che prima avea consentito che per l'instanza fatta da Piero de' Medici. Dimostrò di questa subita variazione maggiore molestia Lodovico che per se stessa non meritava l'importanza della cosa, lamentandosi gravemente che, essendo già nota al pontefice e a tutta la corte di Roma la prima deliberazione e chi ne fusse stato autore, ora studiosamente si ritrattasse, per diminuire la sua reputazione. Ma gli dispiacque molto piú che, per questo minimo e quasi non considerabile accidente, cominciò a comprendere che Piero de' Medici avesse occultamente intelligenza con Ferdinando: il che, per le cose che seguitorono, venne a luce ogni dí piú chiaramente.

                                             

                                                 Lib.1, cap.3

                                                  

                                                 La vendita dei castelli di Franceschetto Cibo nel Lazio a Verginio Orsino. L'indignazione del pontefice e gli incitamenti di Lodovico Sforza. Questi cerca distogliere dall'amicizia per Ferdinando d'Aragona Piero de' Medici. Confederazione di Lodovico co' veneziani e col pontefice. Suoi pensieri di maggiormente assicurarsi con armi straniere.

                                                  

                                                 Possedeva l'Anguillara, Cervetri e alcun'altre piccole castella vicine a Roma Franceschetto Cibo genovese, figliuolo naturale di Innocenzio pontefice, il quale andato, dopo la morte del padre, sotto l'ombra di Piero de' Medici fratello di Maddalena sua moglie, a abitare in Firenze, non prima arrivò in quella città che, interponendosene Piero, vendé quelle castella per quarantamila ducati a Verginio Orsino: cosa consultata principalmente con Ferdinando, il quale gli prestò occultamente la maggiore parte de' danari, persuadendosi che a beneficio proprio risultasse quanto piú la grandezza di Verginio, soldato, aderente e parente suo, intorno a Roma si distendesse. Perché il re, considerando la potenza de' pontefici essere instrumento molto opportuno a turbare il regno di Napoli, antico feudo della chiesa romana, e il quale confina per lunghissimo spazio col dominio ecclesiastico, e ricordandosi delle controversie le quali il padre e egli aveano molte volte avute con loro, e essere sempre parata la materia di nuove contenzioni, per le giurisdizioni de' confini, per conto de' censi, per le collazioni de' beneficii, per il ricorso de' baroni, e per molte altre differenze che spesso nascono tra gli stati vicini né meno spesso tra il feudatario e il signore del feudo, ebbe sempre per uno de' saldi fondamenti della sicurtà sua che da sé dependessino o tutti o parte de' baroni piú potenti del territorio romano: cosa che in questo tempo piú prontamente facea, perché si credea che appresso al pontefice avesse a essere grande l'autorità di Lodovico Sforza, per mezzo del cardinale Ascanio suo fratello. Né lo moveva forse meno, come molti credettono, il timore che in Alessandro non fusse ereditaria la cupidità e l'odio di Calisto terzo pontefice, suo zio; il quale, per desiderio immoderato della grandezza di Pietro Borgia suo nipote, arebbe, subito che fu morto Alfonso padre di Ferdinando, se la morte non si fusse interposta a' consigli suoi, mosse l'armi per spogliarlo del regno di Napoli, ricaduto, secondo affermava, alla chiesa; non si ricordando (tanto poco può spesso negli uomini la memoria de' benefici ricevuti) che per opera di Alfonso, ne' cui regni era nato e cui ministro lungo tempo era stato, aveva ottenuto l'altre degnità ecclesiastiche e aiuto non piccolo a conseguire il pontificato. Ma è certamente cosa verissima che non sempre gli uomini savi discernono o giudicano perfettamente: bisogna che spesso si dimostrino segni della debolezza dello intelletto umano. Il re, benché riputato principe di prudenza grande, non considerò quanto meritasse di essere ripresa quella deliberazione, la quale, non avendo in qualunque caso altra speranza che di leggierissima utilità, poteva partorire da altra parte danni gravissimi. Imperocché la vendita di queste, piccole castella incitò a cose nuove gli animi di coloro a quali o apparteneva o sarebbe stato utile attendere alla conservazione della concordia comune. Perché il pontefice, pretendendo che, per la alienazione fatta senza saputa sua, fussino, secondo la disposizione delle leggi, alla sedia apostolica devolute, e parendogli offesa non mediocremente l'autorità pontificale, considerando oltre a questo quali fussino i fini di Ferdinando, empié tutta Italia di querele contro a lui, contro a Piero de' Medici e contro a Verginio; affermando che, per quanto si distendesse il potere suo, opera alcuna opportuna a ritenere la degnità e le ragioni di quella sedia non pretermetterebbe. Ma non manco se ne commosse Lodovico Sforza, al quale erano sempre sospette l'azioni di Ferdinando; perché, essendosi vanamente persuaso, il pontefice co' consigli di Ascanio e suoi aversi a reggere, gli pareva perdita propria ciò che si diminuisse della grandezza d'Alessandro. Ma soprattutto gli accresceva la molestia il non si potere piú dubitare che gli Aragonesi e Piero de' Medici, poi che in opere tali procedevano unitamente, non avessino contratta insieme strettissima congiunzione; i disegni de' quali, come pericolosi alle cose sue, per interrompere, e per tirare a sé tanto piú con questa occasione l'animo del pontefice, lo incitò quanto piú gli fu possibile alla conservazione della propria degnità, ricordandogli che si proponesse innanzi agli occhi non tanto quello che di presente si trattava quanto quello che importava l'essere stata, ne primi dí del suo pontificato, disprezzata cosí apertamente da' suoi medesimi vassalli la maestà dí tanto grado. Non credesse che la cupidità di Verginio o l'importanza delle castella, non che altra cagione avesse mosso Ferdinando, ma il volere, con ingiurie che da principio paressino piccole, tentare la sua pazienza e il suo animo: dopo le quali, se queste gli fussino comportate, ardirebbe di tentare alla giornata cose maggiori. Non essere l'ambizione sua diversa da quella degli altri re napoletani, inimici perpetui della chiesa romana; per ciò avere moltissime volte quegli re perseguitati con l'armi i pontefici, occupato piú volte Roma. Non avere questo medesimo re mandato due volte contro a due pontefici gli eserciti, con la persona del figliuolo, insino alle mura romane? non avere quasi sempre esercitato inimicizie aperte co' suoi antecessori? Irritarlo di presente contro a lui non solo l'esempio degli altri re, non solo la cupidità sua naturale del dominare, ma di piú il desiderio della vendetta per la memoria delle offese ricevute da Calisto suo zio. Avvertisse diligentemente a queste cose, e considerasse che, tollerando con pazienza le prime ingiurie, onorato solamente con cerimonie e nomi vani, sarebbe effettualmente dispregiato da ciascuno e darebbe animo a piú pericolosi disegni; ma risentendosene, conserverebbe agevolmente la pristina maestà e grandezza, e la vera venerazione dovuta da tutto il mondo a' pontefici romani. Aggiunse alle persuasioni offerte efficacissime ma piú efficaci fatti, perché gli prestò prontissimamente quarantamila ducati, e condusse seco, a spese comuni ma perché stessino fermi dove paresse al pontefice, trecento uomini d'arme: e nondimeno, desideroso di fuggire la necessità di entrare in nuovi travagli, confortò Ferdinando che disponesse Verginio a mitigare con qualche onesto modo l'animo del pontefice, accennandogli che altrimenti gravissimi scandoli da questo lieve principio nascere potrebbono. Ma piú liberamente e con maggiore efficacia ammuní molte volte Piero de' Medici che, considerando quanto fusse stato opportuno a conservare la pace d'Italia che Lorenzo suo padre fusse proceduto come uomo di mezzo e amico comune tra Ferdinando e lui, volesse piú tosto seguitare l'esempio domestico, avendo massime a pigliare l'imitazione da persona stata di tanto valore, che, credendo a consigli nuovi, dare a altri cagione, anzi piú tosto necessità, di fare deliberazioni le quali alla fine avessino a essere perniciose a ciascuno; e che si ricordasse quanto la lunga amicizia tra la casa Sforzesca e quella de' Medici avesse dato all'una e all'altra sicurtà e riputazione, e quante offese e ingiurie avesse fatte la casa di Aragona al padre e a' maggiori suoi e alla republica fiorentina, e quante volte Ferdinando, e prima Alfonso suo padre, avessino tentato di occupare, ora con armi ora con insidie, il dominio di Toscana.

                                            Ma nocevano piú che giovavano questi conforti e ammunizioni, perché Ferdinando, stimando essergli indegno il cedere a Lodovico e a Ascanio, dagli stimoli de' quali si persuadeva che la indegnazione del pontefice procedesse, e spronato da Alfonso suo figliuolo, confortò secretamente Verginio che non ritardasse a ricevere, per virtú del contratto, la possessione delle castella, promettendo difenderlo da qualunque molestia gli fusse fatta; e da altra parte, governandosi con le naturali sue arti, proponeva col pontefice diversi modi di composizione, confortando nondimeno Verginio occultamente a non consentire se non a quegli per i quali, sodisfacendo al pontefice con qualche somma di danari, avesse a ritenersi le castella. Onde Verginio, preso animo, ricusò poi piú volte di quegli partiti i quali Ferdinando, per non irritare tanto il pontefice, faceva instanza che egli accettasse. Nelle quali pratiche vedendosi che Piero de' Medici perseverava di seguitare l'autorità del re, e essere vana ogni diligenza che per rimuovernelo si facesse, Lodovico Sforza, considerando seco medesimo quanto importasse che dagli inimici suoi dipendesse quella città, il temperamento della quale soleva essere il fondamento principale della sua sicurtà, e perciò parendogli che gli soprastessino molti pericoli, deliberò alla salute propria con nuovi rimedii provedere; conciossiaché gli fusse notissimo il desiderio ardente che avevano gli Aragonesi che e' fusse rimosso dal governo del nipote: il quale desiderio benché Ferdinando, pieno in tutte le azioni di incredibile simulazione e dissimulazione, si fusse sforzato di coprire, nondimeno Alfonso, uomo di natura molto aperta, non si era mai astenuto di lamentarsi palesemente della oppressione del genero, dicendo, con maggiore libertà che prudenza, parole ingiuriose e piene di minaccie. Sapeva oltre a questo Lodovico che Isabella moglie di Giovan Galeazzo, giovane di virile spirito, non cessava di stimolare continuamente il padre e l'avolo che, se non gli moveva la infamia di tanta indegnità del marito e di lei, gli movesse almanco il pericolo della vita al quale erano esposti, insieme co' propri figliuoli. Ma quel che piú angustiava l'animo suo era il considerare essere sommamente esoso il suo nome a tutti i popoli del ducato di Milano, sí per molte insolite esazioni di danari che avea fatte come per la compassione che ciascheduno aveva di Giovan Galeazzo legittimo signore; e benché egli si sforzasse di fare sospetti gli Aragonesi di cupidità di insignorirsi di quello stato, come se essi pretendessino appartenersi a loro per l'antiche ragioni del testamento di Filippo Maria Visconte, il quale aveva instituito erede Alfonso padre di Ferdinando, e che per facilitare questo disegno cercassino di privare il nipote del suo governo, nondimeno non conseguitava con queste arti la moderazione dell'odio conceputo, né che universalmente non si considerasse a quali sceleratezze soglia condurre gli uomini la sete pestifera del dominare. Però, poi che lungamente s'ebbe rivolto nella mente lo stato delle cose e i pericoli imminenti, posposti tutti gli altri pensieri, indirizzò del tutto l'animo a cercare nuovi appoggi e congiunzioni; e a questo dimostrandogli grande opportunità lo sdegno del pontefice contro a Ferdinando e il desiderio che si credeva che avesse il senato viniziano che si scompigliasse quella confederazione per la quale era stata fatta molti anni opposizione a' disegni suoi, propose all'uno e all'altro di loro di fare insieme, per beneficio comune, nuova confederazione. Ma nel pontefice prevaleva allo sdegno e a qualunque altro affetto la cupidità sfrenata della esaltazione de' figliuoli, i quali amando ardentemente, primo di tutti i pontefici che per velare in qualche parte la infamia loro solevano chiamargli nipoti, gli chiamava e mostrava a tutto il mondo come figliuoli; né se gli presentando per ancora opportunità di dare per altra via principio allo intento suo, faceva instanza di ottenere per moglie di uno di loro una delle figliuole naturali di Alfonso, con dote di qualche stato ricco nel regno napoletano: dalla quale speranza insino non restò escluso prestò piú gli orecchi che l'animo alla confederazione proposta da Lodovico; e se in questo desiderio gli fusse stato corrisposto non si sarebbe, per avventura, la pace d'Italia cosí presto perturbata. Ma benché Ferdinando non ne fusse alieno, nondimeno Alfonso, il quale aborriva l'ambizione e il fasto de' pontefici recusò sempre di consentirvi; e perciò, non dimostrando che dispiacesse loro il matrimonio ma mettendo difficoltà nella qualità dello stato dotale, non sodisfacevano ad Alessandro: per il che egli alterato si risolvé di seguitare i consigli di Lodovico, incitandolo la cupidità e lo sdegno e in qualche parte il timore; perché agli stipendi di Ferdinando era non solo Verginio Orsino, il quale, per gli eccessivi favori che aveva da' fiorentini e da lui e per il seguito della fazione guelfa, era allora molto potente in tutto il dominio ecclesiastico, ma ancora Prospero e Fabrizio principali della famiglia de' Colonnesi; e il cardinale di san Piero in Vincola, cardinale di somma estimazione, ritiratosi nella rocca d'Ostia, tenuta da lui come da vescovo ostiense, per sospetto che il pontefice non insidiasse alla sua vita, era di inimicissimo di Ferdinando, contro al quale aveva già concitato prima Sisto pontefice suo zio e poi Innocenzio, amicissimo diventato. Ma non fu già pronto come si credeva il senato viniziano a questa confederazione; perché, se bene gli fusse molto grata la disunione degli altri, lo ritardavano la infedeltà del pontefice, sospetta già ogni dí piú a ciascuno, e la memoria delle leghe fatte da loro con Sisto e con Innocenzio suoi prossimi antecessori, perché dall'una ricevettono molestie assai senza comodo alcuno, e Sisto, quando piú ardeva la guerra contro al duca di Ferrara, alla quale prima gli aveva concitati, mutata sentenza, procedé con l'armi spirituali, e pigliò l'armi temporali insieme col resto d'Italia contro a loro. Ma superando tutte le difficoltà appresso al senato, e privatamente con molti de' senatori, la industria e la diligenza di Lodovico, si contrasse finalmente, del mese di aprile l'anno mille quattrocento novantatré, tra il pontefice, il senato veneto e Giovan Galeazzo duca di Milano (espedivansi in nome suo tutte le deliberazioni di quello stato) nuova confederazione a difensione comune e a conservazione nominatamente del governo di Lodovico; con patto che i viniziani e il duca di Milano fussino tenuti a mandare subito a Roma, per sicurtà dello stato ecclesiastico e del pontefice, dugento uomini d'arme per ciascuno, e a aiutarlo con questi, e se bisogno fusse con maggiori forze, all'acquisto delle castella occupate da Verginio.

                                            Sollevorno questi nuovi consigli non mediocremente gli animi di tutta Italia, poiché il duca di Milano rimaneva separato da quella lega, la quale piú di dodici anni aveva mantenuta la sicurtà comune, imperocché in essa espressamente si proibiva che alcuno de' confederati facesse nuova collegazione senza consentimento degli altri: e perciò, vedendosi rotta con ineguale divisione quella unione in cui consisteva la bilancia delle cose, e ripieni di sospetto e di sdegno gli animi de' príncipi, che si poteva altro che credere che in detrimento comune avessino a nascere frutti conformi a questi semi? Però il duca di Calavria e Piero de' Medici, giudicando essere piú sicuro alle cose loro il prevenire che l'essere prevenuti, udirono con grande inclinazione Prospero e Fabrizio Colonna, i quali, confortati occultamente al medesimo dal cardinale di San Piero a Vincola, offerivano di occupare all'improviso Roma con le genti d'arme delle compagnie loro e con gli uomini della fazione ghibellina, in caso che gli seguitassino le forze degli Orsini e che il duca si accostasse prima in luogo che, fra tre dí poi che e' fussino entrati, potesse soccorrergli. Ma Ferdinando, desideroso non di irritare piú, ma di mitigare l'animo del pontefice e di ricorreggere quel che insino a quel dí imprudentemente si era fatto, rifiutati totalmente questi consigli, i quali giudicava partorirebbono non sicurtà ma travagli e pericoli molto maggiori, deliberò di fare ogni opera, non piú simulatamente ma con tutto il cuore, per comporre la differenza delle castella; persuadendosi che, levata quella cagione di tanta alterazione, avesse con piccola fatica, anzi quasi per se stessa, Italia nello stato di prima a ritornarsi. Ma non sempre per il rimuovere delle cagioni si rimuovono gli effetti i quali da quelle hanno avuto la prima origine. Perché, come spesso accade che le deliberazioni fatte per timore paiono, a chi teme, inferiori al pericolo, non si confidava Lodovico d'avere trovato rimedio bastante alla sicurtà sua; ma dubitando, per i fini del pontefice e del senato viniziano diversi da' suoi, non potere fare lungo tempo fondamento nella confederazione fatta con loro, e che per ciò le cose sue potessino per vari casi ridursi in molte difficoltà, applicò i pensieri suoi piú a medicare dalle radici il primo male che innanzi agli occhi se gli presentava, che a quegli che di poi ne potessino risultare; né si ricordando quanto sia pernicioso l'usare medicina piú potente che non comporti la natura della infermità e la complessione dello infermo, e come se l'entrare in maggiori pericoli fusse rimedio unico a' presenti pericoli, deliberò, per assicurarsi con le armi forestiere, poi che e nelle forze proprie e nelle amicizie italiane non confidava, di tentare ogni cosa per muovere Carlo ottavo re di Francia ad assaltare il regno di Napoli, il quale per l'antiche ragioni degli Angioini appartenersegli pretendeva.

                                             

                                                 Lib.1, cap.4

                                                  

                                                 Il reame di Napoli fino a Ferdinando ed i diritti di successione della casa d'Angiò. Ambizione di Carlo VIII sul reame e sollecitazioni di Lodovico Sforza. Disposizione contraria all'impresa de' grandi del regno di Francia. Patti conclusi fra Carlo VIII e Lodovico Sforza. Considerazioni dell'autore.

                                                  

                                                 Il reame di Napoli, detto assurdamente nelle investiture e bolle della chiesa romana, della quale è feudo antichissimo, il regno di Sicilia di qua dal Faro, fu, come occupato ingiustamente da Manfredi, figliuolo naturale di Federigo secondo imperadore, conceduto in feudo insieme con l'isola della Sicilia, sotto titolo delle Due Sicilie, l'una di qua l'altra di là dal Faro, insino nell'anno mille dugento sessantaquattro, da Urbano quarto pontefice romano a Carlo conte di Provenza e di Angiò, fratello di quello Lodovico re di Francia che, chiaro per la potenza ma piú chiaro per la santità della vita, meritò di essere ascritto dopo la morte nel numero de' santi. Il quale avendo con la possanza dell'armi ottenuto effettualmente quello di che gli era stato conferito il titolo con l'autorità della giustizia, si continuò dopo la morte sua il regno di Napoli in Carlo suo figliuolo, chiamato dagli italiani, per distinguerlo dal padre, Carlo secondo; e dopo lui in Ruberto suo nipote. Ma essendo dipoi, per la morte di Ruberto senza figliuoli maschi, succeduta Giovanna figliuola di Carlo duca di Calavria, il quale giovane era morto innanzi al padre, cominciò presto a essere dispregiata, non meno per l'infamia de' costumi che per la imbecillità del sesso, l'autorità della nuova reina. Da che essendo nate in progresso di tempo varie discordie e guerre, non però tra altri che tra i discendenti medesimi di Carlo primo, nati di diversi figliuoli di Carlo secondo, Giovanna, disperando di potersi altrimenti difendere, adottò per figliuolo Lodovico duca di Angiò, fratello di Carlo quinto re di Francia, quello a cui, per avere, con fare piccola esperienza della fortuna, ottenuto molte vittorie, dettono i franzesi il sopranome di saggio. Il quale Lodovico, passato in Italia con potentissimo esercito, essendo prima stata violentemente morta Giovanna e trasferito il regno in Carlo chiamato di Durazzo, discendente similmente di Carlo primo, morí di febbre in Puglia, quando era già quasi in possessione della vittoria: in modo che agli Angioini non pervenne di questa adozione altro che la contea di Provenza, stata posseduta continuamente da' discendenti di Carlo primo. Ebbe nondimeno da questo l'origine il diritto, col quale poi e Lodovico d'Angiò figliuolo del primo Lodovico e in altro tempo il nipote del medesimo nome, stimolati da' pontefici quando erano discordi con quegli re, assaltorono spesso, benché con poca fortuna, il regno di Napoli. Ma a Carlo di Durazzo era succeduto Ladislao suo figliuolo; il quale essendo mancato, l'anno mille quattrocento quattordici, senza figliuoli, pervenne la corona a Giovanna seconda, sua sorella, nome infelice a quel reame e non meno all'una e all'altra di loro, non differenti né di imprudenza né di lascivia di costumi. Perché, mettendo Giovanna il governo del regno nelle mani di quelle persone nelle mani delle quali metteva impudicamente il corpo suo, si ridusse presto in tante difficoltà che, vessata dal terzo Lodovico con l'aiuto di Martino quinto pontefice, fu finalmente costretta, per ultimo sussidio, a adottare per figliuolo Alfonso re di Aragona e di Sicilia: ma venuta non molto poi con lui in contenzione, annullata sotto titolo di ingratitudine l'adozione, adottò per figliuolo e chiamò in soccorso suo il medesimo Lodovico per la guerra del quale era stata necessitata di fare la prima adozione; e cacciato con l'armi Alfonso di tutto il regno, lo conservò mentre visse pacificamente, e morendo senza figliuoli instituí erede (come fu fama) Renato duca d'Angiò e conte di Provenza, fratello di Lodovico figliuolo suo adottivo, morto per avventura l'anno medesimo. Ma dispiacendo a molti de' baroni del regno la successione di Renato, essendosi divulgato che 'l testamento era stato falsamente fabricato dai napoletani, fu da una parte de' baroni e de' popoli chiamato Alfonso. Da questo ebbono origine le guerre tra Alfonso e Renato, le quali molti anni afflissono sí nobile regno, fatte da loro piú con le forze del reame medesimo che con le proprie; da questo, per le volontà contrarie, sorsono le fazioni, non ancora al dí d'oggi al tutto spente, degli aragonesi e angioini; variando eziandio nel corso del tempo i titoli e i colori della ragione, perché i pontefici, seguitando piú le sue cupidità o le necessità de' tempi che la giustizia, le investiture diversamente concederono. Ma essendo delle guerre tra Alfonso e Renato rimasto vincitore Alfonso, principe di maggiore potenza e valore, e morendo poi senza figliuoli legittimi, non fatta memoria di Giovanni suo fratello e successore ne' regni di Sicilia e di Aragona, lasciò per testamento il regno di Napoli, come acquistato da sé e però non appartenente alla corona di Aragona, a Ferdinando figliuolo suo naturale. Il quale, se bene quasi incontinente dopo la morte del padre fu assaltato, con le spalle de' principali baroni del regno, da Giovanni figliuolo di Renato, nondimeno con la felicità e virtú sua non solamente si difese, ma afflisse in modo gli avversari che mai piú in vita di Renato, il quale sopravisse piú anni al figliuolo, ebbe né da contendere con gli Angioini né da temerne. Morí finalmente Renato, e non avendo figliuoli maschi fece erede in tutti gli stati e ragioni sue Carlo figliuolo del fratello, il quale morendo poco di poi senza figliuoli lasciò per testamento la sua eredità a Luigi undecimo re di Francia; a cui non solo ricadde come a supremo signore il ducato di Angiò, nel quale, perché è membro della corona, non succedono le femmine, ma con tutto che 'l duca dell'Oreno, nato di una figliuola di Renato, asserisse appartenersi a sé la successione degli altri stati, entrò in possessione della Provenza; e poteva, per vigore del testamento medesimo, pretendere essergli applicate le ragioni che gli Angioini avevano al reame di Napoli: le quali essendo, per la sua morte, continuate in Carlo ottavo suo figliuolo, incominciò Ferdinando re di Napoli ad avere potentissimo avversario, e si presentò grandissima opportunità a chiunque di offenderlo desiderava. Perché il regno di Francia era in quel tempo piú florido d'uomini, di gloria d'arme, di potenza, di ricchezze e di autorità in tra gli altri regni, che forse dopo Carlo magno fusse mai stato; essendosi ampliato novellamente in ciascuna di quelle tre parti nelle quali, appresso agli antichi, si divideva tutta la Gallia. Conciossiaché, non piú che quaranta anni innanzi a questo tempo, sotto Carlo settimo, re per molte vittorie ottenute con gravissimi pericoli chiamato benavventurato, si fussino ridotte sotto quello imperio la Normandia e il ducato di Ghienna, provincie possedute prima dagli inghilesi; e negli ultimi anni di Luigi undecimo la contea di Provenza, il ducato di Borgogna e quasi tutta la Piccardia; e dipoi aggiunto, per nuovo matrimonio, alla potenza di Carlo ottavo il ducato di Brettagna. Né mancava nell'animo di Carlo inclinazione a cercare d'acquistare con l'armi il regno di Napoli, come giustamente appartenente a sé, cominciata per un certo istinto quasi naturale insino da puerizia e nutrita da' conforti di alcuni che gli erano molto accetti; i quali empiendolo di pensieri vani gli proponevano questa essere occasione di avanzare la gloria de' suoi predecessori, perché, acquistato il reame di Napoli, gli sarebbe agevole il vincere lo imperio de' turchi. Le quali cose, essendo già note a molti, dettono speranza a Lodovico Sforza di potere facilmente persuadergli il suo desiderio; confidandosi oltre a questo non poco nella introduzione che aveva nella corte di Francia il nome sforzesco, perché ed egli sempre e prima Galeazzo suo fratello aveano, con molte dimostrazioni e offici, continuata l'amicizia cominciata da Francesco Sforza loro padre: il quale, avendo, trenta anni innanzi, ricevuto in feudo da Luigi undecimo, l'animo del quale re aborrí sempre le cose d'Italia, la città di Savona e le ragioni che e' pretendeva avere in Genova, dominata già dal suo padre, non era giammai da altra parte mancato a lui ne' suoi pericoli né di consiglio né di aiuto. E nondimeno Lodovico, parendogli pericoloso l'essere solo a suscitare movimento sí grande, e per trattare la cosa in Francia con maggiore credito e autorità, cercò, prima, di persuadere il medesimo al pontefice non meno con gli stimoli dell'ambizione che dello sdegno; dimostrandogli che, o per favore de' príncipi italiani o per mezzo dell'armi loro, non poteva né di vendicarsi contro a Ferdinando né di acquistare stati onorati per i figliuoli avere speranza alcuna. E avendolo trovato pronto, o per cupidità di cose nuove o per ottenere dagli Aragonesi, per mezzo del timore, quei che di concedergli spontaneamente recusavano, mandorono secretissimamente in Francia uomini confidati a tentare l'animo del re e di coloro che erano intimi ne' consigli suoi: i quali non se ne mostrando alieni, Lodovico, dirizzatosi in tutto a questo disegno, vi mandò, benché spargendo nome d'altre cagioni, scopertamente imbasciadore Carlo da Barbiano conte di Belgioioso. In quale, poi che per qualche dí, e con Carlo in privata udienza e separatamente con tutti i principali, ebbe fatto diligenza di persuadergli, introdotto finalmente un giorno nel consiglio reale, presente il re, dove oltre a' ministri regi intervennono tutti i signori e molti prelati e nobili della corte, parlò, secondo si dice, in questa sentenza:

                                            - Se alcuno, per qual si voglia cagione, avesse, cristianissimo re, sospetta la sincerità dell'animo e della fede con la quale Lodovico Sforza, offerendovi eziandio comodità di danari e aiuto delle sue genti, vi conforta a muovere l'armi per acquistare il reame di Napoli, rimoverà facilmente da sé questa male fondata suspicione se si ridurrà in memoria l'antica divozione avuta in ogni tempo da lui, da Galeazzo suo fratello e prima da Francesco suo padre, a Luigi undecimo padre vostro, e poi continuamente al vostro gloriosissimo nome; e molto piú se e' considererà di questa impresa potere risultare a Lodovico gravissimi danni senza speranza di alcuna utilità, e a voi tutto il contrario; al quale uno regno bellissimo della vittoria perverrebbe, con grandissima gloria e opportunità di cose maggiori, ma a lui non altro che una giustissima vendetta contro alle insidie e ingiurie degli Aragonesi: e da altra parte, se tentata non riuscisse, non per questo diventerebbe minore la vostra grandezza. Ma chi non sa che Lodovico, fattosi esoso a molti e divenuto in dispregio di ciascuno, non arebbe in caso tale rimedio alcuno a' suoi pericoli? E però, come può essere sospetto il consiglio di colui che ha, in qualunque evento, le condizioni tanto ineguali e con tanto disavvantaggio dalle vostre? Benché le ragioni che vi invitano a fare cosí onorata espedizione sono tanto chiare e potenti per se stesse che non ammettono alcuna dubitazione, concorrendo amplissimamente tutti i fondamenti i quali nel deliberare l'imprese principalmente considerare si debbono: la giustizia della causa, la facilità del vincere, il frutto grandissimo della vittoria. Perché a tutto il mondo è notissimo quanto siano efficaci sopra il reame di Napoli le ragioni della casa d'Angiò, della quale voi siete legittimo erede, e quanto sia giusta la successione che questa corona pretende a' discendenti di Carlo; il quale, primo del sangue reale di Francia, ottenne, con l'autorità de' pontefici romani e con la virtú dell'armi proprie, quel reame. Ma non è già minore la facilità a conquistarlo che la giustizia. Perché chi è quello che non sappia quanto sia inferiore di forze e di autorità il re di Napoli al primo e piú potente re di tutti i cristiani? quanto sia grande e terribile per tutto il mondo il nome de' franzesi? e di quanto spavento siano l'armi vostre a tutte le nazioni? Non assaltorono giammai il reame di Napoli i piccoli duchi d'Angiò che non lo riducessino in gravissimo pericolo. È fresca la memoria che Giovanni figliuolo di Renato aveva in mano la vittoria contro al presente Ferdinando, se non glien'avesse tolta Pio pontefice, e molto piú Francesco Sforza, che si mosse, come ognuno sa, per ubbidire a Luigi undecimo vostro padre. Che faranno adunque ora l'armi e l'autorità di tanto re, essendo massime cresciute le opportunità e diminuite le difficoltà che ebbono Renato e Giovanni, poi che sono uniti con voi i príncipi di quegli stati che impedirono la loro vittoria, e che possono con somma facilità offendere il regno di Napoli? il papa per terra, per la vicinità dello stato ecclesiastico; il duca di Milano, per l'opportunità di Genova, a assaltarlo per mare. Né sarà in Italia chi vi si opponga; perché i viniziani non vorranno esporsi a spese e a pericoli, né privarsi della amicizia che lungo tempo co' re di Francia hanno tenuta, per conservare Ferdinando inimicissimo del nome loro; e i fiorentini non è credibile che si partino dalla divozione naturale che hanno alla casa di Francia, e se pure volessino opporsi, di che momento saranno contro a tanta possanza? Quante volte ha, contro alla volontà di tutta Italia, passate l'Alpi questa bellicosissima nazione, e nondimeno, con inestimabile gloria e felicità, riportatone tante vittorie e trionfi! E quando fu mai il reame di Francia piú felice, piú glorioso, piú potente che ora? e quando mai gli fu sí facile l'avere pace stabile con tutti i vicini? le quali cose se per l'addietro concorse fussino, sarebbe stato pronto, per avventura, il padre vostro a questa medesima espedizione. Né sono manco accresciute agli inimici le difficoltà che a voi l'opportunità, perché è ancora potente in quel reame la parte angioina, sono gagliarde le dipendenze di tanti príncipi e gentiluomini scacciati iniquamente pochissimi anni sono, e perché sono state sí aspre le ingiurie fatte in ogni tempo da Ferdinando a' baroni e a' popoli, a quegli ancora della fazione aragonese. Tanto è grande la sua infedeltà, tanto immoderata l'avarizia, tanto orribili e sí spessi gli esempli della crudeltà sua e di Alfonso suo primogenito, che è notissimo che tutto il regno, concitato da odio incredibile contro a loro e nel quale è verde la memoria della liberalità, della bontà, della magnanimità, dell'umanità, della giustizia de' re franzesi, si leverà con allegrezza smisurata alla fama della vostra venuta; in modo che la deliberazione sola del fare la impresa basterà a farvi vittorioso. Perché come i vostri eserciti aranno passati i monti, come l'armata marittima sarà congregata nel porto di Genova, Ferdinando e i figliuoli, spaventati dalla coscienza delle loro sceleratezze, penseranno piú a fuggirsi che a difendersi. Cosí con somma facilità arete recuperato al sangue vostro uno regno, che, se bene non è da agguagliare alla grandezza di Francia, è pure regno amplissimo e ricchissimo, ma da apprezzare molto piú per il profitto e per i comodi infiniti che ne perverranno a questo reame: i quali racconterei tutti, se non fusse notorio che maggiori fini ha la generosità franzese, che piú degni e piú alti pensieri sono quegli di sí magnanimo, di sí glorioso re, diritti non allo interesse proprio ma all'universale grandezza di tutta la republica cristiana. E a questo che maggiore opportunità? che piú ampia occasione? quale sito piú comodo, piú atto a fare la guerra contro agli inimici della nostra religione? Non è piú largo, come ognuno sa, in qualche luogo, che settanta miglia il mare che è tra il regno di Napoli e la Grecia: dalla quale provincia, oppressata e lacerata da' turchi, e che non desidera altro che vedere le bandiere de' cristiani, quanto è facile l'entrare nelle viscere di quella nazione! percuotere Costantinopoli, sedia e capo di quello imperio! E a chi appartiene piú che a voi, potentissimo re, volgere l'animo e i pensieri a questa santa impresa? per la potenza maravigliosa che Iddio v'ha data, per il cognome cristianissimo che voi avete, per l'esempio de' vostri gloriosi predecessori; i quali usciti tante volte armati di questo regno, ora per liberare la chiesa d'Iddio oppressa da' tiranni ora per assaltare gli infedeli ora per recuperare il sepolcro santissimo di Cristo, hanno esaltato insino al cielo il nome e la maestà de' re di Francia. Con questi consigli, con queste arti, con queste azioni, con questi fini, diventò magno e imperadore di Roma quello gloriosissimo Carlo; il cui nome come voi ottenete, cosí vi si presenta l'occasione d'acquistare la gloria e il cognome. Ma perché consumo io piú tempo in queste ragioni? come se non sia piú conveniente e piú secondo l'ordine della natura il rispetto del conservare che dell'acquistare! Perché chi non sa di quanta infamia vi sarebbe, invitandovi massime sí grandi occasioni, il tollerare piú che Ferdinando vi occupi uno regno tale? stato posseduto per continua successione poco manco di dugento anni da' re del vostro sangue, e il quale è manifesto giuridicamente aspettarsi a voi? Chi non sa quanto appartenga alla degnità vostra il recuperarlo? quanto pietoso il liberare quegli popoli che adorano il glorioso nome vostro, che di ragione sono vostri sudditi, dalla tirannide acerbissima de' catelani? È adunque l'impresa giustissima, è facilissima, è necessaria. È non meno gloriosa e santa, e per se stessa e perché vi apre la strada alle imprese degne di uno cristianissimo re di Francia: alle quali non solo gli uomini, ma Dio è quello, o magnanimo re, che tanto apertamente vi chiama, Dio è quello che vi mena, con sí grandi e sí manifeste occasioni, proponendovi, innanzi al principiarla, somma felicità. Imperocché quale maggiore felicità può avere principe alcuno che le deliberazioni dalle quali risulta la gloria e la grandezza propria siano accompagnate da circostanze e conseguenze tali che apparisca che elle si faccino non meno per beneficio e per salute universale, e molto piú per l'esaltazione di tutta la republica cristiana? -

                                            Non fu udita con allegro animo questa proposta da' signori grandi di Francia, e specialmente da coloro che per nobiltà e opinione di prudenza erano di maggiore autorità; i quali giudicavano non potere essere altro che guerra piena di molte difficoltà e pericoli, avendosi a condurre gli eserciti in paese forestiero e tanto lontano dal regno di Francia, e contro a inimici molto stimati e potenti. Perché grandissima era per tutto la fama della prudenza di Ferdinando, né minore quella del valore di Alfonso nella scienza militare; e si credeva che, avendo regnato Ferdinando trenta anni e spogliati e distrutti in vari tempi tanti baroni, avesse accumulato molto tesoro. Consideravano il re essere poco capace a sostenere da sé solo un pondo sí grave; e, nel maneggio delle guerre e degli stati, debole il consiglio e l'esperienza di coloro che avevano fede appresso a lui piú per favore che per ragione. Aggiugnersi la carestia di danari, de' quali si stimava avesse a bisognarne grandissima quantità; e doversi ridurre nella memoria ciascuno l'astuzie e gli artifici degli italiani, e rendersi certo che non solo agli altri ma né a Lodovico Sforza, notato non che altro in Italia di poca fede, potesse piacere che in potestà di uno re di Francia fusse il reame di Napoli. Onde e il vincere sarebbe difficile, e piú difficile il conservare le cose vinte. Però Luigi padre di Carlo, principe che aveva sempre seguitato piú la sostanza che l'apparenza delle cose, non avere mai accettato le speranze propostegli d'Italia, né tenuto conto delle ragioni pervenutegli del regno di Napoli, ma sempre affermato che il mandare eserciti di là da' monti non era altro che cercare di comperare molestie e pericoli, con infinito tesoro e sangue del reame di Francia. Essere, volendo procedere a questa espedizione, innanzi a ogni cosa necessario comporre le controversie co' re vicini: perché con Ferdinando re di Spagna cagioni di discordie e di sospetti non mancavano; e con Massimiliano re de' romani e con Filippo arciduca d'Austria suo figliuolo erano molte non solo emulazioni ma ingiurie; gli animi de' quali non si potrebbono riconciliare senza concedere a essi cose dannosissime alla corona di Francia, e non di meno si riconcilierebbono piú con le dimostrazioni che con gli effetti: perché quale accordo basterebbe a assicurare che, sopravenendo all'esercito regio qualche difficoltà in Italia, non assaltassino il regno di Francia? né doversi sperare che in Enrico settimo re di Inghilterra non avesse forza maggiore l'odio naturale degli inghilesi contro a' franzesi che la pace fatta con lui pochi mesi avanti; perché era manifesto avervelo tirato, piú che altra causa, il non corrispondere gli apparati del re de' romani alle promesse con le quali l'avea indotto a porre il campo intorno a Bologna. Queste e altre simili ragioni si allegavano da' signori grandi, parte tra loro medesimi parte col re, a dissuadere la nuova guerra: tra i quali la detestava, piú efficacemente che alcun altro, Iacopo Gravilla, ammiraglio di Francia, uomo al quale la fama inveterata in tutto il regno di essere savio conservava l'autorità, benché gli fusse alquanto stata diminuita la grandezza. E nondimeno si porgeva in contrario con grande avidità l'orecchio da Carlo: il quale, giovane d'anni ventidue, e per natura poco intelligente delle azioni umane, era traportato da ardente cupidità di dominare e da appetito di gloria, fondato piú tosto in leggiera volontà e quasi impeto che in maturità di consiglio; e prestando, o per propria inclinazione o per l'esempio e ammonizioni paterne, poca fede a' signori e a' nobili del regno, poi che era uscito della tutela di Anna duchessa di Borbone sua sorella, né udendo piú i consigli dell'ammiraglio e degli altri i quali erano stati grandi in quel governo, si reggeva col parere di alcuni uomini di piccola condizione, allevati quasi tutti a servigio della persona sua; de' quali quegli di piú favore veementemente ne lo confortavano, parte, come sono venali spesso i consigli de' príncipi, corrotti da' doni e da promesse fatte dallo imbasciadore di Lodovico, che non lasciò indietro diligenza o arte alcuna per farsi propizii quegli che erano di momento a questa deliberazione, parte mossi dalle speranze propostesi, chi d'acquistare stati nel regno di Napoli chi di ottenere dal pontefice degnità e entrate ecclesiastiche. Capo di tutti questi era Stefano di Vers, di nazione di Linguadoca, di basso legnaggio, ma nutrito molti anni nella camera del re, e da lui fatto siniscalco di Belcari. A costui aderiva Guglielmo Brissonetto; il quale, di mercatante diventato prima generale di Francia e poi vescovo di San Malò, non solo era preposto all'amministrazione delle entrate regie, che in Francia dicono sopra le finanze, ma unito con Stefano, e per sua opera, aveva già grandissima introduzione in tutte le faccende importanti, benché di governare cose di stato avesse piccolo intendimento. Aggiugnevansi gli stimoli di Antonello da San Severino principe di Salerno, e di Bernardino della medesima famiglia principe di Bisignano, e di molti altri baroni sbanditi del reame di Napoli; i quali, ricorsi piú anni prima in Francia, avevano continuamente incitato Carlo a questa impresa, allegando la pessima disposizione, piú presto disperazione, di tutto il regno, e le dipendenze e il seguito grande che avere in quello si promettevano. Stette in questa varietà di pareri sospesa molti giorni la deliberazione, essendo non solo dubbio agli altri quello che s'avesse a determinare ma incerto e incostante l'animo di Carlo; perché, ora stimolandolo la cupidità della gloria e dello imperio ora raffrenandolo il timore, era talvolta irresoluto, talvolta si volgeva al contrario di quello che pareva che prima avesse determinato. Pure ultimatamente, prevalendo la sua pristina inclinazione e il fato infelicissimo d'Italia a ogni contradizione, rifiutati del tutto i consigli quieti, fu fatta, ma senza saputa di altri che del vescovo di San Malò e del siniscalco di Belcari, convenzione con lo imbasciadore di Lodovico. Della quale stettono piú mesi occulte le condizioni, ma la somma fu che, passando Carlo in Italia o mandando esercito per l'acquisto di Napoli, il duca di Milano fusse tenuto a dargli il passo per il suo stato, a mandare con le sue genti cinquecento uomini d'arme pagati, permettergli che a Genova armasse quanti legni volesse, e a prestargli, innanzi partisse di Francia, dugentomila ducati; e da altra parte il re si obligò alla difesa del ducato di Milano contro a ciascuno, con particolare menzione di conservare l'autorità di Lodovico, e a tenere ferme in Asti, città del duca di Orliens, durante la guerra, dugento lancie, perché fussino preste a' bisogni di quello stato: e o allora o non molto dipoi, per una scritta sottoscritta di propria mano, promesse, ottenuto che avesse il reame di Napoli, concedere a Lodovico il principato di Taranto.

                                            Non è certo opera perduta o senza premio il considerare la varietà de' tempi e delle cose del mondo. Francesco Sforza padre di Lodovico, principe di rara prudenza e valore, inimico degli Aragonesi per gravissime offese ricevute da Alfonso padre di Ferdinando, e amico antico degli Angioini, nondimeno, quando Giovanni figliuolo di Renato, l'anno mille quattrocento cinquantasette, assaltò il regno di Napoli, aiutò con tanta prontezza Ferdinando che da lui fu principalmente riconosciuta la vittoria; mosso non da altro che da parergli troppo pericoloso al ducato suo di Milano che di uno stato cosí potente in Italia i franzesi tanto vicini si insignorissino: la quale ragione aveva prima indotto Filippo Maria Visconte che, abbandonati gli Angioini favoriti insino a quel dí da lui, liberasse Alfonso suo inimico; il quale, preso da' genovesi in una battaglia navale presso a Gaeta, gli era stato condotto, con tutta la nobiltà de' regni suoi, prigione a Milano. Da altra parte Luigi padre di Carlo, stimolato spesse volte da molti, e con non leggiere occasioni, alle cose di Napoli, e chiamato instantemente da' genovesi al dominio della loro patria stata posseduta da Carlo suo padre, aveva sempre recusato di mescolarsi in Italia, come cosa piena di spese e difficoltà e all'ultimo perniciosa al regno di Francia. Ora, variate l'opinioni degli uomini ma non già forse variate le ragioni delle cose, e Lodovico chiamava i franzesi di qua da' monti, non temendo da uno potentissimo re di Francia, se in mano sua fusse il regno di Napoli, di quello pericolo che il padre suo, valorosissimo nell'armi, aveva temuto se l'avesse acquistato uno piccolo conte di Provenza; e Carlo ardeva di desiderio di fare guerre in Italia, preponendo la temerità di uomini bassi e inesperti al consiglio del padre suo, re di lunga esperienza e prudente. Certo è che Lodovico fu medesimamente confortato a tanta deliberazione da Ercole da Esti duca di Ferrara, suo suocero; il quale, ardendo di desiderio di recuperare il Polesine di Rovigo, paese contiguo e molto importante alla sicurtà di Ferrara, statogli occupato da' viniziani, nella guerra dieci anni innanzi avuta con loro, conosceva essere unica via di poterlo ricuperare che Italia tutta si turbasse con grandissimi movimenti. Ma e fu creduto da molti che Ercole, benché col genero simulasse benivolenza grandissima, nondimeno in secreto l'odiasse estremamente, perché, essendo in quella guerra tutto 'l resto d'Italia che aveva prese l'armi per lui molto superiore a viniziani, Lodovico, il quale già governava lo stato di Milano, mosso da' propri interessi, costrinse gli altri a fare la pace, con condizione che a' viniziani rimanesse quel Pulesine; e però, che Ercole, non potendo con l'armi vendicarsi di tanta ingiuria, cercasse vendicarsi col dargli pestifero consiglio.

                                             

                                             

                                                 Lib.1, cap.5

                                                  

                                                 Pubbliche dichiarazioni di fiduciosa sicurezza e segrete preoccupazioni di Ferdinando d'Aragona. Sua azione per allontanare da sé il pericolo e per riconciliarsi col pontefice e con Lodovico Sforza. Il re di Francia compone le sue divergenze co' re di Spagna, col re de' romani e con l'arciduca d'Austria. L'investitura di Lodovico Sforza a duca di Milano. Ambasciata di Perone di Baccie al pontefice, al senato veneziano ed a' fiorentini. Piero de' Medici di fronte alle richieste del re di Francia. Comincia a vacillare la congiunzione fra il pontefice e Ferdinando d'Aragona.

                                             

                                            Ma essendo già incominciata, benché da principio con autori incerti, a risonare in Italia la fama di quello che oltre a' monti si trattava, si destorono vari pensieri e discorsi nelle menti degli uomini: perché a molti, i quali la potenza del regno di Francia, la prontezza di quella nazione a nuovi movimenti e le divisioni degli italiani consideravano, pareva cosa di grandissimo momento; altri, per la età e per le qualità del re, e per la negligenza propria a' franzesi e per gli impedimenti che hanno le grandi imprese, giudicavano questo essere piú tosto impeto giovenile che fondato consiglio, il quale, poi che fusse alquanto ribollito, avesse leggiermente a risolversi. Né Ferdinando, contro al quale tali cose si macchinavano, dimostrava d'averne molto timore, allegando essere impresa durissima: perché, se e' pensassino assaltarlo per mare, troverebbono lui proveduto d'armata sufficiente a combattere con loro in alto mare, i porti bene fortificati e tutti in sua potestà, né essere nel regno barone alcuno che gli potesse ricevere come era stato ricevuto Giovanni d'Angiò dal principe di Rossano e da altri grandi; l'espedizione per terra essere incomoda, sospetta a molti e lontana, avendosi a passare prima per la lunghezza di tutta Italia, di maniera che ciascuno degli altri arebbe causa particolarmente di temerne, e forse piú di tutti Lodovico Sforza, benché, volendo dimostrare che fusse proprio di altri il pericolo comune, simulasse il contrario, perché, per la vicinità dello stato di Milano alla Francia, aveva il re maggiore facoltà e verisimilmente maggiore cupidità di occuparlo. E essendogli il duca di Milano congiuntissimo di sangue, come potere almeno assicurarsi Lodovico che il re non avesse in animo liberarlo dalla sua oppressione? avendo massime pochi anni innanzi affermato palesemente che non comporterebbe che Giovan Galeazzo suo cugino fusse conculcato sí indegnamente. Non avere tale condizione le cose aragonesi che la speranza della debolezza loro dovesse dare a' franzesi ardire d'assaltarle, essendo egli bene ordinato di molta e fiorita gente d'arme, abbondante di bellicosi cavalli, di munizioni, di artiglierie e di tutte le provisioni necessarie alla guerra, e con tanta copia di danari che senza incomodità potrebbe quanto gli fusse necessario augumentarle; e oltre a molti peritissimi capitani preposto al governo degli eserciti e armi sue il duca di Calavria suo primogenito, capitano di fama grande e di virtú non minore, e esperimentato per molti anni in tutte le guerre d'Italia. Aggiugnersi alle forze proprie gli aiuti pronti de' suoi medesimi, perché non essere da dubitare gli mancasse il soccorso del re di Spagna, suo cugino e fratello della moglie, sí per il vincolo doppio del parentado come perché gli sarebbe sospetta la vicinità de' franzesi alla Sicilia. Queste cose si dicevano da Ferdinando publicamente, magnificando la sua potenza e estenuando quanto poteva le forze e l'opportunità degli avversarii; ma, come era re di singolare prudenza e di esperienza grandissima, intrinsecamente gravissimi pensieri lo tormentavano, avendo fissa nell'animo la memoria de' travagli avuti, nel principio del regno suo, da questa nazione. Considerava profondamente dovere avere la guerra con inimici bellicosissimi e potentissimi, e molto superiori a sé di cavalleria, di peditato, d'armate marittime, di artiglierie, di danari e d'uomini ardentissimi a esporsi a ogni pericolo per la gloria e grandezza del proprio re; a sé, per contrario, sospetta ogni cosa, pieno il regno quasi tutto o di odio grande contro al nome aragonese o di inclinazione non mediocre a rebelli suoi, del resto la maggiore parte cupida per l'ordinario di nuovi re, e nella quale avesse a potere piú la fortuna che la fede, ed essere maggiore la riputazione che il nervo delle sue cose; non bastare i danari accumulati alle spese necessarie per la difesa, e empiendosi per la guerra ogni cosa di ribellione e di tumulti annichilarsi in uno momento l'entrate. Avere in Italia molti inimici, niuna amicizia stabile e fidata; perché chi non era stato offeso, in qualche tempo, o dalle armi o dalle arti sue? Né di Spagna, secondo l'esempio del passato e le condizioni di quel regno, potere aspettare altri aiuti a' suoi pericoli che larghissime promesse e fama grandissima di apparati ma effetti piccolissimi e tardissimi. Accrescevangli il timore molte predizioni infelici alla casa sua, venutegli a notizia in diversi tempi, parte per scritture antiche ritrovate di nuovo parte per parole d'uomini, incerti spesso del presente ma che si arrogano certezza del futuro; cose nella prosperità credute poco, come cominciano a apparire l'avversità credute troppo. Angustiato da queste considerazioni, e presentandosegli maggiore senza comparazione la paura che le speranze, conobbe non essere altro rimedio a tanti pericoli che o il rimuovere, quanto piú presto si poteva, con qualche concordia, la mente del re di Francia da questi pensieri o levargli parte de' fondamenti che lo incitavano alla guerra. Perciò, avendo in Francia imbasciadori, mandativi per trattare lo sposalizio di Ciarlotta figliuola di don Federigo suo secondo genito col re di Scozia, il quale, per essere la fanciulla nata di una sorella della madre di Carlo e allevata nella sua corte, si maneggiava da lui, dette loro sopra le cose occorrenti nuove commissioni; e vi deputò, oltre a questi, Cammillo Pandone, statovi altre volte per lui: affine che, tentando privatamente i principali con premi e offerte grandi, e proponendo al re, quando altrimenti non si potesse mitigarlo, condizione di censo e altre sommissioni, si sforzasse di ottenere da lui la pace. Né solo interpose tutta la diligenza e autorità sua per comporre la differenza delle castella comperate da Verginio Orsino, la cui durezza si lamentava essere stata causa di tutti i disordini, ma ricominciò col pontefice le pratiche del parentado trattato prima tra loro. Ma il principale suo studio e diligenza si indirizzò a mitigare e ad assicurare l'animo di Lodovico Sforza, autore e motore di tutto il male, persuadendosi che a cosí pericoloso consiglio piú il timore che altra cagione lo conducesse. E però, anteponendo la sicurtà propria allo interesse della nipote e alla salute del figliuolo nato di lei, gli offerse, per diversi mezzi, di riferirsi in tutto alla sua volontà, delle cose di Giovan Galeazzo e del ducato di Milano: non attendendo al parere d'Alfonso, il quale, pigliando animo dalla timidità naturale di Lodovico, né si ricordando che alle deliberazioni precipitose si conduce non meno agevolmente il timido per la disperazione che si conduca il temerario per la inconsiderazione, giudicava che l'aspreggiarlo con spaventi e con minaccie fusse mezzo opportuno a farlo ritirare da questi nuovi consigli. Composesi finalmente, dopo varie difficoltà, procedute piú da Verginio che dal pontefice, la differenza delle castella; intervenendo alla composizione don Federigo, mandato a questo effetto dal padre a Roma: convennono che Verginio le ritenesse, ma pagando al pontefice tanta quantità di danari per quanti l'aveva prima comperate da Franceschetto Cibo. Conchiusesi insieme lo sposalizio di madama Sances figliuola naturale di Alfonso in don Giuffré figliuolo minore del pontefice, inabili tutt'a due per l'età alla consumazione del matrimonio: le condizioni furono che don Giuffré andasse fra pochi mesi a stare a Napoli, ricevesse in dote il principato di Squillaci con entrata di ducati diecimila l'anno, e fusse condotto con cento uomini d'arme agli stipendi di Ferdinando: donde si confermò l'opinione, avuta da molti, che quel che aveva trattato in Francia il pontefice fusse stato trattato principalmente per indurre col timore gli Aragonesi a queste convenzioni. Tentò di piú Ferdinando di confederarsi con lui a difesa comune; ma interponendo il pontefice molte difficoltà, non ottenne altro che una promessa occultissima, per breve, di aiutarlo a difendere il regno di Napoli, in caso che Ferdinando promettesse a lui di fare il medesimo dello stato della Chiesa. Le quali cose espedite, si partirono, licenziate dal papa, del dominio ecclesiastico le genti d'arme che i viniziani e il duca di Milano gli aveano mandate in aiuto. Né cominciò Ferdinando con minore speranza di felice successo a trattare con Lodovico Sforza, il quale con arte grandissima, ora mostrandosi malcontento della inclinazione del re di Francia alle cose d'Italia come pericolosa a tutti gli italiani, ora scusandosi per la necessità la quale, per il feudo di Genova e per la confederazione antica con la casa di Francia, l'aveva costretto a udire le richieste fattegli, secondo diceva, da quel re, ora promettendo, qualche volta a Ferdinando qualche volta separatamente al pontefice e a Piero de' Medici, di affaticarsi quanto potesse per raffreddare l'ardore di Carlo, si sforzava di tenergli addormentati in questa speranza, acciocché, innanzi che le cose di Francia fussino bene ordinate e stabilite, contro a lui qualche movimento non si facesse: e gli era creduto piú facilmente perché la deliberazione di fare passare il re di Francia in Italia era giudicata sí mal sicura ancora per lui, che non pareva possibile che finalmente non se n'avesse, considerato il pericolo, a ritirare.

                                            Consumossi tutta la state in queste pratiche, procedendo Lodovico in modo che, senza dare ombra al re di Francia, né Ferdinando né il pontefice né i fiorentini delle sue promesse si disperavano né totalmente vi confidavano. Ma in questo tempo si gittavano in Francia sollecitamente i fondamenti della nuova espedizione, alla quale, contro al consiglio di quasi tutti i signori, era ogni dí maggiore l'ardore del re: il quale, per essere piú espedito, compose le differenze che aveva con Ferdinando e con Isabella, re e reina di Spagna, príncipi in quello tempo molto celebrati e gloriosi per la fama della prudenza loro, per avere ridotti di grandissime turbolenze in somma tranquillità e ubbidienza i regni suoi, e per avere nuovamente, con guerra continuata dieci anni, recuperato al nome di Cristo il reame di Granata, stato posseduto da' mori di Affrica poco manco di ottocento anni; per la quale vittoria conseguirono dal pontefice, con grande applauso di tutti i cristiani, il cognome di re cattolici. Fu espresso in questa capitolazione, fermata molto solennemente e con giuramenti prestati in publico dall'una parte e dall'altra ne' templi sacri, che Ferdinando e Isabella (reggevasi la Spagna in nome comune) né direttamente né indirettamente gli Aragonesi aiutassino, parentado nuovo con loro non contraessino, né in modo alcuno per difesa di Napoli a Carlo si opponessino; le quali obligazioni egli per ottenere, cominciando dalla perdita certa per speranza di guadagno incerto, restituí senza alcuno pagamento Perpignano con tutta la contea di Rossiglione, impegnata molti anni innanzi a Luigi suo padre da Giovanni re di Aragona padre di Ferdinando: cosa molestissima a tutto il regno di Francia, perché quella contea, situata alle radici de' monti Pirenei e però, secondo l'antica divisione, parte della Gallia, impediva agli spagnuoli l'entrare in Francia da quella parte. Fece per la medesima cagione Carlo pace con Massimiliano re de' romani e con Filippo arciduca d'Austria suo figliuolo, i quali avevano seco gravissime cagioni, antiche e nuove, di inimicizia, cominciate perché Luigi suo padre, per l'occasione della morte di Carlo duca di Borgogna e conte di Fiandra e di molti altri paesi circostanti, aveva occupato il ducato di Borgogna, il contado di Artois e molte altre terre possedute da lui. Donde essendo nate gravi guerre tra Luigi e Maria figliuola unica di Carlo, la quale poco dopo la morte del padre si era maritata a Massimiliano, era ultimamente, essendo già morta Maria e succeduto nell'eredità materna Filippo figliuolo comune di Massimiliano e di lei, fattasi, piú per volontà de' popoli di Fiandra che di Massimiliano, concordia tra loro; per stabilimento della quale a Carlo figliuolo di Luigi fu Margherita sorella di Filippo sposata e, benché fusse di età minore, condotta in Francia: dove poi che fu stata piú anni, Carlo repudiatala, tolse per moglie Anna, alla quale, per la morte di Francesco suo padre senza figliuoli maschi, apparteneva il ducato di Brettagna; con doppia ingiuria di Massimiliano, privato in uno tempo medesimo del matrimonio della figliuola e del proprio, perché prima per mezzo di suoi procuratori aveva sposato Anna. E nondimeno, impotente a sostentare da se stesso la guerra, ricominciata per cagione di questa ingiuria, né volendo i popoli di Fiandra, i quali, per essere Filippo pupillo, con consiglio e autorità propria si reggevano, stare in guerra col regno di Francia; e vedendo posate l'armi contro a' franzesi da' re di Spagna e di Inghilterra, consentí alla pace: per la quale Carlo restituí a Filippo Margherita sua sorella, ritenuta insino a quel dí in Francia, e insieme le terre del contado di Artois, riservandosi le fortezze ma con obligazione di restituirle alla fine di quattro anni; al quale tempo Filippo, divenuto di età maggiore, poteva validamente confermare l'accordo fatto. Le quali terre, nella pace fatta dal re Luigi, erano state concordemente riconosciute come per dote di Margherita predetta.

                                            Stabilissi, per esser renduta al regno di Francia la pace da tutti i vicini, la deliberazione della guerra di Napoli per l'anno prossimo; e che in questo mezzo tutte le provisioni necessarie si preparassino, sollecitate continuamente da Lodovico Sforza. Il quale (come i pensieri degli uomini di grado in grado si distendono), non pensando piú solo a assicurarsi nel governo ma sollevato a piú alti pensieri, aveva nell'animo, con l'occasione de' travagli degli Aragonesi, trasferire in tutto in sé il ducato di Milano: e per dare qualche colore di giustizia a tanta ingiustizia, e fermare con maggiori fondamenti le cose sue a tutti i casi che potessino intervenire, maritò Bianca Maria sorella di Giovan Galeazzo e sua nipote a Massimiliano, succeduto nuovamente per la morte di Federico suo padre nello imperio romano; promettendogli in dote in certi tempi quattrocentomila ducati in pecunia numerata, e in gioie e in altri apparati ducati quarantamila. E da altro canto Massimiliano, seguitando in questo matrimonio piú i danari che il vincolo della affinità, si obligò di concedere a Lodovico, in pregiudicio di Giovan Galeazzo nuovo cognato, l'investitura del ducato di Milano, per sé, per i figliuoli e per i discendenti suoi; come se quello stato, dopo la morte di Filippo Maria Visconte, fusse di legittimo duca sempre vacato: promettendo di consegnargli, al tempo dell'ultimo pagamento, i privilegi, spediti in forma amplissima.

                                            I Visconti, gentiluomini di Milano, nelle parzialità sanguinosissime che ebbe Italia de' ghibellini e de' guelfi, cacciati finalmente i guelfi, diventorno (è questo quasi sempre il fine delle discordie civili), di capi di una parte di Milano, padroni di tutta la città; nella quale grandezza avendo continuato molti anni, cercorono, secondo il progresso comune delle tirannidi (perché quello che era usurpazione paresse ragione), di corroborare prima con legittimi colori e dipoi di illustrare con amplissimi titoli la loro fortuna. Però, ottenuto dagli imperadori, de' quali Italia cominciava già a conoscere piú il nome che la possanza, prima il titolo di capitani poi di vicari imperiali, all'ultimo Giovan Galeazzo, il quale, per avere ricevuto la contea di Virtus da Giovanni re di Francia suo suocero, si chiamava il conte di Virtú, ottenne da Vincislao re de' romani, per sé e per la sua stirpe mascolina, la degnità di duca di Milano; nella quale gli succederono, l'uno dopo l'altro, Giovan Maria e Filippo Maria suoi figliuoli. Ma finita la linea mascolina per la morte di Filippo, benché egli avesse nel testamento suo instituito erede Alfonso re d'Aragona e di Napoli, mosso dall'amicizia grandissima la quale, per la liberazione sua, aveva contratta seco, e molto piú perché il ducato di Milano, difeso da principe sí potente, non fusse occupato da' viniziani, i quali già manifestamente v'aspiravano, nondimanco Francesco Sforza, capitano in quella età valorosissimo né minore nell'arte della pace che della guerra, aiutato da molte occasioni che allora concorsono, e non meno dall'avere stimato piú il regnare che l'osservanza della fede, occupò con l'armi quel ducato come appartenente a Bianca Maria sua moglie, figliuola naturale di Filippo; ed è fama che e' potette ottenerne poi, con non molta quantità di danari, l'investitura da Federigo imperatore, ma che, confidando di potere con le medesime arti conservarlo con le quali l'aveva guadagnato, la dispregiò. Cosí senza investitura continuò Galeazzo suo figliuolo, e continuava Giovan Galeazzo suo nipote: onde Lodovico, in uno medesimo tempo scelerato contro al nipote vivo e ingiurioso contro alla memoria del padre e del fratello morti, affermando non essere stato alcuno di essi legittimo duca di Milano, se ne fece come di stato devoluto allo imperio investire da Massimiliano, intitolandosi per questa ragione non settimo ma quarto duca di Milano. Benché queste cose alla notizia di pochi, mentre visse il nipote, trapassorono. Soleva oltre a questo dire, seguitando l'esempio di Ciro fratello minore di Artoserse re di Persia, e confermandolo con l'autorità di molti giurisconsulti, che precedeva Galeazzo suo fratello, non per l'età ma per essere stato il primo figliuolo che fusse nato al padre comune poi che era diventato duca di Milano: la quale ragione insieme con la prima, benché taciuto l'esempio di Ciro, fu espressa ne’ privilegi imperiali; a' quali, per velare, benché con colore ridicolo, la cupidità di Lodovico, fu in lettere separate aggiunto non essere consuetudine del sacro imperio concedere alcuno stato a chi l'avesse prima con l'autorità di altri tenuto, e perciò essere stati da Massimiliano disprezzati i prieghi fatti da Lodovico per ottenere l'investitura per Giovan Galeazzo, che aveva prima dal popolo di Milano quel ducato riconosciuto. Il parentado fatto da Lodovico accrebbe la speranza a Ferdinando che e' s'avesse a alienare dalla amicizia del re di Francia, giudicando che l'essersi aderito e il somministrare a uno emulo, e per tante cagioni inimico, quantità cosí grande di danari, fusse per generare diffidenza tra loro, e che Lodovico, preso animo da questa nuova congiunzione, avesse piú arditamente a discostarsene: la quale speranza Lodovico nutriva con grandissimo artificio, e nondimeno (tanta era la sagacità e destrezza sua) sapeva in uno tempo medesimo dare parole a Ferdinando e agli altri d'Italia, e bene intrattenersi col re de' romani e con quello di Francia. Sperava similmente Ferdinando che al senato viniziano, al quale aveva mandato imbasciadori, avesse a essere molesto che in Italia, dove tenevano il primo luogo di potenza e di autorità, entrasse uno principe tanto maggiore di loro: né conforti e speranze da' re di Spagna gli mancavano, i quali soccorso potente gli promettevano, in caso che con le persuasioni e con l'autorità non potessino questa impresa interrompere.

                                            Da altra parte si sforzava il re di Francia, poiché aveva rimosso gl'impedimenti di là da monti, rimuovere le difficoltà e gli ostacoli che potessino essergli fatti di qua. Però mandò Perone di Baccie, uomo non imperito delle cose d'Italia, dove era stato sotto Giovanni d'Angiò; il quale, significata al pontefice, al senato viniziano e a' fiorentini, la deliberazione fatta dal re di Francia per recuperare il regno di Napoli, fece instanza con tutti che si congiugnessino con lui; ma non riportò altro che speranze e risposte generali, perché, essendo la guerra non prima che per l'anno prossimo disegnata, ricusava ciascuno di scoprire tanto innanzi la sua intenzione. Ricercò medesimamente il re gli oratori de' fiorentini, mandati prima a lui, con consentimento di Ferdinando, per escusarsi della imputazione si dava loro di essere inclinati agli Aragonesi, che gli fusse promesso passo e vettovaglia nel territorio loro all'esercito suo, con pagamento conveniente, e di mandare con esso cento uomini d'arme, i quali diceva chiedere per segno che la republica fiorentina seguitasse la sua amicizia: e benché gli fusse dimostrato non potersi senza grave pericolo fare tale dichiarazione se prima l'esercito suo non era passato in Italia, e affermato che di quella città si poteva in ogni caso promettere quanto conveniva alla osservanza e devozione che sempre alla corona di Francia portata aveva, nondimeno erano con impeto franzese stretti a prometterlo, minacciando altrimenti di privargli del commercio che la nazione fiorentina aveva grandissimo di mercatanzie in quel reame: i quali consigli, come poi si manifestò, nascevano da Lodovico Sforza, guida allora e indirizzatore di tutto quello che per loro con gli italiani si praticava. Affaticossi Piero de' Medici di persuadere a Ferdinando queste dimande importare sí poco alla somma della guerra, che e' potrebbe giovargli piú che la republica e egli si conservassino in fede con Carlo, per la quale arebbono forse opportunità di essere mezzo a qualche composizione. Allegava, oltre a questo, il carico grandissimo e l'odio il quale contro a sé si conciterebbe in Firenze se i mercatanti fiorentini fussino cacciati di Francia; e convenire alla buona fede, fondamento principale delle confederazioni, che ciascuno de' confederati tollerasse pazientemente qualche incomodità perché l'altro non incorresse in danni molto maggiori. Ma Ferdinando, il quale considerava quanto si diminuirebbe della riputazione e sicurtà sua se i fiorentini si separassino da lui, non accettava queste ragioni, ma si lamentò gravissimamente che la costanza e la fede di Piero cominciassino cosí presto a non corrispondere a quel che di lui s'avea promesso; donde Piero, determinato di conservarsi innanzi a ogni cosa l'amicizia aragonese, fece allungare con varie arti la risposta da' franzesi instantemente dimandata, rimettendosi in ultimo che per nuovi oratori si farebbe intendere l'intenzione della republica.

                                            Nella fine di quest'anno cominciò la congiunzione fatta tra il pontefice e Ferdinando a vacillare: o perché il pontefice aspirasse, con introdurre nuove difficoltà, a ottenere da lui cose maggiori o perché si persuadesse di muoverlo con questo modo a ridurre il cardinale di San Piero a Vincola all'ubbidienza sua; il quale egli, offerendo per sicurtà la fede del collegio de' cardinali, di Ferdinando e de' viniziani, desiderava sommamente che andasse a Roma, essendogli sospetta molto la sua assenza, per la importanza della rocca d'Ostia (perché intorno a Roma teneva Ronciglione e Grottaferrata), per molte dependenze e autorità grande che aveva nella corte, e finalmente per la natura sua desiderosa di cose nuove e l'animo pertinace a correre prima ogni pericolo che allentare uno punto solo delle sue deliberazioni. Scusavasi efficacissimamente Ferdinando di non potere piegare a questo il Vincola, insospettito tanto che qualunque sicurtà gli pareva inferiore al pericolo; e si lamentava della sua mala fortuna col pontefice, che sempre attribuisse a lui quel che veramente procedeva da altri; cosí avere creduto che Verginio per i conforti e co' danari suoi avesse comperato le castella, e nondimeno la compera essere stata fatta senza sua partecipazione, ma essere bene egli stato quello che aveva disposto Verginio all'accordo, e che a questo effetto l'aveva accomodato de' danari che si pagorono in ricompensa delle castella. Le quali scuse mentre che 'l pontefice non accetta, anzi con acerbe e quasi minatorie parole si lamenta di Ferdinando, pareva che nella reconciliazione fatta tra loro non si potesse fare stabile fondamento.

                                             

                                                 Lib.1, cap.6

                                                  

                                                 Il re di Francia allontana dal regno gli oratori di Ferdinando d'Aragona. Morte di Ferdinando. Giudizio dell'autore sul re. Confederazione fra il pontefice e Alfonso d'Aragona. Tentativi di riconciliazione di Alfonso con Lodovico Sforza e contegno di questo. Sollecitazioni degli ambasciatori del re di Francia per ottenere da' fiorentini assicurazione d'alleanza o, almeno, di benevoli aiuti all'esercito francese. Richiesta al pontefice d'investitura di Carlo VIII a re di Napoli. Risposta del pontefice. Risposta del governo di Firenze agli oratori del re di Francia. Sdegno del re contro Piero. Neutralità di Venezia.

                                             

                                            Incominciò in tale disposizione degli animi, e in tale confusione delle cose tanto inclinate a nuove perturbazioni, l'anno mille quattrocento novantaquattro (io piglio il principio secondo l'uso romano), anno infelicissimo a Italia, e in verità anno principio degli anni miserabili, perché aperse la porta a innumerabili e orribili calamità, delle quali si può dire che per diversi accidenti abbia di poi partecipato una parte grande del mondo. Nel principio di questo anno, Carlo, alienissimo dalla concordia con Ferdinando, comandò agli oratori suoi che, come oratori di re inimico, si partissino subito del reame di Francia; e quasi ne' medesimi dí morí per uno catarro repentino Ferdinando, soprafatto piú da' dispiaceri dell'animo che dall'età. Fu re di celebrata industria e prudenza, con la quale, accompagnata da prospera fortuna, si conservò il regno, acquistato nuovamente dal padre, contro a molte difficoltà che nel principio del regnare se gli scopersono, e lo condusse a maggiore grandezza che forse molti anni innanzi l'avesse posseduto re alcuno. Buono re, se avesse continuato di regnare con l'arti medesime con le quali aveva principiato; ma in progresso di tempo, o presi nuovi costumi per non avere saputo, come quasi tutti i príncipi, resistere alla violenza della dominazione o, come fu creduto quasi da tutti, scoperti i naturali, i quali prima con grande artificio aveva coperti, notato di poca fede e di tanta crudeltà che i suoi medesimi degna piú presto di nome di immanità la giudicavano. La morte di Ferdinando si tenne per certo che nocesse alle cose comuni; perché, oltre che arebbe tentato qualunque rimedio atto a impedire la passata de' franzesi, non si dubita che piú difficile sarebbe stato fare che Lodovico Sforza della natura altiera e poco moderata d'Alfonso s'assicurasse che disporlo a rinnovare l'amicizia con Ferdinando, sapendo che ne' tempi precedenti era stato spesso inclinato, per non avere cagione di controversie con lo stato di Milano, a piegarsi alla sua volontà. E trall'altre cose è manifesto che, quando Isabella figliuola d'Alfonso andò a congiugnersi col marito, Lodovico, come la vide, innamorato di lei, desiderò di ottenerla per moglie dal padre; e a questo effetto operò, cosí fu allora creduto per tutta Italia, con incantamenti e con malie, che Giovan Galeazzo fu per molti mesi impotente alla consumazione del matrimonio. Alla qual cosa Ferdinando arebbe acconsentito, ma Alfonso repugnò; donde Lodovico, escluso di questa speranza, presa altra moglie e avutine figliuoli, voltò tutti i pensieri a trasferire in quegli il ducato di Milano. Scrivono oltre a questo alcuni che Ferdinando, parato a tollerare qualunque incomodo e indegnità per fuggire la guerra imminente, aveva deliberato, come prima lo permettesse la benignità della stagione, andare in sulle galee sottili per mare a Genova, e di quivi per terra a Milano per sodisfare a Lodovico in tutto quello desiderasse, e rimenarne a Napoli la nipote; sperando che, oltre agli effetti delle cose, questa publica confessione di riconoscere in tutto da lui la salute avesse a mitigare l'animo suo: perché era noto quanto egli con sfrenata ambizione ardesse di desiderio di parere l'àrbitro e quasi l'oracolo di tutta Italia.

                                            Ma Alfonso, subito morto il padre, mandò quattro oratori al pontefice; il quale, facendo segni di essere alla prima inclinazione dell'amicizia franzese ritornato, aveva ne' medesimi dí, per una bolla sottoscritta dal collegio de' cardinali, promesso, a requisizione del re di Francia, al vescovo di San Malò la degnità del cardinalato e condotto a' stipendi comuni col duca di Milano Prospero Colonna, soldato prima del re, e alcuni altri condottieri di gente d'arme: e nondimeno si rendé facile alla concordia, per le condizioni grandi le quali Alfonso, desiderosissimo di assicurarsi di lui e d'obligarlo alla sua difesa, gli propose. Convennono adunque palesemente che tra loro fusse confederazione a difesa degli stati, con determinato numero di gente per ciascuno; concedesse il pontefice a Alfonso l'investitura del regno, con la diminuzione del censo ottenuta per Ferdinando, durante solo la vita sua, dagli altri pontefici, e mandasse uno legato apostolico a incoronarlo; creasse cardinale Lodovico figliuolo di don Enrico fratello naturale d'Alfonso, il quale fu poi chiamato il cardinale d'Aragona; pagasse il re incontinente al pontefice ducati trentamila; desse al duca di Candia stati nel regno d'entrata di dodicimila ducati l'anno e il primo de' sette uffici principali che vacasse; conducesselo per tutta la vita del pontefice a' soldi suoi con trecento uomini d'arme, co' quali fusse tenuto servire parimente l'uno e l'altro di loro; a don Giuffré, che quasi per pegno della fede paterna andasse a abitare appresso al suocero, concedesse, oltre alle cose promesse nella prima convenzione, il protonotariato, uno medesimamente de' sette uffici; e entrate di benefici del regno a Cesare Borgia figliuolo del pontefice, promosso poco innanzi dal padre al cardinalato, avendo, per rimuovere lo impedimento di essere spurio, a' quali non era solito concedersi tale degnità, fatto con falsi testimoni provare che era figliuolo legittimo di altri. Promesse di piú Verginio Orsino, il quale col mandato regio intervenne a questa capitolazione, che 'l re aiuterebbe il pontefice a ricuperare la rocca d'Ostia, in caso che il cardinale di San Piero a Vincola di andare a Roma ricusasse, la quale promessa il re affermava essere stata fatta senza suo consentimento o saputa; e giudicando che in tempo tanto pericoloso fusse molto dannoso l'alienarsi quello cardinale, potente nelle cose di Genova, le quali stimolato da lui disegnava tentare, e perché forse in agitazione sí grave s'arebbe a trattare di concili o di materie pregiudiciali alla sedia apostolica, interpose grandissima diligenza per accordarlo col pontefice: al quale non sodisfacendo in questa cosa condizione alcuna se il Vincola non ritornava a Roma, e essendo il cardinale ostinatissimo a non commettere mai la vita propria alla fede, tali erano le parole sue, di catelani, restò vana la fatica e il desiderio d'Alfonso. Perché il cardinale, poi che ebbe simulatamente dato speranza quasi certa di accettare le condizioni che si trattavano, si partí all'improvviso una notte, in su uno brigantino armato, da Ostia, lasciata bene guardata quella rocca; e soprastato pochi dí a Savona e poi in Avignone, della quale città era legato, andò finalmente a Lione, dove poco innanzi si era trasferito Carlo, per fare con piú comodità e maggiore riputazione le provisioni per la guerra, alla quale già publicava volere andare in persona; e da lui ricevuto con grandissima festa e onore, si congiunse con gli altri che la turbazione d'Italia procuravano.

                                            Né mancava Alfonso, essendogli diventato buon maestro il timore, di continuare con Lodovico Sforza quel che era stato cominciato dal padre, offerendogli le medesime sodisfazioni; il quale egli, secondo il costume suo, si ingegnava di pascere con varie speranze, ma dimostrando essere costretto a procedere con grandissima destrezza e considerazione acciocché la guerra disegnata contro ad altri non avesse principio contro a lui. Ma da altra parte non cessava di sollecitare in Francia le preparazioni; e per farlo con maggiore efficacia e stabilire meglio tutti i particolari di quel che s'avesse a ordinare, e acciocché non si ritardasse poi l'esecuzione delle cose deliberate, vi mandò, dando voce fusse chiamato dal re, Galeazzo da San Severino marito di una sua figliuola naturale, il quale era di grandissima fede e favore appresso a lui.

                                            Per i consigli di Lodovico, mandò Carlo al pontefice quattro oratori, con commissione che nel passare per Firenze facessino instanza per la dichiarazione di quella republica: Eberardo di Ubigní capitano di nazione scozzese, il generale di Francia, il presidente del parlamento di Provenza e il medesimo Perone di Baccie che l'anno precedente v'avea mandato. I quali, secondo la loro istruzione ordinata principalmente a Milano, narrorono nell'uno luogo e nell'altro le ragioni le quali il re di Francia, come successore della casa di Angiò e per essere mancata la linea di Carlo primo, pretendeva al reame di Napoli, e la deliberazione di passare l'anno medesimo personalmente in Italia, non per occupare cosa alcuna appartenente ad altri ma solo per ottenere quello che giustamente se gli aspettava; benché per ultimo fine non avesse tanto il regno di Napoli quanto il potere poi volgere l'armi contro a' turchi, per accrescimento e esaltazione del nome cristiano. Esposono a Firenze quanto il re si confidava di quella città, stata riedificata da Carlo magno e favorita sempre dai re suoi progenitori, e frescamente da Luigi suo padre, nella guerra la quale, sí ingiustamente, fu fatta loro da Sisto pontefice, da Ferdinando prossimamente morto e da Alfonso presente re. Ridusseno alla memoria i comodi grandissimi i quali, per il commercio delle mercatanzie, nella nazione fiorentina del reame di Francia pervenivano, dove era bene veduta e carezzata non altrimenti che se fusse del sangue franzese; col quale esempio, del regno di Napoli, quando fusse signoreggiato da lui, i medesimi benefici e utilità sperare potevano: cosí come dagli Aragonesi giammai altro che danni e ingiurie ricevute non avevano: ricercando volessino fare qualche segno di essere congiunti seco a questa impresa; e quando pure per qualche giusta causa impediti fussino, concedessino almanco passo e vettovaglia per il dominio loro, a spese dell'esercito franzese. Queste cose trattorono con la republica. A Piero de' Medici privatamente ricordorono molti benefici e onori fatti da Luigi undecimo al padre e a' maggiori suoi: avere ne' tempi difficili fatto molte dimostrazioni per conservazione della grandezza d'essi, onorato, in testimonio di benivolenza, le insegne loro con le insegne proprie della casa di Francia; e da altro canto Ferdinando, non contento d'avergli apertamente perseguitati con l'armi, essersi sceleratamente mescolato nelle congiure civili, nelle quali era stato ammazzato Giuliano suo zio e ferito gravemente Lorenzo suo padre. Al pontefice, ricordato gli antichi meriti e la continua divozione della casa di Francia verso la sedia apostolica, delle quali cose erano piene tutte le memorie antiche e moderne, la contumacia e spesse inubbidienze degli Aragonesi, domandorono la investitura del regno di Napoli nella persona di Carlo, come giuridicamente dovutagli; proponendo molte speranze e facendo molte offerte quando fusse propizio a questa impresa, la quale non meno per le persuasioni e autorità sua che per altra cagione era stata deliberata. Alla quale domanda rispose il pontefice che, essendo la investitura di quello reame conceduta da tanti suoi antecessori successivamente a tre re della casa di Aragona, perché nella investitura fatta a Ferdinando nominatamente si comprendeva Alfonso, non era conveniente concederla a Carlo, insino a tanto che per via di giustizia non fusse dichiarato che egli avesse migliori ragioni; alle quali la investitura fatta a Alfonso pregiudicato non avere, perché, per questa considerazione, vi era stato specificato che ella s'intendesse senza pregiudicio di persona. Ricordò il regno di Napoli essere di dominio diretto della sedia apostolica, l'autorità della quale non si persuadeva che il re, contro allo instituto de' suoi maggiori, che sempre ne erano stati precipui difensori, volesse violare, come violerebbe assaltandolo di fatto. Convenire piú alla sua degnità e bontà, pretendendovi ragione, cercarla per via della giustizia, la quale, come signore del feudo e solo giudice di questa causa, si offeriva parato ad amministrargli; né dovere uno re cristianissimo ricercare altro da uno pontefice romano, l'ufficio del quale era proibire, non fomentare, le violenze e le guerre tra i príncipi cristiani. Dimostrò, quando bene volesse fare altrimenti, molte difficoltà e pericoli, per la vicinità di Alfonso e de' fiorentini, l'unione de' quali seguitava tutta la Toscana, e per la dependenza dal re di tanti baroni, gli stati de' quali insino in sulle porte di Roma si distendevano; e si sforzò nondimeno di non tagliare loro interamente la speranza, con tutto che in se medesimo di non partire dalla confederazione fatta con Alfonso determinato avesse.

                                            A Firenze era grande la inclinazione inverso la casa di Francia, per il commercio di tanti fiorentini in quello reame, per l'opinione inveterata, benché falsa, che Carlo magno avesse riedificata quella città, distrutta da Totila re de' goti; per la congiunzione grandissima avuta per lunghissimo tempo da' maggiori loro, come da guelfi, con Carlo primo re di Napoli e con molti de' suoi discendenti, protettori della parte guelfa in Italia; per la memoria delle guerre che prima Alfonso vecchio e dipoi, l'anno mille quattrocento settantotto, Ferdinando, mandatovi in persona Alfonso suo figliuolo, aveva fatte a quella città: per le quali cagioni tutto 'l popolo desiderava che 'l passo si concedesse. Ma non meno lo desideravano i cittadini piú savi e di maggiore autorità nella republica, i quali essere somma imprudenza riputavano il tirare nel dominio fiorentino, per le differenze di altri, una guerra di tanto pericolo, opponendosi a uno esercito potentissimo e alla persona del re di Francia; il quale entrava in Italia co' favori dello stato di Milano e, se non consentendo, almanco non contradicendo il senato viniziano. Confermavano il consiglio loro con l'autorità di Cosimo de' Medici, stato stimato nell'età sua uno de' piú savi uomini d'Italia; il quale nella guerra tra Giovanni d'Angiò e Ferdinando, benché a Ferdinando aderissino il pontefice e il duca di Milano, aveva sempre consigliato che quella città non si opponesse a Giovanni. Riducevano in memoria l'esempio di Lorenzo padre di Piero, il quale in ogni romore della ritornata degli Angioini aveva sempre avuto il medesimo parere; le parole usate spesso da lui, spaventato dalla potenza de' franzesi poi che questo re medesimo aveva ottenuto la Brettagna: apparecchiarsi grandissimi mali agli italiani se il re di Francia conoscesse le forze proprie. Ma Piero de' Medici, misurando piú le cose con la volontà che con la prudenza e prestando troppa fede a se stesso, e persuadendosi che questo moto s'avesse a risolvere piú tosto in romori che in effetti, confortato al medesimo da qualcuno de' ministri suoi corrotto, secondo si disse, da' doni di Alfonso, deliberò pertinacemente di continuare nell'amicizia aragonese: il che bisognava che, per la grandezza sua, tutti gli altri cittadini finalmente acconsentissino. Ho autori da non disprezzare che Piero, non contento della autorità la quale aveva il padre ottenuta nella republica, benché tale che secondo la disposizione sua i magistrati si creavano, da' quali le cose di maggiore momento non senza il parere suo si deliberavano, aspirasse a piú assoluta potestà e a titolo di principe; non misurando saviamente le condizioni della città, la quale, essendo allora potente e molto ricca, e nutrita, già per piú secoli, con apparenza di republica, e i cittadini maggiori soliti a partecipare nel governo piú presto simili a compagni che a sudditi, non pareva che senza violenza grande avesse a tollerare tanta e sí subita mutazione: e perciò, che Piero, conoscendo che a sostentare questa sua cupidità bisognavano estraordinari fondamenti, era, per farsi uno appoggio potente alla conservazione del nuovo principato, immoderatamente ristrettosi con gli Aragonesi e determinato di correre con loro la medesima fortuna. E accadde per avventura che, pochi dí innanzi che gli oratori franzesi arrivassino in Firenze, erano venute a luce alcune pratiche, le quali Lorenzo e Giovanni de' Medici, giovani ricchissimi e congiuntissimi a Piero di sangue, alienatisi, per cause che ebbono origine giovenile, da lui, avevano, per mezzo di Cosimo Rucellai fratello cugino di Piero, tenute con Lodovico Sforza, e per introduzione sua col re di Francia, le quali tendevano direttamente contro alla grandezza di Piero; per il che, ritenuti da' magistrati, furono con leggierissima punizione rilegati nelle loro ville, perché la maturità de' cittadini, benché non senza molta difficoltà, indusse Piero a consentire che contro al sangue proprio non si usasse il giudicio severo delle leggi: ma avendolo certificato questo accidente che Lodovico Sforza era intento a procurare la sua ruina, stimò essere tanto piú necessitato a perseverare nella prima deliberazione. Fu adunque risposto agli oratori con ornate e reverenti parole ma senza la conclusione desiderata da loro, dimostrando da una parte la naturale divozione de' fiorentini alla casa di Francia e il desiderio immenso di sodisfare a cosí glorioso re, dall'altra gli impedimenti: perché niuna cosa era piú indegna de' príncipi e delle republiche che non osservare la fede promessa, la quale senza maculare espressamente non potevano consentire alle sue dimande; conciossiacosaché ancora non fusse finita la confederazione la quale, per l'autorità del re Luigi suo padre, era stata fatta con Ferdinando, con patto che dopo la morte sua si distendesse ad Alfonso, e con espressa condizione di essere non solo obligati alla difesa del regno di Napoli ma a proibire il passo per il territorio loro a chi andasse a offenderlo. Ricevere somma molestia di non potere deliberare altrimenti, ma sperare che 'l re, sapientissimo e giustissimo, conosciuta la loro ottima disposizione, attribuirebbe quel che non si prometteva agli impedimenti, tanto giusti. Da questa risposta sdegnato, il re fece partire subito di Francia gl'imbasciadori de' fiorentini e scacciò da Lione, secondo il consiglio di Lodovico Sforza, non gli altri mercatanti ma i ministri solo del banco di Piero de' Medici, acciocché a Firenze si interpretasse lui riconoscere questa ingiuria dalla particolarità di Piero non dalla universalità de' cittadini.

                                            Cosí dividendosi tutti gli altri potentati italiani, quali in favore del re di Francia quali in contrario, soli i viniziani deliberavano, standosi neutrali, aspettare oziosamente l'esito di queste cose; o perché non fusse loro molesto che Italia si perturbasse, sperando per le guerre lunghe degli altri potersi ampliare l'imperio veneto, o perché, non temendo per la grandezza loro dovere essere facilmente preda del vincitore, giudicassino imprudente consiglio il fare proprie senza evidente necessità le guerre d'altri: benché e Ferdinando non cessasse continuamente di stimolargli e che il re di Francia, l'anno dinanzi e in questo tempo medesimo, v'avesse mandato imbasciadori, i quali avevano esposto che tra la casa di Francia e quella republica non era stata altro che amicizia e benivolenza e da ogni banda amorevoli e benigni uffici, dove fusse stata l'occasione; la quale disposizione il re desideroso di augumentare, pregava quello sapientissimo senato che all'impresa sua volesse dare consiglio e favore. Alla quale esposizione avevano prudente e brevemente risposto: quel re cristianissimo essere re di tanta sapienza e avere appresso a sé tanto grave e maturo consiglio, che troppo presumerebbe di se medesimo chiunque ardisse consigliarlo; soggiugnendo che al senato viniziano sarebbono gratissime tutte le sue prosperità, per l'osservanza avuta sempre a quella corona: e perciò essergli molestissimo di non potere co' fatti corrispondere alla prontezza dell'animo, perché per il sospetto nel quale gli teneva continuamente il gran turco, che aveva cupidità e opportunità grandissima di offendergli, la necessità gli costrigneva a tenere sempre guardate con grandissima spesa tante isole e tante terre marittime vicine a lui, e ad astenersi sopratutto da implicarsi in guerre con altri.

                                             

                                                 Lib.1, cap.7

                                                  

                                                 I preparativi del re di Francia per la spedizione contro il reame di Napoli e quelli di Alfonso per la difesa del reame. Aperte manifestazioni d'inimicizia di Alfonso verso Lodovico Sforza. Piani di guerra e progetti di Alfonso. Il papa, con l'aiuto di Alfonso, prende la rocca di Ostia, tenuta dalle genti del card. della Rovere. Lodovico Sforza, affermando al papa e a Piero de' Medici la sua inclinazione alla pace, li rende indecisi negli aiuti ad Alfonso. Accordi per la comune difesa fra il pontefice e il re di Napoli. Condotta e propositi de' Colonnesi.

                                             

                                            Ma molto piú che le orazioni degli imbasciadori e le risposte fatte loro importavano le preparazioni marittime e terrestri le quali già per tutto si facevano. Perché Carlo aveva mandato Pietro di Orfé, suo grande scudiere, a Genova, la quale città il duca di Milano, con le spalle della fazione Adorna e di Giovan Luigi dal Fiesco, signoreggiava, a mettere in ordine una potente armata di navi grosse e di galee sottili; e faceva oltre a questo armare altri legni ne' porti di Villafranca e di Marsilia: onde era divulgato nella sua corte disegnarsi da lui di entrare nel reame di Napoli per mare, come già contro a Ferdinando aveva fatto Giovanni figliuolo di Renato. E in Francia benché molti credessino che, per l'incapacità del re e per le piccole condizioni di quegli che ne lo confortavano e per la carestia de' danari, avessino finalmente questi apparati a diventare vani; nondimeno per l'ardore del re, il quale nuovamente, con consiglio de' suoi piú intimi, aveva assunto il titolo di re di Jerusalem e delle due Sicilie (era questo allora il titolo de' re napoletani), si attendeva ferventemente alle provisioni della guerra, raccogliendo danari, riordinando le genti d'arme e ristrignendo i consigli con Galeazzo da San Severino, nel petto del quale tutti i segreti e tutte le deliberazioni di Lodovico Sforza si rinchiudevano. E da altra parte Alfonso, il quale non aveva mai pretermesso di prepararsi per terra e per mare, giudicando non essere piú tempo a lasciarsi ingannare dalle speranze date da Lodovico e dovere piú giovare lo spaventarlo e il molestarlo che l'affaticarsi per assicurarlo e mitigarlo, comandò all'oratore milanese che si partisse da Napoli, richiamò quello che per lui risedeva a Milano, e fece prendere la possessione e sequestrare l'entrate del ducato di Bari, stato posseduto da Lodovico molti anni per donazione fattagli da Ferdinando. Né contento a queste piú presto dimostrazioni di aperta inimicizia che offese, voltò tutto l'animo ad alienare dal duca di Milano la città di Genova; cosa nelle agitazioni presenti di grandissima importanza, perché per la mutazione di quella città si acquistava grandissima facilità di perturbare contro a Lodovico il governo di Milano, e il re di Francia si privava della opportunità di molestare per mare il regno di Napoli. Però, convenutosi secretamente con Pagolo Fregoso cardinale, che era già stato doge di Genova, e il quale era seguitato da molti della medesima famiglia, e con Obietto dal Fiesco, capi tutt'a due di seguito grande in quella città e nelle sue riviere, e con alcuni degli Adorni, tutti per diverse cagioni fuorusciti di Genova, deliberò di tentare con armata potente di rimettergli dentro, solito a dire che con le prevenzioni e con le diversioni si vincevano le guerre. Deliberò medesimamente di andare con valido esercito personalmente in Romagna, per passare subito nel territorio di Parma; dove, chiamando il nome di Giovan Galeazzo e alzando le sue bandiere, sperava che i popoli del ducato di Milano contro a Lodovico tumultuassino. E quando bene in queste cose trovasse difficoltà, giudicava essere utilissimo che la guerra si incominciasse in luogo lontano dal suo reame; stimando alla somma del tutto importare assai che i franzesi fussino sopragiunti in Lombardia dalla vernata, come quello che, esperimentato solamente nelle guerre d'Italia, nelle quali gli eserciti, aspettando la maturità dell'erbe per nutrimento de' cavalli, non solevano uscire alla campagna prima che alla fine del mese di aprile, presupponeva che, per fuggire l'asprezza di quella stagione, sarebbono necessitati fermarsi nel paese amico insino alla primavera; e sperava che in questa dilazione potesse facilmente nascere qualche occasione alla sua salute. Mandò ancora imbasciadori in Costantinopoli, a dimandare aiuto, come in pericolo comune, a Baiseto ottomano principe de' turchi, per quello che della intenzione di Carlo di passare in Grecia, vinto che avesse lui, si divulgava; il quale pericolo sapeva non essere da Baiseto disprezzato, perché, per la memoria delle espedizioni fatte ne' tempi passati in Asia contro agli infedeli dalla nazione franzese, non era piccolo il timore che i turchi avevano delle armi loro.

                                            Le quali cose mentre che da ogni parte si sollecitano, il papa mandò le genti sue a Ostia, sotto il governo di Niccola Orsino conte di Pitigliano, porgendogli aiuto Alfonso per terra e per mare; e avendo presa senza difficoltà la terra e cominciato a percuotere con l'artiglierie la rocca, il castellano, per interposizione di Fabrizio Colonna e consentendo Giovanni della Rovere prefetto di Roma fratello del cardinale di San Piero in Vincola, dopo non molti dí la dette, con patto che il pontefice non perseguitasse, né con le censure né con l'armi, il cardinale né il prefetto, se non gli fussino date da loro nuove cagioni; e a Fabrizio, in cui mano il cardinale aveva lasciato Grottaferrata, fu permesso che, pagando al papa diecimila ducati, continuasse di possederla con le medesime ragioni.

                                            Ma Lodovico Sforza, al quale il cardinale aveva, quando passò da Savona, manifestato quel che occultamente, per consiglio e mezzo suo, trattava Alfonso co' fuorusciti di Genova, dimostrato a Carlo quanto grande impedimento ne risulterebbe a' disegni suoi, lo indusse a ordinare di mandare a Genova dumila svizzeri e a fare passare subito in Italia trecento lancie, acciocché sotto il governo di Obigní, il quale, ritornato da Roma, si era per comandamento del re fermato a Milano, fussino pronte e ad assicurare la Lombardia e a passare piú avanti se la necessità o l'occasione lo ricercassino; congiugnendosi con loro cinquecento uomini d'arme italiani, condotti nel tempo medesimo agli stipendi del re sotto Giovanfrancesco da San Severino conte di Gaiazzo, Galeotto Pico conte della Mirandola e Ridolfo da Gonzaga, e cinquecento altri i quali era obligato a dargli il duca di Milano. E nondimeno Lodovico, non pretermettendo le solite arti, non cessava di confermare al pontefice e a Piero de' Medici la disposizione sua alla quiete e sicurtà d'Italia, dando ora una speranza ora un'altra che presto dimostrazione evidente n'apparirebbe. Non può quasi essere che quello che molto efficacemente si afferma non faccia qualche ambiguità, eziandio negli animi determinati a credere il contrario: però, se bene alle promesse sue non fusse piú prestata fede, non era perciò che per quelle in qualche parte non s'allentassino le imprese deliberate. Perché al pontefice e a Piero de' Medici sarebbe sommamente piaciuto il tentare le cose di Genova, ma perché per questo lo stato di Milano direttamente si offendeva, il papa, richiesto da Alfonso delle galee e di unire seco in Romagna le sue genti, concedeva che le genti si unissino per la difesa comune in Romagna ma non già che passassino piú avanti, e delle galee faceva difficoltà, allegando non essere ancora tempo a mettere Lodovico in tanta disperazione; e i fiorentini, richiesti di dare ricetto e rinfrescamento all'armata regia nel porto di Livorno, stavano sospesi per il medesimo rispetto e perché, essendosi scusati dalle dimande fatte dal re di Francia sotto pretesto della confederazione fatta con Ferdinando, malvolentieri si disponevano, insino che la necessità gli costrignesse, a fare piú oltre che per virtú di quella fussino tenuti.

                                            Ma non comportando piú le cose maggiore dilazione, finalmente l'armata, sotto don Federigo ammiraglio del mare, partí da Napoli; e Alfonso in persona raccolse l'esercito suo nell'Abruzzi per passare in Romagna. Ma gli parve necessario, innanzi procedesse piú oltre, di essere a parlamento col pontefice, desideroso del medesimo, per stabilire tutto quello che fusse da fare per la salute comune: però, il terzodecimo dí di luglio, si convennono insieme a Vicovaro terra di Verginio Orsino, dove dimorati tre dí si partirono molto concordi. Deliberossi in questo parlamento, per consiglio del pontefice, che la persona del re non passasse piú avanti, ma che dello esercito suo, quale il re affermava essere poco manco di cento squadre d'uomini d'arme, contando venti uomini d'arme per squadra, e piú di tremila tra balestrieri e cavalli leggieri, si fermasse seco una parte ne confini dell'Abruzzi, verso le Celle e Tagliacozzo, per sicurtà dello stato ecclesiastico e del suo; e che Verginio rimanesse in terra di Roma per fare contrapeso a' Colonnesi, per il sospetto de' quali stessino fermi in Roma dugento uomini d'arme del papa e una parte de' cavalli leggieri del re; e che in Romagna andasse, con settanta squadre, col resto della cavalleria leggiera e con la maggiore parte delle genti ecclesiastiche, date solo per difesa, Ferdinando duca di Calavria (era questo il titolo de' primogeniti de' re di Napoli), giovane di alta speranza, menando seco, come moderatori della sua gioventú, Giovaniacopo da Triulzi governatore delle genti regie e il conte di Pitigliano, il quale dal soldo del papa era passato al soldo del re, capitani di esperienza e di riputazione: e pareva molto a proposito, avendosi a passare in Lombardia, la persona di Ferdinando, perché era congiunto di stretto e doppio parentado a Giovan Galeazzo, marito d'Isabella sua sorella e figliuolo di Galeazzo fratello di Ippolita, la quale era stata madre di Ferdinando. Ma una delle piú importanti cose che tra il pontefice e Alfonso si trattassino fu sopra i Colonnesi, perché per segni manifesti si comprendeva che aspiravano a nuovi consigli: imperocché, essendo stati Prospero e Fabrizio agli stipendi del re morto e da lui ottenuto stati e onorate condizioni, non solamente, morto lui, Prospero, dopo molte promesse fatte ad Alfonso di ricondursi seco, si era condotto, per opera del cardinale Ascanio, a comune col pontefice e col duca di Milano, né voluto poi consentire che tutta la sua condotta nel pontefice, che ne lo ricercava, si riducesse; ma Fabrizio, il quale aveva continuato negli stipendi di Alfonso, vedendo lo sdegno del papa e del re contro a Prospero, faceva difficoltà di andare col duca di Calavria in Romagna se prima con qualche modo conveniente non si stabilivano e assicuravano le cose di Prospero e di tutta la famiglia de' Colonnesi. Questo era il colore delle loro difficoltà, ma in segreto, amendue tirati dall'amicizia che avevano grande con Ascanio, il quale, partitosi pochi dí innanzi di Roma per sospetto del papa, si era ridotto nelle loro terre, e da speranza di maggiori premi, e molto piú per dispiacere che 'l primo luogo con Alfonso e piú ampia partecipazione delle sue prosperità fusse di Verginio Orsino, capo della fazione avversa, si erano condotti agli stipendi del re di Francia: il che per tenere occulto, insino a tanto giudicassino di potere sicuramente dichiararsi soldati suoi, simulando desiderio di convenire col pontefice e con Alfonso, i quali faceano instanza che Prospero, pigliando la medesima condotta da loro, perché altrimenti non potevano essere sicuri di lui, lasciasse i soldi del duca di Milano, trattavano continuamente con loro, ma per non conchiudere movevano ora una ora un'altra difficoltà nelle condizioni che erano proposte. Nella quale pratica era tra Alessandro e Alfonso diversità di volontà: perché Alessandro, desideroso di spogliargli delle castella le quali in terra di Roma possedevano, aveva cara l'occasione di assaltargli; e Alfonso, non avendo altro fine che di assicurarsi, non inclinava alla guerra se non per ultimo rimedio, ma non ardiva di opporsi alla sua cupidità. Però deliberorno di costrignergli con l'armi, e si stabilí con che forze e con che ordine; ma fatta prima esperienza se fra pochi dí si potessino comporre le cose loro.

                                             

                                                 Lib.1, cap.8

                                                  

                                                 La spedizione dell'armata di Alfonso d'Aragona contro Genova; tentativi contro la riviera di levante e loro fallimento. La spedizione dell'esercito di Alfonso in Romagna e le prime difficoltà incontrate. Piero de' Medici fa unire truppe soldate da' fiorentini all'esercito aragonese. Azione del pontefice e di Alfonso presso il senato veneziano, presso i re di Spagna e presso Baiset. Nuovi intrighi di Lodovico Sforza.

                                                  

                                            Trattavansi queste e molte altre cose da ogni parte; ma finalmente dette principio alla guerra d'Italia l'andata di don Federigo alla impresa di Genova, con armata senza dubbio maggiore e meglio proveduta che già molti anni innanzi avesse corso per il mare Tirreno armata alcuna; perché ebbe trentacinque galee sottili, diciotto navi e piú altri legni minori, molte artiglierie, e tremila fanti da porre in terra. Per i quali apparati, e per avere seco i fuorusciti, si era mossa da Napoli con grande speranza della vittoria; ma la tardità della partita sua, causata dalle difficoltà che hanno comunemente i moti grandi, e in qualche parte dalle speranze artificiose date da Lodovico Sforza, e dipoi l'essere soprastata, per soldare insino al numero di quattromila fanti, ne porti de' sanesi, aveva fatto difficile quel che tentato uno mese prima sarebbe stato molto facile. Perché avendo gli avversari avuto tempo di fare potente provisione, era già entrato in Genova il baglí di Digiuno con dumila svizzeri soldati dal re di Francia, e già in ordine molte delle navi e delle galee le quali in quel porto si armavano; arrivatavi similmente una parte de' legni armati a Marsilia; e Lodovico, non perdonando a spesa alcuna, v'avea mandato Guasparri da San Severino detto il Fracassa e Antonio Maria suo fratello con molti fanti; e per aiutarsi non meno della benivolenza de' genovesi medesimi che delle forze forestiere, stabilito, con doni con provisioni con danari con promesse e con vari premi l'animo di Giovan Luigi dal Fiesco fratello di Obietto, degli Adorni e di molti altri gentiluomini e popolari, importanti a tenere ferma alla sua divozione quella città; e da altra parte chiamato a Milano, da Genova e delle terre delle riviere, molti seguaci de' fuorusciti. A questi provedimenti, potenti per se stessi, aggiunse molto di riputazione e di fermezza la persona di Luigi duca di Orliens, il quale, ne' medesimi dí che l'armata aragonese si scoperse nel mare di Genova, entrò per commissione del re di Francia in quella città, avendo prima parlato in Alessandria sopra le cose comuni con Lodovico Sforza; il quale (come sono piene di oscure tenebre le cose de' mortali) l'aveva ricevuto lietamente e con grande onore, ma come pari, non sapendo quanto presto in potestà di lui avesse a essere costituito lo stato e la vita sua. Queste cose furono cagione che gli aragonesi, che prima avevano disegnato di presentarsi con l'armata nel porto di Genova, sperando che i seguaci de' fuorusciti facessino qualche sollevazione, mutato consiglio, deliberorno d'assaltare le riviere; e dopo qualche varietà di opinione, in quale riviera o di levante o di ponente fusse da cominciare, seguitato il parere di Obietto, che si prometteva molto degli uomini della riviera di levante, si dirizzorno alla terra di Portovenere; alla quale terra, perché da Genova vi erano stati mandati quattrocento fanti e gli animi degli abitatori confermati da Gianluigi dal Fiesco che era venuto alla Spezie, dettono piú ore invano la battaglia, in modo che, perduta la speranza di espugnarla, si ritirorno nel porto di Livorno per rinfrescarsi di vettovaglie e accrescere il numero de' fanti; perché intendendo le terre della riviera essere bene provedute, giudicavano necessarie forze maggiori. Dove don Federigo, avuta notizia l'armata franzese, inferiore alla sua di galee ma superiore di navi, prepararsi per uscire del porto di Genova, rimandò a Napoli le navi sue, per potere con la celerità delle galee piú espeditamente dagl'inimici discostarsi, quando unite le navi e le galee andassino ad assaltarlo; restandogli nondimeno la speranza di opprimergli se le galee dalle navi, o per caso o per volontà, si separassino.

                                            Camminava in questo tempo medesimo con l'esercito terrestre il duca di Calavria verso Romagna, con intenzione di passare poi, secondo le prime deliberazioni, in Lombardia; ma per avere il transito libero né lasciarsi impedimenti alle spalle, era necessario congiugnersi lo stato di Bologna e le città d'Imola e di Furlí; perché Cesena, città suddita immediatamente al pontefice, e la città di Faenza suddita a Astore de' Manfredi, piccolo fanciullo, soldato e che si reggeva sotto la protezione de' fiorentini, erano per dare spontaneamente tutte le comodità all'esercito aragonese. Dominava Furlí e Imola, con titolo di vicario della Chiesa, Ottaviano figliuolo di Ieronimo da Riario, ma sotto la tutela e il governo di Caterina Sforza sua madre: con la quale avevano trattato, già piú mesi, il pontefice e Alfonso di condurre Ottaviano a' soldi comuni, con obligazione che comprendesse gli stati suoi; ma restava la cosa imperfetta, parte per difficoltà interposte da lei per ottenere migliori condizioni, parte perché i fiorentini, persistendo nella prima deliberazione di non eccedere contro al re di Francia le obligazioni le quali avevano con Alfonso, non si risolvevano di concorrere a questa condotta, alla quale era necessario il consenso loro, perché il pontefice e il re ricusavano di sostenere soli questa spesa, e molto piú perché Caterina negava di mettere in pericolo quelle città se insieme con gli altri i fiorentini alla difesa degli stati del figliuolo non si obligavano. Rimosse queste difficoltà il parlamento che ebbe Ferdinando, mentre che per la via della Marecchia conduce l'esercito in Romagna, con Piero de' Medici, al Borgo a San Sepolcro, perché nel primo congresso gli offerse, per commissione d'Alfonso suo padre, che usasse e sé e quell'esercito a ogni intento suo, delle cose di Firenze di Siena e di Faenza; donde diventata ardente in Piero la prima caldezza, ritornato a Firenze, volle, benché dissuadendolo i cittadini piú savi, che si prestasse il consenso a quella condotta, perché con somma instanza n'era stato pregato da Ferdinando: la quale essendosi fatta a spese comuni del pontefice d'Alfonso e de' fiorentini, si congiunsono, pochi dí poi, la città di Bologna, conducendo nel medesimo modo Giovanni Bentivogli, sotto la cui autorità e arbitrio si governava; al quale promesse il pontefice, aggiugnendovisi la fede del re e di Piero de' Medici, di creare cardinale Antonio Galeazzo suo figliuolo, allora protonotario apostolico. Dettono queste condotte riputazione grande all'esercito di Ferdinando, ma molto maggiore l'arebbono data se con questi successi fusse entrato prima in Romagna; ma la tardità di muoversi del regno e la sollecitudine di Lodovico Sforza aveva fatto che non prima arrivò Ferdinando a Cesena che Obigní e il conte di Gaiazzo, governatore delle genti sforzesche, con parte dello esercito destinato a opporsi agli aragonesi essendo passati senza ostacolo per il bolognese, entrorono nel contado d'Imola. Perciò, interrotte a Ferdinando le prime speranze di passare in Lombardia, fu necessario fermare la guerra in Romagna: dove, seguitando l'altre città la parte aragonese, Ravenna e Cervia, città suddite a' viniziani, non aderivano a alcuno; e quel piccolo paese il quale, contiguo al fiume del Po, teneva il duca di Ferrara non mancava di qualunque comodità alle genti franzesi e sforzesche.

                                            Ma né per le difficoltà riscontrate nella impresa di Genova né per lo impedimento sopravenuto in Romagna la temerità di Piero de' Medici si raffrenava. Il quale essendosi con secreta convenzione, fatta senza saputa della republica col pontefice e con Alfonso, obligato a opporsi scopertamente al re di Francia, non solo aveva consentito che l'armata napoletana avesse ricetto e rinfrescamento nel porto di Livorno e comodità di soldare fanti per tutto il dominio fiorentino, ma non potendo piú contenersi dentro a termine alcuno, operò che Annibale Bentivoglio figliuolo di Giovanni, il quale era soldato de' fiorentini, con la compagnia sua, e la compagnia di Astore de' Manfredi, si unissino con l'esercito di Ferdinando, subito che entrò nel contado di Furlí; al quale fece inoltre mandare mille fanti e artiglierie. Simile disposizione appariva continuamente nel pontefice: il quale, oltre alle provisioni dell'armi, non contento d'avere con uno breve esortato prima Carlo a non passare in Italia e a procedere per la via della giustizia e non con l'armi, gli comandò poi per un altro breve le cose medesime sotto pena delle censure ecclesiastiche; e per il vescovo di Calagorra nunzio suo in Vinegia, dove al medesimo effetto erano gli oratori di Alfonso, e benché non con dimande cosí scoperte quelli de' fiorentini, stimolò molto il senato viniziano che, per beneficio comune d'Italia, s'opponesse con l'armi al re di Francia, o almeno a Lodovico Sforza vivamente facesse intendere avere molestia di questa innovazione: ma il senato, facendo rispondere per il doge non essere ufficio di savio principe tirare la guerra nella casa propria per rimuoverla della casa di altri, non consentí di fare, né con dimostrazioni né con effetti, opera alcuna che potesse dispiacere a niuna delle parti. E perché il re di Spagna, ricercato instantemente dal pontefice e da Alfonso, prometteva di mandare la sua armata con molta gente in Sicilia, per soccorrere quando bisognasse il regno di Napoli, ma si scusava non potere essere sí presta per la difficoltà che aveva di danari; il pontefice, oltre a certa quantità mandatagli da Alfonso, consentí che e' potesse convertire in quest'uso i danari riscossi con l'autorità della sedia apostolica, sotto nome della crociata, in Ispagna, che spendere contro ad altri che contro agli inimici della fede cristiana non si potevano. A' quali opprimere tanto alieno era il pensiero loro che Alfonso, oltre a altri uomini mandati prima al gran turco, vi mandò di nuovo Cammillo Pandone; con cui andò, mandato secretamente dal pontefice, Giorgio Bucciardo genovese, che altre volte papa Innocenzio v'avea mandato: i quali, onorati da Baiseto eccessivamente e espediti quasi subito, riportorono promesse grandi di aiuti; le quali, benché confermate poco poi da uno imbasciadore mandato da Baiseto a Napoli, o per la distanza de' luoghi o per essere difficile la confidenza tra i turchi e i cristiani, effetto alcuno non partorirono.

                                            Nel quale tempo Alfonso e Piero de' Medici, non essendo prosperi i successi dell'armi né per mare né per terra, si ingegnorono di ingannare Lodovico Sforza con l'astuzie e arti sue; ma non già con migliore evento della industria che delle forze. È stata opinione di molti che a Lodovico, per la considerazione del pericolo proprio, fusse molesto che 'l re di Francia acquistasse il regno di Napoli, ma che il disegno suo fusse, poiché avesse fatto sé duca di Milano e fatto passare l'esercito franzese in Toscana, interporsi a qualche concordia; per la quale, riconoscendosi Alfonso tributario della corona di Francia, con assicurare il re dell'osservanza, e smembrate forse da' fiorentini le terre le quali tenevano nella Lunigiana, il re se ne ritornasse in Francia: e cosí, restando sbattuti i fiorentini e diminuito il re di Napoli di forze e d'autorità, egli, diventato duca di Milano, avesse conseguito tanto che gli bastasse a essere sicuro, senza incorrere ne' pericoli imminenti dalla vittoria de' franzesi. Avere sperato che Carlo, sopravenendone massime la vernata, avesse a trovare qualche difficoltà la quale il corso della vittoria gli ritenesse; e attesa la impazienza naturale de' franzesi, l'essere il re male proveduto di danari, e la volontà di molti de' suoi aliena da questa impresa, si potesse facilmente trovare mezzo di concordia. Quel che di tale cosa sia la verità, certo è che, se bene nel principio Lodovico si fusse per separare Piero de' Medici dagli Aragonesi grandemente affaticato, cominciò poi occultissimamente a confortarlo a perseverare nella sua sentenza, promettendogli di operare o che 'l re di Francia non passerebbe o che, passando, ritornerebbe presto, e innanzi che avesse tentato cosa alcuna di qua da' monti: né cessava, per mezzo dello oratore suo risedente in Firenze, fare seco spesso, questa instanza, o perché cosí fusse veramente la sua intenzione o perché, determinato già alla rovina di Piero, desiderasse che e' procedesse tant'oltre contro al re che non gli restasse luogo di reconciliazione. Deliberato adunque Piero, con saputa d'Alfonso, di fare noto questo andamento al re di Francia, chiamò uno dí a casa sua, sotto colore di essere indisposto della persona, lo imbasciadore milanese, avendo prima ascoso quello del re, che era in Firenze, in luogo donde comodamente i ragionamenti loro udire potesse. Quivi Piero, repetute con parole distese le persuasioni e le promesse di Lodovico, e che per l'autorità sua era stato pertinace a non consentire le dimande di Carlo, si lamentò gravemente che egli con tanta instanza sollecitasse la sua passata, conchiudendo che, poi che i fatti non corrispondevano alle parole, era necessitato a risolversi di non si ristrignere in tanto pericolo. Rispondeva il milanese non dovere Piero dubitare della fede di Lodovico, se non per altro perché almeno era similmente a lui pernicioso che Carlo pigliasse Napoli, confortandolo efficacemente a perseverare nella medesima sentenza, perché partendosene sarebbe cagione di ridurre se stesso e Italia tutta in servitú. Del quale ragionamento l'oratore franzese dette subito notizia al suo re, affermando che era tradito da Lodovico: e nondimeno non partorí questa astuzia l'effetto il quale il re Alfonso e Piero avevano sperato; anzi, rivelato dai franzesi medesimi a Lodovico, rendé piú ardente lo sdegno e l'odio conceputo prima contro a Piero, e la sollecitudine di stimolare il re di Francia che non consumasse piú il tempo inutilmente.

                                             

                                             

                                                 Lib.1, cap.9

                                                  

                                                 Paurosi prodigi e terrore in Italia per la venuta de' francesi. Improvvisa incertezza del re di Francia per l'opposizione della corte alla spedizione in Italia. Incitamenti del cardinale di San Pietro in Vincoli. Il passaggio delle Alpi pel Monginevra e l'entrata in Asti di Carlo VIII. Suo ritratto fisico e morale.

                                                  

                                                 E già non solo le preparazioni fatte per terra e per mare ma il consentimento de' cieli e degli uomini pronunziavano a Italia le future calamità. Perché quegli che fanno professione d'avere, o per scienza o per afflatto divino, notizia delle cose future, affermavano con una voce medesima apparecchiarsi maggiori e piú spesse mutazioni, accidenti piú strani e piú orrendi che già per molti secoli si fussino veduti in parte alcuna del mondo. Né con minore terrore degli uomini risonava per tutto la fama essere apparite, in varie parti d'Italia, cose aliene dall'uso della natura e de' cieli. In Puglia, di notte, tre soli in mezzo 'l cielo ma nubiloso all'intorno e con orribili folgori e tuoni; nel territorio di Arezzo, passati visibilmente molti dí per l'aria infiniti uomini armati in su grossissimi cavalli, e con terribile strepito di suoni di trombe e di tamburi; avere in molti luoghi d'Italia sudato manifestamente le immagini e le statue sacre; nati per tutto molti mostri d'uomini e d'altri animali; molte altre cose sopra l'ordine della natura essere accadute in diverse parti: onde di incredibile timore si riempievano i popoli, spaventati già prima per la fama della potenza de' franzesi, della ferocia di quella nazione, con la quale (come erano piene l'istorie) aveva già corso e depredato quasi tutta Italia, saccheggiata e desolata con ferro e con fuoco la città di Roma, soggiogato nell'Asia molte provincie; né essere quasi parte alcuna del mondo che in diversi tempi non fusse stata percossa dall'armi loro. Dava solamente agli uomini ammirazione che in tanti prodigi non si dimostrasse la stella cometa, la quale gli antichi reputavano certissimo messaggiere della mutazione de' regni e degli stati.

                                            Ma a' segni celesti, predizioni, pronostichi e prodigi accresceva ogni dí piú la fede l'appropinquarsi degli effetti; perché Carlo, continuando nel suo proposito, era venuto a Vienna città del Dalfinato, non potendo rimuoverlo dal passare personalmente in Italia né i prieghi di tutto il regno né la carestia di danari, che era tale che e' non ebbe modo a provedere a' presenti bisogni se non con lo impegnare, per non molta quantità di danari, certe gioie prestategli dal duca di Savoia, dalla marchesana di Monferrato e da altri signori della corte. Perché la pecunia che aveva raccolta prima, delle entrate di Francia, e quella che gli era stata prestata da Lodovico, n'aveva spesa parte nelle armate di mare, nelle quali si collocava da principio speranza grande della vittoria, parte, innanzi si movesse da Lione, donata inconsideratamente a varie persone; né essendo allora i príncipi pronti a estorquere danari da' popoli, come dipoi, conculcando il rispetto di Dio e degli uomini, ha insegnato l'avarizia e le immoderate cupidità, non gli era facile l'accumularne di nuovo. Tanto piccoli furono gli ordini e i fondamenti di muovere una guerra cosí grave! guidandolo piú la temerità e l'impeto che la prudenza e il consiglio. Ma come spesso accade che, quando si viene a dare principio all'esecuzione delle cose nuove, grandi e difficili, benché già deliberate, si rappresentano pure all'intelletto degli uomini le ragioni le quali si possono considerare in contrario; essendo il re in procinto di partirsi, anzi camminando già verso i monti le genti d'arme, sorse uno grave mormorío per tutta la corte, mettendo in considerazione chi le difficoltà ordinarie di tanta impresa, chi il pericolo della infedeltà degli italiani, e sopra tutti gli altri di Lodovico Sforza, ricordando l'avviso venuto da Firenze delle sue fraudi (e per avventura tardavano ad arrivare certi danari che s'aspettavano da lui): in modo che non solo contradicevano audacemente (come interviene quando pare che 'l consiglio si confermi dall'evento delle cose) quegli che avevano sempre dannata questa impresa; ma alcuni di coloro che ne erano stati principali confortatori, e tra gli altri il vescovo di San Malò, cominciorno non mediocremente a vacillare: e ultimatamente, pervenuto agli orecchi del re questo romore, fece movimento tale in tutta la corte e nella mente sua medesima, e tale inclinazione di non procedere piú oltre, che subito comandò che le genti si fermassino; e perciò molti signori i quali già erano in cammino publicandosi essere deliberato che piú non si passasse in Italia, se ne ritornorono alla corte. E andava (come si crede) innanzi facilmente questa mutazione, se 'l cardinale di San Piero a Vincola, fatale instrumento, e allora e prima e poi, de' mali d'Italia, non avesse con l'autorità e veemenza sua riscaldato gli spiriti quasi addiacciati, e ridirizzato l'animo del re alla deliberazione di prima; riducendogli non solo in memoria le ragioni le quali a sí gloriosa espedizione eccitato l'aveano, ma proponendogli innanzi agli occhi con gravissimi stimoli la infamia la quale per tutto il mondo dalla leggiera mutazione di cosí onorato consiglio gli perverrebbe. E per che cagione avere adunque, con la restituzione delle terre del contado d'Artois, indebolito da quella parte le frontiere del regno suo? per che cagione, con tanto dispiacere non meno della nobiltà che de' popoli, avere aperto al re di Spagna, dandogli la contea di Rossiglione, una delle porte di Francia? Solere consentire simili cose gli altri re o per liberarsi da urgentissimi pericoli o per conseguirne grandissime utilità. Ma quale necessità, quale pericolo avere mosso lui? quale premio aspettarne? quale frutto risultargliene se non l'avere comperato con carissimo prezzo una vergogna molto maggiore? Che accidenti essere nati, che difficoltà sopravenute, che pericoli scopertisi, dopo l'avere publicato la impresa per tutto il mondo? e non piú tosto crescere manifestamente ognora la speranza della vittoria? essendo già restati vani i fondamenti in su i quali gli inimici aveano posta tutta la speranza della difesa: perché e l'armata aragonese, rifuggita vituperosamente, dopo avere data invano la battaglia a Portovenere, nel porto di Livorno, non potere fare piú frutto alcuno contro a Genova, difesa da tanti soldati e da armata piú potente di quella; e l'esercito di terra, fermatosi in Romagna per la resistenza di piccolo numero di franzesi, non avere ardire di passare piú innanzi. Che farebbono come corresse la fama per tutta Italia che il re con tanto esercito avesse passato i monti? che tumulti si susciterebbono per tutto? In che sbigottimento si ridurrebbe il pontefice come dal proprio palagio vedesse l'armi de' Colonnesi in sulle porte di Roma? in che spavento Piero de' Medici, avendo inimico il sangue suo medesimo, la città devotissima del nome franzese e cupidissima di recuperare la libertà oppressa da lui? Non potere cosa alcuna ritenere l'impeto del re insino a' confini del regno di Napoli, dove accostandosi sarebbono i medesimi tumulti e spaventi, né altro per tutto che o fuga o ribellione. Temere forse che avessino a mancargli i danari? i quali, come si sentisse lo strepito dell'armi sue, il tuono orribile di quelle impetuose artiglierie, gli sarebbono portati a gara da tutti gli italiani; e se pure alcuno si mettesse a resistere, le spoglie le prede le ricchezze de' vinti gli nutrirebbono l'esercito: perché in Italia, assuefatta per molti anni piú alle immagini delle guerre che alle guerre vere, non era nervo da sostenere il furore franzese. Però, quale timore quale confusione quali sogni quali ombre vane essere entrate, nel petto suo? Dove essere perduta sí presto la sua magnanimità? dove quella ferocia con la quale, quattro dí prima, si vantava di vincere tutta Italia unita insieme? Considerasse non essere piú in potestà propria i consigli suoi; troppo oltre essere andate le cose, per l'alienazione delle terre, per gl'imbasciadori uditi mandati e scacciati, per tante spese fatte, per tanti apparati, per la publicazione fatta per tutto, per essere già condotta la sua persona quasi in sull'Alpe. Strignerlo la necessità, quando bene la impresa fusse pericolosissima, a seguitarla; poi che tra la gloria e l'infamia, tra il vituperio e i trionfi, tra l'essere o il piú stimato re o il piú dispregiato di tutto il mondo, non gli restava piú mezzo alcuno. Che dunque dovere fare a una vittoria, a uno trionfo già preparato e manifesto?

                                            Queste cose, dette in sostanza dal cardinale ma, secondo la sua natura, piú con sensi efficaci e con gesti impetuosi e accesi che con ornato di parole, commossono tanto l'animo del re che, non uditi piú se non quegli che lo confortavano alla guerra, partí il medesimo dí da Vienna, accompagnato da tutti i signori e capitani del reame di Francia, eccetto il duca di Borbone, al quale commesse in luogo suo l'amministrazione di tutto il regno, e l'ammiraglio e pochi altri deputati al governo e alla guardia delle provincie piú importanti; e passando in Italia per la montagna di Monginevra, molto piú agevole a passare che quella del Monsanese, e per la quale passò anticamente ma con incredibile difficoltà Annibale cartaginese, entrò in Asti il dí nono di settembre dell'anno mille quattrocento novantaquattro, conducendo seco in Italia i semi di innumerabili calamità, di orribilissimi accidenti, e variazione di quasi tutte le cose: perché dalla passata sua non solo ebbono principio mutazioni di stati, sovversioni di regni, desolazioni di paesi, eccidi di città, crudelissime uccisioni, ma eziandio nuovi abiti, nuovi costumi, nuovi e sanguinosi modi di guerreggiare, infermità insino a quel dí non conosciute; e si disordinorono di maniera gli instrumenti della quiete e concordia italiana che, non si essendo mai poi potuta riordinare, hanno avuto facoltà altre nazioni straniere e eserciti barbari di conculcarla miserabilmente e devastarla. E per maggiore infelicità, acciocché per il valore del vincitore non si diminuisseno le nostre vergogne, quello per la venuta del quale si causorno tanti mali, se bene dotato sí amplamente de' beni della fortuna, spogliato di quasi tutte le doti della natura e dell'animo.

                                            Perché certo è che Carlo, insino da puerizia, fu di complessione molto debole e di corpo non sano, di statura piccolo, di aspetto, se tu gli levi il vigore e la degnità degli occhi, bruttissimo, e l'altre membra proporzionate in modo che e' pareva quasi piú simile a mostro che a uomo: né solo senza alcuna notizia delle buone arti ma appena gli furno cogniti i caratteri delle lettere; animo cupido di imperare ma abile piú a ogn'altra cosa, perché aggirato sempre da' suoi non riteneva con loro né maestà né autorità; alieno da tutte le fatiche e faccende, e in quelle alle quali pure attendeva povero di prudenza e di giudicio. Già, se alcuna cosa pareva in lui degna di laude, risguardata intrinsicamente, era piú lontana dalla virtú che dal vizio. Inclinazione alla gloria ma piú presto con impeto che con consiglio, liberalità ma inconsiderata e senza misura o distinzione, immutabile talvolta nelle deliberazioni ma spesso piú ostinazione mal fondata che costanza; e quello che molti chiamavano bontà meritava piú convenientemente nome di freddezza e di remissione di animo.

                                             

                                                 Lib.1, cap.10

                                                  

                                                 L'armata aragonese di nuovo contro Genova. Sconfitta di Obietto dal Fiesco a Rapallo. Rinuncia di don Federigo d'Aragona ad ogni altra impresa d'importanza contro le riviere.

                                                  

                                                 Ma il dí medesimo che il re arrivò nella città di Asti, cominciando a dimostrarsigli con lietissimo augurio la benignità della fortuna, gli sopravennono da Genova desideratissime novelle. Perché don Federigo, poiché ritiratosi da Portovenere nel porto di Livorno ebbe rinfrescata l'armata e soldato nuovi fanti, ritornato nella medesima riviera, pose in terra Obietto dal Fiesco con tremila fanti; il quale, occupata senza difficoltà la terra di Rapalle, distante da Genova venti miglia, cominciò a infestare il paese circostante; il quale principio non essendo di piccola importanza, perché nelle cose di quella città è, per la infezione delle parti, pericolosissimo ogni quantunque minimo movimento, non parve a quegli di dentro da comportare che per gli inimici si facesse maggiore progresso. Però, lasciata una parte delle genti alla guardia della città, si mossono col resto, per terra, alla volta di Rapalle i fratelli Sanseverini e Giovanni Adorno, fratello di Agostino governatore di Genova, co' fanti italiani, e il duca di Orliens con mille svizzeri in sulla armata di mare nella quale erano diciotto galee, sei galeoni e nove navi grosse; i quali, unitisi tutti presso a Rapalle, assaltorono con impeto grande gli inimici che avevano fatto testa al ponte che è tra 'l borgo di Rapalle e uno stretto piano il quale si distende insino al mare. Combatteva per gli aragonesi oltre alle forze proprie il vantaggio del sito, per l'asprezza del quale piú che per altra munizione sono forti i luoghi del paese; e perciò il principio dell'assalto non si dimostrava felice per gli inimici, e già i svizzeri, essendo in luogo inabile a spiegare la loro ordinanza, cominciavano quasi a ritirarsi: ma concorrevano tumultuosamente da ogni banda molti paesani seguaci degli Adorni, i quali tra quegli sassi e monti asprissimi sono attissimi a combattere; e essendo oltre a questo nel tempo medesimo infestati gli aragonesi per fianco dall'artiglierie dell'armata franzese, accostatasi al lito quanto poteva, cominciorono a sostenere difficilmente l'impressione degli inimici; e essendo già spuntati dal ponte, sopragiunsono avvisi a Obietto, in favore del quale i suoi partigiani non si erano mossi, appropinquarsi Gianluigi dal Fiesco con molti fanti: per il che, dubitando di non essere assaltati dalle spalle, si messono in fuga, e Obietto il primo, secondo l'uso de' fuorusciti, per la via della montagna; restando, parte nel combattere parte nel fuggire, morti di loro piú di cento uomini, uccisione senza dubbio non piccola secondo le maniere del guerreggiare le quali a quello tempo in Italia si esercitavano. Furono medesimamente fatti molti prigioni, tra i quali Giulio Orsino, che, soldato del re, avea con quaranta uomini d'arme e alcuni balestrieri a cavallo seguitata l'armata, e Fregosino figliuolo del cardinale Fregoso e Orlandino della medesima famiglia. Assicurò al tutto questa vittoria le cose di Genova: perché don Federigo, il quale, subito che ebbe posti i fanti in terra, si era, per non essere costretto a combattere nel golfo di Rapalle con l'armata inimica, allargato in alto mare, disperandosi di potere fare per allora piú frutto alcuno, ritirò un'altra volta l'armata nel porto di Livorno: e benché quivi di nuovi fanti si provedesse, e disegni vari avesse di assaltare qualche altro luogo delle riviere, nondimeno, come per i princípi avversi delle imprese si perde e l'animo e la riputazione, non tentò piú cosa alcuna di momento; lasciando giusta cagione a Lodovico Sforza di gloriarsi che aveva con la industria e consigli suoi scherniti gli avversari, perché non altro avere salvato le cose di Genova che la tardità della mossa loro, procurata con l'arti sue e con le speranze vane che aveva date.

                                             

                                                 Lib.1, cap.11

                                                  

                                                 L'esercito di Carlo VIII. Perfezione delle artiglierie francesi. Altre ragioni che rendevano formidabile l'esercito francese. Diversità fra le milizie italiane e l'esercito di Carlo.

                                                  

                                                 Ma a Carlo era andato subito in Asti Lodovico Sforza e Beatrice sua moglie, con grandissima pompa e onoratissima compagnia di molte donne nobili e di forma eccellente del ducato di Milano, e insieme Ercole duca di Ferrara: dove trattandosi delle cose comuni, fu deliberato che il piú presto che si poteva si movesse l'esercito. E acciocché questo piú sollecitamente si facesse, Lodovico, che non mediocremente temeva che sopravenendo i tempi aspri non si fermassino per quella vernata nelle terre del ducato di Milano, prestò di nuovo danari al re, il quale n'aveva necessità non mediocre: e nondimeno, scoprendosegli quel male che i nostri chiamano vaiuolo, soggiornò in Asti circa a uno mese, distribuito l'esercito in quella città e nelle terre circostanti. Il numero del quale, per quel che io ritraggo, nella diversità di molti, per piú vero, fu, oltre ai dugento gentiluomini della guardia del re, computati i svizzeri i quali prima col baglí di Digiuno erano andati a Genova, e quella gente che sotto Obigní militava in Romagna, uomini d'arme mille secento, de' quali ciascuno ha secondo l'uso franzese due arcieri, in modo che sei cavalli sotto ogni lancia (questo nome hanno i loro uomini d'arme) si comprendono; seimila fanti svizzeri; seimila fanti del regno suo, de' quali la metà erano della provincia di Guascogna, dotata meglio, secondo il giudicio de' franzesi, di fanti atti alla guerra che alcuna altra parte di Francia: e per unirsi con questo esercito erano state condotte per mare a Genova quantità grande di artiglierie da battere le muraglie e da usare in campagna, ma di tale sorte che giammai aveva veduto Italia le simiglianti.

                                            Questa peste, trovata molti anni innanzi in Germania, fu condotta la prima volta in Italia da' viniziani, nella guerra che circa l'anno della salute mille trecent'ottanta ebbono i genovesi con loro; nella quale i viniziani, vinti nel mare e afflitti per la perdita di Chioggia, ricevevano qualunque condizione avesse voluta il vincitore se a tanto preclara occasione non fusse mancato moderato consiglio. Il nome delle maggiori era bombarde, le quali, sparsa dipoi questa invenzione per tutta Italia, si adoperavano nelle oppugnazioni delle terre; alcune di ferro alcune di bronzo, ma grossissime in modo che per la macchina grande e per la imperizia degli uomini e attitudine mala degli instrumenti, tardissimamente e con grandissima difficoltà si conducevano, piantavansi alle terre co' medesimi impedimenti, e piantate, era dall'uno colpo all'altro tanto intervallo che con piccolissimo frutto, a comparazione di quello che seguitò da poi, molto tempo consumavano; donde i difensori de' luoghi oppugnati avevano spazio di potere oziosamente fare di dentro ripari e fortificazioni: e nondimeno, per la violenza del salnitro col quale si fa la polvere, datogli il fuoco, volavano con sí orribile tuono e impeto stupendo per l'aria le palle, che questo instrumento faceva, eziandio innanzi che avesse maggiore perfezione, ridicoli tutti gli instrumenti i quali nella oppugnazione delle terre avevano, con tanta fama di Archimede e degli altri inventori, usati gli antichi. Ma i franzesi, fabricando pezzi molto piú espediti né d'altro che di bronzo, i quali chiamavano cannoni, e usando palle di ferro, dove prima di pietra e senza comparazione piú grosse e di peso gravissimo s'usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in Italia si costumava, ma da cavalli, con agilità tale d'uomini e di instrumenti deputati a questo servigio che quasi sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte alle muraglie erano piantate con prestezza incredibile; e interponendosi dall'un colpo all'altro piccolissimo intervallo di tempo, sí spesso e con impeto sí veemente percotevano che quello che prima in Italia fare in molti giorni si soleva, da loro in pochissime ore si faceva: usando ancora questo piú tosto diabolico che umano instrumento non meno alla campagna che a combattere le terre, e co' medesimi cannoni e con altri pezzi minori, ma fabricati e condotti, secondo la loro proporzione, con la medesima destrezza e celerità.

                                            Facevano tali artiglierie molto formidabile a tutta Italia l'esercito di Carlo; formidabile, oltre a questo, non per il numero ma per il valore de' soldati. Perché essendo le genti d'arme quasi tutte di sudditi del re, e non di plebe ma di gentiluomini, i quali non meramente ad arbitrio de' capitani si mettevano o rimovevano, e pagate non da loro ma da i ministri regi aveano le compagnie non solo i numeri interi ma la gente fiorita e bene in ordine di cavalli e d'armi, non essendo per la povertà impotenti a provedersene, e facendo ciascuno a gara di servire meglio, cosí per lo istinto dell'onore, il quale nutrisce ne' petti degli uomini l'essere nati nobilmente, come perché dell'opere valorose potevano sperare premi, e fuora della milizia e nella milizia, ordinata in modo che per piú gradi si saliva insino al capitanato. I medesimi stimoli avevano i capitani, quasi tutti baroni e signori o almanco di sangue molto nobile, e quasi tutti sudditi del regno di Francia; i quali, terminata la quantità della sua compagnia, perché, secondo il costume di quel reame, a niuno si dava condotta piú di cento lancie, non avevano altro intento che meritare laude appresso al suo re, donde non aveano luogo tra loro né la instabilità di mutare padrone, o per ambizione o per avarizia, né le concorrenze con gli altri capitani per avanzargli con maggiore condotta. Cose tutte contrarie nella milizia italiana, dove molti degli uomini d'arme, o contadini o plebei, e sudditi a altro principe, e in tutto dipendenti dai capitani co' quali convenivano dello stipendio, e in arbitrio de' quali era mettergli e pagargli, non aveano, né per natura né per accidente, stimolo estraordinario al bene servire; e i capitani, rarissime volte sudditi di chi gli conduceva e che spesso aveano interessi e fini diversi, pieni tra loro di emulazione e di odii, né avendo prefisso termine alle condotte e interamente padroni delle compagnie, né tenevano il numero de' soldati che erano loro pagati, né contenti delle condizioni, oneste mettevano in ogni occasione ingorde taglie a’ padroni; e instabili al medesimo servigio passavano spesso a nuovi stipendi, sforzandogli qualche volta l'ambizione o l'avarizia o altri interessi a essere non solo instabili ma infedeli. Né si vedeva minore diversità tra i fanti italiani e quegli che erano con Carlo: perché gl'italiani non combattevano in squadrone fermo e ordinato ma sparsi per la campagna, ritirandosi il piú delle volte a i vantaggi degli argini e de' fossi; ma i svizzeri, nazione bellicosissima, e la quale con lunga milizia e con molte preclarissime vittorie aveva rinnovata la fama antica della ferocia, si presentavano a combattere con schiere squadre, ordinate e distinte a certo numero per fila, né uscendo mai della sua ordinanza si opponevano agli inimici a modo di un muro, stabili e quasi invitti, dove combattessino in luogo largo da potere distendere il loro squadrone: e con la medesima disciplina e ordinanza, benché non con la medesima virtú, combattevano i fanti franzesi e guasconi.

                                             

                                                 Lib.1, cap.12

                                                  

                                                 I Colonnesi, occupata la rocca di Ostia, si dichiarano apertamente per il re di Francia. Scarsa fortuna dell'esercito aragonese in Romagna.

                                                  

                                                 Ma mentre che 'l re impedito dalla infermità si stava in Asti, nacque nel paese di Roma nuovo tumulto; perché i Colonnesi, i quali, benché Alfonso avesse accettate tutte le dimande immoderate che avevano fatte, si erano, subito che Obigní fu entrato con le genti franzesi in Romagna, deposta la simulazione, dichiarati soldati del re di Francia, occuporno la rocca d'Ostia, per trattato tenuto da alcuni fanti spagnuoli che v'erano a guardia. Costrinse questo caso il pontefice a querelarsi della ingiuria franzese con tutti i príncipi cristiani, e specialmente co' re di Spagna e col senato viniziano, al quale, benché invano, domandò aiuto, per l'obligo della confederazione contratta l'anno precedente insieme; e voltatosi con animo costante alle provisioni della guerra, citati Prospero e Fabrizio, a' quali fece poi spianare le case che avevano in Roma, e unite le genti sue e parte di quelle d'Alfonso sotto Verginio, in sul fiume del Teverone appresso a Tivoli, le mandò in sulle terre de' Colonnesi, i quali non avevano altre genti che dugento uomini d'arme e mille fanti. Ma dubitando poi il pontefice che l'armata franzese, la quale era fama dovere andare da Genova al soccorso d'Ostia, non avesse ricetto a Nettunno, porto de' Colonnesi, Alfonso, raccolte a Terracina tutte le genti che il pontefice ed egli avevano in quelle parti, vi pose il campo, sperando di espugnarlo agevolmente; ma difendendolo i Colonnesi francamente, e essendo passata senza opposizione nelle terre loro la compagnia di Cammillo Vitelli da Città di Castello e de' fratelli, soldati di nuovo dal re di Francia, il pontefice richiamò a Roma parte delle sue genti che erano in Romagna con Ferdinando.

                                            Le cose del quale non continuavano di procedere con quella prosperità la quale pareva che si fusse dimostrata da principio. Perché arrivato a Villafranca tra Furlí e Faenza, e di quivi prendendo il cammino per la strada maestra verso Imola, l'esercito inimico, che era alloggiato appresso a Villafranca, essendo inferiore di forze, si ritirò tra la selva di Lugo e Colombara presso al fossato del Genivolo, alloggiamento per natura molto forte, luogo d'Ercole da Esti, del dominio del quale aveva le vettovaglie; onde tolta a Ferdinando, per la fortezza del sito, la facoltà d'assaltargli senza gravissimo pericolo, partito da Imola, andò ad alloggiare a Toscanella appresso a Castel San Piero nel territorio bolognese; perché desiderando di combattere, cercava, con la dimostrazione di andare verso Bologna, mettere gli inimici, per non gli lasciare libero l'andare innanzi, in necessità di condursi in alloggiamenti non tanto forti: ma essi dopo qualche dí, approssimatisi a Imola, si fermorono in sul fiume del Santerno tra Lugo e Santa Agata, avendo alle spalle il fiume del Po, e in alloggiamento molto fortificato. Alloggiò Ferdinando, il dí seguente, vicino a loro a sei miglia, in sul fiume medesimo appresso a Mordano e Bubano, e l'altro dí con l'esercito ordinato in battaglia si presentò vicino a uno miglio; ma poi che per spazio di qualche ora gli ebbe aspettati indarno nella pianura, comodissima per la sua larghezza a combattere, essendo di manifesto pericolo l'assaltargli a quello alloggiamento, andò ad alloggiare a Barbiano villa di Cotignuola, non piú verso la montagna, come insino ad allora aveva fatto, ma per fianco agli inimici; avendo sempre il medesimo intento di costrignergli, se avesse potuto, a uscire degli alloggiamenti cosí forti. Era paruto che insino a questo dí le cose del duca di Calavria fussino procedute con maggiore riputazione, perché e gli inimici avevano apertamente ricusato il combattere, difendendosi piú con la fortezza degli alloggiamenti che con la virtú dell'armi, e in qualche riscontro fatto tra i cavalli leggieri erano piú tosto gli aragonesi rimasti superiori; ma essendo poi continuamente augumentato l'esercito franzese e sforzesco, per il sopravenire delle genti che da principio erano restate indietro, cominciò a variarsi lo stato della guerra. Perché il duca, raffrenato l'ardore suo dai consigli de' capitani che gli erano appresso, per non si commettere se non con vantaggio alla fortuna, si ritirò a Santa Agata, terra del duca di Ferrara; dove, essendo diminuito di fanti e in mezzo delle terre ferraresi, e partita già quella parte delle genti d'arme della Chiesa la quale aveva rivocata il pontefice, attendeva a fortificarsi; ma soprasedutovi pochi dí, avuta notizia aspettarsi di nuovo nel campo degl'inimici dugento lancie e mille fanti svizzeri mandati dal re di Francia subito che e' fu arrivato in Asti, si ritirò nella cerca di Faenza, luogo tralle mura di quella città e uno fosso, il quale lontano circa uno miglio della terra e circondandola tutta rende quel sito molto forte; per la ritirata del quale gli inimici venneno nell'alloggiamento, abbandonato da lui, di Santa Agata. Dimostrossi certamente animoso l'uno esercito e l'altro quando vedde l'inimico inferiore, ma quando le cose erano quasi pareggiate, ciascuno fuggiva il tentare la fortuna; perché (quel che rarissime volte accade che uno medesimo consiglio piaccia a due eserciti inimici) pareva a' franzesi e agli sforzeschi ottenere l'intento per il quale si erano mossi di Lombardia se impedivano che gli aragonesi non passassino piú innanzi, e il re Alfonso, riputando acquisto non piccolo che i progressi degli inimici insino alla vernata si ritardassino, aveva commesso espressamente al figliolo e ordinato a Gianiacopo da Triulzi e al conte di Pitigliano che non mettessino senza grande occasione in potestà della fortuna il regno di Napoli, che era perduto se quell'esercito si perdeva.

                                             

                                                 Lib.1, cap.13

                                                  

                                                 Visita di Carlo VIII a Giovan Galeazzo Sforza infermo nel castello di Pavia. Notizia a Carlo giunto a Piacenza della morte di Giovan Galeazzo. Lodovico Sforza assume i titoli e le insegne del ducato di Milano. Sospetti e voci intorno alla morte di Giovan Galeazzo. Il re di Francia dopo nuove incertezze delibera di continuare l'impresa.

                                                  

                                                 Ma non bastavano questi rimedi alla sua salute, perché Carlo, non ritenendo l'impeto suo né la stagione del tempo né alcun'altra difficoltà, subito che ebbe recuperata la sanità, mosse l'esercito. Giaceva nel castello di Pavia, oppresso di gravissima infermità, Giovan Galeazzo duca di Milano suo fratello cugino (erano il re e egli nati di due sorelle figliuole di [Lodovico secondo] duca di Savoia); il quale il re, passando per quella città e alloggiato nel medesimo castello, andò benignissimamente a visitare. Le parole furono generali per la presenza di Lodovico, dimostrando molestia del suo male, e confortandolo a attendere con buona speranza alla recuperazione della salute; ma l'affetto dell'animo non fu senza grande compassione cosí del re come di tutti coloro che erano con lui, tenendo ciascuno per certo la vita dello infelice giovane dovere, per le insidie del zio, essere brevissima. E si accrebbe molto piú per la presenza di Isabella sua moglie; la quale, ansia non solo della salute del marito e di uno piccolo figliuolo che aveva di lui, ma mestissima oltre a questo per il pericolo del padre e degli altri suoi, si gittò molto miserabilmente, nel cospetto di tutti, a' piedi del re, raccomandandogli con infinite lacrime il padre e la casa sua di Aragona: alla quale il re, benché mosso dall'età e dalla forma dimostrasse averne compassione, nondimeno, non si potendo per cagione cosí leggiera fermare un movimento sí grande, rispose che essendo condotta la impresa tanto innanzi era necessitato a continuarla.

                                            Da Pavia andò il re a Piacenza, dove essendosi fermato sopravenne la morte di Giovan Galeazzo, per la quale Lodovico che l'avea seguíto ritornò con grandissima celerità a Milano. Dove da' principali del consiglio ducale, subornati da lui, fu proposto che, per la grandezza di quello stato e per i tempi difficili i quali in Italia si preparavano, sarebbe cosa molto perniciosa che il figliuolo di Giovan Galeazzo di età d'anni cinque succedesse al padre, ma essere necessario avere uno duca che fusse grande di prudenza e d'autorità; e però doversi, dispensando, per la salute publica e per la necessità, alla disposizione della legge, come permettono le leggi medesime, costrignere Lodovico a consentire che in sé si trasferisse per beneficio universale la degnità del ducato, peso gravissimo in tempi tali: col quale colore, cedendo l'onestà all'ambizione, benché simulasse fare qualche resistenza, assunse la mattina seguente i titoli e le insegne del ducato di Milano; protestato prima segretamente riceverle come appartenenti a sé per l'investitura del re de' romani.

                                            Fu publicato da molti la morte di Giovan Galeazzo essere proceduta da coito immoderato, nondimeno si credette universalmente per tutta Italia che e' fusse morto non per infermità naturale né per incontinenza, ma di veleno; e Teodoro da Pavia, uno de' medici regi, il quale era presente quando Carlo lo visitò, affermò averne veduto segni manifestissimi. Né fu alcuno che dubitasse che se era stato veleno non gli fusse stato dato per opera del zio, come quello che, non contento di essere con assoluta autorità governatore del ducato di Milano e avido, secondo l'appetito comune degli uomini grandi, di farsi piú illustre co' titoli e con gli onori, e molto piú per giudicare che alla sicurtà sua e alla successione de' figliuoli fusse necessaria la morte del principe legittimo, avesse voluto trasferire e stabilire in sé la potestà e il nome ducale; dalla quale cupidità fusse a cosí scelerata opera stata sforzata la sua natura, mansueta per l'ordinario e aborrente dal sangue. E fu creduto quasi da tutti questa essere stata sua intenzione insino quando cominciò a trattare che i franzesi passassino in Italia, parendogli opportunissima occasione di metterla a effetto in tempo nel quale, per essere il re di Francia con tanto esercito in quello stato, avesse a mancare a ciascuno l'animo di risentirsi di tanta sceleratezza. Credettono altri questo essere stato nuovo pensiero, nato per timore che 'l re, come sono subiti i consigli de' franzesi, non procedesse precipitosamente a liberare Giovan Galeazzo da tanta soggezione, movendolo o il parentado e la compassione della età o il parergli piú sicuro per sé che quello stato fusse nella potestà del cugino che di Lodovico; la fede del quale non mancavano persone grandi appresso a lui che continuamente si sforzassino fargli sospetta. Ma l'avere Lodovico procurata l'anno precedente l'investitura, e fatto poco innanzi alla morte del nipote espedirne sollecitamente i privilegi imperiali, arguisce piú presto deliberazione premeditata e in tutto volontaria che subita e quasi spinta dal pericolo presente.

                                            Soprastette alcuni dí Carlo in Piacenza non senza inclinazione di ritornarsene di là da' monti, perché la carestia de' danari e il non si scoprire per Italia cosa alcuna nuova in suo favore lo rendevano dubbio del successo; e non meno il sospetto conceputo del nuovo duca, del quale era fama, che se bene quando partí da lui gli avesse promesso di ritornare, che piú non ritornerebbe. Né è fuora del verisimile che, essendo quasi incognita appresso agli oltramontani la sceleratezza di usare contro agli uomini i veleni, frequente in molte parti d'Italia, Carlo e tutta la corte, oltre al sospettare della fede, avesse in orrore il nome suo; anzi si riputasse gravemente ingiuriato che Lodovico, per potere fare senza pericolo una opera cosí abominevole, avesse la sua venuta in Italia procurata. Deliberossi pure finalmente l'andare innanzi, come continuamente sollecitava Lodovico, promettendo di ritornare al re fra pochi giorni; perché e il soprasedere del re in Lombardia, né meno il ritornarsene precipitosamente in Francia, era del tutto contrario alla sua intenzione.

                                             

                                                 Lib.1, cap.14

                                                  

                                                 Incitamenti di Lorenzo e di Giovanni de' Medici a Carlo VIII perché s'accosti a Firenze. Aumenta lo sdegno di Carlo contro Piero de' Medici. L'esercito francese passa l'Appennino. Gli svizzeri di Carlo prendono Fivizzano compiendo stragi. Le fortezze di Serezana e di Serezanello. Malumore in Firenze contro Piero de' Medici. Questi consegna fortezze de' fiorentini a Carlo. L'esercito aragonese si ritira dalla Romagna e la flotta dal porto di Livorno.

                                                  

                                            Al re, il dí medesimo che si mosse da Piacenza, venneno Lorenzo e Giovanni de' Medici; i quali, fuggiti occultamente delle loro ville, facevano instanza che 'l re si accostasse a Firenze, promettendo molto della volontà del popolo fiorentino inverso la casa di Francia, e non meno dell'odio contro a Piero de' Medici. Contro al quale era, per nuove cagioni, augumentato non poco lo sdegno del re: perché avendo mandato da Asti uno imbasciadore a Firenze a proporre molte offerte se gli consentivano il passo e in futuro si astenevano dall'aiutare Alfonso, e in caso perseverassino nella prima deliberazione, molte minaccie; e avendogli, per fare maggiore terrore, commesso che se subito non si determinavano si partisse; gli era stato, cercando scusa del differire, risposto che, per essere i cittadini principali del governo, come in quella stagione è costume de' fiorentini, alle loro ville, non potevano dargli risposta certa cosí subito, ma che per uno imbasciadore proprio farebbono presto intendere al re la mente loro.

                                            Non era mai stato nel consiglio reale messo in disputazione che fusse piú tosto da dirizzarsi con l'esercito per il cammino il quale, per la Toscana e per il territorio di Roma, conduce diritto a Napoli che per quello che, per la Romagna e per la Marca, passato il fiume del Tronto, entra nell'Abruzzi; non perché non confidassino di cacciare le genti aragonesi, le quali con difficoltà resistevano a Obigní, ma perché pareva cosa indegna della grandezza di tanto re e della gloria delle armi sue, essendosi il pontefice e i fiorentini dichiarati contro a lui, dare causa agli uomini di pensare che egli sfuggisse quel cammino perché si diffidasse di sforzargli; e perché si stimava pericoloso il fare la guerra nel reame di Napoli lasciandosi alle spalle inimica la Toscana e lo stato ecclesiastico: e si deliberò di passare l'Apennino piú tosto per la montagna di Parma, come Lodovico Sforza, desideroso di insignorirsi di Pisa, aveva insino in Asti consigliato, che per il cammino diritto di Bologna. Però l'antiguardia, della quale era capitano Giliberto monsignore di Mompensieri della famiglia di Borbone, del sangue de' re di Francia, seguitandola il re col resto dell'esercito, passò a Pontriemoli, terra appartenente al ducato di Milano, posta al piè dello Apennino in sul fiume della Magra; il quale fiume divide il paese di Genova, chiamato anticamente Liguria, dalla Toscana. Da Pontriemoli entrò Mompensieri nel paese della Lunigiana, della quale una parte ubbidiva a' fiorentini, alcune castella erano de' genovesi, il resto de' marchesi Malespini; i quali, sotto la protezione chi del duca di Milano chi de' fiorentini chi de' genovesi, i loro piccoli stati mantenevano. Unironsi seco in quegli confini i svizzeri che erano stati alla difesa di Genova, e l'artiglierie venute per mare a Genova e dipoi alla Spezie; e accostatosi a Fivizano, castello de' fiorentini, dove gli condusse Gabriello Malaspina marchese di Fosdinuovo loro raccomandato, lo presono per forza e saccheggiorno, ammazzando tutti i soldati forestieri che vi erano dentro e molti degli abitatori: cosa nuova e di spavento grandissimo a Italia, già lungo tempo assuefatta a vedere guerre piú presto belle di pompa e di apparati, e quasi simili a spettacoli, che pericolose e sanguinose.

                                            Facevano i fiorentini la resistenza principale in Serezana, piccola città stata da loro molto fortificata; ma non l'avevano proveduta contro a inimico cosí potente come sarebbe stato necessario, perché non v'avevano messo capitano di guerra d'autorità né molti soldati, e quegli già ripieni di viltà per la fama sola dello approssimarsi l'esercito franzese: e nondimeno non si riputava di facile espugnazione, massimamente la fortezza; e molto piú Serezanello, rocca molto munita, edificata in sul monte sopra Serezana. Né poteva dimorare l'esercito in questi luoghi molti dí, perché quel paese sterile e stretto, rinchiuso tra 'l mare e il monte, non bastava a nutrire tanta moltitudine; né potendo venirvi vettovaglie se non di luoghi lontani, non potevano essere a tempo al bisogno presente. Da che parea che le cose del re potessino facilmente ridursi in non piccole angustie; perché, se bene non gli potesse essere vietato che, lasciatasi indietro la terra o la fortezza di Serezana e Serezanello, assaltasse Pisa, o per il contado di Lucca, la quale città per mezzo del duca di Milano aveva occultamente deliberato di riceverlo, entrasse in altra parte del dominio fiorentino, nondimeno malvolentieri si riduceva a questa deliberazione, parendogli che se non espugnava la prima terra che se gli era opposta, si diminuisse tanto della sua riputazione che tutti gli altri piglierebbono facilmente animo a fare il medesimo. Ma era destinato che, o per beneficio della fortuna o per ordinazione di altra piú alta potestà (se però queste scuse meritano le imprudenze e le colpe degli uomini), a tale impedimento sopravenisse rimedio subito: imperocché in Piero de' Medici non fu né maggiore animo né maggiore costanza nelle avversità che fusse stata o moderazione o prudenza nelle prosperità.

                                            Era continuamente moltiplicato il dispiacere che la città di Firenze aveva da principio ricevuto dall'opposizione che si faceva al re, non tanto per essere stati di nuovo sbandeggiati i mercatanti fiorentini di tutto il reame di Francia quanto per il timore della potenza de' franzesi, cresciuto eccessivamente come si intese l'esercito avere cominciato a passare l'Apennino, e dipoi la crudeltà usata nella occupazione di Fivizano. E però da ciascuno era palesemente detestata la temerità di Piero de' Medici, che senza necessità, e credendo piú a se medesimo e al consiglio di ministri temerari e arroganti ne' tempi della pace, inutili ne' tempi pericolosi, che a' cittadini amici paterni, da' quali era stato saviamente consigliato, avesse con tanta inconsiderazione provocato l'armi d'un re di Francia, potentissimo e aiutato dal duca di Milano; essendo massime egli imperito delle cose della guerra, e Pisa, città d'animo inimico, non fortificata e poco proveduta di soldati e di munizioni, e cosí tutto il resto del dominio fiorentino mal preparato a difendersi da tanto impeto, né si dimostrando degli aragonesi, per i quali erano esposti a tanto pericolo, altro che 'l duca di Calavria, impegnato con le sue genti in Romagna per la opposizione solo di una piccola parte dell'esercito franzese; e perciò la patria loro, abbandonata da ognuno, restare in odio smisurato e in preda manifesta di chi aveva con tanta instanza cercato di non avere necessità di nuocere loro. Questa disposizione, già quasi di tutta la città, era accesa da molti cittadini nobili a' quali sommamente dispiaceva il governo presente, e che una famiglia sola s'avesse arrogato la potestà di tutta la republica; e questi, augumentando il timore di coloro che da se stessi temevano e dando ardire a coloro che cose nuove desideravano, avevano in modo sollevato gli animi del popolo che già cominciava molto a temersi che la città facesse tumultuazione; incitando ancora piú gli uomini la superbia e il procedere immoderato di Piero, discostatosi in molte cose dai costumi civili e dalla mansuetudine de' suoi maggiori: donde quasi insino da puerizia era stato sempre odioso all'universalità de' cittadini, e in modo che è certissimo che il padre Lorenzo, contemplando la sua natura, si era spesso lamentato con gli amici piú intimi che l'imprudenza e arroganza del figliuolo partorirebbe la ruina della sua casa. Spaventato adunque Piero dal pericolo il quale prima aveva temerariamente disprezzato, mancandogli i sussidi promessi dal pontefice e da Alfonso, occupati per la perdita d'Ostia, per l'oppugnazione di Nettunno e per il timore dell'armata franzese, si risolvé precipitosamente d'andare a cercare dagl'inimici quella salute la quale piú non sperava dagli amici; seguitando, come pareva a lui, l'esempio del padre, il quale, essendo l'anno mille quattrocento settantanove, per la guerra fatta a' fiorentini da Sisto pontefice e da Ferdinando re di Napoli, ridotto in gravissimo pericolo, andato a Napoli a Ferdinando, ne riportò a Firenze la pace publica e la sicurtà privata. Ma è senza dubbio molto pericoloso il governarsi con gli esempli se non concorrono, non solo in generale ma in tutti i particolari, le medesime ragioni, se le cose non sono regolate con la medesima prudenza, e se, oltre a tutti gli altri fondamenti, non v'ha la parte sua la medesima fortuna. Con questa determinazione partito da Firenze, ebbe, innanzi che arrivasse al re, avviso che i cavalli di Pagolo Orsino e trecento fanti mandati da' fiorentini per entrare in Serezana erano stati rotti da alcuni cavalli de' franzesi corsi di qua dalla Magra, e restati la maggiore parte o morti o prigioni. Aspettò a Pietrasanta il salvocondotto regio, dove andorno per condurlo sicuro il vescovo di San Malò e alcun'altri signori della corte; dai quali accompagnato entrò in Serezana il dí medesimo che il re col resto dell'esercito si uní con l'antiguardia, la quale accampata a Serezanello batteva quella rocca, ma non con tale progresso che avessino speranza di espugnarla. Introdotto innanzi al re, e da lui raccolto benignamente piú con la fronte che con l'animo, mitigò non poco della sua indegnazione col consentire a tutte le sue dimande, che furono alte e immoderate: che le fortezze di Pietrasanta e di Serezana e Serezanello, terre che da quella parte erano come chiave del dominio fiorentino, e le fortezze di Pisa e del porto di Livorno, membri importantissimi del loro stato, si deponessino in mano del re; il quale per uno scritto di mano propria s'obligasse a restituirle come prima avesse acquistato il regno di Napoli: procurasse Piero che i fiorentini gli prestassino dugentomila ducati, e gli ricevesse il re in confederazione e sotto la sua protezione: delle quali cose, promesse con semplici parole, si differisse a espedirne le scritture in Firenze, per la quale città il re intendeva di passare. Ma non si differí già la consegnazione delle fortezze, perché Piero gli fece subito consegnare quelle di Serezana, di Pietrasanta e di Serezanello, e pochi dí poi fu per ordine suo fatto il medesimo di quelle di Pisa e di Livorno; maravigliandosi grandemente tutti i franzesi che Piero cosí facilmente avesse consentito a cose di tanta importanza, perché il re senza dubbio arebbe convenuto con molto minori condizioni. Né pare in questo luogo da pretermettere quel che argutamente rispose a Piero de' Medici Lodovico Sforza, che arrivò il dí seguente all'esercito: perché scusandosi Piero che, essendo andatogli incontro per onorarlo, l'avere Lodovico fallito la strada era stato cagione che la sua andata fusse stata vana, rispose molto prontamente: - Vero è che uno di noi ha fallito la strada, ma sarete forse voi stato quello. - Quasi rimproverandogli che per non avere prestata fede a' consigli suoi fusse caduto in tante difficoltà e pericoli. Benché i successi seguenti dimostrorno avere fallito il cammino diritto ciascuno di loro, ma con maggiore infamia e infelicità di colui il quale, collocato in maggiore grandezza, faceva professione di essere con la prudenza sua la guida di tutti gli altri.

                                            La deliberazione di Piero non solo assicurò il re delle cose della Toscana ma gli rimosse del tutto gli ostacoli della Romagna, dove già declinavano molto gli aragonesi. Perché (come è difficile a chi appena difende se stesso dagli imminenti pericoli provedere nel tempo medesimo a' pericoli degli altri), mentre che Ferdinando sta sicuro nel forte alloggiamento della cerca di Faenza, gli inimici ritornati nel contado d'Imola, poiché con parte dell'esercito ebbono assaltato il castello di Bubano, ma invano, perché per il piccolo circuito bastava poca gente a difenderlo, e per la bassezza del luogo il paese era inondato dall'acque, preseno per forza il castello di Mordano, con tutto che assai forte e proveduto copiosamente di soldati per difenderlo; ma fu tale l'impeto dell'artiglierie, tale la ferocia dell'assalto de' franzesi che, benché nel passare i fossi pieni di acqua non pochi d'essi v'annegassino, quegli di dentro non potettono resistere: contro a' quali talmente in ogni età, in ogni sesso, incrudelirono che empierono tutta la Romagna di grandissimo terrore. Per il quale caso Caterina Sforza disperata d'avere soccorso s'accordò, per fuggire il pericolo presente, co' franzesi, promettendo all'esercito loro ogni comodità degli stati sottoposti al figliuolo. Donde Ferdinando, insospettito della volontà de' faventini e parendogli pericoloso lo stare in mezzo d'Imola e di Furlí, tanto piú essendogli già nota l'andata di Piero de' Medici a Serezana, si ritirò alle mura di Cesena, dimostrando tanto timore che per non passare appresso a Furlí condusse l'esercito per i poggi, via piú lunga e difficile, accanto a Castrocaro castello de' fiorentini; e pochi dí poi, come ebbe inteso l'accordo fatto da Piero de' Medici, per il quale partirono da lui le genti de' fiorentini, si dirizzò al cammino di Roma. E nel tempo medesimo don Federigo, partito del porto di Livorno, si ritirò con l'armata verso il regno di Napoli; dove cominciavano a essere necessarie ad Alfonso per la difesa propria quelle armi le quali aveva mandate con tanta speranza ad assaltare gli stati d'altri, procedendo non meno infelicemente in quelle parti le cose sue. Perché, non gli succedendo la oppugnazione tentata di Nettunno avea ridotto l'esercito a Terracina, e l'armata franzese, della quale erano capitani il principe di Salerno e monsignore di Serenon, si era scoperta sopra Ostia: benché, publicando di non volere offendere lo stato della Chiesa, non poneva gente in terra né faceva segno alcuno di inimicizia col pontefice, con tutto che 'l re avesse pochi dí innanzi recusato di udire Francesco Piccoluomini cardinale di Siena mandatogli legato da lui.

                                             

                                                 Lib.1, cap.15

                                                  

                                                 Piú vivo sdegno de' fiorentini contro Piero de' Medici per i patti conclusi col re di Francia. Lodovico Sforza ottiene l'investitura di Genova. Si impedisce a Piero de' Medici di entrare nel palazzo della signoria. Tumulto del popolo e fuga di Piero da Firenze. La precedente potenza della casa de' Medici in Firenze. I pisani si rivendicano in libertà col consenso di Carlo VIII. Contrari consigli del cardinale di San Piero in Vincoli ai pisani.

                                                  

                                            Ma pervenuta a Firenze la notizia delle convenzioni fatte da Piero de' Medici, con tanta diminuzione del dominio loro e con sí grave e ignominiosa ferita della republica, si concitò in tutta la città ardentissima indegnazione; commovendogli oltre a tanta perdita l'avere Piero, con esempio nuovo né mai usato da' suoi maggiori, alienato, senza consiglio de' cittadini, senza decreto de' magistrati, una parte tanto notabile del dominio fiorentino: perciò e le querele erano acerbissime contro a lui e per tutto si udivano voci di cittadini che stimolavano l'un l'altro a recuperare la libertà; non avendo ardire quegli che con la volontà aderivano a Piero di opporsi, né con le parole né con le forze, a tanta inclinazione. Ma non avendo facoltà di difendere Pisa e Livorno, se bene non si confidassino di rimuovere il re dalla volontà d'avere quelle fortezze, nondimeno, per separare i consigli della republica da' consigli di Piero, e perché almeno non fusse riconosciuto dal privato quel che al publico apparteneva, gli mandorno subito molti imbasciadori, di quegli che erano malcontenti della grandezza de' Medici; e perciò Piero, conoscendo questo essere principio di mutazione dello stato, per provedere alle cose sue innanzi nascesse maggiore disordine, si partí dal re, sotto colore di andare a dare perfezione a quello gli aveva promesso. Nel quale tempo e Carlo partí da Serezana per andare a Pisa, e Lodovico Sforza, ottenuto, con pagare certa quantità di danari, che la investitura di Genova, conceduta dal re pochi anni innanzi a Giovan Galeazzo per lui e per i discendenti, si trasferisse in sé e ne' discendenti suoi, se ne ritornò a Milano; ma con l'animo turbato contro a Carlo, per avere negato di lasciare a guardia sua, secondo diceva essergli stato promesso, Pietrasanta e Serezana: le quali terre, per farsi scala alla ardentissima cupidità che aveva di Pisa, domandava, come tolte ingiustamente, pochissimi anni innanzi, da' fiorentini a' genovesi.

                                            Ritornato Piero de' Medici a Firenze trovò la maggiore parte de' magistrati alienata da lui e sospesi gli animi degli amici di piú momento, perché contro al consiglio loro aveva tutte le cose imprudentemente governate; e il popolo in tanta sollevazione che volendo egli il dí seguente, che fu il dí nono di novembre, entrare nel palagio nel quale risedeva la signoria, magistrato sommo della republica, gli fu proibito da alcuni magistrati che armati guardavano la porta, de' quali fu il principale Jacopo de' Nerli, giovane nobile e ricco. Il che divulgato per la città, il popolo subito tumultuosamente pigliò l'armi concitato con maggiore impeto perché Paolo Orsini co' suoi uomini d'arme, chiamato da Piero, s'approssimava: donde egli, che già alle sue case ritornato era, perduto d'animo e di consiglio, e inteso che la signoria l'aveva dichiarato rebelle, si fuggí con grandissima celerità di Firenze, seguitandolo Giovanni cardinale della Chiesa romana e Giuliano suoi fratelli, a' quali similmente furono imposte le pene ordinate contro a i rebelli; e se ne andò a Bologna. Ove Giovanni Bentivogli, desiderando in altrui quel vigore di animo il quale non rappresentò poi nelle sue avversità, mordacemente nel primo congresso lo riprese che, in pregiudicio non solo proprio ma non meno per rispetto dell'esempio di tutti quegli che opprimevano la libertà delle loro patrie, avesse cosí vilmente e senza la morte di uno uomo solo abbandonata tanta grandezza. In questo modo, per la temerità di uno giovane, cadde per allora la famiglia de' Medici di quella potenza la quale, sotto nome e con dimostrazioni quasi civili, aveva, sessanta anni continui, ottenuta in Firenze: cominciata in Cosimo suo bisavolo, cittadino di singolare prudenza e di ricchezze inestimabili e però celebratissimo per tutte le parti della Europa, e molto piú perché con ammirabile magnificenza e con animo veramente regio, avendo piú rispetto alla eternità del nome suo che alla comodità de' discendenti, spese piú di quattrocentomila ducati in fabriche di chiese di monasteri e d'altri superbissimi edifici, non solo nella patria ma in molte parti del mondo; del quale Lorenzo nipote, grande di ingegno e di eccellente consiglio, né di generosità dell'animo minore dell'avolo, e nel governo della republica di piú assoluta autorità, benché inferiore assai di ricchezze e di vita molto piú breve, fu in grande estimazione per tutta Italia e appresso a molti príncipi forestieri, la quale dopo la morte si convertí in memoria molto chiara, parendo che insieme con la sua vita la concordia e la felicità d'Italia fussino mancate.

                                            Ma il dí medesimo nel quale si mutò lo stato di Firenze, essendo Carlo nella città di Pisa, i pisani ricorsono a lui popolarmente a domandare la libertà, querelandosi gravemente delle ingiurie le quali dicevano ricevere da' fiorentini; e affermandogli alcuni de' suoi, che erano presenti, essere domanda giusta perché i fiorentini gli dominavano acerbamente, il re, non considerando quello che importasse questa richiesta e che era contraria alle cose trattate in Serezana, rispose subito essere contento: alla quale risposta il popolo pisano, pigliate l'armi e gittate per terra de' luoghi publici le insegne de' fiorentini, si vendicò cupidissimamente in libertà. E nondimeno il re, contrario a se medesimo né sapendo che cose si concedesse, volle che vi restassino gli ufficiali de' fiorentini a esercitare la solita giurisdizione; e da altra parte lasciò la cittadella vecchia in mano de' pisani, ritenendo per sé la nuova che era di importanza molto maggiore. Potette apparire in questi accidenti di Pisa e di Firenze quel che è confermato per proverbio comune, che gli uomini, quando si approssimano i loro infortuni, pérdono principalmente la prudenza, con la quale arebbono potuto impedire le cose destinate: perché e i fiorentini sospettosissimi in ogni tempo della fede de' pisani, aspettando una guerra di tanto pericolo, non chiamorono a Firenze i cittadini principali di Pisa, come per assicurarsene solevano fare, di numero grande, in ogni leggiero accidente; né Piero de' Medici, appropinquandosi tante difficoltà, armò di fanti forestieri la piazza e il palagio publico, come in sospetti molto minori si era fatto molte altre volte: le quali provisioni arebbono fatto impedimento grande a queste mutazioni. Ma in quanto alle cose di Pisa, è manifesto che a' pisani, inimicissimi per natura del nome fiorentino, dette animo principalmente a questo moto l'autorità di Lodovico Sforza, il quale aveva tenuto prima pratiche occulte a questo effetto con alcuni cittadini pisani sbanditi per delitti privati; e il dí medesimo Galeazzo da San Severino, il quale da lui era stato lasciato appresso al re, concitò il popolo a questa tumultuazione, mediante la quale Lodovico si persuadeva il dominio di Pisa avergli presto a pervenire, non sapendo tale cosa dovere, dopo non molto tempo, essere cagione di tutte le sue miserie. Ma è medesimamente manifesto che, comunicando la notte dinanzi alcuni pisani quel che avevano nell'animo di fare al cardinale di San Piero in Vincola, egli, il quale insino a quel dí non era forse mai stato autore di quieti consigli, gli confortò con gravi parole che considerassino non solamente la superficie e i princi*pi delle cose ma piú intrinsecamente quel che potessino in processo di tempo partorire. Essere desiderabile e preziosa cosa la libertà, e tale che meriti di sottomettersi a ogni pericolo quando, almeno in qualche parte, s'ha speranza verisimile di sostentarla. Ma Pisa, città spogliata di popolo e di ricchezze, non avere facoltà di difendersi dalla potenza de' fiorentini; e essere fallace consiglio il promettersi che l'autorità del re di Francia avesse a conservargli; perché quando bene non potessino piú in lui i danari de' fiorentini, come verisimilmente potrebbono, atteso massime le cose trattate a Serezana, non avere sempre i franzesi a stare in Italia, perché per gli esempli de' tempi passati si poteva facilmente giudicare il futuro; e essere grande imprudenza l'obligarsi a un pericolo perpetuo sotto fondamenti non perpetui, e per speranze incertissime pigliare con inimici tanto piú potenti la guerra certa, nella quale non si potevano promettere gli aiuti d'altri perché dependevano dall'altrui volontà e, quel che era piú, da accidenti molto vari; e quando bene gli ottenessino, non per questo fuggirebbono ma sarebbono piú gravi le calamità della guerra, vessandogli nel tempo medesimo i soldati degli inimici e aggravandogli i soldati degli amici, tanto piú acerbe a tollerare quanto conoscerebbono non combattere per la libertà propria ma per l'imperio alieno, permutando servitú a servitú; perché niuno principe vorrebbe implicarsi, se non per dominargli, ne' travagli e nelle spese d'una guerra, la quale, per le ricchezze e per la vicinità de' fiorentini, che mentre che avessino spirito non cesserebbono mai di molestargli, sostenere se non con grandissime difficoltà non si potrebbe.

                                             

                                                 Lib.1, cap.16

                                                  

                                                 Carlo VIII in marcia verso Firenze si ferma a Signa con intenzioni ostili. Precauzioni de' fiorentini e nascosti preparativi di difesa. Entrata di Carlo in Firenze. Eccessive esigenze di Carlo ed eccitazione degli animi de' fiorentini. Piero de' Medici, invitato da Carlo, si consiglia co' veneziani che lo confortano a non muoversi da Venezia. Sdegnose parole di Pier Capponi a Carlo e patti conclusi fra questo e i fiorentini.

                                                  

                                            Fermossi dipoi Carlo a Signa, luogo propinquo a Firenze a sette miglia, per aspettare, innanzi che entrasse in quella città, che alquanto fusse cessato il tumulto del popolo fiorentino, il quale non aveva deposte l'armi prese il dí che era stato cacciato Piero de' Medici; e per dare tempo a Obigní, il quale, per entrare con maggiore spavento in Firenze, aveva mandato a chiamare, con ordine che lasciasse l'artiglierie a Castrocaro e licenziasse dagli stipendi suoi i cinquecento uomini d'arme italiani che erano seco in Romagna e insieme le genti d'arme del duca di Milano, in modo che de' soldati sforzeschi non lo seguitò altri che 'l conte di Gaiazzo con trecento cavalli leggieri: e per molti indizi si comprendeva essere il pensiero del re di indurre i fiorentini col terrore delle armi a cedergli il dominio assoluto della città; né egli sapeva dissimularlo con gli imbasciadori medesimi i quali piú volte andorno a Signa per risolvere seco il modo dello entrare in Firenze, e per dare perfezione alla concordia che si trattava. Non è dubbio che 'l re, per l'opposizione che gli era stata fatta, aveva contro al nome fiorentino grandissimo sdegno e odio conceputo; e ancora che e' fusse manifesto non essere proceduta dalla volontà della republica, e che la città se ne fusse seco diligentissimamente giustificata nondimeno non ne restava con l'animo purgato; indotto, come si crede, da molti de' suoi, i quali giudicavano non dovere pretermettersi l'opportunità di insignorirsene, o mossi da avarizia non volevano perdere l'occasione di saccheggiare sí ricca città: e era vociferazione per tutto l'esercito che per l'esempio degli altri si dovesse abbruciare, poiché primi in Italia di opporsi alla potenza di Francia presunto avevano. Né mancava tra i principali del suo consiglio chi alla restituzione di Piero de' Medici lo confortasse, e specialmente Filippo monsignore di Brescia, fratello del duca di Savoia, indotto da amicizie private e da promesse; in modo che, o prevalendo la persuasione di questi, benché il vescovo di San Malò consigliasse il contrario, o sperando con questo terrore fare inclinare piú i fiorentini alla sua volontà, o per avere occasione di prendere piú facilmente in sul fatto quello partito che piú gli piacesse, scrisse una lettera a Piero e gli fece scrivere da Filippo monsignore, confortandolo ad accostarsi a Firenze, perché per l'amicizia stata tra i padri loro e per il buono animo dimostratogli da lui nella consegnazione delle fortezze, era deliberato di reintegrarlo nella pristina autorità. Le quali lettere non lo trovorono, come il re aveva creduto, in Bologna, perché Piero, mosso dalla asprezza delle parole di Giovanni Bentivogli e dubitando non essere perseguitato dal duca di Milano e forse dal re di Francia, era per sua infelicità andato a Vinegia; dove gli furno mandate dal cardinale suo fratello, il quale era restato a Bologna.

                                            In Firenze si dubitava molto della mente del re, ma non vedendo con quali forze o con quale speranza gli potessino resistere, avevano eletto per manco pericoloso il riceverlo nella città, sperando pure d'avere in qualche modo a placarlo; e nondimeno, per essere proveduti a ogni caso, avevano ordinato che molti cittadini si empiessino le case occultamente d'uomini del dominio fiorentino, e che i condottieri i quali militavano agli stipendi della republica entrassino, dissimulando la cagione, con molti de' loro soldati in Firenze, e che ciascuno nella città e ne' luoghi circostanti stesse attento per pigliare l'armi al suono della campana maggiore del publico palagio. Entrò dipoi il re con l'esercito, con grandissima pompa e apparato, fatto con sommo studio e magnificenza cosí dalla sua corte come dalla città; e entrò, in segno di vittoria, armato egli e il suo cavallo, con la lancia in sulla coscia: dove si ristrinse subito la pratica dell'accordo, ma con molte difficoltà. Perché, oltre al favore immoderato prestato da alcuni de' suoi a Piero de' Medici e le dimande intollerabili che si faceano di danari, Carlo scopertamente il dominio di Firenze dimandava, allegando che, per esservi entrato in quel modo armato, l'aveva, secondo gli ordini militari del regno di Francia, legittimamente guadagnato; dalla quale domanda benché finalmente si partisse, voleva nondimeno lasciare in Firenze certi imbasciadori di roba lunga, (cosí chiamano in Francia i dottori e le persone togate), con tale autorità che, secondo gli instituti franzesi, arebbe potuto pretendere essersegli attribuita in perpetuo non piccola giurisdizione; e pel contrario i fiorentini erano ostinatissimi a conservare intera, non ostante qualunque pericolo, la propria libertà: donde, trattando insieme con opinioni tanto diverse, si accendevano continuamente gli animi di ciascuna delle parti. E nondimeno niuno era pronto a terminare le differenze con l'armi, perché il popolo di Firenze, dato per lunga consuetudine alle mercatanzie e non agli esercizi militari, temeva grandemente, avendo intra le proprie mura uno potentissimo re con tanto esercito, pieno di nazioni incognite e feroci; e a' franzesi faceva molto timore l'essere il popolo grandissimo e l'avere dimostrato, in quegli dí che fu mutato il governo, segni maggiori d'audacia che prima non sarebbe stato creduto, e la fama publica che, al suono della campana grossa, quantità d'uomini innumerabile di tutto il paese circostante concorresse. Nella quale comune paura levandosi spesso romori vani, ciascuna delle parti per sua sicurtà tumultuosamente pigliava l'armi, ma niuna assaltava l'altra o provocava.

                                            Riuscí vano al re il fondamento di Piero de' Medici, perché Piero, sospeso tra la speranza datagli e il timore di non essere dato in preda agli avversari, domandò sopra le lettere del re consiglio al senato viniziano. Niuna cosa è certamente piú necessaria nelle deliberazioni ardue, niuna da altra parte piú pericolosa, che 'l domandare consiglio; né è dubbio che manco è necessario agli uomini prudenti il consiglio che agli imprudenti; e nondimeno, che molto piú utilità riportano i savi del consigliarsi. Perché chi è quello di prudenza tanto perfetta che consideri sempre e conosca ogni cosa da se stesso? e nelle ragioni contrarie discerna sempre la migliore parte? Ma che certezza ha chi domanda il consiglio d'essere fedelmente consigliato? Perché chi dà il consiglio, se non è molto fedele o affezionato a chi 'l domanda, non solo mosso da notabile interesse ma per ogni suo piccolo comodo, per ogni leggiera sodisfazione, dirizza spesso il consiglio a quel fine che piú gli torna a proposito o di che piú si compiace; e essendo questi fini il piú delle volte incogniti a chi cerca d'essere consigliato, non s'accorge, se non è prudente, della infedeltà del consiglio. Cosí intervenne a Piero de' Medici, perché i viniziani, giudicando che l'andata sua faciliterebbe a Carlo il ridurre le cose di Firenze a' suoi disegni, il che per lo interesse proprio sarebbe stato loro molestissimo, e però consigliando piú tosto se medesimi che Piero, efficacissimamente lo confortorno a non si mettere in potestà del re, il quale da lui si teneva ingiuriato; e per dargli maggiore cagione di seguitare il consiglio loro gli offersono d'abbracciare le cose sue e di prestargli, quando il tempo lo comportasse, ogni favore a rimetterlo nella patria: né contenti di questo, per assicurarsi che allora di Vinegia non si partisse, gli posono, se è stato vero quel che poi si divulgò, segretissime guardie.

                                            Ma in questo mezzo erano in Firenze da ogni parte esacerbati gli animi e quasi trascorsi a manifesta contenzione, non volendo il re dall'ultime sue domande declinare, né i fiorentini a somma di danari intollerabile obligarsi, né giurisdizione o preminenza alcuna nel loro stato consentirgli. Le quali difficoltà, quasi inesplicabili se non con l'armi, sviluppò la virtú di Piero Capponi, uno di quattro cittadini diputati a trattare col re, uomo di ingegno e d'animo grande, e in Firenze molto stimato per queste qualità, e per essere nato di famiglia onorata e disceso di persone che avevano potuto assai nella republica. Perché essendo un dí egli e i compagni suoi alla presenza del re, e leggendosi da uno secretario regio i capitoli immoderati i quali per ultimo per la parte sua si proponevano, egli con gesti impetuosi, tolta di mano del secretario quella scrittura la stracciò innanzi agli occhi del re, soggiugnendo con voce concitata:

                                            - Poiché si domandano cose sí disoneste, voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane. - Volendo espressamente inferire che le differenze si deciderebbono con l'armi; e col medesimo impeto, andandogli dietro i compagni, si partí subito della camera. Certo è che le parole di questo cittadino, noto prima a Carlo e a tutta la corte perché pochi mesi innanzi era stato in Francia imbasciadore de' fiorentini, messono in tutti tale spavento, non credendo massime che tanta audacia fusse in lui senza cagione, che richiamatolo, e lasciate le dimande alle quali si ricusava di consentire, si convennono insieme il re e i fiorentini in questa sentenza: che rimesse tutte le ingiurie precedenti, la città di Firenze fusse amica, confederata e in protezione perpetua della corona di Francia: che in mano del re, per sicurtà sua, rimanessino la città di Pisa, la terra di Livorno, con tutte le loro fortezze: le quali fusse obligato a restituire senza alcuna spesa a fiorentini subito che avesse finito l'impresa del regno di Napoli, intendendosi finita ogni volta che avesse conquistata la città di Napoli o composto le cose con pace o con tregua di due anni o che per qualunque causa la persona sua d'Italia si partisse, e che i castellani giurassino di presente di restituirle ne' casi sopradetti, e in questo mezzo il dominio, la giurisdizione, il governo, l'entrate delle terre fussino de' fiorentini, secondo il solito; e che le cose medesime si facessino di Pietrasanta, di Serezana e di Serezanello, ma che, per pretendere i genovesi d'avere ragione in queste, fusse lecito al re procurare di terminare le differenze loro o per concordia o per giustizia, ma che non l'avendo terminate nel soprascritto tempo, le restituisse a' fiorentini: che 'l re potesse lasciare in Firenze due imbasciadori, senza intervento de' quali, durante la detta impresa, non si trattasse cosa alcuna appartenente a quella; né potessino nel tempo medesimo eleggere senza sua partecipazione capitano generale delle genti loro: restituissinsi subito tutte l'altre terre tolte o ribellatesi da' fiorentini, a' quali fusse lecito recuperarle con l'armi in caso recusassino di ricevergli: donassino al re per sussidio della sua impresa ducati cinquantamila fra quindici dí, quarantamila per tutto marzo e trentamila per tutto giugno prossimi: fusse perdonato a' pisani il delitto della ribellione e gli altri delitti commessi poi: liberassinsi Piero de' Medici e i fratelli dal bando e dalla confiscazione, ma non potesse accostarsi Piero per cento miglia a i confini del dominio fiorentino, il che si faceva per privarlo della facoltà di stare a Roma, né i fratelli per cento miglia alla città di Firenze. Questi furono gli articoli piú importanti della capitolazione tra il re e i fiorentini; la quale, oltre all'essere stipulata legittimamente, fu con grandissima cerimonia publicata nella chiesa maggiore intra gli offici divini; dove il re personalmente, a richiesta del quale fu fatto questo, e i magistrati della città, promessono l'osservanza con giuramento solenne, prestato in sull'altare principale, presente la corte e tutto il popolo fiorentino. E due dí poi partí Carlo di Firenze, dove era dimorato dieci dí, e andò a Siena; la quale città, confederata col re di Napoli e co' fiorentini, aveva seguitato la loro autorità, insino a tanto che l'andata di Piero de' Medici a Serezana gli costrinse a pensare da se stessi alla propria salute.

                                             

                                                 Lib.1, cap.17

                                                  

                                                 Carlo VIII da Siena, di governo libero ma turbata dalle fazioni, s'incammina verso Roma. Timori del senato veneziano e del duca di Milano per i buoni successi di Carlo. Titubanze del pontefice mentre l'esercito francese s'avvicina a Roma. Sottili accordi fra gli Orsini e il re di Francia. Entrata di Carlo in Roma. Patti e riconciliazione fra il pontefice e Carlo.

                                                  

                                                 La città di Siena, città popolosa e di territorio molto fertile, e la quale otteneva in Toscana, già lungo tempo, il primo luogo di potenza dopo i fiorentini, si governava per se medesima, ma in modo che conosceva piú presto il nome della libertà che gli effetti, perché distratta in molte fazioni o membri di cittadini, chiamati appresso a loro ordini, ubbidiva a quella parte la quale secondo gli accidenti de' tempi e i favori de' potentati forestieri era piú potente che l'altre; e allora vi prevaleva l'ordine del Monte de' nove. In Siena dimorato pochissimi dí, e lasciatavi gente a guardia, perché per essere quella città inclinata insino a' tempi antichi alla divozione dello imperio gli era sospetta, si indirizzò al cammino di Roma; insolente piú l'un dí che l'altro per i successi molto maggiori che non erano giammai state le speranze, e, essendo i tempi benigni e sereni assai piú che non comportava la stagione, deliberato di continuare senza intermissione questa prosperità, terribile non solo agli inimici manifesti ma a quegli o che erano stati congiunti seco o i quali non l'avevano provocato in cosa alcuna. Perché, e il senato viniziano e il duca di Milano, impauriti di tanto successo, dubitando, massime per le fortezze ritenute de' fiorentini e per la guardia lasciata in Siena, che i pensieri suoi non terminassino nello acquisto di Napoli, incominciorno per ovviare al pericolo comune a trattare di fare insieme nuova confederazione; e gli arebbono data piú tosto perfezione se le cose di Roma avessino fatto quella resistenza che fu sperato da molti.

                                            Perché la intenzione del duca di Calavria, col quale s'erano unite presso a Roma le genti del pontefice e Verginio Orsino col resto dell'esercito aragonese, fu di fermarsi a Viterbo per impedire a Carlo il passare piú innanzi; invitandolo oltre a molte cagioni l'opportunità del luogo, circondato dalle terre della Chiesa e propinquo agli stati degli Orsini. Ma tumultuando già tutto 'l paese di Roma, per le scorrerie che i Colonnesi facevano di là dal fiume del Tevere e per gl'impedimenti che per mezzo d'Ostia si davano alle vettovaglie, le quali solevano condursi a Roma per mare, non ebbe ardire di fermarvisi: dubitando oltre a questo della mente del pontefice, perché, insino quando intese la variazione di Piero de' Medici, aveva cominciato a udire le domande franzesi, per le quali andò allora a Roma a parlargli il cardinale Ascanio, essendo andato prima per sicurtà sua il cardinale di Valenza a Marino, terra de' Colonnesi; e benché Ascanio si partisse senza certa risoluzione, perché nel petto d'Alessandro la diffidenza della mente di Carlo e il timore delle sue forze insieme combattevano, nondimeno come Carlo fu partito di Firenze si ritornò di nuovo a' ragionamenti dell'accordo, per i quali il pontefice mandò a lui i vescovi di Concordia e di Terni e maestro Graziano suo confessore, trattando di comporre insieme le cose sue e quelle del re Alfonso. Ma era diversa la intenzione di Carlo, risoluto di non concordare se non col pontefice solo: però mandò a lui.. monsignore della Tramoglia e... di Gannai presidente del parlamento di..., e vi andorno per la medesima cagione il cardinale Ascanio e Prospero Colonna; i quali non prima arrivati che Alessandro, quale si fusse la causa, mutato proposito, messe subito il duca di Calavria con tutto l'esercito in Roma, e fatti ritenere Ascanio e Prospero gli fece custodire nella Mole d'Adriano detta già il Castello di Crescenzio, oggi Castello Sant'Angelo, dimandando loro la restituzione d'Ostia: nel quale tumulto furono dalle genti aragonesi fatti prigioni gli oratori franzesi, ma questi il pontefice fece subito liberare, né molti dí poi fece il medesimo d'Ascanio e di Prospero, costringendogli nondimeno a partirsi da Roma subitamente. Mandò dipoi al re, il quale si era fermato a Nepi, Federigo da San Severino cardinale, cominciando a trattare solamente delle cose proprie; e nondimeno con l'animo molto ambiguo: perché ora di fermarsi alla difesa di Roma deliberava, e però permetteva che Ferdinando e i capitani attendessino ne' luoghi piú deboli a fortificarla; ora parendogli cosa difficile il sostenerla, per essere le vettovaglie marittime da quegli che erano in Ostia interrotte e per il numero infinito di forestieri pieni di varie volontà e per la diversità delle fazioni tra i romani, inclinava a partirsi di Roma, e però aveva voluto che nel collegio ciascuno de' cardinali gli promettesse per scrittura di mano propria di seguitarlo; ora, spaventato dalle difficoltà e da' pericoli imminenti a qualunque di queste deliberazioni, voltava l'animo all'accordo. Nelle quali ambiguità mentre che sta sospeso i franzesi correvano di qua dal Tevere tutto il paese, occupando ora una terra ora un'altra, perché non si trovava piú luogo niuno che resistesse, niuno piú che non cedesse all'impeto loro; seguitando l'esempio degli altri insino a quegli che avevano cagioni grandissime di opporsi, insino a Verginio Orsino, astretto con tanti vincoli di fede d'obligazione e d'onore alla casa d'Aragona, capitano generale dell'esercito regio, gran conestabile del regno di Napoli, congiunto a Alfonso con parentado molto stretto, perché a Gian Giordano suo figliuolo era maritata una figliuola naturale di Ferdinando re morto, e che da loro aveva ricevuto stati nel reame tanti favori. Dimenticatosi di tutte queste cose, né meno dimenticatosi che dagli interessi suoi le calamità aragonesi avevano avuto la prima origine, consentí, con ammirazione de' franzesi non assueti a queste sottili distinzioni de' soldati d'Italia, che restando agli stipendi del re di Napoli la sua persona, i figliuoli convenissino col re di Francia; obligandosi dargli, nello stato teneva nel dominio della Chiesa, ricetto passo e vettovaglie, e dipositare Campagnano e certe altre terre in mano del cardinale Gurgense, che promettesse restituirle subito che l'esercito fusse uscito dal territorio romano: e nel medesimo modo convennono congiuntamente il conte di Pitigliano e gli altri della famiglia Orsina. Il quale accordo come fu fatto, Carlo andò da Nepi a Bracciano, terra principale di Verginio, e a Ostia mandò Luigi monsignore di Ligní e Ivo monsignore di Allegri con cinquecento lancie e con dumila svizzeri, acciocché passando il Tevere e uniti coi Colonnesi che correvano per tutto, si sforzassino d'entrare in Roma; i quali per mezzo de' romani della fazione loro speravano a ogni modo di conseguirlo, con tutto che per i tempi diventati sinistri le difficoltà fussino accresciute. Già Civitavecchia, Corneto e finalmente quasi tutto il territorio di Roma era ridotto alla divozione franzese; già tutta la corte, già tutto il popolo romano, in grandissima sollevazione e terrore, chiamavano ardentemente la concordia: però il pontefice, ridotto in pericolosissimo frangente e vedendo mancare continuamente i fondamenti del difendersi, non si riteneva per altro che per la memoria di essere stato de' primi a incitare il re alle cose di Napoli, e dipoi, senza essergliene stata data cagione alcuna, avere con l'autorità co' consigli e con l'armi fattagli pertinace resistenza; onde meritamente dubitava dovere essere del medesimo valore la fede che e' ricevesse dal re che quella che il re aveva ricevuta da lui. Accresceva il terrore il vedergli appresso con autorità non piccola il cardinale di San Piero in Vincola e molti altri cardinali inimici suoi; per le persuasioni de' quali, per il nome cristianissimo de' re di Francia, per la fama inveterata della religione di quella nazione, e per l'espettazione, che è sempre maggiore, di quegli che sono noti per nome solo, temeva che 'l re non voltasse l'animo a riformare, come già cominciava a divulgarsi, le cose della Chiesa: pensiero a lui sopra modo terribile, che si ricordava con quanta infamia fusse asceso al pontificato, e averlo continuamente amministrato con costumi e con arti non disformi da principio tanto brutto. Alleggerissi questo sospetto per la diligenza e efficaci promesse del re, il quale desiderando sopra ogni cosa accelerare l'andata sua al regno di Napoli, e però non pretermettendo opera alcuna per rimuoversi l'impedimento del pontefice, gli mandò di nuovo imbasciadori il siniscalco di Belcari, il marisciallo di Gies e il medesimo presidente di Gannai: i quali, sforzandosi di persuadergli non essere l'intenzione del re di mescolarsi in quello che apparteneva all'autorità pontificale né domandargli se non quanto fusse necessario alla sicurtà del passare innanzi, feciono instanza che e' consentisse al re l'entrare in Roma; affermando questo essere sommamente desiderato da lui, non perché e' non fusse in sua potestà l'entrarvi con l'armi ma per non essere necessitato di mancare a lui di quella riverenza la quale avevano a' pontefici romani portata sempre i suoi maggiori; e che, subito che il re fusse entrato in Roma, le differenze state tra loro si convertirebbono in sincerissima benivolenza e congiunzione. Dure condizioni parevano al pontefice spogliarsi innanzi a ogni cosa degli aiuti degli amici, e rimettendosi totalmente in potestà dello inimico riceverlo prima in Roma che stabilire seco le cose sue; ma finalmente, giudicando che di tutti i pericoli questo fusse il minore, consentite queste dimande, fece partire di Roma il duca di Calavria col suo esercito, ma ottenuto prima per lui salvocondotto da Carlo perché sicuramente potesse passare per tutto lo stato ecclesiastico. Ma Ferdinando, avendolo magnanimamente rifiutato, uscí di Roma per la porta di San Sebastiano, l'ultimo dí dell'anno mille quattrocento novantaquattro, nell'ora propria che per la porta di Santa Maria del popolo vi entrava con l'esercito franzese il re, armato, con la lancia in sulla coscia, come era entrato in Firenze; e nel tempo medesimo il pontefice, pieno di incredibile timore e ansietà, si era ritirato in Castel Sant'Angelo, non accompagnato da altri cardinali che da Batista Orsino e da Ulivieri Caraffa napoletano. Ma il Vincola, Ascanio, i cardinali Colonnese e Savello e molt'altri non cessavano di fare instanza col re, che rimosso di quella sedia uno pontefice pieno di tanti vizi e abominevole a tutto 'l mondo se ne eleggesse un altro, dimostrandogli non essere meno glorioso al nome suo liberare dalla tirannide d'uno papa scelerato la Chiesa d'Iddio che fusse stato a Pipino e a Carlo magno suoi antecessori liberare i pontefici di santa vita dalle persecuzioni di coloro che ingiustamente gli opprimevano. Ricordavangli questa deliberazione essere non manco necessaria per la sicurtà sua che desiderabile per la gloria: perché, come potrebbe mai confidarsi nelle promesse di Alessandro, uomo per natura pieno di fraude, insaziabile nelle cupidità, sfacciatissimo in tutte le sue azioni e, come aveva dimostrato l'esperienza, di ardentissimo odio contro al nome franzese? né che ora si riconciliava spontaneamente ma sforzato dalla necessità e dal timore? Per i conforti de' quali e perché il pontefice, nelle condizioni che si trattavano, recusava di concedere a Carlo Castel Sant'Angelo per assicurarlo di quello gli promettesse, furono due volte cavate l'artiglierie del palagio di San Marco, nel quale Carlo alloggiava, per piantarle intorno al castello. Ma né il re aveva per sua natura inclinazione a offendere il pontefice, e nel consiglio suo piú intimo potevano quegli i quali Alessandro con doni e con speranze s'aveva fatti benevoli. Però finalmente convennono: che tra 'l pontefice e il re fusse amicizia perpetua e confederazione per la difesa comune: che al re per sua sicurezza si dessino, per tenerle insino all'acquisto del reame di Napoli, le rocche di Civitavecchia, di Terracina e di Spuleto; benché questa non gli fu poi consegnata: non riconoscesse il pontefice offesa o ingiuria alcuna contro a cardinali, né contro a' baroni sudditi della Chiesa, i quali aveano seguitato le parti del re: investisselo il pontefice del regno di Napoli: concedessegli Gemin ottomanno fratello di Baiset, il quale dopo la morte di Maumet padre comune, perseguitato da Baiset (secondo la consuetudine efferata degli ottomanni, i quali stabiliscono la successione nel principato col sangue de' fratelli e di tutti i piú prossimi) e perciò rifuggito a Rodi e di quivi condotto in Francia, era finalmente stato messo in potestà di Innocenzio pontefice; donde Baiset, usando l'avarizia de' vicari di Cristo per instrumento a tenere in pace lo imperio inimico alla fede cristiana, pagava ciascun anno, sotto nome delle spese che si facevano in alimentarlo e custodirlo, ducati quarantamila a' pontefici, acciocché fussino manco pronti a liberarlo o a concederlo a altri príncipi contro a sé. Fece instanza Carlo d'averlo per facilitarsi col mezzo suo l'impresa contro a' turchi, la quale, enfiato da vane adulazioni de' suoi, pensava, vinti che avesse gli aragonesi, di incominciare. E perché gli ultimi quarantamila ducati mandati dal turco erano stati tolti a Sinigaglia dal prefetto di Roma, che il pontefice e la pena e la restituzione di essi gli rimettesse. A queste cose si aggiunse che 'l cardinale di Valenza seguitasse, come legato apostolico, tre mesi, il re, ma in verità per statico delle promesse paterne. Fermata la concordia, il pontefice ritornò al palagio pontificale in Vaticano; e da poi, con la pompa e cerimonie consuete a ricevere i re grandi, ricevé il re nella chiesa di San Piero; il quale, avendogli, secondo il costume antico, genuflesso baciati i piedi e dipoi ammesso a baciargli il volto, intervenne un altro giorno alla messa pontificale, sedendo il primo dopo il primo vescovo cardinale; e secondo il rito antico dette al papa, celebrante la messa, l'acqua alle mani. Delle quali cerimonie il pontefice, perché si conservassino nella memoria de' posteri, fece fare pittura in una loggia del Castello di Santo Angelo. Publicò di piú a instanza sua cardinali il vescovo di San Malò e il vescovo di Umans della casa di Luzimborgo, né omesse dimostrazione alcuna d'essersi seco sinceramente e fedelmente reconciliato.

                                             

                                                 Lib.1, cap.18

                                                  

                                                 Favore delle popolazioni del reame di Napoli per i francesi. Alfonso d'Aragona abbandona l'autorità di re a favore del figliuolo Ferdinando e fugge a Mazari in Sicilia. Ferocia dei francesi al Monte di San Giovanni.

                                                  

                                                 Dimorò Carlo in Roma circa uno mese, non avendo per ciò cessato di mandare gente a' confini del regno napoletano: nel quale già ogni cosa tumultuava in modo che l'Aquila e quasi tutto l'Abruzzi aveva, prima che 'l re partisse di Roma, alzate le sue bandiere, e Fabrizio Colonna aveva occupato i contadi d'Albi e di Tagliacozzo; né era molto piú quieto il resto del reame. Perché subito che Ferdinando fu partito da Roma cominciorono i frutti dell'odio che i popoli portavano ad Alfonso ad apparire, aggiugnendosi la memoria di molte acerbità usate da Ferdinando suo padre; donde, esclamando con grandissimo ardore delle iniquità de' governi passati e della crudeltà e superbia d'Alfonso, il desiderio della venuta de' franzesi palesemente dimostravano; in modo che le reliquie antiche della fazione angioina, benché congiunte con la memoria e col seguito di tanti baroni stati scacciati e incarcerati in vari tempi da Ferdinando, cosa per sé di somma considerazione e potente instrumento ad alterare, facevano in questo tempo, a comparazione dell'altre cagioni, piccolo momento: tanto senza questi stimoli era concitata e ardente la disposizione di tutto il regno contro ad Alfonso. Il quale, intesa che ebbe la partita del figliuolo da Roma, entrò in tanto terrore che, dimenticatosi della fama e gloria grande la quale con lunga esperienza aveva acquistato in molte guerre d'Italia, e disperato di potere resistere a questa fatale tempesta, deliberò di abbandonare il regno, rinunziando il nome e l'autorità reale a Ferdinando, e avendo forse qualche speranza che rimosso con lui l'odio sí smisurato, e fatto re uno giovane di somma espettazione, il quale non aveva offeso alcuno e quanto a sé era in assai grazia appresso a ciascuno, allenterebbe per avventura ne' sudditi il desiderio de' franzesi: il quale consiglio, se forse anticipato arebbe fatto qualche frutto, differito a tempo che le cose non solo erano in veemente movimento ma già cominciate a precipitare, non bastava piú a fermare tanta rovina. È fama eziandio (se però è lecito tali cose non del tutto disprezzare) che lo spirito di Ferdinando apparí tre volte in diverse notti a Iacopo primo cerusico della corte, e che prima con mansuete parole dipoi con molte minaccie gli impose dicesse ad Alfonso, in suo nome, che non sperasse di potere resistere al re di Francia, perché era destinato che la progenie sua, travagliata da infiniti casi e privata finalmente di sí preclaro regno, si estinguesse. Esserne cagione molte enormità usate da loro, ma sopra tutte quella che, per le persuasioni fattegli da lui quando tornava da Pozzuolo, nella chiesa di San Lionardo in Chiaia appresso a Napoli aveva commessa: né avendo espresso altrimenti i particolari, stimorono gli uomini che Alfonso l'avesse in quel luogo persuaso a fare morire occultamente molti baroni, i quali lungo tempo erano stati incarcerati. Quel che di questo sia la verità, certo è che Alfonso, tormentato dalla coscienza propria, non trovando né dí né notte requie nell'animo, e rappresentandosegli nel sonno l'ombre di quegli signori morti, e il popolo per pigliare supplicio di lui tumultuosamente concitarsi, conferito quel che aveva deliberato solamente con la reina sua matrigna, né voluto, a' prieghi suoi, comunicarlo né col fratello né col figliuolo, né soprastare pure due o tre dí soli per finire l'anno intero del suo regno, si partí con quattro galee sottili cariche di molte robe preziose; dimostrando nel partire tanto spavento che pareva fusse già circondato da' franzesi, e voltandosi paurosamente a ogni strepito come temendo che gli fussino congiurati contro il cielo e gli elementi; e si fuggí a Mazari terra in Sicilia, statagli prima donata da Ferdinando re di Spagna.

                                            Ebbe il re di Francia, all'ora medesima che si partiva di Roma, avviso della sua fuga. Il quale come fu arrivato a Velletri, il cardinale di Valenza fuggí occultamente da lui: della quale cosa benché il padre facesse gravi querele, offerendo d'assicurare il re in qualunque modo volesse, si credette fusse stato per suo comandamento, come quello che voleva fusse in sua facoltà l'osservare o no le convenzioni fatte con lui. Da Velletri andò l'antiguardia a Montefortino, terra posta nella campagna della Chiesa e suddita a Iacopo Conte barone romano; il quale, condotto prima agli stipendi di Carlo, si era di poi, potendo piú in lui l'odio de' Colonnesi che l'onore proprio, condotto con Alfonso: il quale castello battuto dall'artiglierie, benché fortissimo di sito, presono i franzesi in pochissime ore, ammazzando tutti quegli che v'erano dentro eccetto tre suoi figliuoli con alcuni altri che rifuggiti nella fortezza, come veddono dirizzarvisi l'artiglierie, s'arrenderono prigioni. Andò dipoi l'esercito al Monte di San Giovanni, terra del marchese di Pescara, posta in su i confini del regno nella medesima campagna, la quale forte di sito e di munizione non era meno munita di difensori, perché vi erano dentro trecento fanti forestieri e cinquecento degli abitatori dispostissimi a ogni pericolo, in modo si giudicava non si dovesse espugnare se non in ispazio di molti dí. Ma i franzesi avendolo battuto con l'artiglierie poche ore, gli dettono, presente il re che vi era venuto da Veroli, con tanta ferocia la battaglia che, superate tutte le difficoltà, l'espugnorono per forza il dí medesimo: dove, per il furore loro naturale e per indurre con questo esempio gli altri a non ardire di resistere, commessono grandissima uccisione; e dopo avervi esercitato ogn'altra specie di barbara ferità incrudelirono contro agli edifici col fuoco. Il quale modo di guerreggiare, non usato molti secoli in Italia, empié tutto il regno di grandissimo terrore, perché nelle vittorie, in qualunque modo acquistate, l'ultimo dove soleva procedere la crudeltà de' vincitori era spogliare e poi liberare i soldati vinti, saccheggiare le terre prese per forza e fare prigioni gli abitatori perché pagassino le taglie, perdonando sempre alla vita degli uomini i quali non fussino stati ammazzati nello ardore del combattere.

                                             

                                                 Lib.1, cap.19

                                                  

                                                 Le truppe aragonesi si ritirano a Capua. Gianiacopo da Triulzio, durante l'assenza di Ferdinando, stringe accordi per la resa con Carlo VIII. Parole di Ferdinando ai napoletani. Partenza di Ferdinando da Napoli. Verginio Orsini e il conte di Pitigliano fatti prigioni dai francesi. Entrata di Carlo in Napoli.

                                                  

                                                 Questa fu quanta resistenza e fatica avesse il re di Francia nel conquisto d'un regno sí nobile e sí magnifico, nella difesa del quale non si dimostrò né virtú né animo né consiglio, non cupidità d'onore non potenza non fede. Perché il duca di Calavria, il quale dopo la partita da Roma si era ritirato in su i confini del reame, poiché richiamato a Napoli per la fuga del padre ebbe assunto, con le solennità ma non già con la pompa né con la letizia consuete, l'autorità e il titolo reale, raccolto l'esercito, nel quale erano cinquanta squadre di cavalli e seimila fanti di gente eletta e sotto capitani de' piú stimati d'Italia, si fermò a San Germano per proibire che gli inimici non passassino piú innanzi, invitandolo l'opportunità del luogo, cinto da una parte di montagne alte e aspre, dall'altra di paese paludoso e pieno di acque, e a fronte il fiume del Garigliano (dicevanlo gli antichi Liri), benché in quel luogo non sí grosso che qualche volta non si guadi; donde per la strettezza del passo è detto meritamente San Germano essere una delle chiavi delle porte del regno di Napoli: e mandò similmente gente in sulla montagna vicina, alla guardia del passo di Cancelle. Ma già l'esercito suo, incominciato a impaurire del nome solo de' franzesi, non dimostrava piú vigore alcuno, e i capitani, parte pensando a salvare se medesimi e gli stati propri, come quegli i quali della difesa del regno si diffidavano, parte desiderosi di cose nuove, cominciavano a vacillare non meno di fede che di animo; né si stava senza timore, essendo il reame tutto in grandissima sollevazione, che alle spalle qualche pericoloso disordine non nascesse. Però soprafatto il consiglio dalla viltà, come espugnato il Monte di San Giovanni intesono avvicinarsi il marisciallo di Gies col quale erano trecento lancie e una parte de' fanti, si levorno vituperosamente da San Germano, e con tanto timore che lasciorno abbandonati per il cammino otto pezzi di grossa artiglieria, e si ridussono in Capua: la quale città il nuovo re, confidandosi nell'amore de' capuani verso la casa d'Aragona e nella fortezza del sito, per avere a fronte il fiume Volturno che è quivi molto profondo, sperava difendere; e nel tempo medesimo, non distraendo le sue forze in altri luoghi, tenere Napoli e Gaeta. Seguitavano dietro a lui di mano in mano i franzesi ma sparsi e disordinati, facendosi innanzi piú tosto a uso di cammino che di guerra, andando ciascuno dove gli paresse dietro all'occasione di predare, senza ordine senza bandiere senza comandamento de' capitani, e alloggiando il piú delle volte una parte di loro, alla notte, ne' luoghi donde la mattina erano diloggiati gli aragonesi.

                                            Ma né a Capua si dimostrò maggiore virtú o fortuna. Perché, poi che Ferdinando v'ebbe alloggiato l'esercito, il quale dopo la ritirata da San Germano era molto diminuito di numero, inteso per lettere della reina essere in Napoli nata, per la perdita di San Germano, sollevazione tale che non vi andando lui si susciterebbe qualche tumulto, vi cavalcò con piccola compagnia, per rimediare con la presenza sua a questo pericolo; avendo promesso di ritornare a Capua il dí seguente. Ma Gianiacopo da Triulzi, al quale commesse la cura di quella città, aveva già occultamente chiesto al re di Francia uno araldo per avere facoltà di andare sicuro a lui; il quale come fu arrivato, il Triulzio con alcuni gentiluomini capuani andò a Calvi, dove il dí medesimo era entrato il re, non ostante che per molti altri della terra, disposti a osservare la fede a Ferdinando, con altiere parole contradetto gli fusse. A Calvi subito introdotto innanzi al re, cosí armato come era andato, parlò in nome de' capuani e de' soldati: che vedendo mancate le forze di difendersi a Ferdinando, al quale mentre vi era stata speranza alcuna avevano servito fedelmente, deliberavano di seguitare la fortuna sua quando fussino accettati con oneste condizioni; aggiugnendo che non si diffidava di condurre a lui la persona di Ferdinando, purché volesse riconoscerlo come sarebbe conveniente. Alle quali cose il re rispose con gratissime parole accettando l'offerte de' capuani e de' soldati, e la venuta eziandio di Ferdinando, pure che e' sapesse non avere a ritenere parte alcuna benché minima del reame di Napoli ma a ricevere stati e onori nel regno di Francia. È dubbio quel che inducesse a tanta trasgressione Gianiacopo da Triulzi, capitano valoroso e solito a fare professione d'onore. Affermava egli di essere andato con volontà di Ferdinando per tentare di comporre le cose sue col re di Francia, dalla quale speranza essendo del tutto escluso, e manifesto non si potere piú difendere con l'armi il regno di Napoli, gli era paruto non solo lecito ma laudabile provedere in uno tempo medesimo alla salute de' capuani e de' soldati. Ma altrimenti sentirono gli uomini comunemente, perché si credette averlo mosso il desiderare la vittoria del re di Francia, sperando che occupato il regno di Napoli avesse a volgere l'animo al ducato di Milano; nella quale città essendo egli nato di nobilissima famiglia, né gli parendo avere appresso a Lodovico Sforza, o per il favore immoderato de' Sanseverini o per altro rispetto, luogo pari alle virtú e meriti suoi, si era totalmente alienato da lui: per la quale cagione molti avevano sospettato che prima, in Romagna, avesse confortato Ferdinando a procedere piú cautamente che forse qualche volta non consigliavano l'occasioni.

                                            Ma in Capua, già innanzi al ritorno del Triulzio, ogni cosa aveva fatto mutazione: andato a sacco l'alloggiamento e i cavalli di Ferdinando, le genti d'armi cominciate a disperdersi in vari luoghi, e Verginio e il conte di Pitigliano con le compagnie loro ritiratisi a Nola, città posseduta dal conte per donazione degli Aragonesi, avendo prima mandato a chiedere per sé e per le genti salvocondotto da Carlo. Ritornava al termine promesso Ferdinando, avendo, col dare speranza della difesa di Capua, quietati secondo il tempo gli animi de' napoletani, né sapendo quel che dopo la partita sua fusse accaduto. Era già vicino a due miglia quando, intendendosi il ritorno suo, tutto il popolo per non lo ricevere si levò in arme, mandatigli di consiglio comune incontro alcuni della nobiltà a significargli che non venisse piú innanzi, perché la città, vedendosi abbandonata da lui, andato il Triulzio governatore delle sue genti al re di Francia, saccheggiato da' soldati propri l'alloggiamento suo e i cavalli, partitisi Verginio e il conte di Pitigliano, dissoluto quasi tutto l'esercito, era stata necessitata per la salute propria di cedere al vincitore. Donde Ferdinando, poiché insino con le lacrime ebbe fatta invano instanza di essere ammesso, se ne ritornò a Napoli, certo che tutto 'l regno seguiterebbe l'esempio de' capuani: dal quale mossa la città d'Aversa, posta tra Capua e Napoli, mandò subito imbasciadori a darsi a Carlo. E trattando questo medesimo già manifestamente i napoletani, deliberato l'infelice re di non repugnare all'impeto tanto repentino della fortuna, convocati in sulla piazza del Castelnuovo, abitazione reale, molti gentiluomini e popolari, usò con loro queste parole: - Io posso chiamare in testimonio Dio e tutti quegli a' quali sono stati noti per il passato i concetti miei, che io mai per cagione alcuna tanto desiderai di pervenire alla corona quanto per dimostrare a tutto il mondo gli acerbi governi del padre e dell'avolo mio essermi sommamente dispiaciuti, e per riguadagnare con le buone opere quello amore del quale essi per le loro acerbità si erano privati. Non ha permesso l'infelicità della casa nostra che io possa ricôrre questo frutto molto piú onorato che l'essere re, perché il regnare depende spesso dalla fortuna ma l'essere re che si proponga per unico fine la salute e la felicità de' popoli suoi depende solamente da se medesimo e dalla propria virtú. Sono le cose nostre ridotte in angustissimo luogo, e potremo piú presto lamentarci noi d'avere perduto il reame per la infedeltà e poco valore de' capitani e eserciti nostri che non potranno gloriarsi gl'inimici d'averlo acquistato per propria virtú; e nondimeno non saremmo privi del tutto di speranza se ancora qualche poco di tempo ci sostenessimo, perché e da' re di Spagna e da tutti i príncipi d'Italia si prepara potente soccorso, essendosi aperti gli occhi di coloro i quali non avevano prima considerato lo incendio, il quale abbrucia il reame nostro, dovere, se non vi proveggono, aggiugnere similmente agli stati loro; e almeno a me non mancherebbe l'animo di terminare insieme il regno e la vita con quella gloria che si conviene a uno re giovane, disceso per sí lunga successione di tanti re, e all'espettazione che insino a ora avete tutti avuta di me. Ma perché queste cose non si possono tentare senza mettere la patria comune in gravissimi pericoli, sono piú tosto contento di cedere alla fortuna, di tenere occulta la mia virtú, che per sforzarmi di non perdere il mio regno essere cagione di effetti contrari a quel fine per il quale avevo desiderato di essere re. Consiglio e conforto voi che mandiate a prendere accordo col re di Francia, e perché possiate farlo senza macula dell'onore vostro, v'assolvo liberamente dall'omaggio e dal giuramento che pochi dí sono mi faceste; e vi ricordo che con l'ubbidienza e con la prontezza del riceverlo vi sforziate di mitigare la superbia naturale de' franzesi. Se i costumi barbari vi faranno venire in odio l'imperio loro e desiderare il ritorno mio io sarò in luogo da potere aiutare la vostra volontà, pronto a esporre sempre la propria vita per voi a ogni pericolo; ma se lo imperio loro vi riuscirà benigno, da me non riceverà giammai questa città né questo reame travaglio alcuno. Consolerannosi per il vostro bene le miserie mie, e molto piú mi consolerà se io saprò che in voi resti qualche memoria che io, né primogenito regio né re, non ingiuriai mai persona; che in me non si vidde mai segno alcuno di avarizia, segno alcuno di crudeltà; che a me non hanno nociuto i miei peccati ma quegli de' padri miei; che io sono deliberato di non essere mai cagione che, o per conservare il regno o per recuperarlo, abbia a patire alcuno di questo reame; che piú mi dispiace il perdere la facoltà di emendare i falli del padre e dello avolo che il perdere l'autorità e lo stato reale. Benché esule e spogliato della patria e del regno mio, mi riputerò non al tutto infelice se in voi resterà memoria di queste cose, e una ferma credenza che io sarei stato re piú presto simile ad Alfonso vecchio mio proavo che a Ferdinando e a questo ultimo Alfonso. -

                                            Non potette essere che queste parole non fussino udite con molta compassione, anzi certo è che a molti commossono le lagrime; ma era tanto esoso in tutto il popolo e quasi in tutta la nobiltà il nome de' due ultimi re, tanto il desiderio de' franzesi, che per questo non si fermò in parte alcuna il tumulto, ma subito che esso fu ritirato nel castello, il popolo cominciò a saccheggiare le stalle sue, che erano in sulla piazza: la quale indegnità non potendo egli sopportare, accompagnato da pochi corse fuori con generosità grande a proibirlo; e potette tanto nella città già ribellata la maestà del nome reale che ciascuno, fermato l'impeto, si discostò dalle stalle. Ma ritornato nel castello, e facendo abbruciare e sommergere le navi le quali erano nel porto, poi che altrimenti non poteva privarne gl'inimici, incominciò per qualche segno a sospettare che i fanti tedeschi, che in numero cinquecento stavano alla guardia del castello, pensassino di farlo prigione: però con subito consiglio donò loro le robe che in quello si conservavano. Le quali mentre che attendono a dividere, egli, avendo prima liberati di carcere, eccetto il principe di Rossano e il conte di Popoli, tutti i baroni avanzati alla crudeltà del padre e dell'avolo, uscito del castello per la porta del soccorso, montò in sulle galee sottili che l'aspettavano nel porto, e con lui don Federigo e la reina vecchia, moglie già dell'avolo, con Giovanna sua figliuola; e seguitato da pochissimi de' suoi navigò all'isola d'Ischia, detta dagli antichi Enaria, vicina a Napoli a trenta miglia: replicando spesso con alta voce, mentre che aveva innanzi agli occhi il prospetto di Napoli, il versetto del salmo del profeta che contiene essere vane le vigilie di coloro che custodiscono la città la quale da Dio non è custodita. Ma non se gli rappresentando oramai altro che difficoltà, ebbe a fare in Ischia esperienza della sua virtú, e della ingratitudine e infedeltà che si scuopre contro a coloro i quali sono percossi dalla fortuna; perché non volendo il castellano della rocca riceverlo se non con uno compagno solo, egli come fu dentro se gli gittò addosso con tanto impeto che con la ferocia e con la memoria dell'autorità regia, spaventò in modo gli altri che in potestà sua ridusse subito il castellano e la rocca.

                                            Per la partita di Ferdinando da Napoli ciascuno cedeva per tutto, come a uno impetuosissimo torrente, alla fama sola de' vincitori, e con tanta viltà che dugento cavalli della compagnia di Ligní andati a Nola, dove con quattrocento uomini d'arme si erano ridotti Verginio e il conte di Pitigliano, gli feceno senza ostacolo alcuno prigioni; perché essi, parte confidandosi nel salvocondotto il quale avevano avviso da i suoi essere stato conceduto dal re, parte menati dal medesimo terrore dal quale erano menati tutti gli altri, senza contrasto s'arrenderono; donde furno condotti prigioni alla rocca di Mondracone, e messe in preda tutte le genti loro.

                                                 Avevano in questo mezzo trovato Carlo in Aversa gl'imbasciadori napoletani mandati a dargli quella città. A' quali avendo conceduto con somma liberalità molti privilegi e esenzioni, entrò il dí seguente, che fu il vigesimo primo di febbraio in Napoli, ricevuto con tanto plauso e allegrezza d'ognuno che vanamente si tenterebbe di esprimerlo, concorrendo con esultazione incredibile ogni sesso ogni età ogni condizione ogni qualità ogni fazione d'uomini, come se fusse stato padre e primo fondatore di quella città; né manco degli altri, quegli che, o essi o i maggiori loro, erano stati esaltati o beneficati dalla casa d'Aragona. Con la quale celebrità andato a visitare la chiesa maggiore, fu dipoi, perché Castelnuovo si teneva per gl'inimici, condotto a alloggiare in Castelcapuano, già abitazione antica de' re franzesi: avendo con maraviglioso corso di inaudita felicità, sopra l'esempio ancora di Giulio Cesare, prima vinto che veduto; e con tanta facilità che e' non fusse necessario in questa espedizione né spiegare mai uno padiglione né rompere mai pure una lancia, e fussino tanto superflue molte delle sue provisioni che l'armata marittima, preparata con gravissima spesa, conquassata dalla violenza del mare e traportata nell'isola di Corsica, tardò tanto ad accostarsi a' liti del reame che prima il re era già entrato in Napoli. Cosí per le discordie domestiche, per le quali era abbagliata la sapienza tanto famosa de' nostri príncipi, si alienò, con sommo vituperio e derisione della milizia italiana e con gravissimo pericolo e ignominia di tutti, una preclara e potente parte d'Italia dallo imperio degli italiani allo imperio di gente oltramontana. Perché Ferdinando vecchio, se bene nato in Ispagna, nondimeno, perché insino dalla prima gioventú era stato, o re o figliuolo di re, continuamente in Italia, e perché non aveva principato in altra provincia, e i figliuoli e i nipoti, tutti nati e nutriti a Napoli, erano meritamente riputati italiani.

                                                  

                                                 Lib.2, cap.1

                                                  

                                                 I pisani avversi al dominio de' fiorentini chiedono aiuti a Siena a Lucca a Venezia e a Lodovico Sforza. Aspirazione di questo al dominio di Pisa. Burgundio Lolo, pisano, denuncia a Carlo in Roma il malgoverno de' fiorentini nella sua città. Risponde in difesa de' fiorentini Francesco Soderini. Subdola condotta di Carlo verso i fiorentini. Aiuti del duca di Milano a' pisani.

                                                  

                                            Mentre che queste cose si facevano in Roma e nel reame napoletano, crescevano in altra parte d'Italia le faville d'uno piccolo fuoco, destinato a partorire alla fine grandissimo incendio in danno di molti, ma principalmente contro a colui che per troppa cupidità di dominare l'avesse suscitato e nutrito. Perché, ancoraché il re di Francia si fusse convenuto in Firenze, che tenendo lui Pisa insino all'acquisto di Napoli, la giurisdizione e l'entrate appartenessino a' fiorentini, nondimeno, partendosi da Firenze, non aveva lasciato provisione, o posto ordine alcuno, per la osservanza di tale promessa; in modo che i pisani, a' quali inclinava il favore del commissario e de' soldati lasciati dal re alla guardia di quella città, deliberati di non ritornare piú sotto il dominio fiorentino, avevano cacciati gli ufficiali e tutti i fiorentini che v'erano rimasti, alcuni n'aveano incarcerati, occupate le robe e tutti i beni loro, e confermata totalmente con le dimostrazioni e con l'opere la ribellione. Nella quale per potere perseverare non solo mandorono imbasciadori al re, da poi che fu partito da Firenze, che difendessino la causa loro, ma disposti a fare ogni opera per ottenere aiuto da ciascuno, ne mandorono, incontinente che furno ribellati, a Siena e a Lucca; le quali città, essendo inimicissime al nome fiorentino, non potevano con animi piú allegri la pisana ribellione avere udito, e perciò insieme gli proveddono di qualche quantità di danari, e i sanesi vi mandorono subito alcuni cavalli. Tentorono medesimamente i pisani, mandati oratori a Vinegia, l'animo di quel senato; dal quale, benché ricevuti benignamente, non riportorono speranza alcuna. Ma il principale fondamento facevano nel duca di Milano, perché non dubitavano che, sí come era stato autore della loro ribellione, sarebbe disposto a mantenergli; il quale, benché a' fiorentini dimostrasse altrimenti, attese in segreto a mettere loro animo con molti conforti e offerte, e persuase occultamente a' genovesi che provedessino i pisani d'armi e di munizioni, e che mandassino uno commissario in Pisa e trecento fanti. I quali, per la inimicizia grande che avevano co' fiorentini, nata dal dispiacere che ebbono dell'acquisto di Pisa, e quando poi comperorono, a tempo di Tommaso Fregoso loro doge, il porto di Livorno il quale essi possedevano, e accresciuta ultimatamente quando i fiorentini tolsono loro Pietrasanta e Serezana, non solo furono pronti a queste cose ma avevano già occupata la maggiore parte delle terre le quali i fiorentini nella Lunigiana possedevano, e già sotto pretesto d'una lettera regia, ottenuta per la restituzione di certi beni confiscati, nelle cose di Pietrasanta si intromettevano. Delle quali azioni querelandosi i fiorentini a Milano, il duca rispondeva non essere in sua potestà, secondo i capitoli che aveva co' genovesi, di proibirle, e sforzandosi di sodisfare loro con le parole e dando varie speranze, non cessava d'operare co' fatti tutto il contrario; come quello che sperava, non si recuperando Pisa per i fiorentini, avere facilmente a ridurla sotto il suo dominio, il che per la qualità della città e per l'opportunità del sito ardentissimamente desiderava: cupidità non nuova in lui ma incominciata insino quando, cacciato da Milano poco dopo la morte di Galeazzo suo fratello, per sospetto che ebbe di lui madonna Bona madre e tutrice del piccolo duca, vi stette confinato molti mesi. Stimolavalo oltre a questo la memoria che Pisa, innanzi venisse in potestà de' fiorentini, era stata dominata da Giovan Galeazzo Visconte primo duca di Milano; per il che e stimava essergli glorioso recuperare quel che era stato posseduto da' suoi maggiori e gli pareva potervi pretendere colore di ragione, come se a Giovan Galeazzo non fusse stato lecito lasciare per testamento, in pregiudicio de' duchi di Milano suoi successori, a Gabrielmaria suo figliuolo naturale Pisa, acquistata da sé ma con le pecunie e con le forze del ducato di Milano. Né contenti i pisani d'avere levato la città dalla ubbidienza de' fiorentini attendevano a occupare le terre del contado di Pisa; le quali quasi tutte seguitando, come quasi sempre fanno i contadi, l'autorità della città, riceverono ne' primi dí della ribellione i loro commissari, non si opponendo da principio i fiorentini, occupati, insino non composono col re, in pensieri piú gravi, e aspettando, dopo la partita sua di Firenze, che il re, obligato con sí publico e solenne giuramento, vi provedesse. Ma poiché da lui si differiva il rimedio, mandatavi gente, recuperorno, parte per forza parte per accordo, tutto quello che era stato occupato, eccetto Cascina, Buti e Vicopisano: nelle quali terre i pisani, non essendo potenti a resistere per tutto, avevano ristrette le forze loro.

                                            Né a Carlo in secreto era molesto il procedere de' pisani, la causa de' quali aveva fautori scopertamente molti de' suoi, indotti alcuni da pietà, per la impressione già fatta in quella corte che e' fussino stati dominati acerbamente, altri per opporsi al cardinale di San Malò il quale si dimostrava favorevole a' fiorentini; e sopra tutti il siniscalco di Belcari, corrotto con danari da' pisani ma molto piú perché, malcontento dell'essersi augumentata troppo la grandezza del cardinale, cominciava, secondo le variazioni delle corti, a essere discordante da lui, per la medesima ambizione per la quale, per avere compagnia a sbattere gli altri, l'aveva prima fomentato: e questi, non avendo rispetto a quello che convenisse all'onore e alla fede di tanto re, dimostravano essergli piú utile tenere i fiorentini in questa necessità e conservare Pisa in quello stato, almeno insino a tanto che avesse acquistato il regno di Napoli. Le persuasioni de' quali prevalendo appresso a lui, e però sforzandosi di nutrire l'una parte e l'altra con speranze varie, introdusse, mentre era in Roma, gl'imbasciadori de' fiorentini a udire in presenza sua le querele che gli facevano i pisani; per i quali parlò Burgundio Lolo cittadino di Pisa, avvocato concistoriale nella corte di Roma, lamentandosi acerbissimamente, i pisani essere stati tenuti, ottantotto anni, in sí iniqua e atroce servitú che quella città, la quale aveva già con molte nobilissime vittorie disteso lo imperio suo insino nelle parti dell'Oriente, e la quale era stata delle piú potenti e piú gloriose città di tutta Italia, fusse, per la crudeltà e avarizia de' fiorentini, condotta all'ultima desolazione. Essere Pisa quasi vota d'abitatori, perché la maggiore parte de' cittadini, non potendo tollerare sí aspro giogo, l'aveva spontaneamente abbandonata; il consiglio de' quali essere stato prudentissimo, avere dimostrato le miserie di coloro i quali v'aveva ritenuti l'amore della patria, perché per l'acerbe esazioni del publico e per le rapine insolenti de' privati fiorentini erano rimasti spogliati di quasi tutte le sostanze; né avere piú modo alcuno di sostentarsi, perché con inaudita empietà e ingiustizia si proibiva loro il fare mercatanzie, l'esercitare arti di alcuna sorte eccetto le meccaniche, non essere ammessi a qualità alcuna d'uffici o d'amministrazioni nel dominio fiorentino, eziandio di quelle le quali alle persone straniere si concedevano. Già incrudelirsi da' fiorentini contro alla salute e le vite loro; avendo, per spegnere in tutto le reliquie de' pisani, fatto intermettere la cura di mantenere gli argini e i fossi del contado di Pisa, conservata sempre dai pisani antichi con esattissima diligenza, perché altrimenti era impossibile che per la bassezza del paese, offeso immoderatamente dalle acque, ogn'anno non fussino sottoposti a gravissime infermità. Per queste cagioni cadere per tutto in terra le chiese e i palagi e tanti nobili edifici publichi e privati, edificati con magnificenza e bellezza inestimabile da' maggiori loro. Non essere vergogna alle città preclare se dopo il corso di molti secoli cadevano finalmente in servitú, perché era fatale che tutte le cose del mondo fussino sottoposte alla corruzione; ma la memoria della nobiltà e della grandezza loro dovere piú presto generare nella mente de' vincitori compassione che accrescere acerbità e asprezza, massime che ciascuno aveva a considerare, potere anzi dovere, a qualche tempo, accadere a sé quel medesimo fine che è destinato che accaggia a tutte le città e a tutti gl'imperi. Non restare a' pisani piú cosa alcuna dove potesse distendersi piú la empietà e appetito insaziabile de' fiorentini, ed essere impossibile sopportare piú tante miserie; e perciò avere tutti unitamente determinato d'abbandonare prima la patria, d'abbandonare prima la vita, che ritornare sotto sí iniquo, sotto sí empio dominio. Pregare il re con le lacrime, le quali egli s'immaginasse essere lacrime abbondantissime di tutto il popolo pisano prostrato miserabilmente innanzi a' suoi piedi, che si ricordasse con quanta pietà e giustizia avesse restituita a' pisani la libertà usurpata ingiustissimamente; che, come costante e magnanimo principe, conservasse il beneficio fatto loro, eleggendo piú tosto d'avere il nome di padre e di liberatore di quella città che, rimettendogli in tanto pestifera servitú, diventare ministro della rapacità e della immanità de' fiorentini. Alle quali accusazioni con non minore veemenza rispose Francesco Soderini vescovo di Volterra, il quale fu poi cardinale, uno degli oratori de' fiorentini, dimostrando il titolo della sua republica essere giustissimo, perché avevano, insino nell'anno mille quattrocento quattro, comperato Pisa da Gabriel Maria Visconte legittimo signore; dal quale non prima stati messi in possessione, i pisani avernegli violentemente spogliati ; e però essere stato necessario cercare di ricuperarla con lunga guerra, della quale non era stato manco felice il fine che fusse stata giusta la cagione, né manco gloriosa la pietà de' fiorentini che la vittoria: conciossiaché, avendo avuta occasione di lasciare morire per se stessi i pisani consumati dalla fame, avessino, per rendere loro gli spiriti ridotti all'ultime estremità, nell'entrare con l'esercito in Pisa, condotto seco maggiore quantità di vettovaglia che d'armi. Non avere in tempo alcuno la città di Pisa ottenuto grandezza in terra ferma, anzi, non avendo mai, non ch'altro, potuto dominare Lucca città tanto vicina, essere stata sempre rinchiusa in angustissimo territorio; e la potenza marittima essere stata breve, perché per giusto giudicio di Dio, concitato per molte loro iniquità e scelerate operazioni, e per le lunghe discordie civili e inimicizie tra essi medesimi, era, molt'anni prima che fusse venduta a' fiorentini, caduta d'ogni grandezza e di ricchezze e d'abitatori, e diventata tanto debole che e' fusse riuscito a ser Iacopo d'Appiano, notaio ignobile del contado di Pisa, di farsene signore, e dopo averla dominata piú anni lasciarla ereditaria a' figliuoli. Né importare il dominio di Pisa a'fiorentini se non per l'opportunità del sito e per la comodità del mare, perché l'entrate le quali se ne traevano erano di piccola considerazione, essendo le esazioni sí leggiere che di poco sopravanzavano alle spese che per necessità vi si facevano; con tutto che la piú parte si riscotesse da' mercatanti forestieri, e per beneficio del porto di Livorno. Né essere, circa le mercatanzie arti e uffici, legati i pisani con altre leggi che fussino legate l'altre città suddite de' fiorentini; le quali, confessando essere governate con imperio moderato e mansueto, non desideravano mutare signore, perché non avevano quella alterigia e ostinazione la quale era naturale a' pisani, né anche quella perfidia che in loro era tanto notoria che fusse celebrata per antichissimo proverbio di tutta la Toscana. E se quando i fiorentini acquistorono Pisa molti pisani spontaneamente e subito se ne partirono, essere proceduto dalla superbia loro, impaziente ad accomodare l'animo alle forze proprie e alla fortuna, non per colpa de' fiorentini, i quali gli avevano retti con giustizia e con mansuetudine, e trattati talmente che sotto loro non era Pisa diminuita né di ricchezze né d'uomini; anzi avere con grandissima spesa ricuperato da' genovesi il porto di Livorno, senza il quale porto quella città era restata abbandonata d'ogni comodità ed emolumento: e con l'introdurvi lo studio publico di tutte le scienze e con molt'altri modi, ed eziandio col fare continuare diligentemente la cura de' fossi, essersi sempre sforzati di farla frequente d'abitatori. La verità delle quali cose era sí manifesta che con false lamentazioni e calunnie oscurare non si poteva. Essere permesso a ciascuno il desiderare di pervenire a migliore fortuna, ma dovere anche ciascuno pazientemente tollerare quello che la sorte sua gli ha dato; altrimenti confondersi tutte le signorie e tutti gl'imperi, se a ciascuno che è suddito fusse lecito il cercare di diventare libero. Né riputare necessario a' fiorentini l'affaticarsi per persuadere a Carlo, cristianissimo re di Francia, quel che appartenesse a lui di fare; perché, essendo re sapientissimo e giustissimo, si rendevano certi non si lascerebbe sollevare da querele e calunnie tanto vane e si ricorderebbe da se stesso quel ch'avesse promesso innanzi che l'esercito suo fusse ricevuto in Pisa, quel che sí solennemente avesse giurato in Firenze; considerando che quanto un re è piú potente e maggiore tanto gli è piú glorioso l'usare la sua potenza per conservazione della giustizia e della fede.

                                            Appariva manifestamente che da Carlo erano con piú benigni orecchi uditi i pisani, e che per beneficio loro desiderava che, durante la guerra di Napoli, l'offese tra tutte due le parti si sospendessino, o che i fiorentini consentissino che il contado tutto si tenesse da lui, affermando che, acquistato che avesse Napoli, metterebbe subito a esecuzione le cose convenute in Firenze; il che i fiorentini, essendo già sospette loro tutte le parole del re, costantemente recusavano, ricercandolo con grande instanza dell'osservanza delle promesse. A' quali per mostrare di sodisfare, ma veramente per fare opera d'avere da loro innanzi al tempo debito i settantamila ducati promessigli, mandò, nel tempo medesimo partí da Roma, il cardinale di San Malò a Firenze, simulando co' fiorentini di mandarlo per sodisfare alle dimande loro; ma in segreto gli ordinò che, pascendogli di speranza insino che gli dessino i danari, lasciasse finalmente le cose nel grado medesimo: della quale fraude se bene i fiorentini avessino non piccola dubitazione, nondimeno gli pagorono quarantamila ducati, de' quali il termine era propinquo; ed egli, ricevuto che gli ebbe, andato a Pisa, promettendo di restituire i fiorentini nella possessione della città, se ne ritornò senza avere fatto effetto alcuno; scusandosi d'avere trovati i pisani sí pertinaci che l'autorità non era stata sufficiente a disporgli, né avere potuto costrignergli, perché dal re non aveva ricevuta questa commissione, né a sé, che era sacerdote, essere stato conveniente pigliare deliberazione alcuna della quale avesse a nascere effusione di sangue cristiano. Forní nondimeno di nuove guardie la cittadella nuova, e arebbe fornito la vecchia se glien'avessino consentito i pisani: i quali crescevano ogni dí d'animo e di forze, perché il duca di Milano, giudicando essere necessario che in Pisa fusse maggiore presidio e un condottiere di qualche esperienza e valore, v'aveva, benché coprendosi, con le solite arti, del nome de' genovesi, mandato Lucio Malvezzo con nuove genti. Né recusando occasione alcuna di fomentare le molestie de' fiorentini, acciocché fussino piú impediti a offendere i pisani, condusse Iacopo d'Appiano signore di Piombino e Giovanni Savello, a comune co' sanesi, per dare loro animo a sostenere Montepulciano; la quale terra essendosi nuovamente ribellata da' fiorentini a' sanesi, era stata accettata da loro senza rispetto della confederazione che avevano insieme.

                                             

                                             

                                                 Lib.2, cap.2

                                                  

                                                 Discorso di Paolantonio Soderini intorno all'ordinamento interno di Firenze. Discorso di Guidantonio Vespucci sul medesimo argomento. Autorità di Gerolamo Savonarola in Firenze. Ordinamento della repubblica.

                                                  

                                                 Né erano in questo tempo i fiorentini in minore ansietà e travaglio per le cose intestine; perché, per riordinare il governo della republica, avevano, subito dopo la partita da Firenze del re, nel parlamento, che secondo gli antichi costumi loro è una congregazione della università de' cittadini in sulla piazza del palagio publico, i quali con voci scoperte deliberano sopra le cose proposte dal sommo magistrato, costituita una specie di reggimento che, sotto nome di governo popolare, tendeva in molte parti piú alla potenza di pochi che a partecipazione universale. La qual cosa essendo molesta a molti che s'avevano proposta nell'animo maggiore larghezza, e concorrendo al medesimo privata ambizione di qualche principale cittadino, era stato necessario trattare di nuovo della forma del governo. Della quale consultandosi un giorno tra i magistrati principali e gli uomini di maggiore riputazione, Pagol'Antonio Soderini, cittadino savio e molto stimato, parlò, secondo che si dice, cosí:

                                            - E' sarebbe certamente, prestantissimi cittadini, molto facile a dimostrare che, ancora che da coloro che hanno scritto delle cose civili il governo popolare sia manco lodato che quello di uno principe e che il governo degli ottimati, nondimeno, che per essere il desiderio della libertà desiderio antico e quasi naturale in questa città, e le condizioni de' cittadini proporzionate all'egualità, fondamento molto necessario de' governi popolari, debba essere da noi preferito senza alcuno dubbio a tutti gli altri: ma sarebbe superflua questa disputa, poi che in tutte le consulte di questi dí si è sempre con universale consentimento determinato che la città sia governata col nome e con l'autorità del popolo. Ma la diversità de' pareri nasce, che alcuni nell'ordinazione del parlamento si sono accostati volentieri a quelle forme di republica con le quali si reggeva questa città innanzi che la libertà sua fusse oppressa dalla famiglia de' Medici; altri, nel numero de' quali confesso di essere io, giudicando il governo cosí ordinato avere in molte cose piú tosto nome che effetti di governo popolare, e spaventati dagli accidenti che da simili governi spesse volte resultorono, desiderano una forma piú perfetta, e per la quale si conservi la concordia e la sicurtà de' cittadini, cosa che né secondo le ragioni né secondo l'esperienza del passato si può sperare in questa città se non sotto uno governo dependente in tutto dalla potestà del popolo ma che sia ordinato e regolato debitamente: il che consiste principalmente in due fondamenti. Il primo è che tutti i magistrati e uffici, cosí per la città come per il dominio, siano distribuiti, tempo per tempo, da uno consiglio universale di tutti quegli che secondo le leggi nostre sono abili a partecipare del governo; senza l'approvazione del quale consiglio leggi nuove non si possino deliberare. Cosí non essendo in potestà di privati cittadini, né d'alcuna particolare cospirazione o intelligenza, il distribuire le degnità e le autorità, non ne sarà escluso alcuno né per passione né a beneplacito d'altri, ma si distribuiranno secondo le virtú e secondo i meriti degli uomini; e però bisognerà che ciascuno si sforzi, con le virtú co' costumi buoni col giovare al publico e al privato, aprirsi la via agli onori; bisognerà che ciascuno s'astenga da' vizi, dal nuocere ad altri, e finalmente da tutte le cose odiose nelle città bene instituite: né sarà in potestà d'uno o di pochi, con nuove leggi o con l'autorità d'un magistrato, introdurre altro governo, non si potendo alterare questo se non di volontà del consiglio universale. Il secondo fondamento principale è che le deliberazioni importanti, cioè quelle che appartengano alla pace e alla guerra, alla esaminazione di leggi nuove, e generalmente tutte le cose necessarie alla amministrazione d'una città e dominio tale, si trattino da' magistrati preposti particolarmente a questa cura, e da uno consiglio piú scelto di cittadini esperimentati e prudenti che si deputi dal consiglio popolare; perché non cadendo nello intelletto d'ognuno la cognizione di queste faccende, bisogna sieno governate da quegli che n'hanno la capacità; e ricercando spesso prestezza o secreto, non si possono né consultare né deliberare con la moltitudine. Né è necessario alla conservazione della libertà che le cose tali si trattino in numeri molto larghi, perché la libertà rimane sicura ogni volta che la distribuzione de' magistrati e la deliberazione delle leggi nuove dependino dal consentimento universale. Proveduto adunque a queste due cose, resta ordinato il governo veramente popolare, fondata la libertà della città, stabilita la forma laudabile e durabile della republica. Perché molte altre cose, che tendono a fare il governo del quale si parla piú perfetto, è piú a proposito differire ad altro tempo, per non confondere tanto in questi princípi le menti degli uomini, sospettosi per la memoria della tirannide passata, e i quali, non assuefatti a trattare governi liberi, non possono conoscere interamente quello che sia necessario ordinare alla conservazione della libertà: e sono cose che, per non essere tanto sostanziali, si differiscono sicuramente a piú comodo tempo e a migliore occasione. Ameranno ogni dí piú i cittadini questa forma di republica, ed essendo per la esperienza ogni dí piú capaci della verità, desidereranno che il governo continuamente sia limato e condotto alla intera perfezione: e in questo mezzo si sostenterà mediante i due fondamenti sopradetti. I quali quanto sia facile ordinare, e quanto frutto partorischino, non solo si può dimostrare con molte ragioni ma eziandio apparisce chiarissimamente per l'esempio. Perché il reggimento de' viniziani, se bene è proprio de' gentil'uomini, non sono però i gentil'uomini altro che cittadini privati, e tanti in numero e di sí diverse condizioni e qualità che egli non si può negare che e' non partecipi molto del governo popolare, e che da noi non possa essere imitato in molte parti; e nondimeno è fondato principalmente in su queste due basi, in sulle quali quella republica, conservata per tanti secoli insieme con la libertà l'unione e la concordia civile, è salita in tanta gloria e grandezza. Né è proceduta dal sito, come molti credono, l'unione de' viniziani, perché e in quel sito potrebbono essere, e sono state qualche volta, discordie e sedizioni, ma dall'essere la forma del governo sí bene ordinata e bene proporzionata a se medesima che per necessità produce effetti sí preziosi e ammirabili. Né ci debbono manco muovere gli esempli nostri che gli alieni, ma considerandogli per il contrario: perché il non avere mai la città nostra avuto forma di governo simile a questo è stato causa che sempre le cose nostre sono state sottoposte a sí spesse mutazioni, ora conculcate dalla violenza delle tirannidi ora lacerate dalla discordia ambiziosa e avara di pochi ora conquassate dalla licenza sfrenata della moltitudine; e dove le città furono edificate per la quiete e felice vita degli abitatori, i frutti de' nostri governi le nostre felicità i nostri riposi sono stati le confiscazioni de' nostri beni, gli esili, le decapitazioni de' nostri infelici cittadini. Non è il governo introdotto nel parlamento diverso da quegli che altre volte sono stati in questa città, i quali sono stati pieni di discordie e di calamità, e dopo infiniti travagli publici e privati hanno finalmente partorito le tirannidi; perché, non per altro che per queste cagioni oppresse, appresso a nostri antichi, la libertà il duca di Atene, non per altro l'oppresse ne' tempi seguenti Cosimo de' Medici. Né si debbe averne ammirazione: perché, come la distribuzione de' magistrati e la deliberazione delle leggi non hanno bisogno quotidianamente del consenso comune ma dependono dall'arbitrio di numero minore, allora, intenti i cittadini non piú al beneficio publico ma a cupidità e fini privati, sorgono le sette e le cospirazioni particolari, alle quali sono congiunte le divisioni di tutta la città, peste e morte certissima di tutte le republiche e di tutti gli imperi. Quanto è adunque maggiore prudenza fuggire quelle forme di governo le quali, con le ragioni e con l'esempio di noi medesimi, possiamo conoscere perniciose! e accostarsi a quelle le quali, con le ragioni e con l'esempio d'altri, possiamo conoscere salutifere e felici! Perché io dirò pure, sforzato dalla verità, questa parola: che nella città nostra, sempre, un governo ordinato in modo che pochi cittadini vi abbino immoderata autorità sarà un governo di pochi tiranni; i quali saranno tanto piú pestiferi d'un tiranno solo quanto il male è maggiore e nuoce piú quanto piú è moltiplicato, e, se non altro, non si può, per la diversità de' pareri e per l'ambizione e per le varie cupidità degli uomini, sperarvi concordia lunga: e la discordia, perniciosissima in ogni tempo, sarebbe piú perniciosa in questo, nel quale voi avete mandato in esilio un cittadino tanto potente, nel quale voi siete privati d'una parte tanto importante del vostro stato, nel quale Italia, avendo nelle viscere eserciti forestieri, è tutta in gravissimi pericoli. Rare volte, e forse non mai, è stato assolutamente in potestà di tutta la città ordinare se medesima ad arbitrio suo: la quale potestà poiché la benignità di Dio v'ha conceduta, non vogliate, nocendo sommamente a voi stessi e oscurando in eterno il nome della prudenza fiorentina, perdere l'occasione di fondare un reggimento libero, e sí bene ordinato che non solo, mentre che e' durerà, faccia felici voi ma possiate promettervene la perpetuità; e cosí lasciare ereditario a' figliuoli e a' discendenti vostri tale tesoro e tale felicità, che giammai né noi né i passati nostri l'hanno posseduta o conosciuta. -

                                            Queste furono le parole di Pagolantonio. Ma in contrario Guidantonio Vespucci, giurisconsulto famoso e uomo di ingegno e destrezza singolare, parlò cosí:

                                            - Se il governo ordinato, prestantissimi cittadini, nella forma proposta da Paolantonio Soderini producesse sí facilmente i frutti che si desiderano, come facilmente si disegnano, arebbe certamente il gusto molto corrotto chi altro governo nella patria nostra desiderasse. Sarebbe perniciosissimo cittadino chi non amasse sommamente una forma di republica nella quale le virtú i meriti e il valore degli uomini fussino sopra tutte l'altre cose riconosciuti e onorati. Ma io non conosco già come si possa sperare che uno reggimento collocato totalmente nella potestà del popolo abbia a essere pieno di tanti beni. Perché io so pure che la ragione insegna, che l'esperienza lo dimostra e l'autorità de' valent'uomini lo conferma, che in tanta moltitudine non si truova tale prudenza tale esperienza tale ordine per il quale promettere ci possiamo che i savi abbino a essere anteposti agli ignoranti, i buoni a' cattivi, gli esperimentati a quegli che non hanno mai maneggiato faccenda alcuna. Perché, come da uno giudice incapace e imperito non si possono aspettare sentenze rette cosí da uno popolo che è pieno di confusione e di ignoranza non si può aspettare, se non per caso, elezione o deliberazione prudente o ragionevole. E quello che ne' governi publici gli uomini savi, né intenti ad alcuno altro negozio, possono appena discernere noi crediamo che una moltitudine inesperta imperita composta di tante varietà d'ingegni di condizioni e di costumi, e tutta dedita alle sue particolari faccende, possa distinguere e conoscere? Senza che, la persuasione immoderata che ciascuno arà di se medesimo gli desterà tutti alla cupidità degli onori, né basterà agli uomini nel governo popolare godere i frutti onesti della libertà, ché aspireranno tutti a gradi principali, e a intervenire nelle deliberazioni delle cose piú importanti e piú difficili; perché in noi manco che in alcuna altra città regna la modestia del cedere a chi piú sa, a chi piú merita. Ma persuadendoci che di ragione tutti, in tutte le cose, dobbiamo essere eguali, si confonderanno, quando sarà in facoltà della moltitudine, i luoghi della virtú e del valore; e questa cupidità distesa nella maggiore parte farà potere piú quegli che manco sapranno o manco meriteranno, perché essendo molto piú numero aranno piú possanza, in uno stato ordinato in modo che i pareri s'annoverino non si pesino. Donde che certezza arete voi che, contenti della forma la quale introdurrete al presente, non disordinino presto i modi, prudentemente pensati, con nuove invenzioni e con leggi imprudenti? alle quali gli uomini savi non potranno resistere. E queste cose sono in ogni tempo pericolose in un governo tale, ma saranno molto piú ora, perché è natura degli uomini, quando si partono da uno estremo nel quale sono stati tenuti violentemente, correre volonterosamente, senza fermarsi nel mezzo, all'altro estremo. Cosí chi esce da una tirannide, se non è ritenuto, si precipita a una sfrenata licenza; la quale anche si può giustamente chiamare tirannide, perché e un popolo è simile a un tiranno quando dà a chi non merita, quando toglie a chi merita, quando confonde i gradi e le distinzioni delle persone; ed è forse tanto piú pestifera la sua tirannide quanto è piú pericolosa l'ignoranza, perché non ha né peso né misura né legge che la malignità, che pure si regge con qualche regola con qualche freno con qualche termine. Né vi muova l'esempio de' viniziani, perché in loro e il sito fa qualche momento e la forma del governo inveterata fa molto, e le cose vi sono ordinate in modo che le deliberazioni importanti sono piú in potestà di pochi che di molti; e gl'ingegni loro, non essendo per natura forse cosí acuti come sono gli ingegni nostri, sono molto piú facili a quietarsi e a contentarsi. Né si regge il governo viniziano solamente con quegli due fondamenti i quali sono stati considerati, ma alla perfezione e stabilità sua importa molto lo esservi uno doge perpetuo, e molte altre ordinazioni, le quali chi volesse introdurre in questa republica arebbe infiniti contradittori; perché la città nostra non nasce al presente, né ha ora la prima volta la sua instituzione. Però, repugnando spesso alla utilità comune gli abiti inveterati, e sospettando gli uomini che sotto colore della conservazione della libertà si cerchi di suscitare nuova tirannide, non sono per giovargli facilmente i consigli sani; cosí come in uno corpo infetto e abbondante di pravi umori non giovano le medicine come in uno corpo purificato. Per le quali cagioni, e per la natura delle cose umane, che comunemente declinano al peggio, è da temere che quello che sarà in questo principio ordinato imperfettamente, in progresso di tempo in tutto si disordini, piú che da sperare che o col tempo o con le occasioni si riduca alla perfezione. Ma non abbiamo noi gli esempli nostri senza cercare di quegli d'altri? ché mai il popolo ha assolutamente governata questa città che ella non si sia piena di discordie, che ella non si sia in tutto conquassata, e finalmente che lo stato non abbia presto avuto mutazione: e se pure vogliamo ricercare per gli esempli d'altri, perché non ci ricordiamo noi che il governo totalmente popolare fece in Roma tanti tumulti che se non fusse stata la scienza e la prontezza militare sarebbe stata breve la vita di quella republica? perché non ci ricordiamo noi che Atene, floridissima e potentissima città, non per altro perdé l'imperio suo, e poi cadde in servitú di suoi cittadini e di forestieri, che per disporsi le cose gravi con le deliberazioni della moltitudine? Ma io non veggo per quale cagione si possa dire che nel modo introdotto nel parlamento non si ritruovi interamente la libertà, perché ogni cosa è riferita alla disposizione de' magistrati, i quali non sono perpetui ma si scambiano, né sono eletti da pochi: anzi, approvati da molti, hanno, secondo l'antica consuetudine della città, a essere rimessi ad arbitrio della sorte: però, come possono essere distribuiti per sette o per volontà di cittadini particolari? Aremo bene maggiore certezza che le faccende piú importanti saranno esaminate e indiritte dagli uomini piú savi piú pratichi e piú gravi, i quali le governeranno con altro ordine con altro segreto con altra maturità che non farebbe il popolo, incapace delle cose, e talvolta, quando manco bisogna, profusissimo nello spendere, talvolta ne' maggiori bisogni tanto stretto che spesso, per piccolissimo risparmio, incorre in gravissime spese e pericoli. È importantissima, come ha detto Pagolantonio, la infermità d'Italia, e particolarmente quella della patria nostra: però che imprudenza sarebbe, quando bisognano i medici piú periti e piú esperti, rimettersi in quegli che hanno minore perizia ed esperienza. E da considerare in ultimo che in maggiore quiete manterrete il popolo vostro, piú facilmente lo condurrete alle deliberazioni salutifere a se stesso e al bene universale, dandogli moderata parte e autorità; perché rimettendo a suo arbitrio assolutamente ogni cosa, sarà pericolo non diventi insolente, e troppo difficile e ritroso a’ consigli de' vostri savi e affezionati cittadini. -

                                            Arebbe ne' consigli, ne' quali non interveniva numero molto grande di cittadini, potuto piú quella sentenza che tendeva alla forma non tanto larga del governo se nella deliberazione degli uomini non fusse stata mescolata l'autorità divina, per la bocca di Ieronimo Savonarola da Ferrara, frate dell'ordine de' predicatori. Costui, avendo esposto publicamente il verbo di Dio piú anni continui in Firenze, e aggiunta a singolare dottrina grandissima fama di santità, aveva appresso alla maggiore parte del popolo vendicatosi nome e credito di profeta; perché, nel tempo che in Italia non appariva segno alcuno se non di grandissima tranquillità, avea nelle sue predicazioni predetto molte volte la venuta d'eserciti forestieri in Italia, con tanto spavento degli uomini che e' non resisterebbono loro né mura né eserciti: affermando non predire questo e molte altre cose, le quali continuamente prediceva, per discorso umano né per scienza di scritture ma semplicemente per divina revelazione. E aveva accennato ancora qualche cosa della mutazione dello stato di Firenze; e in questo tempo, detestando publicamente la forma deliberata nel parlamento, affermava la volontà di Dio essere che e' s'ordinasse uno governo assolutamente popolare, e in modo che non avesse a essere in potestà di pochi cittadini alterare né la sicurtà né la libertà degli altri: talmente che, congiunta la riverenza di tanto nome al desiderio di molti, non potettono quegli che sentivano altrimenti resistere a tanta inclinazione. E però, essendosi ventilata questa materia in molte consulte, fu finalmente determinato che e' si facesse uno consiglio di tutti i cittadini, non vi intervenendo, come in molte parti d'Italia si divulgò, la feccia della plebe ma solamente coloro che per le leggi antiche della città erano abili a partecipare del governo; nel qual consiglio non s'avesse a trattare o a disporre altro che eleggere tutti i magistrati per la città e per il dominio, e confermare i provedimenti de' danari, e tutte le leggi ordinate prima ne' magistrati e negli altri consigli piú stretti. E acciocché si levassino l'occasioni delle discordie civili, e si assicurassino piú gli animi di ciascuno, fu per publico decreto proibito, seguitando in questo l'esempio degli ateniesi, che de' delitti e delle trasgressioni commesse per il passato circa le cose dello stato non si potesse riconoscere. In su' quali fondamenti si sarebbe forse costituito un governo ben regolato e stabile se si fussino, nel tempo medesimo, introdotti tutti quegli ordini che caddono, insino allora, in considerazione degli uomini prudenti: ma non si potendo queste cose deliberare senza consenso di molti, i quali per la memoria delle cose passate erano pieni di sospetto, fu giudicato che per allora si costituisse il consiglio grande, come fondamento della nuova libertà; rimettendo, a fare quel che mancava, all'occasione de' tempi e quando l'utilità publica fusse, mediante la esperienza, conosciuta da quegli che non erano capaci di conoscerla mediante la ragione e il giudicio.

                                             

                                                 Lib.2, cap.3

                                                  

                                                 Carlo VIII s'impadronisce di Castelnuovo di Castel dell'Uovo e della rocca di Gaeta. Prima della resa di Castel dell'Uovo chiama a sé don Federigo d'Aragona e fa proposte di stati nel regno di Francia a favore di Ferdinando. Risposta di Federigo. Ferdinando da Ischia dove s'era ritirato si reca in Sicilia. Morte di Gemin ottomanno, fratello del gran turco, consegnato a Carlo da Alessandro VI.

                                                  

                                            Travagliavano in maniera tale le cose di Toscana. Ma in questo mezzo il re di Francia, acquistato che ebbe Napoli, attendeva, per dare perfezione alla vittoria, a due cose principalmente: l'una, a espugnare Castelnuovo e Castel dell'Uovo, fortezze di Napoli le quali si tenevano ancora per Ferdinando, perché con piccola difficoltà aveva ottenuta la Torre di San Vincenzio, edificata per guardia del porto; l'altra, a ridurre a ubbidienza sua tutto il reame: nelle quali cose la fortuna la medesima benignità gli dimostrava. Perché Castelnuovo, abitazione de' re, posto in sul lito del mare, per la viltà e avarizia de' cinquecento tedeschi che v'erano a guardia, fatta leggiera difesa, s'arrendé, con condizione che n'uscissino salvi, con tutta la roba che essi medesimi potessino portarne; nel quale essendo copia grandissima di vettovaglie, Carlo, senza considerazione di quello che potesse succedere, le donò ad alcuni de' suoi; e Castel dell'Uovo, il quale, fondato dentro al mare in su un masso già contiguo alla terra, ma separatone anticamente per opera di Lucullo, si congiugne con uno stretto ponte al lito poco lontano da Napoli, battuto continuamente dall'artiglierie franzesi, benché potessino offendere la muraglia ma non il vivo del masso, si convenne dopo non molti dí d'arrendersi, in caso che fra otto dí non fusse soccorso. E a' capitani e alle genti d'arme, mandate in diverse parti del reame, andavano incontro, parecchie giornate, i baroni e i sindichi delle comunità, facendo a gara tra loro d'essere i primi a ricevergli, e con tanta o inclinazione o terrore di ciascuno che i castellani delle fortezze quasi tutti senza resistenza le dettono; e la rocca di Gaeta, che era bene proveduta, combattuta leggiermente, s'arrendé a discrezione. In modo che in pochissimi dí, con inestimabile facilità, tutto il regno si ridusse in potestà di Carlo: eccetto l'isola d'Ischia, e le fortezze di Brindisi e di Galipoli in Puglia, e in Calavria la fortezza di Reggio, città posta in sulla punta d'Italia all'incontro di Sicilia, tenendosi la città per Carlo; e la Turpia e la Mantia le quali da principio rizzorono le bandiere di Francia, ma recusando di stare in dominio d'altri che del re, il quale l'aveva donate ad alcuni de' suoi, mutato consiglio ritornorono al primo signore. E il medesimo fece poco dipoi la città di Brindisi, alla quale non avendo Carlo mandato gente, anzi per negligenza non solo non espediti ma appena uditi i sindici suoi mandati a Napoli per capitolare, ebbono quegli che erano per Ferdinando nelle fortezze facoltà di ritirare spontaneamente la città alla divozione aragonese: per il quale esempio la città di Otranto che aveva chiamato il nome di Francia, non v'andando alcuno a riceverla, non continuò nella medesima disposizione.

                                            Andorono, da Alfonso Davalo marchese di Pescara in fuora, il quale, lasciato in Castelnuovo da Ferdinando, l'aveva, come si accorse della inclinazione de' tedeschi ad arrendersi, seguitato, e due o tre altri che per avere Carlo donati gli stati loro s'erano fuggiti in Sicilia, tutti i signori e baroni del reame a fare omaggio al nuovo re. Il quale, desideroso di stabilire totalmente per via di concordia sí grande acquisto, aveva, innanzi che ottenesse Castel dell'Uovo, chiamato a sé sotto salvocondotto don Federigo, il quale per essere dimorato piú anni nella corte del padre, e per la congiunzione del parentado avuta col re, era grato a tutti i signori franzesi; al quale offerse di dare a Ferdinando, in caso rilasciasse quello che gli restava nel reame, stati ed entrate grandi in Francia, e a lui dare ricompenso abbondante di tutto quello vi possedeva. Ma essendo nota a don Federigo la deliberazione del nipote, di non accettare partito alcuno se non restandogli la Calavria, rispose con gravi parole: che poi che Dio la fortuna e la volontà di tutti gli uomini erano concorse a dargli il reame di Napoli, che Ferdinando, non volendo fare resistenza a questa fatale disposizione, né riputandosi vergogna il cedere a un tanto re, voleva non manco che gli altri stare a sua ubbidienza e divozione, pure che da lui gli fusse conceduta qualche parte del reame, accennando della Calavria, nella quale stando, non come re ma come uno de' suoi baroni, potesse adorare la clemenza e la magnanimità del re di Francia; al cui servigio sperava d'avere qualche volta occasione di dimostrare quella virtú che la mala fortuna gli aveva vietato di potere per la salute di se medesimo esercitare. Questo consiglio non potere essere a Carlo di maggiore gloria, e simile a' consigli di quegli re memorabili appresso all'antichità, i quali con tali opere aveano fatto immortale il nome loro e conseguito appresso a' popoli gli onori divini; ma non essere consiglio manco sicuro che glorioso, perché, ridotto Ferdinando alla sua divozione, arebbe il regno stabilito, né arebbe a temere della mutazione della fortuna, della quale era proprio, ogni volta che le vittorie non s'assicuravano con moderazione e con prudenza, maculare con qualche caso inopinato la gloria guadagnata.

                                            Ma parendo a Carlo che il concedere parte alcuna del reame al suo competitore mettesse tutto il resto in manifestissimo pericolo, don Federigo si partí discorde da lui; e Ferdinando, poiché furono arrendute le castella, se n'andò con quattordici galee sottili male armate, con le quali s'era partito da Napoli, in Sicilia, per essere parato a ogni occasione, lasciato a guardia della rocca d'Ischia Inico Davalo fratello d'Alfonso, uomini amendue di virtú e di fede egregia verso il suo signore. Ma Carlo, per privare gl'inimici di quello ricettacolo, molto opportuno a turbare il reame, vi mandò l'armata, che finalmente era arrivata nel porto di Napoli; la quale, trovata la terra abbandonata, non combatté la rocca, disperandosi per la fortezza sua di poterla ottenere: però deliberò il re far venire altri legni di Provenza e da Genova per pigliare Ischia, e assicurare il mare infestato qualche volta da Ferdinando. Ma non era pari alla fortuna la diligenza o il consiglio, governandosi tutte le cose freddamente e con grandissima negligenza e confusione: perché i franzesi, diventati per tanta prosperità piú insolenti che 'l solito, lasciando portare al caso le cose di momento, non attendevano ad altro che al festeggiare e a' piaceri; e quegli che erano grandi appresso al re, a cavare privatamente della vittoria piú frutto potevano, senza considerazione alcuna della degnità o dell'utilità del suo principe.

                                            Nel qual tempo morí in Napoli Gemin ottomanno, con sommo dispiacere di Carlo, perché lo reputava grandissimo fondamento alla guerra la quale aveva in animo di fare contro allo imperio de' turchi; e si credette, molto costantemente, che la sua morte fusse proceduta da veleno, datogli a tempo terminato dal pontefice, o perché avendolo conceduto contro alla sua volontà, e per questo privatosi de' quarantamila ducati che ciascuno anno gli pagava Baiset suo fratello, pigliasse per consolazione dello sdegno che chi ne l'aveva privato non ricevesse di lui comodità, o per invidia che e' portasse alla gloria di Carlo; e forse temendo che avendo prosperi successi contro agl'infedeli volgesse poi i pensieri suoi, come, benché per interessi privati, era stimolato continuamente da molti, a riformare le cose della Chiesa: le quali, allontanatesi totalmente dagli antichi costumi, facevano ogni dí minore l'autorità della cristiana religione, tenendo per certo ciascuno che avesse a declinare molto piú nel suo pontificato; il quale, acquistato con pessime arti, non fu forse giammai, alla memoria degli uomini, amministrato con peggiori. Né mancò chi credesse, perché la natura facinorosa del pontefice faceva credibile in lui qualunque iniquità, che Baiset, come intese il re di Francia prepararsi a passare in Italia, l'avesse, per mezzo di Giorgio Bucciardo, corrotto con danari a privare Gemin della vita. Ma non cessando per la sua morte Carlo, il quale piú con prontezza d'animo che con prudenza e consiglio procedeva, di pensare alla guerra contro a' turchi, mandò in Grecia l'arcivescovo di Durazzo di nazione albanese, perché gli dava speranza di suscitare, per mezzo di certi fuorusciti, qualche movimento in quella provincia. Ma nuovi accidenti lo costrinsono a volgere l'animo a nuovi pensieri.

                                             

                                                 Lib.2, cap.4

                                                  

                                                 Preoccupazioni e timori di Lodovico Sforza e di Venezia per la nuova condizione politica d'Italia. Preoccupazioni del pontefice e di Massimiliano. Confederazione tra il pontefice il re de' romani i re di Spagna i veneziani e il duca di Milano. Carlo VIII continua a non tener fede ai patti concordati co' fiorentini. Principia il malcontento nei sudditi del reame di Napoli contro i francesi.

                                                  

                                                 E detto di sopra che la cupidità d'usurpare il ducato di Milano, e la paura che aveva degli Aragonesi e di Piero de' Medici, indussono Lodovico Sforza a procurare che 'l re di Francia passasse in Italia; per la venuta del quale, poiché ebbe ottenuto il suo ambizioso desiderio, e che gli Aragonesi furono ridotti in tante angustie che con difficoltà poteano la propria salute sostentare, cominciò a presentarsigli innanzi agli occhi il secondo timore molto piú potente e molto piú giusto che 'l primo, cioè la servitú imminente a sé e a tutti gli italiani se alla potenza del re di Francia il reame di Napoli s'aggiugnesse. Però aveva desiderato che Carlo trovasse nel dominio de' fiorentini maggiore difficoltà; e veduto essergli stato facilissimo il congiugnersi quella republica, e che con la medesima facilità aveva superato l'opposizione del pontefice, e che senza intoppo alcuno entrava nel regno di Napoli, gli pareva ogni dí tanto maggiore il suo pericolo quanto riusciva maggiore e piú facile il corso della vittoria de' franzesi. Il medesimo timore cominciava a occupare l'animo del senato viniziano; il quale, essendo perseverato nella prima deliberazione di conservarsi neutrale, si era con tanta circospezione astenuto non solo da i fatti ma da tutte le dimostrazioni che lo potessino fare sospetto di maggiore inclinazione all'una parte che all'altra che, avendo eletti imbasciadori al re di Francia Antonio Loredano e Domenico Trivisano, non però prima che quando intese che aveva passato i monti, aveva tardato tanto a mandargli che 'l re prima di loro era arrivato in Firenze. Ma vedendo poi l'impeto di tanta prosperità, e che il re come un folgore, senza resistenza alcuna, per tutta Italia discorreva, cominciò a riputare pericolo proprio il danno alieno e a temere che alla ruina degli altri avesse a essere congiunta la sua; e massime che l'avere Carlo occupata Pisa e l'altre fortezze de' fiorentini, lasciata guardia in Siena e fatto poi il medesimo nello stato della Chiesa, pareva segno pensasse piú oltre che solamente al regno napoletano. Però prontamente prestò gli orecchi alle persuasioni di Lodovico Sforza; il quale, subito che a Carlo cederono i fiorentini, aveva cominciato a confortare che insieme con lui rimediassino a' pericoli comuni. E si crede che se Carlo, o in terra di Roma o nell'entrata del regno di Napoli, avesse riscontrato in qualche difficoltà, arebbono prese l'armi congiuntamente contro a lui. Ma la vittoria succeduta con tanta celerità prevenne tutte le cose che si trattavano per impedirla. E già Carlo, insospettito degli andamenti di Lodovico, avea, dopo l'acquisto di Napoli, condotto Gian Iacopo da Triulzio con cento lancie e con onorata provisione, e congiuntisi con molte promesse il cardinale Fregoso e Obietto dal Fiesco; questi per instrumenti potenti a travagliare le cose di Genova, quello per essere capo della parte guelfa in Milano e avere l'animo alienissimo da Lodovico: al quale similmente recusava di dare il principato di Taranto, allegando non essere obligato se non quando avesse conquistato tutto il reame. Le quali cose essendo molestissime a Lodovico, fece ritenere dodici galee che per il re si armavano a Genova, e proibí che alcuni legni per lui non vi si armassino; da che il re si lamentò essere proceduto che e' non avesse tentato di nuovo con maggiore apparato di espugnare Ischia.

                                            Crescendo adunque da ogni parte continuamente i sospetti e gli sdegni, e avendo l'acquisto tanto súbito di Napoli rappresentato al senato viniziano e al duca di Milano il pericolo maggiore e piú propinquo, furono necessitati a non differire di mettere in esecuzione i loro pensieri: alla quale deliberazione gli faceva procedere con maggiore animo la compagnia potente che avevano; perché al medesimo non era manco pronto il pontefice, impaurito sopramodo de' franzesi; né manco pronto Massimiliano Cesare, al quale, per molte cagioni che aveva di inimicizia con la corona di Francia e per le ingiurie gravissime ricevute da Carlo, furono in ogni tempo piú che a tutti gli altri molestissime le prosperità franzesi. Ma quegli ne' quali i viniziani e Lodovico maggiore e piú fermo fondamento facevano erano Ferdinando e Isabella re e reina di Spagna; i quali essendosi poco innanzi, non per altro effetto che per riavere da lui la contea di Rossiglione, obligati a Carlo a non gli impedire l'acquisto di Napoli, s'avevano astutamente insino ad allora lasciata libera la facoltà di fare il contrario: perché (se è vero quel che essi publicorono) fu apposta ne' capitoli fatti per quella restituzione una clausula di non essere tenuti a cosa alcuna che il pregiudicio della Chiesa concernesse; con la quale eccezione inferivano che se 'l pontefice, per l'interesse del suo feudo, gli ricercasse ad aiutare il regno di Napoli, era in potestà loro il farlo senza contravenire alla fede data e alle promesse. Aggiunsono poi che, per i medesimi capitoli, era proibito loro l'opporsi a Carlo in caso constasse quel reame appartenersi a lui giuridicamente. Ma quale sia di queste cose la verità, certo è che subito che ebbono recuperate quelle terre non solo cominciorno a dare speranza agli Aragonesi di aiutargli, e a fare occultamente instanza col pontefice che non abbandonasse la causa loro, ma avendo nel principio confortato il re di Francia, con moderate parole e come amatori della gloria sua e mossi dal zelo della religione, a voltare piú tosto l'armi contro agl'infedeli che contro a' cristiani, continuavano nel confortarlo al medesimo, ma con maggiore efficacia e con parole piú sospette quanto piú procedeva innanzi quella espedizione: le quali perché avessino piú autorità, e per nutrire con maggiore speranza il pontefice e gli Aragonesi, e nondimeno da altra parte spargendo fama di pensare solamente alla custodia della Sicilia, preparavano di mandarvi per mare una armata, che vi arrivò dopo la perdita di Napoli; benché con apparato, secondo il costume loro, maggiore nelle dimostrazioni che negli effetti, perché non condusse piú che ottocento giannettari e mille fanti spagnuoli. Con queste simulazioni erano proceduti insino a tanto che l'avere i Colonnesi occupata Ostia, e le minaccie che dal re di Francia si facevano contro al pontefice, dettono loro piú onesta occasione di mandare fuora quel che aveano conceputo nell'animo: la quale abbracciando prontamente, feciono da Antonio Fonsecca loro imbasciadore protestare apertamente al re, quando era in Firenze, che secondo l'ufficio di príncipi cristiani piglierebbono la difensione del pontefice e del regno napoletano, feudo della Chiesa romana; e già avendo cominciato a trattare co' viniziani e col duca di Milano di collegarsi, intesa che ebbono la fuga degli Aragonesi, gli sollecitavano con grandissima instanza a intendersi con loro, per la sicurtà comune, contro a' franzesi. Però finalmente, del mese di aprile, nella città di Vinegia, dove erano gli imbasciadori di tutti questi príncipi, fu contratta confederazione tra il pontefice il re de' romani i re di Spagna i viniziani e il duca di Milano; il titolo e la publicazione della quale fu solamente a difesa degli stati uno dell'altro, riserbando luogo a chiunque volesse entrarvi con le condizioni convenienti. Ma giudicando tutti necessario di operare che 'l re di Francia non tenesse il reame di Napoli, fu ne' capitoli piú secreti convenuto: che le genti spagnuole venute in Sicilia aiutassino Ferdinando di Aragona alla recuperazione di quel reame, il quale con speranza grande della volontà de' popoli trattava di entrare nella Calavria, e che i viniziani nel tempo medesimo assaltassino con l'armata loro i luoghi marittimi; sforzassesi il duca di Milano, per impedire se di Francia venisse nuovo soccorso, di occupare la città di Asti, nella quale con piccole forze era rimasto il duca di Orliens; e che a' re de' romani e di Spagna fusse data dagli altri confederati certa quantità di danari, acciocché ciascuno di loro rompesse con potente esercito la guerra nel regno di Francia.

                                            Desiderorno oltre a queste cose i confederati che tutta Italia fusse unita in una medesima volontà, e perciò feceno instanza che i fiorentini e il duca di Ferrara entrassino nella medesima confederazione. Ricusò il duca, richiestone innanzi che la lega si publicasse, di pigliare l'armi contro al re; e da altra parte, con cautela italiana, consentí che don Alfonso suo primogenito si conducesse col duca di Milano con cento cinquanta uomini d'arme, con titolo di luogotenente delle sue genti. Diversa era la causa de' fiorentini, invitati alla confederazione con offerte grandi, e che aveano giustissime cagioni di alienarsi dal re: perché, publicata che fu la lega, Lodovico Sforza offerse loro in nome di tutti i confederati, in caso vi entrassino, tutte le forze loro per resistere al re, se ritornando da Napoli tentasse di offendergli, e di aiutargli come prima si potesse alla recuperazione di Pisa e di Livorno; e da altra parte il re, disprezzate le promesse fatte in Firenze, né da principio gli aveva reintegrati nella possessione delle terre né dopo l'acquisto di Napoli restituite le fortezze, posponendo la fede propria e il giuramento al consiglio di coloro che, favorendo la causa de' pisani, persuadevano che i fiorentini, subito che ne fussino reintegrati, si unirebbono con gli altri italiani; a' quali si opponeva freddamente il cardinale di San Malò, benché avesse ricevuti molti danari, per non venire per causa loro in controversia con gli altri grandi. Né solo in questa ma in molte altre cose aveva dimostrato il re non tenere conto né della fede né di quello che gli potesse, in tempo tale, importare l'aderenza de' fiorentini; in modo che, querelandosi gli oratori loro della ribellione di Montepulciano, e facendo instanza che, come era tenuto, costrignesse i sanesi a restituirlo, rispose, quasi deridendo: - Che poss'io fare se i sudditi vostri per essere male trattati si ribellano? E nondimeno i fiorentini, non si lasciando traportare dallo sdegno contro alla propria utilità, deliberorno di non udire le richieste de' collegati; sí per non provocare di nuovo contro a sé, nel ritorno del re, l'armi franzesi, come perché potevano sperare piú la restituzione di quelle terre da chi l'aveva in mano; e perché confidavano poco in queste promesse, sapendo di essere esosi a' viniziani per l'opposizioni fatte in diversi tempi alle imprese loro, e conoscendosi manifestamente che Lodovico Sforza v'aspirava per sé.

                                            Nel quale tempo era già la riputazione de' franzesi cominciata a diminuire molto nel regno di Napoli, perché occupati da' piaceri, e governandosi a caso, non avevano atteso a cacciare gli aragonesi di quegli pochi luoghi che si tenevano per loro, come, se avessino seguitato il favore della fortuna, sarebbe succeduto facilmente. Ma molto piú era diminuita la grazia: perché se bene a' popoli il re molto liberale e benigno dimostrato si fusse, concedendo per tutto il reame tanti privilegi ed esenzioni che ascendevano ciascuno anno a piú di dugentomila ducati, nondimeno non erano state l'altre cose indirizzate con quell'ordine e prudenza che si doveva; perché egli, alieno dalle fatiche e dall'udire le querele e i desideri degli uomini, lasciava totalmente il peso delle faccende a' suoi, i quali, parte per incapacità parte per avarizia, confusono tutte le cose: perché la nobiltà non fu raccolta né con umanità né con premi, difficoltà grandissima a entrare nelle camere e udienze del re, non fatta distinzione da uomo a uomo, non riconosciuti se non a caso i meriti delle persone, non confermati gli animi di coloro che naturalmente erano alieni dalla casa d'Aragona, interposte molte difficoltà e lunghezze alla restituzione degli stati e de' beni della fazione angioina e degli altri baroni che erano stati scacciati da Ferdinando vecchio, fatte le grazie e i favori a chi gli procurava con doni e con mezzi straordinari, a molti tolto senza ragione a molti dato senza cagione, distribuiti quasi tutti gli uffici e i beni di molti ne' franzesi, donate con grandissimo dispiacere loro quasi tutte le terre di dominio (cosí chiamano quelle che sono solite a ubbidire immediatamente a' re), e la maggiore parte a' franzesi; cose tanto piú moleste a' sudditi quanto piú erano assuefatti a' governi prudenti e ordinati de' re aragonesi, e quanto piú del nuovo re promesso s'aveano. Aggiugnevasi il fasto naturale de' franzesi, accresciuto per la facilità della vittoria, per la quale tanto di se stessi conceputo aveano che teneano tutti gl'italiani in niuna estimazione; la insolenza e impeto loro nell'alloggiare, non manco in Napoli che nell'altre parti del regno dove erano distribuite le genti d'arme, le quali per tutto facevano pessimi trattamenti: in modo che l'ardente desiderio che avevano avuto gli uomini di loro era già convertito in ardente odio; e per contrario, in luogo dell'odio contro agli Aragonesi era sottentrata la compassione di Ferdinando, l'espettazione avutasi sempre generalmente della sua virtú, la memoria di quel dí che con tanta mansuetudine e costanza avea, innanzi si partisse, parlato a' napoletani. Donde e quella città e quasi tutto il reame non con minore desiderio aspettavano occasione di potere richiamare gli Aragonesi che pochissimi mesi innanzi avessino desiderato la loro distruzione. Anzi già cominciava a essere grato il nome tanto odioso d'Alfonso, chiamando giusta severità quella che, insino quando vivente il padre attendeva alle cose domestiche del regno, solevano chiamare crudeltà, e sincerità d'animo veridico quella che molt'anni avevano chiamata superbia e alterezza. Tale è la natura de' popoli, inclinata a sperare piú di quel che si debbe e a tollerare manco di quel ch'è necessario, e ad avere sempre in fastidio le cose presenti; e specialmente degli abitatori del regno di Napoli, i quali tra tutti i popoli d'Italia sono notati di instabilità e di cupidità di cose nuove.

                                             

                                                 Lib.2, cap.5

                                                  

                                                 Deliberazioni di Carlo VIII per la confederazione degli stati italiani. Carlo prima della partenza da Napoli distribuisce le cariche e gli uffici. Ardore del re e della corte di ritornare in Francia. Trattative fra Carlo e il pontefice per l'investitura del regno di Napoli. Carlo dopo aver assunto il titolo e le insegne reali parte da Napoli. Gli Orsini chiedono invano d'esser lasciati in libertà. Il pontefice per evitare d'incontrarsi con Carlo si reca a Orvieto e, quindi, a Perugia. Nuovi tentativi de' fiorentini di riavere le fortezze. Carlo prende, ma per breve tempo, in protezione Siena.

                                             

                                            Aveva il re, insino innanzi si facesse la nuova lega, quasi stabilito di ritornarsene presto in Francia; mosso piú da leggiera cupidità e dal desiderio ardente di tutta la corte che da prudente considerazione, perché nel reame restavano indecise innumerabili e importanti faccende di príncipi e di stati, né avea la vittoria avuta perfezione, non essendo conquistato tutto il regno. Ma inteso che ebbe essere fatta contro a sé confederazione di tanti príncipi, commosso molto di animo, consultava co' suoi quel che in tanto accidente fusse da fare; affermandosi verissimamente per ciascuno essere già molte età che tra i cristiani non si era fatta unione tanto potente. Per consiglio de' quali fu principalmente deliberato che si accelerasse la partita, dubitando che quanto piú si soprastava tanto piú si accrescessino le difficoltà, perché si darebbe tempo a' collegati di fare preparazioni maggiori (e già era fama che per ordine loro passerebbe in Italia numero grande di tedeschi, e si cominciava a vociferare della persona di Cesare); che 'l re provedesse che di Francia passassino con prestezza in Asti nuove genti, per conservare quella città e per necessitare il duca di Milano ad attendere a difendere le cose proprie, e perché fussino pronte a passare piú innanzi quando il re giudicasse che cosí fusse necessario. E fu nel medesimo consiglio deliberato di affaticarsi con ogni diligenza e con offerte grandissime per separare il pontefice dagli altri collegati, e per disporlo a concedere [a Carlo] la investitura del regno di Napoli; la quale benché a Roma avesse convenuto di concedere assolutamente, avea insino a quel dí ricusato di concedere, eziandio con dichiarazione che per questa concessione non si facesse pregiudicio alle ragioni degli altri. Né in tanto grave deliberazione, e tra sí importanti pensieri, cadde la memoria delle cose di Pisa; perché desiderando, per molti rispetti, che in potestà sua fusse il disporne, e dubitando che dal popolo pisano non gli fusse con l'aiuto de' collegati tolta la cittadella, vi mandò per mare, insieme con gli imbasciadori pisani che erano appresso a lui, seicento fanti di quegli del regno suo. I quali, come arrivorono in Pisa, presa la medesima affezione che avevano presa gli altri lasciati in quella città, e mossi da cupidità di rubare, andorono con le genti de' pisani, da' quali ebbono danari, a campo al castello di Librafatta; dove i pisani, de' quali era capitano Lucio Malvezzo, essendosi accampati non molti dí prima, preso animo per avere i fiorentini mandata una parte delle genti verso Montepulciano, inteso dipoi approssimarsi gl'inimici si erano levati innanzi dí: ma ritornativi di nuovo con questo presidio franzese l'espugnorono in pochi dí; essendo stato l'esercito fiorentino, il quale ritornava per soccorrerla, impedito dalla grossezza dell'acque a passare il fiume del Serchio, né avendo avuto ardire di pigliare il cammino allato alle mura di Lucca, per la disposizione del popolo lucchese, concitato molto in favore della libertà de' pisani. Con le genti de' quali, dopo l'acquisto di Librafatta, scorsono i franzesi, che si riserborono Librafatta, per tutto il contado di Pisa, come inimici manifesti de' fiorentini; a' quali, quando si querelavano, non rispondeva altro Carlo se non che, come fusse arrivato in Toscana, osserverebbe loro le cose promesse, confortandogli che questa breve dilazione senza molestia tollerassino.

                                            Ma non era a Carlo sí facile la deliberazione del partirsi com'era pronto il desiderio, perché non aveva tanto esercito che, diviso in due parti, potesse senza pericolo contro alla opposizione de' confederati condurlo in Asti, e che fusse bastante a difendere, in tanti movimenti che si preparavano, facilmente il regno di Napoli. Nelle quali difficoltà fu costretto, e perché il regno non rimanesse spogliato di difensori diminuire delle provisioni opportune alla sua salute, e per non mettere se in pericolo sí manifesto non vi lasciare quel potente presidio che sarebbe stato di bisogno. Però deliberò lasciarvi la metà de' svizzeri e una parte de' fanti franzesi, ottocento lancie franzesi, e circa a cinquecento uomini d'arme italiani, condotti a' soldi suoi parte sotto il preletto di Roma parte sotto Prospero e Fabrizio Colonna e Antonello Savello, tutti capitani beneficati da lui nella distribuzione che fece di quasi tutte le terre e stati del regno; e massimamente i Colonnesi, perché a Fabrizio aveva conceduto i contadi d'Albi e di Tagliacozzo, posseduti prima da Verginio Orsino, e a Prospero il ducato di Traietto e la città di Fondi con molte castella, che erano della famiglia Gaetana, e Montefortino con altre terre circostanti, tolte alla famiglia de' Conti: con le quali genti pensava che in ogni bisogno si unissino le forze di quegli baroni i quali, per la sicurtà propria, erano necessitati di desiderare la sua grandezza, e sopra tutti del principe di Salerno, restituito da lui all'ufficio dell'ammiraglio, e del principe di Bisignano. Luogotenente generale di tutto il regno diputò Giliberto di Mompensieri, capitano piú stimato per la grandezza sua e per essere del sangue reale che per proprio valore; e diputò oltre a lui vari capitani in molte parti del regno, a' quali tutti aveva donato stati ed entrate: e di questi furono i principali Obigní al governo della Calavria, fatto da lui gran conestabile; a Gaeta il siniscalco di Belcari, al quale aveva dato l'ufficio del gran camarlingo; nell'Abruzzi Graziano di Guerra, valoroso e riputato capitano. A queste genti promesse di mandare danari e presto soccorso, ma non lasciò altra provisione che l'assegnamento di quegli che giornalmente si riscotessino dell'entrate del regno. Il quale già vacillava, cominciando a risorgere in molti luoghi il nome aragonese: perché Ferdinando era, ne' dí medesimi che 'l re voleva partire da Napoli, smontato in Calavria, accompagnato dagli spagnuoli venuti in sull'armata nell'isola di Sicilia; a cui concorseno subito molti degli uomini del paese, e se gli arrendé incontinente la città di Reggio, la fortezza della quale si era sempre tenuta in nome suo; e nel tempo medesimo si scoperse ne' liti di Puglia l'armata viniziana, della quale era capitano Antonio Grimanno, uomo in quella republica di grande autorità. Ma non per questo, né per molti altri segni dell'alterazione futura, si rimosse o pure si ritardò in parte alcuna la deliberazione del partirsi; perché, oltre a quello a che gli persuadeva forse la necessità, era incredibile l'ardore che il re e tutta la corte avevano di ritornarsene in Francia: come se il caso che era stato bastante a fare acquistare tanta vittoria fusse bastante a farla conservare. Nel quale tempo si tenevano per Ferdinando l'isola d'Ischia e l'isole di Lipari, membro, benché propinque alla Sicilia, del regno di Napoli, Reggio recuperato nuovamente; e nella medesima Calavria, Terranuova e la fortezza, con alcun'altre fortezze e luoghi circostanti; Brindisi, dove si era fermato don Federigo, Galipoli, la Mantia e la Turpia.

                                            Ma innanzi che 'l re partisse si trattorono tra il pontefice e lui varie cose, non senza speranza di concordia; per le quali andò dal pontefice al re, e dipoi ritornò a Roma, il cardinale di San Dionigi, e dal re a lui Franzi monsignore: perché il re desiderava sommamente la investitura del regno di Napoli; desiderava che il pontefice, se non voleva essere congiunto seco, almeno non aderisse cogli inimici suoi, e che si contentasse di riceverlo in Roma come amico. Alle quali cose benché il pontefice da principio prestasse orecchi, nondimeno, avendo l'animo alieno da confidarsi di lui, e perciò non volendo separarsi da' collegati, né concedergli la investitura, non la reputando mezzo sufficiente a fare fedele reconciliazione, interponeva all'altre dimande varie difficoltà; e a quella della investitura, benché il re si riducesse ad accettarla senza pregiudicio delle ragioni d'altri, rispondeva volere che prima si vedesse giuridicamente a chi di ragione apparteneva: e da altra parte, desiderando di proibire con l'armi che 'l re non entrasse in Roma, ricercò il senato viniziano e il duca di Milano che gli mandassino aiuto; i quali gli mandorono mille cavalli leggieri e dumila fanti, e promessono mandargli mille uomini d'arme; con le quali genti aggiunte alle forze sue sperava potere resistere. Ma, parendo poi loro troppo pericoloso il discostare tanto le genti dagli stati propri, né avendo ancora in ordine tutto l'esercito disegnato, ed essendo parte delle genti occupate alla impresa di Asti, e riducendosi oltre a ciò in memoria la infedeltà del pontefice, e l'avere, quando passò Carlo, chiamato in Roma con l'esercito Ferdinando e poi fattolo partire, mutato consiglio, cominciorono a persuadergli che piú tosto si riducesse in luogo sicuro che, per sforzarsi di difendere Roma, esporre la sua persona a sí grave pericolo; atteso che quando bene il re entrasse in Roma se ne partirebbe subito, senza lasciarvi gente alcuna. Le quali cose accrebbono la speranza del re di potere venire seco a qualche composizione.

                                            Partí adunque il re da Napoli il vigesimo dí di maggio; ma perché prima non aveva assunto con le cerimonie consuete il titolo e le insegne reali, pochi dí innanzi si partisse ricevé solennemente nella chiesa catedrale, con grandissima pompa e celebrità secondo il costume de' re napoletani, le insegne reali, e gli onori e i giuramenti consueti prestarsi a' nuovi re; orando in nome del popolo di Napoli Giovanni Ioviano Pontano. Alle laudi del quale, molto chiarissime per eccellenza di dottrina e di azioni civili e di costumi, détte quest'atto non piccola nota; perché essendo stato lungamente segretario de' re aragonesi e appresso a loro in grandissima autorità, precettore ancora nelle lettere e maestro d'Alfonso, parve che, o per servare le parti proprie degli oratori o per farsi piú grato a' franzesi, si distendesse troppo nella vituperazione di quegli re, da' quali era sí grandemente stato esaltato: tanto è qualche volta difficile osservare in se stesso quella moderazione e quegli precetti co' quali egli, ripieno di tanta erudizione, scrivendo delle virtú morali, e facendosi, per l'universalità dello ingegno suo in ogni specie di dottrina, maraviglioso a ciascuno, aveva ammaestrato tutti gli uomini. Andorono con Carlo ottocento lancie franzesi e dugento gentil'uomini della sua guardia, il Triulzio con cento lancie tremila fanti svizzeri mille franzesi e mille guasconi; e con ordine che in Toscana seco si unissino Cammillo Vitelli e i fratelli con dugento cinquanta uomini d'arme, e che l'armata di mare se ne ritornasse verso Livorno.

                                            Seguitorono il re, non con altra guardia che data la fede di non partirsi senza licenza, Verginio Orsino e il conte di Pitigliano. La causa de' quali, perché si querelavano non essere stati fatti giustamente prigioni, era stata prima commessa al consiglio reale; innanzi al quale avevano allegato che al tempo che s'arrenderono era già stato agli uomini mandati da loro non solo conceduto per la bocca propria del re il salvocondotto, ma eziandio ridotto in scrittura e sottoscritto dalla sua mano; e che avendone ricevuto avviso da' suoi che aspettavano l'espedizione de' secretari, avevano, sotto questa fidanza, al primo araldo che andò a Nola, alzato le bandiere del re, e al primo capitano, il quale aveva seco pochissimi cavalli, consegnato le chiavi: non ostante che, avendo con loro piú di quattrocento uomini d'arme, avessino facilmente potuto resistere. Raccontavano l'antica divozione della famiglia degli Orsini, la quale avendo sempre tenuta la parte guelfa, aveano, e loro e chiunque era mai nato o nascerebbe di quella casa, scolpito nel cuore il nome e il segno della corona di Francia. Da questo essere proceduto l'avere con tanta prontezza ricevuto il re negli stati loro di terra di Roma. E perciò non convenire né essere giusto, né attesa la fede data dal re né attese l'opere loro, che e' fussino ritenuti prigioni. Ma non meno prontamente si rispondeva per la parte di Ligní, dalle cui genti erano stati presi a Nola: il salvocondotto, benché deliberato e sottoscritto dal re, non intendersi perfettamente conceduto insino a tanto non fusse corroborato col sigillo regio e con le soscrizioni de' secretari, e dipoi consegnato alla parte. Questo essere in tutte le concessioni e patenti il costume antichissimo di tutte le corti, acciocché si potesse moderare quel che dalla bocca del principe, o per la moltiplicità de' pensieri e delle faccende o per non essere stato informato pienamente delle cose, inconsideratamente fusse caduto. Né avere questa fidanza mosso gli Orsini ad arrendersi a sí piccolo numero di gente ma la necessità e il timore, perché non rimaneva loro facoltà né di difendersi né di fuggirsi, essendo già tutto 'l paese circostante occupato dall'armi de' vincitori; ed essere falso quel che aveano allegato de' meriti loro, i quali quando fussino affermati da altri doverebbono essi medesimi per l'onore proprio negare, perché era manifestissimo a tutto il mondo che, non per volontà ma per fuggire il pericolo, partendosi nell'avversità dagli Aragonesi da' quali nelle prosperità aveano ricevuti grandissimi benefici, apersono al re le terre loro. Dunque, essendo agli stipendi degli inimici e di animo alienissimo dal nome franzese, né avendo ricevuta perfettamente sicurtà alcuna, essere stati per giusta ragione di guerra fatti prigioni. Queste cose si dicevano contro agli Orsini, le quali essendo sostentate dalla potenza di Ligní e dall'autorità de' Colonnesi, i quali per l'antiche emulazioni e diversità delle fazioni apertamente gli impugnavano, non era stata mai data sentenza ma deliberato che seguitassino il re: benché data speranza di liberargli, come fusse arrivato in Asti.

                                            Ma il pontefice, benché per l'averlo i collegati confortato a partirsi, non fusse stato senza inclinazione di riconciliarsi con Carlo, col quale continuamente trattava, nondimeno, prevalendo finalmente il sospetto conceputo di lui, con tutto che al re avesse dato qualche speranza di aspettarvelo, due dí innanzi che egli entrasse in Roma, accompagnato dal collegio de' cardinali e da dugento uomini d'arme mille cavalli leggieri e tremila fanti, e messo sufficiente presidio in Castel Santo Angelo se ne andò a Orvieto; lasciato legato in Roma il cardinale di Santa Anastasia a ricevere e onorare il re; il quale, entrato per Trastevere per sfuggire Castel Santo Angelo, andò ad alloggiare nel borgo, rifiutato l'alloggiamento offertogli per commissione del pontefice nel palagio di Vaticano. Da Orvieto il pontefice, come intese il re approssimarsi a Viterbo, benché gli avesse di nuovo data speranza di convenire seco in qualche luogo comodo tra Viterbo e Orvieto, se ne andò a Perugia, con intenzione, se Carlo si dirizzava a quel cammino, di andare ad Ancona, per potere con la comodità del mare ridursi in luogo totalmente sicuro. E nondimeno il re, benché sdegnato molto con lui, rilasciò le fortezze di Civitavecchia e di Terracina, riserbandosi Ostia, la quale, alla partita sua d'Italia, lasciò in potestà del cardinale di San Piero a Vincola vescovo ostiense: passò medesimamente per il paese della Chiesa come per paese amico; eccetto che l'antiguardia, ricusando gli uomini di Toscanella di alloggiarla nella terra, entratavi dentro per forza, la messe a sacco con uccisione di molti.

                                            Dimorò poi il re, senza alcuna cagione, sei giorni in Siena, non considerando, né per se stesso né per essergli instantemente ricordato dal cardinale di San Piero in Vincola e dal Triulzio, quanto fusse pernicioso il dare tanto tempo agli inimici di provedersi, e di unire le forze loro. Né ricompensò perciò la perdita del tempo con l'utilità delle deliberazioni. Perché in Siena si trattò la restituzione delle fortezze de' fiorentini, dal re alla partita sua di Napoli efficacemente promessa, e poi nel cammino piú volte confermata; per la quale i fiorentini, oltre a essere parati a pagargli trentamila ducati che restavano della somma convenuta in Firenze, offerivano di prestargliene settantamila, e mandare seco insino in Asti Francesco Secco loro condottiere con trecento uomini d'arme e dumila fanti: in modo che la necessità che aveva il re di danari, l'essergli molto utile l'augumentare l'esercito suo, il rispetto della fede e del giuramento reale, indusse quasi tutti quegli del consiglio a confortare efficacemente la restituzione, riservandosi Pietrasanta e Serezana, quasi come instrumento a volgere alla divozione sua piú agevolmente l'animo de’ genovesi. Ma era destinato che in Italia rimanesse accesa la materia di nuove calamità. Ligní, giovane e inesperto, ma che era nato d'una sorella della madre del re e molto favorito da lui, mosso o da leggierezza o da sdegno che i fiorentini si fussino accostati al cardinale di San Malò, impedí questa deliberazione, non allegando altra ragione che la compassione de' pisani, e disprezzando gli aiuti de' fiorentini, per essere (come diceva) l'esercito franzese potente a battere tutte le genti di guerra italiane unite insieme; e a Ligní acconsentiva monsignore di Pienes, perché sperava ch'il re gli concedesse il dominio di Pisa e di Livorno.

                                            Trattossi ancora in Siena del governo di quella città; perché molti degli ordini del popolo e de' riformatori, per deprimere la potenza dell'ordine del Monte de' nove, instavano che, introdotta una forma nuova di governo, e levata la guardia tenuta dal Monte de' nove al palagio publico, vi restasse una guardia di franzesi sotto la cura di Ligní: la quale offerta benché nel consiglio regio, come cosa poco durabile e impertinente al tempo presente, rifiutata fusse, nondimeno Ligní, il quale vanamente disegnava di farsene signore, ottenne che Carlo pigliasse in protezione con certi capitoli quella città, obligandosi alla difesa di tutto lo stato possedevano; eccetto che di Montepulciano, del quale disse non volere né per i fiorentini né per i sanesi intromettersi; e la comunità di Siena, con tutto che di questo non si facesse menzione nella capitolazione, elesse, con consentimento di Carlo, Ligní per suo capitano, promettendogli ventimila ducati per ciascun anno, con obligazione di tenervi un luogotenente con trecento fanti per guardia della piazza: che vi lasciò di quegli che erano con l'esercito franzese. La vanità delle quali deliberazioni presto apparí, perché non molto dipoi l'ordine de' nove, vendicatasi con l'armi la solita autorità, cacciò di Siena la guardia, e licenziò monsignore di Lilla che Carlo v'aveva lasciato per suo imbasciadore.

                                             

                                                 Lib.2, cap.6

                                                  

                                                 I preparativi de' collegati contro i francesi. Intimazioni e minacce di Lodovico Sforza al duca d'Orliens che si fortifica in Asti. Il duca d'Orliens occupa Novara. Fazione di Vigevano.

                                                  

                                                 Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano; perché da' viniziani e da Lodovico Sforza, il quale aveva ne' medesimi dí ricevuto da Cesare con grandissima solennità i privilegi della investitura del ducato di Milano, e prestato, agli imbasciadori che gli aveano portati, publicamente l'omaggio e il giuramento della fedeltà, si facevano grandissime provisioni per impedire a Carlo la facoltà di ritornarsene in Francia, o almeno per assicurare il ducato di Milano, per il quale egli aveva ad attraversare per tanto spazio di paese: e a questo effetto, avendo ciascun di loro riordinato le sue genti, avevano, parte a comune parte in proprio, condotto di nuovo molti uomini d'arme, e dopo varie difficoltà ottenuto che Giovanni Bentivogli, preso lo stipendio comune da loro, aderisse alla lega, con la città di Bologna. Armava ancora a Genova Lodovico, per sicurtà di quella città, dieci galee a spese sue proprie, e quattro navi grosse a spese comuni del papa de' viniziani e sue; e intanto, per eseguire quello che era obligato per i capitoli della confederazione, alla espugnazione di Asti, aveva mandato a soldare in Germania dumila fanti, e voltato a quella espedizione Galeazzo da San Severino con settecento uomini d'arme e tremila fanti: promettendosene con tanta speranza la vittoria che, come era per natura molto insolente nelle prosperità, per schernire il duca d'Orliens, mandò a ricercarlo che in futuro non usurpasse piú il titolo di duca di Milano, il quale titolo avea dopo la morte di Filippo Maria Visconte assunto Carlo suo padre; non permettesse che nuove genti franzesi passassino in Italia; facesse ritornare quelle che erano in Asti di là da' monti; e che per sicurtà dell'osservanza di queste cose depositasse Asti in mano di Galeazzo da San Severino, del quale il suo re poteva confidare non meno di lui, avendo l'anno dinanzi in Francia ammessolo nella confraternita e ordine suo di San Michele: magnificando, oltre a questo, con la medesima iattanza le forze sue, le provisioni de' collegati per opporsi al re in Italia, e gli apparati che faceano il re de' romani e i re di Spagna per muovere la guerra di là da' monti. Ma poco moveva Orliens la vanità di queste minaccie. Il quale, subito che aveva avuto notizia trattarsi di fare la nuova confederazione, aveva atteso a fortificare Asti, e con grande instanza sollecitato che di Francia venissino nuove genti; le quali, essendo state dimandate dal re che venissino in soccorso proprio, cominciavano con prestezza a passare i monti: e perciò Orliens, non temendo degli inimici, uscito alla campagna, prese nel marchesato di Saluzzo la terra e la rocca di Gualfinara, posseduta da Antonio Maria da San Severino; donde Galeazzo, che prima aveva prese alcune piccole castella, si ritirò con l'esercito ad Anon, terra del ducato di Milano vicina ad Asti, non avendo né speranza di potere offendere né timore di essere offeso. Ma la natura di Lodovico, inclinatissima a implicarsi prontamente in imprese che ricercavano grandissime spese, e per contrario alienissima, benché nelle maggiori necessità, dallo spendere, fu cagione di mettere lo stato suo in gravissimi pericoli; perché per la scarsità de' pagamenti erano venuti pochissimi de' fanti alamanni, e per la medesima strettezza le genti che erano con Galeazzo ogni giorno diminuivano: e per contrario, sopravenendo continuamente gli aiuti di Francia, i quali, per essere chiamati al soccorso della persona del re, passavano con grande prontezza, il duca d'Orliens aveva già insieme trecento lancie tremila fanti svizzeri e tremila guasconi: e benché da Carlo gli fusse stato precisamente comandato che, astenendosi da ogni impresa, stesse preparato a potere, quando fusse chiamato, farsegli incontro, nondimeno, come è difficile il resistere agli interessi propri, deliberò di accettare l'occasione d'occupare la città di Novara, nella quale offerivano di metterlo due Opizini Caza, l'uno cognominato nero l'altro cognominato bianco, gentil'uomini di quella città; a' quali era molto odioso il duca di Milano, perché a loro e a molti altri novaresi aveva, con false calunnie e con giudici ingiusti, usurpato certi condotti di acque e possessioni. Però Orliens, composta la cosa con loro, accompagnato da Lodovico marchese di Saluzzo, passato di notte il fiume del Po al ponte a Stura, giurisdizione del marchese di Monferrato, fu con le sue genti da' congiurati, senza alcuna resistenza, ricevuto in Novara, donde avendo subito fatto scorrere parte delle sue genti insino a Vigevano, si crede che se con tutto l'esercito fusse sollecitamente andato verso Milano si sarebbono suscitati grandissimi movimenti: perché, intesa la perdita di Novara, si veddono molto sollevati a cose nuove gli animi de' milanesi; e Lodovico, non manco timido nell'avversità che immoderato nelle prosperità (come quasi sempre è congiunta in uno medesimo subietto la insolenza con la timidità), dimostrava con inutili lagrime la sua viltà; né le genti che erano con Galeazzo, nelle quali sole consisteva la sua difesa, restate indietro, si dimostravano in luogo alcuno.

                                            Ma non essendo sempre note a' capitani le condizioni e i disordini degli inimici, si perdono spesso nelle guerre bellissime occasioni: né anche pareva verisimile che contro a uno principe tanto potente potesse succedere sí subita mutazione. Orliens, per stabilire l'acquisto di Novara, si fermò all'espugnazione della rocca, la quale il quinto dí convenne d'arrendersi se infra uno dí non fusse soccorsa; per il quale intervallo di tempo ebbe spazio il Sanseverino di ridursi con le sue genti in Vigevano, e il duca, che per riconciliarsi gli animi de' popoli aveva, per bando publico, levati molti dazi che prima aveva imposti, di accrescere l'esercito. E nondimeno Orliens, accostatosi con le sue genti alle mura di Vigevano, presentò la battaglia agli inimici; i quali erano in tanto terrore che ebbono inclinazione d'abbandonare Vigevano, e passare il fiume del Tesino per il ponte che v'avevano fatto in sulle barche. Ma ritiratosi Orliens a Trecas, poi che essi recusavano di combattere, cominciorono le cose di Lodovico Sforza a prosperare, sopravenendo continuamente all'esercito suo cavalli e fanti, perché i viniziani, contenti che a loro rimanesse quasi tutto il peso di opporsi a Carlo, consentirono che Lodovico richiamasse parte delle genti che avea mandate in parmigiano, e gli mandorono oltre a ciò quattrocento stradiotti; talmente che a Orliens fu tolta la facoltà di passare piú innanzi, e avendo fatto correre di nuovo cinquecento cavalli insino a Vigevano, uscendo fuora ad assaltargli i cavalli degli inimici, riceverono quegli di Orliens grave danno. Andò dipoi il Sanseverino, già superiore di forze, a presentargli la battaglia a Trecas; e ultimamente, raccolto tutto l'esercito, nel quale oltre a soldati italiani erano arrivati mille cavalli e dumila fanti tedeschi, alloggiò appresso a un miglio a Novara, ove Orliens si era con tutte le genti ritirato.

                                             

                                                 Lib.2, cap.7

                                                  

                                                 A Poggibonsi Gerolamo Savonarola incita inutilmente Carlo VIII a restituire le terre ai fiorentini. Contrastanti promesse del re ai pisani ed ai fiorentini. Carlo manda parte delle truppe contro Genova. Saccheggio di Pontremoli.

                                                  

                                                 La nuova della ribellione di Novara sollecitò Carlo, che era a Siena, ad accelerare il cammino; e perciò, per fuggire qualunque occasione che lo potesse ritardare, avendo notizia che i fiorentini, ammuniti da' pericoli passati e insospettiti perché Piero de' Medici lo seguitava, benché ordinassino di riceverlo in Firenze con grandissimi onori, empievano per sicurtà loro la città d'armi e di genti, passò a Pisa per il dominio fiorentino, lasciata la città di Firenze alla mano destra. Al quale si fece incontro, nella terra di Poggibonzi, Ieronimo Savonarola, e interponendo, come era solito, nelle parole sue l'autorità e il nome divino, lo confortò con grandissima efficacia a restituire le terre a' fiorentini; aggiugnendo alle persuasioni gravissime minaccie, che se e' non osservava quel che con tanta solennità, toccando con mano gli evangeli e quasi innanzi agli occhi di Dio, avea giurato, sarebbe presto punito da Dio rigidamente. Fecegli il re, secondo la sua incostanza, quivi, e il dí seguente in Castelfiorentino, varie risposte: ora promettendo di restituirle come fusse arrivato in Pisa, ora allegando in contrario della fede data, perché affermava di avere, innanzi al giuramento prestato in Firenze, promesso a' pisani di conservargli in libertà; e nondimeno dando continuamente agli oratori de' fiorentini speranza della restituzione, come a Pisa fusse arrivato. In Pisa fu di nuovo questa materia proposta nel consiglio reale; perché accrescendosi ogni dí piú la fama degli apparati e dell'unirsi appresso a Parma le forze de' collegati, si cominciavano pure a considerare le difficoltà del passare per Lombardia, e però erano desiderati da molti i danari e gli aiuti offerti da' fiorentini. Ma a questa deliberazione furono contrari i medesimi che in Siena l'avevano contradetta, allegando che, se pure avessino, per l'opposizione degli inimici, qualche disordine o qualche difficoltà di passare per Lombardia, era meglio d'avere in sua potestà quella città, dove potrebbono ritirarsi, che lasciarla in mano de' fiorentini; i quali, come avessino ricuperate quelle terre, non sarebbono di maggiore fede che fussino stati gli altri italiani: soggiugnendo che, per la sicurtà del reame di Napoli, era molto opportuno il tenere il porto di Livorno; perché succedendo al re il disegno di mutare lo stato di Genova, come era da sperare, sarebbe padrone di quasi tutte le marine, dal porto di Marsilia insino al porto di Napoli. Potevano certamente nell'animo del re, poco capace di eleggere la piú sana parte, qualche cosa queste ragioni: ma molto piú potenti furono i prieghi e le lagrime de' pisani, i quali popolarmente, insieme con le donne e co' piccoli fanciulli, ora prostrati innanzi a' suoi piedi ora raccomandandosi a ciascuno, benché minimo, della corte e de' soldati, con pianti grandissimi e con urla miserabili deploravano le loro future calamità, l'odio insaziabile de' fiorentini, la desolazione ultima di quella patria, la quale non arebbe causa di lamentarsi d'altro che d'avergli il re conceduta la libertà e promesso di conservargliene; perché questo, credendo essi la parola del re cristianissimo di Francia essere parola ferma e stabile, aveva dato loro animo di provocarsi tanto piú l'inimicizia de' fiorentini. Co' quali pianti ed esclamazioni commossono talmente insino a' privati uomini d'arme, insino agli arcieri dell'esercito e molti ancora de' svizzeri, che andati in grandissimo numero e con tumulto grande innanzi al re, parlando in nome di tutti Salazart uno de' suoi pensionari, lo pregorono ardentemente che, per l'onore della persona sua propria, per la gloria della corona di Francia, per consolazione di tanti suoi servidori parati a mettere a ogn'ora la vita per lui, e che lo consigliavano con maggiore fede che quegli che erano corrotti da' danari de' fiorentini, non togliesse a' pisani il beneficio che egli stesso aveva loro fatto; offerendogli che, se per bisogno di danari si conduceva a deliberazione di tanta infamia, pigliasse piú presto le collane e argenti loro, e ritenesse i soldi e le pensioni che ricevevano da lui. E procedette tanto oltre questo impeto de' soldati che uno arciere privato ebbe ardire di minacciare il cardinale di San Malò, e alcuni altri dissono altiere parole al marisciallo di Gies e al presidente di Gannai, i quali era noto che consigliavano questa restituzione: in modo che 'l re, confuso da tanta varietà de' suoi, lasciò la cosa sospesa, tanto lontano da alcuna certa resoluzione che, in questo tempo medesimo, promettesse di nuovo a' pisani di non gli rimettere giammai in potestà de' fiorentini e agli oratori fiorentini, che aspettavano a Lucca, facesse intendere che quello che per giuste cagioni non faceva al presente farebbe subito che e' fusse arrivato in Asti; e però non mancassino di fare che la loro republica gli mandasse in quel luogo imbasciadori.

                                            Partí da Pisa, mutato il castellano e lasciata la guardia necessaria nella cittadella, e il medesimo fece nelle fortezze dell'altre terre. Ed essendo acceso per se stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Genova, e stimolato da' cardinali San Piero a Vincola e Fregoso e da Obietto del Fiesco e dagli altri fuorusciti, i quali gli davano speranza di facile mutazione, mandò da Serezana con loro a quella impresa, contra 'l parere di tutto il consiglio, che biasimava il diminuire le forze dell'esercito, Filippo monsignore con cento venti lancie e con cinquecento fanti, che nuovamente per mare erano venuti di Francia; e con ordine che le genti d'arme de' Vitelli, che per essere rimaste indietro non potevano essere a tempo a unirsi seco, gli seguitassino, e che alcuni altri fuorusciti con genti date dal duca di Savoia entrassino nella riviera di ponente, e che l'armata di mare, ridotta a sette galee due galeoni e due fuste, della quale era capitano Miolans, andasse a fare spalle alle genti di terra. Era intanto l'avanguardia, guidata dal marisciallo di Gies, arrivata a Pontriemoli; la qual terra, licenziati trecento fanti forestieri che vi erano a guardia, si arrendé subito per i conforti del Triulzio, con patto di non ricevere offesa né nelle persone né nella roba: ma vana fu la fede data da' capitani, perché i svizzeri, entrativi impetuosamente dentro, per vendicarsi che quando l'esercito passò nella Lunigiana vi erano stati, per certa quistione nata a caso, uccisi dagli uomini di Pontriemoli circa quaranta di loro, saccheggiorono e abbruciorono la terra, ammazzati crudelmente tutti gli abitatori.

                                             

                                                 Lib.2, cap.8

                                                  

                                                 L'esercito francese e quello dei collegati di fronte, a Fornovo. Dubbi e dispareri nell'esercito de' collegati. Incertezze in quello di Carlo.

                                                  

                                                 Nel qual tempo si raccoglieva sollecitamente nel territorio di Parma l'esercito de' collegati, in numero di dumila cinquecento uomini d'arme ottomila fanti e piú di dumila cavalli leggieri, la maggiore parte albanesi e delle provincie circostanti di Grecia; i quali, condotti in Italia da' viniziani, ritenendo il nome medesimo che hanno nella patria, sono chiamati stradiotti. Del quale esercito il nervo principale erano le genti de' viniziani, perché quelle del duca di Milano, avendo egli voltate quasi tutte le sue forze a Novara, non ascendevano alla quarta parte di tutto l'esercito. Alle genti venete, tra le quali militavano molti condottieri di chiaro nome, era preposto sotto titolo di governatore generale Francesco da Gonzaga, marchese di Mantua, molto giovane, nel quale, per essere stimato animoso e cupido di gloria, la espettazione superava l'età; e con lui proveditori due de' principali del senato, Luca Pisano e Marchionne Trivisano. I soldati sforzeschi comandava, sotto il medesimo titolo di governatore, il conte di Gaiazzo, confidato molto al duca ma che, non pareggiando nell'armi la gloria di Ruberto da Sanseverino suo padre, aveva acquistato nome piú di capitano cauto che di ardito; e con lui commissario Francesco Bernardino Visconte, principale della parte ghibellina in Milano, e perciò opposito a Gianiacopo da Triulzi. Tra' quali capitani e altri principali dell'esercito consultandosi se e' fusse da andare ad alloggiare a Fornuovo, villa di poche case alle radici della montagna, fu deliberato, per la strettezza del luogo, e forse (secondo divulgorono) per dare facoltà agli inimici di scendere alla pianura, di alloggiare alla badia della Ghiaruola, distante da Fornuovo tre miglia: la quale deliberazione dette luogo di alloggiare a Fornuovo all'avanguardia franzese, che avea passata la montagna molto innanzi al resto dell'esercito, ritardato per lo impedimento dell'artiglieria grossa, la quale con grandissima difficoltà si conduceva per quella montagna aspra dello Apennino; e sarebbe stata condotta con difficoltà molto maggiore se i svizzeri, cupidi di scancellare l'offesa fatta all'onore del re nel sacco di Pontriemoli, non si fussino con grandissima prontezza affaticati a farla passare. Arrivata l'avanguardia a Fornuovo, il marisciallo di Gies mandò uno trombetta nel campo italiano a domandare il passo per l'esercito in nome del re, il quale, senza offendere alcuno e ricevendo le vettovaglie a prezzi convenienti, voleva passare per ritornarsene in Francia; e nel tempo medesimo fece correre alcuni de' suoi cavalli per prendere notizia degli inimici e del paese, i quali furono messi in fuga da certi stradiotti che mandò loro incontro Francesco da Gonzaga: in sulla quale occasione, se le genti italiane si fussino mosse insino all'alloggiamento de' franzesi, si crede che arebbono rotta facilmente l'antiguardia, e rotta questa non poteva piú farsi innanzi l'esercito regio. La quale occasione non era ancora fuggita il dí seguente, benché il marisciallo, conosciuto il pericolo, avesse ritirato i suoi in luogo piú alto; ma non ebbono i capitani italiani ardire d'andare ad assaltargli, spaventati dalla fortezza del sito dove s'erano ridotti, e dal credere che l'antiguardia fusse piú grossa, e forse piú vicino il resto dell'esercito. Ed è certo che, in questo dí, non erano ancora finite di raccorsi insieme tutte le genti viniziane; le quali avevano tardato tanto a unirsi tutte nell'alloggiamento della Ghiaruola che è manifesto che se Carlo non avesse soggiornato tanto per il cammino, come in Siena in Pisa e in molti luoghi soggiornò, senza bisogno, sarebbe passato innanzi senza impedimento o contrasto alcuno. Il quale, unito alla fine con l'antiguardia, alloggiò il dí prossimo con tutto l'esercito a Fornuovo.

                                            Non aveano creduto mai i príncipi confederati che il re, con esercito tanto minore, ardisse di passare per il cammino diritto l'Apennino; e però si erano da principio persuasi che egli, lasciata la piú parte delle genti a Pisa, se n'andrebbe col resto in sull'armata marittima in Francia: e dipoi inteso che pure seguitava il cammino per terra, avevano creduto che egli, per non si appropinquare al loro esercito, disegnasse di passare la montagna per la via del borgo di Valditaro e del monte di Centocroce, monte molto aspro e difficile, per condursi nel tortonese, con speranza d'avere a essere rincontrato dal duca d'Orliens nelle circostanze d'Alessandria. Ma come si vedde certamente che egli si dirizzava a Fornuovo, l'esercito italiano, che prima, per i conforti di tanti capitani e per la fama del piccolo numero degl'inimici, era molto inanimito, rimesse qualche parte del suo vigore, considerando il valore delle lancie franzesi, la virtú de' svizzeri a' quali senza comparazione la fanteria italiana era tenuta inferiore, il maneggio espedito dell'artiglierie, e, quel che muove assai gli uomini quando hanno fatto contraria impressione, l'ardire inaspettato de' franzesi d'approssimarsi loro con tanto minore numero di gente. Per le quali considerazioni raffreddati eziandio gli animi de' capitani, era stato messo in consulta tra loro quel che s'avesse a rispondere al trombetto mandato dal marisciallo; parendo, da una parte, molto pericoloso il rimettere a discrezione della fortuna lo stato di tutta Italia, dall'altra, che e' fusse con grande infamia della milizia italiana dimostrare di non avere animo d'opporsi all'esercito franzese, che tanto inferiore di numero ardiva di passare innanzi agli occhi loro. Nella quale consulta essendo diversi i pareri de' capitani, dopo molte dispute determinorono finalmente dare della domanda del re avviso a Milano, per eseguire quello che quivi concordemente dal duca e dagli oratori de' confederati fusse determinato. Tra' quali consultandosi, il duca e l'oratore veneto che erano piú propinqui al pericolo concorsono nella medesima sentenza: che all'inimico, quando voleva andarsene, non si doveva chiudere la strada, ma piú presto, secondo il vulgato proverbio, fabbricargli il ponte d'argento; altrimenti essere pericolo che la timidità, come si poteva comprovare con infiniti esempli, convertita in disperazione, non si aprisse il cammino con molto sangue di quegli che poco prudentemente se gli opponevano, Ma l'oratore de' re di Spagna, desiderando che senza pericolo de' suoi re si facesse esperienza della fortuna, instette efficacemente, e quasi protestando, che non si lasciassino passare, né si perdesse l'occasione di rompere quell'esercito, il quale se si salvava restavano le cose d'Italia ne' medesimi anzi in maggiori pericoli che prima; perché tenendo il re di Francia Asti e Novara, ubbidiva a' comandamenti suoi tutto il Piemonte, e avendo alle spalle il reame di Francia, reame tanto potente e tanto ricco, i svizzeri vicini e disposti ad andare a' soldi suoi in quel numero volesse, e trovandosi accresciuto di riputazione e d'animo, se l'esercito della lega, tanto superiore al suo, gli desse cosí vilmente la strada, attenderebbe a travagliare Italia con maggiore ferocità: e che a' suoi re sarebbe quasi necessario fare nuove deliberazioni, conoscendo che gl'italiani o non volevano o non avevano animo di combattere co' franzesi. Nondimeno, prevalendo in questo consiglio la piú sicura opinione, determinarono scriverne a Vinegia, dove sarebbe stato il medesimo parere.

                                            Ma già si consultava indarno: perché i capitani dell'esercito, poiché ebbono scritto a Milano, considerando essere difficile che le risposte arrivassino a tempo, e quanto restasse disonorata la milizia italiana se si lasciasse libero il transito a' franzesi, licenziato il trombetto senza risposta certa, deliberorono come gli inimici camminavano d'assaltargli; concorrendo in questa sentenza i proveditori viniziani, ma piú prontamente il Trivisano che il collega. Da altra parte si facevano innanzi i franzesi, pieni di arroganza e d'audacia, come quegli che, non avendo trovato insino ad allora in Italia riscontro alcuno, si persuadevano che l'esercito inimico non s'avesse a opporre, e quando pure s'opponesse avere senza fatica a metterlo in fuga: tanto poco conto tenevano dell'armi italiane. Nondimeno, quando cominciando a calare la montagna scopersono l'esercito alloggiato con numero infinito di tende e di padiglioni, e in alloggiamento sí largo che, secondo il costume d'Italia, poteva dentro a quello mettersi tutto in battaglia, considerando il numero degli inimici sí grande, e che se non avessino avuto volontà di combattere non si sarebbono condotti in luogo tanto vicino, cominciò a raffreddarsi in modo tanta arroganza che arebbono avuto per nuova felice che gli italiani si fussino contentati di lasciargli passare; e tanto piú che, avendo Carlo scritto al duca d'Orliens che si facesse innanzi per incontrarlo, e che il terzo dí di luglio si trovasse con piú genti potesse a Piacenza, e da lui avuto risposta che non mancherebbe d'esservi al tempo ordinatogli, ebbe poi nuovo avviso dal duca medesimo che l'esercito sforzesco opposto a lui, nel quale erano novecento uomini d'arme mille dugento cavalli leggieri e cinquemila fanti, era sí potente che senza manifestissimo pericolo non poteva farsi innanzi, essendo massime necessitato a lasciare parte della sua gente alla guardia di Novara e d'Asti. Però il re, necessitato a fare nuovi pensieri, commesse a Filippo monsignore di Argenton, il quale, essendo stato poco innanzi imbasciadore per lui appresso al senato viniziano, aveva nel partirsi da Vinegia offerto al Pisano e al Trivisano, già diputati proveditori, d'affaticarsi per disporre l'animo del re alla pace, che mandasse un trombetto a detti proveditori, significando per una lettera d'avere desiderio per beneficio comune di parlare con loro; i quali accettorono di ritrovarsi seco, la mattina seguente, in luogo comodo tra l'uno e l'altro esercito. Ma Carlo, o perché in quello alloggiamento patisse di vettovaglie o per altra cagione, mutato proposito, deliberò di non aspettare quivi l'effetto di questo ragionamento.

                                             

                                                 Lib.2, cap.9

                                                  

                                                 Le posizioni de' due eserciti. La battaglia di Fornovo e le sue vicende; il pericolo corso dal re di Francia. Tanto i veneziani quanto i francesi si attribuiscono la vittoria. Confutazione di voci diffusesi intorno al contegno di Lodovico Sforza. Carlo giunge ad Asti senza perdite per quanto incalzato da truppe nemiche. Il fallimento del tentativo dei francesi contro Genova.

                                                  

                                                 Era la fronte degli alloggiamenti dell'uno e dell'altro esercito distante manco di tre miglia, distendendosi in sulla ripa destra del fiume del Taro, benché piú presto torrente che fiume, il quale nascendo nella montagna dello Apennino, poi che ha corso alquanto per una piccola valle ristretta da due colline, si distende nella pianura larga di Lombardia insino al fiume del Po. In sulla destra di queste due colline, scendendo insino alla ripa del fiume, alloggiava l'esercito de' collegati, fermatosi, per consiglio de' capitani, piú presto da questa parte che dalla ripa sinistra onde aveva a essere il cammino degli inimici, per non lasciare loro facoltà di volgersi a Parma; della quale città, per la diversità delle fazioni, non stava il duca di Milano senza sospetto, accresciuto perché il re si era fatto concedere da' fiorentini insino in Asti Francesco Secco, la cui figliuola era maritata nella famiglia de' Torelli, famiglia nobile e potente nel territorio di Parma. Ed era l'alloggiamento de' collegati fortificato con fossi e con ripari, e abbondante d'artiglierie: innanzi al quale i franzesi, volendo ridursi nello astigiano, e però passando il Taro accanto a Fornuovo, erano necessitati di passare, non restando in mezzo tra loro altro che 'l fiume. Stette tutta la notte l'esercito franzese con non mediocre travaglio, perché per la diligenza degli italiani, che facevano correre gli stradiotti insino in sullo alloggiamento, si gridava spesso all'arme nel campo loro, che tutto si sollevava a ogni strepito, e perché sopravenne una repentina e grandissima pioggia mescolata con spaventosi folgori e tuoni e con molte orribili saette, la quale pareva che facesse pronostico di qualche tristissimo accidente; cosa che commoveva molto piú loro che l'esercito italiano, non solo perché, essendo in mezzo delle montagne e degli inimici, e in luogo dove avendo qualche sinistro non restava loro speranza alcuna di salvarsi, erano ridotti in molto maggiore difficoltà, e perciò avevano giusta cagione d'avere maggiore terrore, ma ancora perché pareva piú verisimile che i minacci del cielo, non soliti a dimostrarsi se non per cose grandi, accennassino piú presto a quella parte dove si ritrovava la persona d'un re di tanta degnità e potenza.

                                            La mattina seguente, che fu il dí sesto di luglio, cominciò a l'alba a passare il fiume l'esercito franzese, precedendo la maggior parte dell'artiglierie seguitate dall'antiguardia; nella quale il re, credendo che contro a quella avesse a volgersi l'impeto principale degl'inimici, aveva messo trecento cinquanta lancie franzesi, Gianiacopo da Triulzio con le sue cento lancie, e tremila svizzeri che erano il nervo e la speranza di quello esercito, e con questi a piede Engiliberto fratello del duca di Cleves e il baglí di Digiuno che gli aveva condotti: a' quali aggiunse il re a piede trecento arcieri e alcuni balestrieri a cavallo delle sue guardie, e quasi tutti gli altri fanti che aveva seco. Dietro all'avanguardia seguitava la battaglia, in mezzo della quale era la persona del re armato di tutte armi in su uno feroce corsiere; e appresso a lui, per reggere col consiglio e con l'autorità sua questa parte dell'esercito, monsignore della Tramoglia, capitano molto famoso nel regno di Francia. Dietro a questi seguitava la retroguardia condotta dal conte di Fois, e nell'ultimo luogo i carriaggi. E nondimeno il re, non avendo l'animo alieno dalla concordia, sollecitò, nel tempo medesimo che il campo cominciò a muoversi, Argentone che andasse a trattare co' proveditori veneti; ma essendo già, per la levata sua, tutto in arme l'esercito italiano e deliberati i capitani di combattere, non lasciava piú la brevità del tempo e la propinquità degli eserciti né spazio né comodità di parlare insieme: e già cominciavano a scaramucciare da ogni parte i cavalli leggieri, già a tirare da ogni parte orribilmente l'artiglierie, e già gli italiani, usciti tutti degli alloggiamenti, distendevano i loro squadroni preparati alla battaglia in sulla ripa del fiume. Per le quali cose non intermettendo i franzesi di camminare, parte in sul greto del fiume, parte, perché nella stretta pianura non si potevano spiegare l'ordinanze, per la spiaggia della collina, ed essendo già la avanguardia condotta al dirimpetto dell'alloggiamento degli inimici, il marchese di Mantova, con uno squadrone di seicento uomini d'arme de' piú fioriti dell'esercito e con una grossa banda di stradiotti e d'altri cavalli leggieri e con cinquemila fanti, passò il fiume dietro alla retroguardia de' franzesi; avendo lasciato in sulla ripa di là Antonio da Montefeltro, figliuolo naturale di Federigo già duca d'Urbino, con uno grosso squadrone, per passare, quando fusse chiamato, a rinfrescare la prima battaglia; e avendo oltre a ciò ordinato che, come si era cominciato a combattere, un'altra parte della cavalleria leggiera percotesse negli inimici per fianco, e che il resto degli stradiotti, passando il fiume a Fornuovo, assaltasse i carriaggi de' franzesi: i quali, o per mancamento di gente o per consiglio (come fu fama) del Triulzio, erano restati senza guardia, esposti a qualunque volesse predargli. Da altra parte, passò il Taro con quattrocento uomini d'arme, tra' quali era la compagnia di don Alfonso da Esti, venuta in campo, perché cosí volle il padre, senza la sua persona, e con dumila fanti il conte di Gaiazzo, per assaltare l'antiguardia franzese; lasciato similmente in sulla ripa di là Annibale Bentivoglio con dugento uomini d'arme, per soccorrere quando fusse chiamato: e a guardia degli alloggiamenti restorono due grosse compagnie di gente d'arme e mille fanti, perché i proveditori viniziani volleno riserbarsi intero, per tutti i casi, qualche sussidio. Ma vedendo il re venire sí grande sforzo addosso al retroguardo, contro a quello che si erano persuasi i suoi capitani, voltate le spalle all'avanguardia, cominciò ad accostarsi con la battaglia al retroguardo, sollecitando egli, con uno squadrone innanzi agli altri, tanto il camminare che quando l'assalto incominciò si ritrovò essere nella fronte de' suoi tra' primi combattitori. Hanno alcuni fatto memoria che non senza disordine passorono il fiume le genti del marchese, per l'altezza delle ripe e per gli impedimenti degli alberi e degli sterpi e virgulti, da' quali sono vestite comunemente le ripe de' torrenti; e aggiungono altri che i fanti suoi, per questa difficoltà e per l'acque del fiume ingrossate per la pioggia notturna, arrivorono alla battaglia piú tardi, e che tutti non vi si condussono ma ne restorono non pochi di là dal fiume. Ma come si sia, certo è che l'assalto del marchese fu molto furioso e feroce, e che gli fu corrisposto con simigliante ferocia e valore: entrando da ogni parte nel fatto d'arme gli squadroni alla mescolata e non secondo il costume delle guerre d'Italia, che era di combattere una squadra contro a un'altra e in luogo di quella che fusse stracca o che cominciasse a ritirarsi scambiarne un'altra, non facendo se non all'ultimo uno squadrone grosso di piú squadre: in modo che 'l piú delle volte i fatti d'arme, ne' quali sempre si faceva pochissima uccisione, duravano quasi un giorno intero, e spesso si spiccavano cacciati dalla notte senza vittoria certa d'alcuna delle parti. Rotte le lancie, nello scontro delle quali caddono in terra da ogni parte molti uomini d'arme, molti cavalli, cominciò ciascuno a adoperare con la medesima ferocia le mazze ferrate gli stocchi e l'altre armi corte, combattendo co' calci co' morsi con gli urti i cavalli non meno che gli uomini; dimostrandosi certamente nel principio molto egregia la virtú degli italiani, per la fierezza massime del marchese, il quale, seguitato da una valorosa compagnia di giovani gentiluomini e di lancie spezzate (sono questi soldati eletti tenuti fuora delle compagnie ordinarie a provisione), e offerendosi prontissimamente a tutti i pericoli, non lasciava indietro cosa alcuna, che a capitano animosissimo appartenesse. Sostenevano valorosamente sí feroce impeto i franzesi, ma essendo oppressati da moltitudine tanto maggiore cominciavano già quasi manifestamente a piegarsi, non senza pericolo del re, appresso al quale pochi passi fu fatto prigione, benché combattesse fieramente, il bastardo di Borbone: per il caso del quale sperando il marchese avere il medesimo successo contro alla persona del re, condotto improvidamente in luogo di tanto pericolo senza quella guardia e ordine che conveniva a principe sí grande, faceva con molti de' suoi grandissimo sforzo di accostarsegli. Contro a' quali il re, avendo intorno a sé pochi de' suoi, dimostrando grande ardire si difendeva nobilmente, piú per la ferocia del cavallo che per l'aiuto loro. Né gli mancorono in tanto pericolo quelli consigli che sogliono, nelle cose difficili, essere ridotti alla memoria dal timore perché vedendosi quasi abbandonato da' suoi, voltatosi agli aiuti celesti, fece voto a san Dionigi e a san Martino, reputati protettori particolari del reame di Francia, che se passava salvo con l'esercito nel Piemonte andrebbe, subito che fusse ritornato di là da' monti, a visitare con grandissimi doni le chiese dedicate al nome loro, l'una appresso a Parigi l'altra a Torsi; e che ciascuno anno farebbe, con solennissime feste e sacrifici, testimonianza della grazia ricevuta per opera loro: i quali voti come ebbe fatti, ripreso maggiore vigore, cominciò piú animosamente a combattere sopra le forze e sopra la sua complessione. Ma già il pericolo del re aveva infiammato talmente quegli che erano manco lontani che, correndo tutti a coprire con le persone proprie la persona reale, ritenevano pure indietro gli italiani; e sopravenendo in questo tempo la battaglia sua che era restata indietro, uno squadrone di quella urtò ferocemente gli inimici per fianco, da che si raffrenò assai l'impeto loro. E si aggiunse che Ridolfo da Gonzaga, zio del marchese di Mantova, condottiere di grande esperienza, mentre che i suoi confortando e dove apparisse principio di disordine riordinando, e ora in qua ora in là andando, fa l'ufficio di egregio capitano, avendo per sorte alzato l'elmetto, ferito da uno franzese con uno stocco nella faccia e caduto a terra del cavallo, non potendo in tanta confusione e tumulto e nella moltitudine sí stretta di ferocissimi cavalli aiutarlo i suoi, anzi cadendogli addosso altri uomini e altri cavalli, piú tosto soffocato nella calca che per l'armi degli inimici perdé la vita: caso certamente indegno di lui, perché e ne' consigli del dí dinanzi e la mattina medesima, giudicando imprudenza il mettere, senza necessità, tanto in potestà della fortuna, avea contro alla volontà del nipote consigliato che si fuggisse il combattere. Cosí variandosi con diversi accidenti la battaglia, né si scoprendo piú per gli italiani che per i franzesi vantaggio alcuno, era piú che mai dubbio chi dovesse essere vincitore; e però, pareggiata quasi la speranza e il timore, si combatteva da ogni parte con ardore incredibile, riputando ciascheduno che nella sua mano destra e nella sua fortezza fusse collocata la vittoria. Accendeva gli animi de' franzesi la presenza e il pericolo del re, perché non altrimenti, appresso a quella nazione, per inveterata consuetudine, è venerabile la maestà de' re che si adori il nome divino, l'essere in luogo che con la vittoria sola potevano sperare la loro salute; accendeva gli animi degli italiani la cupidità della preda, la ferocia e l'esempio del marchese, l'avere cominciato a combattere con prospero successo, il numero grande del loro esercito per il quale aspettavano soccorso da molti de' suoi; cosa che non speravano i franzesi, perché le genti loro o erano mescolate tutte nel fatto d'arme o veramente aspettavano a ogn'ora di essere assaltate dagli inimici. Ma è grandissima (come ognuno sa) in tutte l'azioni umane la potestà della fortuna, maggiore nelle cose militari che in qualunque altra, ma inestimabile immensa infinita ne' fatti d'arme; dove uno comandamento male inteso, dove una ordinazione male eseguita, dove una temerità, una voce vana, insino d'uno piccolo soldato, traporta spesso la vittoria a coloro che già parevano vinti; dove improvisamente nascono innumerabili accidenti i quali è impossibile che siano antiveduti o governati con consiglio del capitano. Però in tanta dubietà, non dimenticatasi del costume suo, operò quello che per ancora non operava né la virtú degli uomini né la forza dell'armi. Perché avendo gli stradiotti, mandati ad assaltare i carriaggi de' franzesi, cominciato senza difficoltà a mettergli in preda, e attendendo a condurre chi muli chi cavalli chi altri arnesi di là dal fiume, non solo quell'altra parte degli stradiotti che era destinata a percuotere i franzesi per fianco, ma quegli ancora che già erano entrati nel fatto d'arme, vedendo i compagni suoi ritornarsene agli alloggiamenti carichi di spoglie, incitati dalla cupidità del guadagno, si voltorono a rubare i carriaggi; l'esempio de' quali seguitando i cavalli e i fanti, uscivano per la medesima cagione a schiere della battaglia: donde mancando agli italiani non solo il soccorso ordinato ma inoltre diminuendosi con tanto disordine il numero de' combattenti, né movendosi Antonio da Montefeltro, perché, per la morte di Ridolfo da Gonzaga che aveva la cura, quando fusse il tempo, di chiamarlo, niuno lo chiamava, cominciorno a pigliare tanto di campo i franzesi che niuna cosa piú sostentava gli italiani, che già manifestamente declinavano, che 'l valore del marchese; il quale combattendo fortissimamente sosteneva ancora l'impeto degli inimici, accendendo i suoi, ora con l'esempio suo ora con voci caldissime, a volere piú tosto essere privati della vita che dell'onore. Ma non era piú possibile che pochi resistessino a molti; e già moltiplicando addosso a loro da ogni parte i combattitori, mortine già una gran parte e feritine molti, massime di quegli della compagnia propria del marchese, furno necessitati tutti a mettersi in fuga per ripassare il fiume: il quale per l'acqua piovuta la notte, e che con grandine e tuoni piovve grandissima mentre si combatteva, era cresciuto in modo che dette difficoltà assai a chi fu costretto a ripassarlo. Seguitornogli i franzesi impetuosamente insino al fiume, non attendendo se non ad ammazzare con molto furore coloro che fuggivano senza farne alcuno prigione, e senza attendere alle spoglie e al guadagno; anzi si udivano per la campagna spesse voci di chi gridava: - Ricordatevi, compagnoni, di Guineguaste. - È Guineguaste una villa in Piccardia presso a Terroana, dove, negli ultimi anni del regno di Luigi undecimo, l'esercito franzese, già quasi vincitore in una giornata tra loro e Massimiliano re de' romani, disordinato per avere cominciato a rubare, fu messo in fuga. Ma nel tempo medesimo che da questa parte dell'esercito con tanta virtú e ferocia si combatteva, l'avanguardia franzese, contro alla quale il conte di Gaiazzo mosse una parte de' cavalli, si presentava alla battaglia con tanto impeto che, impauriti, vedendo massime non essere seguitati da' suoi, si disordinorono quasi per loro medesimi, in modo che essendo già morti alcuni di loro, tra i quali Giovanni Piccinino e Galeazzo da Coreggio, ritornorono con fuga manifesta al grosso squadrone. Ma il marisciallo di Gies, vedendo che oltre allo squadrone del conte era in sulla ripa di là dal fiume un altro colonnello di uomini di arme ordinato alla battaglia, non permesse a' suoi che gli seguitassino: consiglio che dapoi ne' discorsi degli uomini fu da molti riputato prudente, da molti, che consideravano forse meno la ragione che l'evento, piú presto vile che circospetto; perché non si dubita che se gli avesse seguitati, il conte col suo colonnello voltava le spalle, empiendo di tale spavento tutto 'l resto delle genti rimaste di là dal fiume che sarebbe stato quasi impossibile a ritenerle che non fuggissino. Perché il marchese di Mantova, il quale, fuggendo gli altri, ripassò con una parte de' suoi di là dal fiume, piú stretto e ordinato che e' potette, le trovò in modo sollevate che, cominciando ognuno a pensare di salvare sé e le sue robe, già la strada maestra per la quale si va da Piacenza a Parma era piena d'uomini di cavalli e di carriaggi che si ritiravano a Parma: il quale tumulto si fermò in parte con la presenza e autorità sua, perché mettendogli insieme andò riordinando le cose. Ma le fermò molto piú la giunta del conte di Pitigliano, il quale, in tanta confusione dell'una parte e dell'altra, presa l'occasione se ne fuggí nel campo italiano, dove confortando, ed efficacemente affermando che in maggiore disordine e spavento si trovavano gl'inimici, confermò e assicurò assai gli animi loro. Anzi fu affermato quasi comunemente che, se non fussino state le parole sue, che o allora o almeno la notte seguente, si levava con grandissimo terrore tutto l'esercito. Ritirati gli italiani nel campo loro, da coloro in fuora che menati (come interviene ne' casi simili) dalla confusione e dal tumulto, e spaventati dalle acque grosse del fiume, erano fuggiti dispersi in vari luoghi, molti de' quali scontrandosi nelle genti franzesi sparse per la campagna, furono ammazzati da loro, il re co' suoi andò a unirsi all'antiguardia, che non si era mossa del luogo suo; dove consigliò co' capitani se e' fusse da passare subito il fiume per assaltare agli alloggiamenti suoi l'esercito inimico, e fu consigliato dal Triulzio e da Cammillo Vitelli, il quale, mandata la compagnia sua dietro a coloro che andavano all'impresa di Genova, avea con pochi cavalli seguitato il re per ritrovarsi al fatto d'arme, che si assaltassino: il che piú efficacemente di tutti confortava Francesco Secco, dimostrando che la strada che si vedeva da lontano era piena d'uomini e di cavalli, che denotava o che fuggissino verso Parma o che, avendo incominciato a fuggire, se ne tornassino al campo. Ma era pure non piccola la difficoltà di passare il fiume, e la gente, che parte avea combattuto parte stata armata in sulla campagna, affaticata in modo che per consiglio de' capitani franzesi fu deliberato che s'alloggiasse. Cosí andorno ad alloggiare alla villa del Medesano in sulla collina, distante non molto piú d'uno miglio dal luogo nel quale si era combattuto; ove fu fatto l'alloggiamento senza divisione o ordine alcuno, e con non piccola incomodità, perché molti carriaggi erano stati rubati dagli inimici.

                                            Questa fu la battaglia fatta tra gl'italiani e franzesi in sul fiume del Taro, memorabile perché fu la prima che, da lunghissimo tempo in qua, si combattesse con uccisione e con sangue, in Italia; perché innanzi a questa morivano pochissimi uomini in uno fatto d'arme. Ma in questa, se bene dalla parte de' franzesi ne morirono meno di dugento uomini, degli italiani furno morti piú di trecento uomini d'arme, e tanti altri che ascesono al numero di tremila uomini; tra' quali Rinuccio da Farnese, condottiere de' viniziani, e molti gentiluomini di condizione: e rimase in terra per morto, percosso di una mazza ferrata in su l'elmetto, Bernardino dal Montone, condottiere medesimamente de' viniziani, ma chiaro piú per la fama di Braccio dal Montone suo avolo, uno de' primi illustratori della milizia italiana, che per propria fortuna o virtú. E fu piú maravigliosa agli italiani tanta uccisione perché la battaglia non durò piú di una ora, e perché, combattendosi da ogni parte con la fortezza propria e con l'armi, s'adoperorno poco l'artiglierie. Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a sé la lama della vittoria e dell'onore di questo giorno. Gl'italiani, per essere stati salvi i loro alloggiamenti e carriaggi, e per il contrario l'averne i franzesi perduti molti e tra gli altri parte de' padiglioni propri del re; gloriandosi, oltre a questo, che arebbono sconfitti gl'inimici se una parte delle genti loro, destinata a entrare nella battaglia, non si fusse voltata a rubare; il che essere stato vero non negavano i franzesi. E in modo si sforzorono i viniziani d'attribuirsi questa gloria che, per comandamento publico, se ne fece per tutto il dominio loro, e in Vinegia principalmente, fuochi e altri segni d'allegrezza; né seguitorono nel tempo avvenire piú negligentemente l'esempio publico i privati, perché nel sepolcro di Marchionne Trivisano, nella chiesa de' frati minori, furno alla sua morte scritte queste parole: - che in sul fiume del Taro combatté con Carlo re di Francia prosperamente. - E nondimeno, il consentimento universale aggiudicò la palma a' franzesi: per il numero de' morti tanto differente, e perché scacciorono gl'inimici di là dal fiume, e perché restò loro libero il passare innanzi, che era la contenzione per la quale proceduto si era al combattere.

                                            Soggiornò il dí seguente il re nel medesimo alloggiamento, e in questo dí si seguitò, per mezzo del medesimo Argenton, qualche parlamento con gl'inimici: e però si fece tregua insino alla notte: desiderando, da una parte, il re la sicurtà del passare, perché, sapendo che molti dell'esercito italiano non avevano combattuto e vedendo stargli fermi nel medesimo alloggiamento, gli pareva il cammino di tante giornate per il ducato di Milano pericoloso, con gl'inimici alla coda; e da altra parte, non si sapeva risolvere, per il debole consiglio il quale, disprezzati i consigli migliori, usava spesso nelle sue deliberazioni. Simile incertitudine era negli animi degli italiani: i quali, benché da principio fussino molto spaventati, si erano rassicurati tanto che la sera medesima della giornata ebbono qualche ragionamento, proposto e confortato molto dal conte di Pitigliano, d'assaltare la notte il campo franzese, alloggiato con molto disagio e senza fortezza alcuna d'alloggiamento: pure, contradicendo molti degli altri, fu come troppo pericoloso posto da parte questo consiglio.

                                            Sparsesi allora fama per tutta Italia che le genti di Lodovico Sforza, per ordine suo secreto, non avevano voluto combattere, perché essendo sí potente esercito de' viniziani nel suo stato non avesse forse manco in orrore la vittoria loro che de' franzesi, i quali desiderasse che non restassino né vinti né vincitori, e che, per essere piú sicuro in ogni evento, volesse conservare intere le forze sue; il che s'affermava essere stato causa che l'esercito italiano non avesse conseguita la vittoria: la quale opinione fu fomentata dal marchese di Mantova, e dagli altri condottieri de' viniziani per dare maggiore riputazione a se medesimi, e accettata volentieri da tutti quegli che desideravano che la gloria della milizia italiana si accrescesse. Ma io udi' già da persona gravissima, e che allora era a Milano in grado tale che aveva notizia intera delle cose, confutare efficacemente questo romore, perché avendo Lodovico voltate quasi tutte le forze sue all'assedio di Novara, non aveva tante genti in sul Taro che fussino di molto momento alla vittoria; la quale arebbe ottenuta l'esercito de' confederati se non gli avessino nociuto piú i disordini propri che il non avere maggiore numero di gente, massime che molte delle viniziane non entrorono nella battaglia. E se bene il conte di Gaiazzo mandò contro agli inimici una parte sola, e quella freddamente, potette procedere perché era tanto gagliarda l'antiguardia franzese che e' conobbe essere di molto pericolo il commettersi alla fortuna; e in lui, per l'ordinario, arebbono dato piú ammirazione l'azioni animose che le sicure. E nondimeno non furono al tutto inutili le genti sforzesche, perché, ancora che non combattessino, ritennono l'antiguardia franzese che non soccorresse dove il re, con la minore e molto piú debole parte dello esercito, sosteneva con gravissimo pericolo tutto il peso della giornata. Né è questa opinione confermata, se io non mi inganno, piú dall'autorità che dalla ragione. Perché, come è verisimile che se in Lodovico Sforza fusse stata questa intenzione, non avesse piú presto ordinato a' capitani suoi che dissuadessino l'opporsi al transito de' franzesi? conciossiaché, se il re avesse ottenuta la vittoria non sarebbono state piú salve che l'altre le genti sue, tanto propinque agli inimici, ancora che non si fussino mescolate nella battaglia; e con che discorso, con che considerazione, con che esperienza delle cose, si poteva promettere che, combattendosi, avesse a essere tanto pari la fortuna che il re di Francia non avesse a essere né vinto, né vincitore? Né contro al consiglio de' suoi si sarebbe combattuto, perché le genti viniziane, mandate in quello stato solamente per sicurtà e salute sua, non arebbono discrepato dalla volontà de' suoi capitani.

                                            Levossi Carlo con l'esercito, la seguente mattina innanzi giorno, senza sonare trombette, per occultare il piú poteva la sua partita; né fu per quel dí seguitato dall'esercito de' collegati, impedito, quando bene avesse voluto seguitarlo, dall'acque del fiume, ingrossato tanto la notte per nuova pioggia che non si potette, per una grande parte del dí, passarlo. Solamente, declinando già il sole, passò, non senza pericolo per l'impeto dell'acque, il conte di Gaiazzo con dugento cavalli leggieri; co' quali seguitando le vestigie de' franzesi, che camminavano per la strada diritta verso Piacenza, dette loro, massime il prossimo dí, molti impedimenti e incomodità: e nondimeno essi, benché stracchi, seguitorono, senza disordine alcuno e senza perdere un uomo solo, il suo cammino; perché le vettovaglie erano assai abbondantemente somministrate dalle terre vicine, parte per paura di non essere danneggiate parte per opera del Triulzio, il quale, cavalcando innanzi a questo effetto, co' cavalli leggieri, moveva gli uomini ora co' minacci ora con l'autorità sua, grande in quello stato appresso a tutti ma grandissima appresso a' guelfi; né l'esercito della lega, mossosi il dí seguente alla partita de' franzesi, e poco disposto, massime i proveditori viniziani, a rimettersi piú in arbitrio della fortuna, s'accostò loro mai tanto che n'avessino uno minimo disturbo. Anzi, essendo il secondo dí alloggiati in sul fiume della Trebbia poco di là da Piacenza, ed essendo, per piú comodità dell'alloggiare restate tra il fiume e la città di Piacenza dugento lancie i svizzeri e quasi tutta l'artiglieria, la notte il fiume per le pioggie crebbe tanto che, nonostante l'estrema diligenza fatta da loro, fu impossibile che o fanti o cavalli passassino se non dopo molte ore del dí, né questo senza difficoltà benché l'acqua fusse cominciata a diminuire: nondimeno non furono assaltati né dall'esercito inimico che era lontano, né dal conte di Gaiazzo, che era entrato in Piacenza per sospetto che e' non vi si facesse qualche movimento: sospetto non al tutto senza cagione, perché si crede che se Carlo, seguitando il consiglio del Triulzio, avesse spiegate le bandiere e fatto chiamare il nome di Francesco, piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, sarebbe nata in quello ducato facilmente qualche mutazione; tanto era grato il nome di colui che avevano per legittimo signore e odioso quello dell'usurpatore, e di momento il credito e l'amicizie del Triulzio. Ma il re, essendo intento solamente al passare innanzi, non voluto udire pratica alcuna, seguitò con celerità il suo cammino; con non piccolo mancamento, da' primi dí in fuora, di vettovaglie, perché di mano in mano trovava le terre meglio guardate, avendo Lodovico Sforza distribuiti, parte in Tortona, sotto Guasparri da San Severino cognominato il Fracassa, parte in Alessandria, molti cavalli e mille dugento fanti tedeschi levati dal campo di Novara; ed essendo i franzesi, poi che ebbono passata la Trebbia, stati sempre infestati alla coda dal conte di Gaiazzo, che aveva aggiunto a' suoi cavalli leggieri cinquecento fanti tedeschi che erano alla guardia di Piacenza: non avendo potuto ottenere che gli fussino mandati dall'esercito tutto il resto de' cavalli leggieri e quattrocento uomini d'arme, perché i proveditori viniziani, ammuniti dal pericolo corso in sul fiume del Taro, non vollono consentirlo. Pure i franzesi, avendo quando furno vicini ad Alessandria preso il cammino piú alto verso la montagna, dove ha meno acqua il fiume del Tanaro, si condusseno senza perdita d'uomini o altro danno, in otto alloggiamenti, alle mura d'Asti; nella quale città entrato il re alloggiò la gente di guerra in campagna, con intenzione di accrescere il suo esercito, e fermarsi tanto in Italia che avesse soccorso Novara; e il campo della lega che l'aveva seguitato insino in tortonese, disperato di potergli piú nuocere, s'andò a unire con la gente sforzesca intorno a quella città: la quale pativa già molto di vettovaglie, perché dal duca di Orliens e da' suoi non era stata usata diligenza alcuna di provederla, come, per essere il paese molto fertile, arebbono potuto fare abbondantissimamente; anzi, non considerando il pericolo se non quando era passata la facoltà del rimedio, avevano atteso a consumare senza risparmio quelle che vi erano.

                                            Ritornorono, quasi ne' medesimi dí, a Carlo i cardinali e i capitani i quali, con infelice evento, avevano tentato le cose di Genova. Perché l'armata, presa che ebbe, nella prima giunta, la terra della Spezie, s'indirizzò a Rapalle, il qual luogo facilmente occupò; ma uscita del porto di Genova una armata di otto galee sottili di una caracca e di due barche biscaine, pose di notte in terra settecento fanti, i quali senza difficoltà presono il borgo di Rapalle con la guardia de' franzesi che v'era dentro; e accostatasi poi all'armata franzese che s'era ritirata nel golfo, dopo lungo combattere presono e abbruciorono tutti i legni, restando prigioni il capitano, e fatti piú famosi con questa vittoria quegli luoghi medesimi ne' quali l'anno precedente erano stati rotti gli aragonesi. Né fu questa avversità de' franzesi ristorata da quegli che erano andati per terra: perché, condotti per la riviera orientale insino in val di Bisagna e a' borghi di Genova, trovandosi ingannati dalla speranza che avevano conceputa che in Genova si facesse tumulto, e intesa la perdita dell'armata, passorno quasi fuggendo per la via de' monti, via molto aspra e difficile, in valle di Pozzeveri, che è all'altra parte della città; donde, con tutto che di paesani e di genti mandate in loro favore dal duca di Savoia molto ingrossati fussino, s'indirizzorono con la medesima celerità verso il Piemonte: né è dubbio che se quegli di dentro non si fussino astenuti da uscire fuora, per sospetto che la parte Fregosa non facesse novità, che gli arebbono interamente rotti e messi in fuga. Per il quale disordine, i cavalli de' Vitelli che si erano condotti a Chiavari, inteso il successo di coloro co' quali andavano a unirsi, se ne ritornorono tumultuosamente né senza pericolo a Serezana; e dalla Spezie in fuora, l'altre terre della riviera ch'erano state occupate da' fuorusciti richiamorono subito i genovesi: come similmente fece nella riviera di ponente la città di Ventimiglia, che ne' medesimi dí era stata occupata da Pol Battista Fregoso e da alcuni altri fuorusciti.

                                             

                                                 Lib.2, cap.10

                                                  

                                                 Vicende di guerra tra francesi e ispano - aragonesi nel reame di Napoli. Ritorno di Ferdinando d'Aragona in Napoli. Terre che si ribellano ai francesi. I veneziani occupano alcuni punti delle Puglie. La resa di Castelnuovo a Ferdinando. Patti di resa di Castel dell'Uovo. Morte di Alfonso d'Aragona.

                                                  

                                                 Travagliavasi in questo tempo medesimo, ma con fortuna piú varia, non meno nel reame di Napoli che nelle parti di Lombardia; perché Ferdinando attendeva, poi che ebbe preso Reggio, alla recuperazione de' luoghi circostanti, avendo seco circa seimila uomini, tra quegli che e del paese e di Sicilia volontariamente lo seguitavano, e i cavalli e fanti spagnuoli de' quali era capitano Consalvo Ernandes di casa d'Aghilar, di patria cordovese, uomo di molto valore ed esercitato lungamente nelle guerre di Granata: il quale, nel principio della venuta sua in Italia, cognominato dalla iattanza spagnuola il gran capitano per significare con questo titolo la suprema potestà sopra loro, meritò, per le preclare vittorie che ebbe poi, che per consentimento universale gli fusse confermato e perpetuato questo sopranome, per significazione di virtú grande e di grande eccellenza nella disciplina militare. A questo esercito, il quale aveva già sollevato non piccola parte del paese, si fece incontro, appresso a Seminara terra vicina al mare, Obigní con le genti d'arme franzesi, che erano rimaste alla guardia della Calavria, e con cavalli e fanti avuti da' signori del paese i quali seguitavano il nome del re di Francia; ed essendo venuti alla battaglia, prevalse la virtú de' soldati di ordinanza ed esercitati all'imperizia degli uomini poco esperti, perché non solo gli italiani e siciliani, raccolti tumultuariamente da Ferdinando, ma eziandio gli spagnuoli erano gente nuova e con poca esperienza della guerra: e nondimeno si combatté per alquanto spazio di tempo ferocemente, perché la virtú e l'autorità de' capitani, che non mancavano d'ufficio alcuno appartenente a loro, sosteneva quegli che per ogn'altro conto erano inferiori. E sopra gli altri Ferdinando, combattendo come si conveniva al suo valore, ed essendogli stato ammazzato il cavallo sotto, sarebbe senza dubbio restato o morto o prigione se Giovanni di Capua fratello del duca di Termini, il quale, insino da puerizia suo paggio, era stato nel fiore della età molto amato da lui, smontato del suo cavallo non avesse fatto salirvi sopra lui, e con esempio molto memorabile di preclarissima fede e amore esposta la propria vita, perché fu subito ammazzato, per salvare quella del suo signore.

                                            Fuggí Consalvo a traverso de' monti a Reggio, Ferdinando a Palma, che è in sul mare vicina a Seminara; dove montato in sull'armata si ridusse a Messina, cresciutagli per le cose avverse la volontà e l'animo di tentare di nuovo la fortuna; conciossiaché non solo gli fusse noto il desiderio che tutta la città di Napoli aveva di lui, ma ancora da molti de' principali della nobiltà e del popolo fusse occultamente chiamato. Però temendo che la dilazione e la fama della rotta avuta in Calavria non raffreddasse questa disposizione, raccolti, oltre alle galee che aveva condotte d'Ischia e quelle quattro con le quali s'era partito da Napoli Alfonso suo padre, i legni dell'armata venuta di Spagna, e quanti piú potette raccorne dalle città e da' baroni di Sicilia, si mosse del porto di Messina, non lo ritardando il non avere uomini da armargli, come quello che, non avendo forze convenienti a tanta impresa, era necessitato d'aiutarsi non meno con le dimostrazioni che con la sostanza delle cose. Partí adunque di Sicilia con sessanta legni di gaggia e con venti altri legni minori, e con lui Ricaiensio catelano, capitano dell'armata spagnuola, uomo nelle cose navali di grande virtú ed esperienza; ma con tanti pochi uomini da combattere che nella maggiore parte non erano quasi altri che i destinati al servigio del navigare. In questo modo erano piccole le forze sue, ma grande per lui il favore e la volontà de' popoli. Perciò arrivato alla spiaggia di Salerno, subito Salerno la costa di Malfi e la Cava alzorno le sue bandiere. Volteggiò di poi due giorni sopra a Napoli, aspettando, ma indarno, che nella terra si facesse qualche tumulto, perché i franzesi, prese presto l'armi e messe buone guardie ne' luoghi opportuni, repressono la ribellione che già bolliva; e arebbono rimediato a tutti i loro pericoli se avessino arditamente seguitato il consiglio di alcuni di loro i quali, congetturando i legni aragonesi essere male forniti di combattenti, confortavano Mompensieri che, ripiena l'armata franzese, che era nel porto, di soldati e d'uomini atti a combattere, assaltasse con essa gl'inimici. Ma Ferdinando, il terzo dí, disperato che nella città si facesse alterazione, si allargò in mare per ritirarsi a Ischia: onde i congiurati, considerando che per essere la congiurazione quasi scoperta era diventata causa propria la causa di Ferdinando, ristrettisi insieme e deliberati di fare della necessità virtú, mandorono segretamente uno battello a richiamarlo; pregandolo che, per dare piú facilità e animo a chi voleva levarsi in suo favore, mettesse in terra o tutta o parte della sua gente. Però di nuovo ritornato sopra a Napoli, il dí seguente a quello nel quale fu fatta la giornata in sulla ripa del fiume del Taro, si accostò al lito con l'armata, per porre in terra alla Maddalena, luogo propinquo a Napoli a uno miglio, dove entra in mare il picciolo piú presto rio che fiumicello chiamato Sebeto, incognito a ciascuno se non gli avessino dato nome i versi de' poeti napoletani. Il che vedendo Mompensieri, non manco pronto a procedere con audacia quando era necessario il timore che fusse stato pronto a procedere con timore quando era necessaria, il dí dinanzi, l'audacia, uscí fuora della città con quasi tutti i soldati per vietargli lo scendere in terra: il che fu cagione che avendo i napoletani tale opportunità quale appena arebbono saputa desiderare si levorono subito in arme, fatto il principio di sonare a martello dalla chiesa del Carmino vicina alle mura della città, e successivamente seguitando tutte l'altre, e occupate le porte, cominciorono scopertamente a chiamare il nome di Ferdinando. Spaventò questo subito tumulto i franzesi in modo che, non parendo loro sicuro lo stare in mezzo tra la città già ribellata e le genti inimiche, e manco sperando di potere per quella via donde erano usciti ritornarvi, deliberorno, attorniando le mura della città (cammino lungo montuoso e molto difficile), entrare in Napoli per la porta contigua a Castelnuovo. Ma Ferdinando, in questo mezzo entrato in Napoli, e messo con alcuni de' suoi a cavallo da' napoletani, cavalcò per tutta la terra con incredibile allegrezza di ciascuno; ricevendolo la moltitudine con grandissime grida, né si saziando le donne di coprirlo dalle finestre di fiori e d'acque odorifere, anzi molte delle piú nobili correvano nella strada ad abbracciarlo e ad asciugargli dal volto il sudore.

                                            E nondimeno non si intermettevano per questo le cose necessarie alla difesa, perché 'l marchese di Pescara, insieme co' soldati che erano entrati con Ferdinando e con la gioventú napoletana, attendeva a sbarrare e a fortificare le bocche delle vie donde i franzesi potessino assaltare da Castelnuovo la terra. I quali, poiché furono ridotti in sulla piazza del castello, feciono ogni sforzo per rientrare nello abitato della città; ma essendo molestati con balestre e artiglierie minute, e trovata a tutti i capi delle strade sufficiente difesa, sopravenendone la notte, si ritirorono nel castello, lasciati i cavalli, che furono tra utili e inutili poco manco di dumila, in sulla piazza, perché nel castello non era né capacità di ricevergli né facoltà di nutrirgli. Rinchiusonvisi dentro, con Mompensieri, Ivo d'Allegri riputato capitano e Antonello principe di Salerno, e molt'altri franzesi e italiani di non piccola condizione; e benché per qualche dí facessino spesse scaramuccie in sulla piazza e intorno al porto, e traessino alla città con l'artiglierie, nondimeno, ributtati sempre dagl'inimici, restorno esclusi di speranza di potere da se stessi recuperare quella città. Seguitorono subito l'esempio di Napoli Capua, Aversa, la rocca di Mondragone e molte altre terre circostanti, e si voltò la maggiore parte del reame a nuovi pensieri: tra' quali il popolo di Gaeta, avendo prese l'armi con maggiore animo che forze, per essere comparite innanzi al porto alcune galee di Ferdinando, fu con molta uccisione superato da' franzesi che v'erano a guardia, i quali con l'impeto della vittoria saccheggiorono tutta la terra. E nel tempo medesimo l'armata viniziana accostatasi a Monopoli, città di Puglia, e posti in terra gli stradiotti e molti fanti, gli dette la battaglia per terra e per mare; nella quale Pietro Bembo, padrone di una galea viniziana, fu morto da quelli di dentro di uno colpo d'artiglieria. Prese finalmente la città per forza, e la rocca gli fu data per timore dal castellano franzese che vi era dentro; e di poi ebbe per accordo Pulignano.

                                            Ma Ferdinando era intento ad acquistare Castelnuovo e Castel dell'Uovo, sperando che presto avessino ad arrendersi per la fame, perché a proporzione del numero degli uomini che vi era dentro vi era piccola provisione di vettovaglie; e attendendo continuamente a occupare i luoghi circostanti al castello, si sforzava di mettergli del continuo in maggiore strettezza. Perché i franzesi, non potendo stare sicura nel porto l'armata loro, che era di cinque navi quattro galee sottili una galeotta e uno galeone, l'aveano ritirata tra la Torre di San Vincenzio, Castel dell'Uovo e Pizzifalcone che si tenevano per loro, e tenendo le parti dietro a Castelnuovo, dove erano i giardini reali, si distendevano insino a Cappella; e fortificato il monasterio della Croce, correvano insino a Pié di Grotta e San Martino. Contro a' quali Ferdinando, avendo presa e messa in fortezza la cavalleria e fatte vie coperte per la Incoronata, occupò il monte di Sant'Ermo e dipoi il poggio di Pizzifalcone, tenendosi per i franzesi la fortezza posta in sulla sommità; alla quale per levare il soccorso, perché pigliandola arebbono potuto infestare di luogo eminente l'armata degli inimici, assaltorno le genti di Ferdinando il monasterio della Croce, ma ricevuto nell'accostarsi danno grande dall'artiglierie, disperati di ottenerlo per forza, si voltorono a ottenerlo per trattato, infelice a chi ne fu autore. Perché avendo uno moro che vi era dentro promesso fraudolentemente al marchese di Pescara, stato già suo padrone, di metterlo dentro, e perciò condottolo una notte in su una scala di legno appoggiata alle mura del monasterio a parlare seco, per stabilire l'ora e il modo di entrare la notte medesima, fu quivi con trattato doppio ammazzato con una freccia di una balestra che gli passò la gola. Né fu alle cose di Ferdinando poco importante la mutazione, prima di Prospero e poi di Fabbrizio Colonna; i quali, benché durante l'obligazione della condotta col re di Francia, passorono, quasi subito che ebbe recuperato Napoli, agli stipendi suoi, scusandosi non gli essere stati fatti a' tempi debiti i pagamenti promessi, e che Verginio Orsino e il conte di Pitigliano erano stati, con poco rispetto de' meriti loro, molto carezzati dal re: ragione che a molti parve inferiore alla grandezza de' benefici ricevuti da lui. Ma chi sa se quello che ragionevolmente doveva essere il freno a ritenergli fusse lo stimolo a fargli fare il contrario: perché quanto erano maggiori i premi che possedevano tanto fu, per avventura, piú potente in loro, poiché vedevano cominciare già a declinare le cose franzesi, la cupidità del conservargli. Ristretto in questo modo il castello, e serrato il mare da' navili di Ferdinando, cresceva continuamente il mancamento delle vettovaglie; e si sostentava solo con la speranza d'avere soccorso per mare, di Francia; perché Carlo, subito che era giunto in Asti, mandato Perone di Baccie, aveva fatto partire, dal porto di Villafranca appresso a Nizza, un'armata marittima che portava dumila tra guasconi e svizzeri e provedimento di vettovaglie; fattone capitano monsignore di Arbano, uomo bellicoso ma non esperimentato nel mare. La quale, condottasi insino all'isola di Ponzo, avendo scoperta all'intorno l'armata di Ferdinando che aveva trenta vele e due navi grosse genovesi, subito si messe in fuga; e seguitata insino all'isola dell'Elba, avendo perduta una navetta biscaina, si rifuggí con tanto spavento nel porto di Livorno che e' non fu in potestà del capitano ritenere che la piú parte de' fanti non scendessino in terra, e dipoi contro alla volontà sua andassino in Pisa. Per la ritirata di questa armata, Mompensieri e gli altri, stretti dalla carestia delle vettovaglie, patteggiorno di dare a Ferdinando il castello, dove erano stati assediati già tre mesi, e di andarsene in Provenza, se infra trenta dí non fussino soccorsi, salvo la roba e le persone di tutti quegli che v'erano dentro; e per l'osservanza dettono statichi Ivo di Allegri e tre altri a Ferdinando. Ma non si poteva, in tempo sí breve, sperare soccorso alcuno se non dalle genti medesime che erano nel regno. Però monsignore di Persí, uno de' capitani regi, avendo seco i svizzeri e una parte delle lancie franzesi, e accompagnato dal principe di Bisignano e da molti altri baroni, si mosse verso Napoli. La venuta del quale presentendo Ferdinando, mandò loro incontro a Eboli il conte di Matalona, con uno esercito la maggiore parte tumultuario, raccolto di confidati e d'amici: il quale, benché molto maggiore di numero, riscontratosi con gli inimici al lago Pizzolo vicino a Eboli, subito come si accostorono si messe in fuga senza combattere, restando nel fuggire prigione Venanzio figliuolo di Giulio da Varano signore di Camerino: ma perché non furono seguitati molto da' franzesi, si ridussono, ricevuto pochissimo danno, a Nola e dipoi a Napoli. Seguitorono i vincitori l'impresa del soccorrere le castella, e con tanta riputazione per la vittoria acquistata, che Ferdinando ebbe inclinazione d'abbandonare un'altra volta Napoli. Ma ripreso animo per i conforti de' napoletani, mossi non meno dal timore proprio, causato dalla memoria della ribellione, che dall'amore di Ferdinando, si fermò a Cappella; e per proibire che gli inimici non si accostassino al castello, finita una tagliata grande già cominciata dal monte di Santo Ermo insino a Castello dell'Uovo, providde di artiglierie e di fanti tutti i poggi insino a Cappella e sopra a Cappella: in modo che, con tutto che i franzesi, i quali erano venuti per la via di Salerno a Nocera per la Cava e per il monte di Pié di Grotta, si conducessino in Chiaia presso a Napoli, nondimeno essendo ogni cosa bene difesa, e dimostrandosi valorosamente Ferdinando e molestandogli molto l'artiglierie, massimamente quelle che erano piantate in sul poggio di Pizzifalcone, il qual poggio è imminente a Castel dell'Uovo, e dove già furono le delicatezze e le suntuosità tanto famose di Lucullo, non potettono passare piú innanzi né accostarsi a Cappella, né avendo facoltà di soggiornarvi, perché la natura, benignissima a quella costiera di tutte l'altre amenità, gli ha dinegato l'acque dolci, furono costretti a ritirarsi piú presto che non arebbono fatto, lasciati nel levarsi due o tre pezzi d'artiglieria e parte delle vettovaglie condotte per mettere nelle castella, e se ne andorono verso Nola: a' quali per opporsi, Ferdinando, lasciato assediato il castello, si fermò con le sue genti nel piano di Palma presso a Sarni. Ma Mompensieri, privato per la partita loro di ogni speranza di essere soccorso, lasciati in Castelnuovo trecento uomini, numero proporzionato non meno alla scarsità delle vettovaglie che alla difesa, e lasciato guardato Castel dell'Uovo, montato di notte, insieme con gli altri che erano dumila cinquecento soldati, in su' legni della sua armata, se ne andò a Salerno: non senza gravissime querele di Ferdinando, il quale pretendeva non gli essere stato lecito, pendente il termine dello arrendersi, partirsi con quelle genti di Castelnuovo se nel tempo medesimo non gli consegnava quello e Castel dell'Uovo; e perciò non fu senza inclinazione, seguitando il rigore de' patti, di vendicarsi, col sangue degli statichi, di questa ingiuria e del mancamento di Mompensieri, perché al termine convenuto non furono arrendute le castella. Ma passato il tempo circa a uno mese, quegli che erano rimasti in Castelnuovo, non potendo piú resistere alla fame, si arrenderono con condizione che fussino liberati gli statichi; e quasi ne' dí medesimi patteggiorno, per la medesima cagione, quegli che erano in Castel dell'Uovo, di arrendersi il primo dí della prossima quadragesima, se prima non fussino soccorsi.

                                            Morí quasi circa a questo tempo a Messina Alfonso di Aragona, nel quale, asceso al regno napoletano, si era convertita in somma infamia e infelicità quella gloria e fortuna per la quale, mentre era duca di Calavria, fu molto illustrato per tutto il nome suo. È fama che poco innanzi alla morte avea fatto instanza col figliuolo di ritornare a Napoli, ove l'odio già avuto contro a lui era quasi convertito in benivolenza; e si dice che Ferdinando, potendo piú in lui, come è costume degli uomini, la cupidità del regnare che la riverenza paterna, non meno mordacemente che argutamente gli rispose, che aspettasse insino a tanto che da sé gli fusse consolidato talmente il regno che egli non avesse un'altra volta a fuggirsene. E per corroborare Ferdinando le cose sue con piú stretta congiunzione col re di Spagna, tolse per moglie, con la dispensa del pontefice, Giovanna sua zia, nata di Ferdinando suo avolo e di Giovanna sorella del prelato re.

                                             

                                                 Lib.2, cap.11

                                                  

                                                 Le milizie de' veneziani e di Lodovico Sforza assediano Novara. Carlo VIII assolda nuovi svizzeri. Timori e provvedimenti de' collegati per gli appoggi della duchessa di Savoia a Carlo. Intimazione del pontefice a Carlo ed ironica risposta di questo. Patti conclusi tra Carlo e i fiorentini.

                                                  

                                                 Ma mentre che l'assedio si teneva con vari progressi, come è detto, intorno alle castella di Napoli, l'assedio di Novara si riduceva in grande strettezza; perché e il duca di Milano v'aveva intorno potente esercito, e i viniziani l'avevano soccorso con tanta prontezza che rare volte è memoria che in impresa alcuna perdonassino manco allo spendere: in modo che, in breve tempo, si ritrovorono nel campo de' collegati tremila uomini d'arme tremila cavalli leggieri mille cavalli tedeschi e cinquemila fanti italiani. Ma quello in che consisteva la fortezza principale dell'esercito erano diecimila lanzechenech (cosí chiamano volgarmente i fanti tedeschi), soldati dal duca di Milano, la maggiore parte, per opporgli a' svizzeri; perché, non che altro, non sosteneva il nome loro la fanteria italiana, diminuita maravigliosamente di riputazione e di ardire dopo la venuta de' franzesi. Governavangli molti valorosi capitani, tra i quali era di maggiore nome Giorgio di Pietrapanta nativo d'Austria; il quale, essendo pochi anni innanzi soldato di Massimiliano re de' romani, aveva, con laude grande, tolto in Piccardia la terra di Santo Omero al re di Francia. Né solo era stato sollecito il senato viniziano a mandare molta gente a quello assedio ma ancora, per dare maggiore animo a' suoi soldati, aveva di governatore fatto capitano generale del loro esercito il marchese di Mantova, onorando la fortezza dimostrata da lui nel fatto d'arme del Taro; e con esempio molto grato e degno d'eterna laude, non solo accresciuto le condotte a quegli che s'erano portati valentemente, ma a' figliuoli di molti de' morti nella battaglia date provisioni e vari premi, e statuito le doti alle figliuole. Attendevasi con questo esercito sí potente allo assedio, perché era il consiglio de' collegati, i quali di questo si riferivano principalmente alla volontà di Lodovico Sforza, di non tentare, se non erano necessitati la fortuna della battaglia col re di Francia, ma fortificandosi allo intorno di Novara, ne' luoghi opportuni, proibire che vettovaglie non v'entrassino, sperando che, per esservene dentro piccola quantità e bisognarvene assai, non si potesse molti giorni sostenere: perché, oltre al popolo della città e i paesani che v'erano rifuggiti, v'aveva il duca d'Orliens, tra franzesi e svizzeri, piú di settemila uomini di gente molto eletta. Però Galeazzo da San Severino con l'esercito duchesco, deposto eziandio ogni pensiero della oppugnazione della città poi che era tanto copiosa di difensori, era alloggiato alle Mugne, luogo in sulla strada maestra molto opportuno a impedire le provisioni che venissino da Vercelli; e il marchese di Mantova con le genti viniziane, avendo in sulla giunta sua preso per forza alcune terre circostanti, e pochi dí poi il castello di Brione che era di qualche importanza, aveva fornito Camariano e Bolgari, luoghi tra Novara e Vercelli: e per impedire piú comodamente le vettovaglie avevano distribuito l'esercito in molti luoghi intorno a Novara, e fortificato gli alloggiamenti di tutti.

                                                 Da altra parte il re di Francia, per essere piú propinquo a Novara, s'era da Asti trasferito a Turino; e ancora che spesso andasse insino a Chieri, preso dall'amore d'una gentildonna che vi abitava, non si intermettevano per questo le provisioni della guerra, sollecitando continuamente le genti che passavano di Francia, con intenzione di mettere in sulla campagna dumila lancie franzesi. Ma con non minore studio s'attendeva a sollecitare la venuta di diecimila svizzeri, a soldare i quali era stato mandato il baglí di Digiuno; disegnando, subito che e' fussino arrivati allo esercito, fare lo sforzo possibile per soccorrere Novara, ma senza quegli non avendo ardire di tentare cosa alcuna memorabile. Perché il regno di Francia, potentissimo in questo tempo di cavalleria e instruttissimo di copia grande d'artiglierie e di grandissima perizia di maneggiarle, era debolissimo di fanteria propria; perché ritenute l'armi e gli esercizi militari solo nella nobiltà, era mancata nella plebe e negli uomini popolari l'antica ferocia di quella nazione, per avere lungamente cessato dalle guerre e datisi all'arti e a' guadagni della pace: conciossiaché molti de' re passati, temendo dell'impeto de' popoli, per l'esempio di varie congiurazioni e rebellioni che erano accadute in quel reame, avevano atteso a disarmargli e alienargli dagli esercizi militari. E però i franzesi, non confidando piú della virtú de' fanti propri, si conducevano timidamente alla guerra se nell'esercito loro non era qualche banda di svizzeri. La quale nazione, in ogni tempo indomita e feroce, aveva circa venti anni innanzi augumentato molto la sua riputazione; perché essendo assaltati con potentissimo esercito da Carlo duca di Borgogna, quello che per la potenza e per la fierezza sua era al regno di Francia e a tutti i vicini di grandissimo terrore, gli avevano in pochi mesi dato tre rotte e nell'ultima, o mentre combatteva o nella fuga (perché fu oscuro il modo della sua morte) privatolo della vita. Per la virtú loro adunque, e perché con essi non avevano i franzesi emulazione o differenza alcuna, né per propri interessi causa di sospettarne, come avevano de' tedeschi, non conducevano altri fanti forestieri che svizzeri, e usavano in tutte le guerre gravi l'opera loro; e in questo tempo piú volentieri che negli altri, per conoscere che il soccorrere Novara, circondata da tanto esercito e contro a tanti fanti tedeschi, che guerreggiavano con la medesima disciplina che i svizzeri, era cosa difficile e piena di pericoli.

                                                 È posta in mezzo tra Turino e Novara la città di Vercelli, membro già del ducato di Milano ma conceduta da Filippo Maria Visconte, nelle lunghe guerre che ebbe co' viniziani e co' fiorentini, ad Amideo duca di Savoia, perché s'alienasse da loro; nella quale città non era ancora entrata gente d'alcuna delle parti, perché la duchessa, madre e tutrice del piccolo duca di Savoia, e d'animo totalmente franzese, non aveva voluto scoprirsi per il re insino che non fusse piú potente, dando in questo mezzo parole grate e speranza al duca di Milano. Ma come il re, ingrossato già di gente, si trasferí a Turino città del medesimo ducato, consentí che in Vercelli entrassino de' suoi soldati; donde e a lui, per l'opportunità di quel luogo, era accresciuta la speranza di potere, come fussino arrivati tutti suoi sussidi, soccorrere Novara, e i confederati cominciavano a starne con non piccola dubitazione. E però, per stabilire con maggiore maturità come in queste difficoltà si avesse a procedere, andò all'esercito Lodovico Sforza, e con lui Beatrice sua moglie che gli era assiduamente compagna non manco alle cose gravi che alle dilettevoli; alla presenza del quale, e, come fu fama, per consiglio suo principalmente, fu dopo molte disputazioni conchiuso unitamente da' capitani: che per maggiore sicurtà di tutti l'esercito veneto si unisse con lo sforzesco alle Mugne, lasciando sufficiente guardia in tutti i luoghi vicini a Novara che fussino opportuni all'ossidione: che Bolgari s'abbandonasse, perché essendo vicino tre miglia a Vercelli, era necessario, se i franzesi vi fussino andati potenti per espugnarlo, o lasciarlo ignominiosamente perdere o, contro alle deliberazioni già fatte, andare a soccorrerlo con tutto l'esercito: che in Camariano, distante per tre miglia all'alloggiamento delle Mugne, si accrescesse il presidio; e che, fortificato il campo tutto con fossi e con ripari e con copia grande d'artiglierie, si pigliassino giornalmente l'altre deliberazioni secondo che insegnassino gli andamenti degl'inimici; non omettendo di dare il guasto e tagliare tutti gli alberi insino quasi alle mura di Novara, per dare incomodo e agli uomini e al saccomanno de' cavalli, de' quali nella città era grande moltitudine.

                                                 Queste cose deliberate, e fatta la mostra generale di tutto l'esercito, Lodovico Sforza se ne tornò a Milano, per fare piú prontamente le provisioni che di dí in dí fussino necessarie. E per favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali le forze temporali, operorono, i viniziani ed egli, che 'l pontefice mandasse uno de' suoi mazzieri a Carlo, a comandargli che fra dieci dí si partisse d'Italia con tutto l'esercito, e fra altro termine breve levasse le genti sue del regno di Napoli; altrimenti, che sotto quelle pene spirituali con le quali minaccia la Chiesa comparisse a Roma innanzi a lui personalmente; rimedio tentato altre volte dagli antichi pontefici, perché, secondo che si legge, non con altre armi che queste Adriano, primo di quel nome, costrinse Desiderio re de' longobardi, che con esercito potente andava a perturbare Roma, a ritirarsi da Terni, dove già era pervenuto, a Pavia. Ma mancata la riverenza e la maestà che dalla santità della vita loro ne' petti degli uomini nascevano, era ridicolo sperare da costumi e esempli tanto contrari gli effetti medesimi. Però Carlo, deridendo la vanità di questo comandamento, rispose che, non avendo il pontefice voluto quando tornava da Napoli aspettarlo in Roma, dove era andato per baciargli divotamente i piedi, si maravigliava che al presente ne facesse tanta instanza: ma che per ubbidirlo attendeva ad aprirsi la strada, e lo pregava che, acciocché invano non pigliasse questa incomodità, fusse contento d'aspettarvelo.

                                                 Conchiuse in questo tempo il Carlo, in Turino, con gli imbasciadori de' fiorentini nuovi capitoli, non senza molta contradizione di quegli medesimi che altre volte gli avevano impugnati: a' quali dette maggiore occasione di contradire, che, avendo i fiorentini, dopo l'avere ricuperato l'altre castella delle colline di Pisa perdute nella ritornata di Carlo, posto il campo a Ponte di Sacco, e ottenutolo per accordo salve le persone de' soldati, erano stati contro alla fede data ammazzati nell'uscire quasi tutti i fanti guasconi che v'erano co' pisani, e usate contro a' morti molte crudeltà. Il che, se bene fusse avvenuto contro alla volontà de' commissari fiorentini, i quali con difficoltà grande ne salvorono una parte, ma per opera d'alcuni soldati, i quali stati prima prigioni dell'esercito franzese erano stati trattati molto acerbamente, nondimeno nella corte del re questo caso, interpretandosi dagli avversari loro per segno manifesto di animo inimicissimo al nome di tutti i franzesi, accrebbe difficoltà alla pratica dell'accordo: il quale pure finalmente si conchiuse, prevalendo a ogn'altro rispetto non la memoria delle promesse e del giuramento prestato solennemente ma la necessità urgente di danari e del soccorrere alle cose del regno di Napoli. Convennesi adunque in questa sentenza: che senza alcuna dilazione fussino restituite a' fiorentini tutte le fortezze e le terre che erano in mano di Carlo, con condizione che e' fussino obligati di dare infra due anni prossimi, quando cosí piacesse al re, e ricevendone conveniente ricompenso, Pietrasanta e Serezana a' genovesi, in caso venissino alla ubbidienza del re; sotto la quale speranza gl'imbasciadori de' fiorentini pagassino subito i trentamila ducati della capitolazione fatta in Firenze, ma ricevendo gioie in pegno per sicurtà del riavergli in caso non si restituissino per qualunque cagione le terre loro: che fatta la restituzione, prestassino al re sotto l'obligazione de' generali del reame di Francia (è questo il nome di quattro ministri regi che ricevono l'entrate di tutto il regno) settantamila ducati, pagandogli per lui alle genti che erano nel regno di Napoli, e intra gli altri una parte a' Colonnesi in caso non fussino accordati con Ferdinando; di che al re, benché avesse già dell'accordo di Prospero qualche indizio, non era pervenuta ancora la intera certezza: che non avendo guerra in Toscana, mandassino nel reame, in aiuto dell'esercito franzese, dugento cinquanta uomini d'arme; e in caso che avessino guerra in Toscana, ma non altra che quella di Montepulciano, fussino obligati a mandargli ad accompagnare insino nel regno le genti de' Vitelli, che erano nel contado pisano, ma non fussino obligati a tenervegli piú oltre che tutto il mese di ottobre: che a' pisani fussino perdonati tutti i delitti commessi, e data certa forma alla restituzione delle robe tolte, e fatte alcune abilità appartenenti all'arti e agli esercizi: e che per sicurtà dell'osservanza si dessino per statichi sei de' principali cittadini di Firenze, a elezione del re, per dimorare certo tempo nella sua corte. Il quale accordo conchiuso, e pagati col pegno delle gioie i trentamila ducati, che furono subito mandati per levare i svizzeri, furono espedite le lettere e i comandamenti regi a' castellani delle fortezze, che le restituissino immediate a' fiorentini.

                                             

                                                 Lib.2, cap.12

                                                  

                                                 Condizioni difficili de' francesi in Novara. Segrete pratiche di concordia fra il re di Francia e il duca di Milano. Patti di pace proposti al re di Francia e discussione di essi nel consiglio del re. Carlo VIII, fatta la pace col duca di Milano, ritorna in Francia.

                                                  

                                                 Ma le cose dentro a Novara diventavano ogni dí piú dure e piú difficili, con tutto che la virtú de' soldati fusse grande, e grandissima, per la memoria della ribellione, l'ostinazione de' novaresi a difendersi; perché erano già diminuite le vettovaglie talmente che la gente cominciava a patire molto de' cibi necessari: e benché Orliens, poiché si vidde ristretto, avesse mandate fuora le bocche inutili, non era tanto rimedio che bastasse; anzi de' soldati franzesi e de' svizzeri, poco abili a tollerare queste incomodità, incominciavano a infermarsene ogni dí molti. Onde Orliens, oppresso anche egli di febbre quartana, con messi spessi e lettere sollecitava Carlo a non prolungare il soccorso; il quale, non essendo ancora insieme tante genti che fussino abbastanza, non poteva essere sí presto che alla necessità sua cosí urgente sodisfacesse. Tentorono nondimeno i franzesi piú volte di mettere di notte in Novara vettovaglia, condotta da grosse scorte di cavalli e di fanti, ma scoperti sempre dagl'inimici furno costretti a ritirarsi, e qualche volta con danno non piccolo di coloro la conducevano. E per chiudere da ogni parte a quegli di dentro la via delle vettovaglie, il marchese di Mantova assaltò il monasterio di San Francesco propinquo alle mura di Novara, ed espugnatolo vi messe in guardia dugento uomini d'arme e tremila fanti tedeschi: donde gli eserciti si sgravorono di molte fatiche, restando assicurata la strada per la quale si conducevano le loro vettovaglie e serrata la via della porta di verso il monte di Biandrana, che era la via piú facile a entrare in Novara. Espugnò di piú il dí seguente il bastione fatto da' franzesi alla punta del borgo di San Nazaro, e la notte prossima tutto il borgo e l'altro bastione contiguo alla porta; nel quale messe la guardia, e fortificò il borgo: dove il conte di Pitigliano, che era stato condotto da' viniziani con titolo di governatore, ferito d'uno archibuso appresso alla cintura, stette in grave pericolo di morte. Per i quali progressi il duca d'Orliens, diffidandosi di potere piú difendere gli altri borghi, i quali quando si ritirò in Novara aveva fortificati, fattovi mettere fuoco, la notte seguente ridusse tutti i suoi alla guardia solamente della città, sostentandosi nella estremità della fame con la speranza del soccorso, che gli cresceva; perché essendo pure cominciati ad arrivare i svizzeri, l'esercito franzese, passato il fiume della Sesia, era uscito ad alloggiare in campagna un miglio fuora di Vercelli, e messa guardia in Bolgari aspettava il resto de' svizzeri, credendosi che come fussino arrivati si andrebbe subitamente a soccorrere Novara: cosa piena di molte difficoltà, perché le genti italiane erano alloggiate in forte sito e con gagliardi ripari, e il cammino da Vercelli a Novara era cammino copioso d'acque, e difficile per i fossi molto larghi e profondi de' quali è pieno il paese; e tra Bolgari, guardato da' franzesi, e l'alloggiamento degli italiani era Camariano, guardato da essi. Per le quali difficoltà non appariva nell'animo del re né degli altri molta prontezza. E nondimeno, se tutto il numero de' svizzeri fusse arrivato piú presto, arebbono tentata la fortuna della battaglia: l'evento della quale non poteva essere se non molto dubbio per ciascuna delle parti. E però, conoscendosi il pericolo da tutti, non mancavano continuamente tra il re di Francia e il duca di Milano secrete pratiche di concordia; benché con poca speranza, per la diffidenza grande che era tra loro, e perché l'uno e l'altro, per mantenersi in maggiore riputazione, dimostrava di non averne desiderio.

                                                 Ma il caso aperse uno altro mezzo piú espedito a tanta conclusione. Perché essendo in quegli medesimi dí morta la marchesana di Monferrato, e trattandosi di chi dovesse pigliare il governo di un piccolo figliuolo che aveva lasciato, al quale governo aspiravano il marchese di Saluzzo e Costantino fratello della marchesana morta, uno degli antichi signori di Macedonia, occupata molti anni innanzi da Maumeth ottomanno, il re, desideroso della quiete di quello stato, mandò, per ordinarlo secondo il consenso de' sudditi, Argenton a Casale Cervagio; dove essendo similmente andato, per condolersi della medesima morte, un maestro di casa del marchese di Mantova, nacque, tra questi due, ragionamento del beneficio che riporterebbe ciascuna delle parti della pace; il quale ragionamento procedé tanto avanti che, avendo Argenton, per conforto suo scritto sopra il medesimo a' proveditori viniziani, ripetendo le cose cominciate a trattare con loro insino in sul Taro, essi prestando orecchi e comunicando co' capitani del duca di Milano, finalmente tutti concordi mandorono a ricercare il re, il quale era venuto a Vercelli, che deputasse alcuni de' suoi, acciocché in qualche luogo comodo si conducessino a parlamento con quegli i quali sarebbono deputati da loro: il che avendo il re consentito, si congregorno il dí seguente, tra Bolgari e Camariano, per i viniziani il marchese di Mantova e Bernardo Contarino proveditore de' loro stradiotti, per il duca di Milano Francesco Bernardino Visconte, e per il re di Francia il cardinale di San Malò, il principe d'Oranges, il quale passato nuovamente di qua da' monti aveva per commissione del re la cura principale di tutto l'esercito, il marisciallo di Gies, Pienes e Argenton. I quali essendosi convenuti insieme piú volte; e inoltre andati, in diversi dí, alcuni di essi, dall'uno esercito all'altro, si ristrignevano principalmente le differenze alla città di Novara: perché il re, non ponendo difficoltà nell'effetto della restituzione ma nel modo, per minore offesa dell'onore proprio faceva instanza che, in nome del re de' romani, diretto signore del ducato di Milano, si dipositasse in mano d'uno di quegli capitani tedeschi che erano nel campo italiano; ma i collegati instavano si rilasciasse liberamente. Né si potendo questa e l'altre difficoltà che accadevano risolvere cosí presto come arebbono avuto di bisogno quegli che erano in Novara, ridotti tanto allo estremo che già per la fame, e per le infermità causate da quella, vi erano morti circa dumila uomini della gente di Orliens, fu fatto tregua per otto dí; dando facoltà a lui e al marchese di Saluzzo di andare con piccola compagnia a Vercelli, ma con promessa di ritornare dentro con la medesima compagnia se la pace non si facesse: per sicurtà del quale, avendo a passare per le forze degli inimici, il marchese di Mantova andò a una torre presso a Bolgari, in potestà del conte di Fois. Né arebbeno i soldati, i quali restorono in Novara, lasciatolo partire se da lui non avessino avuta la fede che, fra tre dí, o vi ritornerebbe o che essi arebbono per opera sua facoltà d'uscirsene; e dal marisciallo di Gies, che era andato a Novara per condurlo fuora, un suo nipote per statico: perché erano consumati non solo i cibi consueti al vitto umano ma eziandio gli immondi, da' quali gli uomini in tanta estremità non si erano astenuti. Ma come il duca d'Orliens fu arrivato al re si prolungò la tregua per pochi dí, con patto che tutta la gente sua uscisse di Novara, lasciando la terra in potestà del popolo, sotto giuramento di non la dare ad alcuna delle parti senza il consentimento comune; e che nella rocca rimanessino per Orliens trenta fanti, a' quali fusse dal campo italiano giornalmente mandata la vettovaglia. Cosí uscirono di Novara tutti i soldati, accompagnati, insino che furono in luogo sicuro dal marchese di Mantova e da Galeazzo da San Severino, ma tanto indeboliti e consumati dalla fame che non pochi di loro morirono appena arrivati a Vercelli e gli altri restorno inutili a adoperarsi in questa guerra. E in quegli dí medesimi arrivò il baglí di Digiuno col resto de' svizzeri; de' quali se bene non n'avesse dimandati piú che diecimila, non aveva potuto proibire che alla fama de' danari del re di Francia non concorressino quasi popolarmente, in modo che ascendevano al numero di ventimila: de' quali la metà si congiunse col campo che era appresso a Vercelli, l'altra metà si fermò discosto dieci miglia, non si giudicando totalmente sicuro che tanta quantità di quella nazione stesse insieme nel medesimo esercito. La cui venuta se fusse stata qualche dí prima arebbe facilmente interrotte le pratiche dell'accordo, perché nell'esercito del re erano, oltre a questi, ottomila fanti franzesi, dumila svizzeri di quegli che erano stati a Napoli, e le compagnie di mille ottocento lancie; ma essendo la materia tanto avanti, e già abbandonata Novara, non si intermessono i ragionamenti; con tutto che il duca di Orliens facesse opera efficace in contrario, e che nella sua sentenza molti altri concorressino. E perciò erano ogni dí i deputati nel campo italiano a praticare col duca di Milano, ritornatovi nuovamente per trattare da se medesimo cosa di tanta importanza, benché in presenza continuamente degli imbasciadori de' collegati; e finalmente i deputati ritornorono al re, riportando, per ultima conclusione di quello in che si poteva convenire: che tra il re di Francia e il duca di Milano fusse perpetua pace e amicizia, non derogando per questo il duca all'altre sue confederazioni; consentendo che la terra di Novara gli fusse restituita dal popolo e rilasciatagli la rocca da' fanti, e si restituissino la Spezie e gli altri luoghi occupati da ciascheduna delle parti: che al re fusse lecito armare a Genova, suo feudo, quanti legni volesse, e servirsi di tutte le comodità di quella città, eccetto che in favore degl'inimici di quello stato; e che per sicurtà di questo i genovesi gli dessino certi statichi: che 'l duca di Milano gli facesse restituire i legni perduti a Rapallo e le dodici galee ritenute a Genova, e gli armasse di presente a spese proprie due caracche grosse genovesi, le quali, insieme con quattro altre armate in nome suo, disegnava di mandare al soccorso del regno di Napoli; e che l'anno futuro fusse tenuto a dargliene tre nel modo medesimo: concedesse passo alle genti che 'l re mandasse per terra al medesimo soccorso, ma non passando per lo stato suo piú che dugento lancie per volta; e in caso che il re ritornasse a quella impresa personalmente dovesse il duca seguitarlo con certo numero di genti: avessino i viniziani facoltà d'entrare fra due mesi in questa pace, ed entrandovi ritirassino l'armata loro del regno di Napoli né potessino dare soccorso alcuno a Ferdinando; il che quando non osservassino, se il re volesse muovere loro la guerra fusse obligato il duca ad aiutarlo, per il quale si acquistasse tutto quello che si pigliasse dello stato de' viniziani: pagasse il duca, per tutto marzo prossimo, ducati cinquantamila a Orliens per le spese fatte a Novara; e de' danari prestati al re quando passò in Italia lo liberasse d'ottantamila ducati, gli altri, ma con termine piú lungo, gli fussino restituiti: fusse assoluto dal bando avuto dal duca, e rendutogli i suoi beni, il Triulzio; e il bastardo di Borbone preso nella giornata del Taro, e Miolans che era stato preso a Rapalle e tutti gli altri prigioni, fussino liberati: che il duca facesse partire di Pisa il Fracassa il quale poco innanzi v'aveva mandato, e tutte le genti sue e de' genovesi; né potesse impedire la recuperazione delle terre a' fiorentini: deponesse infra un mese il castelletto di Genova nelle mani del duca di Ferrara, che chiamato, per questo, dall'uno e dall'altro era venuto nel campo italiano; il quale l'avesse a guardare due anni a spese comuni, obligandosi con giuramento di consegnarlo, eziandio durante il tempo predetto, al re di Francia in caso che 'l duca di Milano non gli osservasse le promesse; il quale, conchiusa che fusse la pace, avesse a dare subito statichi al re per sicurtà di deporre al tempo convenuto il castelletto. Queste condizioni, riferite al re dai suoi che l'avevano trattate, furono da lui proposte nel suo consiglio; nel quale, variando gli animi di molti, monsignore della Tramoglia parlò in questa sentenza:

                                                 - Se nella presente deliberazione non si trattasse, magnanimo re, se non d'accrescere con opere valorose nuova gloria alla corona di Francia, io mi moverei per avventura piú lentamente a confortare che la persona vostra reale si esponesse a nuovi pericoli; ancora che l'esempio di voi medesimo vi dovesse consigliare in contrario, perché non mosso da altro che dalla cupidità della gloria deliberaste, contro a' consigli e contro a' prieghi di quasi tutto il vostro reame, di passare l'anno precedente in Italia al conquisto del regno di Napoli: ove avendo con tanta fama e onore avuto sí prospero successo la impresa vostra, è cosa manifestissima che oggi non viene solo in consulta se s'ha a rifiutare l'occasione d'acquistare onori e gloria nuova, ma se s'ha a deliberarsi di disprezzare e di lasciare perdere quella che con sí gravi spese e con tanti pericoli avete conseguita, e convertire l'onore acquistato in grandissima ignominia, ed essere voi quello che riprendiate e condanniate le deliberazioni fatte da voi medesimo. Perché poteva la Maestà Vostra senza alcuno carico suo starsene in Francia, né poteva quello che al presente sarà attribuito da tutto il mondo a somma timidità e viltà essere allora attribuito ad altro che a negligenza, o alla età occupata ne' piaceri. Poteva la Maestà Vostra, subito che fu giunta in Asti, con molto minore vergogna sua ritornarsene in Francia, dimostrando che a lei le cose di Novara non attenessino; ma ora, poiché fermata qui con l'esercito suo ha publicato d'essersi fermata per liberare dallo assedio Novara e, per questo, fatto venire di Francia tanta nobiltà, e con intollerabile spesa condotti tanti svizzeri, chi può dubitare che, non la liberando, la gloria vostra e del vostro reame non si converta in eterna infamia? Ma ci sono piú potenti o (se ne' petti magnanimi de' re non può essere maggiore né piú ardente stimolo che la cupidità della fama e de la gloria) almanco piú necessarie ragioni: perché la ritirata nostra in Francia, consentendo per accordo la perdita di Novara, non vuole dire altro che la perdita di tutto il regno di Napoli, che la distruzione di tanti capitani, di tanta nobiltà franzese, rimasta sotto la speranza vostra, sotto la fede data da voi di presto soccorrergli, alla difesa di quel reame; i quali resteranno disperati del soccorso come intenderanno che voi, trovandovi in sulle frontiere d'Italia con tanto esercito, con tante forze, cediate agl'inimici. Dependono in grande parte, come ognuno sa, dalla riputazione i successi delle guerre; la quale quando declina, declina insieme la virtú de' soldati diminuisce la fede de' popoli annichilansi l'entrate deputate a sostenere la guerra, e per contrario cresce l'animo degl'inimici alienansi i dubbii e augumentansi in infinito tutte le difficoltà. Però mancando, con nuova sí infelice, all'esercito nostro il suo vigore, e diventando maggiori le forze e la riputazione degl'inimici, chi dubita che presto sentiremo la ribellione di tutto il regno di Napoli? presto la disfazione del nostro esercito? e che quella impresa, cominciata e proseguita con tanta gloria, non ci arà partorito altro frutto che danno e infamia inestimabile? Perché chi si persuade che questa pace si faccia con buona fede dimostra di considerare poco le condizioni delle cose presenti, dimostra di conoscere poco la natura di coloro co' quali si tratta; essendo facile a comprendere che, come aremo voltate le spalle all'Italia, non ci sarà osservata cosa alcuna di quelle che si capitolano, e che in cambio di darci gli aiuti promessi sarà mandato soccorso a Ferdinando; e quelle genti medesime che si glorieranno d'averci fatto vilmente fuggire d'Italia andranno a Napoli ad arricchirsi delle spoglie de' nostri. La quale ignominia io tollererei piú facilmente se per alcuna probabile cagione si potesse dubitare della vittoria. Ma come può nascere in alcuno questo sospetto che, considerando la grandezza del nostro esercito, l'opportunità che abbiamo del paese circostante, si ricordi che, stracchi della lunghezza del cammino, assediati delle vettovaglie, pochissimi di numero e in mezzo di tutto il paese inimico, combattemmo sí ferocemente contro a grossissimo esercito in sul fiume del Taro? il quale fiume corse quel dí con grande impeto, piú grosso di sangue degli inimici che d'acqua propria; aprimmoci col ferro la strada, e vittoriosi cavalcammo otto giorni per il ducato di Milano, che tutto ci era contrario? Abbiamo al presente il doppio piú cavalleria e tanti piú fanti franzesi che allora non avevamo, e in cambio di tremila svizzeri n'abbiamo ora ventiduemila: gl'inimici, se bene augumentati di fanti tedeschi, si può dire che a comparazione nostra siano poco augumentati, perché la cavalleria loro è quasi la medesima, sono i medesimi capitani; e battuti una volta con tanto danno da noi, ritorneranno con grande spavento a combattere. E forse i premi della vittoria sono sí piccoli che abbino a essere vilipesi da noi? e non piú presto tali che debbiamo cercare di conseguirgli con qualunque pericolo? Perché non si combatte solamente la conservazione di tanta gloria acquistata, la conservazione del regno di Napoli, la salute di tanti vostri capitani e di tanta nobiltà, ma sarà posto in mezzo della campagna lo imperio di tutta Italia; la quale, vincendo qui, sarà per tutto preda della vittoria nostra: perché, che altre genti che altri eserciti restano agli inimici? nel campo de' quali sono tutte l'armi tutti i capitani che hanno potuto mettere insieme. Un fosso che noi passiamo, un riparo che noi spuntiamo, ci mette in seno cose sí grandi: lo imperio e le ricchezze di tutta Italia, la facoltà di vendicarci di tante ingiurie. I quali due stimoli, soliti ad accendere gli uomini pusillanimi e ignavi, se non moveranno la nazione nostra bellicosa e feroce potremo dire certamente esserci mancata piú presto la virtú che la fortuna; la quale ci ha arrecato occasione di guadagnare in sí piccolo campo, in sí poche ore, premi tanto grandi e tanto degni che né piú grandi né piú degni n'aremmo saputo noi medesimi desiderare. -

                                                 Ma in contrario il principe di Oranges parlò cosí:

                                                 - Se le cose nostre, cristianissimo re, non fussino ridotte in tanta strettezza di tempo, ma fussino in grado che ci dessino spazio d'accompagnare le forze con la prudenza e con la industria, e non ci necessitassino, se vogliamo perseverare nell'armi, a procedere impetuosamente e contro a tutti i precetti dell'arte militare, sarei ancora io uno di quegli che consiglierei che si rifiutasse l'accordo; perché in verità molte ragioni ci confortano a non l'accettare, non si potendo negare che il continuare la guerra sarebbe molto onorevole e molto a proposito delle cose nostre di Napoli. Ma i termini ne' quali è ridotta Novara e la rocca, dove non è da vivere pure per un giorno, ci costringono, se la vogliamo soccorrere, ad assaltare gl'inimici subitamente; e quando pure, lasciandola perdere, pensiamo a trasferire in altra parte dello stato di Milano la guerra, la stagione del verno che si appropinqua, molto incomoda a guerreggiare in questi luoghi bassi e pieni di acqua, la qualità del nostro esercito il quale, per la natura e moltitudine sí grande de' svizzeri, se non sarà adoperato presto potrebbe essere piú pernicioso a noi che agl'inimici, la carestia grandissima de' danari per la quale è impossibile il mantenerci qui lungamente, ci necessitano, non accettando l'accordo, a cercare di terminare presto la guerra: il che non si può fare altrimenti che andando a dirittura a combattere con gl'inimici. La qual cosa, per le condizioni loro e del paese, è tanto pericolosa che e' non si potrà dire che il procedere in questo modo non sia somma temerità e imprudenza: perché l'alloggiamento loro è tanto forte per natura e per arte, avendo avuto tempo sí lungo a ripararlo e a fortificarlo, i luoghi circostanti, che gli hanno messo in guardia sono sí opportuni alla difesa loro e sí bene muniti, il paese per la fortezza de' fossi e per l'impedimento dell'acque è sí difficile a cavalcare, che chi disegna d'andare distesamente a trovargli, e non d'accostarsi loro di passo in passo con le comodità e co' vantaggi e (come si dice) guadagnando il paese e gli alloggiamenti opportuni a palmo a palmo, non cerca altro che avventurarsi con grandissimo e quasi certissimo pericolo. Perché con quale discorso, con quale ragione di guerra, con quale esempio di eccellenti capitani, si debbe egli impetuosamente assaltare un esercito sí grosso che sia in uno alloggiamento sí forte, e sí copioso d'artiglierie? Bisogna, chi vuole procedere altrimenti che a caso, cercare di diloggiargli del forte loro, col prendere qualche alloggiamento che gli soprafaccia o con l'impedire loro le vettovaglie; delle quali cose non veggo se ne possa sperare alcuna se non procedendo maturamente e con lunghezza di tempo, il quale ciascuno conosce che abilità abbiamo di aspettare: senza che, la cavalleria nostra non è né di quel numero né di quel vigore che molti forse si persuadono, essendone, come ognuno sa, ammalati molti, molti ancora, e con licenza e senza licenza, ritornatisene in Francia, e la maggiore parte di quegli che restano, stracchi per la lunga milizia, sono piú desiderosi d'andarsene che di combattere; e il numero grande de' svizzeri, che è il nervo principale del nostro esercito, ci è forse cosí nocivo come sarebbe inutile il piccolo numero. Perché chi è quello che, esperto della natura e de' costumi di quella nazione e che sappia quanto sia difficile, quando sono tanti insieme, il maneggiargli, ci assicuri che non faccino qualche pericoloso tumulto, massime procedendo le cose con lunghezza? nella quale, per cagione de' pagamenti ne' quali sono insaziabili, e per altri accidenti, possono nascere mille occasioni di alterargli. Cosí restiamo incerti se gli aiuti loro ci abbino a essere medicina o veleno; e in questa incertitudine come possiamo noi fermare i nostri consigli? come possiamo noi risolverci a deliberazione alcuna animosa e grande? Nessuno dubita che piú onorevole sarebbe, piú sicura per la difesa del regno di Napoli, la vittoria che l'accordo; ma in tutte le azioni umane, e nelle guerre massimamente, bisogna spesso accomodare il consiglio alla necessità, né, per desiderio di ottenere quella parte che è troppo difficile e quasi impossibile, esporre il tutto a manifestissimo pericolo; né è manco ufficio del valoroso capitano fare operazione di savio che d'animoso. Né è stata l'impresa di Novara principalmente impresa vostra, né appartiene se non per indiretto a voi che non pretendete diritto al ducato di Milano; né fu la partita vostra da Napoli per fermarsi a fare la guerra nel Piemonte ma per ritornare in Francia, a fine di riordinarvi di danari e di genti, da potere piú gagliardamente soccorrere il regno di Napoli: il quale, in questo mezzo, col soccorso dell'armata partita da Nizza, con le genti vitellesche con gli aiuti e co' danari de' fiorentini, si intratterrà tanto che potrà facilmente aspettare le potenti provisioni che, ricondotto in Francia, voi farete. Non sono già io di quegli che affermi che il duca di Milano osserverà questa capitolazione; ma essendovi da lui e da' genovesi dati gli ostaggi, e depositando il castelletto secondo la forma de' capitoli, n'arete pure qualche arra e qualche pegno. Né sarebbe però da maravigliarsi molto che egli, per non avere a essere sempre il primo percosso da voi, desiderasse la pace; né hanno per sua natura le leghe, dove intervengono molti, tale fermezza o tale concordia che non si possa sperare d'averne a raffreddare o a disunire dagli altri qualcuno: ne' quali ogni piccola apertura che noi facessimo, ogni piccolo spiraglio che ci apparisse, aremmo la vittoria facile e sicura. Io finalmente vi conforto, re cristianissimo, all'accordo, non perché per se stesso sia utile o laudabile ma perché appartiene a' príncipi savi, nelle deliberazioni difficili e moleste, approvare per facile e desiderabile quella che sia necessaria o che sia manco di tutte l'altre ripiena di difficoltà e di dispiacere. -

                                                 Ripigliò il duca d'Orliens le parole del principe di Oranges, e con tanta acerbità che, trascorrendo l'uno e l'altro impetuosamente dalle parole calde alle ingiuriose, Orliens, presenti tutti, lo smentí; e nondimeno la inclinazione della maggiore parte del consiglio e quasi di tutto l'esercito era che s'accettasse la pace, potendo tanto in tutti, e non meno nel re che negli altri, la cupidità del ritornarsene in Francia che impediva il conoscere il pericolo del regno di Napoli, e quanto fusse ignominioso il lasciare perdere innanzi agli occhi propri Novara, e la partita d'Italia con condizioni, per la incertitudine della osservanza, cosí inique: la quale deliberazione fu con tanta caldezza favorita dal principe di Oranges che molti dubitorono che a requisizione del re de' romani, al quale era deditissimo, non riguardasse meno all'interesse del duca di Milano che a quello del re di Francia. Ed era grande appresso a Carlo la sua autorità, parte per lo ingegno e valore suo, parte perché facilmente da' príncipi sono riputati savi quegli consigli che si conformano piú alla loro inclinazione. Fu adunque stipulata la pace, la quale non prima giurata dal duca di Milano, il re, tutto intento al ritorno di Francia, se ne andò subito a Turino; sollecitato anche al partirsi da Vercelli perché quella parte de' svizzeri che era nel campo suo, per assicurarsi d'avere lo stipendio per tre mesi interi, come dicevano avere sempre osservato seco Luigi undecimo, con tutto che e' non fusse stato loro promesso, e che non avessino militato tanto tempo per lui, trattavano di ritenere o il re o i principali della sua corte: dal quale pericolo benché liberatosi con la súbita partita, nondimeno, avendo essi fatto prigioni il baglí di Digiuno e gli altri capi che gli avevano condotti fu alla fine necessitato d'assicurargli, con statichi e con promesse, della dimanda la quale facevano. Da Turino il re, desideroso di stabilire la pace fatta, mandò al duca di Milano il marisciallo di Gies il presidente di Gannai e Argenton, per indurlo a parlamento seco, il che egli dimostrava di desiderare ma dubitare di qualche fraude; e o per questo sospetto, o forse studiosamente interponendo difficoltà per non ingelosire gli animi de' collegati, o per ambizione di condurvisi come non inferiore al re di Francia, proponeva di fare l'abboccamento in mezzo di qualche riviera, in sulla quale, essendo stabilito un ponte o con le barche o con altra materia, restasse tra loro uno steccato forte di legname: nel qual modo si erano altre volte abboccati insieme i re di Francia e di Inghilterra, e altri príncipi grandi di ponente. Il che essendo ricusato dal re come cosa indegna di sé, e avendo ricevuto da lui gli statichi, mandò Perone di Baccie a Genova, per ricevere le due caracche promessegli e per armarne a spese proprie quattro altre, per soccorrere le castella di Napoli; le quali era già certificato non avere ricevuto il soccorso dell'armata mandata da Nizza, e perciò avere convenuto di arrendersi se fra trenta dí non fussino soccorse: disegnando mettervi su tremila svizzeri, e congiugnerle con l'armata ritiratasi a Livorno e con alcuni altri legni che s'aspettavano di Provenza, i quali senza le navi grosse genovesi non sarebbono stati bastanti a questo soccorso, essendo già ripieno il porto di Napoli di grossa armata; perché, oltre a' legni condottivi da Ferdinando, vi avevano i viniziani mandate venti galee e quattro navi di quella che aveva espugnato Monopoli. Mandò ancora il re Argenton a Vinegia per ricercargli che entrassino nella pace; e dipoi prese il cammino di Francia, con tanta celerità e ardore, egli e tutta la corte, d'esservi presto che, non che altro, non volesse soprasedere in Italia pochi dí per aspettare che i genovesi gli dessino gli statichi promessi, come senza dubbio non si partendo cosí presto fatto arebbono: e cosí, alla fine d'ottobre dell'anno mille quattrocento novantacinque, si ritornò di là da' monti, simile piú tosto, non ostante le vittorie ottenute, a vinto che a vincitore; lasciato in Asti, la quale città simulò d'avere comperata dal duca d'Orliens, governatore Gianiacopo da Triulzi con cinquecento lancie franzesi, le quali quasi tutte, fra pochi dí, di propria autorità lo seguitorono; né avendo lasciato al soccorso del regno di Napoli altra provisione che l'ordine delle navi che si armavano a Genova e in Provenza, e l'assegnamento degli aiuti e de' danari promessigli da' fiorentini.

                                                  

                                                 Lib.2, cap.13

                                                  

                                                 Manifestazione del male detto da' francesi: “di Napoli”, e dagli italiani: “francese”. Suo luogo d'origine e sua diffusione.

                                                  

                                                 Né pare, dopo la narrazione dell'altre cose, indegno di memoria che, essendo in questo tempo fatale a Italia che le calamità sue avessino origine dalla passata de' franzesi, o almeno a loro fussino attribuite, che allora ebbe principio quella infermità che, chiamata da' franzesi il male di Napoli, fu detta comunemente dagli italiani le bolle o il male franzese; perché, pervenuta in essi mentre erano a Napoli, fu da loro, nel ritornarsene in Francia, diffusa per tutta Italia: la quale infermità o del tutto nuova o incognita insino a questa età nel nostro emisperio, se non nelle sue remotissime e ultime parti, fu massime per molti anni tanto orribile che, come di gravissima calamità, merita se ne faccia menzione. perché scoprendosi o con bolle bruttissime, le quali spesse volte diventavano piaghe incurabili, o con dolori intensissimi nelle giunture e ne' nervi per tutto il corpo, né usandosi per i medici, inesperti di tale infermità, rimedi appropriati ma spesso rimedi direttamente contrari e che molto la facevano inacerbire, privò della vita molti uomini di ciascuno sesso e età, molti diventati d'aspetto deformissimi restorono inutili e sottoposti a cruciati quasi perpetui; anzi la maggiore parte di coloro che pareva si liberassino ritornavano in breve spazio di tempo nella medesima miseria; benché, dopo il corso di molti anni, o mitigato lo influsso celeste che l'aveva prodotta cosí acerba, o essendosi per la lunga esperienza imparati i rimedi opportuni a curarla, sia diventata molto manco maligna; essendosi anche per se stessa trasmutata in piú specie diverse dalla prima. Calamità della quale certamente gli uomini della nostra età si potrebbono piú giustamente querelare se pervenisse in essi senza colpa propria: perché è approvato, per consentimento di tutti quegli che hanno diligentemente osservata la proprietà di questo male, che o non mai o molto difficilmente perviene in alcuno se non per contagione del coito. Ma è conveniente rimuovere questa ignominia dal nome franzese, perché si manifestò poi che tale infermità era stata traportata di Spagna a Napoli, né propria di quella nazione ma condotta quivi di quelle isole le quali, come in altro luogo piú opportunamente si dirà, cominciorono, per la navigazione di Cristofano Colombo genovese, a manifestarsi, quasi in questi anni medesimi, al nostro emisperio. Nelle quali isole, nondimeno, questo male ha prontissimo, per benignità della natura, il rimedio; perché beendo solamente del succo d'un legno nobilissimo per molte doti memorabili, che quivi nasce, facilissimamente se ne liberano.

                                             

                                                 Lib.3, cap.1

                                                  

                                                 Lodi generali al senato veneziano ed al duca di Milano per aver essi liberato l'Italia dai francesi. Lodovico Sforza mantiene fede solo ad alcune delle condizioni di pace. Fa spogliare delle scritture riguardanti i patti conclusi con Carlo VIII l'oratore fiorentino. Ambizione de' veneziani e dello Sforza al dominio di Pisa. Restituzione della terra e delle fortezze di Livorno ai fiorentini. Entraghes malgrado le lettere del re non consegna Pisa ai fiorentini ed impedisce che essi se ne impadroniscano.

                                                  

                                                 La ritornata poco onorata del re di Francia di là da' monti, benché proceduta piú da imprudenza o da disordini che da debolezza di forze o da timore, lasciò negli animi degli uomini speranza non mediocre che Italia, percossa da infortunio tanto grave, avesse presto a rimanere del tutto libera dallo imperio insolente de' franzesi; onde risonavano per tutto le laudi del senato viniziano e del duca di Milano che, prese l'armi, con savia e animosa deliberazione, avessino vietato che sí preclara parte del mondo non cadesse in servitú di forestieri: i quali se, acciecati dalle cupidità particolari, non avessino, eziandio con danno e infamia propria, corrotto il bene universale, non si dubita che Italia reintegrata co' consigli e le forze loro nel pristino splendore, sarebbe stata per molti anni sicura dall'impeto delle nazioni oltramontane. Ma l'ambizione, la quale non permesse che alcuno di loro stesse contento a' termini debiti, fu cagione di rimettere presto Italia in nuove turbazioni, e che non si godesse il frutto della vittoria che ebbono poi contro all'esercito franzese, che era rimasto nel regno di Napoli; la quale vittoria la negligenza e i consigli imprudenti del re lasciorono loro facilmente conseguire, essendo il soccorso disegnato da lui, quando si partí d'Italia, restato vano, perché né le provisioni dell'armata né gli aiuti promessi da' fiorentini ebbono effetto.

                                                 Non era Lodovico Sforza condisceso con sincera fede alla pace con Carlo, perché ricordandosi, come è natura di chi offende, delle ingiurie che gli avea fatte si persuadeva non potere piú sicuramente commettersi alla sua fede, ma il desiderio di ricuperare Novara e di liberare dalla guerra lo stato proprio l'avevano indotto a promettere quello che non aveva in animo di osservare. Né si dubitò che alla pace fatta con questa simulazione fusse intervenuto il consentimento del senato viniziano, desideroso d'alleggerirsi senza infamia sua della spesa smisurata la quale per la loro republica si sosteneva intorno a Novara. E nondimeno Lodovico, per non si partire subito cosí impudentemente, ma con qualche colore, dalla capitolazione, adempié quello che e' non poteva negare che fusse in arbitrio suo: dette gli statichi, fece liberare i prigioni pagando del suo proprio le taglie loro, restituí i legni presi a Rapalle, rimosse di Pisa il Fracassa, il quale non poteva dissimulare che fusse stipendiario suo; e infra 'l mese convenuto ne' capitoli, consegnò il castelletto di Genova al duca di Ferrara, che andò in persona a riceverlo. Ma da altra parte lasciò in Pisa Luzio Malvezzo con non piccolo numero di gente, come soldato de' genovesi; permesse che andassino nel regno di Napoli due caracche che a Genova s'erano armate per Ferdinando, scusandosi che, per averle egli soldate innanzi si conchiudesse la pace, non si consentiva a Genova il negargliene; impedí occultamente che i genovesi gli dessino gli ostaggi; e, quello che fu di maggiore momento alla perdita delle castella di Napoli, poi che 'l re ebbe finito d'armare le quattro navi, ed egli proveduto alle due alle quali era tenuto, operò che i genovesi dimostrando timore ricusassino ch'elle si armassino di soldati del re, se prima non ricevevano da lui sufficiente sicurtà di non se le appropriare, né di tentare con esse di mutare il governo di Genova: delle quali cavillazioni facendo il re per uomini propri querela a Lodovico, ora rispondeva avere promesso di dare le navi ma non obligatosi che le si potessino fornire di gente franzese, ora che il dominio che aveva di Genova non era assoluto, ma limitato con tali condizioni che in potestà sua non era il costringergli a fare tutto quello che gli paresse, e specialmente le cose che essi pretendessino essere pericolose allo stato e alla città propria; le quali escusazioni per corroborare piú, operò che il pontefice comandasse a' genovesi e a lui, sotto pena delle censure, che non lasciassino cavare di Genova legni di alcuna sorte al re di Francia. Onde restò vano questo soccorso, aspettato con sommo desiderio da' franzesi che erano nel reame di Napoli. Come similmente restorono vani i danari e gli aiuti promessi da' fiorentini. Perché dopo l'accordo fatto a Turino essendo partito subito con tutte le espedizioni necessarie Guidantonio Vespucci, uno degli oratori che erano intervenuti a conchiuderlo, e passando senza sospetto per il ducato di Milano perché la republica fiorentina non si era dichiarata inimica di alcuno, fu per commissione del duca ritenuto in Alessandria, toltegli tutte le scritture, ed egli condotto a Milano; dove intesa la capitolazione e le promesse de' fiorentini, fu deliberato da' viniziani e dal duca essere bene di non lasciare perire i pisani, i quali, subito che il re di Francia era partito da Pisa, avevano per nuovi imbasciadori raccomandate a Vinegia e a Milano le cose loro: movendosi amendue, con consenso del pontefice e degli oratori degli altri confederati, sotto pretesto di impedire i danari e le genti che i fiorentini doveano, riavendo Pisa e l'altre terre, mandare nel regno di Napoli: e perché, essendo congiunti al re di Francia, potrebbono, diventati piú potenti per la recuperazione di quella città e liberatisi da quello impedimento, nuocere in molti modi alla salute d'Italia.

                                                 Ma si movevano principalmente per la cupidità d'insignorirsi di Pisa; alla quale preda, disegnata molto prima da Lodovico, incominciavano medesimamente a volgere gli occhi i viniziani, come quegli che, per essere dissoluta l'antica unione degli altri potentati e indebolita una parte di coloro che solevano opporsegli, abbracciavano già co' pensieri e con le speranze la monarchia d'Italia: alla quale cosa pareva che fusse molto opportuno il possedere Pisa, per cominciare con la comodità del porto suo, in quale si giudicava che difficilmente potessino, non avendo Pisa, conservarsi lungo tempo i fiorentini, a distendersi nel mare di sotto, e per fermare con la comodità della città un piede di non piccola importanza in Toscana. Nondimeno erano stati piú pronti gli aiuti del duca di Milano; il quale, intrattenendosi nel tempo medesimo con varie pratiche co' fiorentini, aveva ordinato che Fracassa, sotto colore di faccende private, perché avea possessioni in quello contado, andasse a Pisa, e che i genovesi vi mandassino di nuovo fanti: attendendo in questo mezzo i viniziani a confortare i pisani con promesse di mandare loro aiuto, per il che avevano mandato a Genova uno secretario a soldare fanti e a confortare i genovesi a non abbandonare i pisani; ma il mandargli a Pisa eseguivano lentamente, perché, mentre che la cittadella era tenuta per il re e, molto piú, mentre che il re era in Italia, non giudicavano essere da fare molto fondamento in quelle cose.

                                                 E da altra parte i fiorentini, intese le nuove convenzioni fatte dagli oratori loro col re a Turino, avevano augumentato l'esercito loro, per potere, subito che arrivassino l'espedizioni regie, costrignere i pisani a ricevergli: le quali mentre ritardano, per l'arrestamento fatto del loro imbasciadore, preso il castello di Palaia, poseno il campo a Vico Pisano. L'oppugnazione del qual castello riuscí vana: parte perché i capitani, o con cattivo consiglio o perché giudicassino non avere gente sufficiente a porre il campo dalla parte di verso Pisa, massime avendovi i pisani fatto uno bastione in luogo rilevato assai vicino alla terra, s'accamporono dalla banda di sotto verso Bientina, luogo poco opportuno a nuocere a Vico, e dove stando restava aperto il cammino da Pisa e da Cascina agli assediati; parte perché Pagolo Vitelli con la compagnia sua e de' fratelli, ricevuti tremila ducati da' pisani, v'entrò alla difesa, dicendo avere lettere dal re e comandamento dal generale di Linguadoca, fratello del cardinale di San Malò, il quale infermo era rimasto a Pietrasanta, di difendere, insino che altro non gli fusse ordinato, Pisa e il suo contado: ed era certamente cosa maravigliosa che in uno tempo medesimo i pisani fussino difesi dalle genti del re di Francia e aiutati similmente da quelle del duca di Milano e nutriti di speranze da' viniziani, con tutto che e quel senato e il duca fussino in manifesta guerra col re. Per il soccorso delle genti de' Vitelli si difese facilmente Vico Pisano, e con danno non piccolo del campo de' fiorentini, il quale alloggiava in luogo sí scoperto che era molto offeso dall'artiglierie state condotte in Vico da' pisani; in modo che, dopo esservi dimorato molti dí, fu necessario che i capitani disonoratamente se ne levassino. Ma essendo arrivate poi l'espedizioni regie, le quali duplicate erano state mandate occultamente per diverse vie, furno subito restituite a' fiorentini la terra e le fortezze di Livorno e del porto, da Saliente luogotenente di monsignore di Beumonte, al quale il re l'aveva date a guardia; e monsignore di Lilla, deputato commissario a ricevere da' fiorentini la ratificazione dell'accordo fatto a Turino e a fare eseguire la restituzione, cominciò a trattare con Entraghes, castellano della cittadella di Pisa e delle rocche di Pietrasanta e di Mutrone, per stabilire seco il dí e il modo del consegnarle.

                                                 Ma Entraghes, indotto o dalla medesima inclinazione che ebbono in Pisa tutti i franzesi o da secrete commissioni che avesse da Ligní, sotto 'l cui nome e come dependente da lui era, quando il re partí da Pisa, stato proposto a questa guardia, o stimolato dall'amore portava a una fanciulla figliuola di Luca del Lante cittadino pisano, perché non è credibile lo movessino solamente i danari, de' quali poteva sperare di ricevere maggiore quantità da' fiorentini, cominciò a interporre varie difficoltà; ora dando interpretazione fuora del vero senso alle patenti regie, ora affermando d'avere avuto da principio comandamento di non le restituire se non riceveva contrasegni occulti da Ligní: sopra le quali cose essendosi disputato qualche dí, fu necessario a' fiorentini fare nuova instanza col re, il quale ancora era a Vercelli, che facesse provisione a questo disordine, nato con tanta offesa della degnità e utilità propria. Dimostrò il re molestia grande della disubbidienza d'Entraghes, però non senza indegnazione comandò a Ligní che lo costrignesse a ubbidire; con intenzione di mandare, con questo ordine e con nuove patenti, e con lettere efficaci del duca d'Orliens del quale esso era suddito, un uomo d'autorità: ma potendo piú la pertinacia di Ligní e i favori suoi che il poco consiglio del re, fu prolungata l'espedizione per qualche dí, e alla fine mandato con essa non un uomo d'autorità ma Lanciaimpugno privato gentiluomo; col quale andò Cammillo Vitelli, per condurre nel reame di Napoli, con parte de' danari che avevano a sborsare i fiorentini, le genti sue, le quali, subito che arrivorono le patenti regie, s'erano unite con l'esercito loro. Non partorí questa espedizione frutto maggiore che avesse partorito la prima, benché 'l castellano avesse già ricevuto dumila ducati da' fiorentini per sostentare, insino alla risposta del re, i fanti che erano alla guardia della cittadella, e che a Cammillo fussino stati pagati tremila ducati perché aveva impedito che, altrimenti, le lettere regie si presentassino. Perché il castellano, il quale, secondo che si credé, aveva ricevute per altra via occultamente da Ligní commissioni contrarie, dopo cavillazione di molti dí, giudicando che i fiorentini, per essere in Pisa oltre agli uomini della terra e del contado mille fanti forestieri, non fussino bastanti a sforzare il borgo di San Marco, congiunto alla porta fiorentina contigua alla cittadella, alla fronte del quale aveano prima, di suo consentimento, lavorato uno bastione molto grande, e cosí potersi da sé conseguire l'effetto medesimo senza privarsi di tutte l'escusazioni appresso al re, fece intendere a' commissari fiorentini che si presentassino con l'esercito alla porta predetta, il che non potevano fare se non espugnavano il borgo, perché se i pisani non volessino mettergli dentro d'accordo, gli sforzerebbe ad abbandonarla, essendo sottoposta quella porta all'artiglierie della cittadella, in modo che contro alla volontà di chi v'era dentro non si poteva difendere. Però andativi con grande apparato, e con grande ardire e accesa disposizione di tutto il campo, che alloggiava a San Rimedio luogo vicino al borgo, assaltorono con tale valore da tre bande il bastione, della disposizione del quale e de' ripari aveano informazione da Pagolo Vitelli, che molto presto messono in fuga quegli che lo difendevano; e seguitandogli entrorono alla mescolata con essi nel borgo, per un ponte levatoio che si congiugneva col bastione, ammazzando e facendo prigioni molti di loro. Né è dubbio che col medesimo impeto e senza avere aiuto dalla cittadella arebbono nel tempo medesimo, per la porta dove già erano entrati alcuni de' loro uomini d'arme, acquistata Pisa, perché i pisani messi in fuga niuna resistenza faceano; ma il castellano, vedendo le cose riuscire a fine contrario di quello che aveva disegnato, cominciò a tirare con l'artiglierie alle genti de' fiorentini: dal quale improviso accidente sbigottiti i commissari e i condottieri, essendo già dall'artiglierie stati morti e feriti molti soldati, tra' quali Pagolo Vitelli ferito in una gamba, disperati di potere con l'opposizione della cittadella pigliare in quel dí Pisa, fatto sonare a raccolta, feciono ritirare le genti, restando in potestà loro il borgo acquistato, benché fra pochi giorni fussino necessitati di abbandonarlo, perché battuti continuamente dall'artiglierie della cittadella danno grandissimo vi ricevevano; e si ritirorno verso Cascina, attendendo che provisioni facesse piú il re contro a sí manifesta contumacia de' suoi medesimi.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.3, cap.2

                                                  

                                                 Difficoltà create a' fiorentini da' potentati della lega. Lotta di fazioni in Perugia e nell'Umbria. Vani tentativi di Piero de' Medici per avere aiuti sufficienti ad entrare in Firenze. Verginio Orsino passa al soldo del re di Francia.

                                                  

                                                 Le quali mentre che s'aspettano, non mancavano da altre parti a' fiorentini nuovi e pericolosi travagli, suscitati principalmente da' potentati della lega. I quali, a fine di interrompere l'acquisto di Pisa e di costrignergli a separarsi dalla confederazione del re di Francia, confortorono Piero de' Medici che con l'aiuto di Verginio Orsino, il quale fuggito del campo de' franzesi il dí del fatto d'arme del Taro era tornato a Bracciano, tentasse di ritornare in Firenze; cosa facile a persuadere all'uno e all'altro, perché a Verginio era molto a proposito, in qualunque evento fusse per avere questo conato, raccorre co' danari d'altri i suoi antichi soldati e partigiani e rimettersi in sulla riputazione dell'armi; e a Piero, secondo il costume de' fuorusciti, non mancavano varie speranze, per gli amici che aveva in Firenze, ove anche intendeva dispiacere a molti de' nobili il governo popolare, e per gli aderenti e seguaci assai che per la inveterata grandezza della famiglia sua avea in tutto il dominio fiorentino. Credettesi che questo disegno avesse avuto origine a Milano, perché Verginio quando fuggí da' franzesi era andato subito a visitare il duca, ma si stabilí poi in Roma, ove fu trattato molti dí appresso al pontefice dall'oratore veneto e dal cardinale Ascanio, il quale procedeva per commissione di Lodovico suo fratello. E furono i fondamenti e le speranze di questa impresa che, oltre alle genti che metterebbe insieme Verginio de' suoi antichi soldati, e con diecimila ducati i quali Piero de' Medici aveva raccolti del suo proprio e dagli amici, Giovanni Bentivoglio, soldato de' viniziani e del duca di Milano, rompesse nel tempo medesimo la guerra da' confini di Bologna, e che Caterina Sforza, i figliuoli della quale erano agli stipendi del duca di Milano, desse dalle città di Imola e di Furlí, che confinano co' fiorentini, qualche molestia; e si promettevano non vanamente avere disposti al desiderio loro i sanesi, accesi dall'odio inveterato contro a' fiorentini e dalla cupidità di conservarsi Montepulciano, la quale terra non si confidavano di potere sostenere da loro medesimi. Perché, avendo pochi mesi innanzi, con le forze proprie e con le genti del signore di Piombino e di Giovanni Savello soldati comunemente dal duca di Milano e da essi, tentato d'insignorirsi del passo della palude delle Chiane, il quale da quella banda era confine tra i fiorentini e loro per lungo tratto, e a questo effetto cominciato a lavorare appresso al ponte a Valiano uno bastione, per battere una torre de' fiorentini posta in sulla punta del ponte di verso Montepulciano, era riuscito tutto il contrario; perché i fiorentini, commossi dal pericolo della perdita di questo ponte, che gli privava della facoltà di molestare Montepulciano, e dava adito agli inimici d'entrare ne' territori di Cortona e d'Arezzo e degli altri luoghi che dall'altra parte della Chiana appartengono al dominio loro, mandatovi potente soccorso sforzorono il bastione cominciato da' sanesi, e per stabilirsi totalmente il passo fabricorno appresso al ponte, ma di là dalla Chiana, un bastione capacissimo d'alloggiarvi molta gente: con l'opportunità del quale, scorrendo insino alle porte di Montepulciano, infestavano medesimamente tutte le terre che i sanesi tenevano da quella parte. E a questo successo s'era aggiunto che, poco poi che fu passato il re di Francia, avevano rotto appresso a Montepulciano le genti de' sanesi e fatto prigione Giovanni Savello loro capitano. Speravano inoltre Verginio e Piero de' Medici d'ottenere ricetto e qualche comodità da' perugini: non solo perché i Baglioni, i quali con l'armi e col seguito de' partigiani dominavano quasi quella città, erano congiunti a Verginio, seguitando ciascuno di loro il nome della fazione guelfa, e perché con Lorenzo padre di Piero, e poi con Piero mentre era in Firenze, avevano tenuto strettissima amicizia e stati favoriti sempre contro a' movimenti degl'inimici, ma ancora perché, essendo sottoposti alla Chiesa, benché piú nelle dimostrazioni che negli effetti, si credeva che in questo che non apparteneva principalmente allo stato loro avessino a cedere alla volontà del pontefice, aggiugnendovisi massimamente l'autorità de' viniziani e del duca di Milano.

                                                 Partiti adunque con queste speranze Verginio e Piero de' Medici di terra di Roma, persuadendosi che i fiorentini, divisi tra loro medesimi e assaltati col nome de' confederati da tutti i vicini, potessino con fatica resistere, poi che ebbono soggiornato qualche dí tra Terni e Todi e in quelle circostanze, dove Verginio attendendo ad abbassare per tutto la fazione ghibellina traeva da' guelfi danari e aiuto di genti, si pose a campo in favore de' perugini a Gualdo, terra posseduta dalla comunità di Fuligno ma venduta prima per seimila ducati dal pontefice a' perugini, accesi non tanto dal desiderio di possederla quanto dalla contenzione delle parti, per le quali tutte le terre circostanti si trovavano allora in grandissimi movimenti. Perché pochi dí innanzi gli Oddi, fuorusciti di Perugia e capi della parte avversa a' Baglioni, aiutati da quegli di Fuligno di Ascesi e d'altri luoghi vicini che seguitavano la parte ghibellina, erano entrati in Corciano, luogo forte vicino a Perugia a cinque miglia, con trecento cavalli e cinquecento fanti; per il quale accidente essendo sollevato tutto il paese, perché Spoleto Camerino e gli altri luoghi guelfi erano favorevoli a' Baglioni, gli Oddi pochi dí dopo entrorono una notte furtivamente in Perugia, e con tanto spavento de' Baglioni che già perduta la speranza del difendersi cominciavano a mettersi in fuga: e nondimeno perderono, per uno inopinato e minimo caso, quella vittoria che non poteva torre piú loro la possanza degl'inimici. Perché essendo già pervenuti senza ostacolo a una delle bocche della piazza principale, e volendo uno di loro, che a questo effetto aveva portato una scure, spezzare una catena, la quale secondo l'uso delle città faziose attraversava la strada, impedito a distendere le braccia da' suoi medesimi che calcati gli erano intorno, gridò con alta voce: - addietro, addietro - acciocché allargandosi gli dessino facoltà di adoperarsi; la quale voce, replicata di mano in mano da chi lo seguitava e intesa dagli altri come incitamento a fuggire, mésse senza altro scontro o impedimento in fuga tutta la gente, non sapendo alcuno da chi cacciati o per quale cagione si fuggissino: dal quale disordine preso animo e rimessisi insieme gli avversari, ammazzatine nella fuga molti di loro, e preso Troilo Savello, il quale per la medesima affezione della parte era stato mandato in aiuto degli Oddi dal cardinale Savello, seguitorno gli altri insino a Corciano, e lo recuperorno con l'impeto medesimo; né saziati per la morte di quegli che erano stati uccisi nel fuggire ne impiccorono in Perugia molti degli altri, con la crudeltà che tra loro medesimi usano i parziali. Da' quali tumulti essendo nate molte uccisioni nelle terre vicine per conto delle parti, sollecite ne' tempi sospetti a sollevarsi, o per sete d'ammazzare gl'inimici o per paura di non essere prevenuti da loro, i perugini concitati contro a' fulignati avevano mandato il campo a Gualdo; dove avendo data la battaglia invano, diffidatisi di poterlo ottenere con le loro forze, accettorono gli aiuti di Verginio, il quale si offerse loro acciocché al nome della guerra e delle prede concorressino piú facilmente i soldati. E nondimeno, stimolati da lui e da Piero de' Medici di aiutare scopertamente la impresa loro, o almeno di concedere qualche pezzo d'artiglieria e il ricetto per le genti loro a Castiglione del Lago, che confina col territorio di Cortona, e comodità di vettovaglie per l'esercito, non consentivano alcuna di queste dimande, ancora che delle cose medesime facesse instanza grandissima in nome del duca di Milano il cardinale Ascanio, e il pontefice con brevi veementi e minatori lo comandasse; perché essendo stati, dopo l'occupazione di Corciano, aiutati da' fiorentini con qualche somma di danari, i quali di piú avevano a Guido e a Ridolfo principali della casa de' Baglioni costituita annua provisione, e condotto a' suoi stipendi Giampagolo figliuolo di Ridolfo, si erano ristretti con loro: alieni oltre a questo dalla congiunzione del pontefice, perché temevano che il favore suo fusse inclinato agli avversari, o che per occasione delle loro divisioni aspirasse a rimettere in tutto quella città sotto l'ubbidienza della Chiesa.

                                                 Nel quale tempo Pagolo Orsino, che con sessanta uomini d'arme della compagnia vecchia di Verginio era stato molti dí a Montepulciano e dipoi trasferitosi a Castello della Pieve, teneva per ordine di Piero de' Medici trattato nella città di Cortona; con intenzione di metterlo a effetto come le genti di Verginio, il numero e la bontà delle quali non corrispondeva a' primi disegni, s'accostassino: nella quale dilazione essendosi scoperto il trattato che si teneva, per mezzo d'uno sbandito di bassa condizione, cominciorono a mancare parte de' loro fondamenti, e da altra parte a dimostrarsi maggiori ostacoli. Perché i fiorentini, solleciti a provedere a' pericoli, lasciati nel contado di Pisa trecento uomini d'arme e dumila fanti, avevano mandati ad alloggiare presso a Cortona dugento uomini d'arme e mille fanti sotto il governo del conte Rinuccio da Marciano loro condottiere; e perché le genti de' sanesi non potessino unirsi con Verginio, come tra loro si era trattato, avevano mandato al Poggio Imperiale che è a' confini del sanese, sotto il governo di Guidobaldo da Montefeltro duca d'Urbino, condotto poco innanzi da loro, trecento uomini d'arme e mille cinquecento fanti, e aggiuntivi molti de' fuorusciti di Siena per tenere quella città in maggiore terrore. Ma Verginio, poiché ebbe dato piú battaglie a Gualdo, dove fu ferito d'un archibuso Carlo figliuolo suo naturale, ricevuti, come si credette, in secreto danari da' fulignati, ne levò il campo senza menzione alcuna dello interesse de' perugini; e andò ad alloggiare alle Tavernelle e dipoi al Panicale nel contado di Perugia, facendo nuova instanza che si dichiarassino contro a' fiorentini: il che non solo gli fu negato, anzi, per la mala sodisfazione che avevano delle cose di Gualdo, costretto quasi con minaccie a uscirsi del territorio loro. Però, essendo prima Piero ed egli andati con quattrocento cavalli all'Orsaia villa propinqua a Cortona, sperando che in quella città, la quale per non essere danneggiata da' soldati non aveva voluto ricevere dentro le genti d'arme de' fiorentini, si facesse qualche movimento, poiché veddeno ogni cosa quieta passorono le Chiane, con trecento uomini d'arme e tremila fanti, ma la piú parte gente male in ordine per essere stati raccolti con pochi danari; e si ridusseno nel sanese presso a Montepulciano, tra Chianciano, Torrita e Asinalunga: dove soprastettono molti dí senza fare fazione alcuna, eccetto che qualche preda e correrie, perché le genti de' fiorentini, passate le Chiane al ponte a Valiano, si erano messe all'opposito nel Monte a Sansovino e negli altri luoghi circostanti. Né da Bologna, secondo la intenzione che era stata loro data, si faceva movimento alcuno; perché il Bentivoglio, determinato di non si implicare per gli interessi d'altri in guerra con una republica potente e vicina, ancoraché consentisse farsi molte dimostrazioni da Giuliano de' Medici, il quale venuto a Bologna cercava di sollevare gli amici che essi erano soliti di avere nelle montagne del bolognese, non volle muovere l'armi, non ostante gli stimoli de' collegati, interponendo varie dilazioni e allegando varie scuse. Anzi tra i collegati medesimi non era totalmente la medesima volontà: perché al duca di Milano era grato che i fiorentini avessino travagli tali che gli rendessino manco potenti alle cose di Pisa; ma non gli sarebbe stato grato che Piero de' Medici, offeso da lui sí gravemente, ritornasse in Firenze, se bene egli, per dimostrare di volere per l'avvenire dependere del tutto dalla sua autorità, avesse mandato a Milano il cardinale suo fratello; e i viniziani non volevano abbracciare soli questa guerra: aggiugnendosi oltre a questo l'essere intenti, il duca e loro, alle provisioni per cacciare i franzesi del reame di Napoli. Perciò mancando a Piero e a Verginio non solo le speranze le quali s'avevano proposte ma ancora i danari per sostentare le genti, diminuiti assai di fanti e di cavalli, si ritirorono al Bagno a Rapolano nel contado di Chiusi, città suddita a' sanesi. Dove fra pochi dí, tirando Verginio il suo fato, arrivorono Cammillo Vitelli e monsignore di Gemel, mandati dal re di Francia per condurlo a' soldi suoi e menarlo nel reame di Napoli; dove il re, intesa l'alienazione de' Colonnesi, desiderava di servirsene: il quale partito, non ostante la contradizione di molti de' suoi, che lo consigliavano o che si conducesse co' confederati, che ne lo ricercavano con grande instanza, o che ritornasse al servigio aragonese, fu accettato da lui; o perché sperasse di ricuperare piú facilmente con questo mezzo i contadi di Albi e di Tagliacozzo, o perché, ricordandosi delle cose intervenute nella perdita del regno e vedendo essere grande appresso a Ferdinando l'autorità de' Colonnesi suoi avversari, si diffidasse di potere piú ritornare seco nell'antica fede e grandezza, o pure lo movesse, secondo che affermava egli, la mala sodisfazione che aveva de' príncipi confederati per avergli mancato delle promesse fattegli al favore di Piero de' Medici. Fu adunque condotto con secento uomini d'arme per lui e per gli altri di casa Orsina, ma nondimeno con obligo di mandare Carlo suo figliuolo in Francia per sicurtà del re (questi sono i frutti di chi ha già fatta sospetta la fede propria); e ricevuti i danari, attendeva a prepararsi per andare insieme co' Vitelli nel regno.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.3

                                                  

                                                 Nuove vicende della lotta tra francesi ed aragonesi nel reame di Napoli. La fortuna francese declina in Calabria. Carlo VIII consuma in divertimenti il tempo a Lione. Ricusa proposte fatte avanzare da' veneziani per decidere le cose del reame di Napoli.

                                                  

                                                 Dove, e innanzi alla perdita delle castella e poi, si era con vari accidenti, in vari luoghi, continuamente travagliato e travagliava. Perché avendo da principio fatta testa Ferdinando nel piano di Sarni, i franzesi ritiratisi da Pié di Grotta si erano fermati a Nocera, vicini agli inimici a quattro miglia; dove essendo le forze dell'uno e l'altro esercito assai del pari consumavano il tempo inutilmente a scaramucciare, non facendosi cosa alcuna memorabile: eccetto che, essendo stati condotti con trattato doppio per entrare nel castello di Gifone, vicino alla terra di Sanseverino, circa a settecento cavalli e fanti di Ferdinando, vi rimasono quasi tutti o morti o prigioni; ma essendo sopravenute in aiuto di Ferdinando le genti del pontefice, i franzesi diventati inferiori si discostorono da Nocera: onde quella terra insieme con la sua fortezza fu presa da Ferdinando, con uccisione grande de' seguaci de' franzesi. Aveva in questo tempo Mompensieri atteso a provedere le genti, uscite seco di Castelnuovo, di cavalli e d'altre cose necessarie alla guerra; le quali riordinate, unito con gli altri venne ad Ariano, terra molto abbondante di vettovaglie: e Ferdinando da altra parte, essendo meno potente degli inimici, si fermò a Montefoscoli; per temporeggiarsi, senza tentare la fortuna, insino a tanto che da' confederati avesse maggiore soccorso. Prese Mompensieri la terra e dipoi la fortezza di San Severino, e arebbe fatti senza dubbio maggiori progressi se non l'avesse impedito la difficoltà de' danari; perché non essendogliene mandati di Francia, né avendo facoltà di cavarne del regno, e perciò non potendo pagare i soldati, e stando per questa cagione l'esercito malcontento e massimamente i svizzeri, non faceva effetti pari alle forze che avea. Consumoronsi con queste azioni, per l'uno e l'altro esercito, circa a tre mesi. Nel quale tempo e nella Puglia guerreggiava con gli aiuti del paese don Federico, con cui era don Cesare d'Aragona, essendogli oppositi i baroni e i popoli che seguitavano la parte franzese; e nell'Abruzzi Graziano di Guerra, molestato dal conte di Popoli e da altri baroni aderenti a Ferdinando, si difendeva con valore grande; e il prefetto di Roma, che dal re aveva la condotta di dugento uomini d'arme, molestava dagli stati suoi le terre di Montecasino e il paese circostante. Ma piú importanti erano le cose della Calavria, dove era declinata alquanto la prosperità de' franzesi, essendo ammalato Obigní di lunga infermità, la quale gli interroppe il corso della vittoria. Con tutto che quasi tutta la Calavria e il Principato fussino a divozione del re di Francia, Consalvo, rimesse insieme le genti spagnuole e i paesani amici degli aragonesi, i quali per l'acquisto di Napoli erano augumentati, aveva prese alcune terre, e manteneva vivo in quella provincia il nome di Ferdinando: dove per i franzesi erano le medesime difficoltà, per mancamento di danari, che nello esercito. Nondimeno essendosi ribellata da loro la città di Cosenza, la recuperorno e saccheggiorno. Né in tante necessità e pericoli de' suoi provisione alcuna di Francia compariva: perché il re, fermatosi a Lione, attendeva a giostre a torniamenti e a piaceri, deposti i pensieri delle guerre; affermando sempre di volere di nuovo attendere alle cose d'Italia ma non ne dimostrando co' fatti memoria alcuna. E nondimeno, avendogli riportato Argentone da Vinegia che il senato viniziano aveva risposto non pretendere d'avere inimicizia seco, non avendo pigliate l'armi se non dopo l'occupazione di Novara, né per altro che per la difesa del duca di Milano loro collegato, e però giudicare essere superfluo il riconfermare l'amicizia antica con nuova pace, e che da altra parte gli aveva fatto offerire per terze persone di indurre Ferdinando a dargli di presente qualche somma di danari e costituirgli censo di cinquantamila ducati l'anno, lasciandogli per sicurtà in mano Taranto per certo tempo, il re, come se avesse il soccorso preparato e potente, ricusò di prestarvi orecchi: con tutto che, oltre alle difficoltà d'Italia, non fusse a' confini della Francia senza molestia; perché Ferdinando re di Spagna, venuto personalmente a Perpignano, aveva fatto correre delle sue genti in Linguadoca, facendo prede e danni assai e continuando con dimostrazione di maggiore moto; ed era morto nuovamente il delfino di Francia, unico figliuolo del re: tutte cose da farlo piú facilmente, se in lui fusse stata capacità di determinarsi alla pace o alla guerra, inclinare a qualche concordia.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.4

                                                  

                                                 Intimazione del re di Francia al castellano di Pisa d'osservare gli ordini suoi riguardo alla consegna della fortezza. Il castellano consegna la fortezza a' pisani. I pisani distruggono la fortezza e si rivolgono al re de' romani e a diversi stati d'Italia per aiuti. I pisani si pongono sotto la protezione de' veneziani. Il senato li riceve in protezione. Esaltazione in Milano della sapienza e dell'ingegno di Lodovico Sforza. Per opera di questo le fortezze di Serezana e Serezanello son consegnate a' genovesi anziché a' fiorentini.

                                                  

                                                 Nella fine di questo anno si terminorono le cose della cittadella di Pisa. Perché il re, intesa la ostinazione del castellano, vi aveva ultimatamente mandato, con comandamenti minatori e aspri non solo a lui ma a tutti i franzesi che vi erano dentro, Gemel, e non molto poi Bonò cognato del castellano, acciocché dimostratagli per persona confidente la facoltà che aveva di cancellare con l'ubbidienza gli errori commessi, e da altra parte i pregiudici ne' quali incorrerebbe perseverando nella disubbidienza, si disponesse piú facilmente a eseguire i comandamenti del re; e nondimeno egli, continuando nella contumacia medesima, disprezzò le parole di Gemel: il quale vi soprasedé pochissimi dí, per la commissione che aveva dal re d'andare con Cammillo Vitelli a Verginio. Né la venuta di Bonò, il quale ritardò molti dí perché per ordine del duca di Milano fu ritenuto a Serezana, rimosse il castellano dalla sua ostinazione; anzi tirato Bonò nella sentenza sua, si convenne co' pisani, interponendosi tra loro Luzio Malvezzi in nome del duca: per virtú della quale convenzione consegnò a' pisani, il primo dí dell'anno mille quattrocento novantasei, la cittadella di Pisa, ricevuti da loro per sé dodicimila ducati e ottomila per distribuire a' soldati che vi erano dentro; de' quali danari, non essendo i pisani potenti a pagargli, n'ebbono quattromila da' viniziani quattromila da i genovesi e lucchesi e quattromila dal duca di Milano: il quale nel tempo medesimo, governandosi con le sue arti, benché poco credute, trattava simulatamente di ristrignersi co' fiorentini in ferma amicizia e intelligenza, ed era già restato d'accordo con gli oratori loro delle condizioni. Non pareva per ragione alcuna verisimile che né Ligní né Entraghes né alcuno altro avessino usata tanta trasgressione senza volontà del re, essendo massime in non piccolo detrimento suo; perché la città di Pisa, se bene Entraghes avesse capitolato che restasse suddita della corona di Francia, rimaneva manifestamente a divozione de' confederati, e per non avere effetto la restituzione si privavano i franzesi che erano nel regno di Napoli del soccorso molto necessario delle genti e de' danari promessi nella capitolazione di Turino. E nondimeno i fiorentini, i quali con somma diligenza osservorono i progressi di tutte queste cose, ancoraché da principio molto ne dubitassino, restorono finalmente in credenza che tutto fusse proceduto contro alla volontà del re: cosa da parere incredibile a ciascuno che non sapesse quale fusse la sua natura e le condizioni dello ingegno e de' costumi suoi, e la piccola autorità che egli riteneva co' suoi medesimi, e quanto si ardisca contro a uno principe che sia diventato contennendo.

                                                 I pisani, entrati nella cittadella, la distrusseno subito popolarmente insino da' fondamenti; e conoscendo di non avere forze sufficienti a difendersi per se stessi, mandorono in un tempo medesimo imbasciadori al papa al re de' romani a' viniziani al duca di Milano a' genovesi a' sanesi e a' lucchesi, dimandando soccorso da tutti, ma con maggiore instanza da' viniziani e dal duca di Milano; nel quale aveano avuto prima inclinazione di trasferire liberamente il dominio di quella città, parendo loro d'essere costretti di non avere per fine principale tanto la conservazione della libertà quanto il fuggire la necessità di ritornare in potestà de' fiorentini, e sperando in lui piú che in alcuno altro, per avergli incitati alla rebellione, per la vicinità, e perché, non avendo dagli altri collegati riportato altro che speranze, avevano ottenuti da lui pronti sussidi. Ma il duca, benché ne ardesse di desiderio, era stato sospeso ad accettarla per non sdegnare gli altri confederati, nel consiglio de' quali si erano cominciate a trattare le cose de' pisani come causa comune; ora confortandogli a differire ora proponendo che la dedizione si facesse piú tosto palesemente in nome de' Sanseverini, per iscoprirla effettualmente per sé quando giudicasse il tempo opportuno: pure, partito che fu d'Italia il re di Francia, parendogli alleggerito il bisogno che aveva de' collegati, deliberò d'accettarla. Ma era ne' pisani cominciata a raffreddarsi questa inclinazione, per la speranza grande che già aveano di essere aiutati dal senato viniziano; ed era anche dimostrato loro da altri potere piú facilmente conservarsi con l'aiuto di molti che restrignendosi a uno solo, e proposta con questo modo maggiore speranza di mantenere la libertà: le quali considerazioni potendo piú poiché ebbono ottenuta la cittadella, si sforzavano di aiutarsi co' favori di ciascuno. Alla quale intenzione era molto opportuna la disposizione degli stati d'Italia: perché i genovesi per odio de' fiorentini, i sanesi e i lucchesi per odio e per timore, erano per porgergli sempre qualche sussidio, e per farlo piú ordinatamente trattavano di convenirsi con obligazioni determinate a questo effetto; e i viniziani e il duca di Milano, per la cupidità di insignorirsene, non erano per comportare che e' ritornassino sotto il dominio fiorentino; e giovava loro appresso al pontefice e gli oratori de' re di Spagna il desiderio della bassezza de' fiorentini, come troppo inclinati alle cose franzesi. Però uditi in ciascuno luogo benignamente, e ottenuta da Cesare per privilegio la confermazione della libertà, riportorono da Vinegia e da Milano quelle medesime promesse di conservargli in libertà che avevano prima, di comune consentimento, fatte loro, per aiutargli a liberarsi da' franzesi; e il pontefice, in nome e di consenso di tutti i potentati della lega, gli confortò, per un breve, al medesimo, promettendo che da tutti sarebbono difesi potentemente: ma il soccorso efficace fu da' viniziani e dal duca di Milano, questo augumentandovi le genti che prima v'aveva, quegli mandandovene non piccola quantità. Nella quale cosa se avessino tutt'a due continuato, non arebbono avuto i pisani necessità di aderire piú all'uno che all'altro di loro, donde si sarebbe forse piú facilmente conservata la concordia comune. Ma accadde presto che il duca, alienissimo sempre dallo spendere e inclinato da natura a procedere con simulazioni e con arte, né parendogli che per allora potesse pervenire in lui il dominio di Pisa, cominciando a somministrare parcamente le cose che dimandavano i pisani, dette loro occasione di inclinare piú l'animo a' viniziani, i quali senza risparmio alcuno gli provedevano. Onde procedette che, non molti mesi poi che i franzesi avevano lasciata la cittadella, il senato viniziano, pregatone con somma instanza da' pisani, deliberò di accettare la città di Pisa in protezione, piú tosto confortandonegli che dimostrando essergli molesto Lodovico Sforza, ma senza comunicarne con gli altri confederati, benché da principio gli avessino confortati a mandarvi gente: i quali, ne' tempi seguenti, allegorono essere restati disobligati dalla promessa fatta a' pisani d'aiutargli, poi che senza consenso loro avevano convenuto particolarmente co' viniziani.

                                                 È certissimo che né il desiderio di conservare ad altri la libertà, la quale nella propria patria tanto amano, né il rispetto della salute comune, come allora e dappoi con magnifiche parole predicorono, ma la cupidità sola di acquistare il dominio di Pisa, fu cagione che i viniziani facessino questa deliberazione; per la quale non dubitavano dovere in breve tempo adempiere il desiderio loro con volontà de' pisani medesimi, i quali eleggerebbono volentieri di stare sotto l'imperio veneto per assicurarsi in perpetuo di non avere a ritornare nella servitú de' fiorentini. E nondimeno questa cosa fu piú volte disputata nel senato lungamente, ritardandosi la inclinazione quasi comune per l'autorità di alcuni senatori de' piú vecchi e di maggiore riputazione, che molto efficacemente contradicevano; affermando che 'l farsi propria la difesa di Pisa era cosa piena di molte difficoltà, per essere quella città distante molto per terra da' loro confini e molto piú distante per mare, non potendo essi andarvi se non per ricetti e porti di altri, e con lunga circuizione di tutti a due i mari da' quali è cinta Italia; e però non si potere senza gravissime spese difendere dalle molestie continue de' fiorentini. Essere verissimo che quello acquisto sarebbe molto opportuno allo imperio veneto, ma doversi prima considerare le difficoltà del conservarlo, e molto piú le condizioni de' tempi presenti e che effetti potesse partorire questa deliberazione: perché essendo tutta Italia naturalmente sospettosa della grandezza loro, non potrebbe se non estremamente dispiacere a tutti uno augumento tale, il che facilmente partorirebbe maggiori e piú pericolosi accidenti che molti per avventura non pensavano; ingannandosi non mediocremente coloro che si persuadevano che gli altri potentati avessino oziosamente a comportare che allo imperio veneto, formidabile a tutti gli italiani, si aggiugnesse l'opportunità sí grande del dominio di Pisa; i quali se bene non erano potenti come per il passato a vietarlo con le forze proprie, avevano da altra parte, poi che agli oltramontani era stata insegnata la strada del passare in Italia, maggiore occasione di opporsi loro col ricorrere agli aiuti forestieri; a' quali non essere dubbio che prontamente ricorrerebbono e per odio e per timore, essendo vizio comune degli uomini volere piú tosto servire agli strani che cedere a' suoi medesimi. E come potersi credere che 'l duca di Milano, solito a permettere tanto di sé ora alla cupidità e alla speranza ora al timore, e movendolo al presente non meno lo sdegno che l'emulazione che ne' viniziani si trasferisse quella preda che avea con tante arti procurata per sé, non fusse piú presto per conturbare di nuovo Italia che sopportare che Pisa fusse occupata da loro? E benché con le parole e consigli suoi dimostrasse altrimenti, potersi molto agevolmente comprendere non essere questa la verità del cuore suo ma insidie, e per fini non sinceri artificiosi consigli: in compagnia del quale essere prudenza il sostentare quella città, se non per altro, per interrompere che i pisani non si dessino a lui; ma farsi propria questa causa e tirare addosso a sé tanta invidia e tanto peso non essere savio consiglio. Doversi considerare quanto fussino contrari questi pensieri dall'opere nelle quali si erano affaticati tanti mesi, e continuamente s'affaticavano; perché non altre cagioni avere mosso quel senato a pigliare l'armi, con tante spese e pericoli, che 'l desiderio d'assicurare sé e tutta Italia, da' barbari: a che avendo con sí gloriosi successi dato principio, e nondimeno essendo appena il re di Francia ripassato di là da' monti, e tenendosi ancora per cui con uno esercito potente la maggiore parte del regno di Napoli, che imprudenza che infamia sarebbe, quando era il tempo di stabilire la libertà e la sicurtà d'Italia, spargere semi di nuovi travagli! che potrebbeno facilitare al re di Francia il ritornarvi, o al re de' romani l'entrarvi, che forse, come era noto a ciascuno, non avea, per quello che pretendeva contro allo stato loro, maggiore e piú ardente desiderio di questo. Non essere la republica veneta in grado che fusse costretta ad abbracciare consigli pericolosi o farsi incontro alle occasioni immature, anzi niuno in Italia potere piú aspettare l'opportunità de' tempi e la maturità delle occasioni. Perché le deliberazioni precipitose o dubbie convenivano a chi aveva difficili o sinistre condizioni, o a chi stimolato dalla ambizione e dalla cupidità di fare illustre il nome suo temeva non gli mancasse il tempo, non a quella republica, che collocata in tanta potenza degnità e autorità era temuta e invidiata da tutto 'l resto d'Italia, e la quale essendo a rispetto de' re e degli altri príncipi quasi immortale e perpetua, ed essendo sempre il medesimo nome del senato viniziano, non aveva cagione di affrettare innanzi al tempo le sue deliberazioni; e appartenere piú alla sapienza e gravità di quel senato, considerando, come era proprio degli uomini veramente prudenti, i pericoli che si ascondevano sotto queste speranze e cupidità, e piú i fini che i princípi delle cose, rifiutati i consigli temerari, astenersi, cosí nell'occasione di Pisa come nell'altre che s'offerivano, da spaventare e irritare gli animi degli altri, almeno insino a tanto che Italia fusse meglio assicurata da' pericoli e sospetti degli oltramontani; e avvertire sopratutto di non dare causa che di nuovo vi entrassino, perché l'esperienza aveva dimostrato, in pochissimi mesi, che tutta Italia quando non era oppressa da nazioni straniere seguitava quasi sempre l'autorità del senato viniziano, ma quando erano barbari in Italia, in cambio di essere seguitato e temuto dagli altri, bisognava che insieme con gli altri temesse le forze forestiere.

                                                 Queste e simili ragioni erano, oltre alla cupidità del numero maggiore, superate ancora dalle persuasioni di Agostino Barbarico doge di quella città, la cui autorità era divenuta sí grande che, eccedendo la riverenza de' dogi passati, meritava piú tosto nome di potenza che di autorità; perché, oltre all'essere stato con felici successi in quella degnità molti anni e l'avere molte preclare doti e ornamenti, aveva, procedendo artificiosamente, conseguito che molti senatori che volentieri si opponevano a quegli che, per la fama d'essere prudenti per la lunga esperienza e per l'avere ottenute le degnità supreme, erano nella republica di maggiore estimazione, congiuntisi a lui, seguitavano comunemente, piú tosto a uso di setta che con gravità o integrità senatoria, i suoi consigli. Il quale, cupidissimo di lasciare, con l'ampliazione dello imperio, chiarissima la memoria del suo nome, né terminando l'appetito della gloria l'essersi sotto il suo principato l'isola di Cipri, mancati i re della famiglia Lusignana, aggiunta al dominio viniziano, era molto inclinato che si accettasse qualunque occasione di accrescere il loro stato. Però, opponendosi a coloro che nella causa pisana consigliavano il contrario, dimostrava con efficacissime parole quanto fusse utile e opportuno a quel senato l'acquistare Pisa, e quanto importante il reprimere con questo mezzo l'audacia de' fiorentini; per opera de' quali aveano, nella morte di Filippo Maria Visconte, perduta l'occasione di insignorirsi del ducato di Milano, e che per la prontezza de' danari avevano, nella guerra di Ferrara e nelle altre imprese, nociuto piú loro che alcun altro de' potentati maggiori. Ricordava quanto rare fussino sí belle occasioni, con quanta infamia si perdessino, e quanto pungenti stimoli di penitenza seguitassino chi non l'abbracciava: non essere le condizioni d'Italia tali che gli altri potentati potessino per se stessi opporsegli; e manco essere da temere che per questa o indegnazione o timore ricorressino al re di Francia, perché né il duca di Milano che l'aveva tanto ingiuriato ardirebbe mai di confidarsene, né muovere l'animo del pontefice questi pensieri, né potere piú il re di Napoli, quando bene avesse ricuperato il regno suo, udire il nome franzese. Né l'entrare loro in Pisa, benché molesto agli altri, essere accidente sí impetuoso, né tanto propinquo il pericolo, che per questo s'avessino gli altri potentati a precipitare a' rimedi che s'usano nell'ultime disperazioni; perché nelle infermità lente non si accelerano le medicine pericolose, pensando gli uomini non dovere mancare tempo a usarle: e se in questa debolezza e disunione degli altri d'Italia essi per timidità rifiutassino tanta occasione, aspettarsi vanamente di poterlo fare con maggiore sicurtà quando gli altri potentati fussino ritornati nel pristino vigore e assicurati dal timore degli oltramontani. Doversi, per rimedio del troppo timore, considerare che l'azioni mondane erano sottoposte tutte a molti pericoli, ma conoscere gli uomini savi che non sempre viene innanzi tutto quello di male che può accadere, perché, per beneficio o della fortuna o del caso, molti pericoli diventano vani, molti sfuggirsene con la prudenza e con la industria; e perciò non doversi confondere, come molti poco consideratori della proprietà de' nomi e della sostanza delle cose affermano, la timidità con la prudenza, né riputare savi coloro che, presupponendo per certi tutti i pericoli che sono dubbi e però temendo di tutti, regolano, come se tutti avessino certamente a succedere, le loro deliberazioni. Anzi non potersi in maniera alcuna chiamare prudenti o savi coloro che temono del futuro piú che non si debbe. Convenirsi molto piú questo nome e questa laude agli uomini animosi, imperocché conoscendo e considerando i pericoli, e per questo differenti da' temerari che non gli conoscono e non gli considerano, discorrono nondimeno quanto spesso gli uomini, ora per caso ora per virtú, si liberano da molte difficoltà: dunque, nel deliberare, non chiamando meno in consiglio la speranza che la viltà, né presupponendo per certi gli eventi incerti, non cosí facilmente come quegli altri l'occasioni utili e onorate rifiutano. Però, proponendosi innanzi agli occhi la debolezza e la disunione degli altri italiani, la potenza e la fortuna grande della republica viniziana, la magnanimità e gli esempli gloriosi de' padri loro, accettassino con franco animo la protezione de' pisani, per la quale perverrebbe loro effettualmente la signoria di quella città, uno senza dubbio degli scaglioni opportunissimi a salire alla monarchia di tutta Italia.

                                                 Ricevette adunque il senato per publico decreto in protezione i pisani, promettendo espressamente di difendere la loro libertà. La quale deliberazione non fu da principio considerata dal duca di Milano quanto sarebbe stato conveniente, perché non essendo escluso per questo di potervi tenere delle sue genti gli era grato avere compagni allo spendere, e disegnando per avarizia diminuire del numero de' soldati che vi teneva non riputava alieno dal beneficio suo che Pisa, in uno tempo medesimo, fusse cagione di spese gravi a' viniziani e a' fiorentini; persuadendosi oltre a ciò che i pisani, per la grandezza e per la vicinità dello stato suo e per la memoria dell'opere fatte da lui per la loro liberazione, gli fussino tanto dediti che avessino sempre a preporlo a tutti gli altri. Accresceva questi disegni e speranze fallaci la persuasione, nella quale poco ricordandosi della varietà delle cose umane si nutriva da se stesso, d'avere quasi sotto i piedi la fortuna, della quale affermava publicamente essere figliuolo: tanto era invanito de' prosperi successi, ed enfiato che per opera e per i consigli suoi fusse passato il re di Francia in Italia, attribuendo a sé l'essere suto privato Piero de' Medici, poco ossequente alla sua volontà, dello stato di Firenze, la ribellione de' pisani da' fiorentini, e l'essere stati cacciati del regno di Napoli gli Aragonesi suoi inimici; e che poi, avendo mutata sentenza, fusse per i consigli e autorità sua proceduta la congiunzione di tanti potentati contro a Carlo, la ritornata di Ferdinando nel regno di Napoli, e la partita del re di Francia d'Italia con condizioni indegne di tanta grandezza; e che insino nel capitano che aveva in custodia la cittadella di Pisa avesse potuto piú la sua o industria o autorità che la volontà e i comandamenti del proprio re. Con le quali regole misurando il futuro, e giudicando la prudenza e lo ingegno di tutti gli altri essere molto inferiore alla prudenza e ingegno suo, si prometteva d'avere a indirizzare sempre ad arbitrio suo le cose d'Italia e di potere con la sua industria circonvenire ciascuno: la quale vana impressione non dissimulandosi né per lui né per i suoi, né con parole né con dimostrazioni, anzi essendogli grato che cosí fusse creduto e detto da tutti, risonava Milano il dí e la notte di voci vane, e si celebrava per ciascuno, con versi latini e volgari e con publiche orazioni e adulazioni, la sapienza ammirabile di Lodovico Sforza, dalla quale dependeva la pace e la guerra d'Italia; esaltando insino al cielo il nome suo e il cognome del Moro: il quale cognome, impostogli insino da gioventú, perché era di colore bruno e per l'opinione che già si divulgava della sua astuzia, ritenne volentieri mentre durò lo imperio suo.

                                                 Né fu minore l'autorità del Moro nelle altre fortezze de' fiorentini che fusse stata in quella di Pisa, parendo che ad arbitrio suo si governassino in Italia non meno gli inimici che gli amici. Perché se bene il re udite le querele gravissime fattegli dagli imbasciadori de' fiorentini se ne fusse commosso gravemente, e perché almanco fussino restituite loro l'altre avesse mandato, con nuove commissioni e con lettere di Ligní, Ruberto di Veste suo cameriere, nondimeno, non essendo appresso agli altri in maggiore prezzo l'autorità sua che ella fusse appresso a se medesimo, fu tanta l'audacia di Ligní, il quale a molti affermava non procedere cosí senza volontà del re, che per le commissioni sue, aggiunte alla mala volontà de' castellani, furono poco stimati i comandamenti regi. Però il bastardo di Bienna, il quale per ordine e sotto nome di Ligní teneva la guardia di Serezana, poiché ebbe condottevi le genti e i commissari de' fiorentini per riceverne la possessione, la consegnò per prezzo di venticinquemila ducati a' genovesi; e il medesimo fece, ricevuta certa somma di danari, il castellano di Serezanello: essendone stato autore e mezzano il Moro. Il quale, opposto a' fiorentini, benché sotto nome de' genovesi, il Fracassa con cento cavalli e quattrocento fanti, impedí che e' non ricuperassino tutte le altre terre che avevano perdute in Lunigiana; delle quali, con l'occasione delle genti mandate per ricevere Serezana, avevano recuperato una parte. E poco dipoi Entraghes, sotto la custodia del quale erano anche le fortezze di Pietrasanta e di Mutrone, e in cui mano era similmente venuta Librafatta, ritenutasi questa, la quale non molti mesi poi concedette a' pisani, vendé quelle per ventiseimila ducati a' lucchesi, come precisamente ordinò il duca di Milano: il quale aveva prima desiderato che le conseguissino i genovesi, ma mutata poi sentenza elesse gratificarne i lucchesi, acciocché avessino cagione d'aiutare piú prontamente i pisani, e per congiugnersigli piú mediante questo beneficio. Le quali cose significate in Francia, con tutto che 'l re se ne dimostrasse alterato con Ligní e facesse sbandire Entraghes di tutto il reame, nondimeno ritornando Bonò, che oltre a essere stato partecipe de' danari de' pisani aveva trattato in Genova la vendita di Serezana, furono accettate le sue giustificazioni; e raccolto gratamente uno imbasciadore de' pisani, mandato insieme con lui a persuadere di volere essere sudditi fedeli della corona di Francia, e a prestare il giuramento della fedeltà: benché non molto poi, apparendo vane le sue commissioni, fusse licenziato. Né a Ligní fu imposta altra pena che, per segno di escluderlo dal favore regio, toltagli la facoltà di dormire, secondo che era consueto, nella camera del re, alla quale fu presto restituito; rimanendo in contumacia solamente, benché per non molto lungo tempo, Entraghes: potendo in queste cose, oltre alla natura del re e gli altri mezzi e favori, la persuasione, non falsa, che i fiorentini fussino necessitati a non si separare da lui; perché essendo manifesta per tutto la cupidità de' viniziani e del duca di Milano, si teneva per certo che e' non arebbono consentito che essi fussino reintegrati di Pisa, quando bene avessino acconsentito di collegarsi con loro alla difesa d'Italia. Alla quale cosa cercavano di indurgli cogli spaventi e co' minacci, non tentando però per allora altro contro a loro, ma bastandogli, con le genti che avevano messe in Pisa, mantenere viva quella città e non gli lasciare perdere interamente il contado.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.5

                                                  

                                                 Ferdinando d'Aragona minacciato dalla venuta di nuove truppe nemiche. Aiuti de' veneziani e degli altri confederati a Ferdinando. Nuove vicende della guerra. Equilibrio delle forze avversarie.

                                                  

                                                 Perché il pericolo del regno di Napoli da ogn'altra cura gli divertiva: atteso che Verginio, raccolti al Bagno a Rapolano e poi nel perugino, dove dimorò qualche giorno, molti soldati, andava con gli altri della casa Orsina verso lo Abruzzi; e al medesimo cammino andavano con la compagnia loro Cammillo e Pagolo Vitelli. A' quali denegando di dare vettovaglie il castello di Montelione fu da loro messo a sacco; da che spaventate l'altre terre della Chiesa donde avevano a passare, non si ritenendo per i gravi comandamenti fatti in contrario dal pontefice, concedevano loro per tutto alloggiamento e vettovaglie. Per il che, e molto piú perché si affermava che di Francia veniva per mare nuovo soccorso, parendo che le cose franzesi fussino per ricevere nel reame di Napoli grande augumento, né potendo Ferdinando, il quale era senza danari e con molte difficoltà, sostenere senza maggiori aiuti tanto peso, fu costretto di pensare per la difesa sua a nuovi rimedi.

                                                 Non avevano gli altri potentati da principio compreso Ferdinando nella loro confederazione; e ancora che, da poi che ebbe ricuperato Napoli, i re di Spagna avessino fatto instanza che e' vi fusse ammesso, i viniziani l'avevano recusato, persuadendosi le sue necessità essere mezzo atto al disegno che già facevano che in potestà loro pervenisse una parte di quel reame. Però Ferdinando, privato d'ogn'altra speranza, perché di Spagna non aspettava nuovi sussidi né volevano gli altri collegati sottomettersi a tanta spesa, convenne col senato viniziano, promettendo l'osservanza per ciascuna delle parti il pontefice e gli oratori de' re di Spagna in nome de' suoi re, che i viniziani mandassino nel regno in soccorso suo il marchese di Mantova loro capitano, con settecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e tremila fanti, e vi mantenessino l'armata di mare la quale allora vi avevano, ma con patto di potere rivocare questi sussidi ogni volta che per difesa propria n'avessino di bisogno; e gli prestassino per le necessità presenti quindicimila ducati: e perché fussino assicurati di recuperare le spese farebbono, che Ferdinando consegnasse loro Otranto, Brindisi e Trani, e consentisse ritenessino Monopoli e Pulignano che avevano ancora in mano, ma con condizione di dovergli restituire quando ne fussino rimborsati; ma non potessino allegare che, o per conto della guerra o della guardia o delle fortificazioni che vi facessino, passassino la somma di dugentomila ducati. I quali porti, per essere nel mare di sopra, e perciò molto opportuni a Vinegia, accrescevano assai la loro grandezza: la quale, non avendo piú chi se gli opponesse, né essendo uditi piú, dopo la protezione accettata de' pisani, i consigli di coloro che arebbono voluto che a' venti che sí prosperi si dimostravano le vele piú lentamente si spiegassino, cominciava a distendersi per tutte le parti d'Italia; perché, oltre alle cose del regno di Napoli e di Toscana, avevano di nuovo condotto Astore signore di Faenza e accettata la protezione del suo stato, il quale era molto accomodato a tenere in timore i fiorentini, la città di Bologna e tutto il resto di Romagna. A questi aiuti particolari de' viniziani si aggiugnevano altri aiuti de' confederati, perché il pontefice i viniziani e il duca di Milano mandavano in soccorso di Ferdinando alcune altre genti d'arme, soldate comunemente; benché il duca, non partitosi ancora in tutto dalla simulazione di non contrafare allo accordo di Vercelli, non ostante che per consiglio suo si indirizzasse la maggiore parte di queste cose, ricusando che nelle condotte o in altre apparenze si usasse il nome suo, si era convenuto di pagare occultamente ciascuno mese per il soccorso del reame diecimila ducati.

                                                 L'andata degli Orsini e de' Vitelli fermò le cose dello Abruzzi, le quali erano in manifesto movimento contro a' franzesi, essendosi già ribellato Teramo e Civita di Chieti, e dubitandosi che l'Aquila, città principale di quella regione, non facesse il medesimo; la quale avendo eglino confermata nella divozione franzese, e avendo recuperato per accordo Teramo e saccheggiata Giulianuova, quasi tutto l'Abruzzi seguitava il nome de' franzesi: in modo che le cose di Ferdinando parevano per tutto il regno in manifesta declinazione. Perché la Calavria quasi tutta era in potestà di Obigní, con tutto che la sua lunga infermità, per la quale s'era fermato in Ghiarace, desse comodità a Consalvo di tenere, con le genti spagnuole e con le forze di alcuni signori del paese, accesa la guerra in quella provincia; Gaeta con molte terre circostanti ubbidiva a' franzesi; il prefetto di Roma con la compagnia sua e con le forze del suo stato, recuperate le castella di Montecasino, infestava Terra di Lavoro da quella banda; e Mompensieri, con tutto che molto lo impedisse a usare le forze sue il mancamento de' danari, costrigneva Ferdinando a rinchiudersi ne' luoghi forti, oppressato dalla medesima necessità di danari e di molte altre provisioni, ma fondato interamente in sulla speranza del soccorso viniziano; il quale, perché la convenzione tra loro era stata fatta poco innanzi, non poteva essere cosí presto come sarebbe stato di bisogno. Tentò Mompensieri di occupare per trattato Benevento, ma Ferdinando avutone sospetto vi entrò subitamente con le sue genti. Accostoronsi i franzesi a Benevento, alloggiando al ponte a Finocchio, e avendo preso Fenezano, Apice e molte terre circostanti. Ne' quali luoghi mancando loro le vettovaglie, e approssimandosi il tempo di riscuotere la dogana delle pecore della Puglia, entrata delle piú importanti del reame di Napoli, perché era solita ascendere ciascuno anno a ottantamila ducati, che tutti si riscotevano nello spazio quasi di uno mese, Mompensieri, per privare gli inimici di questa comodità e non meno per l'estremo bisogno delle sue genti, si voltò al cammino di Puglia, della quale regione una parte si teneva per sé un'altra ne tenevano gli inimici; né molto dietro a lui Ferdinando, intento a impedire piú presto, con qualche arte o diligenza, i progressi degli inimici che a combattere, insino a tanto che i soccorsi suoi non arrivassino. Nel quale tempo giunse a Gaeta un'armata franzese di quindici legni grossi e sette minori, in sulla quale si erano imbarcati a Savona ottocento fanti tedeschi condotti delle terre del duca di Ghelleri, e quelli svizzeri e guasconi che prima il re aveva ordinato che fussino portati in sulle navi grosse che si doveano armare a Genova; alla quale armata l'armata di Ferdinando, che era sopra a Gaeta per impedire che non vi entrassino vettovaglie, essendo per mancamento di danari male proveduta delle cose necessarie, avea dato luogo: in modo che, essendo entrata nel porto sicuramente, i fanti posti in terra presono Itri e altre terre circostanti, e fatte per il paese molte prede speravano di ottenere Sessa, per opera di Giovambatista Caracciolo che prometteva di mettergli occultamente dentro; ma don Federigo, il quale essendosi ridotto con le genti che lo seguivano intorno a Taranto era poi stato mandato da Ferdinando al governo di Napoli, avutane notizia, entratovi subito, fece prigioni il vescovo e certi altri consci del trattato.

                                                 Ma in Puglia, ove era ridotta la somma della guerra, procedevano le cose con varia fortuna; perché l'uno e l'altro esercito, distribuitosi per l'asprezza del tempo per le terre, né alcuno in una sola, per la incapacità d'esse, ma in piú, attendeva con correrie e cavalcate grosse a predare i bestiami, usando piú tosto industria e celerità che virtú d'arme. In Foggia si era fermato Ferdinando con parte delle sue genti, messe le altre parte in Troia e parte in Nocera: ove intendendo che, tra San Severo, nella quale terra alloggiava con trecento uomini d'arme Verginio Orsino, venuto a unirsi con Mompensieri, e la terra di Porcina ove era Mariano Savello con cento uomini d'arme, si era ridotta quantità quasi infinita di pecore e di altre bestie, si mosse con secento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, e arrivato, all'alba del dí, innanzi a San Severo, fermatosi quivi con gli uomini d'arme per resistere a Verginio se si movesse, fece correre i cavalli leggieri, che allargandosi per tutto il paese predorno circa sessantamila bestie; ed essendo uscito fuora della Porcina Mariano Savello a molestargli lo costrinsono a ritirarsi, perduti trenta uomini d'arme. Questo danno e la vergogna ricevuta fu cagione che Mompensieri, raccolte tutte le sue genti, andò verso Foggia per recuperare la preda e l'onore perduto: dove, succedendogli piú di quello che da principio aveva disegnato, scontrò tra Nocera e Troia ottocento fanti tedeschi, venuti prima per mare a' soldi di Ferdinando, i quali partitisi da Troia, dove era il loro alloggiamento, andavano, piú per propria temerità che per comandamento del re, e contro al consiglio di Fabrizio Colonna che alloggiava medesimamente a Troia, per unirsi a Foggia con Ferdinando; i quali, non potendo salvarsi né con la fuga né con l'armi, né volendo arrendersi, furono combattendo tutti ammazzati, non lasciata perciò la vittoria senza sangue agli inimici. Presentossi poi Mompensieri con l'esercito ordinato a combattere innanzi a Foggia, ma non lasciando Ferdinando uscire fuori altri che i cavalli leggieri, andorono ad alloggiare al bosco della Incoronata, dove stati due dí con difficoltà di vettovaglie, e riavuta la maggiore parte delle bestie predate, di nuovo tornorno innanzi a Foggia, e alloggiati quivi una notte ritornorno il dí prossimo a San Severo, non avendo condotta tutta la preda riavuta, perché nel ritornarsene ne fu tolta loro una parte da' cavalli leggieri di Ferdinando. Cosí, disperdendosi le bestie, cavò l'una parte e l'altra delle entrate della dogana piccolissima utilità.

                                                 Andorno pochi dí poi i franzesi, cacciati dalla penuria delle vettovaglie, a Campobasso che si teneva per loro, dal quale luogo presono per forza la Coglionessa o vero Grigonisa, terra vicina, dove da' svizzeri, contro alla volontà de' capitani, fu usata crudeltà tale che se bene si empiesse il paese di spavento alienò da loro gli animi di molti: e Ferdinando, attendendo a difendere il meglio poteva le cose sue e aspettando la venuta del marchese di Mantova, riordinava intanto le genti, con sedicimila ducati che gli aveva mandati il pontefice e con quegli che aveva potuti raccorre da sé. Nel qual tempo si unirono con Mompensieri i svizzeri, e gli altri fanti che erano venuti per mare a Gaeta; e da altra parte il marchese di Mantua, entrato nel regno e venuto a Capua per la via di San Germano, avendo per il cammino prese, parte per forza parte per accordo, molte terre benché di piccola importanza, si uní, circa il principio di giugno, col re a Nocera; dove don Cesare d'Aragona condusse le genti che erano state intorno a Taranto. Cosí ridotte in luoghi vicini quasi tutte le forze de' franzesi e di Ferdinando, superiori le franzesi di fanti l'italiane di cavalli, pareva molto dubbio l'evento delle cose, non si potendo discernere a quale delle due parti fusse per inclinare la vittoria.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.6

                                                  

                                                 Carlo VIII, anche per sollecitazioni di altri, torna a pensare alle cose d'Italia. Deliberazioni del consiglio regio e preparativi per una nuova spedizione in Italia. Timori e azione politica di Lodovico Sforza. Indugi frapposti alla spedizione dal cardinale di San Malò. Scarsi aiuti mandati da Carlo in Italia.

                                                  

                                                 Nella quale incertitudine mentre che si sta, il re di Francia, da altra parte, trattava delle provisioni di soccorrere i suoi. Perché, come ebbe intesa la perdita delle castella di Napoli, e che per non essere state restituite le fortezze a' fiorentini mancavano alle sue genti i danari e i soccorsi loro, svegliato dalla negligenza con la quale pareva fusse ritornato in Francia, cominciò di nuovo a voltare l'animo alle cose d'Italia; e per essere piú espedito da tutto quello che lo potesse ritenere, e per potere, dimostrandosi grato de' benefici ricevuti ne' suoi pericoli, ricorrere di nuovo piú confidentemente all'aiuto celeste, andò in poste a Torsi e poi a Parigi per sodisfare a' voti fatti da sé, il dí della giornata di Fornuovo, a san Martino e a san Dionigi; donde ritornato con la medesima diligenza a Lione, si riscaldava ogni dí piú in questo pensiero; al quale era per se stesso inclinatissimo, attribuendosi a grandissima gloria l'avere acquistato un reame tale, e primo di tutti i re di Francia dopo molti secoli avere personalmente rinnovata in Italia la memoria dell'armi e delle vittorie franzesi; e persuadendosi che le difficoltà le quali aveva avute nel ritornare da Napoli fussino procedute piú da' disordini suoi che dalla potenza o dalla virtú degl'italiani, il nome de' quali non era piú, nelle cose della guerra, appresso a franzesi in alcuna estimazione. E l'accendevano ancora gli stimoli degli oratori de' fiorentini, del cardinale di San Piero in Vincola e di Gian Iacopo da Triulzi, ritornato per questa cagione alla corte; in compagnia de' quali facevano la medesima instanza Vitellozzo e Carlo Orsino e dipoi il conte di Montorio, mandato per il medesimo effetto da' baroni che seguitavano le parti franzesi nel regno di Napoli; e ultimatamente vi andò da Gaeta per mare il siniscalco di Belcari, il quale dimostrava speranza grande di vittoria in caso che senza piú dilazione si mandasse il soccorso e, per contrario, che le cose di quel reame essendo abbandonate non potevano sostenersi lungamente; e oltre a questi una parte de' signori grandi, stati prima alieni dalle imprese d'Italia, confortavano il medesimo, per la ignominia che del lasciare perdere l'acquisto fatto risultava alla corona di Francia, e molto piú per il danno che tanta nobiltà franzese si perdesse nel reame di Napoli. Né si raffrenavano questi concetti per i movimenti i quali si dimostravano per i re di Spagna dalla parte di Perpignano, perché essendo apparati maggiori in nome che in fatti, e le forze di quegli re piú potenti alla difesa de' regni propri che all'offesa de' regni d'altri, si giudicava sufficiente rimedio l'avere mandate a Nerbona e nell'altre terre che sono alle frontiere di Spagna molte genti d'arme, non senza compagnia sufficiente di svizzeri.

                                                 Però convocati dal re nel consiglio tutti i signori e tutte le persone notabili che si trovavano nella corte, fu deliberato che con piú celerità che si potesse tornasse in Asti il Triulzio con titolo di luogotenente regio e con lui ottocento lancie dumila svizzeri e dumila guasconi, e che poco dopo lui passasse i monti con altre genti il duca di Orliens, e finalmente con tutte l'altre provisioni la persona del re; il quale passando potente, non si dubitava che aderirebbono alla volontà sua gli stati del duca di Savoia e de' marchesi di Monferrato e di Saluzzo, opportuni molto a fare la guerra contro al ducato di Milano; e che, dal cantone di Berna infuora, il quale aveva promesso al duca di Milano di non lo offendere, tutti i cantoni de' svizzeri andrebbono agli stipendi suoi con grandissima prontezza. Le quali deliberazioni procederono con maggiore consentimento per l'ardore del re; il quale, innanzi che entrasse nel consiglio, avea pregato strettamente il duca di Borbone che con efficaci parole dimostrasse essere necessario il fare potentissimamente la guerra, e poi nel consiglio, ribattuto con la medesima caldezza l'ammiraglio, il quale seguitato da pochi aveva, non tanto contradicendo direttamente quanto proponendo molte difficoltà, cercato di intepidire per indiretto gli animi degli altri: e affermava il re palesemente che in potestà sua non era di fare altra deliberazione, perché la volontà di Dio lo costrigneva a ritornare in Italia personalmente. Fu deliberato nel medesimo consiglio che trenta navi, tra le quali una caracca grossissima detta la Normanda e un'altra caracca grossa della religione di Rodi, passassino dalla costa del mare Oceano ne' porti di Provenza, dove si armassino trenta tra galee sottili e galeoni, per mettere con sí grossa armata nel reame di Napoli soccorso grandissimo di gente di vettovaglie di munizioni e di danari; e nondimeno che, non aspettando che questa fusse in ordine, si mandasse subito qualche navile carico di gente e di vettovaglie. Oltre a tutte le quali cose fu ordinato che a Milano andasse Rigault maestro di casa del re: perché il duca, benché non avesse dato le due caracche né permesso l'armarsi per il re a Genova, e restituito solamente i legni presi a Rapalle ma non le dodici galee state tenute nel porto di Genova, si era sforzato di scusarsi con la inubbidienza de' genovesi, e tenuto continuamente con varie pratiche uomini suoi appresso al re; al quale aveva di nuovo mandato Antonio Maria Palavicino, affermando che era disposto a osservare l'accordo fatto, dimandando gli fusse prorogato il tempo di pagare al duca d'Orliens i cinquantamila ducati promessi in quella concordia. Dalle quali arti benché riportasse piccolo frutto, essendo notissima al re la mente sua, sí per l'altre azioni sí perché, per lettere e istruzioni sue che erano state intercette, era venuto a luce essere da lui stimolati continuamente il re de' romani e i re di Spagna a muovere la guerra in Francia, nondimeno, sperandosi che forse il timore lo indurrebbe a quello da che era aliena la volontà, fu commesso a Rigault che, non disputando della inosservanza passata, gli significasse in potestà sua essere di cancellare la memoria dell'offese cominciando a osservare, rendendo le galee concedendo le caracche e permettendo l'armare a Genova; e gli soggiugnesse la deliberazione della passata del re, la quale sarebbe con gravissimo suo danno se, mentre gli era offerta la facoltà, non ritornasse a quella amicizia la quale il re si persuadeva che egli piú tosto per sospetti vani che per altra cagione avesse imprudentemente disprezzata.

                                                 Già la fama degli apparati che si facevano, trapassata in Italia, aveva dato molta alterazione a' collegati; e sopra tutti Lodovico Sforza, essendo il primo esposto all'impeto degl'inimici, si ritrovava in grandissima ansietà, inteso massime che, dopo la partita di Rigault dalla corte, il re con parole e dimostrazioni molto brusche aveva licenziato tutti gli agenti suoi. Per il che, rivoltandosi nella mente la grandezza del pericolo, e che tutti i travagli della guerra si riducevano nel suo stato, si sarebbe facilmente accomodato alle richieste del re se non l'avesse ritenuto il sospetto, per la coscienza dell'offese fattegli, per le quali era generata da ogni parte tale diffidenza, che e' fusse piú difficile trovare mezzo di sicurtà per ciascuno che convenire negli articoli delle differenze; perché togliendosi alla sicurezza dell'uno quel che si consentisse per assicurare l'altro, niuno voleva rimettere nella fede di altri quel che l'altro recusava di rimettere nella sua. Cosí stringendolo la necessità a prendere quel consiglio che gli era piú molesto, per cercare almeno d'allungare i pericoli, continuò con Rigault l'arti medesime che aveva usate insino allora; affermando molto efficacemente che farebbe ubbidire i genovesi ogni volta che il re desse nella città di Avignone sicurtà sufficiente per la restituzione delle navi, e che ciascuna delle parti promettesse, dando ostaggi per l'osservanza, che cose nuove in pregiudicio dell'altra non si tentassino: la quale pratica, continuata molti dí, ebbe finalmente, per varie cavillazioni e difficoltà che si interponevano, l'effetto medesimo che avevano avuto l'altre. Ma Lodovico non consumando questo tempo inutilmente mandò, mentre pendevano questi ragionamenti, uomini al re de' romani per indurlo a passare in Italia con l'aiuto suo e de' viniziani; e a Vinegia mandò imbasciadori a ricercargli che per provedere al pericolo comune concorressino a questa spesa, e che mandassino verso Alessandria i sussidi che fussino necessari per opporsi a' franzesi: il che da loro fu offerto di fare prontissimamente. Ma non mostrorno già la medesima facilità nella passata del re de' romani, poco amico alla loro republica, rispetto a quello possedevano in terra ferma appartenente allo imperio e alla casa di Austria; né si contentavano che a spese comuni si conducesse in Italia un esercito che in tutto dependesse da Lodovico: nondimeno, continuando Lodovico di farne instanza perché, oltre all'altre ragioni che lo movevano, le forze sole de' viniziani nello stato di Milano gli erano sospette, dubitando quel senato che egli, il quale sapevano essere grandemente impaurito, non si precipitasse a riconciliarsi col re di Francia, prestò finalmente il suo consentimento, e mandò per la cagione medesima a Cesare imbasciadori. Temevano ancora i viniziani e il duca che i fiorentini, come il re avesse passato i monti, non facessino nella riviera di Genova qualche movimento; però ricercorono Giovanni Bentivogli che con trecento uomini d'arme, co' quali era condotto da' confederati, assaltasse da' confini di Bologna i fiorentini, promettendogli che nel tempo medesimo sarebbono molestati da' sanesi e dalle genti che erano in Pisa, e offerendogli di obligarsi, in caso che occupasse la città di Pistoia, a conservarvelo: di che benché il Bentivoglio desse loro speranza, nondimeno, avendone l'animo molto lontano, e temendo non poco della venuta de' franzesi, mandò occultamente al re a scusarsi delle cose passate per la necessità del sito nel quale è posta Bologna, e a offerire di volere dependere da lui, e di astenersi per rispetto suo da molestare i fiorentini.

                                                 Ma non bastava la volontà del re, benché ardentissima, a mettere a esecuzione le cose deliberate, con tutto che l'onore proprio e i pericoli del regno di Napoli ricercassino prestissima espedizione; perché il cardinale di San Malò, in cui mano era oltre al maneggio delle pecunie la somma di tutto il governo, benché apertamente non contradicesse, differiva tanto, con allungare i pagamenti necessari, tutte l'espedizioni che provisione alcuna a effetto non si conduceva; mosso, o per parergli migliore mezzo a perpetuare la sua grandezza, non facendo spesa alcuna che non appartenesse o all'utilità presente o a' piaceri del re, non avere cagione di proporre ogni dí difficoltà di cose e necessità di danari, o perché, come molti dubitavano, corrotto da premi e da speranze, avesse secreta intelligenza o col pontefice o col duca di Milano: né a questo rimediavano i conforti e i comandamenti del re, pieni qualche volta di sdegno e di parole ingiuriose, perché conoscendo quale fusse la sua natura gli sodisfaceva con promesse contrarie agli effetti. E cosí, cominciata a ritardarsi per opera sua la esecuzione delle cose disegnate, si turborono quasi in tutto per uno accidente inaspettato che sopravenne. Imperocché alla fine del mese di maggio il re, quando ciascuno aspettava che non molto poi si movesse per passare in Italia, deliberò di andare a Parigi: allegando che, secondo il costume degli antichi re, voleva innanzi si partisse di Francia pigliare licenza con le cerimonie consuete da san Dionigi e, nel passare da Torsi, da san Martino; e che avendo disposto di passare in Italia abbondantissimo di danari, per non si ridurre nelle necessità nelle quali era stato l'anno dinanzi, bisognava che inducesse l'altre città di Francia ad accomodarlo di danari con l'esempio della città di Parigi, dalla quale non otterrebbe essere accomodato se non vi andasse personalmente; e che approssimandosi in là, farebbe piú sollecite a cavalcare le genti d'arme che si movevano di Normandia e di Piccardia: affermando che innanzi alla partita sua spedirebbe il duca d'Orliens, e che in termine di un mese sarebbe ritornato a Lione. Ma si credette che la piú vera e principale cagione fusse l'essere egli innamorato in camera della reina, la quale poco avanti era andata a Torsi con la sua corte. Né potettono i consigli de' suoi né gli stretti prieghi, e quasi lagrime, degl'italiani rimuoverlo da questa deliberazione; i quali gli dimostravano quanto fusse dannoso il perdere il tempo opportuno alla guerra, massime in tanta necessità de' suoi nel regno napoletano, e quanto fusse perniciosa la fama che volerebbe per Italia che e' si fusse allontanato quando doveva approssimarsi: variarsi per ogni piccolo accidente, per ogni leggiero romore, la riputazione delle imprese; ed essere molto difficile il ricuperarla quando è cominciata a declinare, quando bene si facessino poi effetti molto maggiori di quegli che gli uomini prima si erano promessi. I quali ricordi disprezzando, ed essendo soprastato un mese di piú a Lione, si mosse a quel cammino, non avendo espedito altrimenti il duca d'Orliens ma solo mandato in Asti con non molta gente il Triulzio, non tanto per le preparazioni della guerra quanto per stabilire nella sua divozione Filippo monsignore, succeduto nuovamente, per la morte del piccolo duca suo nipote, nella ducea di Savoia. Né si fece, innanzi alla partita sua, per le cose del regno altra provisione che di mandare con vettovaglie sei navi a Gaeta, dando speranza che presto le seguiterebbe l'armata grossa; e di provedere per mezzo di mercatanti a Firenze, benché tardi, quarantamila ducati per fargli pagare a Mompensieri: perché i svizzeri e i tedeschi avevano protestato che, non essendo pagati innanzi alla fine di giugno, passerebbono nel campo degli inimici. Rimasono a Lione il duca d'Orliens, il cardinale di San Malò e tutto il consiglio, con commissione di accelerare le provisioni: alle quali se il cardinale era proceduto lentamente in presenza del re, procedeva molto piú lentamente essendo assente.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.7

                                                  

                                                 Nuove vicende della guerra nel reame di Napoli. Declina di nuovo la fortuna de' francesi. Vittoria di Consalvo in Calabria. Resa di Atella. Continui progressi degli aragonesi. Morte di Ferdinando e successione di Federico. Continuano gli indugi nella spedizione francese in Italia.

                                                  

                                                 Ma non potevano le cose del reame di Napoli aspettare la tardità di questi rimedi, essendo ridotta la guerra in termine, per gli eserciti congregati da ogni banda e per molte difficoltà che da tutt'a due le parti si scoprivano, che era necessario che senza piú dilazione si terminasse la guerra. Aveva Ferdinando, poiché ebbe unite seco le genti viniziane, presa la terra di Castelfranco; dove si unirno seco con dugento uomini d'arme Giovanni Sforza signore di Pesero e Giovanni da Gonzaga fratello del marchese di Mantova condottieri de' confederati, in modo che in tutto erano nel campo suo mille dugento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e quattromila fanti; e i franzesi nel tempo medesimo si erano accampati a Circello, propinquo a dieci miglia a Benevento. Appresso a' quali accostatosi Ferdinando a quattro miglia, si pose a campo a Frangete di Monteforte; il quale luogo perché era bene proveduto non presono al primo assalto. Levoronsi i franzesi da Circello per soccorrerlo ma non arrivorono a tempo, essendosi per timore del secondo assalto arrenduti, lasciata la terra a discrezione, i fanti tedeschi che lo guardavano: la qual cosa parendo avversa a' franzesi sarebbe stata cagione della loro felicità se, o per imprudenza o per mala fortuna, non avessino perduta tanta occasione. Perché (cosí confessa quasi ciascuno) arebbeno quel dí facilmente rotto l'esercito inimico: perché, occupata la maggiore parte nel sacco di Frangete, non attendeva a' comandamenti de' capitani; i quali, vedendo che già tra i franzesi e l'alloggiamento loro non era in mezzo altro che una valle, si sforzavano con grandissima diligenza di mettergli insieme. Conobbe Mompensieri sí grande occasione, conobbela Verginio Orsino; de' quali l'uno comandava, l'altro, dimostrando la vittoria certa, pieno di lagrime pregava, che non tardassino a passare la valle mentre che nell'alloggiamento italiano era piena ogni cosa di confusione e di tumulto, mentre che i soldati, attendendo parte a rubare parte a portare via le cose rubate, non udivano l'imperio de' capitani. Ma Persí, uno de' principali, dopo Mompensieri, dell'esercito, mosso o da leggierezza giovenile o, come piú si credette, da invidia della sua gloria, allegando il disavvantaggio del passare la valle salendo sotto i piedi quasi degli inimici, e il sito forte del loro alloggiamento, e confortando scopertamente i soldati a non combattere, impedí cosí salutifero consiglio; e si crede che istigati da lui, i svizzeri e i tedeschi, domandando danari, tumultuorono. Però Mompensieri, costretto a ritirarsi, ritornò intorno a Circelle; ove dandosi il dí seguente la battaglia, Camillo Vitelli, mentre che allato alle mura fa egregiamente l'ufficio di capitano e di soldato, percosso nella testa da uno sasso terminò la vita sua: per il quale caso i franzesi, non espugnato Circelle, ne levorono il campo e se ne andorno verso Arriano; disposti nondimeno i capitani a tentare, se n'avessino avuta occasione, la fortuna della giornata. Al quale consiglio era in tutto contrario il consiglio dell'esercito aragonese; stando massime fermi, specialmente i proveditori viniziani, in questa sentenza perché, sapendo che gli inimici cominciavano a patire di vettovaglie e che erano senza danari, e vedendosi procedere in lungo i soccorsi di Francia, speravano che giornalmente avessino a crescere i sinistri e le incomodità loro, e che in altre parti del regno avessino medesimamente ad avere maggiori molestie, perché nello Abruzzi, dove nuovamente Annibale figliuolo naturale del signore di Camerino, andato volontariamente a servire Ferdinando con quattrocento cavalli a spese proprie, avea rotto il marchese di Bitonto, si aspettava con trecento uomini d'arme il duca di Urbino, condotto di nuovo da' collegati: la fortuna de' quali e le condizioni maggiori egli seguitando, aveva abbandonato la condotta de' fiorentini, alla quale era obligato ancora per piú di uno anno, scusandosi che per essere feudatario della Chiesa non poteva non ubbidire a' comandamenti del pontefice. Però, andando Graziano di Guerra per opporsegli, assaltato nel piano di Sermona dal conte di Celano e dal conte di Popoli con trecento cavalli e con tremila fanti paesani, gli messe in fuga.

                                                 Ma con la perdita della occasione del vincere intorno a Frangete era cominciata a declinare manifestamente la fortuna de' franzesi, concorrendo in uno tempo medesimo quasi infinite difficoltà; inopia estrema di danari carestia di vettovaglie odio de' popoli discordia de' capitani disubbidienza de' soldati e la partita di molti dal campo, parte per necessità parte per volontà, perché né del reame aveano avuto facoltà di cavare se non pochi danari, né di Francia erano stati di quantità alcuna proveduti, essendo stata troppo tarda la provisione de' quarantamila ducati mandati a Firenze; di maniera non potevano, per questo e per la vicinità di molte terre sostentate dalla propinquità degli inimici, fare i provedimenti necessari per avere le vettovaglie; e l'esercito era pieno di disordini, essendo indeboliti gli animi de' soldati, e i svizzeri e i tedeschi dimandando ogni dí tumultuosamente di essere pagati, e nocendo molto a tutte le deliberazioni la contradizione continua di Persí a Mompensieri. Costrinse la necessità il principe di Bisignano a partirsi con le sue genti, per andare alla guardia del proprio stato, per timore delle genti di Consalvo; e molti de' soldati del paese alla giornata si sfilavano, perché oltre al non avere ricevuti mai danari erano maltrattati da' franzesi e da' svizzeri nella divisione delle prede e nella distribuzione delle vettovaglie. Per le quali difficoltà, e sopratutto per la strettezza del vivere, era l'esercito franzese necessitato ritirarsi a poco a poco di uno luogo in uno altro, il che diminuiva grandemente la riputazione sua appresso a' popoli; e benché gli inimici gli andassino continuamente seguitando non perciò speravano d'avere facoltà di combattere, come sopratutto Mompensieri e Verginio desideravano, perché per non essere sforzati a combattere alloggiavano sempre in luoghi forti e ove non potessino essere impedite le sue comodità. Co' quali andando a unirsi Filippo Rosso condottiere de' viniziani, con la sua compagnia di cento uomini d'arme, era stato rotto dalle genti del prefetto di Roma. Finalmente, essendo i franzesi alloggiati sotto Montecalvoli e Casalarbore presso ad Arriano, Ferdinando, accostatosi loro per tanto spazio quanto è il tiro di una balestra ma alloggiando sempre in sito forte, gli ridusse in necessità grande di vettovaglie, e gli privò medesimamente dell'uso dell'acqua. Donde deliberati di andarsene in Puglia, dove speravano avere comodità di vettovaglie, e temendo, nella propinquità degl'inimici, delle difficoltà che facilmente sopravengono agli eserciti che si ritirano, levatisi tacitamente al principio della notte, camminorono, innanzi si fermassino, venticinque miglia. Seguitògli la mattina Ferdinando, ma disperandosi di potere aggiugnergli si accampò a Giesualdo; la quale terra, avendo già sostenuto quattordici mesi l'assedio di... famosissimo capitano, fu da lui espugnata in uno giorno solo: cosa che ingannò molto i franzesi, perché avendo deliberato di fermarsi in Venosa, terra forte di sito e molto abbondante di vettovaglie, la credenza che ebbono che Ferdinando non cosí presto pigliasse Giesualdo fu cagione che perdessino tempo in Atella, la quale terra aveano presa e la saccheggiavano; onde innanzi partissino, sopragiunti da Ferdinando, che preso Giesualdo accelerò il cammino, benché battessino una parte de' suoi trascorsa innanzi al campo, non potendo ridursi a Venosa vicina a otto miglia, si fermorono in Atella, con intenzione di aspettare se da parte alcuna venisse soccorso, e sperando, per la vicinità di Venosa e di molte altre terre circostanti che si tenevano per loro, poterne ricevere comodità di vettovaglie. Accampovvisi subito Ferdinando, intento tutto a impedirle loro, poiché vedeva presente la speranza di ottenere la vittoria senza pericolo e senza sangue, e perciò attendendo a fare all'intorno molte tagliate e a insignorirsi delle terre vicine. Ma le difficoltà de' franzesi gli rendevano ogni dí le cose piú facili. Perché i fanti tedeschi, non avendo, poi che furono levati del suo paese, ricevuto pagamento se non per due mesi, ed essendo passati tutti i termini invano aspettati, se n'andorono nel campo di Ferdinando; onde crescendo a lui la facoltà di infestare piú gli inimici e di piú distendervisi, vi si conducevano piú difficilmente le vettovaglie che venivano da Venosa e dall'altre terre circostanti. Né in Atella era tanto da vivere che bastasse a sostentare molti dí i franzesi, perché vi era piccola quantità di grano; e avendo gli aragonesi rovinato uno molino, il quale era in sul fiume che corre propinquo alle mura, pativano anche di macinato: non si alleggerendo le incomodità presenti per la speranza del futuro; poi che da parte alcuna non appariva segno di soccorso.

                                                 Ma l'avversità che sopravenne in Calavria messe in ultima ruina le cose loro. Perché avendo Consalvo, per l'occasione della infermità lunga di Obigní per la quale molti de' suoi erano andati all'esercito di Mompensieri, preso piú terre in quella provincia, si era ultimatamente, con gli spagnuoli e con molti soldati del paese, fermato a Castrovillole; dove avendo notizia che a Laino erano il conte di Meleto e Alberigo da San Severino e molti altri baroni con numero di gente quasi pari, e che ingrossando continuamente, disegnavano, come fussino piú potenti, d'andare ad assaltarlo, deliberò di prevenire, sperando di opprimergli incauti per la sicurtà che avevano dal sito del loro alloggiamento, perché il castello di Laino è posto in sul fiume [Sapri] che divide la Calavria dal Principato, e il borgo è dall'altra parte del fiume; nel quale alloggiando erano guardati dal castello contro a chi venisse ad assaltargli per il cammino diritto, e tra Laino e Castrovillole erano Murano e alcun'altre terre del principe di Bisignano che si tenevano per loro. Ma Consalvo, con diverso consiglio, partí con tutta la sua gente da Castrovillole poco innanzi alla notte, e uscendo della strada diritta prese il cammino largo, ancora che molto piú lungo e difficile perché s'avevano a passare alcune montagne, e condotto in sul fiume avviò la fanteria alla via del ponte che è tra 'l castello di Laino e il borgo; il qual ponte, per la medesima sicurtà, era guardato negligentemente: egli con la cavalleria, passato il fiume a guazzo due miglia piú alto, arrivò innanzi dí al borgo, e trovato gli inimici senza scolte e senza guardia gli ruppe in uno momento, pigliando undici baroni e quasi tutta la gente, perché fuggendo inverso il castello percotevano nella fanteria che aveva già occupato il passo del ponte. Da questa onorata opera, la quale fu la prima delle vittorie che ebbe Consalvo nel regno di Napoli, ricuperate alcune altre terre di Calavria, e augumentate le forze, andò con seimila uomini a unirsi col campo che era intorno ad Atella; al quale erano arrivati, pochi dí innanzi, cento uomini d'arme del duca di Candia soldato de' confederati, perché egli col resto della compagnia era rimasto in terra di Roma.

                                                 Per la venuta di Consalvo si strinse piú l'assedio, perché Atella fu circondata da tre parti, ponendosi da una le genti aragonesi dall'altra le viniziane e dalla terza le spagnuole; donde s'impedivano le vettovaglie che vi venivano, correndo massime per tutto gli stradiotti de' viniziani, i quali presono molti franzesi che ne conducevano da Venosa; né avevano piú quegli di dentro facoltà di andare al saccomanno se non a ore straordinarie e con grosse scorte: il che anche fu tolto del tutto loro, perché essendo uscito in sul mezzo dí Paolo Vitelli con cento uomini d'arme, tirato dal marchese di Mantova in uno aguato, ne perdé parte. Cosí perdute tutte le comodità, si ridussono in ultimo in tanta strettezza che non potevano, eziandio con le scorte, usare per i cavalli l'acqua del fiume, e dentro mancava l'acqua necessaria alle persone; in modo che, vinti da tanti mali e abbandonati d'ogni speranza, avendo già sopportato l'assedio trentadue dí, necessitati ad arrendersi, impetrato salvocondotto, mandorono Persí, Bartolomeo d'Alviano e uno de' capitani svizzeri a parlare a Ferdinando, col quale venneno in queste convenzioni: che l'offese si levassino tra le parti per trenta dí, non potendo nel detto tempo partirsi d'Atella alcuno degli assediati; a' quali fusse dí per dí conceduta dagli aragonesi la vettovaglia necessaria: fusse lecito a Mompensieri significare al suo re l'accordo fatto, e non avendo soccorso fra trenta dí, lasciasse Atella e tutto quello che nel regno di Napoli era in sua potestà, con tutte l'artiglierie che v'erano dentro, salve le persone e le robe de' soldati; con le quali fusse libero a ciascuno di andarsene, o per terra o per mare, in Francia; e agli Orsini e agli altri soldati italiani, di ritornarsene con le sue genti dove volessino fuora del regno: che a' baroni e agli altri che avevano seguitata la parte del re di Francia fusse, in caso che andassino fra quindici dí a Ferdinando, rimessa ogni pena e restituito tutto quello possedevano quando si principiò la guerra. Il quale termine poi che fu passato, Mompensieri con tutti i franzesi e con molti svizzeri e gli Orsini furno condotti a Castello a mare di Stabbia: disputandosi se Mompensieri, come luogotenente generale del re e superiore a tutti gli altri, fusse obligato a fare restituire, come allegava Ferdinando, tutto quello che nel reame di Napoli si possedeva in nome del re di Francia; perché Mompensieri pretendeva non essere tenuto se non a quello che era in potestà sua di restituire, e che l'autorità sua non si distendeva a comandare a' capitani e a' castellani, che nella Calavria nell'Abruzzi a Gaeta, e in molte altre terre e fortezze, l'aveano ricevute in custodia dal re e non da lui. Sopra che poi che si fu disputato alcuni dí, furono condotti a Baia, simulando Ferdinando di volergli lasciare partire: dove, sotto colore che ancora non fussino a ordine i legni per imbarcargli, furno sopratenuti tanto, che sparsi tra Baia e Pozzuolo, per la mala aria e per molte incomodità, cominciorno a infermarsi; talmente che e Mompensieri morí, e del resto della sua gente, che erano piú di cinquemila uomini, ne mancorno tanti che appena se ne condusseno cinquecento salvi in Francia. Verginio e Paolo Orsini, a requisizione del pontefice già deliberato di tôrre gli stati a quella famiglia, furono rinchiusi in Castello dell'Uovo, e le loro genti, guidate da Giangiordano figliuolo di Verginio e da Bartolomeo d'Alviano, furono per ordine del medesimo svaligiate nell'Abruzzi dal duca d'Urbino; e Giangiordano e l'Alviano, i quali prima per comandamento di Ferdinando, lasciate le genti nel cammino, erano ritornati a Napoli, furno incarcerati; benché l'Alviano, o per industria sua o per secreto consentimento di Ferdinando, da cui era stato molto amato, ebbe facoltà di fuggirsi.

                                                 Dopo la vittoria di Atella Ferdinando, dividendo per la recuperazione del resto del regno l'esercito in varie parti, mandò a campo a Gaeta don Federico e Prospero Colonna; e nell'Abruzzi, ove già l'Aquila era ritornata alla divozione aragonese, Fabrizio Colonna: egli, presa per forza la rocca di Sanseverino, e fatto per terrore degli altri decapitare il castellano e il figliuolo, andò a campo a Salerno; ove il principe di Bisignano, andato a parlargli, accordò per sé per il principe di Salerno per il conte di Capaccio e per alcuni altri baroni, con condizione di possedere i loro stati ma che Ferdinando, per sua sicurtà, tenesse per certo tempo le fortezze: il quale accordo fatto, andorno a Napoli. Né fu nello Abruzzi fatta molta difesa, perché Graziano di Guerra, che vi era con ottocento cavalli, non avendo piú facoltà di difendersi, si ridusse a Gaeta. In Calavria, della quale la maggiore parte si teneva per i franzesi, ritornò Consalvo; dove benché da Obigní fusse fatta qualche resistenza, nondimeno, ultimatamente ridotto in Groppoli, ed essendo perdute Manfredonia e Cosenza, stata prima saccheggiata da' franzesi, privato d'ogni speranza, consentí di lasciare tutta la Calavria, e gli fu conceduto il ritornarsene per terra in Francia. Certo è che molte di queste cose procederono per la negligenza e imprudenza de' franzesi: perché Manfredonia, ancora che fusse forte e posta in paese abbondante da potersi facilmente provedere di vettovaglie, e che 'l re v'avesse lasciato al governo Gabriello da Montefalcone, avuto da lui in concetto d'uomo valoroso, nondimeno dopo breve assedio fu costretto ad arrendersi per la fame; altri, potendosi difendere, si arrenderono o per viltà o per l'animo debole a sostenere le incomodità degli assedi; alcuni castellani, trovate le rocche bene provedute, avevano nel principio vendute le vettovaglie, in modo che presentandosi gli inimici erano necessitati ad arrendersi subito. Dalle quali cose perdé, nel reame di Napoli, il nome franzese quella riputazione che gli aveva data la virtú di colui che lasciato da Giovanni d'Angiò a guardia di Castel dell'Uovo, lo tenne dopo la vittoria di Ferdinando molti anni, insino a tanto che l'essere consumati del tutto gli alimenti lo costrinse ad arrendersi.

                                                 Cosí non mancando quasi altro alla recuperazione di tutto il regno che Taranto e Gaeta e alcune terre tenute da Carlo de Sanguine, e il monte di Santo Angelo, donde don Giuliano dell'Oreno infestava con somma laude i paesi circostanti, Ferdinando, collocato in somma gloria e in speranza grande di avere a essere pari alla grandezza de' suoi maggiori, andato a Somma, terra posta nelle radici del monte Vesevo, dove era la reina sua moglie, o per le fatiche passate o per disordini nuovi infermò sí gravemente che, portato già quasi senza speranza di salute a Napoli, finí fra pochi dí la vita sua, non finito l'anno dalla morte d'Alfonso suo padre: lasciato, per la vittoria acquistata, e per la nobiltà dell'animo e per molte virtú regie le quali in lui non mediocremente risplendevano, non solo in tutto il suo regno ma eziandio per tutta Italia, grandissima opinione del suo valore. Morí senza figliuoli, e però gli succedette don Federigo suo zio, avendo quel reame veduto in tre anni cinque re. Al quale, venuto subito dall'assedio di Gaeta, la reina vecchia sua matrigna consegnò Castelnuovo; benché per molti si dubitasse non lo volesse ritenere per Ferdinando re di Spagna, suo fratello. Nel quale accidente si dimostrò egregia verso Federigo non solo la volontà del popolo di Napoli ma eziandio de' príncipi di Salerno e di Bisignano e del conte di Capaccio; i quali in Napoli furono i primi che chiamorono il nome suo e, allo scendere suo di nave, i primi che, fattisigli incontro, lo salutorno come re: contenti molto piú di lui che del re morto, per la mansuetudine del suo ingegno, e perché già era nata non piccola suspizione che Ferdinando avesse in animo, come prima fussino stabilite meglio le cose sue, di perseguitare ardentemente tutti coloro che in modo alcuno si fussino dimostrati fautori de' franzesi. Donde Federigo, per riconciliarsegli interamente, restituí a tutti liberamente le loro fortezze.

                                                 Ma non riscaldorono già questi disordini, succeduti con tanta ignominia e tanto danno, né l'animo né gli apparati del re di Francia. Il quale, non si sapendo sviluppare da' piaceri, soprastette quattro mesi a ritornare a Lione; e benché da lui fusse molto spesso in questo tempo fatta instanza a' suoi che erano rimasti a Lione che si sollecitassino le provisioni marittime e terrestri, e che già il duca d'Orliens si fusse preparato a partirsi, nondimeno, per le medesime arti del cardinale di San Malò, le genti d'arme, espedite tardi de' pagamenti, camminavano verso Italia lentamente, e l'armata, che s'aveva a unire a Marsilia, sí oziosamente si ordinava che i collegati ebbono tempo di mandare, prima a Villafranca, porto amplissimo appresso a Nizza, dipoi insino alle Pomiche di Marsilia, un'armata, la quale a spese comuni avevano unita in Genova, per impedire che legni franzesi non andassino nel reame, e alla tardità causata principalmente dal cardinale di San Malò si dubitava non si aggiugnesse qualche cagione piú occulta, nutrita con molta diligenza e arte nel petto del re da quegli i quali, per varie cagioni, si sforzavano di rimuovere l'animo suo dalle cose d'Italia. Perché si sospettava che per se medesimo avesse dispiacere della grandezza del duca d'Orliens, al quale per la vittoria sarebbe pervenuto il ducato di Milano; e gli era oltre a questo persuaso non essere sicuro il partirsi di Francia se prima non facesse qualche composizione co' re di Spagna: i quali, dimostrando desiderio di riconciliarsi seco, gli avevano mandato imbasciadori a proporre tregua e altri modi di concordia. Consigliavanlo ancora molti che aspettasse il parto propinquo della reina, perché non conveniva alla prudenza sua, né all'amore che e' doveva portare a' popoli suoi, esporre la persona propria a tanti pericoli se prima non avesse un figliuolo al quale appartenesse tanta successione: ragione che diventò piú potente per il parto della reina, perché fra pochi dí morí il figliuolo maschio che di lei era nato. Cosí, parte per la negligenza e poco consiglio del re, parte per le difficoltà artificiosamente interposte da altri, si differirno tanto le provisioni che ne seguitò la distruzione delle sue genti con la perdita totale del regno di Napoli: e sarebbe succeduto il medesimo de' confederati suoi d'Italia se per se stessi non avessino costantemente difese le cose proprie.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.8

                                                  

                                                 Colloqui e accordi di Lodovico Sforza con Massimiliano Cesare. Massimiliano Cesare in Italia. Fedeltà de' fiorentini ai francesi e consigli politici del Savonarola. Vicende della guerra de' fiorentini per riconquistare Pisa. Morte di Piero Capponi. Maggiori aiuti de' veneziani a Pisa e minore fiducia de' pisani in Lodovico Sforza.

                                                  

                                                 È detto di sopra che, per paura degli apparati franzesi, si era cominciato, piú per sodisfazione di Lodovico Sforza che de' viniziani, a trattare di fare passare Massimiliano Cesare in Italia; col quale, mentre durava il medesimo timore, fu convenuto che i viniziani e Lodovico gli dessino per tre mesi ventimila ducati ciascuno mese perché menasse seco un certo numero di cavalli e di fanti. La quale convenzione come fu fatta, Lodovico, accompagnato dagli oratori de' collegati, andò a Manzo, luogo di là dalle Alpi a' confini di Germania, ad abboccarsi seco; nel quale luogo avendo parlato lungamente, ed essendosi il medesimo dí ritirato di qua dall'Alpi a Bormi, terra del ducato di Milano, Cesare il dí seguente, sotto specie di andare cacciando, si trasferí nel luogo medesimo: ne' quali colloqui di due dí avendo Cesare stabilito con loro il tempo e il modo del passare, se ne tornò in Germania per sollecitare l'esecuzione di quel che s'era deliberato. Ma raffreddando intanto il romore delle preparazioni franzesi, in modo che a questo effetto non pareva piú necessario il farlo passare, Lodovico disegnò di servirsi, ad ambizione, di quello che prima aveva procurato per propria sicurtà. Però continuando di sollecitarlo a passare, né volendo i viniziani concorrere a promettergli trentamila ducati, i quali dimandava oltre a' primi sessantamila che gli erano stati promessi, si obligò egli a questa dimanda; tanto che finalmente passò Cesare in Italia, poco innanzi alla morte di Ferdinando: la quale intesa quando era già vicino a Milano, ebbe qualche pensiero di favorire che il regno di Napoli pervenisse in Giovanni figliuolo unico del re di Spagna, suo genero; ma essendogli dimostrato da Lodovico che questo, essendo molesto a tutta Italia, disunirebbe i confederati e conseguentemente faciliterebbe i disegni del re di Francia, non solo se ne astenne ma favorí con lettere la successione di Federigo.

                                                 La passata sua in Italia fu con pochissimo numero di gente, dando voce che prestamente passerebbe insino alla somma la quale era obligato di menare; e si fermò a Vigevano. Ove in presenza di Lodovico e del cardinale di Santa Croce, mandatogli legato dal pontefice, e degli altri oratori de' collegati, fu ragionato che andasse nel Piemonte, per pigliare Asti e separare dal re di Francia il duca di Savoia e il marchese di Monferrato: i quali, come membri dependenti dallo imperio, ricercò che andassino a parlare seco in qualche terra del Piemonte; ma essendo le forze sue da disprezzare né corrispondendo gli effetti all'autorità del nome imperiale, né alcuno di essi consentí di andare a lui, né dell'impresa d'Asti v'era speranza che avesse a succedere prosperamente. Fece similmente instanza che andasse a lui il duca di Ferrara, il quale sotto nome di feudatario dello imperio possedeva le città di Modona e di Reggio, offerendogli per sicurtà sua la fede di Lodovico suo genero; il quale ricusò di andarvi, allegando cosí convenire all'onore suo, per tenere ancora in diposito il castelletto di Genova. Però Lodovico, il quale stimolato dalla sua antica cupidità e dal dispiacere che Pisa, tanto desiderata da sé, cadesse con pericolo di tutta Italia in potestà de' viniziani desiderava sommamente di interrompere questa cosa, confortò Cesare che andasse a quella città; persuadendosi, con discorso pieno di fallacie, che i fiorentini, impotenti a resistere a lui e alle forze de' collegati, si rimoverebbono per necessità dalla congiunzione del re di Francia, né potrebbono ricusare di dare arbitrio a Cesare che, se non per concordia almeno per via di giustizia, terminasse le differenze loro co' pisani; e che in sua mano si deponesse Pisa con tutto il contado: alle quali cose egli sperava con l'autorità sua di fare consentire i pisani, e che i viniziani, concorrendovi massime la volontà di tutti gli altri confederati, non si opporrebbono a una conclusione la quale si dimostrava con tanto beneficio comune e onestissima per sua natura. Perché, essendo Pisa anticamente terra di imperio, pareva non appartenesse ad altri che a Cesare la cognizione delle ragioni di quegli che vi pretendevano; e deposta Pisa in mano di Cesare, sperava Lodovico, con danari e con l'autorità che aveva con lui, che facilmente glien'avesse a concedere. Questo parere, proposto nel consiglio sotto colore che, poi che al presente cessava il timore della guerra [de'] franzesi, era da usare la venuta di Cesare per indurre i fiorentini a unirsi con gli altri confederati contro al re di Francia, piaceva a Cesare, malcontento che la venuta sua in Italia non partorisse effetto alcuno, e perché, avendo, per i concetti suoi vastissimi, e non meno per i suoi disordini e smisurata prodigalità, sempre necessità di danari, sperava che Pisa avesse a essere instrumento di cavarne, o da' fiorentini o da altri, grandissima quantità. Ma fu medesimamente approvato da tutti i confederati, come cosa molto utile alla sicurtà d'Italia; non contradicendo anche l'oratore veneto, perché quello senato se bene si accorgeva a che fine tendessino i pensieri di Lodovico si confidava facilmente d'interrompergli, e sperava che per l'andata di Cesare potesse facilmente acquistarsi a' pisani il porto di Livorno, il quale unito a Pisa pareva che privasse d'ogni speranza i fiorentini di potere giammai piú ricuperare quella città.

                                                 Avevano prima i collegati fatto molte volte instanza a' fiorentini che s'unissino con loro e, nel tempo che piú temevano della passata de' franzesi, data speranza di obligarsi a operare talmente che Pisa ritornasse sotto il dominio loro; ma essendo sospetta a' fiorentini la cupidità de' viniziani e di Lodovico, né volendo leggiermente alienarsi dal re di Francia, non avevano udito con molta prontezza queste offerte. Movevagli inoltre la speranza d'avere, per la passata del re, a recuperare Pietrasanta e Serezana, le quali terre non potevano sperare di ottenere da' confederati; e molto piú perché, facendo giudicio piú da' meriti loro e da quello che tolleravano per il re che dalla sua natura o consuetudine, si persuadevano d'avere a conseguire, per mezzo della sua vittoria, non solo Pisa ma quasi tutto il resto di Toscana: nutriti in questa persuasione dalle parole di Ieronimo Savonarola, il quale continuamente prediceva molte felicità e ampliazioni di imperio, destinate dopo molti travagli a quella republica, e grandissimi mali che accadrebbono alla corte romana e a tutti gli altri potentati d'Italia; al quale benché non mancassino de' contradittori, nondimeno dalla maggiore parte del popolo gli era prestata fede grande, e molti de' principali cittadini, chi per bontà chi per ambizione chi per timore, gli aderivano. In modo che essendo i fiorentini disposti a continuare nell'amicizia del re di Francia, non pareva senza ragione che i confederati tentassino di ridurgli con la forza a quello da che con la volontà erano alieni; e si giudicava impresa non difficile, perché erano odiati da tutti i vicini, non potevano sperare aiuto dal re di Francia, conciossiacosaché avendo abbandonato la salute de' suoi medesimi era credibile avesse a dimenticarsi quella degli altri, e le spese gravissime con la diminuzione dell'entrate, sopportate già tre anni, gli avevano talmente esausti che non si credeva potessino tollerare lunghi travagli.

                                                 Perché e questo anno medesimo avevano continuata sempre la guerra co' pisani: nella quale erano stati vari gli accidenti, e memorabili piú per la perizia dell'armi dimostrata in molte opere militari da ciascuna delle parti, e per l'ostinazione con la quale le cose si trattavano, che per la grandezza degli eserciti o per la qualità de' luoghi intorno a quali si combatteva, che erano castella ignobili e in sé di piccolo momento. Perché avendo le genti de' fiorentini, poco poi che la cittadella fu data a' pisani e innanzi che a Pisa sopravenissino gli aiuti de' viniziani, preso il castello di Buti e accampatisi a Calci, e innanzi lo pigliassino, per assicurarsi delle vettovaglie, cominciato a fabricare un bastione in sul monte della Dolorosa, furono i fanti che vi erano a guardia, per la negligenza loro, rotti dalle genti de' pisani; e poco dipoi, essendo Francesco Secco con molti cavalli alloggiato nel borgo di Buti, acciocché le vettovaglie potessino andare sicuramente a Ercole Bentivogli, il quale con la fanteria de' fiorentini era intorno alla piccola fortezza del monte della Verrucola, assaltato allo improviso da fanti usciti di Pisa, ed essendo in luogo difficile a adoperarsi i cavalli, ne perdé non piccola parte. Per i quali successi parendo piú prospere le cose de' pisani, e con speranza di procedere a maggiore prosperità perché già cominciavano ad arrivare gli aiuti de' viniziani, Ercole Bentivoglio che alloggiava nel castello di Bientina, inteso che Giampaolo Manfrone condottiere de' viniziani era con la prima parte delle genti loro arrivato a Vico Pisano, vicino a Bientina a due miglia, simulando timore, e ora uscendo in campagna ora, come si scoprivano le genti venete, ritirandosi in Bientina, poiché lo vedde ripieno d'audacia e di inconsiderazione, lo condusse con grande astuzia un giorno in un aguato, dove lo ruppe con perdita della piú parte de' fanti e de' cavalli, seguitandolo insino alle mura di Vico Pisano: ma perché la vittoria non fusse del tutto lieta, quando volleno ritirarsi, Francesco Secco, il quale quella mattina si era unito con Ercole, fu morto da uno archibuso. Sopravenneno poi l'altre genti de' viniziani, tra' quali erano ottocento stradiotti e con loro Giustiniano Morosino proveditore; per il che essendo i pisani molto superiori, Ercole Bentivoglio, peritissimo del sito del paese, non volendo mettersi in pericolo né abbandonare del tutto la campagna, alloggiò in luogo fortissimo tra il castello di Pontadera e il fiume dell'Era, con l'opportunità del quale alloggiamento raffrenò assai l'impeto degli inimici: i quali in tutto questo tempo non presono altro che il castello di Buti, ottenendolo a discrezione; e attendevano a predare tutto il paese co' loro stradiotti, de' quali trecento che avevano fatta una cavalcata in Val d'Era furono rotti da genti mandate loro dietro da Ercole. Ed erano i fiorentini nel tempo medesimo infestati da' sanesi; i quali, presa l'occasione de' travagli che avevano nel contado di Pisa e stimolati da' collegati, mandorono il signore di Piombino e Giovanni Savello a campo al bastione del ponte a Valiano; ma intendendo sopravenire il soccorso guidato da Renuccio da Marciano si ritirorono tumultuosamente, lasciatavi parte dell'artiglierie. Per il che i fiorentini, assicurate le cose da quella banda, voltorono Renuccio con le genti in quel di Pisa; in modo che, essendo quasi pareggiate le forze, si ridusse la guerra alle castella delle colline: le quali per essere affezionate a' pisani, procedevano piú tosto le cose con disavvantaggio de' fiorentini. E accadde anche che i pisani, entrati per trattato nel castello di Ponte di Sacco, svaligiorono una compagnia d'uomini d'arme e feceno prigione Lodovico da Marciano, benché per sospetto delle genti de' fiorentini che erano vicine subito l'abbandonassino; e per impadronirsi meglio delle colline, importanti molto per le vettovaglie che di quivi a Pisa si conducevano e perché interrompevano a' fiorentini il commercio del porto di Livorno, fortificorono la piú parte di quelle castella; delle quali fu, per accidente estraordinario, nobilitato Soiano. Perché, essendovi andato il campo de' fiorentini con intenzione d'espugnarlo il dí medesimo, e però avendo fatto guastare tutti i passi del fiume della Cascina e messo in sulla riva le genti d'arme in battaglia, acciocché gli inimici non potessino soccorrerlo, mentre che Piero Capponi, commissario de' fiorentini, procura di fare piantare l'artiglieria, percosso da uno degli archibusi della terra nella testa, perdé la vita subitamente; fine, per la ignobilità del luogo e per la piccola importanza della cosa, non conveniente alla sua virtú. Donde il campo si levò senza tentare altro; essendo anche in questo tempo stati necessitati i fiorentini a mandare gente in Lunigiana, al soccorso della rocca della Verrucola, molestata da' marchesi Malaspini con l'aiuto de' genovesi; donde facilmente gli scacciorono.

                                                 Erano state per qualche mese potenti le forze de' pisani, perché oltre agli uomini della terra e del contado, diventati già per lungo uso bellicosi, v'avevano i viniziani e il duca di Milano molti cavalli e fanti; benché assai piú numero fussino quegli de' viniziani. Cominciorono poi a diminuirsi, per non avere i debiti pagamenti, le genti tenutevi dal duca; e però i viniziani vi mandorono di nuovo cento uomini d'arme e sei galee sottili con provisione di frumenti, non perdonando a spesa alcuna necessaria alla sicurtà di quella città e opportuna a tirare a sé la benivolenza de' pisani. I quali si alienavano ogni dí piú con gli animi dalla divozione del duca di Milano, infastiditi e dalla strettezza sua allo spendere e provedergli e dalle sue variazioni; perché ora si dimostrava ardente nelle cose loro ora procedeva freddamente; talmente che, quasi insospettiti della sua volontà, attribuivano a lui che 'l Bentivoglio, secondo la commissione avuta da' collegati, non fusse cavalcato a' danni de' fiorentini; massime che si sapeva essergli mancato da lui in grande parte dei pagamenti, o per avarizia o perché gli fussino grate le molestie ma non la totale oppressione de' fiorentini. Per le quali operazioni aveva gittato da se medesimo nelle cose di Pisa i fondamenti contrari alla propria intenzione, e al fine per il quale era autore che si deliberasse nel consiglio de' collegati l'andata di Cesare a Pisa.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.9

                                                  

                                                 Massimiliano Cesare chiede a' fiorentini che sia a lui rimessa la questione con Pisa. I veneziani mandano nuove genti a Pisa. Risposta de' fiorentini a Massimiliano Cesare. Colloquio de' legati fiorentini col duca di Milano.

                                                  

                                                 La quale poi che fu deliberata, Cesare mandò due imbasciadori a Firenze, a significare che alla impresa, quale aveva in animo di fare potentemente contro agl'infedeli, aveva giudicato necessario passare in Italia per pacificarla e assicurarla; e per questa cagione ricercava i fiorentini che si dichiarassino insieme con gli altri confederati alla difensione d'Italia, e quando pure avessino l'animo diverso da questo, che manifestassino la loro intenzione. Volere, per la cagione medesima e per quello che si apparteneva alla autorità imperiale, conoscere le differenze tra loro e i pisani; e però desiderare che insino a tanto fussino udite da lui le ragioni di tutti si sospendessino l'offese, come era certo che farebbono i pisani, a' quali aveva comandato il medesimo; affermando con umane parole essere parato ad amministrare giustizia indifferentemente. Alla quale esposizione, commendato con parole onorevoli il proposito di Cesare e dimostrato d'avere fede grandissima nella sua bontà, fu risposto che per imbasciadori, quali subito gli manderebbono, farebbono intendere particolarmente la mente loro.

                                                 Ma in questo tempo i viniziani, per non lasciare a Cesare o al duca di Milano facoltà di occupare Pisa, vi mandorono di nuovo, con consentimento de' pisani, Annibale Bentivoglio loro condottiere con cento cinquanta uomini d'arme, e poco poi nuovi stradiotti e mille fanti; significando al duca avervegli mandati perché la loro republica, amatrice delle città libere, voleva aiutare i pisani alla recuperazione del contado loro: con l'aiuto delle quali genti i pisani finirono di recuperare quasi tutte le castella delle colline. Per i quali benefici e per la prontezza de' viniziani nelle dimande loro che erano molte, ora di gente ora di danari ora di vettovaglie e di munizioni, era la volontà de' pisani diventata tanto conforme a quella de' viniziani che, trasportata in essi quella confidenza e amore che e' solevano avere nel duca di Milano, desideravano sommamente che quel senato continuasse nella difesa loro; e nondimeno sollecitavano la venuta di Cesare, sperando, con le genti che erano in Pisa e con quelle menava seco, avere facilmente a conseguire Livorno.

                                                 Da altra parte i fiorentini, che oltre all'altre difficoltà erano stretti in quel tempo da gravissima carestia, stavano con molto timore, vedendosi soli a resistere alla potenza di tanti príncipi; perché in Italia non era alcuno che gli aiutasse, e per lettere degli oratori che avevano in Francia erano stati certificati che dal re, al quale avevano fatto grandissima instanza d'essere in tanti pericoli soccorsi almeno di qualche quantità di danari, non si poteva sperare sussidio alcuno. Solamente cessava loro la molestia di Piero de' Medici, perché il consiglio de' collegati fu di non usare in questo moto il nome e il favore suo, avendo per esperienza compreso che i fiorentini per questo timore diventavano piú uniti alla conservazione della propria libertà. Né cessava Lodovico Sforza, sotto specie d'essere geloso della salute loro e malcontento della grandezza de' viniziani, di confortargli efficacemente a rimettersi in Cesare, dimostrando molti pericoli e spaventi, e proponendo non restare altro modo a trarre di Pisa i viniziani; donde seguiterebbe subito la loro reintegrazione, come cosa molto necessaria alla quiete d'Italia, e desiderata per questa cagione da' re di Spagna e da tutti gli altri confederati. E nondimeno i fiorentini, né mossi dalla vanità di queste insidiose lusinghe né spaventati da tante difficoltà e pericoli, deliberorono di non fare con Cesare dichiarazione alcuna, né rimettere in suo arbitrio le ragioni loro se prima non erano restituiti alla possessione di Pisa; perché non confidavano né della volontà né della autorità sua, essendo noto che non avendo da se stesso né forze né danari procedeva come pareva al duca di Milano, né si vedendo ne' viniziani disposizione o necessità di lasciare Pisa: però con franco animo attendevano a fortificare e provedere quanto potevano Livorno, e a ristrignere insieme tutte le genti loro nel contado di Pisa. E nondimeno, per non si dimostrare alieni dalla concordia e sforzarsi di mitigare l'animo di Cesare, gli mandorono imbasciadori, essendo egli già arrivato a Genova, per rispondere a quello che avevano esposto gli oratori suoi in Firenze: la commissione de' quali fu di persuadergli non essere necessario di procedere ad alcuna dichiarazione, perché per la divozione che si portava al nome suo si poteva promettere della republica fiorentina tutto quello desiderasse; ricordare che al proposito santissimo che egli aveva di quietare Italia niuna cosa era piú opportuna che il restituire subito Pisa a' fiorentini, perché da questa radice nascevano tutte le loro deliberazioni che erano moleste a lui e a' confederati, e perché Pisa era cagione che qualcun altro aspirasse allo imperio d'Italia e perciò procurasse di tenerla in continui travagli; con le quali parole, benché non si esprimesse altrimenti, erano significati i viniziani; né convenire alla sua giustizia che chi era stato spogliato violentemente fusse, contro alla disposizione delle leggi imperiali, astretto a fare compromesso delle sue ragioni se prima non era reintegrato nella sua possessione: conchiudendo che, avendo da lui questo principio, la republica fiorentina, non gli restando causa di desiderare altro che la pace con ciascuno, farebbe tutte quelle dichiarazioni che a lui paressino convenienti; e confidandosi pienamente della sua giustizia rimetterebbe in lui prontamente la cognizione delle sue ragioni. La quale risposta non sodisfacendo a Cesare, desideroso che innanzi a ogni cosa entrassino nella lega, ricevendo la parola da lui della reintegrazione alla possessione di Pisa infra uno termine conveniente, non ebbono, dopo molte discussioni, da lui altra risposta se non che, in sul molo di Genova, quando già entrava in mare, rispose loro che dal legato del pontefice che era in Genova intenderebbono la sua volontà: dal quale rimessi al duca, che da Tortona, insino dove aveva accompagnato Cesare, era ritornato a Milano, andorono a quella città. E avendo già dimandata l'udienza, sopragiunseno commissioni da Firenze, dove si era saputo il progresso della loro legazione, che senza cercare altra risposta se ne tornassino alla patria: però venuti all'ora deputata innanzi al duca, convertirono la dimanda della risposta in significargli che, ritornandosene a Firenze, non avevano ricusato d'allungare il cammino per fargli, innanzi che uscissino del suo stato, riverenza, come conveniva all'amicizia che teneva seco la loro republica.

                                                 Aveva il duca, presupponendo che avessino a dimandargli la ­risposta, per ostentare, come faceva spesso, la sua eloquenza e le sue arti e prendersi piacere dell'altrui calamità, convocato tutti gli oratori de' collegati e tutto il suo consiglio; ma restando maravigliato e confuso di questa proposta, né potendo celare il suo dispiacere, gli dimandò che risposta avessino avuta da Cesare. Alla quale dimanda, replicando essi che, secondo le leggi della loro republica, non potevano con altro principe trattare le sue commissioni che con quello al quale erano destinati imbasciadori, rispose tutto turbato: - Dunque, se noi vi daremo la risposta per la quale sappiamo che Cesare v'ha rimesso a noi, non la vorrete udire? - Soggiunseno non essere vietato loro l'udire né potere vietare che altri non parlasse. Replicò: - Siamo contenti di darvela, ma non si può fare questo se non esponete a noi quello che esponeste a lui. - E replicando gli oratori non potere, per le medesime ragioni, ed essere superfluo, perché era necessario che Cesare avesse significata la loro proposta a quegli a' quali aveva commesso che in nome suo facessino la risposta, non potendo egli né con parole né con gesti dissimulare lo sdegno, licenziò e gli oratori e tutti coloro che aveva congregati: ricevuta in sé parte di quella derisione che aveva voluta fare agli altri.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.10

                                                  

                                                 Felice sbarco a Livorno di granaglie per i fiorentini. Contraria fortuna di Massimiliano Cesare nel tentativo d'impadronirsi di Livorno. Massimiliano Cesare con pochissima dignità del nome imperiale abbandona la Toscana e l'Italia e si ritira in Germania. Lodovico Sforza ritira le sue genti da Pisa.

                                                  

                                                 Cesare in questo mezzo, partito del porto di Genova con sei galee che i viniziani avevano nel mare di Pisa, e con molti legni de' genovesi abbondanti d'artiglieria ma non d'uomini da combattere, perché non v'erano altro che mille fanti tedeschi, navigò insino al porto della Spezie e di quivi andò per terra a Pisa; ove raccolti cinquecento cavalli e mille altri fanti tedeschi che avevano fatto il cammino per terra, deliberò con queste genti e con quelle del duca di Milano e con parte delle viniziane andare a campo a Livorno, con intenzione di assaltarlo per terra e per mare, e che l'altre genti de' viniziani andassino a Ponte di Sacco, acciocché il campo de' fiorentini, che non era molto potente, non potesse o molestare i pisani o dare soccorso a Livorno. Ma niuna impresa spaventava i fiorentini meno che quella di Livorno, proveduto sufficientemente di gente e d'artiglierie, e ove aspettavano di dí in dí soccorso di Provenza; perché non molto prima, per accrescere le forze sue con la riputazione nella quale allora erano in Italia l'armi de' franzesi, avevano con consentimento del re di Francia soldato monsignore di Albigion, uno de' suoi capitani con cento lancie e mille fanti tra svizzeri e guasconi, acciocché per mare passassino a Livorno, in su certe navi che per ordine loro erano state caricate di grani per sollevare la carestia che ne era per tutto il dominio fiorentino. La quale deliberazione, fatta con altri pensieri e ad altri fini che per difendersi da Cesare, se bene ebbe molte difficoltà, perché e Albigion con la sua compagnia già condotto alle navi ricusò d'entrare in mare e de' fanti se ne imbarcorono solamente seicento, nondimeno fu tanto favorita dalla fortuna che né maggiore né piú opportuna provisione si sarebbe potuta desiderare; conciossiacosaché, il dí medesimo che uno commissario pisano, mandato innanzi da Cesare con molti fanti e cavalli per fare ponti e spianare le vie per l'esercito che aveva a venire, si presentò a Livorno, i legni di Provenza, che erano cinque navi e alcuni galeoni, e con essi una nave grossa di Normandia, la quale il re mandava per rinfrescare Gaeta di vettovaglie e di gente, si scopersono sopra Livorno, co' venti tanto prosperi che, non se gli opponendo l'armata di Cesare perché fu costretta dal tempo ad allargarsi sopra la Meloria (scoglio famoso, perché già appresso a quello furono in una battaglia navale afflitte in perpetuo da' genovesi le forze de' pisani), entrorono nel porto senza ricevere alcuno danno; eccetto che uno galeone carico di grano, separato dal resto dell'armata, fu preso dagl'inimici. Détte questo soccorso, sí opportuno, grande ardire a quegli che erano in Livorno, e confermò grandemente l'animo de' fiorentini, parendo loro che l'essere giunto cosí a tempo fusse segno che dove in favore loro mancassino le forze umane avesse a supplire l'aiuto divino: come molte volte in quegli dí, nel maggiore terrore degli altri, aveva, predicando al popolo, affermato il Savonarola.

                                                 Ma non cessò per questo il re de' romani d'andare col campo a Livorno: dove mandati per terra cinquecento uomini d'arme e mille cavalli leggieri e quattromila fanti, egli andò in sulle galee insino alla bocca dello Stagno che è tra Pisa e Livorno. E avendo assegnata l'oppugnazione d'una parte della terra al conte di Gaiazzo, che era stato mandato con lui dal duca di Milano, e postosi egli dall'altra, benché il primo dí s'accampasse con molta difficoltà per la molestia grande datagli dall'artiglierie di Livorno, cominciò, come colui che desiderava, la prima cosa, insignorirsi del porto, accostate le genti innanzi dí dalla banda della Fontana, a battere con molti cannoni il Magnano, il quale quegli di dentro avevano fortificato, e rovinato, come veddeno porre il campo da quella parte, il Palazzotto e la torre dal lato di mare, come cosa da non potersi guardare e abile a fare perdere la torre nuova; e nel medesimo tempo, per battere dalla parte di mare, aveva fatto appressare al porto l'armata sua, perché le navi franzesi, poiché ebbono poste in terra le genti e scaricato parte de' grani, essendo finiti i noli loro, non ostante i prieghi fatti in contrario, si erano partite per ritornare in Provenza, e la normanda per seguitare il cammino suo verso Gaeta. L'oppugnazione fatta al Magnano, per combattere poi la terra eziandio per mare, riusciva di poco frutto, per esservi munito in modo che l'artiglierie poco offendevano, e quegli di dentro spesso uscivano fuora a scaramucciare. Ma era destinato che la speranza cominciata col favore de' venti avesse col beneficio pure de' venti la sua perfezione; perché levatosi uno temporale gagliardo conquassò in modo l'armata che la nave grimalda genovese, che aveva portata la persona di Cesare, combattuta lungamente da' venti, andò a traverso, dirimpetto alla rocca nuova di Livorno, con tutti gli uomini e artiglierie che vi erano sopra, e il medesimo feceno alla punta di verso Santo Iacopo due galee venete; e gli altri legni dispersi in vari luoghi patirno tanto che non furno piú utili per la impresa presente: per il quale caso ricuperorono quegli di dentro il galeone, venuto prima in potestà degl'inimici.

                                                 Per il naufragio dell'armata ritornò Cesare a Pisa; dove, dopo molte consulte, diffidandosi per tutti di potere piú pigliare Livorno, si deliberò di levarne il campo e fare la guerra da altra parte. Però Cesare andò a Vico Pisano, e fatto ordinare uno ponte sopra Arno tra Cascina e Vico e uno sopra il Cilecchio, quando si credeva dovesse passare, partitosi allo improviso se ne ritornò per terra verso Milano; non avendo fatto altro progresso in Toscana che avere saccheggiato, quattrocento cavalli de' suoi, Borgheri castello ignobile nella Maremma di Pisa. Scusava questa subita partita per accrescersegli continuamente le difficoltà, non si sodisfacendo alle sue spesse dimande di nuovi danari, né consentendo i proveditori veneti che la maggiore parte delle genti loro uscisse piú di Pisa per sospetto conceputo di lui, né gli avevano i viniziani pagato interamente la porzione de' sessantamila ducati; onde, lodandosi molto del duca di Milano, si lamentava gravemente di loro. A Pavia, dove egli si trasferí, fu fatta nuova consulta; e benché avesse publicato volere tornarsene in Germania, consentiva di soprastare in Italia tutta la vernata con mille cavalli e dumila fanti, in caso che ogni mese se gli pagassino ventiduemila fiorini di Reno; della quale cosa mentre che s'aspetta risposta da Vinegia andò in Lomellina, nel tempo che era aspettato a Milano: essendogli, come ne' tempi seguenti dimostrorno meglio i suoi progressi, fatale di non entrare in quella città. Di Lomellina, mutato consiglio, tornò a Cusago propinquo a sei miglia a Milano, donde inopinatamente, senza saputa del duca e degli oratori che vi erano, se n'andò a Como; e quivi inteso, mentre desinava, che il legato del papa, al quale aveva mandato a dire che non lo seguitasse, era arrivato, levatosi da mensa, andò a imbarcarsi con tanta celerità che appena il legato ebbe spazio di parlargli poche parole alla barca; al quale rispose essere necessitato di andare in Germania ma che prestamente ritornerebbe. E nondimeno, poiché per il lago di Como fu condotto a Bellasio, avendo inteso che i viniziani consentivano a quello che si era trattato a Pavia, détte di nuovo speranza di ritornare a Milano; ma pochissimi giorni poi, procedendo con la sua naturale varietà, lasciata una parte de' suoi cavalli e de' fanti, se ne andò in Germania: avendo, con pochissima degnità del nome imperiale, dimostrata la sua debolezza a Italia, che già lungo tempo non aveva veduti imperadori armati.

                                                 Per la partita sua Lodovico Sforza, disperato di potere piú, se non venivano nuovi accidenti, tirare Pisa a sé né cavarla di mano de' viniziani, ne levò tutte le genti sue, pigliando per parte di consolazione del suo dispiacere che i viniziani restassino soli implicati nella guerra co' fiorentini; da che si persuadeva che la stracchezza dell'uno e dell'altro potesse col tempo porgergli qualche desiderata occasione. Per la partita delle quali genti i fiorentini, restati piú potenti nel contado di Pisa che gli inimici, recuperorono tutte le castella delle colline; e perciò i viniziani, essendo costretti per impedire i loro progressi a fare nuove provisioni, aggiunsono a quelle che vi erano tante genti che in tutto v'aveano quattrocento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e piú di dumila fanti.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.11

                                                  

                                                 Resa di Taranto a' veneziani. Il re di Francia progetta d'impadronirsi di Genova. Il pontefice dichiara confiscati gli stati degli Orsini. Guerra con gli Orsini e patti che la concludono. Presa di Ostia. Consalvo accolto trionfalmente in Roma e dal pontefice.

                                                  

                                                 Risolveronsi in questo mezzo nel reame di Napoli quasi tutte le reliquie della guerra de' franzesi: perché la città di Taranto con le fortezze, oppressata dalla fame, si arrendé a viniziani che l'avevano assediata con la loro armata, i quali dopo averla ritenuta molti dí, ed essendo già nato sospetto che se la volessino appropriare, la restituirono finalmente a Federigo, instandone assai il pontefice e i re di Spagna; ed essendosi inteso a Gaeta che la nave normanda, avendo combattuto sopra Porto Ercole con alcune navi de' genovesi che aveva incontrate, seguitando dipoi il suo cammino, vinta dalla tempesta del mare era andata a traverso, i franzesi che erano in quella città, alla quale il nuovo re era tornato a campo, ancora che, secondo che era la fama, avessino provisione da sostenersi qualche mese, giudicando che alla fine il re loro non sarebbe piú sollecito a soccorrergli che e' fusse stato a soccorrere tanta nobiltà e tante terre che si tenevano per lui, accordorono con Federigo per mezzo di Obigní, il quale per alcune difficoltà nate nella consegnazione delle fortezze di Calavria non era ancora partito da Napoli, di lasciare la terra e la fortezza, avendo facoltà di andarne salvi per mare in Francia con tutte le robe loro.

                                                 Per il quale accordo essendo il re di Francia alleggierito de' pensieri di soccorrere il reame, e da altra parte acceso dagli stimoli del danno e dell'infamia, deliberò di assaltare Genova, sperando nella parte che v'aveva Batistino Fregoso, stato già doge di quella città, e nel seguito che aveva il cardinale di San Piero in Vincola in Savona sua patria e in quelle riviere; e pareva gli aggiugnesse opportunità l'essere in questo tempo discordi Gianluigi dal Fiesco e gli Adorni, e universalmente i genovesi malcontenti del duca di Milano per essere stato autore che nella vendita di Pietrasanta i lucchesi fussino stati preferiti a loro e perché, avendo poi promesso di farla ritornare nelle loro mani e usata a questo, per mitigare lo sdegno conceputo, l'autorità de' viniziani, gli aveva pasciuti molti mesi di vane speranze. Il timore di questa deliberazione del re costrinse Lodovico, il quale per le cose di Pisa era quasi alienato da' viniziani, a unirsi di nuovo con loro, e a mandare a Genova quegli cavalli e fanti tedeschi che Cesare aveva lasciati in Italia: a' quali se non fusse sopravenuta questa necessità non sarebbe stata fatta alcuna provisione.

                                                 Le quali cose mentre che si trattano, il pontefice, parendogli di avere opportunità grande d'occupare gli stati degli Orsini poiché i capi di quella famiglia erano ritenuti a Napoli, pronunziò nel concistorio, Verginio e gli altri, rebelli, e confiscò gli stati loro, per essere andati, contro a' suoi comandamenti, agli stipendi de' franzesi; il che fatto, assaltò, nel principio dell'anno mille quattrocento novantasette, le terre loro, avendo ordinato che i Colonnesi, da piú luoghi dove confinano con gli Orsini, facessino il medesimo. Fu questa impresa confortata assai dal cardinale Ascanio per l'antica amicizia sua co' Colonnesi e dissensione con gli Orsini, e consentita dal duca di Milano; ma molesta a' viniziani i quali desideravano di farsi benevola quella famiglia; e nondimeno, non potendo con giustificazione alcuna impedire che il pontefice proseguisse le sue ragioni, né essendo utile l'alienarselo in tempo tale, consentirono che il duca d'Urbino soldato comune andasse a unirsi con le genti della Chiesa, delle quali era capitano generale il duca di Candia e legato il cardinale di Luna pavese, cardinale dependente in tutto da Ascanio. E il re Federigo vi mandò in aiuto suo Fabrizio Colonna. Questo esercito, poi che se gli furono arrendute Campagnano e l'Anguillara e molte altre castella, andò a campo a Trivignano; la quale terra, difesasi per qualche dí francamente, si dette a discrezione: ma mentre si difendeva, Bartolomeo d'Alviano uscito di Bracciano roppe, otto miglia appresso a Roma, quattrocento cavalli che conducevano artiglierie nel campo ecclesiastico; e un altro dí, essendo corso presso alla Croce a Montemari, mancò poco che non pigliasse il cardinale di Valenza, il quale, uscito di Roma a cacciare, fuggendo si salvò. Preso Trivignano, andò il campo all'Isola, e battuta con l'artiglierie una parte della rocca la conseguí per accordo. E si ridusse finalmente tutta la guerra intorno a Bracciano; dove era collocata tutta la speranza della difesa degli Orsini, perché il luogo, prima forte, era stato bene munito e riparato, e fortificato il borgo, alla fronte del quale avevano fatto un bastione; e dentro, difensori a sufficienza sotto il governo dello Alviano: che, giovane ancora ma di ingegno feroce e di celerità incredibile, ed esercitato nelle armi, dava di sé quella speranza alla quale non furono nel tempo seguente inferiori le sue azioni. Né il pontefice cessava di accrescere ogni dí il suo esercito, al quale aveva di nuovo aggiunto ottocento fanti tedeschi, di quegli che avevano militato nel reame di Napoli. Combattessi per molti dí da ogni parte con grande contenzione, avendo quegli di fuora piantate da piú luoghi l'artiglierie né mancando quegli di dentro di provedere e riparare per tutto con somma diligenza e franchezza: furono nondimeno, dopo non molti dí, costretti ad abbandonare il borgo; il quale preso, gli ecclesiastici dettono un assalto feroce alla terra, ma benché avessino già poste le bandiere in sulle mura furono sforzati a ritirarsi con molto danno: nella quale battaglia fu ferito Antonello Savello. Dimostrorono quegli di dentro la medesima virtú in uno altro assalto, ributtando con maggiore danno gli inimici, de' quali furono tra morti e feriti piú di dugento; con laude grandissima dell'Alviano a cui s'attribuiva principalmente la gloria di questa difesa, perché e dentro era prontissimo a tutte le fazioni necessarie e fuori con spessi assalti teneva in quasi continua molestia, e di dí e di notte, l'esercito degli inimici. Accrebbe le laudi sue perché, avendo ordinato che certi cavalli leggieri corressino da Cervetri, che si teneva per gli Orsini, un dí insino in sul campo, uscito fuora per l'occasione di questo tumulto, messe in fuga i fanti che guardavano l'artiglieria, della quale condusse alcuni pezzi minori in Bracciano. E nondimeno, battuti e travagliati il dí e la notte, cominciavano a sostentarsi principalmente con la speranza del soccorso; perché Carlo Orsino e Vitellozzo, congiunto per il vincolo della fazione guelfa a gli Orsini, i quali, ricevuti danari dal re di Francia per riordinare le compagnie loro dissipate nel regno di Napoli, erano passati in Italia in su' legni venuti di Provenza a Livorno, si preparavano per soccorrere a tanto pericolo. Però Carlo, andato a Soriano, attendeva a raccorre i soldati antichi e gli amici e partigiani degli Orsini; e Vitellozzo faceva a Città di Castello il medesimo de' suoi soldati e de' fanti del paese, i quali come ebbe uniti, con dugento uomini d'arme e mille ottocento fanti de' suoi, e con artiglieria in sulle carrette, all'uso franzese, si congiunse a Soriano con Carlo. Per il che i capitani ecclesiastici, giudicando pericoloso, se e' procedessino piú innanzi, il trovarsi in mezzo tra loro e quegli che erano in Bracciano, e per non lasciare in preda tutto il paese circostante nel quale avevano già saccheggiate alcune castella, levato il campo da Bracciano e ridotte l'artiglierie grosse nell'Anguillara, si indirizzorono contro degli inimici; co' quali incontratisi tra Soriano e Bassano il combatterono insieme per piú ore ferocemente, ma finalmente gli ecclesiastici, benché nel principio del combattere fusse preso da' Colonnesi Franciotto Orsino, furono messi in fuga, tolti loro i carriaggi tolta l'artiglieria, e tra morti e presi piú di cinquecento uomini; tra' quali restorono prigioni il duca d'Urbino Giampiero da Gonzaga conte di Nugolara, e molti altri uomini di condizione; e il duca di Candia, ferito leggiermente nel volto, e con lui il legato apostolico e Fabrizio Colonna, fuggendo, si salvorno in Ronciglione. Riportò la laude principale di questa vittoria Vitellozzo, perché la fanteria da Città di Castello, stata disciplinata innanzi da' fratelli e da lui al modo delle ordinanze oltramontane, fu questo dí aiutata grandemente dall'industria sua; perché avendogli armati di lancie piú lunghe circa un braccio di quello che era l'usanza comune, ebbono tanto vantaggio quando da lui furono condotte a urtarsi co' fanti degl'inimici che, offendendo loro senza essere offesi, per la lunghezza delle lancie, gli messono in fuga facilmente; e con tanto maggiore onore quanto nella battaglia contraria erano ottocento fanti tedeschi, della quale nazione avevano i fanti italiani sempre, dopo la passata del re Carlo, avuto grandissimo terrore. Dopo questa vittoria cominciorono i vincitori a correre senza ostacolo per tutto il paese di qua dal Tevere, e dipoi passata una parte delle genti di là dal fiume sotto Monte Ritondo, correvano per quella strada che sola era restata sicura. Per i quali pericoli il pontefice, soldando di nuovo molta gente, chiamò del regno di Napoli in soccorso suo Consalvo e Prospero Colonna. E nondimeno, pochi dí poi, interponendosi con grande studio gli oratori de' viniziani per beneficio degli Orsini, e lo spagnuolo per timore che da questo principio non nascesse nelle cose della lega maggiore disordine, fu fatta pace; con inclinazione molto pronta cosí del pontefice, alienissimo per natura dallo spendere, come degli Orsini, i quali, non avendo danari ed essendo abbandonati da ciascuno, conoscevano essere necessario che alla fine cedessino alla potenza del pontefice. La somma de' patti fu: che agli Orsini fusse lecito continuare insino alla fine nella condotta del re di Francia, nella quale era espresso che e' non fussino tenuti a pigliare l'armi contro alla Chiesa: riavessino tutte le terre perdute in questa guerra ma pagando al pontefice cinquantamila ducati, trentamila subito, che da Federigo fussino liberati Giangiordano e Pagolo Orsini, perché Verginio era pochi dí innanzi morto in Castel dell'Uovo, o di febbre o come alcuni credettono di veleno, e gli altri ventimila si pagassino infra otto mesi, ma depositando in mano de' cardinali [Ascanio] e di Sanseverino l'Anguillara e Cervetri, per l'osservanza del pagamento: liberassinsi i prigioni fatti nella giornata di Soriano, eccetto il duca d'Urbino; della liberazione del quale, benché s'affaticassino gli oratori de' collegati, il pontefice non fece instanza, perché sapeva gli Orsini non avere facoltà di provedere a' danari, i quali si trattava pagassino, se non mediante la taglia di quel duca; la quale fu poco poi concordata in quarantamila ducati, e aggiuntovi che non prima fusse liberato che Pagolo Vitelli, il quale quando si arrendé Atella era restato prigione del marchese di Mantova, conseguisse senza pagare alcuna cosa la sua liberazione.

                                                 Espedito il pontefice poco onorevolmente della guerra degli Orsini, dati danari alle genti che conduceva Consalvo, e unite seco le sue, lo mandò all'impresa d'Ostia che si teneva ancora in nome del cardinale di San Piero in Vincola, dove appena furono piantate l'artiglierie che il castellano si arrendé a Consalvo a discrezione. Avuta Ostia, Consalvo quasi trionfante entrò in Roma, con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, tutti soldati spagnuoli, menandosi innanzi il castellano come prigione, il quale poco poi liberò; e incontrato da molti prelati, dalla famiglia del pontefice e di tutti i cardinali, concorrendo tutto il popolo e tutta la corte, cupidissimi di vedere un capitano il nome del quale risonava già chiarissimamente per tutta Italia, fu condotto al papa residente in concistorio; il quale, ricevutolo con grandissimo onore, gli donò la rosa, solita a donarsi ogni anno da' pontefici, in testimonianza del suo valore. Ritornò poi a unirsi col re Federigo: il quale, assaltato lo stato del prefetto di Roma, aveva preso tutte le terre che, tolte nell'acquisto del regno al marchese di Pescara, gli erano state donate dal re di Francia; e presa Sora e Arci, ma non le rocche, era a campo a Rocca Guglielma, avendo per accordo conseguito lo stato del conte d'Uliveto, già, innanzi vendesse quello ducato al prefetto, duca di Sora. E nondimeno in queste prosperità non mancavano a Federigo molte molestie; non solo dagli amici, perché Consalvo teneva in nome de' suoi re una parte della Calavria, ma eziandio dagli inimici riconciliati. Perché essendo stato una sera, uscendo di Castenuovo di Napoli, ferito gravemente da uno certo greco il principe di Bisignano, entrò tanto terrore nel principe di Salerno che questo non fusse stato fatto per ordine del re, in vendetta dell'offese passate, che subito, non dissimulando la causa del sospetto, se n'andò da Napoli a Salerno; e benché il re mandasse in potestà sua il greco, che era in carcere, per giustificarlo, che egli (come era la verità) l'aveva ferito per ingiuria ricevuta molti anni innanzi da lui nella persona della sua moglie, nondimeno, come nell'antiche e gravi inimicizie è difficile stabilire fedele reconciliazione, perché è impedita o dal sospetto o dalla cupidità della vendetta, non si potette mai piú il principe disporre a fidarsi di lui. Il che dando speranza che nel regno si avessino a fare nuove sollevazioni, a' franzesi, i quali ancora tenevano il monte di Sant'Angelo e alcuni altri luoghi forti, era cagione di fargli perseverare piú costantemente al difendersi.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.12

                                                  

                                                 Carlo VIII tratta la tregua co' re di Spagna e manda milizie contro il territorio di Genova e contro il ducato di Milano, occupando alcune terre. Infelice esito dell'impresa e probabili cause dell'insuccesso. Patti della tregua fra il re di Francia e i re di Spagna. I francesi perdono in Italia quasi tutte le terre recentemente occupate. I fiorentini occupati nella riconquista di Pisa accettano malvolentieri la tregua.

                                                  

                                                 Maggiori pericoli si dimostravano in questo tempo in Lombardia per i movimenti de' franzesi, assicurati per allora da' minacci degli spagnuoli, perché essendo stati tra loro piú tosto leggieri assalti e dimostrazioni di guerra che alcuna cosa notabile, eccetto che da' franzesi fu presa in brevissimo tempo e abbruciata la terra di Sals, si era introdotta tra quei re pratica di concordia; e per dare maggiore facilità a trattarla, levate tra loro l'offese per due mesi. Per la quale occasione Carlo, potendo attendere piú speditamente alle cose di Genova e di Savona, avendo mandato in Asti insino al numero di mille lancie e tremila svizzeri e numero pari di guasconi, commesse al Triulzio, luogotenente suo in Italia, che aiutasse Batistino e il Vincola; disegnando oltre a questi mandare dietro con grosso esercito il duca d'Orliens a fare in nome proprio l'impresa del ducato di Milano: e per facilitare quella di Genova mandò a' fiorentini Ottaviano Fregoso a ricercargli che nel tempo medesimo assaltassino la Lunigiana e la riviera di levante, e ordinò che Pol Batista Fregoso con sei galee turbasse la riviera di ponente.

                                                 Cominciò questo movimento con tanto terrore del duca di Milano, il quale da se stesso non era preparato abbastanza, né aveva ancora gli aiuti che gli avevano promessi i viniziani, che se fusse stato continuato co' mezzi debiti arebbe partorito qualche effetto importante; e piú facilmente nel ducato di Milano che a Genova, perché a Genova, essendosi per opera di Lodovico riconciliati Gianluigi dal Fiesco e gli Adorni, avevano soldati molti fanti e messa in ordine un'armata per mare, a spese de' viniziani e di Lodovico: con la quale si congiunseno sei galee mandate da Federigo, perché il pontefice, ritenendo il nome di confederato piú ne' consigli e nelle dimostrazioni che nelle opere, non volle in questi pericoli concorrere a spesa alcuna, né per terra né per mare. I progressi di questa espedizione furono che Batistino e con lui il Triulzio andorno a Novi, della quale terra Batistino, statone prima spogliato dal duca di Milano, riteneva la fortezza; per la venuta de' quali il conte di Gaiazzo, che vi era a guardia con sessanta uomini d'arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti, diffidandosi poterla difendere si ritirò a Serravalle. Per l'acquisto di Novi si augumentò non poco la riputazione de' fuorusciti, perché oltre a essere terra capace di molta gente impedisce il transito da Milano a Genova; e per il sito nel quale è posta è molto opportuna a offendere i luoghi circostanti. Occupò dipoi Batistino altre terre vicine a Novi; e nel tempo medesimo il cardinale con dugento lancie e tremila fanti, presa Ventimiglia, s'accostò a Savona, ma non facendo quegli di dentro movimento alcuno, e inteso che Giovanni Adorno s'approssimava con molti fanti, si ritirò allo Altare, terra del marchese di Monferrato, distante otto miglia da Savona. Di maggiore momento fu il principio che si fece per il Triulzio. Il quale, desideroso di dare occasione che la guerra si accendesse nel ducato di Milano, ancora che la commissione del re fusse che prima s'attendesse alle cose di Genova e di Savona, prese il Bosco, castello importante nel contado d'Alessandria, sotto pretesto che, per sicurtà delle genti che erano andate nella riviera, fusse necessario impedire a quegli del duca di Milano la facoltà di condursi da Alessandria in quello di Genova; e nondimeno, per non contrafare manifestamente al comandamento del re, non procedé piú avanti, perdendo grandissima occasione; perché il paese circostante era tutto, per l'occupazione del Bosco, in grandissima sollevazione, altri per timore altri per cupidità di cose nuove, non essendo per il duca da quella parte piú di cinquecento uomini d'arme e seimila fanti, e cominciando Galeazzo Sanseverino, il quale era in Alessandria, [dove] medesimamente si ritirò il conte di Gaiazzo, a diffidarsi di poterla difendere senza maggiori forze: e già Lodovico, non manco timido in questa avversità che per natura fusse in tutte l'altre, ricercava il duca di Ferrara che interponesse tra il re di Francia e lui qualche concordia. Ma il soprasedere del Triulzio tra 'l Bosco e Novi dette tempo a Lodovico di provedersi, e a' viniziani, i quali concorrendo prontissimamente alla sua difesa avevano prima mandato a Genova mille cinquecento fanti, di mandare in Alessandria molti uomini d'arme e cavalli leggieri; e ultimatamente commessono al conte di Pitigliano, capo delle loro genti, perché il marchese di Mantova si era rimosso dagli stipendi veneti, che con la maggiore parte andasse in aiuto di quello stato. Cosí raffreddando le cose cominciate con grande speranza, Batistino, non fatto a Genova frutto alcuno, perché la città per le provisioni fatte stette quieta, ritornò a unirsi col Triulzio, allegando essere riusciti vani i disegni suoi perché da' fiorentini non era stata assaltata la riviera di levante; i quali non avevano giudicato prudente consiglio lo implicarsi nella guerra se prima le cose de' franzesi non si dimostravano piú prospere e piú potenti. Andò medesimamente il Vincola a unirsi col Triulzio, non avendo fatto altro che prese alcune terre del marchese del Finale, perché si era scoperto alla difesa di Savona. Unite le genti franzesi feceno alcune scorrerie verso il Castellaccio, terra vicina al Bosco, stata già fortificata da' capitani del duca; e augumentandosi continuamente l'esercito de' collegati che faceva la massa ad Alessandria, e per contrario cominciando a mancare a' franzesi danari e vettovaglie, né essendo gli altri capitani bene pazienti a ubbidire al Triulzio, fu costretto, lasciata guardia in Novi e nel Bosco, a ritirarsi con l'esercito appresso ad Asti.

                                                 Credesi che a questa impresa nocesse, come si vede molte volte intervenire, la divisione fatta delle genti in piú parti, e che se tutti si fussino nel principio dirizzati a Genova arebbono forse avuto migliore successo; perché, oltre alla inclinazione delle fazioni e lo sdegno nato per causa di Pietrasanta, parte de' cavalli e de' fanti tedeschi che il duca di Milano v'aveva mandati, soprastativi pochi dí, se ne erano tornati all'improviso in Germania. Può essere ancora che da quegli medesimi ministri da' quali, l'anno dinanzi, era stata impedita la passata del re in Italia e il soccorso del regno di Napoli, fussino usate l'arti medesime di impedire la impresa presente con la difficoltà delle provisioni; e tanto piú che era fama che 'l duca di Milano, il quale a' sudditi suoi faceva gravi esazioni, donasse assai al duca di Borbone e ad altri di quegli che potevano appresso al re: la quale infamia si distendeva non meno al cardinale di San Malò. Ma come si sia, certo è che il duca d'Orliens, destinato a passare in Asti e sollecitatone molto dal re, fece tutte le preparazioni necessarie a tale andata ma ritardò, o perché non confidasse nelle provisioni che si facevano o perché, come molti interpretavano, partisse malvolentieri del regno di Francia, essendo il re continuamente indisposto della persona, e in caso della sua morte senza figliuoli appartenendo a lui la successione della corona.

                                                 Ma il re, non gli essendo riuscita la speranza della mutazione di Genova e di Savona, ristrinse le pratiche cominciate co' re di Spagna, ritardate per una sola difficoltà: che il re di Francia, desiderando di restare espedito alle imprese di qua da' monti, recusava che nella tregua che si trattava si comprendessino le cose d'Italia; e i re di Spagna, dimostrando di non fare difficoltà di consentire alla sua volontà per altro che per rispetto del loro onore, facevano instanza che vi si comprendessino, perché, essendo la intenzione comune fare la tregua perché con maggiore facilità si trattasse la pace, potrebbono con maggiore onestà partirsi dalla confederazione che avevano con gli italiani. Alla qual cosa, poiché furono andati dall'una parte all'altra piú volte imbasciadori, prevalendo finalmente, come quasi sempre, l'arti spagnuole, contrassono tregua per sé e per i sudditi e dependenti suoi, e per quegli ancora che qualunque d'essi nominasse; la quale tregua, cominciando tra loro il quinto dí di marzo ma tra i nominati cinquanta dí poi, durasse per tutto il mese d'ottobre prossimo. Nominò ciascuno di essi quegli potentati e stati italiani che erano confederati e aderenti suoi, e i re di Spagna nominorno di piú il re Federigo e i pisani. Convenneno oltre a questo di mandare a Mompolieri uomini propri per trattare la pace dove potessino intervenire gli oratori degli altri collegati; e in questa pratica davano i re di Spagna speranza di potere con qualche giustificata occasione congiugnersi col re di Francia contro agli italiani, proponendo, insino allora, partiti di dividersi il regno di Napoli. La quale tregua benché fatta senza partecipazione de' collegati d'Italia fu nondimeno grata a tutti, e specialmente al duca di Milano, desiderosissimo che la guerra si rimovesse del suo dominio.

                                                 Ma essendo restata libera in Italia la facoltà dell'offendersi insino al vigesimo quinto dí di aprile, il Triulzio e Batistino, e con loro Serenon, ritornati con cinquemila uomini nella riviera di ponente, assaltorono la terra d'Albinga, la quale benché avessino al primo assalto quasi tutta occupata, nondimeno disordinatisi nell'entrarvi ne furno cacciati da poco numero degli inimici. Entrorno dipoi nel marchesato del Finale per dare cagione all'esercito italiano d'andare a soccorrerlo, sperando d'avere occasione di condurgli alla giornata; il che non succedendo non feceno piú cosa di momento, essendo massime accresciuta la discordia de' capitani e mancando ogni dí piú, per la tregua fatta, i pagamenti. Nel qual tempo i collegati avevano, da Novi in fuora, recuperato le terre prima perdute; e Novi finalmente, con tutto che il conte di Gaiazzo andatovi a campo ne fusse stato ributtato, ottenneno per accordo: né restò, de' luoghi acquistati, in potere de' franzesi altro che alcune piccole terre prese nel marchesato del Finale. Ne' quali travagli il duca di Savoia, infestato da tutte le parti con offerte grandi, e il marchese di Monferrato, il governo del quale era stato dal re de' romani confermato in Costantino di Macedonia, non si dichiarorono né per il re di Francia né per i confederati.

                                                 Non si era in questo anno fatta cosa di momento tra i fiorentini e i pisani, benché continuamente si proseguisse la guerra, se non che essendo andati i pisani, sotto Giampaolo Manfrone con quattrocento cavalli leggieri e con mille cinquecento fanti, per ricuperare il bastione fatto da loro al Ponte a Stagno, il quale avevano perduto quando Cesare si partí da Livorno, il conte Renuccio avutone notizia andò con molti cavalli a soccorrerlo, per la via di Livorno, non pensando i pisani dovere essere assaltati se non per la via del Pontadera; e avendogli sopragiunti che già combattevano il bastione, gli messe in fuga facilmente, pigliandone molti. Ma si posorono, per la tregua fatta, similmente l'armi tra loro; benché malvolentieri fusse accettata da' fiorentini, perché giudicavano essere inutile alle cose loro il dare spazio a' pisani di respirare, e perché, non ostante la tregua, per sospetto di Piero de' Medici che continuamente qualche cosa macchinava, e per il timore delle genti viniziane che erano in Pisa, la necessità gli costrigneva a continuare le spese medesime.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.13

                                                  

                                                 Il duca di Milano propone a' collegati di cedere Pisa a' fiorentini per staccarli dal re di Francia. Fallimento della proposta. Condizioni interne di Firenze. Vano tentativo di Piero de' Medici di rientrare in Firenze. Turpitudini e tragedie nella famiglia del pontefice. La condanna de' compromessi nel tentativo di Piero de' Medici.

                                                  

                                                 Cosí essendo per tutto fermate l'armi o già in procinto di fermarsi, il duca di Milano, benché ne' prossimi pericoli avesse dimostrato grandissima sodisfazione del senato viniziano per i pronti aiuti ricevuti da quello, esaltando publicamente con magnifiche parole la virtú e la potenza veneta, e commendando la providenza di Giovan Galeazzo primo duca di Milano che avesse commesso alla fede di quello senato l'esecuzione del suo testamento, nondimeno non potendo tollerare che la preda di Pisa, levata e seguitata da lui con tanta fatica e con tante arti, restasse a loro, come appariva manifestamente avere a essere, e però tentando di conseguire col consiglio quello che non poteva ottenere con le forze, operò che 'l pontefice e gli oratori de' re di Spagna, a' quali tutti era molesta tanta grandezza de' viniziani, proponessino che, per levare d'Italia ogni fondamento a' franzesi e per ridurla tutta in concordia, sarebbe necessario indurre i fiorentini a entrare nella lega comune col reintegrargli di Pisa, poiché altrimenti indurre non vi si potevano; perché stando separati dagli altri non cessavano di stimolare il re di Francia a passare in Italia e, in caso passasse, potevano co' danari e con le genti loro, essendo massime situati nel mezzo d'Italia, fare effetti di non piccola importanza. Ma questa proposta fu dall'oratore viniziano contradetta come molto perniciosa alla salute comune, allegando la inclinazione de' fiorentini al re di Francia essere tale che, eziandio con questo beneficio, non era da confidarsi di loro se non davano sicurtà bastante di osservare quello promettessino, e in cose di tanto momento nessuna sicurtà bastare se non il deporre Livorno in mano de' collegati: cosa proposta artificiosamente da lui, perché, sapendo che mai consentirebbono di deporre luogo sí importante allo stato loro, gli restasse facoltà maggiore di contradire; il che essendo dipoi succeduto come pensava, s'oppose con tale caldezza che, non avendo il pontefice e l'oratore del duca di Milano ardire di contradirgli per non gli alienare dalla loro congiunzione, non si seguitò questo ragionamento; e si cominciò per il pontefice e i viniziani nuovo disegno per divertire con violenza i fiorentini dalla amicizia franzese: dando animo a chi pensava di offendergli le male condizioni di quella città, nella quale era tra' cittadini non piccola divisione causata dalla forma del governo.

                                                 Perché quando fu fondata da principio l'autorità popolare non erano stati mescolati quegli temperamenti che, insieme con l'assicurare co' modi debiti la libertà, impedissino che la republica non fusse disordinata dalla imperizia e dalla licenza della moltitudine. Però, essendo in minore prezzo i cittadini di maggiore condizione che non pareva conveniente, e sospetta da altra parte al popolo la loro ambizione, e intervenendo spesso nelle deliberazioni importanti molti che n'erano poco capaci, e scambiandosi di due mesi in due mesi il supremo magistrato al quale si referiva la somma delle cose piú ardue, si governava la republica con molta confusione. Aggiugnevasi l'autorità grande del Savonarola, gli uditori del quale si erano ristretti quasi in tacita intelligenza, ed essendo tra loro molti cittadini di onorate qualità, e prevalendo ancora di numero a quegli che erano di contraria opinione, pareva che i magistrati e gli onori publici si distribuissino molto piú ne' suoi seguaci che negli altri; e per questo essendosi manifestamente divisa la città, l'una parte con l'altra ne' consigli publici si urtava, non si curando gli uomini, come accade nelle città divise, di impedire il bene comune per sbattere la riputazione degli avversari. Faceva piú pericolosi questi disordini, che oltre a' lunghi travagli e gravi spese tollerate da quella città v'era quell'anno carestia grandissima, per il che si poteva presumere che la plebe affamata desiderasse cose nuove.

                                                 La quale mala disposizione détte speranza a Piero de' Medici, incitato oltre a queste occasioni da alcuni cittadini, di potere facilmente ottenere il desiderio suo. Però ristretti i suoi consigli con Federigo cardinale da San Severino, antico amico suo, e con l'Alviano, e stimolato occultamente da' viniziani, a' quali pareva che per i travagli de' fiorentini si stabilissino le cose di Pisa, deliberò di tentare di entrare furtivamente in Firenze; massime poi che fu avvisato essere stato creato gonfaloniere di giustizia, che era capo del magistrato supremo, Bernardo del Nero, uomo di gravità e d'autorità grande e stato lungamente amico paterno e suo, ed essere eletti al medesimo magistrato alcuni altri i quali, per le dependenze vecchie, credeva che avessino inclinazione alla sua grandezza. Assentí a questo disegno il pontefice, desideroso di separare i fiorentini dal re di Francia con le ingiurie poi che era stato impedito di separargli co' benefici; né contradisse il duca di Milano, non gli parendo potere fare fondamento o intelligenza stabile con quella città per i disordini del presente governo, se bene da altra parte non gli piacesse il ritorno di Piero, sí per l'offese fattegli come perché dubitava non avesse a dipendere troppo dall'autorità de' viniziani. Raccolti adunque Piero quanti danari potette da se medesimo e con l'aiuto degli amici, e si credette che qualche piccola quantità gli fusse somministrata da' viniziani, andò a Siena, e dietro a lui l'Alviano con cavalli e con fanti, facendo il cammino sempre di notte e fuora di strada acciocché l'andata sua fusse occultissima a' fiorentini. A Siena, per favore di Giacoppo e di Pandolfo Petrucci, cittadini principali di quel governo e amici paterni e suoi, ebbe secretamente altre genti; in modo che con seicento cavalli e quattrocento fanti eletti si partí, due dí poi che era cominciata la tregua, nella quale non si comprendevano i sanesi, verso Firenze, con speranza che, arrivandovi quasi improviso in sul fare del dí, avesse facilmente, o per disordine o per tumulto il quale sperava aversi a levare in suo favore, a entrarvi: il quale disegno non sarebbe forse riuscito vano se la fortuna non avesse supplito alla negligenza de' suoi avversari. Perché essendo al principio della notte alloggiato alle Tavernelle, che sono alcune case in sulla strada maestra, con pensiero di camminare la maggior parte della notte, una pioggia che sopravenne molto grande gli dette tale impedimento che e' non potette presentarsi a Firenze se non molte ore poi che era levato il sole; il quale indugio dette tempo a quegli che facevano professione di essergli particolari inimici, perché la plebe e quasi tutto il resto de' cittadini stava ad aspettare quietamente l'esito della cosa, di prendere l'armi con gli amici e seguaci loro, e ordinare che da' magistrati fussino chiamati e ritenuti nel palagio publico i cittadini sospetti, e farsi forti alla porta che va a Siena; alla quale, pregato da loro, andò medesimamente Pagolo Vitelli, che ritornando da Mantova era, per sorte, la sera precedente, giunto in Firenze: di modo non si movendo cosa alcuna nella città, né Piero potente a sforzare la porta alla quale s'era accostato per un tiro d'arco, poi che vi fu dimorato quattro ore, temendo che con pericolo suo non sopravenissino le genti d'arme de' fiorentini, le quali pensava, come era vero, che fussino state chiamate di quel di Pisa, se ne ritornò a Siena. Donde l'Alviano partitosi, e introdotto in Todi da' guelfi, saccheggiò quasi tutte le case de' ghibellini e ammazzò cinquantatré de' primi di quella parte; il quale esempio seguitando Antonello Savello, entrato in Terni, e i Gatteschi col favore de' Colonnesi entrati in Viterbo, feceno simiglianti mali nell'un luogo e nell'altro, e nel paese circostante contro a' guelfi: non provedendo a tanti disordini dello stato ecclesiastico il pontefice, aborrente dallo spendere in cose simili, e perché, prendendo per sua natura piccola molestia delle calamità degli altri, non si turbava di quelle cose che gli offendevano l'onore pure che l'utilità o i piaceri non si impedissino.

                                                 Ma non potette già fuggire gli infortuni domestici, i quali perturborono la casa sua con esempli tragici, e con libidini e crudeltà orribili, eziandio in ogni barbara regione. Perché avendo, insino da principio del suo pontificato, disegnato di volgere tutta la grandezza temporale al duca di Candia suo primogenito, il cardinale di Valenza il quale, d'animo totalmente alieno dalla professione sacerdotale, aspirava all'esercizio dell'armi, non potendo tollerare che questo luogo gli fusse occupato dal fratello, e impaziente oltre a questo che egli avesse piú parte di lui nell'amore di madonna Lucrezia sorella comune, incitato dalla libidine e dalla ambizione (ministri potenti a ogni grande sceleratezza), lo fece, una notte che e' cavalcava solo per Roma, ammazzare e poi gittare nel fiume del Tevere secretamente. Era medesimamente fama (se però è degna di credersi tanta enormità) che nell'amore di madonna Lucrezia concorressino non solamente i due fratelli ma eziandio il padre medesimo: il quale avendola, come fu fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato inferiore al suo grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesero, non comportando d'avere anche il marito per rivale, dissolvé il matrimonio già consumato; avendo fatto, innanzi a giudici delegati da lui, provare con false testimonianze, e dipoi confermare per sentenza, che Giovanni era per natura frigido e impotente al coito. Afflisse sopra modo il pontefice la morte del duca di Candia, ardente quanto mai fusse stato padre alcuno nell'amore de' figliuoli, e non assuefatto a sentire i colpi della fortuna, perché è manifesto che dalla puerizia insino a quella età aveva avuto in tutte le cose felicissimi successi; e se ne commosse talmente che nel concistorio, poiché ebbe con grandissima commozione d'animo e con lacrime deplorata gravemente la sua miseria, e accusato molte delle proprie azioni e il modo del vivere che insino a quel dí aveva tenuto, affermò con molta efficacia volere governarsi in futuro con altri pensieri e con altri costumi: deputando alcuni del numero de' cardinali a riformare seco i costumi e gli ordini della corte. Alla quale cosa avendo data opera qualche dí, e cominciando a manifestarsi l'autore della morte del figliuolo, la quale nel principio si era dubitato che non fusse proceduta per opera o del cardinale Ascanio o degli Orsini, deposta prima la buona intenzione e poi le lagrime, ritornò piú sfrenatamente che mai a quegli pensieri e operazioni nelle quali insino a quel dí aveva consumato la sua età.

                                                 Nacqueno in questo tempo dal movimento fatto per Piero de' Medici nuovi travagli in Firenze, perché poco dipoi venne a luce la intelligenza che egli v'aveva, per il che furono incarcerati molti cittadini nobili e alcuni altri si fuggirono; e poiché legittimamente fu verificato l'ordine della congiura, furono condannati alla morte non solo Niccolò Ridolfi, Lorenzo Tornabuoni, Giannozzo Pucci e Giovanni Cambi, che l'avevano sollecitato a venire, e Lorenzo a questo effetto accomodatolo di danari, ma eziandio Bernardo del Nero, non imputato d'altro che d'avere saputa questa pratica e non l'avere rivelata: il quale errore, che per sé è punito in pena capitale dagli statuti fiorentini e dalla interpretazione data dalla maggiore parte de' giurisconsulti alle leggi comuni, fece piú grave in lui l'essere stato, quando Piero venne a Firenze, gonfaloniere, come se fusse stato maggiormente obligato a fare uffizio piú di persona publica che di privata. Ma avendo i parenti de' condannati appellato dalla sentenza al consiglio grande del popolo, per vigore d'una legge che s'era fatta quando fu ordinato il governo popolare, ristrettisi quegli che erano stati autori della condannazione, per sospetto che la compassione dell'età e della nobiltà e la moltitudine de' parenti non mitigassino negli animi del popolo la severità del giudicio, ottenneno che in numero minore di cittadini si mettesse in consulta se era da permettere il proseguire l'appellazione o proibirlo; dove prevalendo l'autorità e il numero di quegli che dicevano essere cosa pericolosa e facile a generare sedizione, e che le leggi medesime concedevano che per fuggire i tumulti potessino essere le leggi in caso simile dispensate, furono impetuosamente, e quasi per forza e con minaccie, costretti alcuni di quegli che sedevano nel supremo magistrato a consentire che, non ostante l'appello interposto, si facesse la notte medesima l'esecuzione: riscaldandosi a questo molto piú che gli altri i fautori del Savonarola, non senza infamia sua che non avesse dissuaso, a quegli massime che lo seguitavano, il violare una legge proposta, pochi anni innanzi, da lui come molto salutare e quasi necessaria alla conservazione della libertà.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.14

                                                  

                                                 Federico d'Aragona ricupera altre terre. Conclusione della tregua fra i re di Spagna e Carlo VIII. Morte di Filippo duca di Savoia. Il duca di Ferrara consegna il castello di Genova a Lodovico Sforza. Continui dubbi e negligenza del re di Francia e conseguenze che ne derivano per le cose d'Italia. Si torna a discutere fra i collegati italiani dell'opportunità di cedere Pisa a Firenze. Obiezione e opposizione de' veneziani.

                                                  

                                                 In questo anno medesimo Federigo re di Napoli, ottenuta la investitura del regno dal pontefice e fatta solennemente la sua incoronazione, recuperò per accordo il monte di Santo Angelo, che era stato valorosamente difeso da don Giuliano dell'Oreno lasciatovi dal re di Francia, e Civita con alcune altre terre tenute da Carlo de Sanguine; e cacciato, finita che fu la tregua, totalmente del regno il prefetto di Roma, si voltò a fare il simile del principe di Salerno: il quale finalmente, assediato nella rocca di Diano e abbandonato da tutti, ebbe facoltà di partirsi salvo con le sue robe; lasciata quella parte dello stato che ancora non aveva perduta in mano del principe di Bisignano, con condizione di darla a Federigo, subito che intendesse egli essere condotto salvo in Sinigaglia.

                                                 Nella fine di questo anno, essendo prima interrotta per le dimande immoderate de' re di Spagna la dieta che da Mompolieri era stata trasferita a Nerbona, si ritornò tra quegli re a nuove pratiche; militando pure la medesima difficoltà, perché il re di Francia era determinato di non acconsentire piú ad accordo alcuno nel quale si comprendesse Italia; e a' re di Spagna pareva grave lasciargli libero il campo di soggiogarla e pure desideravano non avere guerra con lui di là da' monti, guerra a loro di molta molestia e senza speranza di profitto. Finalmente si conchiuse tregua tra essi, per durare insino a tanto fusse disdetta e due mesi dappoi; né vi fu compreso alcuno de' potentati d'Italia. A' quali i re di Spagna significorono la tregua fatta, allegando avere cosí potuto farla senza saputa de' collegati come era stato lecito al duca di Milano fare senza saputa loro la pace di Vercelli; e che, avendo rotto, quando fu fatta la lega, la guerra in Francia e continuatala molti mesi, né essendo stati pagati loro i danari promessi da' confederati, ancora che avessino giusta cagione di non osservare piú a chi gli aveva mancato, avevano nondimeno molte volte fatto intendere che, volendo pagare loro cento cinquantamila ducati, che se gli dovevano per la guerra che avevano fatta, erano contenti accettargli per conto di quello farebbono in futuro, con deliberazione di entrare in Francia con potentissimo esercito; ma che non avendo i confederati corrisposto sopra queste dimande né alla fede né al beneficio comune, e vedendo che la lega fatta per la libertà d'Italia si convertiva in usurparla e opprimerla, conciossiaché i viniziani, non contenti che in sua potestà fussino pervenuti tanti porti del reame di Napoli, avevano senza ragione alcuna occupato Pisa, era paruto loro onesto, poiché gli altri disordinavano le cose comuni, provedere alle proprie con la tregua; ma fatta in modo che si potesse dire piú presto ammunizione che volontà di partirsi dalla lega, perché era in potestà loro sempre di dissolverla disdicendola: come farebbono quando vedessino altra intenzione e altre provisioni ne' potentati italiani al beneficio comune. E nondimeno non potetteno gustare quegli re interamente la dolcezza della quiete, per la morte di Giovanni principe di Spagna, unico figliuolo maschio di tutti e due.

                                                 Morí in questi tempi medesimi, lasciato uno piccolo figliuolo Filippo duca di Savoia; il quale dopo lunga sospensione pareva che finalmente avesse inclinato a' collegati, che gli avevano promesso dare ciascuno anno ventimila ducati: e nondimeno la fede sua era sí dubbia appresso a tutti che ancora essi, in caso che il re di Francia facesse potente impresa, non si promettessino molto di lui.

                                                 Nella fine dell'anno medesimo il duca di Ferrara, passati già i due anni che aveva ricevuto in diposito il castello di Genova, lo restituí a Lodovico suo genero; avendo prima dimandato al re di Francia che secondo i capitoli di Vercelli gli restituisse la metà delle spese fatte in quella guardia. Le quali il re consentiva di pagare dandogli il duca il castelletto, come diceva essere tenuto per l'inosservanza del duca di Milano; a che rispondendo egli questa non essere liquidata, e che a costituire il duca di Milano in contumacia sarebbe stata necessaria la interpellazione, offeriva il re di deporle, acciocché innanzi al pagamento si vedesse di ragione se era tenuto a consegnargliene. Ma appresso a Ercole fu piú potente la instanza fatta in contrario da' viniziani e dal genero, movendolo non solo i prieghi e le lusinghe di Lodovico, che pochi dí innanzi aveva dato l'arcivescovado di Milano a Ippolito cardinale suo figliuolo, ma molto piú perché era pericoloso provocarsi la inimicizia di vicini tanto potenti, in tempo che quotidianamente diminuiva la speranza della passata de' franzesi; e però, avendo richiamato della corte di Francia don Ferrando suo figliolo, restituí a Lodovico il castelletto, sodisfatto prima da lui delle spese fatte nel guardarlo, eziandio per la porzione che toccava a pagare al re: donde i viniziani, per mostrarsegli obligati, condussono il medesimo don Ferrando agli stipendi loro con cento uomini d'arme.

                                                 La quale restituzione, fatta poco giustificatamente, benché alla riputazione del re in Italia importasse molto, nondimeno non dimostrò di risentirsene come sarebbe stato conveniente; anzi avendo mandato Ercole uno imbasciadore a lui a scusarsi che, per essere lo stato suo contiguo a' viniziani e al duca di Milano che avevano mandato a denunziargli quasi la guerra, era stato costretto a ubbidire alla necessità, l'udí con la medesima negligenza che se avesse trattato di cose leggiere, come quello che, oltre al procedere quasi a caso in tutte le sue azioni, continuava nelle consuete angustie e difficoltà. Perché era in lui ardentissima come prima la inclinazione del passare in Italia, e aveva, piú che avesse avuto mai, potentissime occasioni: la tregua fatta co' re di Spagna, l'avere i svizzeri confermata seco di nuovo la confederazione e l'essere nate tra' collegati molte cause di disunione; ma lo impediva con varie arti la maggior parte di quegli che erano intorno a lui, proponendogli, alcuni di loro, piaceri, alcuni confortandolo al fare la impresa ma con apparato sí potente per terra e per mare e con tanta provisione di danari che era necessario si interponesse lungo spazio di tempo, altri servendosi d'ogni difficoltà e occasione; né mancando il cardinale di San Malò di usare la solita lunghezza nelle espedizioni de' danari: in modo che non solo il tempo di passare in Italia era piú incerto che mai ma si lasciavano oltre a ciò cadere le cose già quasi condotte alla perfezione. Perché i fiorentini, stimolandolo continuamente a passare, erano convenuti seco, cominciata che fusse la guerra da lui, di muovere l'armi loro da altra parte, e a questo effetto concordati che Obigní con cento cinquanta lancie franzesi, cento pagate dal re e cinquanta pagate da loro, passasse per mare in Toscana per essere capo dello esercito loro; e il marchese di Mantova, stato rimosso disonorevolmente, quando vincitore ritornò del reame di Napoli, dagli stipendi de' viniziani per sospetto che e' trattasse di condursi col re di Francia, trattava ora veramente di ricevere soldo da lui, e il nuovo duca di Savoia si era confermato nella aderenza sua; prometteva il Bentivoglio, passato che e' fusse in Italia, di seguitare l'autorità sua; e il pontefice, stando ambiguo del congiugnersi seco come continuamente si trattava, aveva determinato almeno di non se gli opporre. Ma la tardità e la negligenza usata dal re raffreddava gli animi di ciascuno, perché né in Italia per congregarsi in Asti passavano le genti secondo le promesse fatte da lui, non si dava espedizione alla condotta di Obigní, né mandava danari per pagare gli Orsini e Vitelli soldati suoi: cosa, avendosi a fare la guerra, molto importante. Donde essendo i Vitelli per condursi co' viniziani, i fiorentini, non avuto tempo di avvisarnelo, gli condussono per uno anno a comune per il re e per loro; la qual cosa fu lodata da lui, ma né ratificò né provedde al pagamento per la sua porzione; anzi mandò Gemel a ricercargli che gli prestassino per la impresa cento cinquantamila ducati. Finalmente facendo, come spesso soleva, della volontà sua quella di altri, partitosi quasi allo improviso da Lione, se ne andò a Torsi e poi ad Ambuosa, con le consuete promesse di ritornare presto a Lione. Per le quali cose mancando la speranza a tutti quegli che in Italia seguitavano la parte sua, Batistino Fregoso si riconciliò col duca di Milano.

                                                 Il quale, preso animo da questi progressi, scopriva ogni dí piú la mala volontà che aveva per le cose di Pisa contro a' viniziani; stimolando il pontefice e i re di Spagna a introdurre di nuovo, ma con maggiore efficacia, il ragionamento della restituzione di quella città. Per la quale pratica i fiorentini, cosí confortati da lui, mandorono, nel principio dell'anno mille quattrocento novantotto, a Roma uno imbasciadore, ma con commissione che procedesse con tale circospezione che il pontefice e gli altri potessino comprendere che in caso che Pisa fusse renduta loro si unirebbono con gli altri alla difesa d'Italia contro a' franzesi, e nondimeno che il re di Francia, se l'effetto non seguisse, non avesse causa di prendere sospetto di loro. Continuossi questo ragionamento in Roma molti giorni, facendo instanza apertamente il pontefice e gli oratori de' re di Spagna e del duca di Milano e quello del re di Napoli con lo imbasciadore viniziano, essere necessario per sicurtà comune unire con questo mezzo i fiorentini contro a' franzesi, e dovere il suo senato consentirvi insieme con gli altri, acciocché, estirpate le radici di tutti gli scandoli, non restasse piú alcuno in Italia che avesse cagione di chiamarvi gli oltramontani; l'unione della quale quando si impedisse per questo rispetto, si darebbe forse materia a gli altri di fare nuovi pensieri, da' quali in pregiudicio di tutti nascerebbe qualche importante alterazione. Ma era al tutto diversa la deliberazione del senato viniziano. Il quale, pretendendo alla sua cupidità vari colori, e accorgendosi da chi principalmente procedesse tanta instanza, rispondeva per mezzo del medesimo oratore lamentandosi gravissimamente, tale cosa non essere mossa dal rispetto del bene universale ma da maligna inclinazione che avea qualcuno de' collegati contro a loro, perché essendo i fiorentini congiuntissimi d'animo a' franzesi, e persuadendosi di avere per il ritorno loro in Italia a occupare la maggiore parte di Toscana, non era dubbio non bastare il reintegrargli di Pisa a rimuovergli da questa inclinazione, anzi essere cosa molto pericolosa il renderla loro, perché quanto piú fussino potenti tanto piú alla sicurtà d'Italia nocerebbono. Trattarsi in questa restituzione dell'onore e della fede di tutti ma principalmente della loro republica; perché avendo i confederati promesso tutti d'accordo a' pisani d'aiutargli a difendere la libertà e dipoi, perché ciascuno degli altri spendeva malvolentieri per il bene publico, lasciato il peso a loro soli, né essi ricusato a questo effetto alcuna spesa o travaglio, essere con troppo loro disonore l'abbandonarla, e mancare della fede data, la quale se gli altri non stimavano, essi, soliti sempre a osservarla non volevano in modo alcuno violare. Essere molestissimo al senato viniziano che, senza rispetto alcuno, fussino imputati dagli altri di quello che con consentimento comune avevano cominciato e per interesse comune avevano continuato, e che con tanta ingratitudine fussino lapidati delle buone opere; né meritare questa retribuzione le spese intollerabili che avevano fatte in questa impresa e in tante altre, e tanti travagli e pericoli sostenuti da loro dappoi che era stata fatta la lega: le quali cose erano state di natura che e' potevano arditamente dire che per opera loro si fusse salvata Italia, perché né in sul fiume del Taro si era combattuto con altre armi, né con altre armi recuperato il reame di Napoli, che con le loro. E quale esercito avere costretto Novara ad arrendersi? quale avere necessitato il re di Francia ad andarsene di là da' monti? quali forze essersegli opposte nel Piemonte, qualunque volta avea fatto pruova di ritornare? Né si potere già negare che queste azioni non fussino principalmente procedute dal desiderio che avevano della salute d'Italia, perché né erano mai stati i primi esposti a' pericoli, né per cagione loro nati disordini i quali fussino debitori di ricorreggere: perché né aveano chiamato il re di Francia in Italia né accompagnatolo poi che era stato condotto di qua da' monti, né per risparmiare i danari propri lasciato cadere in pericolo le cose comuni; anzi essere stato spesse volte di bisogno che 'l senato veneto rimediasse a' disordini nati per colpa d'altri in detrimento di tutti. Le quali opere se non erano conosciute o se sí presto erano poste in oblivione, non volere perciò, seguitando l'esempio poco scusabile degli altri, maculare né la fede né la degnità della loro republica; essendo massime congiunta nella conservazione della libertà de' pisani la sicurtà e il beneficio di tutta Italia.

                                                  

                                                 Lib.3, cap.15

                                                  

                                                 Morte di Carlo VIII e sue conseguenze. Decadenza dell'autorità del Savonarola in Firenze. Suo conflitto col pontefice. Suo supplizio.

                                                  

                                                 Le quali cose mentre che con aperta disunione si trattano tra i collegati, nuovo accidente che sopravenne partorí effetti molto diversi da' pensieri degli uomini; perché la notte innanzi all'ottavo dí d'aprile morí il re Carlo in Ambuosa, per accidente di gocciola, detto da' fisici apoplessia, sopravenuto mentre stava a vedere giocare alla palla, tanto potente che nel medesimo luogo finí tra poche ore la vita, con la quale aveva con maggiore impeto che virtú turbato il mondo, ed era pericoloso non lo turbasse di nuovo. Perché si credeva per molti che, per l'ardente disposizione che aveva di ritornare in Italia, arebbe pure una volta, o per propria cognizione o per suggestione di quegli che emulavano alla grandezza del cardinale di San Malò, rimosse le difficoltà che gli erano interposte: in modo che, se bene in Italia, secondo le sue variazioni, qualche volta augumentasse qualche volta diminuisse l'opinione della sua passata, non era però che non se ne stesse in continua sospensione; e perciò il pontefice, stimolato dalla cupidità d'esaltare i figliuoli, aveva già cominciato a trattare secretamente cose nuove con lui; e si divulgò poi, o vero o falso che fusse, che il duca di Milano, per non stare in continuo timore, aveva fatto il medesimo. Pervenne, perché Carlo morí senza figliuoli, il regno di Francia a Luigi duca di Orliens, piú prossimo di sangue per linea mascolina che alcun altro; al quale, come fu morto il re, concorse subito a Bles, dove allora era, la guardia reale e tutta la corte, e poi di mano in mano tutti i signori del regno, salutandolo e riconoscendolo per re: con tutto che per alcuno tacitamente si mormorasse che, secondo gli ordini antichi di quel reame, era diventato inabile alla degnità della corona, contro alla quale avea nella guerra di Brettagna pigliate l'armi.

                                                 Ma il dí seguente a quello nel quale terminò la vita di Carlo, dí celebrato da' cristiani per la solennità delle Palme, terminò in Firenze l'autorità del Savonarola. Il quale, essendo molto prima stato accusato al pontefice che scandalosamente predicasse contro a' costumi del clero e della corte romana, che in Firenze nutrisse discordie, che la dottrina sua non fusse al tutto cattolica, era per questo stato chiamato con piú brevi apostolici a Roma; il che avendo ricusato con allegare diverse escusazioni, era finalmente, l'anno precedente, stato dal pontefice separato con le censure dal consorzio della Chiesa. Per la quale sentenza poiché si fu astenuto per qualche mese dal predicare, arebbe, se si fusse astenuto piú lungamente, ottenuta con non molta difficoltà l'assoluzione, perché il pontefice, tenendo per se stesso poco conto di lui, si era mosso a procedergli contro piú per le suggestioni e stimoli degli avversari che per altra cagione: ma parendogli che dal silenzio declinasse cosí la sua riputazione, o si interrompesse il fine per il quale si moveva, come si era principalmente augumentato dalla veemenza del predicare, disprezzati i comandamenti del pontefice, ritornò di nuovo publicamente al medesimo uffizio; affermando le censure promulgate contro a lui, come contrarie alla divina volontà e come nocive al bene comune, essere ingiuste e invalide, e mordendo con grandissima veemenza il papa e tutta la corte. Da che essendo nata sollevazione grande, perché i suoi avversari, l'autorità de' quali ogni dí nel popolo diventava maggiore, detestavano questa inubbidienza, riprendendo che per la sua temerità si alterasse l'animo del pontefice, in tempo massimamente che trattandosi da lui con gli altri collegati della restituzione di Pisa era conveniente fare ogni opera per confermarlo in questa inclinazione, e da altra parte lo difendevano i suoi fautori, allegando non doversi per i rispetti umani turbare le opere divine né consentire che sotto questi colori i pontefici cominciassino a intromettersi nelle cose della loro republica, si stette molti dí in questa contenzione: tanto che sdegnandosi maravigliosamente il pontefice, e fulminando con nuovi brevi e con minaccie di censure contro a tutta la città, fu finalmente comandatogli da' magistrati che desistesse dal predicare; a' quali avendo egli ubbidito, facevano nondimeno molti de' suoi frati in diverse chiese il medesimo. Ma non essendo minore la divisione tra' religiosi che tra' laici, non cessavano i frati degli altri ordini di predicare ferventemente contro a lui; e proroppono alla fine in tanto ardore che uno de' frati aderenti al Savonarola e uno de' frati minori si convennono di entrare, in presenza di tutto il popolo, nel fuoco, acciocché salvandosi o abbruciando quello del Savonarola restasse certo ciascuno se egli era o profeta o ingannatore: imperocché prima aveva molte volte predicando affermato che per segno della verità delle sue predizioni otterrebbe, quando fusse di bisogno, grazia da Dio di passare senza lesione per mezzo del fuoco. E nondimeno, essendogli molesto che il ragionamento del farne di presente esperienza fusse stato mosso senza saputa sua, tentò con destrezza di interromperlo; ma essendo la cosa per se stessa andata molto innanzi, e sollecitata da alcuni cittadini che desideravano che la città si liberasse da tanta molestia, fu necessario finalmente procedere piú oltre. E però essendo, il dí deputato, venuti i due frati, accompagnandogli tutti i suoi religiosi, in sulla piazza che è innanzi al palagio publico, ove era concorso non solo tutto il popolo fiorentino ma molti delle città vicine, pervenne a notizia de' frati minori il Savonarola avere ordinato che il suo frate, quando entrava nel fuoco, portasse in mano il Sacramento; alla qual cosa cominciando a reclamare, e allegando che con questo modo si cercava di mettere in pericolo l'autorità della fede cristiana, la quale negli animi degli imperiti declinerebbe molto se quella ostia abbruciasse, e perseverando pure il Savonarola, che era presente, nella sua sentenza, nata tra loro discordia, non si procedette a farne esperienza: per la qual cosa declinò tanto del suo credito che 'l dí seguente, nato a caso certo tumulto, gli avversari suoi, prese l'armi e aggiunta all'armi loro l'autorità del sommo magistrato, espugnato il monasterio di San Marco dove abitava, lo condusseno insieme con due de' suoi frati nelle carceri publiche. Nel quale tumulto i parenti di coloro che l'anno passato erano stati decapitati ammazzorno Francesco Valori, cittadino molto grande e primo de' fautori del Savonarola, perché l'autorità sua era sopra tutti gli altri stata cagione che e' fussino stati privati della facoltà di ricorrere al giudicio del consiglio popolare. Fu dipoi esaminato con tormenti, benché non molto gravi, il Savonarola, e in sugli esamini publicato uno processo; il quale, rimovendo tutte le calunnie che gli erano state date, o di avarizia o di costumi inonesti o d'avere tenuto pratiche occulte con príncipi, conteneva le cose predette da lui essere state predette non per rivelazione divina ma per opinione propria fondata in sulla dottrina e osservazione della scrittura sacra, né essersi mosso per fine maligno o per cupidità d'acquistare con questo mezzo grandezza ecclesiastica, ma bene avere desiderato che per opera sua si convocasse il concilio universale, nel quale si riformassino i costumi corrotti del clero, e lo stato della Chiesa di Dio, tanto trascorso, si riducesse in piú similitudine che fusse possibile a' tempi che furono prossimi a' tempi degli apostoli: la quale gloria, di dare perfezione a tanta e sí salutare opera, avere stimato molto piú che 'l conseguire il pontificato, perché quello non poteva succedere se non per mezzo di eccellentissima dottrina e virtú, e di singolare riverenza che gli avessino tutti gli uomini, ma il pontificato ottenersi spesso o con male arti o per beneficio di fortuna. Sopra il quale processo, confermato da lui in presenza di molti religiosi, eziandio del suo ordine, ma con parole, se è vero quel che poi divulgorono i suoi seguaci, concise e da potere ricevere diverse interpretazioni, gli furono, per sentenza del generale di San Domenico e del vescovo Romolino, che fu poi cardinale di Surrento, commissari deputati dal pontefice, insieme con gli altri due frati, aboliti con le cerimonie instituite dalla Chiesa romana gli ordini sacri e lasciato in potestà della corte secolare; dalla quale furono impiccati e abbruciati: concorrendo allo spettacolo della degradazione e del supplicio non minore moltitudine d'uomini che il dí destinato a fare l'esperimento di entrare nel fuoco fusse concorsa nel luogo medesimo, all'espettazione del miracolo promesso da lui. La quale morte, sopportata con animo costante ma senza esprimere parola alcuna che significasse o il delitto o la innocenza, non spense la varietà de' giudici e delle passioni degli uomini; perché molti lo reputorono ingannatore, molti per contrario credettono o che la confessione che si publicò fusse stata falsamente fabricata o che nella complessione sua, molto delicata, avesse potuto piú la forza de' tormenti che la verità: scusando questa fragilità con l'esempio del principe degli apostoli, il quale, non incarcerato né astretto da' tormenti o da forza alcuna estraordinaria ma a semplici parole di ancille e di servi, negò di essere discepolo di quello maestro nel quale aveva veduto tanti santi precetti e miracoli.

                                             

                                                 Lib.4, cap.1

                                                  

                                                 Diritti del nuovo re di Francia al ducato di Milano e suo desiderio di rivendicarli. Disposizione d'animo de' principi e de' governi italiani verso il nuovo re. I veneziani, il pontefice e i fiorentini mandano al re ambasciatori. Il re li accoglie lietamente ed inizia subito trattative con essi.

                                                  

                                                 Liberò la morte di Carlo re di Francia Italia dal timore de' pericoli imminenti dalla potenza de' franzesi, perché non si credeva che Luigi duodecimo nuovo re avesse, nel principio del suo regno, a implicarsi in guerre di qua da' monti. Ma non rimasono già gli animi degli uomini consideratori delle cose future liberi dal sospetto che il male differito non diventasse, in progresso di tempo, piú importante e maggiore, essendo pervenuto a tanto imperio uno re maturo d'anni esperimentato in molte guerre ordinato nello spendere e, senza comparazione, piú dependente da se stesso che non era stato l'antecessore; e al quale non solo appartenevano, come a re di Francia, le medesime ragioni al regno di Napoli ma ancora pretendeva che per ragioni proprie se gli appartenesse il ducato di Milano, per la successione di madama Valentina sua avola, la quale da Giovan Galeazzo Visconte suo padre, nanzi che di vicario imperiale ottenesse il titolo di duca di Milano, era stata maritata a Luigi duca d'Orliens fratello di Carlo sesto re di Francia, aggiugnendo alla dote, che fu la città e contado d'Asti e quantità grandissima di danari, espressa convenzione che mancando in qualunque tempo la linea sua mascolina succedesse nel ducato di Milano Valentina o, morta lei, i discendenti piú prossimi. La quale convenzione, per se stessa invalida, fu, se è vero quello che asseriscono i franzesi, vacante allora la sedia imperiale, confermata con l'autorità pontificale: perché i pontefici romani, fondandosi in sulle leggi fatte da loro medesimi, pretendono appartenersi a sé l'amministrazione dello imperio vacante. E però, essendo poi per la morte di Filippo Maria Visconte mancati i discendenti maschi di Giovan Galeazzo, cominciò Carlo duca di Orliens, figliuolo di Valentina, a pretendere alla successione di quello ducato; al quale (come l'ambizione de' príncipi è pronta ad abbracciare ogni apparente colore) pretendevano nel tempo medesimo e Federigo imperadore, come a stato che, estinta la linea nominata nella investitura fatta da Vincislao re de' romani a Giovan Galeazzo, fusse ricaduto allo imperio, e Alfonso re di Aragona e di Napoli, stato instituito erede nel testamento di Filippo. Ma essendo state piú potenti l'armi l'arti e la felicità di Francesco Sforza, il quale, per accompagnare l'armi con qualche apparenza di ragione, allegava dovere succedere Bianca sua moglie, figliuola unica ma naturale di Filippo, Carlo d'Orliens il quale, nelle guerre tra gl'inghilesi e i franzesi fatto prigione nella giornata di Dangicort, era dimorato venticinque anni prigione in Inghilterra, non potette per la povertà e per la mala fortuna sua tentare da se medesimo di ottenerla, né da Luigi undecimo re di Francia, benché congiuntissimo di sangue, impetrare mai aiuto alcuno; perché quel re, essendo stato nel principio del suo regnare molto infestato da' signori grandi del reame di Francia, i quali sotto titolo del bene publico gli congiurorno contro per interessi e sdegni privati, riputò sempre che per la bassezza de' potenti la sicurtà e la grandezza sua si confermasse. Per la quale ragione Luigi d'Orliens figliuolo di Carlo non potette, con tutto che fusse suo genero, impetrare da lui favore alcuno; e morto il suocero, non volendo tollerare che nel governo di Carlo ottavo, allora pupillo, gli fusse anteposta Anna duchessa di Borbone, sorella del re, suscitate con piccola fortuna in Francia cose nuove, passò, con fortuna minore, in Brettagna; perché, congiunto a quegli che non volevano che Carlo, per mezzo del matrimonio di Anna, erede, per la morte di Francesco suo padre senza figliuoli maschi, di quel ducato, conseguisse la Brettagna, anzi aspirando occultamente al medesimo matrimonio, fu preso nella giornata che tra' franzesi e i brettoni fu commessa appresso a Santo Albino in Brettagna, e, condotto in Francia, stette incarcerato due anni: in modo che, mancandogli la facoltà e, poi che per grazia regia fu liberato di prigione, gli aiuti di Carlo, non tentò quella impresa se non quando, per l'occasione di essere per commissione del re rimaso in Asti, entrò con poco successo in Novara. Ma diventato re di Francia, niuno desiderio ebbe piú ardente che d'acquistare, come cosa ereditaria, il ducato di Milano: nel quale desiderio nutritosi insino da puerizia, vi si era acceso molto piú perché, per le cose succedute a Novara e per le dimostrazioni insolenti che quando era in Asti gli erano state usate, aveva odio non mediocre contro a Lodovico Sforza. Però, pochi dí dopo la morte del re Carlo, con deliberazione stabilita nel suo consiglio, si intitolò non solamente re di Francia e, per rispetto del reame di Napoli, re di Ierusalem e dell'una e l'altra Sicilia, ma ancora duca di Milano; e per fare noto a ciascuno quale fusse la inclinazione sua alle cose d'Italia scrisse subito lettere congratulatorie della sua assunzione al pontefice a' viniziani a' fiorentini, e mandò uomini propri a dare speranza di nuove imprese, dimostrando espressamente d'avere nell'animo d'acquistare il ducato di Milano.

                                                 Alla quale cosa se gli presentava opportunità non piccola, ‑ avendo la morte di Carlo causate negli italiani inclinazioni molto diverse dalle passate: perché il pontefice, stimolato dagli interessi propri, i quali conosceva non potere saziare stando quieta Italia, desiderava che le cose di nuovo si turbassino; e i viniziani, cessato il timore che per le ingiurie fatte a Carlo avevano avuto di lui, non erano d'animo alieno da confidarsi del nuovo re. La quale disposizione era per augumentarsi ogni dí piú, perché Lodovico Sforza, se bene conoscesse dovere avere piú duro e piú implacabile inimico, nutrendosi con la speranza con la quale si nutriva similmente Federigo d'Aragona che e' non potesse cosí presto attendere alle cose di qua da' monti, e impedito dallo sdegno presente a discernere il pericolo futuro non era per astenersi da opporsi loro nelle cose di Pisa. Soli i fiorentini cominciavano a discostarsi con l'animo dell'amicizia franzese: perché se bene il nuovo re fusse stato prima loro fautore, ora, pervenuto alla corona, non aveva con essi vincolo alcuno, né per fede data né per benefici ricevuti, come aveva avuto l'antecessore, per le capitolazioni fatte in Firenze e in Asti, e per l'avere voluto piú presto sottoporsi a molti affanni e pericoli che abbandonare la sua congiunzione; e la discordia che continuamente cresceva tra i viniziani e il duca di Milano era cagione che, essendo cessato il timore avuto delle forze de' collegati, e sperando piú nel favore propinquo e certo di Lombardia che ne' soccorsi lontani e incerti di Francia, avevano cagione di stimare manco quella amicizia.

                                                 Nella quale diversa disposizione degli animi furono medesimamente diversi gli andamenti. Perché dal senato viniziano fu mandato subito a lui uno segretario che avevano appresso al duca di Savoia; e per gittare con questi princípi i fondamenti da stabilire seco quella amicizia che alla giornata ricercassino le occorrenze comuni, furono eletti tre oratori che andassino a rallegrarsi della sua successione, e a scusare che quello che avevano fatto contro a Carlo non era proceduto da altro che da sospetto, nato poiché per molti segni compresono che, non contento al regno di Napoli, distendeva già i pensieri suoi all'occupazione di tutta Italia: e il pontefice, disposto di trasferire Cesare suo figliuolo dal cardinalato a grandezza secolare, alzato l'animo a maggiori pensieri e mandatigli subito imbasciadori, disegnò di vendergli le grazie spirituali, ricevendone per prezzo stati temporali; perché sapeva il re desiderare ardentemente di ripudiare Giovanna sua moglie, sterile e mostruosa e che quasi violentemente gli era stata data da Luigi undecimo, suo padre, né avere minore desiderio di pigliare per moglie Anna restata vedova per la morte del re passato, non tanto per le reliquie dell'antica inclinazione che insino innanzi alla giornata di Santo Albino era stata tra loro, quanto per conseguire con questo matrimonio il ducato di Brettagna, ducato grande e molto opportuno al reame di Francia; le quali cose ottenere senza l'autorità pontificale non si potevano: né i fiorentini mancorono di mandargli imbasciadori, per l'antico instituto di quella città con la corona di Francia, e per riconfermare seco i meriti loro e le obligazioni del re passato; sollecitati molto a questo medesimo dal duca di Milano, acciocché per mezzo loro si difficultassino le pratiche de' viniziani, avendosi dall'una e dall'altra republica a trattare delle cose di Pisa, e perché acquistando fede o autorità alcuna potessino usarla, con qualche occasione, a trattare concordia tra lui e il re di Francia, il che egli sommamente desiderava. I quali tutti furono lietamente raccolti dal re, e dato subitamente principio a trattare con ciascuno: benché gli fusse fisso nell'animo di non muovere cosa alcuna in Italia se prima non avesse assicurato il regno di Francia, per mezzo di nuove congiunzioni co' príncipi vicini.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.2

                                                  

                                                 Lodovico Sforza delibera d'aiutare con l'armi i fiorentini a ricuperare Pisa. Rotta de' fiorentini nella valle di S. Regolo. Richieste d'aiuto a Lodovico Sforza. Lotta in terra di Roma tra Colonnesi ed Orsini e sua composizione. Lodovico Sforza aiuta scopertamente i fiorentini ed invano incita ad agire similmente il pontefice. Il duca di Milano s'adopera ad allontanare da' pisani quanti li sostengono.

                                                  

                                                 Ma era fatale che lo incendio di Pisa, stato suscitato e nutrito dal duca di Milano per appetito immoderato di dominare, avesse finalmente ad abbruciare l'autore. Perché egli, e per l'emulazione e per il pericolo che dalla troppa grandezza de' viniziani vedeva soprastare a sé e agli altri d'Italia, non poteva pazientemente comportare che 'l frutto delle sue arti e fatiche fusse ricolto da loro; e avendo l'occasione della disposizione de' fiorentini, ostinati a non cessare per qualunque accidente dalle offese de' pisani, e parendogli per la caduta del Savonarola, e per la morte di Francesco Valori, che aveva tenuto le parti contrarie a lui, potere piú confidare di quella città che non aveva fatto per il passato, deliberò d'aiutare i fiorentini alla recuperazione di Pisa con l'armi, poiché le pratiche e l'autorità sua e degli altri non era stata bastante: persuadendosi vanamente o che, innanzi che dal re di Francia potesse essere fatto movimento alcuno, Pisa sarebbe, o per forza o per concordia, ridotta in potestà de' fiorentini o veramente che il senato viniziano, ritenuto da quella prudenza che non aveva potuto in se medesimo, non avesse mai, per sdegni e per cagioni anco importanti, a desiderare che con pericolo comune ritornassino l'armi franzesi in Italia, le quali si era tanto affaticato per cacciarne.

                                                 La quale imprudentissima deliberazione uno disordine che contro a' fiorentini succedette nel contado di Pisa gli fece accelerare. Perché avendo avuto notizia le genti loro, che erano al Pontadera, che circa settecento cavalli e fanti usciti di Pisa ritornavano con una grossa preda, fatta nella Maremma di Volterra, andorono quasi tutti, guidati dal conte Renuccio e da Guglielmo de' Pazzi commissario fiorentino, a tagliare loro la strada per ricuperarla; e avendogli riscontrati nella valle di Santo Regolo gli avevano messi in disordine e riavuta la maggiore parte della preda, quando sopragiunsono centocinquanta uomini d'arme, che per soccorrere i suoi erano partiti di Pisa poi che avevano inteso la mossa delle genti de' fiorentini: i quali, trovatigli stracchi e parte disordinati nel rubare, non potendo l'autorità del conte Renuccio ridurre i suoi uomini d'arme a fare testa, dopo essere stata fatta da' fanti qualche difesa, gli messono in fuga, morti molti fanti, presi molti de' capi e la maggiore parte de' cavalli; in modo che non senza difficoltà il commissario e il conte si salvorono in Santo Regolo, dando, come si fa nelle cose avverse, imputazione l'uno all'altro del disordine seguito. Afflisse questa rotta i fiorentini, i quali, per provedere subito al pericolo, né potendo armarsi sí presto d'altri soldati, ed essendo in mala riputazione e con la compagnia svaligiata il conte Renuccio, che era governatore generale delle genti loro, deliberorno di voltare a Pisa i Vitelli che erano nel contado d'Arezzo: ma furno necessitati concedere a Paolo il titolo di capitano generale del loro esercito. Costrinsegli ancora questo caso a ricercare con grande instanza aiuto dal duca di Milano: e tanto piú che, subito dopo la rotta, avevano supplicato al re di Francia che, per rimuovere con le forze e con l'autorità i loro pericoli, mandasse trecento lancie in Toscana, ratificasse la condotta, fatta vivente Carlo, de' Vitelli, provedendo per la porzione sua al pagamento, e confortasse i viniziani ad astenersi da offendergli; delle quali cose, perché il re non voleva farsi odioso o sospetto a' viniziani né muovere in Italia cosa alcuna se non quando volesse cominciare la guerra contro allo stato di Milano, avevano riportato parole grate senza effetti. Ma il duca non fu lento in questo bisogno, dubitando che i viniziani non pigliassino, con l'occasione della vittoria, tanto campo che fusse poi troppo difficile a reprimergli: e però, data a' fiorentini ferma intenzione di soccorrergli, volle prima risolvere con loro che provisioni fussino necessarie non solo a difendersi ma a condurre a fine l'impresa di Pisa.

                                                 Alla quale, perché per quell'anno non si temeva di moto alcuno del re di Francia, erano volti gli occhi di tutta Italia, quieta allora da ogni altra perturbazione: conciossiacosaché, se bene in terra di Roma si fussino prese l'armi tra i Colonnesi e gli Orsini, era la prudenza di loro medesimi stata presto superiore agli odii e alle inimicizie. L'origine fu che i Colonnesi e i Savelli, mossi dalla occupazione, fatta da Iacopo Conte di Torremattia, avevano assaltate le terre della famiglia de' Conti; e da altra parte gli Orsini, per la congiunzione delle fazioni, aveano prese l'armi in favore loro: di maniera che, essendosi occupate per l'una parte e per l'altra piú castella, combatterono finalmente insieme con tutte le forze a piè di Monticelli nel contado di Tivoli; dove dopo lunga e valorosa battaglia, stimolandogli non meno la passione ardente delle parti che la gloria e l'interesse degli stati, gli Orsini, che aveano dumila fanti e ottocento cavalli, furono messi in fuga, perderono le bandiere e restò prigione Carlo Orsino; e dalla parte de' Colonnesi fu ferito Antonello Savello assai chiaro condottiere, che ne morí pochi dí poi. Dopo il quale successo, il pontefice, mostrando essergli molesta la turbazione del paese propinquo a Roma, si interpose alla concordia: la quale mentre che con non troppo buona fede si tratta da lui, secondo la sua duplicità, gli Orsini, raccolte nuove forze, andorono a campo a Palombara terra principale de' Savelli; e si preparavano per andare a soccorrerla i Colonnesi, che dopo la vittoria avevano occupate molte castella de' Conti. Ma accortasi l'una parte e l'altra che 'l pontefice, dando animo ora a' Colonnesi ora agli Orsini, nutriva la guerra, per potere alla fine quando fussino consumati opprimergli tutti, si ridussono senza interposizione d'altri a parlamento insieme a Tivoli, dove il dí medesimo conchiusono l'accordo: per il quale fu liberato Carlo Orsino, restituite a ciascuno le terre tolte in questa contenzione, e la differenza de' contadi d'Albi e di Tagliacozzo rimessa nel re Federigo, del quale erano soldati i Colonnesi.

                                                 Posato presto questo movimento, né mescolandosi altre armi in Italia che nel contado di Pisa, il duca di Milano, benché da principio avesse deliberato di non dare aiuto scopertamente a' fiorentini ma sovvenirgli occultamente con danari, traportato ogni dí piú dallo sdegno e dal dispiacere, né astenendosi da parole insolenti e minatorie contro a' viniziani, determinò di dimostrarsi senza rispetto. Però negò il passo alle genti loro, le quali per la via di Parma e di Pontriemoli andavano a Pisa, necessitandole a passare per il paese del duca di Ferrara, cammino piú lungo e piú difficile; operò che Cesare comandò a tutti gli oratori che erano appresso a lui, eccetto quello de' re di Spagna, che si partissino, e che dopo pochi dí gli richiamò tutti eccetto il viniziano; mandò a' fiorentini trecento balestrieri, e concorse con loro alla condotta di trecento uomini d'arme, parte sotto il signore di Piombino parte sotto Gian Paolo Baglione; e in piú volte prestò loro piú di trentamila ducati, offerendo continuamente, quando fusse di bisogno, maggiori aiuti. Fece oltre a queste cose instanza col pontefice che, ricercato da' fiorentini, porgesse qualche sussidio. Il quale, dimostrando di conoscere che lo stabilirsi in Pisa i viniziani era pernicioso allo stato della Chiesa, promesse mandare loro cento uomini d'arme e tre galee sottili, le quali sotto il capitano Villamarina erano a' soldi suoi, per impedire che per mare non entrassino in Pisa vettovaglie; nondimeno, poiché con varie scuse ebbe differito il mandargli, lo negò alla fine apertamente, perché ogni dí piú, rimovendosi dagli altri pensieri, si risolveva a ristrignersi col re di Francia, sperando di conseguire per mezzo suo non premi mediocri e usitati ma il reame di Napoli: essendo spesso proprio degli uomini farsi facile con la voglia e con la speranza quello che con la ragione conoscono essere difficile. Ed era quasi fatale che in lui fussino origine a cose nuove le repulse de' parentadi avute da' re d'Aragona. Perché, innanzi che totalmente deliberasse di unirsi col re di Francia, aveva dimandato che al cardinale di Valenza, parato a rinunziare alla prima occasione al cardinalato, il re Federigo concedesse per moglie la figliuola, e in dote il principato di Taranto; persuadendosi che se il figliuolo, grande d'ingegno e d'animo, si insignorisse di uno membro tanto importante di quel reame, potesse facilmente, avendo in matrimonio una figliuola regia, avere occasione, con le forze e con le ragioni della Chiesa, di spogliare del regno il suocero, debole di forze ed esausto di danari, e dal quale erano alieni gli animi di molti de' baroni. La qual cosa benché fusse caldamente favorita dal duca di Milano, dimostrando a Federigo, con ragioni efficaci e poi con parole aspre, per mezzo di Marchesino Stanga, il quale mandò per questo a Roma e a Napoli imbasciadore, con quanto suo pericolo il pontefice, escluso di tale desiderio, precipiterebbe a congiugnersi col re di Francia, e ricordandogli quanta imprudenza e pusillanimità fusse, dove si trattava della salute del tutto, avere in considerazione la indegnità e non sapere sforzare se medesimo ad anteporre la conservazione dello stato alla propria volontà, nondimeno Federigo ricusò sempre ostinatamente: confessando che la alienazione del papa era per mettere in pericolo il suo reame, ma che conosceva anche che 'l dare la figliuola, col principato di Taranto, al cardinale di Valenza lo metteva in pericolo; e però de' due pericoli volere piú presto sottoporsi a quello nel quale si incorrerebbe piú onorevolmente, e che non nascerebbe da alcuna sua azione. Donde il papa, avendo voltato in tutto l'animo a unirsi col re di Francia, e desiderando che il medesimo facessino i viniziani, s'astenne per non gli offendere da favorire con l'armi i fiorentini.

                                                 I quali, inanimiti per gli aiuti sí pronti del duca di Milano e per la fama della virtú di Paolo Vitelli, non erano per pretermettere cosa alcuna, se bene l'impresa fusse riputata difficile: perché, oltre al numero l'esperienza e l'animo de' cittadini e contadini pisani, aveano in Pisa i viniziani quattrocento uomini d'arme e ottocento stradiotti e piú di dumila fanti, ed erano disposti a mandarvi forze maggiori; non essendo manco pronti degli altri, per l'onore publico, a sostenere i pisani coloro che da principio avevano contradetto che si accettassino in protezione. La deliberazione fatta con consiglio comune di Lodovico Sforza e de' fiorentini fu di augumentare talmente l'esercito che e' fusse potente a espugnare le terre del contado di Pisa, e di fare ogni opera perché tutti i vicini desistessino da dare favore a' pisani o da molestare, per ordine de' viniziani, da altre parti i fiorentini. Però, avendo Lodovico, prima che deliberasse di scoprirsi, condotto con dugento uomini d'arme a comune co' viniziani Giovanni Bentivogli, operò tanto che l'obligò, con lo stato di Bologna, a sé solo; e per confermarlo tanto piú, i fiorentini condussono Alessandro suo figliuolo. E perché, se i viniziani, che avevano in protezione il signore di Faenza, facessino dalla parte di Romagna qualche insulto, vi trovassino resistenza, condussono i fiorentini con cento cinquanta uomini d'arme Ottaviano da Riario signore d'Imola e di Furlí, che si reggeva ad arbitrio di Caterina Sforza sua madre; la quale seguitava senza rispetto alcuno le parti di Lodovico e de' fiorentini, mossa da piú cagioni ma specialmente per essersi maritata occultamente a Giovanni de' Medici, il quale il duca di Milano, non contento del governo popolare, desiderava di fare, insieme col fratello, grande in Firenze. Procurò medesimamente Lodovico co' lucchesi, co' quali aveva grandissima autorità, che non favorissino piú i pisani come sempre avevano fatto; il che se bene non osservorono in tutto, se ne astenneno assai per suo rispetto. Restavano i genovesi e i sanesi, inimici antichi de' fiorentini e tra' quali militavano le cagioni delle controversie, con questi per Montepulciano, con quegli per le cose di Lunigiana; e de' sanesi era da temere che acciecati dall'odio non dessino, come in altri tempi molte volte con danno proprio avevano fatto, comodità a ciascuno di turbare, per il loro stato, i fiorentini; e con tutto che a' genovesi, per l'antiche inimicizie, fusse molesto che i viniziani si confermassino in Pisa, nondimeno (come in quella città suole essere piccola cura del beneficio publico) comportavano a' pisani e a' legni de' viniziani il commercio delle loro riviere, per l'utilità che ne perveniva in molti privati, onde i pisani ricevevano grandissime comodità: però, per consiglio di Lodovico, furono da' fiorentini mandati a Genova e a Siena imbasciadori, per trattare per mezzo suo di comporre le controversie. Ma le pratiche co' genovesi non partorirono frutto alcuno, perché domandavano la cessione libera delle ragioni di Serezana, senza dare altro ricompenso che una semplice promessa di vietare a' pisani le comodità del paese loro; e a' fiorentini pareva la perdita sí certa e, a rispetto di questa, il guadagno sí piccolo e sí dubbio che ricusorono di comperare con questo prezzo la loro amicizia.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.3

                                                  

                                                 I fiorentini riprendono piú attivamente la guerra contro Pisa. Fallite trattative fra i fiorentini e i veneziani riguardo a Pisa. I veneziani tentano inutilmente d'avere l'appoggio di Siena. Siena s'accorda con Firenze. Vani tentativi delle milizie veneziane di passare dalla Romagna in Toscana.

                                                  

                                                 Ma mentre che queste cose in vari luoghi si trattano, l'esercito fiorentino, potente piú di cavalli che di fanti, uscí alla campagna sotto il nuovo capitano; e perciò i pisani, i quali dopo la vittoria di Santo Regolo avevano a piacimento loro scorso con gli stradiotti tutto il paese, si levorno da Ponte di Sacco, dove ultimatamente si erano accampati; e Paolo Vitelli, presa Calcinaia, soprastando ad aspettare provisione di piú fanti, messe un dí uno aguato presso a Cascina, dove si erano ridotte le genti viniziane, che, governate da Marco da Martinengo, non avevano né ubbidienza né ordine, per il quale ammazzò molti stradiotti e Giovanni Gradanico condottiere di genti d'arme, e fu fatto prigione Franco capo di stradiotti con cento cavalli. Per questo accidente le genti de' viniziani, non si assicurando piú di stare a Cascina, si ritirorono nel borgo di San Marco, aspettando che da Vinegia venissino nuove genti. Ma Paolo Vitelli, poiché fu proveduto di fanti, avendo fatto con le spianate segno di volere assaltare Cascina, e cosí credendo i pisani, passato all'improviso il fiume d'Arno, pose il campo al castello di Buti; avendo prima mandato tremila fanti a occupare i poggi vicini, e condottevi con copia grande di guastatori l'artiglierie per la via del monte, con maravigliosa difficoltà per l'asprezza del cammino. Prese Buti per forza, il secondo dí poi che ebbe piantate l'artiglierie. Fu eletta da Paolo questa impresa perché, giudicando che Pisa, nella quale era ostinazione inestimabile cosí nel popolo come ne' contadini che vi si erano ridotti dentro, e che già tutti per il lungo uso erano diventati sufficienti nella guerra, fusse impossibile a pigliare per forza, essendovi potenti gli aiuti de' viniziani e la città per se stessa molto forte di muraglia, ebbe per migliore consiglio attendere a consumarla che a sforzarla e, trasferendo la guerra in quella parte del paese che è dalla mano destra del fiume d'Arno, cercare di pigliare quegli luoghi e farsi padrone di quegli siti da' quali potesse essere impedito il soccorso che vi andasse per terra di paese forestiero; e però fatto, dopo l'espugnazione di Buti, uno bastione in sui monti che sono sopra a San Giovanni della Vena, andò a campo al bastione che presso a Vico Pisano avevano fatto i pisani, conducendovi con la medesima difficoltà l'artiglierie; e preso nel medesimo tempo tutto il Valdicalci e fatto sopra Vico, in luogo detto Pietradolorosa, un altro bastione per impedire che non vi entrasse soccorso alcuno, teneva oltre a questo assediata la fortezza della Verrucola. E perché i pisani, dubitando non fusse assaltata Librafatta e Valdiserchio, fussino manco arditi a discostarsi da Pisa, era il conte Renuccio fermatosi con altre genti in Valdinievole. E nondimeno, quattrocento fanti usciti di Pisa roppeno i fanti che negligentemente alloggiavano nella chiesa di San Michele per l'assedio della Verrucola. Ma Paolo, acquistato che ebbe il bastione, il quale si arrendé con facoltà di ridurre l'artiglierie a Vico Pisano, pose il campo a Vico Pisano, non da quella parte dove, quando egli vi era alla difesa, l'avevano posto i fiorentini ma di verso San Giovanni della Vena, donde si impediva il venirvi soccorso da Pisa; e avendo gittato in terra con l'artiglierie non piccola parte delle mura, quegli di dentro, disperandosi d'essere soccorsi, si arrenderono, salvo l'avere e le persone: spaventati da perseverare ostinatamente insino all'ultimo perché Paolo, quando espugnò Buti, aveva, per mettere terrore negli altri, fatto tagliare le mani a tre bombardieri tedeschi che vi erano dentro e usata la vittoria crudelmente. Preso Vico, ebbe subito occasione di un'altra prosperità. Perché le genti che erano in Pisa, sperando essere facile l'espugnare allo improviso il bastione di Pietradolorosa, vi si presentorono innanzi giorno con dugento cavalli leggieri e molti fanti, ma trovandovi resistenza maggiore di quello che si erano persuasi, vi perderono piú tempo che non avevano disegnato; in modo che essendosi, mentre davano l'assalto, scoperto Paolo in su quegli monti, il quale con una parte dell'esercito andava a soccorrerlo, ritirandosi verso Pisa scontrorno nella pianura verso Calci Vitellozzo, venuto in quello luogo con un'altra parte delle genti per impedire loro il ritorno: col quale mentre combatteno, sopravenendo Paolo, si messono in fuga, perduti molti cavalli e la maggiore parte de' fanti.

                                                 Ma in questo mezzo i fiorentini, avendo qualche indizio dal duca di Ferrara e da altri che i viniziani avevano inclinazione alla concordia, ma che vi si indurrebbono piú facilmente se, come pareva convenirsi alla degnità di tanta republica, si procedesse con loro con le dimostrazioni non come con eguali ma come con maggiori, mandorono, per tentare la loro disposizione, imbasciadori a Vinegia Guidantonio Vespucci e Bernardo Rucellai, due de' piú onorati cittadini della loro republica: la qual cosa si erano astenuti di fare insino a questo tempo, parte per non offendere l'animo del re Carlo parte perché, mentre si conobbono impotenti a opprimere i pisani, avevano giudicato dovere essere inutili i prieghi non accompagnati né con la riputazione né con le forze; ma ora che l'armi loro erano potenti in campagna, e il duca di Milano scoperto totalmente contro a' viniziani, non erano senza speranza d'avere a trovare qualche modo di onesta composizione. Però gl'imbasciadori, ricevuti onoratamente, introdotti al doge e al collegio, poi che ebbono scusato il non vi essere andati prima imbasciadori, per diversi rispetti nati dalla qualità de' tempi e da' vari accidenti della loro città, dimandorono liberamente che si astenessino dalla difesa di Pisa; dimostrando confidarsi di ottenere questa dimanda, perché la republica fiorentina non aveva dato loro causa di offenderla, e perché avendo il senato viniziano avuto sempre fama di giustissimo non vedevano dovesse partirsi dalla giustizia, la quale, essendo la base e il fondamento di tutte le virtú, era conveniente che a ogni altro rispetto fusse anteposta. Alla quale proposta rispose il doge essere la verità che da' fiorentini non avevano ricevuta in questi tempi ingiuria alcuna, né essere il senato entrato alla difesa di Pisa per desiderio di offendergli ma perché, avendo i fiorentini soli in Italia seguitata la parte franzese, il rispetto dell'utilità comune aveva indotto tutti i potenti della lega a dare la fede a' pisani di aiutargli a difendere la libertà; e che se gli altri si dimenticavano della fede data non volevano essi, contro al costume della loro republica, imitargli in cosa tanto indegna: ma che se si proponesse qualche modo mediante il quale si conservasse a' pisani la libertà, dimostrerebbeno a tutto il mondo che né cupidità particolare né rispetto alcuno dello interesse proprio era cagione di fargli perseverare nella difesa di Pisa. Disputossi poi per qualche dí quale potesse essere il modo da sodisfare all'una parte e all'altra; né volendo o i viniziani o gli oratori fiorentini proporne alcuno, furno contenti che lo imbasciadore de' re di Spagna, che gli confortava alla concordia, si interponesse tra loro: il quale avendo proposto che i pisani ritornassino alla divozione de' fiorentini non come sudditi ma per raccomandati, e con quelle medesime capitolazioni che erano state concedute alla città di Pistoia, come cosa media tra la servitú e la libertà, risposeno i viniziani non conoscere parte alcuna di libertà in una città nella quale le fortezze e l'amministrazione della giustizia fussino in potestà d'altri. Donde gli oratori fiorentini, non sperando di ottenere cosa alcuna, si partirono da Vinegia assai certi che i viniziani non abbandonerebbono se non per necessità la difesa di Pisa, dove continuamente mandavano gente.

                                                 Perché né da principio erano stati con molto timore dell'impresa de' fiorentini, considerando che per non si essere cominciata al principio della primavera non potevano stare molto tempo in campagna, essendo il paese di Pisa per la bassezza sua molto sottoposto all'acque; e perché, avendo soldato di nuovo sotto il duca d'Urbino, al quale detteno il titolo di governatore, e sotto alcuni altri condottieri cinquecento uomini d'arme, e avendo diverse intelligenze, avevano determinato, per divertire i fiorentini dall'offese de' pisani, di rompere la guerra in altro luogo; disegnando dipoi di fare muovere Piero de' Medici: per conforto del quale soldorono con dugento uomini d'arme Carlo Orsino e Bartolomeo d'Alviano. Né furono senza speranza di indurre Giovanni Bentivogli a consentire che la guerra si rompesse a' fiorentini dalla parte di Bologna. Perché il duca di Milano, sdegnato che nella condotta di Annibale suo figliuolo gli avesse anteposti i viniziani, e ricordandosi, per questa offesa nuova, delle ingiurie vecchie ricevute, secondo diceva, da lui quando Ferdinando duca di Calavria passò in Romagna, aveva tolto certe castella possedute per causa dotale da Alessandro suo figliuolo nel ducato di Milano; né si asteneva da aspreggiarlo con ogni dimostrazione: ma avendo pure finalmente, per intercessione de' fiorentini, restituite quelle castella, fu interrotto il disegno fatto di rompere la guerra da quella parte. Però si sforzorono i viniziani di disporre i sanesi a concedere che e' movessino l'armi per il territorio loro; e dava speranza di ottenerlo, oltre all'ordinaria disposizione contro a' fiorentini, la divisione che era in Siena tra' cittadini. Perché avendosi Pandolfo Petrucci con lo ingegno e astuzia sua arrogata autorità grande, Niccolò Borghesi suo suocero e la famiglia de' Belanti, a' quali era molesta la sua potenza, desideravano si concedesse il passo al duca d'Urbino e agli Orsini, i quali con quattrocento uomini d'arme dumila fanti e quattrocento stradiotti si erano fermati, per commissione de' viniziani alla Fratta nel contado di Perugia; e allegavano che il fare tregua co' fiorentini, come faceva instanza il duca di Milano e come confortava Pandolfo, non era altro che dare loro comodità di espedire le cose di Pisa, le quali spedite, sarebbono tanto piú potenti a offendergli: però doversi, traendo frutto delle occasioni, come appartiene agli uomini prudenti, stare costanti in non fare con loro altro accordo che pace, ricevendo la cessione delle ragioni di Montepulciano; la quale cessione sapevano i fiorentini essere ostinati a non volere fare, donde di necessità si inferiva il consentire a' viniziani, appresso a' quali avendo essi occupato il primo luogo della grazia, speravano facilmente abbassare l'autorità di Pandolfo. Il quale, essendosi per i conforti del duca di Milano fatto autore della opinione contraria, non ebbe piccola difficoltà a sostenere il suo parere; perché nel popolo poteva naturalmente l'odio de' fiorentini, ed era molto apparente la persuasione di potere con questo terrore ottenere la cessione di Montepulciano: la quale cupidità accompagnata dall'odio aveva piú forza che la considerazione, allegata da Pandolfo, de' travagli che seguiterebbono la guerra accostandola alla casa propria, e de' pericoli ne' quali col tempo gli condurrebbe la grandezza de' viniziani in Toscana. Di che diceva non essere necessario cercare gli esempli di altri: perché era fresca la memoria che l'essersi, l'anno mille quattrocento settantotto, aderiti a Ferdinando re di Napoli contro a' fiorentini, gli conduceva totalmente in servitú se Ferdinando, per la occupazione che Maumeth ottomanno fece nel regno di Napoli della città di Otranto, non fusse stato costretto a rivocare la persona di Alfonso suo figliuolo e le sue genti da Siena; senza che, per l'istorie loro potevano avere notizia che la medesima cupidità di offendere i fiorentini per mezzo del conte di Virtú, e lo sdegno conceputo per conto del medesimo Montepulciano, era stato cagione che da se stessi gli avessino sottomessa la propria patria. Le quali ragioni, benché vere, non essendo bastanti a reprimere l'ardore e gli affetti loro, non stava senza pericolo che dagli avversari suoi non si suscitasse qualche tumulto. Se non che egli, prevenendo, tirò allo improviso in Siena molti amici suoi del contado, e operò che nel tempo medesimo i fiorentini mandorono al Poggio Imperiale trecento uomini d'arme e mille fanti; con la riputazione delle quali forze raffrenato l'ardire degli avversari, ottenne che si facesse tregua per cinque anni co' fiorentini: i quali, preponendo il timore de' pericoli presenti al rispetto della dignità, si obligorono a disfare una parte del ponte a Valiano e a fare gittare in terra il bastione tanto molesto a' sanesi; concedendo oltre a questo che i sanesi, fra certo tempo, potessino edificare qualunque fortezza volessino tra il letto delle Chiane e la terra di Montepulciano. Per il quale accordo diventato maggiore Pandolfo, poté poco poi fare ammazzare il suocero, che troppo arditamente attraversava i suoi disegni; e tolto via questo emulo e spaventati gli altri, confermarsi ogni dí piú nella tirannide.

                                                 Privati per questa concordia i viniziani della speranza di divertire, per la via di Siena, i fiorentini dalla impresa contro a' pisani, né avendo potuto ottenere da' perugini di muovere l'armi per il territorio loro, deliberorono di turbargli dalla parte di Romagna; sperando di occupare facilmente, col favore e aderenze vecchie che vi aveva Piero de' Medici, i luoghi tenuti da loro nello Apennino. Però, ottenuto dal piccolo signore di Faenza il passo per la valle di Lamone, con una parte delle genti che avevano in Romagna, con le quali si congiunseno Piero e Giuliano de' Medici, occuporono il borgo di Marradi posto in su lo Apennino, da quella parte che guarda verso Romagna; dove non ebbono resistenza perché Dionigi di Naldo, uomo della medesima valle, soldato con trecento fanti da' fiorentini perché insieme co' paesani lo difendesse, menò seco sí pochi fanti che non ebbe ardire di fermarvisi: e si accamporono alla rocca di Castiglione, che è in luogo eminente sopra al borgo predetto, sperando di ottenerla, se non per altro modo, per il mancamento che sapevano esservi di molte cose e specialmente d'acqua; e ottenendola rimaneva libera la facoltà di passare nel Mugello, paese vicino a Firenze. Ma alle piccole provisioni che vi erano dentro supplí la costanza del castellano, e al mancamento dell'acqua l'aiuto del cielo: perché una notte piovve tanto che, ripieni tutti i vasi e citerne, restorono liberi da questa difficoltà; e in questo mezzo il conte Renuccio, col signore di Piombino e alcuni piccoli condottieri, accostatosi per la via di Mugello in luogo propinquo agli inimici, gli costrinse a ritirarsi quasi fuggendo, perché facendo fondamento nella prestezza non erano andati a quella impresa molto potenti; e già il conte di Gaiazzo, mandato dal duca di Milano a Cotignuola con trecento uomini d'arme e mille fanti, e il Fracassa soldato del medesimo duca, che con cento uomini d'arme era a Furlí, si ordinavano per andare loro alle spalle. Però, volendo evitare questo pericolo, andorono a unirsi col duca d'Urbino, che si era partito del perugino, e con l'altre genti de' viniziani, le quali tutte insieme erano alloggiate tra Ravenna e Furlí, con poca speranza di alcuno progresso; essendo, oltre alle forze de' fiorentini, in Romagna cinquecento uomini d'arme cinquecento balestrieri e mille fanti del duca di Milano, e importando molto l'ostacolo d'Imola e di Furlí.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.4

                                                  

                                                 Paolo Vitelli toglie nuove terre a' pisani. Il marchese di Mantova passa dagli stipendi di Lodovico Sforza a quelli dei veneziani, e quindi sdegnato per la lentezza di questi ritorna col duca di Milano. L'Alviano occupa Bibbiena. I fiorentini per difendere il Casentino ritirano milizie dal contado di Pisa. I fiorentini riconquistano terre del Casentino. Maggiore stanchezza a Venezia per la guerra di Pisa e tentativi di accordi.

                                                  

                                                 Ma in questo mezzo Pagolo Vitelli, poiché dopo lo acquisto di Vico Pisano ebbe, per mancamento delle provisioni necessarie, soggiornato qualche dí, continuando nella medesima intenzione di impedire a' pisani la facilità del soccorso, si era indirizzato alla impresa di Librafatta; e per accostarvisi da quella parte della terra che era piú debole, e fuggire le molestie che potessino essere date allo esercito impedito da artiglierie e carriaggi, lasciata la via che per i monti scende nel piano di Pisa e quella che per il piano di Lucca gira alle radici del monte, fatta con moltitudine grande di guastatori una nuova via per i monti, ed espugnato per il cammino, il dí medesimo, il bastione di Montemaggiore fatto da' pisani in sulla sommità del monte, scese sicurissimamente nel piano di Librafatta. Alla quale accostatosi il dí seguente, e necessitati facilmente ad arrendersi i fanti messi a guardia di Potito e Castelvecchio, due torri distanti l'una dopo l'altra per piccolo spazio da Librafatta, piantò dalla seconda torre e da altri luoghi l'artiglierie contro alla terra, bene proveduta e guardata perché vi erano dugento fanti de' viniziani; da' quali luoghi battendo la muraglia da alto e da basso, sperò il primo dí di espugnarla: ma essendo per avventura ruinato uno arco della muraglia, quello ruinando, la notte, alzò quattro braccia il riparo cominciatovi; in modo che Paolo, avendo tentato invano tre dí di salirvi con le scale, cominciò del successo non mediocremente a dubitare, ricevendo l'esercito molti danni da una artiglieria di dentro che tirava per una bombardiera bassa. Ma fu la industria e virtú sua aiutata dal beneficio della fortuna, senza il favore della quale sono spesso fallaci i consigli de' capitani; perché da uno colpo d'artiglieria di quelle del campo fu rotta quella bombarda e ammazzato uno de' migliori bombardieri che fusse dentro, e passò la palla per tutta la terra. Dal qual caso spaventati, perché per l'artiglieria piantata alla seconda torre difficilmente potevano affacciarsi, si arrenderono il quarto dí, e poco poi la rocca, aspettati pochi colpi d'artiglieria, fece il medesimo. Acquistata Librafatta, attese a fare alcuni bastioni in sui monti vicini; ma sopra tutti uno forte e capace di molti uomini sopra Santa Maria in Castello, chiamato, dal monte in sul quale fu posto, il bastione della Ventura, il quale scorreva tutto il paese circostante, e dove è fama esserne anticamente stato fabricato un altro da Castruccio lucchese, capitano nobilissimo de' tempi suoi, acciocché, guardandosi questo e Librafatta, restassino impedite le comodità che, per la via di Lucca e di Pietrasanta, potessino andare a Pisa.

                                                 Ma non cessavano i viniziani di pensare a ogni rimedio per sollevare, ora per via di soccorso ora con diversione, quella città; della qual cosa potere fare accrebbono loro speranza le difficoltà che nacqueno tra il duca di Milano e il marchese di Mantova, condottosi di nuovo col duca. Il quale, per non privare del titolo di capitano generale delle sue genti Galeazzo da San Severino, maggiore appresso a lui per favore che per virtú, aveva promesso al marchese di dargli infra tre mesi titolo di capitano suo generale, a comune o con Cesare o col pontefice o col re Federigo o co' fiorentini; il che non avendo eseguito nel termine promesso, perché medesimamente a questo Galeazzo repugnava, e aggiugnendosi difficoltà per cagione de' pagamenti, il marchese voltò l'animo a ritornare agli stipendi de' viniziani, i quali trattavano di mandarlo con trecento uomini d'arme a soccorrere Pisa: il che presentendo Lodovico lo dichiarò, con consentimento di Galeazzo, capitano suo e di Cesare. Ma già il marchese andato a Vinegia, e dimostrata al senato grandissima confidenza di entrare in Pisa nonostante l'opposizione delle genti de' fiorentini, si era ricondotto con loro; e ricevuta parte de' denari e ritornato a Mantova attendeva a mettersi in ordine, e sarebbe entrato presto in cammino se i viniziani avessino usata la medesima celerità nello espedirlo che avevano usata nel condurlo: alla quale cosa cominciorno a procedere lentamente perché, essendo stata di nuovo data loro speranza di entrare, per mezzo di uno trattato tenuto da certi seguaci antichi de' Medici, in Bibbiena, castello del Casentino, giudicavano che, per la difficoltà del passare a Pisa, fusse piú utile attendere alla diversione che al soccorso. Dalla quale tardità il marchese sdegnato, di nuovo si ricondusse con Lodovico con trecento uomini d'arme e con cento cavalli leggieri, con titolo di capitano generale cesareo e suo; ritenendo a conto degli stipendi vecchi i danari avuti da loro.

                                                 Non era stata senza qualche sospetto de' fiorentini la pratica di questo trattato, anzi, oltre a molte notizie avutene generalmente, ne avevano non molti dí innanzi ricevuto avviso piú particolare da Bologna. Ma sono inutili i consigli diligenti e prudenti quando l'esecuzione procede con negligenza e imprudenza. Il commissario, il quale per assicurarsi da questo pericolo subito vi mandorono, poi che ebbe ritenuti quegli de' quali si aveva maggiore sospetto e che erano consci della cosa, prestata imprudentemente fede alle parole loro, gli rilasciò; e nell'altre azioni fu sí poco diligente che fece facile il disegno all'Alviano, deputato alla esecuzione di questo trattato. Perché avendo mandati innanzi alcuni cavalli in abito di viandanti, i quali, dopo avere cavalcato tutta la notte, giunti in sul fare del dí alla porta l'occuporono senza difficoltà, non avendo il commissario postavi guardia alcuna, né almeno proveduto che la si aprisse piú tardi che non era consueto aprirsi ne' tempi non sospetti, dietro a questi sopravenneno di mano in mano altri cavalli, che avevano per il cammino data voce di essere gente de' Vitelli; e levatisi in loro favore i congiurati, si insignorirno presto di tutta la terra. E il medesimo dí vi arrivò l'Alviano, il quale, benché con poca gente, come per sua natura spingeva con incredibile celerità sempre innanzi le occasioni, andò subito ad assaltare Poppi castello principale di tutta quella valle: ma trovatavi resistenza si fermò a occupare i luoghi vicini a Bibbiena, benché piccoli e di piccola importanza.

                                                 È il paese di Casentino, per mezzo del quale discorre il fiume d'Arno, paese stretto sterile e montuoso, situato a piè dell'alpi dell'Apennino, cariche allora, per essere il principio della vernata, di neve, ma passo opportuno ad andare verso Firenze, se all'Alviano fusse succeduto felicemente l'assalto di Poppi, né meno opportuno a entrare nel contado di Arezzo e nel Valdarno, paesi che per essere pieni di grosse terre e castella erano molto importanti allo stato de' fiorentini. I quali, non negligenti in tanto pericolo, fatta subito provisione in tutti i luoghi dove era di bisogno, oppressono uno trattato che si teneva in Arezzo; e stimando piú che altro lo impedire che i viniziani non mandassino nel Casentino nuove genti, levato di quel di Pisa il conte Renuccio lo mandorono subito a occupare i passi dell'Apennino, tra Valdibagno e la Pieve a Santo Stefano: e nondimeno non potettono proibire che il duca d'Urbino, Carlo Orsino e altri condottieri non passassino; i quali, avendo in quella valle settecento uomini d'arme e seimila fanti e tra questi qualche numero di fanti tedeschi, occuporono da pochi luoghi in fuora tutto il Casentino, e di nuovo tentorono, ma invano, di pigliare Poppi. Però furono necessitati i fiorentini, secondo che era stato lo intento proprio de' viniziani, a volgervi del contado di Pisa Pagolo Vitelli con le sue genti, lasciando con guardia sufficiente le terre importanti e il bastione della Ventura: per la giunta del quale nel Casentino i capitani viniziani, che si erano mossi per accamparsi il dí medesimo intorno a Pratovecchio, si ritirorono.

                                                 Venuto Pagolo Vitelli nel Casentino e unitosi seco il Fracassa, mandato dal duca di Milano con cinquecento uomini d'arme e cinquecento fanti in favore de' fiorentini, ridusse presto in molte difficoltà gli inimici, sparsi in molti luoghi per la strettezza degli alloggiamenti e perché, per lasciarsi aperta la strada dell'entrare e dell'uscire del Casentino, erano necessitati guardare i passi della Vernia di Chiusi, e di Montalone, luoghi alti in su l'alpi; e rinchiusi, in tempo asprissimo, in quella valle, non aveano speranza di fare piú, né quivi né in altra parte, progresso alcuno: perché in Arezzo si era fermato con dugento uomini d'arme il conte Renuccio; e nel Casentino, poiché non era riuscito da principio l'occupare Poppi, né faceva momento alcuno il nome de' Medici avendo inimici gli uomini del paese, nel quale si possono difficilmente adoperare i cavalli, avevano innanzi alla venuta de' Vitelli ricevuto già molti danni da' paesani. E però, intesa la venuta loro e del Fracassa, rimandata di là dall'alpi una parte de' carriaggi e dell'artiglierie, ristrinsono insieme, quanto comportava la natura de' luoghi, le genti loro. Contro a' quali il Vitello deliberò servare la sua consuetudine, che era piú tosto, per ottenere piú sicuramente la vittoria, non avere rispetto né a lunghezza di tempo né al pigliare molte fatiche, né volere, per risparmiare la spesa, procedere senza molte provisioni, che, per acquistare la gloria di vincere con facilità e acceleratamente, mettere in pericolo insieme col suo esercito l'evento della cosa. Perciò fu nel Casentino il consiglio suo non andare subito a ferire i luoghi piú forti ma sforzarsi di fare da principio abbandonare agli inimici i piú deboli, e chiudere i passi dell'alpi e gli altri passi del paese con guardie con bastioni con tagliate di strade e altre fortificazioni, acciocché non potessino essere soccorsi da nuove forze né avessino facoltà di aiutare da un luogo quegli che erano nell'altro; sperando, con questo procedere, avere occasione di opprimerne molti, e che 'l numero maggiore che era in Bibbiena, se non per altro, per le incomodità de' cavalli e per mancamento di vettovaglie si consumerebbe. Col quale consiglio avendo recuperato alcuni luoghi vicini a Bibbiena, poco importanti per se stessi ma opportuni alla intenzione con la quale aveva presupposto di vincere la guerra, e facendo ogni dí maggiore progresso, svaligiò molti uomini d'arme alloggiati in certe piccole terre vicine a Bibbiena; e per impedire il cammino alle genti de' viniziani che per soccorrere i suoi si congregavano di là dalle alpi, attese a occupare tutti i luoghi che sono attorno al monte della Vernia, e a fare tagliate a tutti i passi circostanti: di maniera che, crescendo continuamente le difficoltà degli inimici e la carestia del vivere, molti di loro alla sfilata si partivano; i quali quasi sempre, per l'asprezza de' passi, erano o da' paesani o da' soldati svaligiati.

                                                 Questi erano i progressi dell'armi tra i viniziani e i fiorentini: e in questo tempo medesimo, con tutto che gli imbasciadori fiorentini si fussino senza speranza alcuna di concordia partiti da Vinegia, nondimeno si teneva a Ferrara nuova pratica di composizione, proposta dal duca di Ferrara per opera de' viniziani; perché già molti e di maggiore autorità di quel senato, stracchi dalla guerra che si sostentava con gravi spese e con molte difficoltà, e perduta la speranza di avere maggiori successi nel Casentino, desideravano liberarsi dalle molestie della difesa di Pisa, pure che si trovasse modo che con onesto colore potessino rimuoversene.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.5

                                                  

                                                 Accordi fra il pontefice e il re di Francia. Il re di Francia fa e conferma trattati coi re di Spagna, d'Inghilterra, con Cesare e coll'arciduca e cerca l'alleanza de' veneziani e de' fiorentini.

                                                  

                                                 Ma mentre che in Italia sono per le cose di Pisa questi travagli, non cessava il nuovo re di Francia di andarsi ordinando per assaltare l'anno seguente lo stato di Milano, con speranza d'avere seco congiunti i viniziani; i quali, infiammati da odio incredibile contro al duca di Milano, trattavano strettamente col re. Ma piú strettamente trattavano insieme il re e il pontefice. Il quale, escluso del parentado di Federigo, e continuando la medesima cupidità del regno di Napoli, voltato tutto l'animo alle speranze franzesi, cercava di ottenere da quel re per il cardinale di Valenza Ciarlotta figliuola di Federigo, che non ricevuto ancora marito continuava di nutrirsi nella corte di Francia. Di che avendogli data speranza il re, in arbitrio del quale pareva che fusse il maritarla, il cardinale entrato una mattina in concistorio supplicò al padre e agli altri cardinali che, atteso il non avere avuto mai l'animo inclinato alla professione sacerdotale, gli concedessino facoltà di lasciare la degnità e l'abito, per seguitare quello esercizio al quale era tirato da' fati. E cosí, preso l'abito secolare, si preparava ad andare presto in Francia; avendo già il pontefice promesso al re la facoltà di fare con l'autorità apostolica il divorzio con la moglie, e il re da altra parte obligatosi ad aiutarlo, come prima avesse acquistato lo stato di Milano, a ridurre alla ubbidienza della sedia apostolica le città possedute da' vicari di Romagna, e a pagargli di presente trentamila ducati, sotto colore di essere necessitato tenere per sua custodia maggiori forze, come se il congiugnersi col re fusse per muovere molti in Italia a cercare insidiosamente di opprimerlo: per esecuzione delle quali convenzioni, e il re cominciò a pagare i danari e il pontefice commesse la causa del divorzio al vescovo di Setta suo nunzio e a [gli arcivescovi di Parigi e di Roano]. Nel quale giudicio, per suoi procuratori, contradiceva da principio la moglie del re; ma finalmente, avendo non meno a sospetto i giudici che la potenza dello avversario, si convenne con lui di cedere alla lite, ricevendo per sostentazione della sua vita la ducea di Berrí con trentamila franchi di entrata: e cosí, confermato il divorzio per sentenza de' giudici, non si aspettava, per la dispensa e consumazione del nuovo matrimonio, altro che la venuta di Cesare Borgia; diventato già, di cardinale e di arcivescovo di Valenza, soldato e duca Valentino, perché il re gli aveva data la condotta di cento lancie e ventimila franchi di provisione, e concedutogli, con titolo di duca, Valenza città del Dalfinato con ventimila franchi di entrata. Il quale, imbarcatosi a Ostia in su' navili mandatigli dal re, si condusse alla fine dell'anno alla corte, dove entrò con pompa e con fasto incredibile, ricevuto dal re onoratissimamente; e portò seco il cappello del cardinalato a Giorgio di Ambuosa arcivescovo di Roano, il quale, stato primo partecipe de' pericoli e della mala fortuna del re, era appresso a lui di somma autorità. E nondimeno nel principio non era grato il procedere suo, perché, seguitando il consiglio paterno, negava d'avere portato seco la bolla della dispensa, sperando che il desiderio dell'ottenerla avesse a fare il re piú facile a' disegni suoi che non farebbe la memoria di averla ricevuta. Ma essendo al re rivelata secretissimamente dal vescovo di Setta la verità, egli, parendogli che in quanto a Dio bastasse l'essere stata espedita la bolla, senza piú domandarla, consumò apertamente il matrimonio con la nuova moglie: il che fu causa che il duca Valentino, non potendo piú ritenergli la bolla, e avendo poi risaputo essere stata manifestata questa cosa dal vescovo di Setta, lo fece in altro tempo morire occultamente di veleno.

                                                 Né era meno sollecito il re a quietarsi co' príncipi vicini. Però fece pace co' re di Spagna; i quali, deponendo i pensieri delle cose d'Italia, non solo richiamorono tutti gl'imbasciadori che vi tenevano, eccetto quello che risedeva appresso al pontefice, ma feceno ritornare Consalvo con tutte le genti loro in Ispagna, rilasciate a Federigo tutte le terre di Calavria che insino a quel dí aveva tenute. Maggiore difficoltà era nella concordia col re de' romani, il quale, con l'occasione di alcune sollevazioni nate nel paese, era entrato nella Borgogna, aiutato a questo effetto di non piccola somma di danari dal duca di Milano, che si persuadeva o che la guerra di Cesare divertirebbe il re di Francia dalle imprese d'Italia o che, facendosi concordia tra loro, vi sarebbe compreso, come da Cesare aveva certissime promesse; ma dopo lunghe pratiche e agitazioni il re fece nuova pace con l'arciduca rendendogli le terre del contado di Artois, la qual cosa perché avesse effetto, in beneficio del figliuolo, consentí il re de' romani di fare tregua con lui per piú mesi, senza menzione del duca di Milano, col quale pareva in questo tempo sdegnato, perché non aveva sempre sodisfatto alle domande sue infinite di danari. Aveva oltre a queste cose il re confermata la pace fatta dallo antecessore suo col re d'Inghilterra: e rifiutando tutte le pratiche che gli erano state proposte di ricevere a qualche composizione il duca di Milano, che con grandissime offerte e usando grandissime corruttele si sforzava di indurvelo, cercava di congiugnere seco in uno tempo medesimo i viniziani e i fiorentini; e però faceva grandissima instanza che, levate l'offese contro a' pisani, i viniziani dipositassino Pisa in sua mano, e perché i fiorentini vi consentissino offeriva secretamente di restituirla loro fra breve tempo. La quale pratica, piena di molte difficoltà e concorrendovi diversi fini e interessi, fu per molti mesi trattata variamente. Perché i fiorentini, essendo necessario che in tal caso si collegassino col re di Francia, e dubitando per la memoria delle promesse non osservate dal re Carlo che 'l medesimo non intervenisse al presente, non convenivano tra loro in uno medesimo parere; perché la città agitata tra l'ambizione de' cittadini maggiori e la licenza del governo popolare, e accostatasi per la guerra di Pisa al duca di Milano, era intra se medesima divisa in modo che con difficoltà le cose di momento si deliberavano concordemente, avendo massime alcuni de' principali cittadini desiderio della vittoria del re di Francia altri in contrario inclinando al duca di Milano: e i viniziani, quando bene fussino risolute tutte l'altre difficoltà dello accordarsi col re, erano deliberati di non consentire al diposito, sperando che, e nel ristoro delle spese fatte per sostenere Pisa e nel lasciare la difesa di Pisa con minore suo disonore, arebbono migliori condizioni nella pratica che si teneva a Ferrara; la quale da Lodovico Sforza era caldamente sollecitata, per timore che, conchiudendosi in Francia il diposito, non si unissino col re amendue queste republiche e per la speranza che, componendosi questa controversia in Italia, i viniziani avessino a deporre i pensieri di offenderlo. Per il quale rispetto e al re di Francia dispiaceva la pratica di Ferrara e il pontefice, per trarre profitto degli affanni d'altri, cercava indirettamente di perturbarla; perché essendo appresso al re in tutte le cose d'Italia in grandissima autorità, sperava in qualche modo, se il diposito nel re andava innanzi, avervi partecipazione.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.6

                                                  

                                                 Discussione a Venezia nel consiglio de' pregati intorno all'invito d'alleanza del re di Francia contro Lodovico Sforza. Deliberazioni prese da' veneziani. Conclusione della confederazione fra il re di Francia ed i veneziani.

                                                  

                                                 Ma a Vinegia, in questo tempo medesimo, si consultava se, rimovendosi il re dalla dimanda del diposito alla quale aveano deliberato non consentire, dovessino collegarsi seco a offesa del duca di Milano, come egli con grandissima instanza ricercava, offerendo di consentire che, in premio della vittoria, conseguissino la città di Cremona e tutta la Ghiaradadda: la quale cosa benché da tutti fusse sommamente desiderata, nondimeno a molti pareva deliberazione di tanto momento, e tanto pericolosa allo stato loro la potenza del re di Francia in Italia, che nel consiglio de' pregati, che appresso a loro ottiene il luogo del senato, se ne facevano varie disputazioni. Nel quale essendo uno giorno convocati per farne l'ultima determinazione [Antonio Grimanno], uomo di grande autorità, parlò in questa sentenza:

                                                 - Quando io considero, prestantissimi senatori, la grandezza de' benefizi fatti a Lodovico Sforza dalla nostra republica, la quale in questi anni prossimi gli ha conservato tante volte lo stato, e per contrario quanta sia la ingratitudine usata da lui, e le ingiurie gravissime che ci ha fatte per costrignerci ad abbandonare la difesa di Pisa, alla quale prima ci aveva confortati e stimolati, non posso persuadermi che non si conosca per ciascuno essere necessario fare ogni opera possibile per vendicarcene. Perché quale infamia potrebbe essere maggiore che, tollerando pazientemente tante ingiurie, mostrarci a tutto il mondo dissimili dalla generosità de' nostri maggiori? i quali, qualunque volta provocati da offese benché leggiere, non ricusorono mai di mettersi a pericolo per conservare la dignità del nome viniziano; e ragionevolmente, perché le deliberazioni delle republiche non ricercano rispetti abietti e privati, né che tutte le cose si riferischino all'utilità, ma fini eccelsi e magnanimi per i quali si augumenti lo splendore loro e si conservi la riputazione, la quale nessuna cosa piú spegne che il cadere nel concetto degli uomini di non avere animo o possanza di risentirsi delle ingiurie, né di essere pronto a vendicarsi: cosa sommamente necessaria, non tanto per il piacere della vendetta quanto perché la penitenza di chi ti ha offeso sia tale esempio agli altri che non ardischino provocarti. Cosí viene in conseguenza congiunta la gloria con l'utilità, e le deliberazioni generose e magnanime riescono anche piene di comodità e di profitto; cosí una molestia ne leva molte, e spesso una sola e breve fatica ti libera da molte e lunghissime. Benché se noi consideriamo lo stato delle cose d'Italia, la disposizione di molti príncipi contro a noi, e le insidie le quali continuamente si ordinano per Lodovico Sforza, conosceremo che non manco la necessità presente che gli altri rispetti ci conduce a questa deliberazione. Perché egli, stimolato dalla sua naturale ambizione e dall'odio che ha contro a questo eccellentissimo senato, non vegghia non attende ad altro che a disporre gli animi di tutti gli italiani, che a concitarci contro il re de' romani e la nazione tedesca: anzi già comincia per il medesimo effetto a tenere pratiche col turco. Già vedete per opera sua con quante difficoltà, e quasi senza speranza, si sostenga la difesa di Pisa e la guerra nel Casentino, la quale se si continua incorriamo in gravissimi disordini e pericoli, se si abbandona senza fare altro fondamento alle cose nostre è con tanta diminuzione di riputazione che si accresce troppo l'animo di chi ha volontà di opprimerci: e sapete quanto è piú facile opprimere chi ha già cominciato a declinare che chi ancora si mantiene nel colmo della sua riputazione. Delle quali cose apparirebbono chiarissimamente gli effetti, e si sentirebbe presto lo stato nostro essere pieno di tumulti e di strepiti di guerra, se il timore che noi non ci congiugniamo col re di Francia non tenesse sospeso Lodovico: timore che non può lungamente tenerlo sospeso. Perché chi è quello che non conosca che il re, escluso dalla speranza della nostra confederazione, o si implicherà in imprese di là da' monti o, vinto dalle arti di Lodovico dalle corruttele e mezzi potentissimi che ha nella sua corte, farà qualche composizione con lui? Strigneci adunque a unirci col re di Francia la necessità di mantenere l'antica degnità e gloria nostra, ma molto piú il pericolo imminente e gravissimo che non si può fuggire con altro modo. E in questo ci si dimostra molto propizia la fortuna, poiché ci fa ricercare da uno tanto re di quel che aremmo a ricercarlo noi; offerendoci piú oltre sí grandi e sí onorati premi della vittoria, per i quali può questo senato proporsi alla giornata grandissime speranze, fabbricare ne' suoi concetti grandissimi disegni, ottenendosi massime con tanta facilità; perché chi dubita che da Lodovico Sforza non potrà essere a due potenze sí grandi e sí vicine fatta alcuna resistenza? Dalla quale deliberazione, se io non mi inganno, non debbe già rimuoverci il timore che la vicinità del re di Francia, acquistato che arà il ducato di Milano, ci diventi pericolosa e formidabile. Perché chi considera bene conoscerà che molte cose che ora ci sono contrarie allora ci saranno favorevoli; conciossiaché uno augumento tale di quel re insospettirà gli animi di tutta Italia, irriterà il re de' romani e la nazione germanica per la emulazione e per lo sdegno che sia occupato da lui uno membro sí nobile dello imperio; in modo che quegli che noi temiamo che ora non siano congiunti con Lodovico a offenderci desidereranno allora, per l'interesse proprio, di conservarci e di essere congiunti con noi; ed essendo grande per tutto la riputazione del nostro dominio, grande la fama delle nostre ricchezze, e maggiore l'opinione, confermata con sí spessi e illustri esempli, della nostra unione e costanza alla conservazione del nostro stato, non ardirà il re di Francia di assaltarci se non congiunto con molti, o almeno col re de' romani: l'unione de' quali è per molte cagioni sottoposta a tante difficoltà che è cosa vana il prenderne o speranza o timore. Né la pace che ora spera d'ottenere da' príncipi vicini di là da' monti sarà perpetua, ma la invidia le inimicizie il timore del suo augumento desterà tutti quegli che hanno seco odio o emulazione. E è cosa notissima quanto i franzesi siano piú pronti ad acquistare che prudenti a conservare quanto per l'impeto e insolenza loro diventino presto esosi a' sudditi. Però, acquistato che aranno Milano, aranno piú tosto necessità di attendere a conservarlo che comodità di pensare a nuovi disegni; perché uno imperio nuovo non bene ordinato né prudentemente governato aggrava, piú presto che e' faccia piú potente, chi l'acquista: di che quale esempio è piú fresco e piú illustre che l'esempio della vittoria del re passato? contro al quale si convertí in sommo odio il desiderio incredibile con che era stato ricevuto nel reame di Napoli. Non è adunque né sí certo né tale il pericolo, che ci può dopo qualche tempo pervenire della vittoria del re di Francia, che per fuggirlo abbiamo a volere stare in uno pericolo presente e di grandissimo momento; e il rifiutare, per timore di pericoli futuri e incerti, sí ricca parte e sí opportuna del ducato di Milano non si potrebbe attribuire ad altro che a pusillanimità e abiezione di animo, vituperabile negli uomini privati non che in una republica piú potente e piú gloriosa che, dalla romana in fuora, sia stata giammai in parte alcuna del mondo. Sono rare e fallaci l'occasioni sí grandi, ed è prudenza e magnanimità, quando si offeriscono, l'accettarle e, per contrario, sommamente reprensibile il perderle; e la troppa curiosa sapienza e troppo consideratrice del futuro è spesso vituperabile, perché le cose del mondo sono sottoposte a tanti e sí vari accidenti che rare volte succede per l'avvenire quel che gli uomini eziandio savi si hanno immaginato avere a essere; e chi lascia il bene presente per timore del pericolo futuro, quando non sia pericolo molto certo e propinquo, si truova spesso, con dispiacere e infamia sua, avere perduto l'occasioni piene di utilità e di gloria, per paura di quegli pericoli che poi diventano vani. Per le quali ragioni il parere mio sarebbe che si accettasse la confederazione contro al duca di Milano, perché ci arreca sicurtà presente, estimazione appresso a tutti i potentati, e acquisto tanto grande che altre volte cercheremmo, e con travagli e spese intollerabili, di poterlo ottenere, sí per la importanza sua come perché sarà l'adito e la porta di augumentare maravigliosamente la gloria e lo imperio di questa potentissima republica. -

                                                 Fu udito con grande attenzione e con gli orecchi molto favorevoli l'autore di questa sentenza, e lodata da molti in lui la generosità dell'animo suo e lo amore verso la patria. Ma in contrario parlò [Marchionne Trivisano]:

                                                 - E' non si può negare, sapientissimi senatori, che le ingiurie fatte da Lodovico Sforza alla nostra republica non sieno gravissime, e con grande offesa della nostra degnità; nondimeno, quanto le sono maggiori e quanto piú ci commuovono tanto piú è proprio ufficio della prudenza moderare lo sdegno giusto con la maturità del giudicio e con la considerazione dell'utilità e interesse publico, perché il temperare se medesimo e vincere le proprie cupidità ha tanto piú laude quanto è piú raro il saperlo fare, e quanto sono piú giuste le cagioni dalle quali è concitato lo sdegno e l'appetito degli uomini. Però appartiene a questo senato, il quale appresso a tutte le nazioni ha nome sí chiaro di sapienza, e che prossimamente ha fatto professione di liberatore d'Italia da' franzesi, proporsi innanzi agli occhi la infamia che gli risulterà se ora sarà cagione di fargli ritornare; e molto piú il pericolo che del continuo ci sarà imminente se il ducato di Milano perverrà in potere del re di Francia: il quale pericolo chi non considera da se stesso si riduca in memoria quanto terrore ci dette l'acquisto che fece, il re Carlo, di Napoli, dal quale non ci riputammo mai sicuri se se non quando fummo congiurati contro a lui con quasi tutti i príncipi cristiani. E nondimeno, che comparazione dall'uno pericolo all'altro! Perché quello re, privato di quasi tutte le virtú regie, era principe quasi ridicolo, e il regno di Napoli tanto lontano dalla Francia teneva in modo divulse le forze sue che quasi indeboliva piú che accresceva la sua potenza, e quello acquisto, per il timore degli stati loro tanto contigui, gli faceva inimicissimi il papa e i re di Spagna; de' quali ora l'uno si sa che ha diversi fini e che gli altri, infastiditi delle cose d'Italia, non sono per implicarvisi senza grandissima necessità: ma questo nuovo re, per la virtú propria, è molto piú da temere che da sprezzare, e lo stato di Milano è tanto congiunto col reame di Francia che, per la comodità di soccorrerlo, non si potrà sperare di cacciarnelo se non commovendo tutto il mondo. E però noi, vicini a sí maravigliosa potenza, staremo nel tempo della pace in gravissima spesa e sospetto, e in tempo di guerra saremo tanto esposti alle offese sue che sarà difficillimo il difenderci. E certamente, io non udivo senza ammirazione che, chi ha parlato innanzi a me, da una parte non temeva di uno re di Francia signore del ducato di Milano, dall'altra si dimostrava in tanto spavento di Lodovico Sforza, principe molto inferiore di forze a noi, e che con la timidità e avarizia ha messo sempre in grave pericolo le imprese sue. Spaventavanlo gli aiuti che arebbe da altri, come se fusse facile il fare, in tante diversità di animi e di volontà e in tanta varietà di condizioni, tale unione, o come se non fusse da temere molto piú una potenza grande unita tutta insieme che la potenza di molti; la quale come ha i movimenti diversi cosí ha diverse e discordanti l'operazioni. Confidava che in coloro i quali, per odio e per varie cagioni, desiderano la nostra declinazione si troverebbe quella prudenza da vincere gli sdegni e le cupidità che noi non troviamo in noi medesimi a raffrenare questi ambiziosi pensieri. Né io so perché debbiamo prometterci che nel re de' romani e in quella nazione possa piú l'emulazione e lo sdegno antico e nuovo contro al re di Francia, se acquisterà Milano, che l'odio inveterato che hanno contro a noi che tegniamo tante terre appartenenti alla casa d'Austria e allo imperio; né so perché il re de' romani si congiugnerà piú volentieri con noi contro al re di Francia che con lui contro a noi: anzi è piú verisimile l'unione de' barbari, inimici eterni del nome italiano, e a una preda piú facile; perché unito con lui potrà piú sperare vittoria di noi che unito con noi non potrà sperare di lui. Senza che, l'azioni sue nella lega passata, e quando venne in Italia, furono tali che io non so per che causa s'abbia tanto a desiderare di averlo congiunto seco. Hacci ingiuriato Lodovico gravissimamente, nessuno lo nega, ma non è prudenza mettere, per fare vendetta, le cose proprie in pericolo sí grave, né è vergogna aspettare a vendicarsi gli accidenti e l'occasioni che può aspettare una republica; anzi è molto vituperoso lasciarsi innanzi al tempo traportare dallo sdegno, e nelle cose degli stati è somma infamia quando la imprudenza è accompagnata dal danno. Non si dirà che queste ragioni ci muovino a una impresa sí temeraria, ma si giudicherà per ciascuno che noi siamo tirati dalla cupidità d'avere Cremona; però da ciascuno sarà desiderata la sapienza e la gravità antica di questo senato, ciascuno si maraviglierà che noi incorriamo in quella medesima temerità nella quale ci maravigliammo tanto noi che fusse incorso Lodovico Sforza, di avere condotto il re di Francia in Italia. L'acquisto è grande e opportuno a molte cose, ma considerisi se sia maggiore perdita l'avere uno re di Francia signore dello stato di Milano: considerisi quanto sia maggiore la nostra potenza e riputazione, o quando siamo i principali d'Italia o quando in Italia è uno principe tanto maggiore e tanto vicino a noi. Con Lodovico Sforza abbiamo altre volte avuto e discordia e concordia, cosí può tra noi e lui accadere ogni dí, e la difficoltà di Pisa non è tale che non si possa trovare qualche rimedio, né merita che per questo ci mettiamo in tanto precipizio; ma co' franzesi vicini aremo sempre discordia perché regneranno sempre le medesime cagioni: la diversità degli animi tra barbari e italiani, la superbia de' franzesi, l'odio col quale i príncipi perseguitano sempre, per natura, le republiche e la ambizione che hanno i piú potenti di opprimere continuamente i meno potenti. E però non solo non mi invita l'acquisto di Cremona, anzi mi spaventa, perché arà tanto piú occasione e stimoli a offenderci, e sarà tanto piú concitato da' milanesi che non potranno tollerare l'alienazione di Cremona da quello ducato; e la medesima cagione irriterà la nazione tedesca e il re de' romani, perché medesimamente Cremona e la Ghiaradadda è membro della giurisdizione dello imperio. Non sarebbe almanco biasimata tanto la nostra ambizione, né cercheremmo con nuovi acquisti farci ogni dí nuovi inimici, e piú sospetti a ciascuno: per il che bisognerà finalmente o che noi diventiamo superiori a tutti o che noi siamo battuti da tutti; e quale sia piú per succedere è facile a considerare a chi non ha diletto di ingannarsi da se medesimo. La sapienza e la maturità di questo senato è stata conosciuta e predicata per tutta Italia e per tutto il mondo molte volte; non vogliate macularla con sí temeraria e sí pericolosa deliberazione. Lasciarsi traportare dagli sdegni contro all'utilità propria è leggerezza, stimare piú i pericoli piccoli che i grandissimi è imprudenza; le quali due cose essendo alienissime dalla sapienza e gravità di questo senato, io non posso se non persuadermi che la conclusione che si farà sarà moderata e circospetta, secondo la vostra consuetudine. -

                                                 Non potette tanto questa sentenza, sostentata da sí potenti ragioni e dalla autorità di molti che erano de' principali e de' piú savi del senato, che non potesse molto piú la sentenza contraria, concitata dall'odio e dalla cupidità del dominare, veementi autori di qualunque pericolosa deliberazione; perché era smisurato l'odio negli animi di ciascuno contro a Lodovico Sforza conceputo, né minore il desiderio di aggiugnere allo imperio veneto la città di Cremona col suo contado e con tutta la Ghiaradadda; aggiunta stimata assai, perché ciascuno anno se ne traevano di entrata almeno centomila ducati, e molto piú per l'opportunità; conciossiaché, abbracciando con questo augumento quasi tutto il fiume dell'Oglio, distendevano i loro confini insino in sul Po e ampliavangli per lungo spazio in sul fiume di Adda, e appressandosi a quindici miglia alla città di Milano e alquanto piú alle città di Piacenza e di Parma, pareva loro quasi aprirsi la strada a occupare tutto il ducato di Milano, qualunque volta il re di Francia avesse o nuovi pensieri o potenti difficoltà di là da' monti. Il che potere succedere, innanzi che passasse molto tempo, dava speranza la natura de' franzesi, piú atti ad acquistare che a mantenere; l'essere quasi perpetua la loro republica e nel regno di Francia accadere spesso, per la morte de' re, variazione di pensieri e di governi; la difficoltà di conservarsi la benivolenza de' sudditi, per la diversità del sangue e de' costumi franzesi con gl'italiani. Però, confermata col voto de' piú questa sentenza, commessono agli oratori loro che erano appresso al re che conchiudessino con le condizioni offerte questa confederazione, ogni volta che in essa delle cose di Pisa non si trattasse.

                                                 La quale eccezione turbò non mediocremente l'animo del re, perché sperava col mezzo del diposito unire alla impresa sua i viniziani e i fiorentini; e sapendo che già i viniziani erano inclinati a rimuoversi per accordo dalla difesa di Pisa, gli pareva conveniente che piú presto dovessino farlo in modo che si accrescesse facilità alla vittoria dello stato di Milano, poiché aveva a ridondare a beneficio comune, che, per avere alquanto migliori condizioni nella concordia, essere cagione che i fiorentini restassino congiunti con Lodovico Sforza: per il mezzo del quale sapendo tenersi la pratica di Ferrara, aveva non piccola dubitazione che, conchiudendosi per sua opera, né i viniziani né i fiorentini alla fine fussino con lui. Però, parendogli poco prudente quella deliberazione per la quale restasse in dubbio dell'una e dell'altra republica, e sdegnato della diffidenza che si dimostrava di lui, si inclinò a fare piú presto la pace, che continuamente si trattava, col re de' romani, con condizione che all'uno fusse libero fare la guerra contro a Lodovico Sforza, all'altro il farla contro a' viniziani. Fece adunque rispondere, da' deputati che trattavano in nome suo con gli oratori viniziani, non volere convenire con loro se insieme non si dava perfezione al diposito trattato di Pisa, e a quegli de' fiorentini disse egli medesimo che stessino sicuri che non concorderebbe mai co' viniziani in altra forma. Ma non lo lasciorono stare fermo in questo proposito il duca Valentino con gli altri agenti del pontefice, e il cardinale di San Piero a Vincola, Gianiacopo da Triulzi e tutti quegli italiani che per gli interessi propri lo incitavano alla guerra: i quali, con molte ed efficaci ragioni, gli persuaseno che, per la potenza de' viniziani e per l'opportunità che avevano a offendere il ducato di Milano, non poteva essere piú pernicioso consiglio che privarsi de' loro aiuti per timore di non perdere quegli de' fiorentini, i quali, per i travagli loro e perché erano lontani a quello stato, potevano essergli di poco profitto; e che questo facilmente causerebbe che Lodovico Sforza, rimovendosi, per riconciliarsi co' viniziani, dal favore de' fiorentini, il che era stato causa di tutte le discordie tra loro, si riunirebbe con essi. Donde che difficoltà fussino per nascere, essendo congiunti i viniziani e Lodovico, dimostrarsi, se non per altro, per la esperienza degli anni passati; perché se bene nella lega fatta contro a Carlo fusse concorso il nome di tanti re, nondimeno le forze solamente de' viniziani e di Lodovico avergli tolto Novara, e difeso sempre contro a lui il ducato di Milano. Ricordavangli essere fallace e pericoloso consiglio il fare fondamento in su l'unione con Massimiliano, nel quale si erano, insino a quel dí, veduti i disegni assai maggiori che la facoltà o la prudenza del colorirgli; e quando pure fusse per avere successi piú prosperi che per l'addietro, doversi considerare quanto fusse a proposito l'augumento di uno inimico perpetuo e sí acerbo alla corona di Francia. Con le quali ragioni commosseno in modo il re che, mutata sentenza, consentí che senza parlare piú delle cose di Pisa si conchiudesse la confederazione co' viniziani: nella quale fu convenuto che nel tempo medesimo che egli assaltasse con potente esercito il ducato di Milano essi, da altra banda, facessino, di verso i loro confini, il medesimo; e che guadagnandosi per lui tutto il resto del ducato, Cremona con tutta la Ghiaradadda, eccettuata però la riva di Adda per quaranta braccia, si acquistasse a' viniziani; e che acquistato che avesse il re il ducato di Milano, i viniziani fussino obligati, per certo tempo e con determinato numero di cavalli e di fanti, a difenderlo; e da altra parte il re fusse tenuto al medesimo per Cremona e quello possedevano in Lombardia e insino agli stagni viniziani. La quale convenzione fu contratta con tanto segreto che a Lodovico Sforza stette occulto per piú mesi se fusse fatta tra loro solo confederazione a difesa, come da principio era stato solennemente publicato nella corte di Francia e a Vinegia, o se pure vi fussino capitoli concernenti l'offesa sua; né il papa medesimo, che era tanto congiunto col re, potette se non tardi averne certezza.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.7

                                                  

                                                 Vicende della guerra fra veneziani e fiorentini nel Casentino. Ercole d'Este in Venezia si pronunzia sul compromesso fra veneziani e fiorentini riguardo a Pisa. Malcontento pel compromesso in Venezia e lamentele degli oratori pisani. Aggiunte al compromesso all'insaputa de' fiorentini. Venezia delibera di ritirare le milizie da Pisa. A Pisa si delibera di tentare ogni cosa pur di non tornare soggetti a Firenze.

                                                  

                                                 Fatta la lega co' viniziani, il re, senza fare piú menzione di Pisa, propose a' fiorentini condizioni molto diverse dalle prime: per la quale cagione e per le molestie che riceveano da' viniziani, erano tanto piú necessitati ad accostarsi al duca di Milano, con gli aiuti del quale le cose loro prosperavano continuamente nel Casentino. Dove gli inimici, danneggiati spesso da' soldati e da' paesani, e combattendo con la difficoltà delle vettovaglie e specialmente di sostentare i cavalli, si erano ristretti in Bibbiena e in alcun'altre piccole terre; non intermettendo però la diligenza di tenere i passi dello Apennino, per avere aperta la via del soccorso e la facoltà, quando pure fussino necessitati, di abbandonare con minore danno il Casentino: però a guardia del passo di Montalone si era fermato Carlo Orsino con le sue genti d'arme e con cento fanti; e piú basso, quello della Vernia si guardava dall'Alviano. E da altra parte Pagolo Vitelli, procedendo maturamente secondo il consueto suo, poiché gli ebbe ridotti in sí pochi luoghi, si sforzava di costrignergli a partirsi dal passo di Montalone, con intenzione di mettere poi in necessità di fare il medesimo coloro che guardavano il passo della Vernia; acciocché le genti viniziane, ristrette in Bibbiena sola e circondate per tutto dagl'inimici e da' monti, o fussino vinte facilmente o si consumassino per loro medesime; essendo massime molto diminuite, perché, oltre a quegli che erano stati ora qua ora là svaligiati, se ne erano, per la incomodità delle vettovaglie e difficoltà di sicuri alloggiamenti, partiti in piú volte piú di mille cinquecento cavalli e moltissimi fanti: de' quali, assaltati nel passare dell'alpi da' paesani, la maggiore parte aveva ricevuto gravissimo danno. Costrinseno alla fine queste difficoltà Carlo Orsino ad abbandonare co' suoi il passo di Montalone, non senza pericolo di essere rotti, perché, sapendosi non potervi piú dimorare, molti de' soldati de' fiorentini e degli uomini del paese, che stavano vigilanti a questa occasione, gli assaltorono nel cammino: ma essi, avendo già preso il vantaggio de' passi, benché perdessino parte de' carriaggi, si difeseno, e con danno non piccolo di quegli che disordinatamente gli seguitavano. L'esempio di Carlo Orsino fu, per le medesime necessità, seguitato da quegli che erano alla Vernia e a Chiusi, che abbandonati que' passi si ritirorono in Bibbiena, ove si fermorono il duca d'Urbino, l'Alviano, Astore Baglione, Piero Marcello proveditore viniziano e Giuliano de' Medici; riservatisi per guardia di quella terra, che sola tenevano in Casentino, sessanta cavalli e settecento fanti. Né gli sostentava altro che la speranza del soccorso, il quale i viniziani preparavano giudicando che, in quanto alla conservazione dell'onore e molto piú a farsi migliori le condizioni dell'accordo, importasse non poco il non abbandonare totalmente la impresa del Casentino: e però il conte di Pitigliano raccoglieva a Ravenna con gran prestezza le genti disegnate a soccorrerla, sollecitandolo le spesse querele del duca d'Urbino e degli altri; i quali, significando cominciare a mancare loro le vettovaglie, protestavano essere ridotti a mancamento tale di vivere che bisognerebbe che per salvarsi facessino presto patti con gli inimici. E per contrario, arebbono desiderato il duca di Milano e i capitani che erano nel Casentino prevenire il soccorso con la espugnazione di Bibbiena, e però dimandavano che si aggiugnessino quattromila fanti a quegli che erano nel campo; ma repugnavano al desiderio loro molte difficoltà, perché in paese freddo e alpestre i tempi che erano asprissimi impedivano assai l'azioni militari, e i fiorentini non erano molto pronti a questa provisione, parte per essere molto stracchi per le gravi e lunghe spese fatte e che continuamente facevano, parte perché nella città, per altre cagioni poco concorde, si era scoperta nuova dissensione; essendo alcuni de' cittadini fautori di Pagolo Vitelli, altri inclinati a esaltare il conte Renuccio, antico e fedele condottiere di quella republica e che aveva in Firenze parenti di autorità: il quale, caduto per l'avversità che ebbe a Santo Regolo della speranza del primo luogo, malvolentieri tollerava vederlo trasferito a Pagolo; e trovandosi con la compagnia sua in Casentino, non era pronto a quelle imprese dalle quali potesse accrescersi la riputazione di chi arebbe desiderato deprimere. Diventavano maggiori queste difficoltà per la natura di Pagolo, vantaggioso ne' pagamenti, difficile co' commissari fiorentini, e che spesso nella deliberazione ed espedizione delle cose si arrogava piú autorità che non parea conveniente. E, pure allora, avea senza saputa de' commissari conceduto al duca d'Urbino, ammalato, salvocondotto di partirsi sicuramente del Casentino; sotto la fidanza del quale salvocondotto si era partito oltre a lui Giuliano de' Medici, con grave dispiacere de' fiorentini, che si persuadevano che, se al duca si fusse difficultato il partirsi, che il desiderio di andare a ricuperare nello stato suo la sanità l'arebbe costretto a concordare di levare le genti di Bibbiena; e si dolevano similmente che a Giuliano, ribelle prima e che era venuto con l'armi contro alla patria, fusse stata fatta senza saputa loro tale abilità. Toglievano queste cose fede in Firenze a' consigli e alle dimande di Pagolo: e molto piú che la guerra non procedeva con molta sua riputazione appresso al popolo, perché e qualche fazione importante era stata fatta piú da' paesani che da' soldati e perché, per l'opinione grande che avevano del suo valore, si erano promessi molto prima la vittoria degli inimici; attribuendo, come è natura de' popoli, a non volere quello che si doveva attribuire piú presto a non potere, per l'asprezza de' tempi e per il mancamento delle provisioni. E però, tardandosi di fare l'augumento de' quattromila fanti, ebbe tempo il conte di Pitigliano di venire a Castello d'Elci, castello del ducato d'Urbino vicino a' confini de' fiorentini, ove prima erano Carlo Orsino e Piero de' Medici, e ove si faceva la massa di tutte le genti per passare l'Apennino; le quali si ordinavano, come piú atte alla fortezza e alla penuria del paese, piú copiose assai di fanteria che di uomini d'arme, e questi piú presto con leggiera che con grave armadura. Fu questo l'ultimo sforzo che feciono i viniziani per le cose del Casentino. Il quale per interrompere, Pagolo Vitelli, lasciato leggieri assedio intorno a Bibbiena e la guardia necessaria a' passi opportuni, andò col resto delle genti alla Pieve a Santo Stefano, terra de' fiorentini situata al piede dell'alpi, per opporsi agli inimici nello scendere di quelle. Ma il conte di Pitigliano, avendo innanzi a sé l'alpi cariche di neve, e a piè dell'alpi l'opposizione potente e la strettezza de' passi, difficili, quando si ha ostacolo, non che altro ne' tempi benigni, a superare, non ardí mai di tentare di passare; con tutto che con gravi querele ne fusse molto stimolato dal senato viniziano, piú veemente, secondo diceva egli, a morderlo che sollecito a provederlo: e se bene gli fussino proposti disegni di qualche diversione, e già in Valdibagno fusse data qualche molestia alle terre de' fiorentini, non fece, per questo, momento alcuno.

                                                 Ma quanto piú procedevano fredde l'opere della guerra tanto piú riscaldavano le pratiche dello accordo, desiderato per diversi rispetti dall'una parte e dall'altra, ma non meno desiderato e sollecitato dal duca di Milano; il quale, spaventato per la lega fatta tra il re di Francia e i viniziani, sperava che, succedendo questa concordia, i viniziani desidererebbono manco la passata de' franzesi, e persuadendosi di piú che, sodisfatti in questo caso della volontà e opere sue, avessino, almeno in qualche parte, a mitigare l'indegnazione conceputa contro a sé. Però, interponendosi tra loro appresso a Ercole da Esti suo suocero, costrigneva i fiorentini a cedere a qualche desiderio de' viniziani, non tanto con l'autorità, perché appresso a loro, accortisi del suo disegno, cominciava già a essere sospetta la sua interposizione, quanto con lo accennare che, non si facendo la concordia, sarebbe necessitato, per il timore che aveva del re di Francia, rimuovere se non tutte almeno parte delle sue genti da' loro favori. Trattossi molti mesi questa cosa a Ferrara, e interponendosi varie difficoltà, fu ricercato Ercole da' viniziani che per facilitare l'espedizione andasse personalmente a Vinegia: di che egli faceva qualche difficoltà, ma molto maggiore i fiorentini perché sapevano i viniziani desiderare che in Ercole si facesse compromesso, dalla qual cosa essi erano molto alieni; ma fu tanta la instanza di Lodovico Sforza che finalmente Ercole si dispose ad andarvi, e i fiorentini a mandare insieme con lui Giovambatista Ridolfi e Pagol'Antonio Soderini, due de' principali e de' piú prudenti cittadini della loro republica. A Vinegia fu la prima disputazione se Ercole avesse, con autorità d'arbitro, a finire la controversia o, come amico comune interponendosi tra le parti, a cercare di comporle, come insino allora si era proceduto a Ferrara e ridotti a non molta difficoltà gli articoli principali e piú importanti. Questo desideravano i fiorentini, conoscendo che Ercole, in quello che avesse a dipendere dall'arbitrio suo, terrebbe piú conto della grandezza de' viniziani che di loro, e che riducendosi a pronunziare il lodo in Vinegia sarebbe necessitato tanto piú ad avere loro maggiore rispetto, e quel che non facesse per se medesimo lo indurrebbe a fare il duca di Milano, poiché tanto desiderava che i viniziani conoscessino essere in questo negozio utili loro le sue operazioni; e se bene molte difficoltà fussino quasi risolute a Ferrara, pure, e nell'ultima loro perfezione e in molti particolari, non restava piccola la potestà dell'arbitro; senza che, compromettendosi in lui, era in sua facoltà partirsi da quello che prima era stato trattato. Da altra parte i viniziani aveano deliberato, se non si faceva il compromesso, di non procedere piú oltre: non tanto per promettersi piú dello arbitrio che non si promettevano i fiorentini, quanto perché questa materia aveva tra loro medesimi molte difficoltà. Conciossiaché tutti, stracchi dalle spese gravissime con piccola speranza di frutto, desiderassino la concordia, ma i piú giovani massime e i piú feroci del senato non la volessino se a' pisani non si conservava interamente la libertà, e se non rimaneva loro almeno quella parte del contado che e' possedevano quando furono ricevuti in protezione; per la quale opinione allegavano molte ragioni, ma quella principalmente che, essendosi con publico decreto promesso allora a' pisani di conservargli in libertà, non si poteva mancarne senza maculare sommamente lo splendore della republica: alcuni altri, rendendosi manco difficili nelle altre cose, erano immoderati nella quantità delle spese le quali ricercavano che, abbandonando Pisa, fussino loro rifatte da' fiorentini. Ma in contrario era il parere di quasi tutti i senatori piú savi e di maggiore autorità: i quali, stracchi di tante spese, e disperati totalmente della difesa di Bibbiena e di potere piú senza grandissimo travaglio sostenere le cose di Pisa, per le difficoltà che avevano trovate e nel mandarvi soccorso e nel fare diversione, essendo riuscita maggiore la resistenza de' fiorentini che da principio non si erano persuasi, considerando oltre a questo che, benché la impresa contro al duca di Milano fusse giudicata dovere essere facile, nondimeno che, non essendo il re di Francia pacificato col re de' romani e sottoposto a vari impedimenti che potevano sopravenirgli di là da' monti, potrebbe essere per molti casi ritardato a muovere la guerra e, quando pure la movesse, che nelle cose belliche possono nascere di dí in dí molte e inopinate difficoltà e pericoli, ma sopratutto spaventati dagli apparati grandi, terrestri e marittimi, che si diceva fare Baiseth ottomanno per assaltargli nella Grecia, si risolvevano essere necessario consentire piú presto, poi che altrimenti non si poteva, che l'onestà cedesse in qualche parte all'utilità che, per mantenere pertinacemente la fede data, perseverare in tante molestie. E perché erano certi che con grandissima difficoltà sarebbeno consentite ne' loro consigli quelle conclusioni alle quali, insino dal principio, conoscevano essere necessario declinare, avevano prudentemente, quando si cominciò a trattare a Ferrara, procurato che dal consiglio de' pregati fusse data amplissima autorità sopra le cose di Pisa e dello accordo co' fiorentini al consiglio de' dieci, nel quale consiglio, molto minore di numero, intervengono tutti gli uomini di piú gravità e autorità, che erano la maggiore parte di quegli medesimi che desideravano questa concordia: e ora, condotta la pratica a Vinegia, non si confidando di disporre il consiglio de' pregati a consentire agli articoli trattati a Ferrara, e conoscendo che il consentirgli da per sé il consiglio de' dieci sarebbe di molto carico a chi vi intervenisse, instavano che si facesse il compromesso, sperando che del giudicio che ne nascesse si risentirebbono piú gli uomini contro all'arbitro che contro a loro, e che piú facilmente avesse a essere ratificato quello che già fusse lodato che consentito quando si trattasse per via di concordia con la parte. Però, dopo disputa di qualche dí, minacciando il duca di Milano i fiorentini, che ricusavano di compromettere, di levare subito di Toscana tutte le genti sue, fu fatto il compromesso per otto dí, libero e assoluto, in Ercole duca di Ferrara. Il quale, dopo molta discussione, pronunziò, il sesto dí di aprile: che fra otto dí prossimi si levassino l'offese tra i viniziani e i fiorentini, e che il dí della festività prossima di santo Marco tutte le genti e aiuti di ciascuna delle parti si partissino e ritornassino agli stati propri, e che i viniziani il dí medesimo levassino di Pisa e del suo contado tutte le genti che v'avevano, e abbandonassino Bibbiena e tutti gli altri luoghi che occupavano de' fiorentini, i quali perdonassino agli uomini di Bibbiena i falli commessi; e che per ristoro delle spese fatte, quali affermavano i viniziani ascendere a ottocentomila ducati, fussino obligati i fiorentini a pagare loro, insino in dodici anni, quindicimila ducati per anno: che a' pisani fusse conceduta venia di tutti i delitti fatti, facoltà di esercitare per mare e per terra ogni qualità di arti e di mercatanzie: stessino in custodia loro le fortezze di Pisa e de' luoghi che il dí del lodo dato possedevano, ma con patto che de' pisani si eleggessino le guardie, o d'altronde, di persone non sospette a' fiorentini, e fussino pagate delle entrate che caverebbono di Pisa i fiorentini, non accrescendo né il numero degli uomini né la spesa consueta a tenersi innanzi alla rebellione: rovinassinsi, se cosí paresse a' pisani, tutte le fortezze del contado proprio di Pisa state ricuperate da' fiorentini mentre che i viniziani avevano la loro protezione: che in Pisa le prime instanze de' giudici civili fussino giudicate da uno podestà forestiere, eletto da' pisani di luogo non sospetto a' fiorentini; e il capitano eletto da' fiorentini non conoscesse se non delle cause delle appellazioni né potesse procedere, in caso alcuno criminale dove si trattasse di sangue d'esilio o di confiscazione, senza il consiglio di uno assessore, eletto da Ercole o da' suoi successori, di cinque dottori di legge che del dominio suo gli fussino proposti da' pisani: restituissinsi a' padroni i beni mobili e immobili occupati da ogni parte, intendendosi ciascuno assoluto da' frutti presi; e in tutte l'altre cose lasciate illese le ragioni de' fiorentini in Pisa e nel suo territorio, e proibito a' pisani che circa le fortezze e qualunque altra cosa non macchinassino contro alla republica fiorentina.

                                                 Publicato il lodo in Vinegia, si levorono per tutta la città e nella nobiltà, contro a Ercole e contro a' principali che avevano maneggiato questa pratica, molte querele; biasimandosi per la maggiore parte che a' pisani si mancasse, con grandissima infamia della republica, della fede promessa, e lamentandosi che delle spese fatte nella guerra non fusse stata avuta la considerazione conveniente. Le quali querele accendevano assai i loro oratori, che innanzi al lodo dato stati tenuti artificiosamente da' viniziani in speranza che indubitatamente resterebbono con piena libertà e che sarebbe aggiudicato loro non solo il resto del contado ma forse il porto di Livorno, si risentivano tanto piú quanto piú gli effetti riuscivano contrari a quello che si erano persuasi; lamentandosi che le promesse della conservazione della libertà fatte loro tante volte da quel senato, sotto la fede del quale avevano disprezzato l’amicizia di tutti gli altri potentati e rifiutato piú volte condizioni molto migliori offerte da' fiorentini, fussino sí indegnamente violate, né proveduto anche alla loro sicurtà se non con apparenze vane. Perché, come potevano essere sicuri che i fiorentini, rimettendo in Pisa i magistrati, e ritornandovi con la restituzione del commercio i mercatanti e sudditi loro, e da altra parte partendosene per andare alle proprie abitazioni e culture i contadini che erano stati membro grande della difesa di quella città, non pigliassino con qualche fraude il dominio assoluto? il che potrebbono fare con grandissima facilità, e massime restando in potere loro la guardia delle porte. E che sicurtà essere avere le fortezze in mano, se quegli che le guardavano avevano a essere pagati da' fiorentini, né fusse lecito in tanto sospetto tenervi guardia maggiore di quella che soleva tenersi ne' tempi tranquilli e sicuri? Essere medesimamente vana la perdonanza delle cose commesse, poi che si concedeva a' fiorentini facoltà di distruggergli per via della ragione e de' giudíci, perché le mercatanzie e gli altri beni mobili tolti nel tempo della ribellione ascendevano a tanta valuta che non solo occuperebbeno le loro sostanze ma né sarebbeno sicure dalle carceri le persone. Le quali querele per estinguere, i principali del senato operorno che il dí seguente, benché fusse spirato il termine del compromesso, Ercole, il quale intesa tanta indegnazione di quasi tutta la città temeva di se medesimo, aggiugnesse al lodo dato, senza saputa degli oratori fiorentini, dichiarazione che sotto nome delle fortezze si intendessino le porte della città di Pisa e dell'altre terre che avevano le fortezze, per la guardia delle quali, e per i salari del podestà e dell'assessore, fusse assegnata a' pisani certa parte delle entrate di Pisa; e che i luoghi non sospetti de' quali si faceva menzione nel lodo fussino lo stato della Chiesa, di Mantova, di Ferrara e di Bologna, esclusine però gli stipendiari di altri; e che alla restituzione de' beni mobili fusse imposto perpetuo silenzio: fusse in potestà de' pisani nominare l'assessore, di qualunque luogo non sospetto: non procedesse il capitano in alcuna causa criminale benché minima senza l'assessore: fussino i pisani trattati bene da' fiorentini, secondo l'uso delle altre città nobili d'Italia; né potessino essere poste loro nuove gravezze. La quale dichiarazione non fu procurata perché i viniziani desiderassino che la fusse osservata ma per raffreddare l'ardore degli oratori pisani, e per giustificarsi nel consiglio de' pregati che se non si era ottenuta la libertà de' pisani si era almanco proveduto tanto alla sicurtà e bene essere loro che non si potrebbe dire fussino dati in preda o abbandonati. Nel quale consiglio, dopo molte dispute, prevalendo pure la considerazione delle condizioni de' tempi e delle difficoltà del sostenere i pisani, e sopratutto il timore dell'armi del turco, fu deliberato che il lodo con espresso consentimento non si ratificasse ma, quel che è piú efficace in tutte le cose, si mettesse a esecuzione co' fatti, levando fra gli otto dí l'offese e rimovendo le genti di Toscana al tempo determinato, con intenzione di piú non intromettersene: piú tosto, per sospetto che Pisa non cadesse in potestà del duca di Milano, cominciavano molti del senato a desiderare che la ricuperassino i fiorentini.

                                                 Né in Firenze, inteso che fu il tenore del lodo dato, si dimostrò minore movimento di animi; aggravandosi di avere a rifare parte delle spese a chi gli aveva ingiustamente molestati, e molto piú non parendo loro conseguire altro che il nome nudo del dominio, poiché le fortezze avevano a essere guardate per i pisani e che l'amministrazione della giustizia criminale, uno de' membri principali alla conservazione degli stati, non aveva a essere libera de' loro magistrati: nondimeno, sforzandogli a ratificare i medesimi protesti del duca di Milano che gli avevano indotti a compromettere, e sperando di avere in progresso di breve tempo, con la industria e con l'usare umanità a' pisani, a ridurre le cose a migliore forma, ratificorno espressamente il lodo dato; ma non l'addizioni, non ancora pervenute a notizia loro. Maggiore fu la indegnazione e l'ambiguità de' pisani: i quali, concitati maravigliosamente contro al nome viniziano e insospettiti di maggiore fraude, subito che ebbono inteso quel che si conteneva nel lodo, rimossono le genti loro dalla guardia delle fortezze di Pisa e delle porte né vollono che piú alloggiassino nella città, e stetteno in dubitazione grande molti dí se accettavano le condizioni del lodo o no; piegandogli da una parte il timore, poiché si vedevano abbandonati da tutti, da altra tenendogli fermi l'odio de' fiorentini, e molto piú la disperazione di avere a trovare perdono per la grandezza delle offese fatte e per essere stati cagione di infinite spese e danni loro, e di avergli messo piú volte in pericolo della propria libertà. Nella quale ambiguità benché il duca di Milano gli confortasse a cedere, offerendo di essere mezzo co' fiorentini a vantaggiare le condizioni del lodo, nondimeno, per tentare se in lui fusse piú l'antica cupidità e disposti in tal caso a darsegli liberamente, gli mandorono imbasciadori; e finalmente, dopo lunghi pensieri e agitazioni, determinorono di tentare prima ogni cosa estrema che tornare sotto il dominio de' fiorentini: e a questo furono occultamente confortati da' genovesi da' lucchesi e da Pandolfo Petrucci. Né stettono i fiorentini senza sospetto che 'l duca di Milano, benché la verità fusse in contrario, non gli avesse confortati al medesimo: tanto poco si aspetta sincerità o opere fedeli da chi è venuto in concetto degli uomini di essere solito a governarsi con duplicità e con artifici. Ma a' fiorentini, esclusi dalla speranza di ottenere Pisa per accordo, parve avere occasione opportuna di espugnare quella città; però, fatto ritornare nel contado di Pisa Pagolo Vitelli, sollecitavano con diligenza grande le provisioni richieste da lui.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.8

                                                  

                                                 Il re di Francia si prepara alla spedizione contro Lodovico Sforza. I fiorentini sollecitati dal re di Francia e da Lodovico deliberano di non aderire né all'una né all'altra parte e di attendere alla riconquista di Pisa. Milizie francesi si raccolgono in Asti e milizie veneziane a Brescia. Preparativi di difesa di Lodovico Sforza.

                                                  

                                                 Le quali mentre che si sollecitano, crescevano continuamente i pericoli di Lodovico Sforza. Perché né la interposizione sua all'accordo aveva in parte alcuna placati gli animi de' viniziani, costanti nel desiderio della sua distruzione, per l'odio e per la speranza del guadagno; né Massimiliano era cosí pronto alla guerra contro al re di Francia come era sollecito a dimandargli spesso danari, anzi, contro alle promesse molte volte fattegli, prolungò la tregua sua col re per tutto il mese d'agosto prossimo, e togliendogli in uno tempo medesimo la speranza che gli avesse a giovare piú il soccorso suo di quello che gli avesse giovato la diversione, unito con la lega de' svevi, roppe guerra a' svizzeri, dichiaratigli ribelli dello imperio, per varie differenze che erano tra loro: la quale, continuata da ogni banda con grande impeto, ebbe vari progressi e grande uccisione dall'una parte e dall'altra; in modo che Lodovico era certo non potere piú, in caso gli bisognasse, ottenere aiuto da lui se non terminasse prima questa guerra o con vittoria o con accordo; e nondimeno, promettendogli Massimiliano che mai converrebbe né col re di Francia né co' svizzeri senza includervi lui, era costretto, per non se lo alienare, porgergli spesso nuovi danari. La quale occasione conoscendo il re di Francia, e quanto importasse l'avere congiunti seco i viniziani e il pontefice, disprezzati i conforti di molti, che lo consigliavano che, per essere re nuovo e poco abbondante di pecunia, differisse all'anno seguente la guerra contro al ducato di Milano, e sperando dovere ottenere in spazio di pochi mesi la vittoria e però non essergli necessaria quantità grande di danari, apertamente si preparava; porgendo secretamente, per tenere occupato Massimiliano, qualche somma di danari a' svizzeri. E perciò il duca di Milano, vedendo manifestamente approssimarsi la guerra, si sforzava con grandissima diligenza e sollecitudine di non rimanere solo in tanti pericoli; perché e di trovare mezzo di concordia col re e di convenire piú co' viniziani totalmente si diffidava, né trovava ne' re di Spagna, ricercati instantemente da lui, pensiero alcuno della sua salute. Però, tentando in un tempo medesimo gli animi di tutti gli altri, mandò Galeazzo Visconte a Massimiliano e a' svizzeri per interporsi a ridurgli a concordia; e sapendo che al pontefice non riusciva il pensiero del matrimonio di Ciarlotta per Cesare Borgia suo figliuolo, perché la fanciulla, o mossa dall'amore e dalla autorità paterna o vero confortatane occultamente dal re di Francia, benché esso dimostrasse di affaticarsi in contrario, ricusava ostinatamente di volerlo per marito se insieme non si componevano le cose di Federigo suo padre, il quale offeriva al re di Francia tributo annuo e ampie condizioni, ebbe speranza Lodovico di alienarlo dalle cose oltramontane, e gli fece grandissima instanza di tirarlo in confederazione seco, nella quale prometteva che oltre al re Federico entrerebbono i fiorentini: offerendo che da lui e dagli altri confederati gli sarebbe dato aiuto contro a' vicari della Chiesa, e donata quantità grande di danari per comprare qualche stato onorato per il figliuolo. Le quali offerte, benché da principio fussino udite simulatamente da Alessandro, si scoperseno presto vane; perché egli, sperando dalla compagnia del re di Francia premi molto maggiori che quegli era per conseguire se Italia di nuovo non si empieva di eserciti oltramontani, consentí che il figliuolo, escluso già del matrimonio di Ciarlotta, si congiugnesse con una figliuola di monsignore di Alibret, il quale per essere del sangue reale e per la grandezza de' suoi stati non era inferiore ad alcuno de' signori di tutto il reame di Francia. Né cessò Lodovico, certificato ogni dí piú della mala disposizione de' viniziani, di stimolare secretamente contro a loro con uomini propri, concorrendo al medesimo il re Federigo, il principe de' turchi, il quale già per se medesimo faceva potentissimi apparati; persuadendosi che assaltati da lui non darebbeno molestia allo stato di Milano. Ed essendogli note le preparazioni che facevano i fiorentini per espugnare Pisa, si sforzò, con offerire loro quello aiuto sapessino desiderare, di obligargli alla difesa sua con trecento uomini d'arme e dumila fanti, espugnata che avessino Pisa. E da altra parte, il re di Francia gli ricercava che gli promettessino di accomodarlo di cinquecento uomini d'arme per uno anno; obligandosi, acquistato che avesse lo stato di Milano, aiutargli per uno anno con mille lancie alle imprese loro, e promettendo non fare accordo alcuno con Lodovico se nel medesimo tempo non fussino reintegrati di Pisa e dell'altre terre, e che il pontefice e i viniziani prometterebbono difendergli se innanzi all'acquisto di Milano fussino molestati da alcuno.

                                                 Nelle quali contrarie dimande era ne' fiorentini molta irresoluzione, cosí per la difficoltà della materia come per la divisione degli animi. Perché non ricercando Lodovico gli aiuti loro se non in caso che avessino ricuperato Pisa, era molto piú presente e piú certo il soccorso suo che quello che prometteva il re di Francia, riputato in quanto alle cose di Pisa di poco frutto; perché, per l'occasione di essere allora quella città abbandonata da ciascuno, erano voltati tutti i pensieri loro a conseguirla in quella state: e moveva oltre a questo non poco gli animi di molti la memoria che l'avergli ne' loro pericoli aiutato Lodovico fusse stato cagione che 'l senato viniziano si fusse confederato col re di Francia alle offese sue; e molto piú gli moveva il timore che per lo sdegno di essere negate le sue dimande non impedisse loro l'espugnare Pisa, il che con non molta difficoltà arebbe potuto fare. Ma in contrario, giudicandosi che egli non potesse resistere al re di Francia e a' viniziani, pareva pericolosa deliberazione inimicarsi con uno re le cui armi si dubitava che dopo non molti mesi avessino a correre per tutta Italia; e la memoria de' benefici ricevuti da Lodovico nella guerra contro a' viniziani, per i quali diceva con verità avere avuta origine i suoi pericoli, era facilmente cancellata dalla memoria che per opera sua fusse prima proceduta la ribellione di Pisa, che egli, desideroso di insignorirsene, gli avesse sostentati e fatto sostentare da altri per molti mesi e perseguitato in quel tempo i fiorentini con molte ingiurie, in modo che maggiori erano state l'offese che i favori: a' quali non era anche condisceso se non per non potere tollerare che i viniziani gli avessino tolto quello che già con la speranza e con l'ambizione riputava proprio ne' concetti suoi. E veniva in considerazione che, dichiarandosi per Lodovico, il re potrebbe similmente, per mezzo del pontefice e de' viniziani confederati suoi, impedire la recuperazione di Pisa. Però deliberorno in ultimo di non muoversi in favore né del re di Francia né del duca di Milano, e in questo mezzo fare la impresa di Pisa, alla quale pensavano bastare le forze proprie; e nondimeno, per non dare a Lodovico cagione di interromperla, usando seco le sue arti, tenerlo in piú speranza potessino. E però, dopo avere differito molti dí a dargli risposta, mandorno uno segretario publico a fargli intendere che la intenzione della republica era, in quanto all'effetto, la medesima che la sua, ma essere qualche discrepanza nel modo: perché erano determinati, recuperato che avessino Pisa, di non gli mancare degli aiuti dimandati, ma conoscere molto pernicioso il farne seco espressa convenzione, perché non si potendo nelle città libere tali cose espedire senza consentimento di molti non potevano essere segrete, e palesandosi darebbeno occasione al re di Francia di fare che il pontefice e i viniziani soccorressino i pisani; donde la promessa sarebbe nociva a loro e a lui inutile, perché non espugnando Pisa non sarebbono obligati né potrebbono aiutarlo. Però giudicare che e' bastasse la fede che si dava a parole col consentimento de' cittadini principali, dall'autorità de' quali tutte le deliberazioni publiche dependevano; né recusare per altra cagione il convenirne seco per scrittura; offerendo finalmente, per maggiore dichiarazione dell'animo loro, che se da lui si dimostrasse qualche modo da potere, fuggendo tanto danno, sodisfare al desiderio suo sarebbeno parati a eseguirlo. Per la quale risposta, benché acuta e piena di artificio, e perché non accettavano l'offerte degli aiuti suoi, conobbe Lodovico non potere avere speranza certa delle genti loro: accorgendosi che da ogni parte gli mancavano le speranze. Perché il soccorso promessogli continuamente dal re de' romani era incerto molto per la varietà della natura sua e per lo impedimento della guerra co' svizzeri; e se bene Federigo prometteva mandargli quattrocento uomini d'arme e mille cinquecento fanti sotto Prospero Colonna, dubitava non tanto della volontà, perché la difesa del ducato di Milano era anche a beneficio suo, quanto della impotenza e lentezza sua; ed Ercole da Esti suo suocero, ricercato di aiuto da lui, gli aveva, rimproverandogli quasi l'antica ingiuria che per opera sua fusse rimasto a' viniziani il Pulesine di Rovigo, risposto dispiacergli l'essere impedito ad aiutarlo, perché essendo i confini de' viniziani tanto vicini alle porte di Ferrara era necessitato attendere a guardare la casa propria.

                                                 Perdute adunque tutte le speranze che non dependevano da se medesimo, attendeva sollecitamente a fortificare, Anon, Novara e Alessandria della Paglia, terre esposte a primi movimenti del re di Francia; con deliberazione d'opporre all'impeto suo Galeazzo da San Severino con la maggiore parte delle sue forze, e il resto sotto il marchese di Mantova opporre a' viniziani: benché non molto poi, o per imprudenza o per avarizia o perché a' consigli celesti non si possa resistere, disordinò da sé proprio questo sussidio. Perché, avendosi cominciato vanamente a persuadere che i viniziani, a' quali Baiseth ottomanno avea per terra e per mare con apparato stupendo rotta la guerra, necessitati a difendere contro a tanto inimico le cose proprie, non l'avessino a molestare, e desiderando sodisfare a Galeazzo da San Severino, impaziente che 'l marchese lo precedesse di titolo, cominciò a muovergli difficoltà ricusando di pagargli certo residuo di stipendi vecchi e ricercando da lui giuramenti e cauzioni insolite dell'osservanza della fede; e benché poi, vedendo che i viniziani mandavano continuamente gente nel bresciano, per essere parati a muovere la guerra nel tempo medesimo che i franzesi la movessino, cercasse per mezzo del duca di Ferrara, suocero comune di riconciliarselo, le difficoltà non si risolverono sí presto che piú presto non sopravenissino i pericoli. I quali apparivano ogni dí maggiori: perché nel Piemonte, ove il duca di Savoia si era di nuovo congiunto al re, passavano continuamente genti che si fermavano intorno ad Asti; e le speranze del duca sempre diminuivano perché il re Federico, o per impossibilità o per negligenza, tardava a mandare gli aiuti promessi, e qualche speranza che gli restava che i fiorentini, espugnata che avessino Pisa, gli manderebbono in soccorso Pagolo Vitelli, della virtú del quale teneva tutta Italia grandissimo conto, fu dalla diligenza del re di Francia interrotta; perché, con aspre parole e quasi minaccie usate agli oratori loro, ottenne che la republica secretamente gli promesse per scrittura di non dare al duca aiuto alcuno, senza ricevere di questo in ricompenso da sé promessa alcuna. Però Lodovico, lasciata a' confini de' viniziani sotto il conte di Gaiazzo leggiera difesa, mandò Galeazzo da San Severino di là dal fiume del Po, con mille seicento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri diecimila fanti italiani e cinquecento fanti tedeschi; ma piú con intenzione di attendere alla difesa delle terre che di resistere nella campagna, perché giudicava che l'allungare gli fusse utile per molte cagioni, e specialmente perché di dí in dí sperava la conclusione dell'accordo trattato in nome suo dal Visconte tra Massimiliano e le leghe de' svizzeri, il quale subito che avesse avuto perfezione gli erano promessi aiuti potenti da lui, ma altrimenti non solo non ne poteva sperare ma gli era difficile il soldare fanti in quelle parti, perché i moti che vi erano grandissimi tiravano gli uomini del paese a quella guerra.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.9

                                                  

                                                 Conquista di diverse terre del ducato di Milano da parte dei francesi. Lodovico Sforza incita i sudditi alla resistenza. La perdita di Alessandria. Pavia s'accorda coi francesi e i veneziani fanno scorrerie fino a Lodi. Tumulti in Milano. Lodovico si rifugia in Germania. Il re di Francia a Milano.

                                                  

                                                 Né si fece da parte alcuna altro effetto di guerra che leggiere correrie, insino a tanto che ebbono passato i monti le genti destinate alla guerra, sotto Luigi di Ligní, Eberardo di Obigní e Gianiacopo da Triulzi: perché il re, se bene veniva a Lione spargendo fama di volere, quando cosí ricercasse il bisogno, passare in Italia, intendeva di governarla per mezzo de' capitani. Ma unito che fu insieme tutto l'esercito de' franzesi, nel quale furono mille seicento lancie cinquemila svizzeri quattromila fanti guasconi e quattromila d'altre parti di Francia, i capitani il terzodecimo dí di agosto posono il campo alla rocca di Arazzo posta in su la ripa del Tanaro; nella quale benché fussino cinquecento fanti la preseno in brevissimo spazio, dandosi causa di tanta prestezza allo impeto dell'artiglierie, ma non meno alla viltà de' difensori. Presa la rocca di Arazzo, andorno a campo ad Anon, castello in su la strada maestra tra Asti e Alessandria e in su la ripa del Tanaro opposita ad Arazzo, forte di sito, e che era stato per qualche mese innanzi molto fortificato dal duca di Milano; e benché il Sanseverino, che alloggiava appresso ad Alessandria in campagna, intesa la perdita di Arazzo, avesse desiderato mandarvi nuovi fanti e migliori, perché settecento che ve ne aveva messi prima erano di gente nuova e non esperta alla guerra, non potette metterlo a esecuzione perché i franzesi, per impedire che non vi andasse soccorso, aveano, di consentimento del marchese di Monferrato signore di quel luogo, messa gente nella terra di Filizano posta tra Alessandria e Anon. Però, non facendo quegli che erano in Anon migliore esperienza di quello che si aspettava, i franzesi, battuto prima il borgo e poi la terra da quattro parti, la espugnorono in due dí; e dipoi espugnorono la fortezza, ammazzando tutti i fanti che vi erano rifuggiti. Dal quale successo, piú repentino di quello che si era creduto, spaventato il Sanseverino si ritirò con tutte le genti in Alessandria; scusando il suo timore col dire di avere fanteria inutile, e che i popoli dimostravano animo poco stabile nella divozione di Lodovico. Da che i franzesi tanto piú inanimiti si accostorno a quattro miglia ad Alessandria, e nel tempo medesimo presono Valenza, dove erano molti soldati e artiglierie, per opera di Donato Raffagnino milanese, castellano, corrotto dalle promesse del Triulzio, dal quale introdotti per la fortezza nella terra, presono e ammazzorono tutti i soldati, e tra questi restò prigione Ottaviano fratello naturale del Sanseverino; e fu cosa notabile che questo medesimo castellano aveva, venti anni innanzi, mancando di fede a madonna Bona e al piccolo duca Giovanni Galeazzo, dato a Lodovico Sforza una porta di Tortona, in quel medesimo dí che introdusse i franzesi in Valenza. E discorrendo dipoi per il paese come uno folgore, si arrendé loro senza difficoltà Basignano, Voghiera, Castelnuovo e Ponte Corone, e il medesimo fece, pochi dí poi, la città e la rocca di Tortona; dalla quale si ritirò di là da Po, senza aspettare assalto alcuno, Antonmaria Palavicino che vi era a guardia.

                                                 L'avviso delle quali cose andato a Milano, Lodovico Sforza, vedendosi ridotto in tante angustie e che tanto impetuosamente andava in precipizio lo stato suo, perduto, come si fa nelle avversità sí súbite, non meno l'animo che il consiglio, ricorreva a quegli rimedi a' quali solendo ricorrere gli uomini nelle cose afflitte e quasi ridotte a ultima disperazione, fanno piú presto palese a ciascuno la grandezza del pericolo che ne conseguitino frutto alcuno. Fece descrivere nella città di Milano tutti gli uomini abili a portare arme; e convocato il popolo, al quale era in odio grande il nome suo per molte esazioni che aveva fatte, lo liberò da una parte delle gravezze, soggiugnendo con caldissime parole che se pareva che qualche volta fussino stati troppo aggravati, non l'attribuisseno gli uomini alla natura sua, né a cupidità che avesse mai avuto di accumulare tesoro; ma i tempi e i pericoli d'Italia, prima per la grandezza de' viniziani dipoi per la passata del re Carlo, averlo costretto a fare questo, per potere tenere in pace e in sicurtà quello stato e potere resistere a chi volesse assaltarlo: avendo giudicato non potere fare maggiore beneficio alla patria e a' popoli suoi che provedere non fussino molestati dalle guerre. E che questo fusse stato consiglio di inestimabile utilità averlo i frutti che se ne erano ricolti chiarissimamente dimostrato, perché tanti anni sotto il governo suo erano stati in somma pace e tranquillità, per la quale si era grandemente augumentata la magnificenza le ricchezze e lo splendore di quella città: di che fare fede manifestissima gli edifici le pompe e tanti ornamenti, e la moltiplicazione quasi infinita dell'arti e degli abitatori, nelle quali cose la città e il ducato di Milano non solo non cedevano ma erano superiori a qualunque altra città e regione d'Italia. Ricordassinsi di essere stati governati da sé senza alcuna crudeltà, e con quanta mansuetudine e benignità avesse udito sempre ciascuno, e che solo tra tutti i príncipi di quella età, senza perdonare a fatica o travaglio del corpo, aveva per se medesimo, ne' dí deputati all'udienze publiche, amministrato a tutti giustizia sommaria e indifferente. Ricordassinsi de' meriti e della benivolenza del suo padre, che gli aveva governati piú presto come figliuoli che come sudditi; e proponessinsi innanzi agli occhi quanto sarebbe acerbo lo imperio superbo e insolente de' franzesi, i quali per la vicinità di quello stato al reame di Francia ne farebbono, se lo occupassino, come altre volte aveva di tutta Lombardia fatto quella nazione, sedia ferma e perpetua de' popoli suoi, cacciatine gli antichi abitatori. Però pregargli che, alienando l'animo da i costumi barbari e inumani, si disponessino a difendere insieme la patria e la propria salute. Né doversi dubitare che, se si sforzassino di sostenere per brevissimo tempo i primi pericoli, sarebbe facile il resistere, essendo i franzesi piú impetuosi nello assaltare che costanti nel perseverare; e perché egli senza dilazione aspettava potenti aiuti dal re de' romani, il quale, già composte le cose co' svizzeri, si preparava per soccorrerlo in persona; e che erano in cammino le genti le quali il re di Napoli gli mandava con Prospero Colonna; e credere che il marchese di Mantova, essendo risolute seco tutte le difficoltà, fusse già con trecento uomini d'arme entrato nel cremonese: alle quali cose aggiugnendosi la prontezza e la fede del popolo suo, si renderebbe sicurissimo degli inimici, quando bene oltre a quello esercito fusse congiunta insieme tutta la possanza di Francia. Le quali parole, udite con maggiore attenzione che frutto, non giovorono piú che si giovassino l'armi opposte a' franzesi.

                                                 Per il timore de' quali, stimando manco il pericolo imminente da' viniziani, che avevano mossa la guerra in Ghiaradadda e presa la terra di Caravaggio e le altre vicine a Adda, rivocò il conte di Gaiazzo con la piú parte delle genti mandate a quella difesa, e le fece andare a Pavia, perché si unissino con Galeazzo per la difesa di Alessandria. Ma già da ogni banda si accelerava la sua ruina, perché il conte di Gaiazzo si era accordato prima secretamente col re di Francia; potendo piú in lui lo sdegno che Galeazzo, fratello minore di età e minore eziandio nello esercizio militare, gli fusse anteposto nel capitanato dello esercito e in tutti gli onori e favori che la memoria di innumerabili benefici ricevuti, egli e i fratelli, da Lodovico. Affermano alcuni che qualche mese innanzi era penetrato agli orecchi suoi avviso di questa fraude, in sul quale, stato alquanto tacito sopra di sé, avere finalmente sospirando risposto a chi gliene aveva significato, non potersi persuadere una tanta ingratitudine; e se pure era vero, non sapere finalmente come avere a provedervi, né di chi piú si avesse a confidare poiché i piú intrinsechi e piú beneficati lo tradivano: affermando non riputare minore o manco perniciosa calamità privarsi per sospetto vano, della opera delle persone fedeli ché, per incauta credulità, commettersi alla fede di quegli i quali meritavano di essere sospetti. Ma mentre che 'l conte di Gaiazzo fa il ponte su 'l Po per unirsi col fratello e artificiosamente ne manda in lungo l'esecuzione, mentre che fatto il ponte differisce di passare, essendo già l'esercito franzese stato due giorni intorno ad Alessandria e battendola con l'artiglierie, Galeazzo, con cui erano mille dugento uomini d'arme mille dugento cavalli leggieri e tremila fanti, la notte del terzo dí, non conferiti i suoi pensieri ad alcuno degli altri capitani eccetto che a Lucio Malvezzo, accompagnato da una parte de' cavalli leggieri, fuggí occultamente di Alessandria, dimostrando, con grandissimo suo vituperio ma non con minore infamia della prudenza di Lodovico, a tutto il mondo quanta differenza sia da maneggiare uno corsiere e correre nelle giostre e ne' torniamenti grosse lancie, ne' quali esercizi avanzava ogn'altro italiano, a essere capitano di uno esercito; e con quanto danno proprio si ingannano i príncipi che, nel fare elezione delle persone alle quali commettono le faccende grandi, hanno piú in considerazione il favore di chi eleggono che la virtú. Ma come la partita di Galeazzo fu nota per Alessandria, tutto il resto della gente cominciò tumultuosamente chi a fuggire chi ad ascondersi; con la quale occasione entratovi in sul fare del dí l'esercito franzese, non solo messe in preda i soldati che vi restavano ma con la licenza militare saccheggiò tutta la città. È fama che Galeazzo avea ricevuto lettere, scritte col nome e col suggello di Lodovico Sforza, che gli comandavano che per essere nato certo movimento in Milano si ritirasse là subito con tutte le genti; e alcuno dubitò poi che non fussino state fabricate falsamente dal conte di Gaiazzo, per facilitare con questa arte la vittoria de' franzesi: le quali lettere Galeazzo era poi solito a mostrare per sua giustificazione, come se per quelle gli fusse stato commesso, non che conducesse lo esercito salvo e in caso conoscesse poterlo fare, ma che temerariamente l'abbandonasse. Ma questo non è tanto certo quanto è certo a ciascuno che, se in Galeazzo fusse stato o consiglio di capitano o animo militare, arebbe potuto facilmente difendere Alessandria e la maggiore parte delle cose di là da Po, con le genti che aveva, anzi arebbe forse avuto qualche prospero successo: perché avendo, pochi dí innanzi, passato il fiume della Bornia una parte dello esercito franzese e, per essere sopravenute grosse pioggie, trovandosi rinchiusa tra i fiumi della Bornia e del Tanaro, non bastò l'animo a Galeazzo di assaltargli, se bene gli fusse significato che alcuni de' suoi cavalli leggieri, usciti di Alessandria per il ponte che in sul Tanaro congiugne il borgo alla città e andati inverso di loro, avessino quasi messo in fuga la prima squadra.

                                                 La perdita di Alessandria spaventò tutto il resto del ducato di Milano, oppresso a ogn'ora di nuove calamità: perché e i franzesi passato Po erano andati a campo a Mortara, donde Pavia si era accordata con loro, e le genti de' viniziani, presa la rocca di Caravaggio e passato in su uno ponte di barche il fiume di Adda, avevano corso insino a Lodi; e già quasi tutte l'altre terre tumultuavano. Né in Milano era minore confusione o terrore che altrove, perché tutta la città sollevata aveva preso l'armi: e con tanto poca riverenza verso il suo signore che, uscendo da lui del castello, nel mezzo del dí, Antonio da Landriano generale suo tesoriere, fu nella strada publica, o per inimicizie particolari o per ordine di chi desiderava cose nuove, ammazzato. Per il qual caso, Lodovico entrato in gravissimo spavento della sua persona, e privato d'ogni speranza di resistere, deliberò, lasciando bene guardato il castello di Milano, di andarsene co' figliuoli in Germania, per fuggire il pericolo presente e per sollecitare, secondo diceva, Massimiliano a venire a' suoi favori; il quale o aveva già conchiuso o aveva per ferma la concordia co' svizzeri. Fatta questa deliberazione, fece subito partire i figliuoli accompagnati dal cardinale Ascanio, che pochi dí innanzi era venuto da Roma per soccorrere quanto poteva le cose del fratello, e dal cardinale di San Severino: e insieme con loro mandò il tesoro, diminuito molto da quello che soleva essere: perché è manifesto che otto anni innanzi, avendo Lodovico per ostentare la sua potenza mostratolo agli imbasciadori e a molti altri, si era trovato ascendere tra danari e vasi di argento e di oro, senza le gioie che erano molte, alla quantità di uno milione e mezzo di ducati; ma in questo tempo, secondo l'opinione degli uomini, passava di poco dugentomila. Partiti i figliuoli, deputò, benché ne fusse sconfortato da tutti i suoi, alla guardia del castello di Milano Bernardino da Corte pavese, che allora ne era castellano, antico allievo suo, anteponendo la fede di costui a quella del fratello Ascanio che se gli era offerto di pigliarne la cura, e vi lasciò tremila fanti sotto capitani fidati, e provisione di vettovaglie di munizione e di danari bastante a difenderlo per molti mesi: e risoluto nelle cose di Genova fidarsi d'Agostino Adorno, allora governatore, e di Giovanni suo fratello, a cui era congiunta in matrimonio una sorella de' Sanseverini, mandò loro i contrasegni del castelletto. A' Buonromei gentiluomini di Milano restituí Anghiera, Arona e altre terre in sul Lago Maggiore, che aveva loro occupate, e a Isabella di Aragona, moglie già del duca Giovan Galeazzo, fece a conto delle sue doti donazione del ducato di Bari e del principato di Rossano per trentamila ducati, ancora che ella non gli avesse voluto concedere il piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, il quale egli desiderava che co' figliuoli suoi andasse in Germania. E poiché, ordinate queste cose, fu dimorato quanto gli parve potere dimorare sicuramente, reggendosi già la terra per se stessa, partí con molte lagrime, il secondo dí di settembre, per andare in Germania, accompagnato dal cardinale da Esti e da Galeazzo Sanseverino e, per assicurarsi il cammino, da Lucio Malvezzo e da non piccolo numero di uomini d'arme e di fanti. Né era appena uscito del castello che il conte di Gaiazzo, sforzandosi di coprire con qualche colore la sua perfidia, fattosegli incontro gli disse che, poiché egli abbandonava lo stato suo, pretendeva restare libero della condotta che aveva da lui, e potere prendere di sé qualunque partito gli piacesse; e immediate poi scoperse il nome e l'insegne di soldato del re di Francia, andando a' soldi suoi con la medesima compagnia che aveva messa insieme e conservata co' danari di Lodovico. Il quale da Como, dove lasciò la fortezza in potestà del popolo, se ne andò per il lago insino a Bellagio; e di poi smontato in terra passò da Bormio e per quegli luoghi dove già, nel tempo che era collocato in tanta gloria e felicità, aveva ricevuto Massimiliano, quando piú presto come capitano suo e de' viniziani che come re de' romani passò in Italia. Fu perseguitato tra Como e Bormio dalle genti franzesi e dalla compagnia del conte di Gaiazzo; da' quali luoghi, lasciata guardia nella fortezza di Tiranno, che fu pochi dí poi occupata da' grigioni, si indirizzò verso Spruch, dove intendeva essere la persona di Cesare.

                                                 Dopo la partita di Lodovico i milanesi, mandati subitamente imbasciadori a' capitani approssimatisi già con l'esercito a sei miglia alla città, consentirono di ricevergli liberamente; riservando il capitolare alla venuta del re, dal quale, procedendo solamente con la misura dell'utilità propria, speravano immoderate grazie ed esenzioni; e il medesimo feceno senza dilazione tutte l'altre terre del ducato di Milano. Volle e la città di Cremona, essendo circondata dalle genti de' viniziani, lo imperio de' quali abborriva, fare il medesimo; ma non volendo il re rompere la capitolazione fatta co' viniziani, fu necessitata arrendersi a loro. Seguitò Genova la medesima inclinazione, facendo a gara il popolo gli Adorni e Gianluigi dal Fiesco di essere gli autori principali di darla al re. E perché contro a Lodovico si dimostrasse non solo una rovina sí repentina e sí grande, avendo in venti dí perduto sí nobile e sí potente stato, ma ancora tutti gli esempli di ingratitudine, il castellano di Milano, eletto da lui per il piú confidato tra tutti i suoi, senza aspettare né uno colpo di artiglieria né alcuna specie di assalto, dette, il duodecimo dí dalla partita sua, al re di Francia il castello che era tenuto inespugnabile, ricevuta in premio di tanta perfidia quantità grande di danari la condotta di cento lancie provisione perpetua e molte altre grazie e privilegi, ma con tanta infamia e con tanto odio, eziandio appresso a' franzesi, che, rifiutato da ognuno come di fiera pestifera e abominevole il suo commercio, e schernito per tutto dove arrivava con obbrobriose parole, tormentato dalla vergogna e dalla coscienza (potentissimo e certissimo flagello di chi fa male), passò non molto poi per dolore all'altra vita. Parteciporno di questa infamia i capitani che con lui erano rimasti nel castello, e sopra gli altri Filippino dal Fiesco; il quale, allievo del duca e lasciatovi da lui per molto fedele, in cambio di confortare il castellano a tenersi, acciecato da grandissime promesse lo confortò al contrario, e insieme con Antonio Maria Palavicino, che interveniva in nome del re, trattò la dedizione. Ma come il re ebbe a Lione le nuove di tanta vittoria, succeduta molto piú presto di quello aveva sperato, passò subito con celerità grande a Milano; dove ricevuto con grandissima letizia concedé la esenzione di molti dazi: benché il popolo, intemperante ne' desideri suoi, avendo fatto concetto di avere a essere esente in tutto, non rimanesse con molta sodisfazione. Fece molte donazioni di entrate a molti gentiluomini dello stato di Milano; tra' quali riconoscendo i meriti di Gianiacopo da Triulzi, gli concedette Vigevano e molte altre cose.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.10

                                                  

                                                 I fiorentini padroni di tutto il contado di Pisa. I fiorentini danno l'assalto alla città che si trova in grave pericolo d'esser presa, senonché Paolo Vitelli fa sospendere l'azione. Malattie fra le milizie fiorentine. Il Vitelli leva il campo da Pisa; fatto prigione e condotto a Firenze è decapitato. Capi principali di condanna del Vitelli.

                                                  

                                                 Ma nel tempo medesimo che dal re di Francia si movevano l'armi contro al ducato di Milano, Pagolo Vitelli, raccolte le genti e le provisioni de' fiorentini, per potere piú facilmente attendere alla espugnazione di Pisa, pose il campo alla terra di Cascina; la quale, se bene fusse proveduta sufficientemente di difensori e delle altre cose necessarie, e similmente munita di fossi e di ripari, ottenne, dappoi che furono piantate l'artiglierie, in ventisei ore: perché essendo cominciati a impaurire gli uomini della terra, per il progresso grande che per l'essere le mura deboli aveano fatto l'artiglierie, i soldati forestieri che vi erano dentro, prevenendogli, si arrenderono, patteggiata solamente la salvezza delle persone e robe proprie, e lasciati loro e i commissari e soldati pisani in arbitrio libero de' vincitori. Arrenderonsi dipoi, alla richiesta di uno trombetto solo, la torre edificata per la guardia della foce di Arno, e il bastione dello Stagno abbandonato da' pisani, in modo che per i pisani non si teneva altro in tutto il contado che la fortezza della Verrucola e la piccola torre d'Asciano, non molestate dagli inimici per la incomodità d'avere, volendo espugnarle, a passare Arno, e perché, essendo contigue a Pisa, potevano facilmente essere soccorse, e perché non importava alla somma delle cose il perdervi tempo.

                                                 Rimaneva adunque sola l'espugnazione di Pisa, impresa, da coloro che discorrevano prudentemente, non reputata se non difficile per la fortezza della città e per il numero virtú e ostinazione degli uomini che vi erano dentro: perché se bene in Pisa non erano soldati forestieri, eccetto Gurlino da Ravenna e pochi altri, i quali, venutivi agli stipendi de' viniziani, vi erano volontariamente rimasti dopo la partita delle loro genti, vi era copioso il numero de' cittadini e de' contadini, né minore di qualità che di quantità; perché per l'esperienza continua di cinque anni erano quasi tutti divenuti atti alla guerra, e con proposito sí ostinato di non ritornare sotto il dominio de' fiorentini che arebbono riputata minore qualunque altra gravissima avversità. Non aveano le mura della città fossi innanzi a sé, ma [erano] molto grosse e di pietra di antica struttura, talmente conglutinata, per la proprietà delle calcine che si fanno in quel paese, che per la loro solidità resistendo piú che comunemente non fanno l'altre muraglie alle artiglierie, davano, innanzi che le fussino gittate in terra, molto spazio, a coloro che erano dentro, di riparare. E nondimeno i fiorentini deliberorno d'assaltarla, confortati al medesimo da Pagolo Vitelli e da Rinuccio da Marciano, i quali davano speranza grande di espugnarla in quindici giorni. E perciò, avendo messi insieme diecimila fanti e molti cavalli, e fatti secondo la richiesta del capitano abbondantissimi provedimenti, egli, l'ultimo dí di luglio, vi pose il campo, non, come era ricordato da molti e come faceano instanza i fiorentini, da quella parte d'Arno che proibiva il soccorso che vi venisse di verso Lucca ma dall'altra parte del fiume, di riscontro alla fortezza di Stampace; o perché gli paresse facilitarsi assai la vittoria se espugnava quella fortezza, o per maggiore comodità delle vettovaglie che si conducevano dalle castella delle colline, o perché avesse avuto notizia che i pisani, non credendo che mai s'accampasse da quella parte, non v'aveano cominciato, come dall'altra parte facevano, riparo alcuno. Cominciossi a battere la rocca di Stampace e la muraglia, dalla mano destra e sinistra per lunghissimo tratto, con venti pezzi grossi d'artiglieria, cioè da Santo Antonio a Stampace e dipoi insino alla porta che si dice a mare, posta in sulla riva d'Arno. E per contrario i pisani, non intermettendo dí e notte di lavorare, e insieme con loro le donne non meno pertinaci e animose a questo che gli uomini, feciono in pochissimi dí all'opposito della muraglia che si batteva, uno riparo di grossezza e altezza notabile e uno fosso molto profondo; non gli spaventando che mentre che lavoravano ne erano feriti e morti molti dalle artiglierie, o per proprio colpo o per reverberazione, la quale peste offendeva similmente i soldati del campo, percossi talmente dalle artiglierie di dentro, massime da una passavolante piantata in sulla torre di San Marco, che erano necessitati, per tutto il campo, o di alzare il terreno per ripararsi o alloggiare nelle fosse. Procedessi piú dí con questi modi; e benché fusse già gittato in terra grande spazio di muraglia da Santo Antonio a Stampace, e ridotta quella fortezza in termini che il capitano sperava di potere senza molta difficoltà ottenerla, nondimeno per farsi la vittoria piú facile si continuava il battere da Stampace insino alla porta a mare, scaramucciandosi in questo mezzo spesso tra la muraglia battuta e il riparo, tanto lontano dalle mura che Stampace restava tutta fuora del riparo: in una delle quali scaramuccie fu ferito il conte Renuccio di uno archibuso. Ed era il consiglio del capitano, come avesse occupata Stampace, piantare l'artiglierie in su quella e in sulla muraglia battuta, donde offendendosi per fianco tutta quella parte che difendevano i pisani, sperava quasi certa la vittoria; e nel tempo medesimo fare cadere verso il riparo, acciocché riempiendosi il fosso fusse piú facile a' soldati la salita, una alia di muro tra Stampace e il riparo, la quale, tagliata prima con gli scarpelli, si sosteneva co' puntelli di legname. Da altra parte i pisani, che si governavano nella difesa secondo il consiglio di Gurlino, aveano fatte di verso Santo Antonio alcune case matte nel fosso per impedire agli inimici, in caso vi scendessino, il riempierlo, e distese su per i ripari verso Santo Antonio molte artiglierie, e alloggiati i fanti loro a piè del riparo, acciocché, riducendosi le cose allo stretto, si opponessino con le proprie persone agli inimici. Finalmente Pagolo Vitelli, il decimo dí poi che si era accampato, non volendo differire piú a pigliare Stampace, presentatavi la mattina in sull'alba la battaglia, benché i soldati fussino offesi dalle artiglierie della cittadella vecchia, la prese piú prestamente e con maggiore facilità che non aveva sperato e con tanto spavento de' pisani che abbandonati i ripari si mettevano per tutta la città in fuga; e molti, tra' quali Piero Gambacorta cittadino nobile, con quaranta balestrieri a cavallo che militavano sotto lui, si fuggirono di Pisa; e se ne sarebbono fuggiti molti piú se da' magistrati non fusse stata fatta resistenza alle porte: in modo che è manifesto che se si procedeva innanzi si otteneva quella mattina la vittoria, con grandissima gloria del capitano; al quale sarebbe stato felicissimo quel dí che fu origine delle sue calamità. Perché, non conoscendo egli, secondo che poi si scusava, l'occasione che insperatamente se gli presentò, né avendo ordinato di dare quel dí la battaglia con tutto il campo, né ad altro che a quella torre, non solo non mandò le genti ad assaltare il riparo, ove non arebbeno trovato resistenza, ma fece ritornare indietro la maggiore parte de' fanti, che inteso l'acquisto di Stampace, desiderosi di saccheggiare la città, correvano tumultuosamente per entrarvi; e in quel tanto i pisani, volando la fama per la città che gli inimici non seguitavano la vittoria, e concitati da' pianti e dalle grida miserabili delle donne, che gli confortavano a eleggere piú presto la morte che la conservazione della vita sotto il giogo de' fiorentini, cominciarono a ritornare alla guardia de' ripari. A' quali essendo ritornato Gurlino, e considerando che dal rivellino che aveva Stampace verso la terra era una via che andava verso la porta a mare, la quale aveano prima ripiena di terra e di legname e fortificata verso il campo, ma non proveduto all'altra via verso Stampace, fece subito riparare e riempiere da quel lato; e fatto uno terrato, con artiglierie che tiravano per fianco, impediva l'entrare da quella parte. Acquistata Stampace, Paolo vi fece tirare in alto falconetti e passavolanti, i quali tiravano per tutta Pisa ma non offendevano i ripari, i quali, benché fussino offesi dalle artiglierie piantate da basso, non però gli abbandonavano i pisani, e nel tempo medesimo si batteva la casa matta verso Santo Antonio e la porta a mare e le difese: né cessava Pagolo Vitelli di sforzarsi di riempiere il fosso con fascine, per facilitarsi il pigliare il riparo. Contro alle quali cose i pisani, in sussidio de' quali erano la notte seguente stati mandati da Lucca trecento fanti, cresciuti di animo, gittavano fuochi lavorati nel fosso; e ponendo sommo studio di necessitare quegli del campo ad abbandonare la torre di Stampace, vi voltorono uno grossissimo passavolante detto il bufolo, a pochi colpi del quale ottennono che si levasse l'artiglieria piantata in alto: contro al quale benché Pagolo voltasse alcuni passavolanti, da' quali fu sboccato, non cessando però di trarre, lacerò di maniera in piú dí la torre che Pagolo fu alla fine costretto di levare l'artiglieria e abbandonarla. Né fu altro il successo del muro tagliato: perché, avendo similmente i pisani puntellato dalla parte di dentro per farlo cadere di verso il fosso, quando Pagolo volle farlo cadere stette immobile. Non privò questo caso il capitano della speranza di avere a ottenere finalmente la vittoria; la quale cercando, secondo la natura sua, di acquistare piú sicuramente e con minore danno dell'esercito che si poteva, con tutto che in piú luoghi fussino in terra già piú di cinquecento braccia di muraglia, attendeva continuamente ad ampliare la batteria, a sforzarsi di riempiere i fossi della terra e a fortificare la torre di Stampace, per piantarvi di nuovo artiglieria e potere battere per fianco i ripari grandi che avevano fatto i pisani: sforzandosi, con tutta la perizia e arte sua, d'acquistare al continuo maggiore opportunità per dare piú sicuramente la battaglia generale e ordinata. La quale, benché già avesse condotto le cose in grado che qualunque volta si desse sperasse molto la vittoria, differiva volentieri di dare, perché tanto piú si diminuisse il danno dello esercito e si avesse maggiore certezza di ottenerla: con tutto che i commissari de' fiorentini, a' quali ogni minima dilazione era molestissima, e riscaldati con lettere e messi continui da Firenze, non cessasseno di stimolarlo che con l'accelerare prevenisse agl'impedimenti che a ogn'ora potrebbeno nascere. Il quale consiglio di Pagolo, forse piú prudente e piú secondo la disciplina militare, ebbe contraria la fortuna. Perché essendo il paese di Pisa, che è pieno di stagni e di paludi tra la marina vicina e la città, sottoposto in quella stagione dell'anno a pestiferi venti, e specialmente da quella parte onde era alloggiato il campo, sopravenneno in due dí nello esercito infinite infermità; per le quali, quando Pagolo volle dare la battaglia, che fu il vigesimo quarto dí di agosto, si accorse essere fatto inutile tanto numero di genti, ché quegli che erano sani non bastavano a darla: il quale disordine benché i fiorentini ed egli, oppresso come gli altri da infermità, si ingegnassino di ristorare col soldare nuovi fanti, nondimeno la influenza prevaleva talmente che era ogni dí molto maggiore la diminuzione che il supplemento. Però, disperato in ultimo di potere piú conseguire la vittoria e dubitando di qualche danno, deliberò levare il campo; contradicendo molto i fiorentini, perché desideravano che, messa nella fortezza di Stampace sufficiente guardia, si fermasse con l'esercito appresso a Pisa. La qual cosa disprezzata da lui, perché la rocca di Stampace, conquassata prima molto dalle artiglierie sue e poi da quelle de' pisani, non si poteva difendere, abbandonatala, ridusse il quarto dí di settembre tutto il campo alla via della marina; e diffidandosi di potere condurre per terra l'artiglieria a Cascina, perché dalle pioggie erano soffocate le strade, la imbarcò alla foce d'Arno perché si conducesse a Livorno: ma mostrandosi in ogni cosa avversa la fortuna, se ne sommerse una parte, che fu non molto dipoi ricuperata da' pisani, che nel tempo medesimo ripreseno la torre che è a guardia della foce. Per i quali accidenti si augumentò tanto la sinistra opinione che il popolo fiorentino aveva già conceputa di Pagolo che, pochi dí poi, chiamato in Cascina da' commissari, sotto specie di ordinare la distribuzione delle genti alle stanze, fu da loro, per comandamento del magistrato supremo della città, fatto prigione; donde mandato a Firenze e, la notte medesima che vi arrivò, esaminato aspramente con tormenti, fu il seguente dí per comandamento del medesimo magistrato decapitato. E mancò poco che nel medesimo infortunio non incorresse insieme con lui il fratello, il quale i commissari mandorono in quello istante a pigliare: ma Vitellozzo, cosí ammalato come era di infermità contratta intorno a Pisa, mentre che simulando volere ubbidire esce del letto, mentre che mette tempo in mezzo per vestirsi, salito, per l'aiuto di alcuno de' suoi che vi concorseno, in su uno cavallo, si rifuggí in Pisa, ricevuto con grandissima letizia da' pisani.

                                                 Furono i capi principali della condannazione contro a Pagolo: che dalla volontà sua fusse proceduto il non acquistare Pisa, avendo avuto facoltà di pigliarla il dí che fu presa la rocca di Stampace; che per la medesima cagione avesse differito tanto il dare la battaglia; avere udito piú volte uomini venuti a lui di Pisa, né mai comunicato co' commissari le imbasciate loro; e levato da campo contro al comandamento publico, e abbandonata Stampace, avere invitato qualcuno degli altri condottieri a occupare in compagnia sua Cascina, Vico Pisano e l'artiglierie, per potere ne' pagamenti e nelle altre condizioni maneggiare come gli paresse i fiorentini: che in Casentino avesse tenuto pratiche occulte co' Medici, e nel tempo medesimo trattato e quasi conchiuso di condursi co' viniziani (benché per cominciare a servirgli subito che fusse finita la condotta sua co' fiorentini, la quale era già quasi alla fine), il che non avere avuto perfezione perché i viniziani, fatto l'accordo co' fiorentini, recusorono di condurlo; e che per queste cagioni avesse dato il salvo condotto al duca di Urbino e a Giuliano de' Medici. Sopra le quali cose esaminato non confessò particolare alcuno che l'aggravasse; e nondimeno non fu esaminato piú lungamente, perché per timore che il re di Francia, già venuto a Milano, non dimandasse la sua liberazione, fu accelerato il supplizio. Né alcuni de' suoi ministri, che dopo la morte sua furono con maggiore comodità esaminati, confessorono altro che essere in lui molto mala sodisfazione de' fiorentini, per il favore dato in concorrenza sua al conte Renuccio, per la difficoltà di spedire le provisioni che dimandava e qualche volta le cose sue particolari, e per quello che volgarmente si parlava in Firenze in carico suo. Donde, benché in alcuni restasse opinione che e' non fusse proceduto sinceramente, come se aspirasse a farsi signore di Pisa e a occupare qualche altra parte del dominio fiorentino, nel quale nutriva molte intelligenze e amicizie, nondimeno nella maggiore parte è stata opinione contraria, persuadendosi che egli desiderasse sommamente la espugnazione di Pisa, per l'interesse della gloria, primo capitale de' capitani di guerra, che ottenendo quella impresa gli perveniva grandissima.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.11

                                                  

                                                 Omaggi di príncipi italiani al re di Francia in Milano. Patti conclusi non senza difficoltà tra il re di Francia e i fiorentini.

                                                  

                                                 Ma al re venuto a Milano erano concorsi, parte in persona parte per imbasciadori, dal re Federigo in fuori, tutti i potentati d'Italia; chi per congratularsi solamente della vittoria, chi per giustificare le imputazioni avute di essere stato piú inclinato a Lodovico Sforza che a lui, chi per stabilire seco in futuro le cose sue; i quali tutti raccolse benignamente, e con tutti fece composizioni ma diverse secondo la diversità delle condizioni e secondo quello che poteva disegnare di profittarsene. Accettò in protezione il marchese di Mantova, al quale dette la condotta di cento lancie, l'ordine di San Michele e onorata provisione: accettò similmente in protezione il duca di Ferrara; l'uno e l'altro de' quali era andato a lui personalmente, ma questo non senza spesa e difficoltà, perché, poi che ebbe consegnato a Lodovico Sforza il castelletto di Genova, era sempre stato tenuto d'animo alieno dalle cose franzesi: accettò oltre a questi in protezione, ma ricevuti danari da lui, Giovanni Bentivogli, che v'avea mandato Annibale suo figliuolo.

                                                 Ma con maggiore spesa e difficoltà si composeno le cose de' fiorentini. A' quali, dimenticati i meriti loro e quello che per seguitare l'amicizia franzese avevano patito a tempo del re passato, era avversa quasi tutta la corte, non si accettando le ragioni che, per non si provocare contro nelle cose di Pisa Lodovico Sforza, gli aveano necessitati a stare neutrali: perché ne' petti de' franzesi poteva ancora la impressione fatta quando il re Carlo concedé la libertà a' pisani; anzi appresso a' capitani e agli uomini militari era cresciuta l'affezione, per la fama ampliata per tutto che e' fussino uomini valorosi nell'armi. Noceva oltre a questo a' fiorentini l'autorità di Gianiacopo da Triulzio il quale, aspirando al dominio di Pisa, favoriva la causa de' pisani, desiderosi di ricevere per signore lui e ogn'altro che avesse potuto difendergli da' fiorentini. I quali erano lacerati medesimamente, per tutta la corte, della morte di Pagolo Vitelli, come se senza cagione avessino decapitato uno capitano di tanto valore e al quale la corona di Francia aveva obligazione, perché il fratello era stato ammazzato ed egli fatto prigione mentre che erano nel regno di Napoli agli stipendi del re Carlo. Ma potendo finalmente piú nell'animo del re l'utilità propria che le cose vane, fu fatta composizione per la quale il re, ricevutigli in protezione, si obligò a difendergli contro a ciascuno con seicento lancie e quattromila fanti; e i fiorentini, reciprocamente, alla difesa degli stati suoi d'Italia con quattrocento uomini d'arme e tremila fanti: che il re fusse obligato servirgli, a loro richiesta, di quelle lancie e artiglierie bisognassino per la ricuperazione di Pisa e delle terre occupate da' sanesi e da' lucchesi, ma non già di quelle che tenevano i genovesi; e non essendogli richieste prima queste genti, fusse obligato, quando mandasse esercito alla impresa di Napoli, voltarle tutte o parte a questa espedizione; e che ricuperato che avessino Pisa, e non altrimenti, fussino tenuti dargli, per l'acquisto di Napoli, cinquecento uomini d'arme e cinquantamila ducati per pagarne cinquemila svizzeri per tre mesi; e che a lui restituissino trentaseimila ducati che aveva loro prestati Lodovico Sforza, defalcandone a dichiarazione di Gianiacopo da Triulzi quel che avessino pagato o speso per lui: conducessino per capitano generale delle loro genti il prefetto di Roma fratello del cardinale di San Piero a Vincola, a instanza del quale fu fatta questa dimanda.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.4, cap.12

                                                  

                                                 Aiuti dati dal re di Francia al Valentino per rivendicare i diritti della Chiesa sulle terre di Romagna. Come la Chiesa istituita da principio meramente per l'amministrazione spirituale sia pervenuta agli stati e agli imperi mondani. Condizioni delle terre di Romagna e inizi dell'impresa del Valentino. Il Valentino ottiene Imola. Vicende della guerra fra i veneziani e i turchi.

                                                  

                                                 Né dormiva in tanta opportunità l'ambizione del pontefice; il quale instando per l'osservazione delle promesse, il re concedette contro a' vicari di Romagna al duca Valentino, venuto con lui di Francia, trecento lancie sotto Ivo d'Allegri a spese proprie e quattromila svizzeri, ma questi a spese del pontefice, sotto il baglí di Digiuno. Per la dichiarazione della qual cosa, e di molt'altre succedute ne' tempi seguenti, ricerca la materia che si faccia menzione che ragioni abbia la Chiesa sopra le terre di Romagna e sopra molte altre, le quali o ha in vari tempi possedute o ora possiede: e in che modo, instituita da principio meramente per la amministrazione spirituale, sia pervenuta agli stati e agli imperi mondani; e similmente che si narri, come cosa connessa, che congiunzioni e contenzioni sieno state, per queste e altre cagioni, in diversi tempi tra i pontefici e gli imperadori.

                                                 I pontefici romani, de' quali il primo fu l'apostolo Piero, fondata da Giesú Cristo l'autorità loro nelle cose spirituali, grandi di carità d'umiltà di pazienza di spirito e di miracoli, furono ne' loro princípi non solo al tutto spogliati di potenza temporale ma, perseguitati da quella, stettono per molti anni oscuri e quasi incogniti; non si manifestando il nome loro per alcuna cosa piú che per i supplici, i quali, insieme con quegli che gli seguivano, quasi quotidianamente sostenevano: perché se bene, per la moltitudine innumerabile e per le diverse nazioni e professioni che erano in Roma, fussino qualche volta poco attesi i progressi loro, e alcuni degli imperadori non gli perseguitassino se non quanto pareva che l'azioni loro publiche non potessino essere con silenzio trapassate, nondimeno alcuni altri, o per crudeltà o per l'amore agli dii propri, gli perseguitorono atrocemente, come introduttori di nuove superstizioni e distruttori della vera religione. Nel quale stato, chiarissimi per la volontaria povertà, per la santità della vita e per i martiri, continuorono insino a Silvestro pontefice; a tempo del quale essendo venuto alla fede cristiana Costantino imperadore, mosso da' costumi santissimi e da' miracoli che in quegli che il nome di Cristo seguitavano continuamente si vedevano, rimasono i pontefici sicuri de' pericoli ne' quali erano stati circa a trecento anni, e liberi di esercitare publicamente il culto divino e i riti cristiani: onde per la riverenza de' costumi loro, per i precetti santi che contiene in sé la nostra religione, e per la prontezza che è negli uomini a seguitare, o per ambizione, il piú delle volte, o per timore, l'esempio del suo principe, cominciò ad ampliarsi per tutto maravigliosamente il nome cristiano, e insieme a diminuire la povertà de' cherici. Perché Costantino avendo edificato a Roma la chiesa di San Giovanni in Laterano, la chiesa di San Piero in Vaticano, quella di San Paolo e molte altre in diversi luoghi, le dotò non solo di ricchi vasi e ornamenti ma ancora (perché si potessino conservare e rinnovare, e per le fabriche e sostentazione di quegli che vi esercitavano il culto divino) di possessioni e di altre entrate; e successivamente molti, ne' tempi che seguitorono, persuadendosi con le elemosine e co' legati alle chiese farsi facile l'acquisto del regno celeste, o fabricavano e dotavano altre chiese o alle già edificate dispensavano parte delle ricchezze loro. Anzi, o per legge o per inveterata consuetudine, seguitando l'esempio del Testamento vecchio, ciascuno, de' frutti de' beni propri, pagava alle chiese la decima parte: eccitandosi a queste cose gli uomini con grande ardore, perché da principio i cherici, da quello in fuora che era necessario per il moderatissimo vitto loro, tutto il rimanente, parte nelle fabriche e paramenti delle chiese parte in opere pietose e caritative, distribuivano. Né essendo entrata ancora ne' petti loro la superbia e l'ambizione, era riconosciuto universalmente da' cristiani per superiore di tutte le chiese e di tutta l'amministrazione spirituale il vescovo di Roma, come successore dello apostolo Piero, e perché quella città, per la sua antica degnità e grandezza, riteneva, come capo dell'altre, il nome e la maestà dello imperio, e perché da quella si era diffusa la fede cristiana nella maggiore parte della Europa, e perché Costantino, battezzato da Silvestro, tale autorità volentieri in lui e ne' suoi successori avea riconosciuta. È fama, oltre a queste cose, che Costantino, costretto dagli accidenti delle provincie orientali a trasferire la sedia dello imperio nella città di Bisanzio, chiamata dal suo nome Costantinopoli, donò a' pontefici il dominio di Roma e di molte altre città e regioni d'Italia: la quale fama, benché diligentemente nutricata da' pontefici che succederono e per l'autorità loro creduta da molti, è dagli autori piú probabili riprovata, e molto piú dalle cose stesse; perché è manifestissimo che allora, e lungo tempo dipoi, fu amministrata Roma e tutta Italia come suddita allo imperio, e dai magistrati deputati dagli imperadori. Né manca chi redarguisca (sí profonda è spesso nelle cose tanto antiche la oscurità) tutto quello che si dice di Costantino e di Silvestro, affermando essi essere stati in diversi tempi. Ma niuno nega che la traslazione della sedia dello imperio a Costantinopoli fu la prima origine della potenza de' pontefici, perché indebolendo in progresso di tempo l'autorità degli imperadori in Italia, per la continua assenza loro e per le difficoltà che ebbono nello Oriente, il popolo romano, discostandosi dagli imperadori e però tanto piú deferendo a' pontefici, cominciò a prestare loro non subiezione ma spontaneamente uno certo ossequio: benché queste cose non si dimostrorono se non lentamente, per le inondazioni dei goti de' vandali e di altre barbare nazioni che sopravennono in Italia; dalle quali presa e saccheggiata piú volte Roma, era in quanto alle cose temporali oscuro e abietto il nome de' pontefici, e piccolissima in Italia l'autorità degli imperadori, poiché con tanta ignominia la lasciavano in preda de' barbari. Tra le quali nazioni, essendo stato l'impeto dell'altre quasi come uno torrente, continuò per settanta anni la potenza de' goti, gente di nome e di professione cristiana e uscita dalla prima origine sua delle parti di Dacia e di Tartaria. La quale essendo finalmente stata cacciata d'Italia dall'armi degli imperadori, cominciò di nuovo Italia a governarsi per magistrati greci, de' quali quello che era superiore a tutti, detto con greco vocabolo esarco, risedeva a Ravenna, città antichissima e allora molto ricca e molto frequente per la fertilità del paese e perché, dopo l'augumento grande che ebbe per l'armata potente tenuta continuamente da Cesare Augusto e da altri imperadori nel porto quasi congiuntogli, e che ora non apparisce, di Classe, era stata abitata da molti capitani, e poi per lungo tempo da Teoderico re de' goti e da i suoi successori; i quali, avendo a sospetto la potenza degli imperadori, aveano eletta quella piú tosto che Roma per sedia del regno loro, per l'opportunità del suo mare piú propinquo a Costantinopoli: la quale opportunità, benché per contraria ragione, seguitando gli esarchi, fermatisi quivi, deputavano al governo di Roma e delle altre città d'Italia magistrati particolari, sotto titolo di duchi. Da questo ebbe origine il nome dello esarcato di Ravenna sotto il quale nome si comprendeva tutto quello che, non avendo duchi particolari, ubbidiva immediatamente allo esarco. Nel quale tempo i pontefici romani, privati in tutto di potenza temporale, e allentata, per la dissimilitudine de' costumi loro già cominciati a trascorrere, la reverenza spirituale, stavano quasi come subietti agli imperadori; senza la confermazione de' quali o de' loro esarchi, benché eletti dal clero e dal popolo romano, non ardivano di esercitare o di accettare il pontificato: anzi gli episcopi costantinopolitano e ravennate (perché comunemente la sedia della religione séguita la potenza dello imperio e delle armi) disputavano spesso della superiorità con l'episcopo romano. Ma si mutò non molto poi lo stato delle cose, perché i longobardi, gente ferocissima, entrati in Italia, occuporono la Gallia Cisalpina, la quale dallo imperio loro prese il nome di Lombardia, Ravenna con tutto l'esarcato e molte altre parti d'Italia; e si disteseno l'armi loro insino nella marca anconitana e a Spuleto e a Benevento, ne' quali due luoghi creorono duchi particolari: non provedendo a queste cose, parte per la ignavia loro parte per le difficoltà che avevano in Asia, gli imperadori. Dagli aiuti de' quali Roma abbandonata, né essendo piú il magistrato degli esarchi in Italia, cominciò a reggersi co' consigli e con l'autorità de' pontefici. I quali, dopo molto tempo, essendo insieme co' romani oppressati da' longobardi, ricorsono finalmente agli aiuti di Pipino re di Francia; il quale, passato con potente esercito in Italia, avendovi i longobardi dominato già piú di dugento anni, cacciatigli di una parte del loro imperio, donò, come diventate sue per ragione di guerra, al pontefice e alla Chiesa romana non solo Urbino, Fano, Agobbio e molte terre vicine a Roma ma eziandio Ravenna col suo esarcato, sotto il quale dicono includersi tutto quello che si contiene da' confini di Piacenza, contigui al territorio di Pavia, insino ad Arimini, tra il fiume del Po il monte Apennino gli stagni, ovvero palude de' viniziani, e il mare Adriatico, e di piú Arimini insino al fiume della Foglia, detto allora Isauro. Ma dopo la morte di Pipino, molestando di nuovo i longobardi i pontefici e quel che era stato donato loro, Carlo suo figliuolo, quello che poi per le vittorie grandissime che ebbe fu meritamente cognominato magno, distrutto del tutto lo imperio loro, confermò la donazione fatta alla Chiesa romana dal padre; e approvò l'essersi, mentre guerreggiava co' longobardi, date al pontefice la marca di Ancona e il ducato di Spuleto, il quale comprendeva la città dell'Aquila e una parte dello Abruzzi. Affermansi queste cose per certe: alle quali aggiungono alcuni scrittori ecclesiastici Carlo avere donato alla Chiesa la Liguria insino al fiume del Varo, ultimo confine d'Italia, Mantova e tutto quello che i Longobardi possedevano nel Friuli e in Istria; e il medesimo scrive alcuno altro, dell'isola di Corsica e di tutto il territorio che si contiene tra le città di Luni e di Parma. Per i quali meriti i re di Francia, celebrati ed esaltati da' pontefici conseguitorono il titolo di re cristianissimi; e dipoi, l'anno ottocentesimo della nostra salute, Leone pontefice insieme col popolo romano, non con altra autorità il pontefice che come capo di quello popolo, elessono il medesimo Carlo per imperadore romano, separando eziandio nel nome questa parte dello imperio dagli imperadori che abitavano a Costantinopoli, come se Roma e le provincie occidentali, non difese da loro, avessino bisogno di essere difese da proprio principe. Per la quale divisione non furno privati gli imperadori costantinopolitani né dell'isola di Sicilia né di quella parte d'Italia la quale, discorrendo da Napoli a Manfredonia, è terminata dal mare; perché erano state continuamente sotto quegli imperadori. Né si derogò per queste cose alla consuetudine che la elezione de' pontefici fusse confermata dagli imperadori romani, in nome de' quali si governava la città di Roma; anzi i pontefici nelle bolle ne' privilegi e nelle concessioni loro esprimevano con queste parole formali il tempo della scrittura: “Imperante il tale imperadore signore nostro”. Nella quale, non grave, o soggezione o dependenza continuorono insino a tanto che i successi delle cose non dettono loro animo a reggersi per se stessi. Ma essendo cominciata a indebolire la potenza degli imperadori, prima per le discordie nate tra i discendenti medesimi di Carlo magno, mentre che in loro risedeva la degnità imperiale e dipoi per l'essere stata trasportata ne' príncipi tedeschi, non potenti come erano stati, per la grandezza del regno di Francia, i successori di Carlo, i pontefici e il popolo romano, da' magistrati del quale cominciò Roma, benché tumultuosamente, a governarsi, derogando in tutte le cose quanto potevano alla giurisdizione degli imperadori, statuirono per legge che non piú la elezione de' pontefici avesse a essere confermata da loro; il che per molti anni si osservò diversamente, secondo che per la variazione delle cose sorgeva o declinava piú la potenza imperiale. La quale essendo accresciuta poiché lo imperio pervenne negli Ottoni di Sassonia, Gregorio, medesimamente di Sassonia, eletto pontefice per favore di Ottone terzo, che era presente, mosso dall'amore della propria nazione e sdegnato per le persecuzioni ricevute da' romani, trasferí per suo decreto nella nazione germanica la facoltà di eleggere gli imperadori romani, in quella forma che insino alla età nostra si osserva; vietando agli eletti, per riservare a' pontefici qualche preeminenza, di non usare il titolo di imperadori o di Augusti se prima non ricevevano da' pontefici la corona dello imperio (donde è introdotto il venire a Roma a incoronarsi), e di non usare prima altro titolo che di re de' romani e di Cesari. Ma mancati poi gli Ottoni, e diminuita la potenza degli imperadori perché lo imperio non si continuava ereditario in re grandi, Roma apertamente si sottrasse dalla obedienza loro, e molte città, quando imperava Corrado svevo, si ribellorono; e i pontefici, attendendo ad ampliare la propria autorità, dominavano quasi Roma, benché spesso per la insolenza e per le discordie del popolo vi avessino molte difficoltà: il quale per reprimere avevano già, per favore di Enrico secondo imperadore che era a Roma, trasferito per legge ne' cardinali soli l'autorità di creare il pontefice. Alla grandezza de' quali succedette nuovo augumento, perché avendo i normanni, de' quali il primo fu Guglielmo cognominato Ferrabracchio, usurpata allo imperio costantinopolitano la Puglia e la Calavria, Ruberto Guiscardo, uno di essi, o per fortificarsi con questo colore di ragione o per essere piú potente a difendersi contro a quegli imperadori o per altra cagione, restituito Benevento come di ragione ecclesiastica, riconobbe il ducato di Puglia e di Calavria in feudo della Chiesa romana; il cui esempio seguitando Ruggieri, uno de' suoi successori, e avendo scacciato del ducato di Puglia e di Calavria Guglielmo della medesima famiglia e occupata poi la Sicilia, riconobbe, circa l'anno mille cento trenta, queste provincie in feudo dalla Chiesa sotto titolo di re di ambedue le Sicilie, l'una di là l'altra di qua dal Faro: non ricusando i pontefici di fomentare, per la ambizione e utilità propria, l'altrui usurpazione e violenza. Con le quali ragioni pretendendo sempre piú oltre (come non mai si ferma la cupidità umana) cominciorono i pontefici a privare di quegli regni alcuni de' re contumaci a' loro comandamenti e a concedergli ad altri; nel quale modo pervennono in Enrico figliuolo di Federigo Barbarossa e da Enrico in Federico secondo suo figliuolo, tutt'a tre successivamente imperadori romani.

                                                 Ma essendo Federigo diventato acerrimo persecutore della Chiesa, e suscitate a' tempi suoi in Italia le fazioni guelfa e ghibellina, dell'una delle quali era capo il pontefice dell'altra lo imperadore, il pontefice, morto Federigo, concedette la investitura di questi regni a Carlo conte d'Angiò e di Provenza, del quale di sopra è stata fatta menzione, con censo di oncie seimila d'oro per ciascuno anno, e con condizione che per l'avvenire alcuno di quegli re non potesse accettare lo imperio romano; la quale condizione è stata poi sempre specificata nelle investiture; benché il regno dell'isola di Sicilia, occupato dai re di Aragona, si separò, dopo pochi anni, nel censo e nella recognizione del feudo, dalla ubbidienza della Chiesa. Ha anche ottenuto la fama, benché non tanto certa quanto sono le cose precedenti, che molto prima la contessa Matelda, principessa in Italia molto potente, donò alla Chiesa quella parte della Toscana la quale, terminata dal torrente di Pescia e dal castello di San Quirico nel contado di Siena da una parte, e dall'altra dal mare di sotto e dal fiume del Tevere, è oggi detta il patrimonio di San Piero; e aggiungono altri che dalla medesima contessa fu donata alla Chiesa la città di Ferrara. Non sono certe queste ultime cose: ma è ancora piú dubbio quello che è stato scritto da qualcuno, che Aritperto re de' longobardi, fiorendo il regno loro, gli donò l'Alpi Coccie, nelle quali dicono includersi Genova e tutto quello che si contiene da Genova insino a' confini della Provenza; e che Liutprando, re della medesima nazione, gli donò la Sabina, paese propinquo a Roma, Narni e Ancona con certe altre terre. Cosí variando lo stato delle cose, furono similmente varie le condizioni de' pontefici con gli imperadori, perché, essendo stati perseguitati per molte età dagli imperadori e dipoi liberati, per la conversione di Costantino, da questo terrore, si riposorono, ma attendendo solamente alle cose spirituali, e poco meno che interamente sudditi, per molti anni, sotto l'ombra loro; vissono dipoi lunghissimo tempo in basso stato e separati totalmente dal commercio loro, per la grandezza de' longobardi in Italia. Ma dipoi, pervenuti per beneficio de' re di Francia a potenza temporale, stettono congiuntissimi con gli imperadori e dependendo con allegro animo dalla loro autorità, mentre che la degnità imperiale si continuò ne' discendenti di Carlo magno, e per la memoria de' benefici dati e ricevuti e per rispetto della grandezza imperiale. La quale poi declinando, separatisi in tutto dalla amicizia loro, cominciorono a fare professione che la degnità pontificale avesse piú tosto a ricevere che a dare le leggi alla imperiale: e perciò, avendo sopra tutte l'altre cose in orrore il ritornare nell'antica subiezione, e che essi non tentassino di riconoscere in Roma e altrove le antiche ragioni dello imperio, come alcuni di loro o di maggiore potenza o di spirito piú elevato si sforzavano di fare, si opponevano scopertamente con le armi alla potenza loro; accompagnati da quegli tiranni che, sotto nome di príncipi, e da quelle città che, vendicatesi in libertà, non riconoscevano piú l'autorità dello imperio. Da questo nacque che i pontefici, attribuendosi ogni dí piú, e convertendo il terrore dell'armi spirituali alle cose temporali, e interpretando che come vicari di Cristo in terra erano superiori agli imperadori, e che a loro in molti casi apparteneva la cura dello stato terreno, privavano alcuna volta gli imperadori della degnità imperiale, suscitando gli elettori a eleggere degli altri in luogo de' privati; e da altra parte gli imperadori o eleggevano o procuravano che si eleggessino nuovi pontefici. Da queste controversie nacque, essendo indebolito molto lo stato della Chiesa, né meno per la dimora della corte romana per settanta anni nella città di Avignone, e per lo scisma che al ritorno de' pontefici succedette in Italia, che nelle città sottoposte alla Chiesa, e specialmente in quelle di Romagna, molti cittadini potenti occuporno nelle patrie proprie la tirannide; i quali i pontefici o perseguitavano o, non essendo potenti a opprimergli, le concedevano in feudo a quegli medesimi, o suscitando altri capi gli investivano. Cosí cominciorono le città di Romagna ad avere signori particolari, sotto titolo, la maggiore parte, di vicari ecclesiastici. Cosí Ferrara, data dal pontefice in governo ad Azzo da Esti, fu conceduta poi in titolo di vicariato, ed esaltata in progresso di tempo quella famiglia a titoli piú illustri; cosí Bologna, occupata da Giovanni Visconte arcivescovo di Milano, gli fu poi conceduta in vicariato dal pontefice: e per le medesime cagioni, in molte terre della marca di Ancona, del patrimonio di San Piero e della Umbria, ora detta il ducato, sorsono, o contro alla volontà o con consentimento quasi sforzato de' pontefici, molti signori particolari. Le quali variazioni essendo similmente sopravenute in Lombardia alle città dello imperio, accadde talvolta che, secondo la varietà delle cose, i vicari di Romagna e di altre terre ecclesiastiche, allontanatisi apertamente dal nome della Chiesa, riconoscevano in feudo quelle città dagli imperadori; come, qualche volta, riconoscevano in feudo da' pontefici quegli che occupavano, in Lombardia, Milano Mantova e altre terre imperiali. E in questi tempi Roma, benché ritenendo in nome il dominio della Chiesa, si reggeva quasi per se stessa. E ancora che, nel principio che i pontefici romani ritornorno di Avignone in Italia, fussino ubbiditi come signori, nondimeno poco poi i romani, creato il magistrato de' banderesi, ricaddono nella antica contumacia; donde ritenendovi i pontefici piccolissima autorità cominciorono a non vi abitare, insino a tanto che i romani, impoveriti e caduti in gravissimi disordini per l'assenza della corte, e approssimandosi l'anno del mille quattrocento, nel quale speravano, se a Roma fusse il pontefice, dovervi essere per il giubileo grandissimo concorso di tutta la cristianità, supplicorono con umilissimi prieghi a Bonifazio pontefice che vi ritornasse, offerendo di levare via il magistrato de' banderesi e di sottomettersi in tutto alla ubbidienza sua. Con le quali condizioni tornato a Roma, intenti i romani a' guadagni di quello anno, preso assolutamente lo imperio della città, fortificò e messe la guardia in Castel Sant'Angelo: i successori del quale, insino a Eugenio, benché v'avessino spesso molte difficoltà, nondimeno, fermato poi pienamente il dominio loro, i pontefici seguenti hanno senza alcuna controversia signoreggiata ad arbitrio suo quella città. Con questi fondamenti e con questi mezzi esaltati alla potenza terrena, deposta a poco a poco la memoria della salute dell'anime e de' precetti divini, e voltati tutti i pensieri loro alla grandezza mondana, né usando piú l'autorità spirituale se non per instrumento e ministerio della temporale, cominciorono a parere piú tosto príncipi secolari che pontefici. Cominciorono a essere le cure e i negozi loro non piú la santità della vita, non piú l'augumento della religione, non piú il zelo e la carità verso il prossimo, ma eserciti, ma guerre contro a' cristiani, trattando co' pensieri e con le mani sanguinose i sacrifici, ma accumulazione di tesoro, nuove leggi nuove arti nuove insidie per raccorre da ogni parte danari; usare a questo fine senza rispetto l'armi spirituali, vendere a questo fine senza vergogna le cose sacre e le profane. Le ricchezze diffuse in loro e in tutta la corte seguitorono le pompe il lusso e i costumi inonesti, le libidini e i piaceri abominevoli; nessuna cura a' successori, nessuno pensiero della maestà perpetua del pontificato, ma, in luogo di questo, desiderio ambizioso e pestifero di esaltare non solamente a ricchezze immoderate ma a principati, a regni, i figliuoli i nipoti e congiunti loro; non distribuendo piú le degnità e gli emolumenti negli uomini benemeriti e virtuosi, ma, quasi sempre, o vendendosi al prezzo maggiore o dissipandosi in persone opportune all'ambizione all'avarizia o alle vergognose voluttà. Per le quali operazioni perduta del tutto ne' cuori degli uomini la riverenza pontificale, si sostenta nondimeno in parte l'autorità per il nome e per la maestà, tanto potente ed efficace, della religione, e aiutata molto dalla facoltà che hanno di gratificare a' príncipi grandi e a quegli che sono potenti appresso a loro, per mezzo delle degnità e delle altre concessioni ecclesiastiche. Donde, conoscendosi essere in sommo rispetto degli uomini, e che a chi piglia l'armi contro a loro risulta grave infamia e spesso opposizione di altri príncipi e, in ogni evento, piccolo guadagno, e che vincitori esercitano la vittoria ad arbitrio loro, vinti conseguiscono che condizione vogliono, e stimolandogli la cupidità di sollevare i congiunti suoi di gradi privati a principati, sono stati da molto tempo in qua spessissime volte lo instrumento di suscitare guerre e incendi nuovi in Italia.

                                                 Ma ritornando al principale proposito nostro, dal quale il dolore giustissimo del danno publico m'aveva, piú ardentemente che non conviene alla legge dell'istoria, traportato, le città di Romagna, vessate come l'altre suddite alla Chiesa da questi accidenti, si reggevano, già molti anni, in quanto all'effetto, quasi come separate dal dominio ecclesiastico; perché alcuni de' vicari non pagavano il censo debito in recognizione della superiorità, altri lo pagavano con difficoltà e spesso fuora di tempo, ma tutti indistintamente senza licenza de' pontefici si conducevano agli stipendi di altri príncipi, non eccettuando di non essere tenuti a servirgli contro alla Chiesa, e ricevendo obligazione da loro di difendergli eziandio contro all'autorità e l'armi de' pontefici: da' quali erano ricevuti cupidamente, per potersi valere delle armi e delle opportunità degli stati loro, né meno per impedire che non si accrescesse la potenza de' pontefici. Ma in questo tempo erano possedute da' viniziani in Romagna le città di Ravenna e di Cervia, delle quali avevano molti anni innanzi spogliati quegli della famiglia da Polenta, divenuti prima, di cittadini privati di Ravenna, tiranni della loro patria e poi vicari; Faenza Furlí Imola e Rimini erano dominate da vicari particolari; Cesena, signoreggiata lungamente dalla famiglia de' Malatesti, morendo non molti anni innanzi senza figliuoli Domenico ultimo vicario di quella città, era ritornata sotto l'imperio della Chiesa. Perciò il pontefice, pretendendo che quelle città fussino per diverse cause devolute alla sedia apostolica e volere reintegrarla nelle sue antiche giurisdizioni, ma con intenzione veramente di attribuirle a Cesare suo figliuolo, avea convenuto col re di Francia che, acquistato che avesse il ducato di Milano, gli desse aiuto a ottenere solamente quelle che erano possedute da' vicari, e oltre a queste la città di Pesero della quale era vicario Giovanni Sforza già suo genero; perché la grandezza de' viniziani non permetteva che contro a loro si distendessino questi pensieri: i quali né si distendevano, per allora, a quelle piccole terre che, contigue al fiume del Po, erano tenute dal duca di Ferrara. Ottenute adunque il Valentino le genti dal re, e aggiunte a quelle le genti della Chiesa, entrato in Romagna, ottenne subito la città d'Imola per accordo, negli ultimi dí dell'anno mille quattrocento novantanove.

                                                 Nel quale anno Italia, conquassata da tanti movimenti, aveva similmente sentite le armi de' turchi; perché, avendo Baiseth ottomanno assaltato per mare con potente armata i luoghi che in Grecia tenevano i viniziani, mandò per terra seimila cavalli a predare la regione del Frioli; i quali, trovato il paese non guardato né sospettando di tale accidente, corsono predando e ardendo insino a Liquenza; e avendo fatto quantità innumerabile di prigioni, quando, ritornandosene, giunsono alla ripa del fiume del Tigliavento, per camminare piú espediti, riserbatasi quella parte quale stimorono potere condurre seco, ammazzorono crudelissimamente tutti gli altri. Né procedendo anche prosperamente le cose in Grecia, Antonio Grimanno, capitano generale dell'armata opposta da' viniziani alla armata del turco, accusato che non avesse usata l'occasione di vincere gli inimici che uscivano del porto della Sapienza, e un'altra volta alla bocca del golfo di Lepanto, datogli il successore, fu citato a Vinegia, e commessa la cognizione al consiglio de' pregati; nel quale fu trattata molti mesi con grandissima espettazione, difendendolo da una parte l'autorità e grandezza sua, dall'altra perseguitandolo con molti argomenti e testimoni gli accusatori. Finalmente, parendo che fusse per prevalere la causa sua, o per l'autorità dell'uomo e moltitudine de' parenti o perché in quello consiglio, nel quale intervengono molti uomini prudenti, non si considerassino tanto i romori publici e le calunnie non bene provate quanto si desiderasse di intendere maturamente la verità della cosa, fu questa cognizione per il magistrato degli avocadori del comune trasferita al giudicio del consiglio maggiore: dove, o cessando i favori o avendovi piú luogo la leggerezza della moltitudine che la maturità senatoria, fu, non però prima che nell'anno seguente, alla fine rilegato a esilio perpetuo nell'isola di Ossaro.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.13

                                                  

                                                 Il giubileo. Il Valentino prende Forlí. Ritorno del re in Francia: cause di malcontento in Milano. Lodovico Sforza riconquista il ducato e cerca con scarsa fortuna alleati ed aiuti. Lodovico Sforza ottiene Novara.

                                                  

                                                 Ebbe movimenti cosí grandi l'anno mille quattrocento novantanove, ma non fu meno vario e memorabile l'anno mille cinquecento; nobile ancora per la remissione plenaria del giubileo. Il quale, instituito da principio da' pontefici che si celebrasse, secondo l'esempio del Testamento vecchio, ogni cento anni, non per delettazione o per pompa, come erano appresso a' romani i giuochi secolari, ma per salute dell'anime (perché in esso, secondo la pietosa credenza del popolo cristiano, si aboliscono pienamente tutti i delitti a coloro che, riconoscendo con vera penitenza i falli commessi, visitano le chiese dedicate in Roma a' príncipi degli apostoli), fu poi instituito che si celebrasse ogni cinquanta anni, e in ultimo ridotto a venticinque anni; e nondimeno, per la memoria della sua prima origine, è celebrato con molto maggiore frequenza nell'anno centesimo che negli altri.

                                                 Nel principio di questo anno il Valentino ottenne senza resistenza la città di Furlí; perché quella madonna, mandati i figliuoli e la roba piú preziosa a Firenze, abbandonate l'altre cose le quali era impotente a sostenere, si ridusse solamente a difendere la cittadella e la rocca di Furlí, provedute copiosamente d'uomini e d'artiglierie. Ma essendo tra tanti difensori ripieni d'animo femminile ella sola di animo virile, furono presto, per la viltà de' capitani che v'erano dentro, espugnate dal Valentino. Il quale, considerando piú in lei il valore che il sesso, la mandò prigione a Roma, dove fu custodita in Castel Santo Angelo: benché passato di poco uno anno, per intercessione di Ivo di Allegri, ottenne la liberazione.

                                                 Ottenuto che ebbe il Valentino Imola e Furlí, procedeva all'espedizione dell'altre terre; ma l'interroppono nuovi accidenti che improvisamente sopravennono. Perché il re, poiché ebbe dato alle cose acquistate quello ordine che piú gli parve opportuno, lasciatovi sufficiente presidio, e prorogata, con inclusione eziandio del ducato di Milano e di tutto quello teneva in Italia, per insino a maggio prossimo, la tregua col re de' romani, se ne ritornò in Francia; ove condusse il piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, datogli imprudentemente dalla madre, il quale dedicò a vita monastica; e nel ducato di Milano lasciò governatore generale Gianiacopo da Triulzi, in cui per il valore e per i meriti suoi, e per l'inimicizia con Lodovico Sforza, sommamente confidava. Ma non rimase già fedele disposizione ne' popoli di quello stato; parte perché a molti dispiacevano le maniere e i costumi de' franzesi, parte perché nel re non avevano trovato quella liberalità, né ottenuta l'esenzione di tutti i dazi, come la moltitudine si era imprudentemente persuasa. E importava molto che a tutta la fazione ghibellina, potentissima nella città di Milano e nell'altre terre, era molto molesto che al governo fusse preposto Gianiacopo capo della fazione guelfa; la quale mala disposizione era molto accresciuta da lui, che di natura fazioso e di animo altiero e inquieto favoreggiava con l'autorità del magistrato, molto piú che non era conveniente, quegli della sua parte; e alienò, oltre a questo, molto da lui gli animi della plebe, che nella piazza del macello ammazzò di sua mano alcuni beccai, che con la temerità degli altri plebei, ricusando di pagare i dazi da' quali non erano esenti, si opponevano con l'armi a' ministri deputati alle esazioni delle entrate. Per le quali cagioni dalla maggiore parte della nobiltà e da tutta la plebe, cupidissima per sua natura di cose nuove, era desiderato il ritorno di Lodovico, e chiamato già con parole e voci non occulte il suo nome.

                                                 Il quale essendosi insieme col cardinale Ascanio presentato a Cesare, e con grande umanità veduti e raccolti, avevano trovato in lui ottimo animo e dispiacere grandissimo delle loro calamità, promettendo a ogni ora di muoversi in persona con forze potenti alla recuperazione del loro stato, perché aveva composto in tutto la guerra co' svizzeri: ma queste speranze, per la varietà della natura sua e per essere consueto a confondere l'uno con l'altro de' suoi concetti mal fondati, si scoprivano ogni dí piú vane; anzi oppressato dalle sue solite necessità non cessava di richiedergli spesso di danari. Però Lodovico e Ascanio, non sperando piú negli aiuti suoi ed essendo continuamente sollecitati da molti gentiluomini di Milano, soldati ottomila svizzeri e cinquecento uomini d'arme borgognoni, si risolverono di fare la impresa da loro medesimi. Il quale moto presentendo il Triulzio, ricercò subito il senato viniziano che accostasse le genti sue al fiume dell'Adda, e a Ivo d'Allegri significò essere necessario che, partendosi dal Valentino, ritornasse con le genti d'arme franzesi e co' svizzeri con grandissima celerità a Milano; e per reprimere il primo impeto degli inimici mandò una parte delle genti a Como, non lo lasciando il sospetto che aveva del popolo milanese voltarvi tutte le forze sue. Ma la sollecitudine de' fratelli Sforzeschi superò tutta la diligenza degli altri; perché, non aspettate tutte le genti che aveano soldate ma dato ordine che di mano in mano gli seguitassino, passorno con somma prestezza i monti, e saliti in sulle barche che erano nel lago di Como si accostorno a quella città: la quale, ritirandosi i franzesi per avere conosciuta la disposizione de' comaschi, subito gli ricevette. La perdita di Como significata a Milano generò tale sollevazione nel popolo, e quasi in tutti i principali della fazione ghibellina, che già non si astenevano da tumultuare; in modo che il Triulzio, non vedendo alle cose del re rimedio alcuno, si ridusse subitamente nel castello, e la notte seguente, insieme con le genti d'arme che si erano ritirate nel barco che è contiguo al castello, se ne andò verso Noara, seguitandogli nel ritirarsi i popoli tumultuosamente insino al fiume del Tesino; e lasciate in Novara quattrocento lancie si fermò con l'altre a Mortara, pensando lui e gli altri capitani piú a recuperare il ducato, venendo di Francia nuovo soccorso, che a difenderlo. Entrò dopo la partita de' franzesi in Milano prima il cardinale Ascanio e di poi Lodovico; avendolo, dal castello in fuora, ricuperato con la medesima facilità con la quale l'aveano perduto, e dimostrandosi maggiore desiderio e letizia del popolo milanese nel suo ritorno che non si era dimostrato nella partita. La quale disposizione essendo similmente negli altri popoli, le città di Pavia e di Parma richiamorono senza dilazione il nome di Lodovico; e arebbono Lodi e Piacenza fatto il medesimo se le genti viniziane, venute prima in sul fiume di Adda, non vi fussino entrate subitamente. Alessandria e quasi tutte le terre di là da Po, essendo piú lontane a Milano e piú vicine ad Asti, città del re, non feceno mutazione, aspettando di consigliarsi piú maturamente secondo i progressi delle cose.

                                                 Recuperato che ebbe Lodovico Milano non perdé tempo alcuno a soldare quantità grande di fanti italiani e quanti piú uomini d'arme poteva avere, e a stimolare con prieghi con offerte e con varie speranze tutti quegli da' quali sperava di essere aiutato in tanta necessità. Perciò mandò a Cesare, a significare il principio prospero, il cardinale di San Severino, supplicandolo che gli mandasse genti e artiglierie; e desiderando di non avere inimico il senato viniziano, ordinò che il cardinale Ascanio mandasse subito a Vinegia il vescovo di [Cremona], a offerire la volontà pronta del fratello ad accettare qualunque condizione sapessino desiderare: ma vanamente, perché il senato deliberò non si partire dalla confederazione che aveano col re. Ricusorono i genovesi, benché pregati instantemente da Lodovico, di ritornare sotto il dominio suo; né i fiorentini vollono udire la sua richiesta della restituzione de' danari ricevuti in prestanza da lui. Solo il marchese di Mantova mandò in aiuto suo il fratello con certa quantità di gente d'arme, e vi concorsono i signori della Mirandola di Carpi e di Coreggio, e i sanesi gli mandorono piccola somma di danari; sussidi quasi disprezzabili in tanti pericoli: come similmente furno di piccolo momento quegli di Filippo Rosso e de' Vermineschi, i padri de' quali benché fussino stati spogliati da lui dell'antico dominio loro, i Rossi di San Secondo di Torchiara e di molte altre castella del parmigiano, quegli dal Verme della città di Bobio e d'altri luoghi circostanti nella montagna di Piacenza, nondimeno Filippo, partendosi senza licenza dagli stipendi veneti, andò a recuperare le terre sue, e ottenutele si uní con l'esercito di Lodovico; il medesimo feceno quei dal Verme, per ricuperare l'uno e gli altri con questa occasione la grazia sua.

                                                 Ma Lodovico, avendo raccolti oltre a' cavalli borgognoni mille cinquecento uomini d'arme e aggiunti a' svizzeri moltissimi fanti italiani, lasciato il cardinale Ascanio a Milano all'assedio del castello, passato il Tesino e ottenuta per accordo la terra e la fortezza di Vigevano, pose il campo a Novara; eletta piú tosto questa impresa che il tentare la oppugnazione di Mortara, o perché i franzesi si erano in Mortara molto fortificati o perché stimasse appartenere piú alla riputazione e alla somma della guerra l'acquisto di Novara, città celebre e molto abbondante, o perché, recuperata Novara, la penuria delle vettovaglie avesse a mettere in necessità i franzesi che erano a Mortara di abbandonarla, o per impedire che non venisse a Noara Ivo d'Allegri, ritornato di Romagna. Perché avendo, mentre che col duca Valentino andava alla impresa di Pesero, ricevuto gli avvisi del Triulzio, partitosi subitamente con tutta la cavalleria e co' svizzeri, e intesa appresso a Parma la ribellione di Milano, seguitando con grandissima velocità il cammino, e convenuto co' parmigiani e co' piacentini di non gli offendere e che non si opponessino al passare suo, giunto a Tortona, incitato da' guelfi di quella città ardenti di cupidità di vendicarsi de' ghibellini, i quali ritornati alla divozione di Lodovico gli aveano cacciati, entratovi dentro la saccheggiò tutta; lamentandosi e chiamando invano i guelfi la fede sua che, fedelissimi e servidori del re, fussino non altrimenti trattati che i perfidi inimici. Da Tortona si fermò in Alessandria, perché i svizzeri venuti seco, mossi o dal non essere pagati o da altra fraude, passorno nell'esercito del duca di Milano. Il quale, trovandosi piú potente che gli inimici, accelerava con sommo studio di battere con l'artiglierie Novara, per espugnarla innanzi che i franzesi, i quali aspettavano soccorso dal re, fussino potenti a opporsegli in sulla campagna: la quale cosa gli riuscí felicemente, perché i franzesi che erano in Novara, perduta la speranza del difendersi, convennono di dargli la città, avuta la fede da lui di potersene andare salvi con tutte le robe sue; la quale osservando costantemente, gli fece accompagnare insino a Vercelli, ancora che, per importare molto alla vittoria la uccisione di quelle genti, fusse confortato a romperla da molti, che allegavano che, se era lecito, secondo l'autorità e gli esempli d'uomini grandi, violare la fede per acquistare stato, doveva essere molto piú lecito il violarla per conservarlo. Acquistata la terra di Novara si fermò alla espugnazione della fortezza; ma si crede che se andava verso Mortara, che le genti franzesi, non essendo molto concordi il Triulzio e Ligní, si sarebbono ritirate di là dal Po.

                                                  

                                                 Lib.4, cap.14

                                                  

                                                 Solleciti preparativi del re di Francia per riprendere il ducato di Milano. Gli svizzeri al soldo di Lodovico Sforza s'accordano con quelli del re di Francia e consegnano Novara. Lodovico Sforza prigione dei francesi. Anche il card. Ascanio tradito da un parente ed amico cade prigione. Gli svizzeri occupano la terra di Bellinzona. Fine di Lodovico Sforza e giudizio dell'autore su di lui. Il card. Ascanio nella torre di Borges.

                                                  

                                                 Ma mentre che Lodovico attendeva sollecitamente a queste cose non era stata minore la diligenza e la sollecitudine del re. Il quale, come ebbe sentita la ribellione di Milano, ardente di sdegno e di vergogna, mandò subito in Italia la Tramoglia con secento lancie, mandò a soldare quantità grande di svizzeri; e perché con maggiore prestezza si provedesse alle cose necessarie, deputato il cardinale di Roano luogotenente suo di qua da' monti, lo fece incontinente passare in Asti; di modo che, espedite queste cose con maravigliosa celerità, si trovorono al principio di aprile insieme in Italia mille cinquecento lancie diecimila fanti svizzeri e semila de' sudditi del re sotto la Tramoglia il Triulzio e Ligní. Le quali genti, unite insieme a Mortara, si appressorono a Novara, confidandosi non meno nella fraude che nelle forze; perché i capitani svizzeri che erano con Lodovico, benché nella espugnazione di Novara avessino dimostrata fede e virtú, si erano, per mezzo de' capitani svizzeri che erano nell'esercito de' franzesi, convenuti occultamente con loro: della qual cosa cominciando per alcune congetture Lodovico a sospettare, sollecitava che quattrocento cavalli e ottomila fanti che si ordinavano a Milano si unissino seco. Cominciorono a tumultuare in Novara i svizzeri, istigati da' capitani, pigliando per occasione che 'l dí destinato al pagamento non si numeravano i danari per l'impotenza del duca: il quale, correndo subito al tumulto, con benignissime parole e con tali prieghi che generavano non mediocre compassione, donati ancora loro tutti i suoi argenti, gli fece stare pazienti ad aspettare che da Milano venissino i danari. Ma i capitani loro temerno che, se col duca si univano le genti che si preparavano a Milano, si impedisse il mettere a esecuzione il tradimento disegnato; e perciò l'esercito franzese, secondo l'ordine dato, messosi in arme, si accostò innanzi dí alle mura di Novara, attorniandone una gran parte, e mandati alcuni cavalli tra la città e il fiume del Tesino, per tôrre al duca e agli altri la facoltà di fuggirsi verso Milano. Il quale, sospettando ogn'ora piú del suo male, volle uscire coll'esercito di Novara per combattere con gli inimici, avendo già mandati fuora i cavalli leggieri e i borgognoni a cominciare la battaglia; alla quale cosa gli fu apertamente contradetto da' capitani de' svizzeri, allegando che senza licenza de' suoi signori non volevano venire alle mani co' parenti e co' fratelli propri e con gli altri della sua nazione: co' quali poco dipoi mescolatisi, come se fussino di uno esercito medesimo, dissono volersi partire subito per andarsene alle loro case. Né potendo il duca, né co' prieghi né con le lacrime né con infinite promesse, piegare la barbara perfidia, si raccomandò loro efficacemente che almeno conducessino lui in luogo sicuro; ma perché erano convenuti co' capitani franzesi di partirsi e non menarlo seco, negato di concedergli la sua dimanda, consentirno si mescolasse tra essi in abito di uno de' loro fanti, per stare alla fortuna, se non fusse riconosciuto, di salvarsi. La quale condizione accettata da lui per ultima necessità non fu sufficiente alla sua salute, perché, camminando essi in ordinanza per mezzo dell'esercito franzese, fu, per la diligente investigazione di coloro che erano preposti a questa cura, o insegnato dai medesimi svizzeri, riconosciuto, mentre che mescolato nello squadrone camminava a piede, vestito e armato come svizzero, e subitamente ritenuto per prigione: spettacolo sí miserabile che commosse le lagrime insino a molti degli inimici. Furono oltre a lui fatti prigioni Galeazzo da San Severino, e il Fracassa e Antonio Maria suoi fratelli, mescolati nell'abito medesimo tra' svizzeri; e i soldati italiani svaligiati e presi, parte in Novara parte fuggendo verso il Tesino; perché i franzesi, per non irritare quelle nazioni, lasciorno partire a salvamento i cavalli borgognoni e i fanti tedeschi.

                                                 Preso il duca e dissipato l'esercito, non vi essendo piú alcuno ostacolo, e piena ogni cosa di fuga e di terrore, il cardinale Ascanio, il quale avea già inviate le genti raccolte a Milano verso il campo, sentita tanta rovina, si partí subito da Milano per ridursi in luogo sicuro, seguitandolo molti della nobiltà ghibellina che, essendosi scoperti immoderatamente per Lodovico, disperavano d'ottenere venia da' franzesi. Ma essendo destinato che nelle calamità de' due fratelli si mescolasse con la mala fortuna la fraude, si fermò la notte prossima, per ricrearsi alquanto della fatica ricevuta per la celerità del camminare, a Rivolta nel piacentino, castello di Currado Lando gentiluomo di quella città, congiuntogli di parentado e di lunga amicizia; il quale, mutato l'animo con la fortuna, mandati subito a Piacenza a chiamare Carlo Orsino e Sonzino Benzone soldati de' viniziani, lo dette loro nelle mani, e insieme Ermes Sforza fratello del duca Giovan Galeazzo morto, e una parte de' gentiluomini venuti con lui; perché gli altri, con piú utile consiglio, non vi si essendo voluti fermare la notte, erano passati piú avanti. Fu condotto subitamente Ascanio prigione a Vinegia; ma il re, stimando per la sicurtà del ducato di Milano quanto era conveniente l'averlo in sua potestà, ricercò senza indugio il senato viniziano, usando eziandio, come lo vedde stare sospeso, protesti e minaccie, che gliene desse, allegando appartenersegli per essere stato preso nel paese sottoposto a sé: la quale richiesta benché paresse molto acerba e indegnissima del nome viniziano, nondimeno per fuggire il furore dell'armi sue lo consentí, e insieme di tutti i milanesi che erano stati presi con lui. Anzi, essendosi fermati nelle terre di Ghiaradadda Batista Visconte e altri nobili milanesi fuggiti da Milano per la medesima cagione, e avendo ottenuto salvocondotto di potervi stare sicuri, con espressione nominatamente de' franzesi, furono per il medesimo timore necessitati a dargli in potestà del re: tanto in questo tempo potette piú nel senato viniziano il terrore dell'armi de' franzesi che il rispetto della degnità della republica.

                                                 Ma la città di Milano, abbandonata d'ogni speranza, mandò subito imbasciadori al cardinale di Roano a supplicare venia, il quale la ricevé in grazia e perdonò in nome del re la ribellione, ma componendogli a pagare trecentomila ducati; benché il re ne rimesse poi loro la maggiore parte: e col medesimo esempio perdonò Roano all'altre città che si erano ribellate, e le compose in danari secondo la possibilità e qualità loro. Cosí finita felicemente la impresa e licenziate le genti, i fanti di quattro cantoni de' svizzeri che sono piú vicini che gli altri alla terra di Bellinzone, posta nelle montagne, nel ritornare a casa l'occuporono furtivamente. Il qual luogo il re arebbe potuto da principio riavere da loro con non molta quantità di danari; ma come spesso per sua natura perdeva, per risparmiare piccola quantità di danari, occasioni di cose grandi, ricusando di farlo, succederono poi tempi e accidenti che, molte volte, l'arebbe volentieri, pagandone grandissima quantità, ricomperato da loro: perché è passo molto importante a proibire a' svizzeri lo scendere nello stato di Milano.

                                                 Fu Lodovico Sforza condotto a Lione, dove allora era il re, e introdotto in quella città in sul mezzodí, concorrendo infinita moltitudine a vedere uno principe, poco fa di tanta grandezza e maestà e per la sua felicità invidiato da molti, ora caduto in tanta miseria; donde, non ottenuta grazia di essere, come sommamente desiderava, intromesso al cospetto del re, fu dopo due dí menato nella torre di Locces, nella quale stette circa dieci anni, e insino alla fine della vita, prigione: rinchiudendosi in una angusta carcere i pensieri e l'ambizione di colui che prima appena capivano i termini di tutta Italia. Principe certamente eccellentissimo per eloquenza per ingegno e per molti ornamenti dell'animo e della natura, e degno di ottenere nome di mansueto e di clemente, se non avesse imbrattata questa laude la infamia per la morte del nipote; ma da altra parte di ingegno vano e pieno di pensieri inquieti e ambiziosi, e disprezzatore delle sue promesse e della sua fede; e tanto presumendo del sapere di se medesimo che, ricevendo somma molestia che e' fusse celebrata la prudenza e il consiglio degli altri, si persuadesse di potere con la industria e arti sue volgere dovunque gli paresse i concetti di ciascuno.

                                                 Seguitollo non molto poi il cardinale Ascanio; il quale, ricevuto con maggiore umanità e onore, e visitato benignamente dal cardinale di Roano, fu mandato in carcere piú onorata, perché fu messo nella torre di Borges, stata prigione pochi anni innanzi del medesimo re che ora lo incarcerava: tanto è varia e miserabile la sorte umana, e tanto incerte a ognuno ne' tempi futuri le proprie condizioni.

                                             

                                                 Lib.5, cap.1

                                                  

                                                 Preoccupazioni di Massimiliano per i successi del re di Francia. Il re dà aiuti a' fiorentini per la riconquista di Pisa. Le milizie francesi ricevono Pietrasanta da' lucchesi. L'esercito francese dopo una sola azione contro Pisa tumultua e si scioglie; i pisani espugnano Librafatta. Turbamento del re di Francia per l'accaduto; i fiorentini rifiutano nuove offerte del re; peggioramento delle condizioni de' fiorentini.

                                                  

                                                 Dalla vittoria tanto piena e tanto prospera del ducato di Milano era augumentata di maniera l'ambizione e l'ardire del re di Francia che arebbe facilmente, la state medesima, assaltato il reame di Napoli se non l'avesse ritenuto il timore de' movimenti de' tedeschi. Perché se bene l'anno dinanzi avesse ottenuta la tregua da Massimiliano Cesare con inclusione dello stato di Milano, nondimeno quel re, considerando meglio quanto per la alienazione di uno feudo tale si diminuisse la maestà dello imperio, e specialmente la ignominia che ne perveniva a lui, d'avere lasciato, quasi sotto la sua protezione e sotto le speranze dategli e dopo tanti danari ricevuti da lui, spogliarne Lodovico Sforza, non avea piú voluto udire gli imbasciadori né del re di Francia né de' viniziani, come occupatori delle giurisdizioni imperiali; e acceso ultimatamente molto piú per la cattività miserabile de' due fratelli, ridestandosi nell'animo suo l'antiche emulazioni e la memoria delle ingiurie fatte in diversi tempi a sé e a' suoi predecessori da' re di Francia e dalla republica viniziana, congregava spesse diete per concitare gli elettori e gli altri príncipi tedeschi a risentirsi con l'armi di tanta ingiuria, fatta non meno alla nazione germanica, della quale era propria la degnità imperiale, che a sé: anzi dimostrava il pericolo che il re di Francia, presumendo ogni dí piú per tanta pazienza de' príncipi dello imperio, e insuperbito per tanto favore della fortuna, non indirizzasse l'animo a procurare con qualche modo indiretto che la corona imperiale ritornasse, come altre volte era stata, ne' re di Francia; alla qualcosa arebbe il consentimento del pontefice, parte per necessità, non potendo resistere alla potenza sua, parte per la cupidità che aveva della grandezza del figliuolo.

                                                 Le quali cose furono cagione che il re, incerto che fine avessino ad avere queste pratiche, differisse ad altro tempo i pensieri della guerra di Napoli: e perciò, non essendo occupate ad altra impresa le genti sue, fu contento, benché non senza molta difficoltà e dubitazione, di concedere le genti dimandate da' fiorentini per la recuperazione di Pisa e di Pietrasanta, perché in contrario faceano instanza grande i pisani, e insieme con loro i genovesi i sanesi e i lucchesi, offerendo pagare al re al presente centomila ducati in caso che Pisa Pietrasanta e Montepulciano rimanessino libere dalle molestie de' fiorentini, e aggiugnerne cinquantamila in perpetuo ciascuno anno se per l'autorità sua conseguivano i pisani le fortezze del porto di Livorno e tutto il contado di Pisa. Alle quali cose pareva che, per la cupidità de' danari, fusse inclinato non poco l'animo del re; nondimeno, come era solito di fare nelle cose gravi, rimesse al cardinale di Roano, che era a Milano, questa deliberazione: appresso al quale, oltre a' sopradetti, intercedevano per i pisani Gianiacopo da Triulzi e Gianluigi dal Fiesco, desideroso ciascuno di farsi signore di Pisa, offerendo di pagare al re, perché lo permettesse, non piccola somma di danari, e dimostrando appartenere alla sicurtà sua tenere deboli, quando n'avea l'occasione, i fiorentini e gli altri potentati d'Italia. Ma nel cardinale potette piú il rispetto della fede del re e i meriti freschi de' fiorentini, i quali aveano aiutato il re prontamente nella recuperazione del ducato di Milano, convertendo a sua richiesta le genti, le quali in tal caso erano obligati di dargli, in pagamento di danari. Però fu deliberato che a' fiorentini si dessino per la recuperazione di Pisa, e con promissione del cardinale che nel passare restituirebbono Pietrasanta e Mutrone, secento lancie pagate dal re, e a spese loro proprie cinquemila svizzeri sotto il baglí di Digiuno, e certo numero di guasconi, e tutta l'artiglieria e le munizioni necessarie a quella impresa; e vi si aggiunsono, contro alla volontà del re e de' fiorentini, secondo il costume loro, dumila altri svizzeri. Delle quali genti deputò capitano Beumonte, dimandatogli da' fiorentini, perché per essere stato pronto a restituire loro Livorno confidavano molto in lui, non considerando che nel capitano dell'esercito, se bene è necessaria la fede è necessaria l'autorità e la perizia delle cose belliche: benché il re, con piú sano e piú utile consiglio, avesse destinato Allegri, capitano molto piú perito nella guerra, e al quale, per essere di sangue piú nobile e di maggiore riputazione, sarebbe stata piú pronta l'ubbidienza dello esercito.

                                                 Ma si cominciorono prestamente a scoprire le molestie e le difficoltà che accompagnavano gli aiuti de' franzesi: perché, essendo cominciato a correre il pagamento de' fanti il primo dí di maggio, dimororno tutto il mese in Lombardia per gli interessi propri del re, desideroso, con l'occasione del transito di questo esercito, di trarre danari dal marchese di Mantova e da' signori di Carpi, di Coreggio e della Mirandola, per pena degli aiuti dati a Lodovico Sforza; in modo che i fiorentini, cominciati a insospettire di questo indugio, e parendo oltre a ciò darsi a' pisani troppo tempo di ripararsi e provedersi, ebbono inclinazione di abbandonare la impresa. Pure, pretermettendo malvolentieri tale occasione, data la seconda paga, attendevano a sollecitare il farsi innanzi. Finalmente, essendosi signori di Carpi, della Mirandola e di Coreggio, intercedendo per loro il duca di Ferrara, composti di pagare ventimila ducati, né potendo perdere tempo a sforzare il marchese di Mantova, il quale da una parte si fortificava, da altra, allegando la impotenza di pagare danari, mandati imbasciadori al re, lo supplicava della venia, andorno a campo a Montechierucoli, castello de' Torelli in parmigiano, i quali aveano aiutato Lodovico Sforza; non tanto mossi dal desiderio di punire loro quanto per minacciare, con lo approssimarsi a Bologna, Giovanni Bentivogli, per i favori similmente prestati a Lodovico Sforza: il quale, per fuggire il pericolo, compose di pagare quarantamila ducati; e il re l'accettò di nuovo nella sua protezione insieme con la città di Bologna, ma con espressa limitazione di non pregiudicare alle ragioni che vi aveva la Chiesa. Accordata Bologna e preso per forza Montechierucoli, tornorno le genti indietro a passare l'Apennino per la via di Pontriemoli; ed entrati in Lunigiana, avendo piú rispetto agli appetiti e comodi loro che all'onesto, tolseno, a instanza de' Fregosi, ad Alberigo Malaspina raccomandato de' fiorentini il castello di Massa e l'altre terre sue. E passati piú innanzi, i lucchesi (benché reclamando la plebe, ne fussino tra se stessi in gravi tumulti) consegnorono a Beumonte Pietrasanta, in nome del re; il quale, lasciata guardia nella fortezza, non rimosse della terra gli ufficiali loro, perché il cardinale di Roano, disprezzando in questo le promesse fatte a' fiorentini, ricevuta da' lucchesi certa quantità di danari, gli avea accettati nella protezione del re, convenendo che il re tenesse Pietrasanta in diposito insino a tanto che 'l re avesse dichiarato a chi di ragione si appartenesse.

                                                 Ma in questo tempo i pisani, ostinati a difendersi, avevano avuto da Vitellozzo, col quale erano per l'inimicizia comune co' fiorentini in grandissima congiunzione, alcuni ingegneri per indirizzare le loro fortificazioni; alle quali lavoravano popolarmente gli uomini e le donne. E nondimeno, non pretermettendo di intrattenere con le solite arti i franzesi, avevano nel consiglio di tutto il popolo sottomessa la città al re; della quale dedizione mandorono instrumenti publici non solo a Beumonte ma eziandio a Filippo di Ravesten, governatore regio in Genova, che temerariamente l'accettò in nome del re. E avendo Beumonte mandato in Pisa uno araldo a dimandare la terra, gli risposono non avere maggiore desiderio che vivere sudditi del re di Francia, e però essere paratissimi a darsegli, pure che promettesse di non gli mettere sotto il dominio de' fiorentini; sforzandosi, e con le lagrime delle donne e con ogni arte, di fare impressione all'araldo di essere osservantissimi e divotissimi della corona di Francia dalla quale aveano ricevuta la libertà. Ma Beumonte, avendo esclusi gli imbasciadori pisani mandati a lui con la medesima offerta, pose il penultimo dí di giugno il campo a quella città, tra la porta alle Piagge e la porta Calcesana, dirimpetto al cantone detto il Barbagianni; e avendo la notte medesima battuto con grande impeto, e continuato di battere insino alla maggiore parte del dí seguente, gittorono in terra, per la bontà dell'artiglieria loro, circa sessanta braccia della muraglia. E come ebbono cessato di tirare, corsono subito i fanti e i cavalli, mescolati senza ordine o disciplina alcuna, per dare la battaglia; non avendo pensato in che modo avessino a superare uno fosso profondo, fatto da' pisani tra il muro battuto e il riparo che era lavorato di dentro; di maniera che, come lo scopersono, spaventati dalla sua larghezza e profondità, consumorono il resto del dí piú presto spettatori della difficoltà che assaltatori. Dopo il quale dí diminuí sempre la speranza della vittoria: parte perché avevano i franzesi, per la qualità de' ripari e per l'ostinazione de' difensori perduto l'ardire; parte perché, per le arti usate, si era ridesta l'antica inclinazione avuta da quella nazione a' pisani, in modo che, cominciando a parlare e a dimesticarsi con quegli di dentro, che continuavano la medesima offerta di darsi al re, pure che non ritornassino sotto il giogo de' fiorentini, ed entrando sicuramente molti di loro in Pisa e uscendone come di terra d'amici, difendevano per tutto il campo e appresso a' capitani la causa de' pisani; confortandogli similmente molti di loro a difendersi. E a questo, oltre a' franzesi, detteno animo assai Francesco da Triulzi luogotenente della compagnia di Gianiacopo e Galeazzo Palavicino che con la compagnia sua era nel campo franzese. Con l'occasione de' quali disordini entrò in Pisa, dalla parte di verso il mare, permettendolo quegli di fuori, Tarlatino da Città di Castello insieme con alcuni soldati esperimentati alla guerra, mandato da Vitellozzo in aiuto de' pisani; uomo allora non conosciuto ma che dipoi, fatto capitano da loro, perseverò insino all'ultimo con non piccola lode nella difesa di quella città. A queste inclinazioni, comuni cosí a' fanti come a' cavalli, succederono molti disordini, perché, desiderando di avere occasione di levarsi dalla impresa, cominciorono a saccheggiare le vettovaglie che si conducevano al campo; a' quali disordini non bastando a provedere l'autorità del capitano, moltiplicorno ogni dí tanto che finalmente i fanti guasconi tumultuosamente si partirno dall'esercito; l'esempio de' quali seguitorno tutti gli altri. E nel partirsi, alcuni fanti tedeschi, venuti per ordine del re da Roma, feciono prigione Luca degli Albizi commissario fiorentino, con allegare che altra volta, stati in servigio de' fiorentini a Livorno, non erano stati pagati. Partironsi subito i svizzeri e gli altri fanti, ma le genti d'arme si fermorono propinque a Pisa, dove soprastate pochi dí, non aspettato di intendere la volontà del re, se ne tornorono in Lombardia: lasciato in grave disordine le cose de' fiorentini, perché, per potere supplire al pagamento de' svizzeri e de' guasconi, avevano licenziato tutti i loro fanti. La quale occasione conoscendo i pisani andorono a campo a Librafatta, la quale facilmente espugnorno, non meno per l'imprudenza degli inimici che per le forze proprie; perché dandovi la battaglia, ed essendo concorsi dove si combatteva tutti i fanti che vi erano dentro, alcuni di quelli di fuora salirno con le scale nel piú alto luogo della fortezza che non era guardata, da che spaventati i fanti si arrenderono; e dipoi subitamente accampatisi al bastione della Ventura, mentre vi davano la battaglia, i fanti, o per viltà o per fraude di San Brandano conestabile de' fiorentini, di nazione lucchese, che vi era dentro, s'arrenderono. L'acquisto de' quali luoghi fu molto utile a' pisani, perché rimasono allargati e liberi dalla parte di verso Lucca.

                                                 Turbò questo successo delle cose di Pisa piú che non sarebbe credibile l'animo del re, conoscendo quanto ne rimanesse diminuita la riputazione del suo esercito, né potendo tollerare che all'armi de' franzesi, che avevano con tanto spavento d'ognuno corso per tutta Italia, avesse fatto resistenza una città sola, non difesa da altri che dal popolo proprio e ove non era alcuno capitano di guerra famoso; e come spesso fanno gli uomini nelle cose che sono loro moleste, si ingegnava, ingannando se stesso, di credere che il non avere i fiorentini fatte le debite provisioni di vettovaglie di guastatori e di munizioni, come affermavano i suoi per scarico proprio, fusse stato causa che e' non avessino ottenuta la vittoria, e che all'esercito fusse mancata ogn'altra cosa che la virtú: lamentandosi oltre a ciò che dall'avergli fatto instanza imprudentemente i fiorentini che mandasse le genti piú tosto sotto Beumonte che sotto Allegri erano proceduti molti disordini. E da altra parte, desiderando di recuperare l'estimazione perduta, mandò Corcú suo cameriere a Firenze non tanto per informarsi se le cose referite da' capitani erano vere quanto per ricercare i fiorentini che, non perdendo la speranza d'avere per l'avvenire migliore successo, consentissino che le sue genti d'arme ritornassino ad alloggiare nel contado di Pisa, per tenere la vernata seguente infestata continuamente quella città, e con intenzione, come apparisse la primavera, di ritornare con esercito giusto e meglio ordinato di capitani e di ubbidienza a oppugnarla; la quale offerta fu rifiutata da' fiorentini, disperati di potere coll'armi de' franzesi ottenere migliori effetti; onde diventorno continuamente peggiori le condizioni loro, perché, divulgandosi il re essere alienato da essi, cominciorno i genovesi i sanesi e i lucchesi a sovvenire i pisani scopertamente con genti e con danari e a pigliare animo qualunque desiderava di offendergli. Onde crescevano eziandio in Firenze le divisioni de' cittadini, in modo che non solo non erano bastanti a ricuperare le cose perdute ma né anche provedevano a' disordini del loro dominio; perché essendosi levate in arme in Pistoia le parti Panciatica e Cancelliera, e procedendo tra loro nella città e nel contado a grandissimi incendi e uccisioni, quasi a modo di guerra ordinata e con aiuti forestieri, non vi facevano alcuna provisione, con ignominia grande della republica.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.2

                                                  

                                                 Accordi fra il pontefice ed il re di Francia; progressi del Valentino in Romagna. Insuccesso del Valentino contro Faenza per l'eroica resistenza del popolo. Il giubileo del 1500 e gli aiuti di danaro del pontefice al Valentino.

                                                  

                                                 Procedeano in questo tempo prosperamente le cose di Cesare Borgia: perché se bene il re, mal sodisfatto del pontefice per non l'avere aiutato nella ricuperazione del ducato di Milano, avesse tardato a dargli aiuto a proseguire la impresa cominciata contro a' vicari di Romagna, nondimeno lo indusse finalmente in altra sentenza il desiderio di conservarsi benevolo il pontefice per il timore che avea de' movimenti di Germania, non trovando mezzo alcuno di concordia con Cesare, e molto piú l'autorità del cardinale di Roano per la cupidità di ottenere la legazione del regno di Francia. Promesse adunque il pontefice al re di aiutarlo, con le genti e con la persona del figliuolo, quando volesse fare l'impresa del regno di Napoli, e concedette al cardinale di Roano per [diciotto] mesi la legazione del regno di Francia; concessione che, per essere cosa nuova, e perché divertiva ancora che non vi fusse compresa la Brettagna, molte faccende e molti guadagni dalla corte di Roma, fu riputata cosa molto grande: e da altra parte il re mandò in aiuto suo, sotto Allegri, trecento lancie e dumila fanti, significando a ciascuno che riputerebbe per propria ingiuria se alcuno si opponesse alla impresa del pontefice. Con la quale reputazione, e con le forze proprie che erano settecento uomini d'arme e seimila fanti, entrato il Valentino in Romagna, prese senza resistenza alcuna le città di Pesero e di Rimini, fuggendosene i suoi signori; e dipoi si voltò verso Faenza, non difesa da altri che dal popolo medesimo: perché non solo Giovanni Bentivogli, avolo materno di Astore piccolo fanciullo, si asteneva, per non irritare l'armi del pontefice e del figliuolo e per il comandamento avuto dal re, dal porgergli aiuto, e i fiorentini e il duca di Ferrara per le medesime cagioni facevano il medesimo, ma ancora i viniziani, obligati alla sua difesa, gli intimorono, perché cosí furono ricercati dal re, di avere rinunziato alla protezione che avevano di lui, come similmente aveano fatto prima per la medesima cagione a Pandolfo Malatesta signore di Rimini; anzi, per maggiore dimostrazione di essere favorevoli alle cose del pontefice, creorono in questo tempo medesimo il duca Valentino loro gentiluomo, dimostrazione solita farsi da quella republica o per recognizione di benefici ricevuti o per segno di stretta benivolenza.

                                                 Aveva il Valentino condotto a' soldi suoi Dionigi di Naldo da Bersighella, uomo di seguito grande in Valdilamona, per opera del quale occupò senza difficoltà la terra di Bersighella e quasi tutta la valle; e avendo espugnata la rocca vecchia conseguí la nuova per accordo dal castellano, e sperò, per trattato tenuto dal medesimo Dionigi col castellano di Faenza, uomo della valle medesima e che lungamente avea governato lo stato di Astore, entrare nella rocca di quella città; ma venuto il trattato a luce, fu fatto prigione da' faventini. I quali, né sbigottiti per essere abbandonati da ciascuno né per la perdita molto importante della valle, avevano deliberato di correre ogni pericolo per conservarsi nella soggezione della famiglia de' Manfredi, dalla quale erano stati moltissimi anni signoreggiati; e però avevano atteso con grandissima sollecitudine alla fortificazione della terra. Dalla quale disposizione il Valentino non potendo rimuovergli né con promesse né con minaccie, si accampò alle mura della città tra i fiumi di Lamone e di Marzano, e piantò l'artiglierie a quella parte che è verso Furlí, la quale, benché circondata di mura, volgarmente si chiama il borgo, ove i faventini avevano fatto uno gagliardo bastione; e battuto che ebbe a sufficienza, massime al portone che è tra 'l borgo e la terra, dette il quinto dí la battaglia, dalla quale difendendosi valorosamente ridusse i suoi agli alloggiamenti con molto danno, tra' quali restò morto Onorio Savello. Né erano quieti gli altri dí, essendo infestato continuamente l'esercito dalle artiglierie di dentro, e perché gli uomini della terra, se bene non aveano se non piccolissimo numero di soldati forestieri, uscivano spesso ferocemente a scaramucciare. Ma sopra tutte l'altre cose, ancora che non fusse finito il mese di novembre, se gli opponeva l'acerbità del tempo, asprissimo sopra quella stagione, perché erano nevi grandissime e freddi intollerabili, per i quali si impedivano quasi del tutto le fatiche militari e l'alloggiare sotto 'l cielo scoperto; avendo i faventini, innanzi che 'l campo si accostasse alle mura, abbruciate tutte le case e tagliati tutti gli alberi propinqui alla città. Dalle quali difficoltà necessitato il Valentino, levato il campo il decimo dí, distribuí le genti alle stanze per le terre vicine: pieno di sommo dolore che, avendo, oltre alle forze franzesi, uno esercito molto fiorito di capitani e soldati italiani, perché vi erano Pagolo e Giulio Orsini, Vitellozzo, e Giampagolo Baglioni, con molti uomini eletti, e avendosi promesso, co' suoi concetti smisurati, che né mari né monti gli avessino a resistere, gli fusse oscurata la fama de' princípi della sua milizia da uno popolo vivuto in lunga pace, e che in quel tempo non aveva altro capo che un fanciullo; giurando efficacemente e con molti sospiri che, come prima la stagione lo comportasse, tornerebbe alla medesima impresa, con animo deliberato di riportarne o la vittoria o la morte.

                                                 Nel qual tempo Alessandro suo padre, acciocché tutte le opere proprie corrispondessino a uno medesimo fine, avendo questo anno medesimo creati, con grandissima infamia, dodici cardinali non de' piú benemeriti ma di quegli che gli offersono prezzo maggiore, per non pretermettere specie alcuna di guadagno, spargeva per tutta Italia e per le provincie forestiere il giubileo, celebrato in Roma con concorso grande, massimamente delle nazioni oltramontane; dando facoltà di conseguirlo a ciascuno che, non andato a Roma, porgesse qualche quantità di danari: i quali tutti, insieme con gli altri che in qualunque modo poteva cavare de' tesori spirituali e del dominio temporale della Chiesa, somministrava al Valentino. Il quale, fermatosi a Furlí, preparava le cose necessarie all'oppugnazione per l'anno futuro: né con minore prontezza attendevano i faventini alla fortificazione della città.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.3

                                                  

                                                 Tregua tra Massimiliano e il re di Francia. Il re di Francia ed il re di Spagna si accordano segretamente per la conquista e la spartizione del reame di Napoli. Il re di Francia comincia scopertamente i preparativi per l'impresa.

                                                  

                                                 Queste cose si feciono l'anno mille cinquecento. Ma molto piú importanti cose si ordinavano per l'anno mille cinquecent'uno dal re di Francia: alle quali per essere piú espedito aveva sempre procurato di fare concordia col re de' romani, per la quale oltre a ottenere da lui l'investitura del ducato di Milano gli fusse lecito assaltare il regno di Napoli; usando in questo il mezzo dell'arciduca suo figliuolo, inclinato alla pace perché i popoli suoi, per non interrompere il commercio delle mercatanzie, malvolentieri guerreggiavano co' franzesi, e perché il re che non aveva figliuoli maschi proponeva di dare Claudia sua figliuola per moglie a Carlo figliuolo dell'arciduca, e per dota, quando fussino di età abile a consumare il matrimonio, perché l'uno e l'altro erano minori di tre anni, il ducato di Milano. Per la cui intercessione, non si potendo cosí prestamente risolvere molte difficoltà che intervenivano nella pratica della pace, ottenne, nel principio dell'anno mille cinquecent'uno, tregua per molti mesi da Massimiliano, dandogli per ottenerla certa quantità di danari. Nella quale non fu fatta menzione alcuna del re di Napoli; con tutto che Massimiliano, avendo ricevuto da lui quarantamila ducati, e obligazione di pagargli, accadendo il bisogno, quindicimila ducati ogni mese, gli avesse promesso di non fare accordo alcuno senza includervelo, e di rompere la guerra, se fusse necessario il fare diversione, nello stato di Milano. Perciò rimanendo il re di Francia sicuro per allora de' movimenti di Germania, e sperando di ottenere, innanzi passasse molto tempo, per mezzo del medesimo arciduca, la investitura e la pace, voltò tutti i suoi pensieri alla impresa del regno di Napoli. Alla quale temendo non se gli opponessino i re di Spagna, e dubitando che a quelli re non si unissino, per timore della sua grandezza, i viniziani e forse il pontefice, rinnovò con loro le pratiche, cominciate a tempo del re Carlo, della divisione di quel reame, al quale Ferdinando re di Spagna pretendeva similmente avere ragione. Perché se bene Alfonso re di Aragona l'avesse acquistato per ragioni separate dalla corona di Aragona, e però come di cosa propria ne avesse disposto in Ferdinando figliuolo suo naturale, nondimeno in Giovanni suo fratello che gli succedette nel regno di Aragona, e in Ferdinando figliuolo di Giovanni, era stata insino allora querela tacita che, avendolo Alfonso conquistato con l'armi e co' danari del reame di Aragona, apparteneva legittimamente a quella corona: la quale querela aveva Ferdinando coperta con astuzia e pazienza spagnuola, non solo non pretermettendo con Ferdinando re di Napoli, e poi con gli altri che succederono di lui, gli uffici debiti tra parenti ma eziandio augumentandogli con vincolo di nuova affinità, perché a Ferdinando di Napoli dette per moglie Giovanna sua sorella e consentí poi che Giovanna figliuola di quella si maritasse a Ferdinando giovane; e nondimeno non aveva però conseguito che la cupidità sua non fusse, molto tempo prima, stata nota a' re napoletani. Concorrendo adunque in Ferdinando e nel re di Francia la medesima inclinazione, l'uno per rimuoversi gli ostacoli e le difficoltà, l'altro per acquistare parte di quello che lungamente aveva desiderato, poiché a conseguire il tutto non appariva alcuna occasione, si convenneno di assaltare in uno tempo medesimo il reame di Napoli, il quale tra loro si dividesse in questo modo: che al re di Francia toccasse la città di Napoli con tutta la Terra di Lavoro e la provincia dello Abruzzi, e a Ferdinando le provincie di Puglia e di Calavria; e che ciascuno si conquistasse da se stesso la sua parte, non essendo l'altro obligato ad aiutarlo ma solamente a non impedirlo. E sopra tutto convenneno che questa concordia si tenesse segretissima, insino a tanto che l'esercito che il re di Francia mandasse a quella impresa fusse arrivato a Roma: al qual tempo gli imbasciadori di amendue, allegando essersi fatta per beneficio della cristianità questa convenzione e per assaltare gli infedeli, unitamente ricercassino al pontefice che concedesse la investitura secondo la divisione convenuta tra loro; investendo Ferdinando sotto titolo di duca di Puglia e di Calavria e il re di Francia sotto titolo non piú di Sicilia ma di re di Ierusalem e di Napoli. Il quale titolo del regno ierosolimitano, pervenuto una volta in Federigo secondo, imperadore romano e re di Napoli, per dote della sua moglie figliuola di Giovanni re di Ierusalem, in nome ma non in effetto, era stato continuamente usato da' re seguenti; benché in uno tempo medesimo se l'avessino, per diverse ragioni, non meno cupidamente appropriato i re di Cipri della famiglia Lusignana: tanto sono avidi i príncipi di abbracciare colori da potere con apparente onestà vessare, benché spesso indebitamente, gli stati posseduti da altri. La quale capitolazione tra i due re come fu fatta, il re di Francia cominciò scopertamente a preparare l'esercito.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.4

                                                  

                                                 Dopo aver inflitte nuove e gravi perdite agli assalitori i faentini si arrendono al Valentino. Sdegno del re di Francia verso i fiorentini e intenzioni avverse a Firenze del Valentino. Accordi fra il Bentivoglio e il Valentino. Il Valentino abbandona il territorio fiorentino per unirsi alle milizie francesi in marcia verso Napoli.

                                                  

                                                 Il quale mentre che si prepara, il Valentino, che ne' primi dí dell'anno, accostatosi di notte con quantità grande di scale al borgo di Faenza e avendovi secondo si credeva intelligenza, avea invano tentato di occuparlo, non avendo piú speranza nella fraude, prese pochi dí poi Russi e l'altre terre di quel contado; e ultimatamente vi ritornò col campo nel principio della primavera, ponendosi di verso la rocca; e da quella parte battuta la muraglia, fece dare mescolatamente la battaglia dalle genti franzesi e dagli spagnuoli che erano a' soldi suoi. I quali essendosi presentati con disordine, si ritirorono senza fare frutto alcuno; ma in capo di tre dí ne fece dare un'altra con le forze di tutto il campo, della quale il primo assalto toccò a Vitellozzo e agli Orsini, che scelto il fiore de' loro soldati assaltorno con grande virtú e con grande ordine, spingendosi tanto innanzi che talvolta ebbono speranza di ottenere. Ma non era minore il valore di quegli di dentro e gagliarda la riparazione fatta da loro, in modo che trovandosi gli assaltatori avere innanzi a sé uno fosso grande, ed essendo battuti per fianco da molta artiglieria, furono costretti a ritirarsi; e vi restò morto di loro Ferrando da Farnese e molti uomini di conto, e numero grande di feriti. E nondimeno i faventini, avendo ricevuto danno non piccolo in questo assalto, cominciorono talmente a considerare come alla fine, abbandonati da ciascuno, potessino contro a tanto esercito sostenersi, e con quanto danno e male condizioni verrebbono o espugnati per forza o costretti per l'ultima necessità a darsi in potestà del vincitore, che, raffreddato tanto ardore e sottentrando la paura, si arrenderono, pochi dí poi, al Valentino; salvo l'avere e le persone, e pattuita la libertà di Astore suo signore, e che gli fusse lecito di andare dove gli paresse, rimanendogli salva l'entrata delle proprie possessioni. Le quali cose Valentino, quanto agli uomini di Faenza, osservò fedelmente: ma Astore, che era minore di diciotto anni e di forma eccellente, cedendo l'età e la innocenza alla perfidia e crudeltà del vincitore, fu, sotto specie di volere rimanesse nella sua corte, ritenuto appresso a lui, con onorevoli dimostrazioni; ma non molto tempo poi condotto a Roma, saziata prima (secondo si disse) la libidine di qualcuno, fu occultamente insieme con uno suo fratello naturale privato della vita.

                                                 Acquistato che ebbe il Valentino Faenza si mosse verso Bologna, avendo in animo non solo di occupare quella città ma di molestare dipoi i fiorentini; i quali erano in molta declinazione, essendosi allo sdegno primo del re di Francia aggiunte nuove cagioni. Conciossiaché, affaticati dalle gravi spese che aveano fatte e che continuamente erano necessitati di fare, per la guerra co' pisani e per il sospetto che aveano delle forze del pontefice e del Valentino, non pagavano al re, con tutto che ne facesse grande instanza, il residuo de' danari prestati loro dal duca di Milano, né quegli che e' pretendeva dovere avere per conto de' svizzeri mandati contro a Pisa; perché avendo i fiorentini negato di pagare loro, secondo che a Milano aveano convenuto col cardinale di Roano, una paga per ritornarsene alla patria, perché si erano partiti molti dí prima che avessino finito di servire lo stipendio ricevuto, il re, per conservarsi benevola quella nazione, l'aveva pagata del suo proprio: e gli dimandava con grande acerbità di parole, non ammettendo scusa alcuna della impotenza loro. Alle quali cose faceva piú difficile il provedere la discordia civile, nata da' disordini del governo popolare, nel quale, non essendo alcuno che avesse cura ferma delle cose, e molti de' cittadini principali sospetti, o come amici de' Medici o come desiderosi di altra forma di governo, si reggevano piú con confusione che con consiglio. Onde non facendo provisione alle dimande del re, anzi lasciate passare senza effetto le dilazioni impetrate da lui, l'aveano acceso in gravissima indegnazione; dimandando, oltre a questo, che si preparassino a dargli i danari e gli aiuti promessi per la impresa di Napoli, perché se bene, secondo le convenzioni, non si doveano se non dopo la recuperazione di Pisa, doversi in quanto a lui avere per recuperata, poiché per colpa loro era proceduto il non ottenerla: movendolo o la cupidità de' danari, de' quali era per natura molto amatore, o lo sdegno che ne' tempi conceduti loro non gli aveano pagati o l'essergli persuaso che, per i disordini del governo e per i molti amici che v'aveano i Medici, non poteva nelle occorrenze sue fare fondamento alcuno in quella città. E per condurgli con l'asprezza e con l'acerbità a quello a che non gli conduceva l'autorità usava publicamente sinistri termini allo imbasciadore che aveano appresso a lui, affermando non essere piú tenuto alla loro protezione, perché avendo essi mancato di adempiere la capitolazione fatta a Milano, poiché non gli avevano pagati a' tempi promessi i danari convenuti in quella, non era obligato a osservarla loro: per il che, essendo per istigazione del pontefice andato alla corte sua Giuliano de' Medici, a supplicarlo, in nome suo e de' fratelli, della restituzione alla patria, promettendogli quantità grandissima di danari, l'avea udito gratissimamente, trattando con esso assiduamente sopra il loro ritorno. E perciò il Valentino, preso animo da queste cose, e stimolato da Vitellozzo e dagli Orsini soldati suoi e inimicissimi de' fiorentini, quello per la ingiuria della morte del fratello questi per la congiunzione che aveano co' Medici, aveva prima mandato in aiuto de' pisani Liverotto da Fermo con cento cavalli leggieri, e dopo l'acquisto di Faenza deliberato di molestargli: con tutto che da loro il padre ed egli non avessino ricevuto offese ma piú tosto grazie e comodità; perché a richiesta loro aveano rinunziato alla protezione degli stati de' Riari, alla quale erano obligati, e consentito che allo esercito suo andassino vettovaglie, continuamente, del dominio fiorentino.

                                                 Partito adunque di Romagna con questa deliberazione, dichiarato già dal pontefice dopo l'acquisto di Faenza, con approvazione del concistorio, duca di Romagna, e ottenutane l'investitura, entrò con l'esercito nel territorio di Bologna, con grandissima speranza di occuparla. Ma il dí medesimo che alloggiò a Castel San Piero, terra posta quasi ne' confini tra Imola e Bologna, ricevé comandamento dal re di Francia di non procedere né alla occupazione di Bologna né a cacciarne Giovanni Bentivogli, perché allegava essere obligato alla protezione e della città e di lui; e quella eccezione espressa nell'accettazione della protezione, di non pregiudicare alle ragioni della Chiesa, doversi intendere di quelle ragioni e preminenze che allora vi possedeva la Chiesa, perché intendendosi indistintamente e non secondo il suono delle parole, come pretendeva il pontefice, sarebbe stata cosa vana e di niuno momento a' bolognesi e a' Bentivogli il ricevergli nella sua protezione. Però il Valentino, deposto per allora, con gravissima querela del pontefice e sua, la speranza conceputa, convenne col Bentivoglio, per mezzo di Pagolo Orsino, che gli concedesse passo e vettovaglia per il bolognese, pagassegli ogni anno novemila ducati, servisselo di certo numero di uomini d'arme e di fanti per andare in Toscana, e gli lasciasse la terra di Castel Bolognese, che, posta tra Imola e Faenza, è giurisdizione di Bologna; che da lui fu donata a Pagolo Orsini. Il quale accordo come fu fatto, il Bentivoglio, o per sospetto che avesse da sé proprio o perché, secondo che fu fama, il Valentino, per concitargli maggiore odio in quella città, gli avesse rivelato essere stato invitato ad accostarsi a Bologna dalla famiglia de' Mariscotti, famiglia potente di clientele e partigiani, e che per questo e per l'insolenza loro gli era molto sospetta, fece ammazzare quasi tutti quegli di loro che erano in Bologna; usando per ministri di questa crudeltà, insieme con Ermes suo figliuolo, molti giovani nobili, acciò che per la memoria di avere imbrattate le mani nel sangue de' Mariscotti fussino, essendo divenuti inimici di quella famiglia, costretti a desiderare la conservazione dello stato suo.

                                                 Non seguitorno piú oltre il Valentino le genti franzesi, perché aspettavano di unirsi con l'esercito regio, il quale in numero di mille lancie e di diecimila fanti andava sotto Obigní alla impresa di Napoli. Ma il Valentino si dirizzò per il bolognese verso il dominio fiorentino con settecento uomini d'arme e cinquemila fanti di gente molto eletta, e di piú con cento uomini d'arme e dumila fanti che sotto il protonotario suo figliuolo gli dette il Bentivoglio; e avendo mandato a chiedere a' fiorentini passo e vettovaglia per il loro dominio, andò innanzi non aspettata la risposta, dando agli imbasciadori che gli erano stati mandati da' fiorentini benigne parole, insino che ebbe passato lo Apennino. Ma come fu condotto a Barberino, mutata la benignità in asprezza, dimandò facessino confederazione seco, conducessinlo con quel numero di genti d'arme e con quelle condizioni che convenissino al grado suo, e che mutato il governo presente ne costituissino un altro nel quale piú potesse confidare; e pigliava animo a queste dimande non tanto per la potenza sua, non avendo seco maggiore esercito né artiglieria da battere terre, quanto per le male condizioni de' fiorentini, avendo poca gente d'arme, né altri fanti che i paesani che giornalmente comandavano, e in Firenze timore sospetto e disunione assai, per essere nel campo suo Vitellozzo e gli Orsini, e perché per ordine suo Piero de' Medici si era fermato a Logliano nel bolognese, e il popolo pieno di gelosia che i cittadini potenti non avessino procurata la sua venuta per ordinare uno governo a loro sodisfazione. Ma in Valentino non era desiderio di rimettere Piero de' Medici, perché non giudicava a suo proposito la grandezza degli Orsini e di Vitellozzo, co' quali sapeva che Piero ritornato nella patria sarebbe stato congiuntissimo. E ho, oltre a questo, udito da uomini degni di fede che nell'animo suo era fissa la memoria di uno antico sdegno conceputo contro a lui, insino quando arcivescovo di Pampalona, non promosso ancora il padre al pontificato, dava opera alle leggi canoniche nello studio pisano: perché essendo andato a Firenze per parlargli sopra uno caso criminale di uno suo familiare, poiché per piú ore ebbe aspettato invano d'avere udienza da lui, occupato o in negozi o in piaceri, si era ritornato a Pisa senza avergli parlato, riputandosi disprezzato e non mediocremente ingiuriato. E nondimeno, per compiacere a' Vitelli e agli Orsini, simulava altrimenti; e molto piú per accrescere il terrore e la disunione de' fiorentini, mediante la quale sperava o ottenere da loro migliori condizioni o potere avere occasione di occupare qualche terra importante di quel dominio. Ma presentendo già che lo insulto suo era molesto al re di Francia, condotto che fu a Campi, presso a sei miglia a Firenze, fece convenzione con loro in questa sentenza: che tra la republica fiorentina e lui fusse confederazione a difesa degli stati, essendo proibito l'aiutare i ribelli l'uno dell'altro, e nominatamente al Valentino i pisani; perdonassino i fiorentini tutti i delitti fatti per qualunque nella venuta sua, né se gli opponessino in difesa del signore di Piombino, il quale era sotto la loro protezione; conducessinlo agli stipendi loro per tre anni con trecento uomini d'arme, e con soldo di trentaseimila ducati per ciascuno anno, li quali fusse tenuto mandare in aiuto loro qualunque volta n'avessino di bisogno o per difesa propria o per offesa d'altri. Il quale accordo fatto, andò a Signa, facendo piccole giornate, e dimorando in ogni alloggiamento qualche dí e danneggiando con incendi e con prede il paese non manco che se fusse stato scoperto inimico, dimandava, secondo l'uso de' pagamenti che si fanno alle genti d'arme, la quarta parte de' danari che si dovevano in uno anno, e di essere accomodato di artiglierie per condurle contro a Piombino: una delle quali dimande ricusavano apertamente i fiorentini perché non vi erano obligati, l'altra differivano perché erano in animo di non osservare le promesse fatte per forza, e per avvisi che aveano ricevuti dallo oratore loro che era appresso al re di Francia speravano essere, con l'autorità sua, liberati da questa molestia. La quale speranza non riuscí vana, perché al re era stato grato che il Valentino gli minacciasse ma non che gli assaltasse; e o gli sarebbe stata molesta la mutazione del governo presente o, se pure avesse desiderata altra forma di reggimento in Firenze, gli sarebbe dispiaciuto fusse stato introdotto con altre forze o con altra autorità che con la sua: e però, come gli pervenne la notizia che 'l Valentino era entrato nel dominio fiorentino, gli comandò che ne uscisse subitamente, e a Obigní, che era già in Lombardia con l'esercito, che, in caso non ubbidisse, andasse con tutte le forze a farlo partire. Per il che Valentino, non avuto il quartiere, si dirizzò verso Piombino; e ordinò che i pisani, i quali per opera di Vitellozzo, mandato a Pisa da lui per condurre allo esercito artiglierie, erano andati a campo alle Ripomarancie castello de' fiorentini, se ne levassino. Entrato nel territorio di Piombino, prese Sughereto, Scarlino e l'isole dell'Elba e di Pianosa; e lasciate ne' luoghi occupati genti sufficienti a difenderli e a molestare continuamente Piombino, se ne andò con l'altre in terra di Roma, per seguitare all'impresa di Napoli l'esercito del re: del quale una parte condotta da Obigní era per la via di Castrocaro entrata in Toscana, l'altra per la Lunigiana; contenendo tutto l'esercito, quando era unito, mille lancie quattromila svizzeri e seimila altri tra fanti franzesi e guasconi, e, secondo il solito loro, provisione grande d'artiglierie. E fu cosa notabile che quella parte che venne per la Lunigiana passò amichevolmente per la città di Pisa, con grandissima letizia cosí de' franzesi come de' pisani. E nel tempo medesimo partiva di Provenza per la medesima impresa, sotto Ravesten governatore di Genova, l'armata marittima, con tre caracche genovesi e sedici altre navi e molti legni minori carichi di molti fanti.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.5

                                                  

                                                 Federigo d'Aragona si prepara alla difesa. Gli ambasciatori di Francia e di Spagna notificano al pontefice gli accordi conclusi: impressione in Italia. Federigo delibera di tentare la sorte delle armi. I francesi occupano Capua; patti fra Federigo e i francesi. Sventure della famiglia di Federigo. Federigo in Francia. Il duca di Calabria in Ispagna.

                                                  

                                                 Contro a' quali movimenti il re Federigo, non sapendo che l'armi spagnuole fussino sotto specie di amicizia preparate contro a lui, sollecitava Consalvo Ferrando, il quale con la armata de' re di Spagna era, sotto simulazione di dargli aiuto, fermatosi in Sicilia, che venisse a Gaeta; avendogli messe in mano alcune terre di Calavria, dimandate da lui per farsi piú facile l'acquisto della sua parte, ma sotto colore di volerle per sicurtà delle sue genti. E sperava Federigo, congiunto che fusse Consalvo con l'esercito suo, il quale, parte d'uomini soldati da sé parte che da' Colonnesi si soldavano a Marino, disegnava che fusse di settecento uomini d'arme seicento cavalli leggieri e seimila fanti, avere esercito potente a resistere, senza essere necessitato a rinchiudersi per le terre, a' franzesi: con tutto gli mancassino gli aiuti sperati dal principe de' turchi, al quale aveva con grandissima instanza dimandato soccorso, dimostrandogli dalla vittoria del re presente quel medesimo anzi maggiore pericolo di quello che aveva temuto dalla vittoria del re passato. E per assicurarsi dalle fraudi, essendogli accusati il principe di Bisignano e il conte di Meleto d'avere occulte pratiche col conte di Caiazzo, che era con l'esercito franzese, gli aveva fatti incarcerare. Con le quali speranze, avendo perciò prima mandato Ferdinando suo primogenito, ancora fanciullo, a Taranto, piú per sicurtà sua, se caso avverso succedesse, che per difesa di quella città, si fermò con l'esercito a San Germano; ove aspettando gli aiuti spagnuoli e le genti che gli conducevano i Colonnesi, sperava d'avere con piú felice successo a difendere l'entrata del regno che non aveva, nella venuta di Carlo, fatto Ferdinando suo nipote.

                                                 Nel quale stato delle cose era certamente Italia ripiena di incredibile sospensione, giudicandosi per ciascuno che questa impresa avesse a essere principio di gravissime calamità; perché né l'esercito preparato dal re di Francia pareva sí potente che dovesse facilmente superare le forze unite di Federigo e di Consalvo, e si giudicava che cominciando a irritarsi gli animi di re sí potenti avesse l'una parte e l'altra a continuare la guerra con maggiori forze, onde facilmente potessino sorgere per tutta Italia, per le varie inclinazioni degli altri potentati, gravi e pericolosi movimenti. Ma si dimostrorno vani questi discorsi subito che l'esercito franzese fu giunto in terra di Roma. Perché gli oratori franzesi e spagnuoli, entrati insieme nel concistorio, notificorono al pontefice e a' cardinali la lega e la divisione fatta tra' loro re, per potere attendere, come dicevano, all'espedizione contro agli inimici della religione cristiana; dimandandone la investitura secondo il tenore della convenzione che avevano fatta, che fu senza dilazione conceduta dal pontefice. E perciò, non si dubitando piú quale avesse a essere il fine di questa guerra e convertito il timore degli uomini in somma ammirazione, era molto desiderata da ciascuno la prudenza del re di Francia, che avesse piú tosto voluto che la metà di quel reame cadesse nelle mani del re di Spagna e messo in Italia, dove prima era solo arbitro delle cose, uno re emulo suo, al quale potessino ricorrere tutti gli inimici e malcontenti di lui e congiunto oltre a questo al re de' romani con interessi molto stretti, che comportare che Federigo restasse nel tutto, riconoscendolo da lui e pagandogliene tributo, come per vari mezzi aveva cercato di ottenere. Ma non era nel concetto universale meno desiderata la integrità e la fede di Ferdinando, maravigliandosi tutti gli uomini che, per cupidità di ottenere quella parte del reame, si fusse congiurato contro a uno re del sangue suo, e che per potere piú facilmente sovvertirlo l'avesse sempre pasciuto di promissioni false di aiutarlo; e oscurato lo splendore del titolo di re cattolico (il quale titolo egli e la reina Elisabetta avevano, pochi anni innanzi, conseguito dal pontefice), e quella gloria con la quale era stato esaltato insino al cielo il nome loro, di avere, non meno per zelo della religione che per proprio interesse, cacciato i mori del reame di Granata. Alle quali calunnie, date all'uno e all'altro re, non si rispondeva, in nome del re di Francia, se non che la possanza franzese era bastante a dare rimedio, quando fusse il tempo, a tutti i disordini; ma in nome di Ferdinando si diceva che se bene da Federigo gli fusse stata data giusta cagione di muoversi contro a lui, per sapere che egli molto prima aveva tenuto pratiche secrete col re di Francia in suo pregiudicio, nondimeno non averlo mosso questo ma la considerazione che, avendo quel re deliberato di fare a ogni modo la impresa del reame di Napoli, si riduceva in necessità o di difenderlo o di abbandonarlo. Pigliando la difesa, era principio di incendio sí grave che sarebbe stato molto pernicioso alla republica cristiana, e massimamente trovandosi l'armi de' turchi sí potenti contro a' viniziani per terra e per mare; abbandonandolo, conoscere che il regno suo di Sicilia restava in grave pericolo e, senza questo, risultare in danno suo notabile che il re di Francia occupasse il regno di Napoli appartenente a sé giuridicamente, e che gli poteva anche pervenire con nuove ragioni in caso mancasse la linea di Federigo. Però in queste difficoltà avere eletto la via della divisione, con speranza che per i cattivi governi de' franzesi gli potrebbe in breve tempo pervenire medesimamente la parte loro: il che quando succedesse, secondo che lo consigliasse il rispetto dell'utilità publica, alla quale sempre piú che allo interesse proprio aveva riguardato, o lo riterrebbe per sé o lo restituirebbe a Federigo; anzi piú presto a' figliuoli, perché non negava d'avere quasi in orrore il nome suo, per quello che e' sapeva che, insino innanzi che il re di Francia pigliasse il ducato di Milano, aveva trattato co' turchi.

                                                 La nuova della concordia di questi re spaventò in modo Federigo che, ancora che Consalvo, mostrando di disprezzare quello che si era publicato a Roma, gli promettesse con la medesima efficacia di andare al soccorso suo, si partí dalle prime deliberazioni; e ritirato da San Germano verso Capua, aspettava le genti che per ordine suo avevano soldate i Colonnesi: i quali, lasciata guardata Amelia e Rocca di Papa, abbandonorono tutto il resto di quello tenevano in terra di Roma, perché il pontefice, con consentimento del re di Francia, aveva mosso l'armi per occupare gli stati loro. Nelle quali difficoltà, avendo pure Consalvo, come intese l'esercito franzese avere passato Roma, scoperte le sue commissioni e mandato a Napoli sei galee per levarne le due reine vecchie, sorella l'una l'altra nipote del suo re, consigliava Prospero Colonna che Federigo ritenesse quelle galee, e unite tutte le forze sue si opponesse in sulla campagna agli inimici; perché nel tentare la fortuna poteva pure essere qualche speranza di vittoria, essendo incertissimi piú che di tutte l'altre azioni degli uomini gli eventi delle battaglie, ma in qualunque altro modo essere certissimo che e' non aveva facoltà alcuna di resistere a due potentissimi re che l'assaltavano in diverse parti del reame; nondimeno Federigo, giudicando anche di piccolissima speranza questo consiglio, deliberò di ridursi alla guardia delle terre. Però essendo, già innanzi che Obigní uscisse di Roma, ribellato San Germano e altri luoghi vicini, determinò di fare la prima difesa nella città di Capua; nella quale, con trecento uomini d'arme alcuni cavalli leggieri e tremila fanti, messe Fabrizio Colonna, e con lui Rinuccio da Marciano condotto nuovamente agli stipendi suoi. A guardia di Napoli lasciò Prospero Colonna, ed egli col resto delle genti si fermò ad Aversa.

                                                 Ma Obigní, partito di Roma, fece nel passare innanzi abbruciare Marino, Cavi e certe altre terre de' Colonnesi, sdegnato perché Fabrizio aveva fatto in Roma ammazzare i messi di alcuni baroni del regno seguaci della parte franzese, che erano andati a convenire con lui. Dirizzossi poi a Montefortino, dove si pensava che Giulio Colonna facesse resistenza; ma avendolo abbandonato con poca laude, Obigní procedendo piú oltre occupò tutte le terre circostanti alla via di Capua insino al Volturno, il quale non si potendo guadare presso a Capua, andò con lo esercito a passarlo piú alto verso la montagna: il che inteso per Federigo si ritirò in Napoli, abbandonata Aversa; la quale città, insieme con Nola e molti altri luoghi, si dette a' franzesi. Lo sforzo de' quali si ridusse totalmente intorno a Capua, dove si accamporono parte di qua parte di là dal fiume, dalla banda di sopra dove il fiume comincia a passare accanto alla terra; e avendola battuta da ogni parte gagliardamente, detteno uno assalto molto feroce, il quale benché non riuscisse prospero, anzi si ritirassino dalle mura con molto danno, nondimeno, non essendo stato senza grave pericolo di quegli di dentro, cominciorono gli animi de' capitani e de' soldati a inclinarsi all'accordo, massime vedendo sollevazione grande nel popolo della città e negli uomini del paese, ché ve ne era rifuggito grandissimo numero. Ma avendo, l'ottavo dí poi che era stato posto il campo, cominciato a parlare, da uno bastione, sopra le condizioni dello arrendersi, Fabrizio Colonna col conte di Gaiazzo, la mala guardia di quegli di dentro, come spesso è intervenuto nella speranza propinqua degli accordi, dette occasione agli inimici di entrarvi; i quali, per la cupidità di rubare e per lo sdegno del danno ricevuto quando dettono l'assalto, la saccheggiorno tutta con molta uccisione, ritenendo prigioni quelli che avanzorono alla loro crudeltà. Ma non fu minore la empietà efferatissima contro alle donne, che d'ogni qualità, eziandio le consecrate alla religione, furno miserabile preda della libidine e della avarizia de' vincitori; molte delle quali furono poi per minimo prezzo vendute a Roma: ed è fama che in Capua alcune, spaventandole manco la morte che la perdita dell'onore, si gittorno chi ne' pozzi chi nel fiume. Divulgossi, oltre all'altre sceleratezze degne di eterna infamia, che essendone rifuggite in una torre molte che avevano scampato il primo impeto, il duca Valentino, il quale con titolo di luogotenente del re seguitava l'esercito, non con altre genti che co' suoi gentiluomini e con la sua guardia, le volle vedere tutte, e consideratele diligentemente ne ritenne quaranta delle piú belle. Rimasono prigioni Fabrizio Colonna don Ugo di Cardona e tutti gli altri capitani e uomini di condizione, tra' quali Renuccio da Marciano, che il dí che si dette l'assalto era stato ferito da una freccia di balestra; ed essendo in mano d'uomini del Valentino sopravisse due dí, non senza sospetto di morte procurata. Con la perdita di Capua fu troncata ogni speranza di potere piú difendere cosa alcuna. Arrendessi senza dilazione Gaeta; ed essendo Obigní venuto con l'esercito ad Aversa, Federigo, abbandonata la città di Napoli, la quale si accordò subito con condizione di pagare sessantamila ducati a' vincitori, si ritirò in Castelnuovo; e pochi dí poi convenne con Obigní di consegnargli fra sei dí tutte le terre e le fortezze che si tenevano per lui, della parte la quale, secondo la divisione fatta, apparteneva al re di Francia, ritenendosi solamente l'isola di Ischia per sei mesi: nel quale spazio di tempo gli fusse lecito di andare in qualunque luogo gli paresse eccetto che per il regno di Napoli, e di mandare a Taranto cento uomini d'arme; potesse cavare qualunque cosa di Castelnuovo e di Castel dell'Uovo, eccetto che l'artiglierie che vi rimasono del re Carlo; fusse data venia a ciascuno delle cose fatte dappoi che Carlo acquistò Napoli, e i cardinali Colonna e di Aragona godessino l'entrate ecclesiastiche che avevano nel regno.

                                                 Ma nella rocca di Ischia certamente si veddono accumulate, con miserabile spettacolo, tutte le infelicità della progenie di Ferdinando vecchio. Perché oltre a Federigo, spogliato nuovamente di regno sí preclaro, ansio ancora piú della sorte di tanti figliuoli piccoli e del primogenito rinchiuso in Taranto che della propria, era nella rocca Beatrice sua sorella; la quale, poiché dopo la morte di Mattia famosissimo re di Ungheria, suo marito, ebbe promessa di matrimonio da Uladislao re di Boemia per indurla a dargli aiuto a conseguire quello regno, era stata da lui poiché ebbe ottenuto il desiderio suo ingratamente repudiata, e celebrato con dispensazione di Alessandro pontefice un altro matrimonio. Eravi ancora Isabella già duchessa di Milano, non meno infelice di tutti gli altri, essendo stata, quasi in uno tempo medesimo, privata del marito, dello stato e dell'unico suo figliuolo.

                                                 Né è forse da pretermettere una cosa grandissima, tanto piú rara quanto è piú raro a' tempi nostri l'amore de' figliuoli verso il padre: e questo è che essendo andato a Pozzuolo per vedere il sepolcro paterno [uno] figliuolo di Giliberto di Mompensieri, commosso da gravissimo dolore, poi che ebbe sparse infinite lacrime cadde morto in sul sepolcro medesimo.

                                                 Ma Federigo, risoluto per l'odio estremo che e' portava al re di Spagna di rifuggire piú tosto nelle braccia del re di Francia, mandò al re a dimandargli salvocondotto; e ottenutolo, lasciati tutti i suoi nella rocca d'Ischia, dove rimasono anche Prospero e Fabrizio Colonna, che pagata la taglia era stato liberato da' franzesi, e lasciata l'isola, come prima era, sotto il governo del marchese del Guasto e della contessa di Francavilla, e mandate parte delle sue genti alla difesa di Taranto, se ne andò con cinque galee sottili in Francia: consiglio certamente infelice, perché se fusse stato in luogo libero arebbe forse, nelle guerre che poi nacqueno tra i due re, avuto molte occasioni di ritornare nel suo reame. Ma eleggendo la vita piú quieta, e forse sperando questa essere la via migliore, accettò dal re il partito di rimanere in Francia, dandogli il re la ducea d'Angiò e tanta provisione che ascendeva l'anno a trentamila ducati; e comandò a quegli che aveva lasciati al governo d'Ischia che la dessino al re di Francia; i quali, recusando di ubbidire, la ritenneno lungamente, benché sotto le insegne di Federigo.

                                                 Era nel tempo medesimo passato Consalvo in Calavria; dove, benché quasi tutto il paese desiderasse piú presto il dominio de' franzesi, nondimeno, non avendo chi gli difendesse, tutte le terre lo riceverono volontariamente, eccetto Manfredonia e Taranto. Ma avuta Manfredonia e la fortezza per assedio, si ridusse col campo intorno a Taranto, dove era maggiore difficoltà; ma l'ottenne finalmente per accordo, perché il conte di Potenza, sotto la cui custodia era stato dato dal padre il piccolo duca di Calavria, e fra Lionardo napoletano cavaliere di Rodi governatore di Taranto, non vedendo speranza di potere piú difendersi, convennono di dargli la città e la rocca se in tempo di quattro mesi non fussino soccorsi: ricevuto da lui giuramento solennemente in su la ostia consegrata di lasciare libero il duca di Calavria, il quale aveva segreto ordine dal padre di andarsene, quando piú non si potesse resistere alla fortuna, a ritrovarlo in Francia. Ma né il timore di Dio né il rispetto della estimazione degli uomini potette piú che lo interesse dello stato: perché Consalvo, giudicando che in molti tempi potrebbe importare assai il non essere in potestà de' re di Spagna la sua persona, sprezzato il giuramento, non gli dette facoltà di partirsi, ma come prima potette lo mandò bene accompagnato in Ispagna; dove dal re raccolto benignamente fu tenuto appresso a lui, nelle dimostrazioni estrinseche, con onori quasi regi.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.6

                                                  

                                                 Il Valentino prende Piombino. Matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este. Il re di Francia tratta la pace con Massimiliano. Trattative del re di Francia coi governi della Toscana. Trattative fra Massimiliano e il cardinale di Roano a Trento. Morte del doge Agostino Barbarigo. Rinnovata la confederazione col re di Francia i fiorentini riprendono la guerra contro Pisa.

                                                  

                                                 Procedevano in questi tempi medesimi le cose del pontefice con la consueta prosperità: perché aveva acquistato con grandissima facilità tutto lo stato che i Colonnesi e i Savelli tenevano in terra di Roma, del quale donò una parte agli Orsini; e il Valentino, continuando la impresa sua contro a Piombino, vi mandò Vitellozzo e Giovampagolo Baglioni con nuove genti, per la venuta de' quali spaventato Jacopo da Appiano che ne era signore, lasciata guardata la fortezza e la terra, se ne andò per mare in Francia, per tentare di ottenere dal re, il quale molto prima l'aveva ricevuto nella sua protezione, che per rispetto dell'onore proprio non lo lasciasse perire. Alla qual cosa il re, non velando con artificio alcuno la infamia sua, rispose molto liberamente avere promesso al pontefice di non se gli opporre, né potersegli opporre senza fare detrimento a se medesimo. Ma in questo mezzo la terra, per opera di Pandolfo Petrucci, si arrendé al Valentino; e il medesimo fece poco dipoi la fortezza. Congiunse ancora il pontefice Lucrezia sua figliuola, stata già destinata a tre altri mariti, e allora vedova per la morte di Gismondo principe di Biselli e già figliuolo naturale di Alfonso re di Napoli, il quale era stato ammazzato dal duca Valentino, ad Alfonso primogenito d'Ercole da Esti con dota di centomila ducati in pecunia numerata e con molti donamenti di grandissimo valore. Al quale matrimonio, molto indegno della famiglia da Esti, solita a fare parentadi nobilissimi, e perché Lucrezia era spuria e coperta di molte infamie, acconsentirono Ercole e Alfonso perché il re di Francia, desideroso di sodisfare in tutte le cose al pontefice, ne fece estrema instanza; e gli mosse oltre a ciò il desiderio di assicurarsi con questo mezzo (se però contro a tanta perfidia era bastante sicurtà alcuna) dall'armi e dall'ambizione del Valentino: il quale, potente di danari e di autorità della sedia apostolica e per il favore che aveva dal re di Francia, era già formidabile a una grande parte d'Italia, conoscendosi che le sue cupidità non avevano termine e freno alcuno.

                                                 Continuava in questi tempi medesimi con grandissima sollecitudine il re di Francia di trattare la pace con Massimiliano Cesare, non solo per speranza di sollevarsi da spese e da sospetti, e ottenere da lui la investitura molto desiderata del ducato di Milano, ma eziandio per avere facoltà di offendere i viniziani; movendolo il sapere che a loro erano moleste le sue prosperità, e il persuadersi che secretamente si fussino affaticati per interrompere la pace tra Cesare e lui. Ma lo moveva piú la cupidità che, per se stesso e per gli stimoli de' milanesi, aveva di recuperare Cremona e la Ghiaradadda, cose state poco innanzi concedute loro da esso medesimo, e Brescia Bergamo e Crema, state già del ducato di Milano, e occupate da' viniziani nelle guerre che ebbeno con Filippo Maria Visconte. E per trattare piú da presso queste cose, e per fare le provisioni necessarie alla impresa di Napoli, aveva mandato molto prima a Milano il cardinale di Roano, la cui lingua e autorità era la lingua e l'autorità propria del re, il quale vi era dimorato piú mesi non avendo ancora potuto, per le spesse variazioni del re de' romani, fermare seco cosa alcuna.

                                                 Per mezzo del cardinale, trattorono i fiorentini in questo tempo di essere di nuovo ricevuti nella protezione del re, ma senza effetto, perché proponeva condizioni molto difficili; anzi dimostrando d'avere totalmente l'animo alieno da loro e pretendendo, il re, non essere piú obligato alle convenzioni fatte a Milano, fece consegnare a' lucchesi, accettati di nuovo in protezione, Pietrasanta e Mutrone, come cose per antiche ragioni appartenenti a quella città: ma ricevuti da loro, come signore di Genova, ventiquattromila ducati, perché i lucchesi possessori anticamente di Pietrasanta l'aveano, per certe necessità, impegnata per tanta quantità a' genovesi, da' quali era poi per forza d'armi pervenuta ne' fiorentini. Trattò ancora co' sanesi co' lucchesi e co' pisani di unirgli insieme per rimettere i Medici in Firenze, disegnando che il re conseguisse da ciascuno non piccola somma di danari: le quali pratiche benché si conducessino insino quasi alla stipulazione, nondimeno non ebbeno effetto perché non erano tutti pronti a pagare la quantità de' danari dimandata, e perché si conosceva essere piú facilità a valersi de' fiorentini.

                                                 Sopravenne finalmente speranza piú certa dal re de' romani, e però il cardinale andò a convenirsi [con lui] a Trento dove trattorono molte cose concernenti di stabilire il matrimonio di Claudia figliuola del re di Francia e di Carlo primogenito dello arciduca, con la concessione all'uno e l'altro di loro della investitura del ducato di Milano. Trattossi similmente di muovere guerra a' viniziani, per ricuperare ciascuno quello che pretendeva essergli occupato da loro; e di convocare uno concilio universale per riordinare le cose della Chiesa, non solo, come dicevano, nelle membra ma eziandio nel capo: e a questo simulava di consentire il re de' romani per dare speranza di conseguire il pontificato al cardinale di Roano, il quale ardentemente vi aspirava; avendone il suo re, per l'interesse della grandezza propria, non minore cupidità di lui. Acconsentivasi ancora per la parte del re di Francia, nella inclusione degli aderenti e confederati suoi, la clausula “salve le ragioni dello imperio”; per la quale si permetteva a Massimiliano il riconoscerle eziandio contro a quegli che fussino o ora nominati dal re o prima accettati sotto la sua protezione. Rimaneva solamente la difficoltà principale nella investitura, perché Cesare recusava di concederla a' figliuoli maschi, se alcuni ne nascessino, del re; e vi era qualche difficoltà sopra la restituzione de' fuorusciti del ducato di Milano, la quale dimandata instantemente da Cesare non era consentita dal re, perché erano molti e persone di seguito e di autorità: benché astretto da' prieghi del medesimo non recusasse di liberare Ascanio Sforza, e desse speranza di fare il medesimo di Lodovico Sforza, assegnandogli provisione di ventimila ducati l'anno, co' quali onestamente vivesse nel regno di Francia. Sopra le quali difficoltà non essendo interamente concordi ma con speranza di introdurre qualche forma conveniente, e perciò prolungata di nuovo la tregua, ritornò il cardinale in Francia, presupponendosi quasi per certo che le cose trattate avessino ad avere presto perfezione: la quale [speranza] si augumentò, perché non molto poi l'arciduca, dovendo andare in Ispagna per ricevere da' popoli, nella persona sua e di Giovanna sua moglie figliuola primogenita di quegli re, il giuramento, come destinati alla successione, fatto con la moglie il cammino per terra, si convenne a Bles col re di Francia; dove ricevuto con grandissimo onore rimasono insieme concordi del matrimonio de' figliuoli.

                                                 In questo anno medesimo morí Augustino Barbarico doge de' viniziani, avendo esercitato molto felicemente il suo principato, e con tale autorità che pareva che in molte cose avesse trapassato il grado de' suoi antecessori. Però, limitata con leggi nuove la potestà de' successori, fu eletto in suo luogo Leonardo Loredano; non sentendo, per la forma molto eccellente del governo loro, le cose publiche, né per la morte del principe né per la elezione del nuovo, variazione alcuna.

                                                 Erano state in questo anno medesimo, fuora dell'uso degli anni precedenti, assai quiete l'armi tra' fiorentini e i pisani; perché i fiorentini, non essendo piú sotto la protezione del re di Francia e stando in continuo sospetto del pontefice e del Valentino, avevano piú atteso a guardare le cose proprie che a offendergli; e i pisani, impotenti da se stessi a travagliargli, non potevano farlo con aiuto d'altri, perché niuno si moveva se non per sostenergli quando erano in pericolo di perdersi. Ma nell'anno mille cinquecento due ritornorono a movimenti consueti, perché i fiorentini, quasi nel principio del detto anno, convennono di nuovo col re di Francia, superate tutte le difficoltà piú per beneficio della fortuna che per benignità del re o per altre cagioni. Conciossiacosaché essendo il re de' romani entrato, dopo la partita del cardinale di Roano da lui, in nuovi disegni, e recusando di concedere al re la investitura del ducato di Milano eziandio per le figliuole femmine, aveva mandato in Italia oratori Ermes Sforza, liberato di carcere dal re di Francia per la intercessione della reina de' romani sua sorella, e il proposto di Brissina, a trattare, col pontefice e con gli altri potentati, della passata sua per pigliare la corona dello imperio: i quali, dimorati alquanti dí in Firenze, avevano ottenuto che la città gli promettesse aiuto di cento uomini d'arme e di trentamila ducati quando fusse entrato in Italia: e però il re, sospettando che i fiorentini disperati dell'amicizia sua non volgessino l'animo alle cose di Massimiliano, partendosi dalle dimande immoderate che aveva fatte, si ridusse a piú tollerabili condizioni. La somma delle quali fu: che il re, ricevendogli in protezione, fusse obligato, per tre anni prossimi, a difendergli con l'armi a spese proprie contro a ciascuno che o direttamente o indirettamente gli molestasse nello stato e dominio che in quel tempo possedevano; che i fiorentini gli pagassino ne' detti tre anni, ogn'anno la terza parte, centoventimila ducati; intendessinsi annullate tutte l'altre capitolazioni fatte tra loro e gli oblighi dependenti da quelle; che a' fiorentini fusse lecito procedere con l'armi contro a' pisani, e contro a tutti gli altri occupatori delle terre loro. Dalla quale confederazione avendo preso animo, deliberorono dare il guasto de' grani e delle biade al contado di Pisa, per ridurre i pisani a ubbidienza con la lunghezza del tempo e con la fame, poiché le espugnazioni erano state tentate infelicemente. Questo consiglio era stato il primo anno della loro ribellione proposto da qualche savio cittadino, confortando che con questi modi piú certi, benché piú lunghi, si cercasse di affliggere e consumare i pisani, con minore spesa e pericolo; perché nelle condizioni tanto perturbate d'Italia, conservandosi i danari potrebbeno aiutarsene a molte occasioni, ma cercando di sforzargli sarebbe impresa difficile per essere quella città forte di muraglie e piena di abitatori ostinati a difenderla, e perché, qualunque volta la fusse in pericolo di perdersi, tutti quegli che desideravano che la non si perdesse gli darebbeno aiuto; in modo che le spese sarebbeno grandi e la speranza piccola, anzi con pericolo evidente di suscitarsi gravi travagli: il quale consiglio, rifiutato da principio come dannoso, fu conosciuto utile dopo il corso di piú anni, ma in tempo che per ottenerne la vittoria si era già spesa quantità grande di danari e sostenuti molti pericoli. Dato il guasto, sperando che per rispetto della protezione del re nessuno si avesse a muovere, mandorno il campo a Vico Pisano: perché la terra, pochi dí innanzi, per tradimento di alcuni soldati che vi erano dentro, era stata tolta loro da' pisani, e il castellano della rocca, non aspettato il soccorso che sarebbe arrivato in poche ore, l'avea con grandissima viltà data loro. Né dubitavano ottenerne la vittoria facilmente, sapendo non essere dentro vettovaglie bastanti a sostentargli per quindici dí, e confidando di impedire che non ve ne entrasse perché, fabricati bastioni in su' monti e in piú luoghi, aveano occupati tutti i passi. E nel tempo medesimo, avendo notizia che Fracassa, il quale povero e senza soldo stava nel mantovano, andava per entrare in Pisa con pochi cavalli, in nome e con lettere, benché quasi mendicate, di Massimiliano, detteno ordine che in quel di Barga fusse assaltato nel passare: dove, benché rifuggito in una chiesa vicina nel territorio del duca di Ferrara, fu da quegli che lo seguitavano fatto prigione.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.7

                                                  

                                                 Cause di discordia e principio di guerra tra francesi e spagnuoli nel reame di Napoli. Nuove milizie inviate dal re di Francia.

                                                  

                                                 Queste cose si moveano in Toscana, non apparendo ancora quel che fuori dell'espettazione degli uomini aveano a partorire. Ma maggiori e molto piú pericolosi movimenti, e da' quali avevano a procedere importantissimi effetti, cominciavano a scoprirsi nel reame di Napoli, per le discordie che insino nell'anno precedente erano nate tra' capitani franzesi e spagnuoli: le quali ebbono origine perché, essendo nella divisione fatta tra i due re aggiudicata all'uno la Terra di Lavoro e l'Abruzzi all'altro la Puglia e la Calavria, non furono espressi bene nella divisione i confini e i limiti delle provincie, donde ciascuno cominciò a pretendere che a sé appartenesse quella parte che è detta il Capitanato; dando occasione a questa disputazione l'essere stata variata la denominazione antica delle provincie da Alfonso di Aragona primo re di Napoli di quel nome, il quale, avendo rispetto a facilitare le esazioni delle entrate, divise tutto il reame in sei provincie principali, cioè in Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Calavria, Puglia e Abruzzi; delle quali la Puglia era divisa in tre parti, cioè in Terra di Otranto, Terra di Bari e Capitanato. Il quale Capitanato essendo contiguo all'Abruzzi, e diviso dal resto della Puglia dal fiume di Lofanto già detto Aufido, pretendevano i franzesi (i quali non avendo in considerazione la denominazione moderna avevano, nel dividere, avuto rispetto alla antica) o che il Capitanato non si comprendesse sotto alcuna delle quattro provincie divise o che piú tosto fusse parte dell'Abruzzi che della Puglia; movendogli non tanto quello che in sé importasse il paese quanto perché, non possedendo il Capitanato, non apparteneva a loro parte alcuna dell'entrate della dogana delle pecore, membro importante dell'entrate del regno, e perché, essendo privato l'Abruzzi e Terra di Lavoro de' frumenti che nascono nel Capitanato, potevano ne' tempi sterili esserne facilmente quelle provincie ridotte in grandissima estremità, qualunque volta dagli spagnuoli fusse proibito loro il trarne della Puglia e della Sicilia: ma in contrario si allegava non potere il Capitanato appartenere a' franzesi, perché l'Abruzzi terminato ne' luoghi alti non si distende nelle pianure, e perché nelle differenze de' nomi e de' confini delle provincie si attende sempre all'uso presente. Sopra la quale altercazione erano stati contenti, l'anno dinanzi, di partire in parti eguali l'entrata della dogana; ma il seguente anno, non contenti alla medesima divisione, ne aveva ciascuno occupato il piú che aveva potuto. E si erano aggiunte poi nuove contenzioni, nutricate insino allora (cosí era la fama) piú per volontà de' capitani che per consentimento de' re: perché gli spagnuoli pretendevano che il Principato e Basilicata si includesse in Calavria, che si divide in due parti, Calavria citra e Calavria ultra cioè l'una di sopra l'altra di sotto, e che Val di Benevento che tenevano i franzesi fusse parte di Puglia; e però mandorono ufficiali a tenere la giustizia alla Tripalda vicina a due miglia ad Avellino, ove dimoravano gli ufficiali de' franzesi. I quali princípi di manifesta dissensione essendo molesti a' baroni principali del regno, si intromesseno tra Consalvo Ernandes e Luigi d'Ormignacca duca di Nemors viceré del re di Francia; ed essendo venuti, per opera loro, Luigi a Melfi e Consalvo a Atella, terra del principe di Melfi, dopo pratiche di qualche mese, nelle quali anche i due capitani parlorno insieme, non trovandosi tra loro forma di concordia, convennono aspettare la determinazione de' loro re, e che in questo mezzo non si innovasse cosa alcuna. Ma il viceré franzese, insuperbito perché era molto superiore di forze, avendo pochi dí poi fatta altra deliberazione, protestò la guerra a Consalvo in caso non rilasciasse subito il Capitanato, e dipoi immediate fece correre le genti sue alla Tripalda; dalla quale incursione, che fu fatta il decimonono dí del mese di giugno, ebbe principio la guerra: la quale continuamente proseguendo, cominciò senza rispetto a occupare per forza, nel Capitanato e altrove, le terre che si tenevano per gli spagnuoli. Le quali cose non solamente non furono emendate dal suo re ma, avendo già notizia che il re di Spagna era determinato a non gli cedere il Capitanato, voltato con tutto l'animo alla guerra, gli mandò in soccorso per mare dumila svizzeri, e fece condurre agli stipendi suoi i príncipi di Salerno e di Bisignano e alcuni altri de' principali baroni. Venne oltre a questo il re a Lione, per potere di luogo piú propinquo fare le provisioni necessarie all'acquisto di tutto il reame, al quale, non contento de' luoghi della differenza, già manifestamente aspirava, e con intenzione di passare, se bisognasse, in Italia.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.8

                                                  

                                                 Ribellione di Arezzo a' fiorentini. I fiorentini sospettano della complicità del pontefice e del Valentino. Il re di Francia manda aiuti ai fiorentini e fa intimazioni perché non siano offesi.

                                                  

                                                 Ma a questo fare piú prestamente lo costrinseno nuovi tumulti che sopravennono in Toscana, concitati da Vitellozzo, con saputa di Giampaolo Baglione e degli Orsini e con consiglio e autorità principalmente di Pandolfo Petrucci, desiderosi tutti che Piero de' Medici ritornasse nello stato di Firenze. Ebbe la cosa origine in questo modo: che essendo pervenuto a notizia di Guglielmo de' Pazzi, commissario fiorentino in Arezzo, che alcuni cittadini aretini si erano convenuti con Vitellozzo di fare ribellare a' fiorentini quella città, egli, non credendo che l'animo di tutti fusse corrotto e persuadendosi che la autorità del nome publico supplisse al mancamento delle forze, non aspettato di fare provisione sufficiente a opprimere i congiurati e chi gli volesse resistere, come in breve spazio di tempo poteva fare, fece subito incarcerare due de' consapevoli; per il che il popolo sollevato dagli altri congiurati, e per l'ordinario di sinistro animo contro al nome fiorentino, tumultuando ricuperò i due prigioni e fece prigione il commissario e gli altri ufficiali, e gridando per tutto Arezzo il nome della libertà si scoperse in manifesta ribellione; rimanendo sola la cittadella a divozione de' fiorentini, nella quale, nel principio del tumulto, si era rifuggito Cosimo vescovo di quella città, figliuolo del commissario. E dopo questo mandorno subitamente gli aretini a chiamare Vitellozzo, non contento che innanzi al tempo determinato da lui co' congiurati fusse succeduto questo accidente, perché non aveva ancora in ordine le provisioni disegnate per resistere alle genti de' fiorentini se, come era verisimile, fussino venute per entrare in Arezzo per la fortezza: per il quale timore, benché subito andasse ad Arezzo con la compagnia sua delle genti d'arme e con molti fanti comandati da Città di Castello, e che Giampaolo Baglioni gliene mandasse da Perugia e Pandolfo Petrucci gli porgesse segretamente qualche somma di danari, nondimeno, lasciatevi quelle genti, e dato ordine che attendessino a chiudere sollecitamente la cittadella acciocché di quella non si potesse entrare nella città, se ne ritornò a Città di Castello, sotto colore di andarvi per ritornare presto in Arezzo con maggiore provisione. Ma in Firenze, per quegli a' quali apparteneva il fare deliberazione per provedervi, non fu da principio considerato sufficientemente quanto importasse questo accidente. Perché avendo i cittadini principali, col consiglio de' quali solevano deliberarsi le cose importanti della republica, consigliato che subito le genti che erano a campo a Vico Pisano, in tal numero che movendosi con celerità non arebbeno avuto resistenza potente, si voltassino ad Arezzo, molti imperiti che risedevano ne' maggiori magistrati, vociferando questo essere caso leggiero e da potersi medicare con le forze degli altri sudditi vicini a quella città ma dimostrarsi il pericolo molto maggiore da coloro i quali, d'animo alieno dal presente governo, desideravano che Vico Pisano non si pigliasse, acciocché non si potesse quell'anno attendere alla ricuperazione di Pisa, differirono tanto il muovere delle genti che Vitellozzo, ripreso animo dalla loro tardità e già accresciuto di forze, ritornò in Arezzo; ove dopo lui andorno con altre genti Giampagolo Baglione e Fabio figliuolo di Pagolo Orsini, e il cardinale e Piero de' Medici. E avuto da Siena munizione per l'artiglieria cominciorno a battere la cittadella, nella quale, secondo l'uso di molti, piú solleciti a edificare nuove fortezze che diligenti a conservare le edificate, era mancamento di vettovaglie e dell'altre cose necessarie a difenderla; e oltre a questo la serrorono con fossi e argini dal lato di fuora, per proibire che non vi entrasse soccorso: in modo che quegli di dentro, mancando loro le cose necessarie, e sapendo che le genti de' fiorentini guidate da Ercole Bentivogli, venute finalmente a Quarata castello vicino ad Arezzo, non ardivano farsi piú innanzi, disperati di avere soccorso, per necessità si arrenderono, il quartodecimo dí dal dí della ribellione con patto che, salvi gli altri, il vescovo con otto eletti dagli aretini rimanessino prigioni, per permutargli con alcuni de' loro cittadini che erano stati incarcerati in Firenze. Disfeciono gli aretini popolarmente la cittadella; e le genti fiorentine, temendo che Vitellozzo e Giampagolo, già piú potenti di loro, non andassino ad assaltargli, si ritirorono a Montevarchi, lasciata facoltà agli inimici di pigliare tutte le terre circostanti. Credesi che questo assalto fusse fatto senza partecipazione del pontefice e del Valentino, a' quali sarebbe stato molesto il ritorno di Piero de' Medici in Firenze per la congiunzione sua con Vitellozzo e con gli Orsini, i quali aveano già nell'animo, ma occultamente, di opprimere; e nondimeno, avendo sempre dato loro speranza del contrario, consentirono che Vitellozzo, Giampagolo e Fabio, soldati suoi, proseguissino questa impresa: anzi non dissimulorono poi d'avere ricevuto della ribellione di Arezzo sommo piacere, sperando dalle molestie de' fiorentini potere facilmente succedere o che essi acquistassino qualche parte del dominio loro o costrignerli in beneficio proprio a qualche dura condizione. Ma a' fiorentini era difficile credere che essi non ne fussino stati autori; e però, spaventati tanto piú e confidando poco ne' rimedi che potessino fare da se medesimi, perché avevano per la mala disposizione della città poco numero di genti d'arme a' soldi loro, né era possibile provedersene tanto presto quanto sarebbe in pericolo cosí subito stato necessario, ricorsono con estrema diligenza agli aiuti del re di Francia, ricordandogli non solo quello che apparteneva all'onore suo, per essere egli obligatosi sí frescamente alla loro protezione, ma eziandio il pericolo imminente al ducato di Milano se il pontefice e il Valentino, per opera de' quali non era dubbio essere stato fatto questo movimento, riducessino in loro arbitrio le cose di Toscana. Trovarsi molto potenti in su l'armi e con esercito fiorito di capitani e di soldati eletti, e già apparire manifestamente che a saziare la loro infinita ambizione non era bastante né la Romagna né la Toscana ma essersi proposti fini vasti e smisurati; e poi che avevano offeso l'onore del re, assaltando quegli che erano sotto la sua protezione, costrignerli ora la necessità a pensare non meno alla sicurtà propria e a tôrre a lui la facoltà di vendicarsi di tanta ingiuria.

                                                 Commossono molto il re queste ragioni, già prima cominciato a infastidire della insolenza e ambizione del pontefice e del figliuolo; e, considerando essere cominciata nel regno di Napoli la guerra tra lui e i re di Spagna, interrotta la concordia trattata con Massimiliano, né potersi per molte cagioni confidare de' viniziani, cominciò a dubitare che lo insulto di Toscana non avesse, con occulto consiglio d'altri contro a sé, fini maggiori: nella quale dubitazione lo confermorono molto le lettere di Carlo di Ambuosa signore di Ciamonte, nipote del cardinale di Roano e luogotenente suo in tutto il ducato di Milano, il quale insospettito di questa novità lo confortava che al pericolo proprio sollecitamente provedesse. Però, deliberato di accelerare il passare in Italia e di non interporre tempo alcuno a sostenere le cose de' fiorentini, commesse al medesimo monsignore di Ciamonte che subito mandasse quattrocento lancie in soccorso loro: e mandò subito in poste Normandia suo araldo a comandare non solamente a Vitellozzo a Giampagolo a Pandolfo e agli Orsini ma similmente al duca Valentino, che desistessino dalle offese de' fiorentini, e del medesimo fece egli stesso grande instanza con l'oratore del pontefice, e minacciò con parole molto ingiuriose Giuliano de' Medici e gli agenti per Pandolfo e per Vitellozzo che erano nella sua corte.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.9

                                                  

                                                 Il Valentino s'impadronisce del ducato di Urbino. Vitellozzo Vitelli occupa alcune terre de' fiorentini. Timori del Baglione di Vitellozzo del Petrucci e degli Orsini per il procedere del Valentino. Vitellozzo cede Arezzo a' francesi che la consegnano ai fiorentini. Il gonfaloniere di giustizia a vita in Firenze.

                                                  

                                                 Ma in questo tempo il Valentino, che dopo il caso di Arezzo era uscito con l'esercito di Roma, simulando di volere attendere alla espugnazione di Camerino, ove aveva prima mandato a dare il guasto e a tenerlo assediato il duca di Gravina e Liverotto da Fermo con parte delle sue genti, ma in verità intento ad acquistare con insidie il ducato di Urbino, poiché ebbe raccolto il resto dello esercito ne' confini di Perugia, dimandò a Guidobaldo duca di Urbino artiglierie e aiuto di genti; il che gli fu conceduto facilmente, perché a principe che avea l'armi tanto vicine non era sicuro il negare, e perché avendo prima composte col pontefice alcune differenze de' censi non avea cagione di temerne: e cosí, rendutolo manco sufficiente a difendersi partito subito da Nocera, e camminando con tanta celerità che non che altro non dette nel cammino spazio alle sue genti di cibarsi, si condusse il dí medesimo a Cagli, città del ducato di Urbino. La quale subita sua venuta, e il trovarsi sproveduti, spaventò tanto ciascuno che il duca con Francesco Maria dalla Rovere prefetto di Roma suo nipote, avuto con difficoltà spazio di salvarsi, se ne fuggirono: di maniera che, dalla rocca di San Leo e di Maiuolo in fuora, conseguí in poche ore tutto quello stato, con grandissimo dolore e terrore di Pandolfo Petrucci di Vitellozzo e degli Orsini, i quali per il male d'altri cominciavano chiaramente a conoscere il pericolo proprio.

                                                 Acquistato il ducato di Urbino furono vari i suoi pensieri, o di volgersi a ultimare la impresa di Camerino o di assaltare scopertamente i fiorentini, alla qual cosa sarebbe stato inclinato con tutto l'animo se non l'avesse ritenuto il comandamento già avuto dal re, e l'essere certificato che 'l re, non ostante qualunque opera fatta dal pontefice perché non si opponesse a questi moti, mandava le genti d'arme in favore de' fiorentini, disposto in tutto a difendergli, e, quel che piú lo moveva, che il re passava personalmente in Italia. Nella quale ambiguità mentre che sta, fermatosi in Urbino per prendere giornalmente consiglio da quel che succedeva, si trattavano nel tempo medesimo per il pontefice e per lui varie cose co' fiorentini, sperando indurgli a qualche loro desiderio; e da altra parte permetteva che continuamente de' suoi soldati andassino nel campo di Vitellozzo. Il quale, avendo insieme ottocento cavalli e tremila fanti e, perché le cose procedessino con maggiore estimazione, chiamando l'esercito suo esercito ecclesiastico, aveva, dopo che si era arrenduta la cittadella di Arezzo, occupato il Monte a San Sovino, Castiglione Aretino e la città di Cortona, con tutte l'altre terre e castella di Valdichiana; delle quali niuna aveva aspettato l'assalto, non vedendo pronti gli aiuti de' fiorentini, e perché essendo il tempo della ricolta non volevano perdere le loro entrate, e si scusavano non per questo ribellarsi da' fiorentini, poiché nello esercito era Piero de' Medici per la restituzione del quale si publicava essere fatta questa impresa. Né è dubbio, che se dopo l'acquisto di Cortona Vitellozzo fusse sollecitamente entrato nel Casentino, che in potestà sua sarebbe stato di andare insino alle mura di Firenze, non vi essendo ancora giunte le genti de' franzesi, e dissipata la maggiore parte delle fanterie de' fiorentini perché, essendo quasi tutte delle terre perdute, se ne erano ritornate alle case loro. Ma la cupidità di acquistare per sé il Borgo a San Sepolcro, terra propinqua a Città di Castello (benché per velarla allegasse non essere sicuro lasciarsi dietro alle spalle terra alcuna degli inimici), impedí il migliore consiglio; e però si voltò ad Anghiari, la quale terra, poiché, sola in questa costanza, ebbe aspettato che vi fussino piantate l'artiglierie, impotente del tutto a difendersi, si arrendé con alcuni soldati che vi erano, senza alcuna eccezione, all'arbitrio suo. Avuto Anghiari, ottenne subito il Borgo a San Sepolcro per accordo, e dipoi ritornò verso il Casentino; e giunto alla villa di Rassina, mandò uno trombetto a dimandare la terra di Poppi, nella quale, forte di sito, erano dentro pochi soldati.

                                                 Ma la riputazione dell'armi franzesi operò quel che ancora non erano bastanti a operare le forze loro. Perché essendo già condotte presso a Firenze sotto il capitano Imbalt dugento lancie, non avendo ardire per mancamento di fanti di accostarsi agli inimici, erano andate a castel San Giovanni nel Valdarno con intenzione che in quel luogo si unissino tutte le genti; ma Vitellozzo, come ebbe intesa la mossa loro verso il Valdarno, temendo per l'assenza sua alle cose di Arezzo, si ritirò con grandissima prestezza dalla Vernia alla collina di Ciciliano presso a due miglia a Quarata, e dipoi fattosi piú innanzi tre miglia, per mostrare animo e assicurare Rondine e altri luoghi circostanti, si pose in forte alloggiamento a canto a Rondine, lasciati alcuni fanti a guardia di Gargonsa e di Civitella, che erano le porte onde le genti de' fiorentini potevano entrare nel paese. Le quali, essendo arrivate già sotto il capitano Lancre dugento altre lancie, si congregavano tra Montevarchi e Laterina, con intenzione, come avessino messo insieme tremila fanti, di andare ad alloggiarsi appresso a Vitellozzo in su qualche colle eminente; il che egli non volendo aspettare, perché né arebbe potuto dimorarvi né levarsene senza grandissimo pericolo, si ritirò alle mura di Arezzo. Ma essendo usciti i franzesi con tutto l'esercito in campagna e postisi a fronte di Quarata, si ritirò dentro in Arezzo; e ancora che sempre avesse detto di volere fare in quella città una difesa memorabile, fu necessitato, sopravenendo nuovi casi, a fare nuovi pensieri. Perché Giampaolo Baglione si era ritirato in Perugia con le sue genti, temendo per l'esempio di Urbino delle cose proprie: per il quale esempio, né meno per quello che succedette di Camerino, erano molto confusi gli animi di Vitellozzo di Pandolfo Petrucci e degli Orsini; perché il Valentino, mentre trattava accordo con Giulio da Varano signore di Camerino, conseguitò con inganni quella città, ed essendo Giulio con due figliuoli venuto in potestà sua, gli fece, con la medesima immanità che usava contro agli altri, strangolare.

                                                 Ma quel che a Vitellozzo e agli altri dava maggiore terrore era che 'l re di Francia, arrivato già in Asti, mandava Luigi della Tramoglia in Toscana con dugento lancie e con molte artiglierie; il quale già condotto a Parma aspettava quivi tremila svizzeri mandati dal re per la recuperazione d'Arezzo, a spese de' fiorentini. Perché il re, commosso maravigliosamente contro al pontefice, aveva nell'animo di spogliare Valentino della Romagna e degli altri stati i quali aveva occupati; e a questo effetto avendo chiamati a sé tutti quegli che o temevano della potenza sua o erano stati offesi da lui, affermava volervi andare in persona, dicendo publicamente con grande ardore che era impresa sí pietosa e sí santa che né piú pietosa né piú santa sarebbe la impresa contro a' turchi: disegnando oltre a questo, nel tempo medesimo, cacciare di Siena Pandolfo Petrucci, perché a Lodovico Sforza quando ritornò a Milano avea mandato danari, e dipoi sempre fatto aperta professione di aderire a Cesare. Ma il pontefice e il Valentino, conoscendo non potere resistere a sí grave tempesta, si aiutavano con le loro arti; scusando il movimento d'Arezzo essere stato fatto da Vitellozzo senza saputa loro, né essere stati di autorità bastante a ritirarlo né a fare che gli Orsini e Giampagolo Baglione, benché soldati suoi, mossi dagli interessi propri, si astenessino da dargli aiuto. Anzi, per mitigare piú l'animo del re, aveva Valentino mandato a minacciare Vitellozzo che se non abbandonava subito Arezzo e l'altre terre de' fiorentini gli andrebbe contro con le sue genti. Per le quali cose spaventato Vitellozzo, e temendo che, come accade quasi sempre, riconciliatisi tra loro i piú potenti, lo sdegno del re non si volgesse contro a sé, manco potente, chiamato in Arezzo il capitano Imbalt, invano contradicendo i fiorentini i quali volevano che le terre perdute fussino restituite loro subito liberamente, convenne: che Vitellozzo, partendosi incontinente con le sue genti, consegnasse Arezzo e tutte l'altre terre a' capitani franzesi per tenerle in nome del re, insino a tanto che il cardinale Orsino che andava al re avesse parlato con lui; e che in questo mezzo non entrasse in Arezzo altra gente che uno de' capitani franzesi con quaranta cavalli, per sicurtà del quale, e non meno della osservanza delle promesse, Vitellozzo desse a Imbalt due suoi nipoti per statichi. Ma fatto l'accordo se ne andò subito con tutte le genti e artiglierie che erano in Arezzo, lasciando libera a' franzesi la possessione di tutte le terre; le quali per commissione del re furono subito restituite a' fiorentini, verificandosi quel che, mentre si trattava la concordia, aveva, non senza derisione, alle querele loro risposto Imbalt: non sapere dove si consistesse lo ingegno tanto celebrato de' fiorentini, che non conoscessino che, per assicurarsi subito della vittoria senza difficoltà e senza spesa, e per fuggire il pericolo de' disordini i quali per la natura de' franzesi potrebbono nascere per mancamento delle vettovaglie o per altre cagioni, aveano da desiderare che Arezzo in qualunque modo venisse in mano del re; il quale non sarebbe obligato a attendere piú che gli paresse le promesse fatte da' suoi capitani a Vitellozzo.

                                                 E cosí, essendo liberati con facilità grande, benché con non piccola spesa, da sí grave e improviso assalto, dirizzorono l'animo a riordinare il governo della republica, per la confusione e per i disordini del quale essere nato tanto pericolo era per l'esperienza manifesto già insino alla moltitudine; perché per la spessa mutazione de' magistrati, e per essere il nome de' pochi sospetto al popolo, non erano né persone publiche né particolari che tenessino cura assidua delle cose. Ma perché la città quasi tutta aborriva la tirannide e alla moltitudine era sospettissima l'autorità degli ottimati, né era possibile ordinare con una medesima deliberazione la forma perfetta del governo, non si potendo convincere gli uomini incapaci solamente con le ragioni, fu deliberato di introdurre per allora di nuovo una cosa sola, cioè che il gonfaloniere della giustizia, capo della signoria e che insieme con quella si creava per tempo di due mesi, si eleggesse in futuro per tutta la vita sua, acciò che con pensieri perpetui vegghiasse e procurasse le cose publiche in modo che per essere neglette non cadessino piú in tanti pericoli. E si sperò che, con l'autorità che gli darebbe la qualità della sua persona e l'avere a stare perpetuo in tanta degnità, acquisterebbe tale fede appresso al popolo che facilmente potrebbe riordinare alla giornata l'altre parti del governo; e mettendo in qualche onesto grado i cittadini di maggiore condizione, costituirebbe uno mezzo tra se medesimo e la moltitudine, per il quale, temperandosi la imperizia e la licenza popolare e raffrenandosi chi succedesse a lui in quella degnità, se volesse arrogarsi troppo, si stabilirebbe uno reggimento prudente e onorato, con molte circostanze da tenere concorde la città. Dopo la quale deliberazione fu nel consiglio maggiore, con concorso e consenso grande de' cittadini, eletto gonfaloniere Piero Soderini, uomo di matura età di sufficienti ricchezze di stirpe nobile e di fama di essere integro e continente, e che nelle cose publiche si era molto affaticato, ed era senza figliuoli, il che, per non dare occasione a chi fusse eletto di pensare a cose maggiori, era assai considerato.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.10

                                                  

                                                 Omaggi di príncipi e di governi al re di Francia in Asti. Il re di Francia, contro l'aspettazione di tutti, riceve onorevolmente a Milano il Valentino. Vicende della guerra nel reame di Napoli. Il re delibera inopportunamente di ritornare in Francia. Sorpresa per gli accordi conclusi fra il re ed il Valentino.

                                                  

                                                 Ma, per ritornare alle cose comuni, al re di Francia come fu giunto in Asti concorsono, secondo il consueto, tutti i príncipi e tutte le città libere di Italia, chi in persona chi per imbasciadori; tra' quali il duca di Ferrara e il marchese di Mantova, benché questo né confidato né molto accetto, e Batista cardinale Orsino, andatovi contro alla volontà del pontefice per giustificare i suoi e Vitellozzo delle cose di Arezzo, e per incitare il re contro al pontefice e al Valentino; contro a' quali, atteso l'ardore dimostrato prima dal re, si aspettava con sommo desiderio di tutta Italia che l'armi franzesi si movessino. Ma l'esperienza dimostra essere verissimo che rare volte succede quel che è desiderato da molti; perché dipendendo comunemente gli effetti delle azioni umane dalla volontà di pochi, ed essendo l'intenzioni e i fini di questi quasi sempre molto diversi dall'intenzioni e da' fini de' molti, possono difficilmente succedere le cose altrimenti che secondo la intenzione di coloro che danno loro il moto. Cosí intervenne in questo caso, nel quale gli interessi e fini particolari indussono il re a deliberazione contraria al desiderio universale. Mosse il re non tanto la diligenza del pontefice, il quale non cessò mai, mandandogli spesso uomini propri, di cercare di mitigare l'animo suo, quanto il consiglio del cardinale di Roano, desideroso, come sempre era stato, di conservare l'amicizia tra il pontefice e il re; inducendolo a questo forse, oltre all'utilità del re, in qualche parte l'utilità particolare: perché e dal pontefice gli fu prorogata la legazione di Francia per diciotto mesi, e perché, attendendo sollecitamente a farsi fondamenti per ascendere al pontificato, voleva potere ottenere da lui promozione di parenti e dependenti da sé al cardinalato. E giudicava servirgli alla medesima intenzione l'avere fama di amatore e di protettore dello stato ecclesiastico.

                                                 Concorrevano le condizioni de' tempi presenti a indurre piú facilmente il re in questa sentenza. Conciossiaché e di Cesare avesse sospetto, il quale non quietando l'animo aveva mandato di nuovo a Trento molti cavalli e certo numero di fanti, e faceva offerte grandi al pontefice per essere aiutato da lui a passare in Italia per la corona dello imperio; ed era ogni suo moto in maggiore considerazione perché sapeva il re essere molesto a' viniziani che in mano sua fusse il ducato di Milano e il regno di Napoli. Aggiugnevasi l'essere in discordia co' quattro cantoni de' svizzeri che dimandavano la cessione delle ragioni di Bellinzone e che oltre a questo desse loro Vallevoltolina, Scafusa, e altre cose immoderate; minacciando altrimenti di accordarsi con Massimiliano. Le quali difficoltà faceva piú gravi l'essere allora escluso di ogni speranza di composizione col re di Spagna; perché se bene quel re gli avea proposta la restituzione del re Federico a quello reame, e perciò egli l'avesse condotto seco in Italia, e si fusse anche trattato di fare tregua per certo tempo ritenendo ciascuno quello possedeva, nondimeno l'una e l'altra pratica ebbe tante difficoltà che il re di Francia, con grandissima indegnazione, licenziò gli oratori spagnuoli dalla sua corte. Per le quali cagioni, avendogli il pontefice ultimatamente mandato Troccies cameriere suo confidatissimo, e promettendogli Valentino ed egli di aiutarlo quanto potessino nella guerra napoletana, si dispose di continuare nell'amicizia del pontefice; e però, come Troccies fu ritornato a Roma, il Valentino, in sulla relazione fatta da lui, montato secretamente in sulle poste andò al re, che era venuto a Milano: da cui, contro all'espettazione e con gravissimo dispiacere di tutti, fu ricevuto con eccessive carezze e onori. Onde, non gli essendo piú necessarie le genti che aveva in Toscana, le richiamò in Lombardia; avendo prima ricevuto nella sua protezione i sanesi e Pandolfo Petrucci, con condizione che, parte di presente parte in certi tempi, gli pagassino quarantamila ducati. ‑

                                                 Raffreddoronsi poi prestamente i movimenti di Massimiliano, in modo che al re rimaneva quasi solo il pensiero delle cose di Napoli. E queste pareva che succedessino insino allora prosperamente, e si sperava per l'avvenire maggiore prosperità, avendovi il re, subito che giunse in Italia, mandati di nuovo per mare dumila svizzeri e piú di dumila guasconi; i quali uniti col viceré, che già aveva, eccetto Manfredonia e Santo Angelo, occupato tutto il Capitanato, si accamporono a Canosa, guardata da Pietro Navarra con seicento fanti spagnuoli: il quale, poiché per molti dí si fu difeso egregiamente, commettendogli Consalvo, perché non si perdessino quegli fanti, che non aspettasse gli ultimi pericoli, arrendé la terra a' franzesi, salve le robe e le persone. Donde, non si tenendo piú né in Puglia né in Calavria né nel Capitanato terra alcuna per gli spagnuoli eccetto le sopradette, e Barletta, Dati, Andria, Galipoli, Taranto, Cosenza, Ghiarace, Seminara e poche altre vicine al mare, e trovandosi molto inferiori di gente, Consalvo si ridusse con l'esercito in Barletta, senza danari, con poca vettovaglia e carestia di munizioni; benché a questo fu alquanto sollevato per tacito consenso del senato viniziano, il quale non proibí che in Vinegia facesse comperare molti salnitri: di che querelandosi il re di Francia, rispondevano essere stato fatto senza saputa loro da mercatanti privati, e che in Vinegia, città libera, non era stato mai vietato ad alcuno che non esercitasse le sue negoziazioni e i suoi commerci.

                                                 Presa Canosa, i capitani franzesi, allegando che per molte cagioni, massime per carestia di acqua, non si poteva fermarsi con tutto l'esercito intorno a Barletta (benché, come molti affermano, contro al consiglio e i protesti di Obigní) deliberorno che le genti, le quali era fama che fussino mille dugento lancie e diecimila fanti tra italiani e oltramontani, rimanendone una parte ad assedio largo intorno a Barletta, l'altre attendessino alla recuperazione del resto del reame: cosa che, come molti hanno creduto, aggiunta alla negligenza de' franzesi, dette alle cose loro grandissimo nocumento. Dopo la quale deliberazione il viceré si insignorí di tutta la Puglia, eccetto Taranto Otranto e Galipoli; benché scorrendo insino in sulle porte di Taranto fu morto di uno colpo di artiglieria monsignore della Banda, capitano di quaranta lancie. Dopo il quale successo ritornò all'assedio di Barletta. E nel tempo medesimo Obigní, entrato in Calavria con l'altra parte dell'esercito, prese e saccheggiò la città di Cosenza, rimanendo la rocca in potere degli spagnuoli; e dipoi, essendosi uniti tutti gli spagnuoli di quella provincia con altre genti venute di Sicilia, venuto con loro alle mani gli ruppe. Queste prosperità, o sopravenute tutte o già nel corso di succedere mentre che il re era in Italia, non solo lo feceno negligente a continuare le debite provisioni, nelle quali continuando sollecitamente arebbe facilmente cacciato gli inimici di tutto il regno, ma gli rimossono ogni dubitazione di ritornarsene in Francia; tanto piú che già sperava d'ottenere, come poco dipoi ottenne, tregua lunga dal re de' romani.

                                                 Ma nella partita sua di Italia cominciò, con somma ammirazione universale, a venire a luce quel che aveva trattato col duca Valentino; il quale, ammessagli la giustificazione delle cose di Arezzo, non solo avea ricevuto in grazia ma, ricevuta promissione e fede dal pontefice e da lui di aiutarlo, quando gli fusse di bisogno, nella guerra del regno di Napoli, gli aveva all'incontro promesso di concedergli trecento lancie per aiutarlo ad acquistare, in nome della Chiesa, Bologna e opprimere Giampaolo Baglioni e Vitellozzo: movendolo a favorire cosí immoderatamente la grandezza del pontefice o perché imprudentemente si persuadesse averselo a fare con tanti benefici sinceramente amico, e, stante questa congiunzione, niuno dovere ardire di tentare contro a lui in Italia cose nuove, o perché non tanto confidasse della sua amicizia quanto temesse della inimicizia. E si aggiugneva che contro a Giampaolo, Vitellozzo e gli Orsini aveva sdegno particolare, perché tutti aveano disprezzato i comandamenti suoi di levarsi dalle offese de' fiorentini; e Vitellozzo specialmente avea recusato l'artiglierie occupate in Arezzo, e oltre a questo, avendogli dimandato salvocondotto per andare sicuramente a lui e ottenutolo, aveva poi recusato di andarvi. Né reputava il re essere inutile alle cose sue che i capitani italiani fussino oppressi: senza che, o per l'astuzia del pontefice e del Valentino o per persuasioni di altri, avea cominciato a temere che questi medesimi e gli Orsini non aderissino finalmente e seguitassino gli stipendii de' re di Spagna.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.11

                                                  

                                                 Timori di príncipi e di governi per il ritorno del Valentino in Romagna. Giustifica tali timori il contegno del re di Francia specialmente verso il Bentivoglio. Inutili rimostranze di Venezia al re. Confederazione contro il Valentino. Arti del pontefice e del Valentino per disunire i collegati. Colloquio del Valentino con Paolo Orsini. Accordi fra il Valentino e Paolo Orsini e fra il Valentino e il Bentivoglio. Le genti del Valentino prendono Sinigaglia. Vitellozzo Vitelli e Liverotto da Fermo fatti strangolare dal Valentino. Lodovico e Federico de' Pichi spogliano del potere il fratello Giovan Francesco.

                                                  

                                                 Ritornò adunque il Valentino, licenziato in Asti dal re, in Romagna, con tutto che prima avesse dato speranza, a quegli che temeano di lui, di condurlo seco per sicurtà comune in Francia. La cui ritornata commosse non solamente gli animi di coloro contro a' quali si indirizzava il suo primo impeto ma eziandio di molti altri: perché il medesimo timore avevano Pandolfo Petrucci e gli Orsini, congiunti quasi nella medesima causa con Vitellozzo e con Giampaolo Baglione; e al duca di Ferrara dava maggiore spavento la perfidia e l'ambizione sua e del padre che non dava confidenza il parentado; e i fiorentini, ancora che avessino ricuperato le terre col favore del re, stavano con molto timore trovandosi poco proveduti di gente d'arme, perché il re, non confidandosi interamente del marchese di Mantova per la dependenza che avea avuta, quando temeva le sue armi, con lo imperadore, benché a Milano l'avesse ricevuto in grazia, non aveva consentito lo conducessino per loro capitano generale; e conoscevano [per] molti segni che avessino la consueta volontà contro a di loro, e specialmente perché, per tenergli in continuo sospetto, ricettavano ne' luoghi vicini tutti i fuorusciti di Arezzo e di quell'altre terre.

                                                 Accresceva il timore di tutti questi il considerare quanto con l'armi co' danari e con l'autorità fussino potenti tali inimici, quanto in tutte le cose loro si dimostrasse propizia la fortuna, e che per tanti acquisti non si era moderata in parte alcuna la loro cupidità, anzi, come se al fuoco fussino somministrati continuamente nuovi alimenti, era diventata immoderata e infinita. Temevasi che essi, conoscendo quanto rispetto avesse loro il re di Francia, non pigliassino animo a tentare qualunque cosa, eziandio contro alla sua volontà; e già dicevano il padre e il figliuolo, palesemente, pentirsi de' troppi rispetti e dubitazioni che avevano avute nelle cose d'Arezzo, affermando che 'l re, secondo la natura de' franzesi, e i mezzi potenti che avevano nella sua corte, tollererebbe sempre le cose fatte benché gli fussino moleste. Né assicurava alcuno di questi che temevano, l'essere il re obligato alla sua protezione; perché erano freschi gli esempli che aveva permesso che sotto quella fusse spogliato il signore di Piombino, né risentitosi che il medesimo fusse accaduto al duca d'Urbino, accettatovi da lui quando mandò l'esercito a Napoli, perché dette in servigio suo cinquanta uomini d'arme. Ma piú presente e piú tremendo era l'esempio di Giovanni Bentivogli; perché, con tutto che il re avesse ne' prossimi anni comandato al Valentino che non molestasse Bologna, allegando che le obligazioni che aveva col pontefice non si intendevano se non per le preeminenze e autorità le quali, nel tempo che si confederorno insieme, vi possedeva la Chiesa, nondimeno in questo tempo, ricercandolo il Bentivoglio di aiuto per le preparazioni che si facevano contro a lui, variando la interpretazione delle parole secondo la varietà de' fini suoi, e commentando le capitolazioni fatte piú tosto come giurisconsulto che come re, rispondeva che la protezione per la quale si era obligato a difenderlo non impediva la impresa del pontefice se non per la persona e beni suoi particolari; perché, se bene le parole erano generali, vi era specificato che la si intendesse senza pregiudicio delle ragioni della Chiesa, alla quale niuno negava appartenere la città di Bologna; e perché nella confederazione che aveva fatta col pontefice, anteriore di tempo a tutte quelle che aveva fatte in Italia, si era obligato, in qualunque convenzione facesse per l'avvenire con altri, eccettuare sempre ch'elle non si intendessino in pregiudicio delle ragioni della Chiesa. Nella quale deliberazione perseverò in modo senza vergogna che, confortandolo a cosí fare il cardinale di Roano, contro al parere di tutti gli altri del suo consiglio, mandò a Bologna uno uomo proprio a intimare che, essendo quella città appartenente alla Chiesa, non poteva mancare di non favorire la impresa del pontefice, e che per virtú della sua protezione sarebbe lecito a' Bentivogli abitare privatamente in Bologna e godersi le loro sostanze.

                                                 Né solamente a tutti questi, ma insino a' viniziani, cominciava a essere sospetta tanta prosperità del duca Valentino; sdegnati eziandio che pochi mesi innanzi, dimostrando essere in piccola estimazione appresso a lui l'autorità di quel senato, aveva fatto rapire la moglie di Giovambattista Caracciolo capitano generale delle loro fanterie, la quale, andando da Urbino a congiugnersi col marito, passava per la Romagna. Però, per dare causa al re di procedere piú moderatamente a' suoi favori, dimostrando di muoversi come amici e gelosi dell'onore suo, gli ricordorono per gli oratori loro, con parole degne della gravità di tanta republica, che considerasse di quanto carico gli fusse il dare tanto favore al Valentino, e quanto poco convenisse allo splendore della casa di Francia e al cognome tanto glorioso di re cristianissimo favorire uno tiranno tale, distruttore de' popoli e delle provincie e sitibondo sí immoderatamente del sangue umano, ed esempio a tutto il mondo di orribile immanità e perfidia; dal quale, come da publico ladrone, erano stati ammazzati sí crudelmente sotto la fede tanti nobili e signori, e che non si astenendo ancora dal sangue de' fratelli e de' congiunti, ora con ferro ora con veleno, avesse incrudelito nelle età miserabili eziandio alla barbarie de' turchi. Alle quali parole il re, confermandosi forse piú nella sentenza sua per la intercessione de' viniziani, rispondeva non volere né dovere impedire il pontefice che non disponesse ad arbitrio suo delle terre che appartenevano alla Chiesa. In modo che, astenendosi gli altri per rispetto suo da opporsi all'armi del Valentino, quegli che erano già prossimi allo incendio deliberorono provedervi per loro medesimi. Però gli Orsini, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, con tutto che come soldati del Valentino, il quale simulava di volere muovere l'armi solamente contro a Bologna, avessino ricevuto di nuovo danari da lui, ritirorno le genti delle loro condotte in luoghi sicuri, con intenzione di unirsi insieme per la difesa comune. Alla qual cosa gli fece accelerare la perdita della fortezza di Santo Leo, la quale per trattato di uno del paese, proposto quivi a certa muraglia, ritornò in potestà di Guido duca di Urbino; e da questo principio, richiamandolo quasi tutti i popoli di quello stato, egli, andato da Vinegia, dove era rifuggito, per mare a Sinigaglia, ricuperò subito, dalle fortezze in fuora, tutto il ducato.

                                                 Congregornosi adunque alla Magione, in quel di Perugia, il cardinale Orsino (il quale dopo la partita del re, temendo di ritornare a Roma, si era stato a Monteritondo), Pagolo Orsino, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, e per Giovanni Bentivogli Ermes suo figliuolo, e in nome de' sanesi Antonio da Venafro ministro confidentissimo di Pandolfo Petrucci; dove, discorsi i pericoli loro sí evidenti, e l'opportunità che avevano per la ribellione dello stato d'Urbino e perché al Valentino abbandonato da loro restavano pochissime genti, feciono confederazione a difesa comune e a offesa di Valentino e a soccorso del duca d'Urbino, obligandosi a mettere tra tutti in campo settecento uomini d'arme e novemila fanti, con patto che il Bentivoglio rompesse la guerra nel territorio d'Imola, e gli altri con maggiore sforzo procedessino verso Rimini e verso Pesero. Nella quale confederazione, avendo grandissimo rispetto a non irritare l'animo del re di Francia, e sperando che forse non gli sarebbe molesto che il Valentino fusse travagliato con l'armi di altri, espressono volere essere obligati a muoversi prontamente con le persone proprie e con le genti a sua requisizione contro a ciascuno; e per la medesima cagione non ammessono in questa unione i Colonnesi, ancora che tanto inimici e perseguitati dal pontefice. Ricercorono oltre a questo il favore de' viniziani e de' fiorentini, offerendo a questi la restituzione di Pisa, la quale dicevano essere in arbitrio di Pandolfo Petrucci per la autorità che avea co' pisani; ma i viniziani stetteno sospesi aspettando di vedere prima la inclinazione del re di Francia, e i fiorentini ancora, per la medesima cagione e perché avendo l'una parte e l'altra per inimici temevano della vittoria di ciascuno.

                                                 Sopravenne questo accidente improviso al duca Valentino, in tempo che tutto attento a occupare gli stati altrui niente meno pensava che all'essere assaltati gli stati suoi. Ma non perduto per la grandezza del pericolo né l'animo né 'l consiglio, e confidando sommamente, come diceva, nella sua prospera fortuna, attese con somma industria e prudenza a' rimedi opportuni. Principalmente trovandosi quasi disarmato, mandò senza dilazione a domandare con grande instanza aiuto al re di Francia, ricordandogli quanto in ogni caso potesse valersi piú del pontefice e di lui che degli inimici suoi, e quanto poco potesse confidarsi di Vitellozzo e di Pandolfo, che era principale capo e consultore di tutti gli altri, e che prima aveva aiutato il duca di Milano contro a lui e dipoi sempre avuta dependenza dal re de' romani; e nondimeno attendeva sollecitamente a provedersi di nuove genti, non dimenticando però né 'l padre né egli l'insidie e l'arti fraudolente: perché il pontefice, ora scusando le cose palesi ora negando le dubbie, cercava con grandissima diligenza di mitigare l'animo del cardinale Orsino, per mezzo di Giulio suo fratello; e il Valentino, con varie lusinghe e promesse, si ingegnava di placare e assicurare ora l'uno ora l'altro di essi, cosí per fargli piú negligenti alle provisioni come per speranza che queste pratiche separate avessino a generare tra loro sospetto e disunione; deliberato, insino non avesse esercito potente, non si partire da Imola ma attendere a guardare l'altre terre, non dando soccorso alcuno al ducato d'Urbino. Per il che comandò a don Ugo di Cardona e don Michele uomini suoi, che erano in quegli confini con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti, che si ritirassino a Rimini: il che non eseguirono, per l'occasione che si presentò loro di ricuperare e saccheggiare la Pergola e Fossombrone, dove furono introdotti da' castellani delle fortezze. Ma l'effetto dimostrò quanto sarebbe stato piú utile seguitare la deliberazione del duca; perché andando verso Cagli scontrorono appresso a Fossombrone Pagolo e il duca di Gravina, tutti due della famiglia Orsina, co' quali erano seicento fanti di Vitellozzo, ed essendo venuti alle mani restorno rotti quegli di Valentino con morte di molti e molti prigioni; tra' quali fu morto Bartolomeo da Capranica capitano di settanta uomini d'arme, e preso don Ugo di Cardona. Rifuggissi don Michele a Fano, onde per commissione di Valentino si ritirò a Pesero, lasciata Fano, come terra piú fedele, in potestà del popolo, poi che non avea tante forze che potesse difenderle amendue. E in questi dí medesimi le genti de' bolognesi, che erano alloggiate a Castel San Piero, corseno a Doccia luogo vicino a Imola: e si riducevano certamente le cose del Valentino in molto pericolo se i collegati avessino usato piú prestezza a offenderlo.

                                                 Ma mentre che loro, o per non essere a ordine con le genti convenute nella dieta o tenuti sospesi dalle pratiche della concordia, guardano nel volto l'uno l'altro, cominciò a passare l'occasione che prima si era dimostrata favorevole; perché il re di Francia aveva commesso a Ciamonte che mandasse quattrocento lancie al Valentino, e si ingegnasse con tutti i modi possibili dare riputazione alle cose sue: il che come fu inteso da' collegati, trovandosi molto confusi, cominciò ciascuno a pensare alle cose proprie. Però il cardinale Orsino continuava le pratiche cominciate col pontefice, e Antonio da Venafro mandato da Pandolfo Petrucci andò a Imola a trattare col Valentino; col quale trattava medesimamente Giovanni Bentivogli, avendo nel tempo medesimo mandato Carlo degli Ingrati oratore al pontefice e fatte restituire le cose predate a Doccia. Le quali pratiche essendo con sommo artificio aiutate e nutrite dal Valentino, e giudicando Pagolo Orsino dovere essere mezzo opportuno a disporre gli altri, simulando di confidare molto in lui, lo chiamò a Imola: per sicurtà del quale il cardinale Borgia andò nelle terre degli Orsini. Con Pagolo usò il Valentino dolcissime parole, lamentandosi non tanto di lui e degli altri, che avendolo insino a quel dí servito con tanta fede si fussino per sospetti vani alienati sí leggiermente da sé, quanto della imprudenza propria, non avendo saputo procedere di maniera che avesse data loro causa di non ammettere queste vane dubitazioni; ma sperare che questa diffidenza, nata al tutto senza cagione, in luogo di inimicizia partorirebbe tra sé e loro perpetua e indissolubile congiunzione: perché ed essi già si dovevano accorgere che non potevano opprimerlo, poiché il re di Francia era tanto disposto a sostenere la sua grandezza, ed egli da altra parte, avendo meglio aperti gli occhi per la esperienza di questo moto, confessava ingenuamente di conoscere che dai consigli e dal valore dell'armi loro era proceduta tutta la sua felicità e riputazione. Però, desiderosissimo di ritornare nell'antica fede con loro, essere parato ad assicurargli in qualunque modo volessino, e a finire, purché con qualche sua degnità, le controversie co' bolognesi ad arbitrio loro. Aggiunse, a quello che apparteneva a tutti, dimostrazione d'avere confidenza grandissima in Pagolo, empiendolo di speranze e di promesse per sé proprio, e con tanto artificio che facilmente gli persuase tutto quello che si esprimeva per lui, efficace molto per natura nelle parole e prontissimo di ingegno.

                                                 Le quali cose mentre che si trattavano, il popolo di Camerino richiamò Giovanmaria da Varano figliuolo del signore passato, che era all'Aquila, e Vitellozzo, con grave querela sua e di Pagolo Orsino, prese la rocca di Fossombrone; ed essendo similmente perduta la fortezza d'Urbino e poi quelle di Cagli e di Agobbio, non gli rimaneva in quello stato altro che Santa Agata, oltre ad avere perduto tutto il contado di Fano. E nondimeno Pagolo, continuando la pratica cominciata, poiché piú volte per dare forma alle cose de' Bentivogli parenti suoi (era la figliuola maritata a Ermes figliuolo di Giovanni) fu andato da Imola a Bologna, convenne seco in questa sentenza, ma con condizione se la convenzione fusse approvata dal cardinale Orsino, all'autorità del quale quasi tutti gli altri si riferivano. Cancellassinsi gli odii conceputi e la memoria di tutte le ingiurie passate; confermassinsi a' collegati l'antiche condotte, con obligazione di andare come soldati del Valentino alla recuperazione del ducato di Urbino e degli altri stati ribellati, ma per sicurtà loro non fussino obligati ad andare a servirlo personalmente se non uno per volta, né il cardinale Orsino obligato a stare in corte di Roma; e che delle cose di Bologna si facesse compromesso libero nel duca Valentino nel cardinale Orsino e in Pandolfo Petrucci. Con la quale conclusione essendo andato Pagolo Orsino, fatto, ogni dí piú, capacissimo della buona intenzione di Valentino, a trovare gli altri per indurgli a ratificare, il Bentivoglio, non gli parendo né sicuro né onorevole né ragionevole che le cose sue in arbitrio d'altrui rimanessino, mandato il protonotario suo figliuolo a Imola e ricevuti uomini dal Valentino, conchiuse accordo col pontefice e con lui; al quale piú facilmente condiscesono perché comprendevano che il re di Francia, considerando meglio o la infamia o quel che importasse che la città di Bologna fusse in potestà loro, e però rimosso dalla prima deliberazione, non era piú per comportare che l'ottenessino. Le condizioni furno: lega perpetua tra il Valentino da una parte e i Bentivogli insieme con la comunità di Bologna dall'altra; avesse il Valentino da' bolognesi condotta di cento uomini d'arme per otto anni, che si convertiva in pagamento di dodicimila ducati l'anno; obligati i bolognesi a servirlo di cento uomini d'arme e di cento balestrieri a cavallo, ma solamente per uno anno prossimo; e che il re di Francia e i fiorentini promettessino l'osservanza per l'una parte e per l'altra; e che per maggiore stabilità della pace si maritasse al figliuolo di Annibale la sorella del vescovo di Enna nipote del pontefice. Né cessava perciò Valentino di sollecitare la venuta delle genti franzesi e di tremila svizzeri condotti a suo soldo, sotto specie di usarle non piú contro a' collegati ma per la ricuperazione del ducato di Urbino e di Camerino: perché i collegati si erano già risoluti a ratificare l'accordo fatto, essendo stato tirato in questa sentenza il cardinale Orsino, che era allo Spedaletto in quello di Siena, dalle persuasioni di Pagolo e confortatone molto da Pandolfo Petrucci; a che, benché dopo lunga contradizione, consentirono Vitellozzo e Giampagolo Baglione a' quali era sospettissima la fede del Valentino. Dopo la ratificazione de' quali avendo medesimamente ratificato il pontefice, il duca d'Urbino, benché dal popolo che gli prometteva volere morire per la conservazione sua fusse pregato di non partirsi, nondimeno temendo piú dell'armi militari che non confidava delle voci popolari, ritornandosene a Vinegia, dette luogo all'impeto degli inimici, avendo prima fatte rovinare tutte le fortezze di quello stato eccetto che quelle di Santo Leo e di Maiuolo; e i popoli, essendovi andato per commissione del Valentino i popoli Antonio dal Monte a Sansovino, che fu poi cardinale, con facoltà di concedere loro venia, ritornorono d'accordo sotto il suo giogo: il che fece anche la città di Camerino, perché il signore se ne fuggí nel reame di Napoli, impaurito perché Vitellozzo e gli altri, levate le genti loro del contado di Fano, si preparavano per andare come soldati di Valentino a quella impresa. Nel quale tempo il pontefice mandò il campo a Palombara, ricuperata da' Savelli insieme con Senzano e altre loro castella, nell'occasione dell'armi mosse da questi altri.

                                                 Ma il duca Valentino, volendo mettere a fine i suoi occulti pensieri, andò da Imola a Cesena; dove non quasi arrivato che le lancie franzesi, venute non molti dí prima, si partirno subitamente da lui, rivocate da Ciamonte, non per commissione del re ma o, come si affermava, per indegnazione particolare nata tra lui e il Valentino o pure perché cosí fusse stato procurato da lui, per essere manco formidabile a quegli i quali sommamente desiderava di assicurare. A Cesena attese a riordinare le genti sue, maggiori in numero che non era la fama, perché industriosamente aveva fatto poche condotte grosse ma soldato, e continuamente soldava, molte lancie spezzate e gentiluomini particolari: e nel medesimo tempo Vitellozzo e gli Orsini, andati per suo comandamento a campo a Sinigaglia, ottenneno la terra e la rocca; onde la prefettessa sorella del duca d'Urbino si fuggí, abbandonata da ciascuno, non ostante che il figliuolo pupillo fusse sotto la protezione del re di Francia, il quale si scusava di non la aiutare perché si era aderita alla lega fatta alla Magione. Presa Sinigaglia, Valentino andò a Fano; dove poi che fu soprastato qualche dí per mettere insieme tutte le genti sue, fece intendere a Vitellozzo e agli Orsini che il dí seguente voleva andare ad alloggiare in Sinigaglia, e però che allargassino fuori della terra i soldati che erano con loro, i quali alloggiavano dentro: il che subitamente eseguirono, alloggiando le fanterie ne' borghi della città e le genti d'arme distribuendo per il contado. Venne il dí ordinato Valentino a Sinigaglia, al quale si feciono incontro Pagolo Orsino e il duca di Gravina, Vitellozzo e Liverotto da Fermo, e da lui raccolti con grandissime carezze l'accompagnorono insino alla porta della città, innanzi alla quale si erano fermate tutte le genti del Valentino in ordinanza. Nel qual luogo volendo essi licenziarsi da lui, per ridursi agli alloggiamenti loro che erano di fuora, insospettiti già per vedere che avea maggiore gente di quella che credevano avesse, gli ricercò venissino dentro perché aveva di bisogno di ragionare con loro; il che non potendo ricusare, benché con l'animo già quasi indovino del futuro male, lo seguitorno nel suo alloggiamento, e con lui ritirati in una camera, dopo poche parole, perché, sotto scusa di volere pigliare altre vesti, si partí presto da loro, furono da genti che sopravenneno nella camera fatti tutti a quattro prigioni; e in uno tempo medesimo mandati a svaligiare i loro soldati. E il dí seguente, che fu l'ultimo dí di dicembre, acciò che l'anno mille cinquecento due terminasse in questa tragedia, riservando gli altri in prigione, fece strangolare in una camera Vitellozzo e Liverotto: de' quali l'uno non aveva potuto fuggire il fato di casa sua, di morire di morte violenta, come erano morti tutti gli altri suoi fratelli, in tempo che avevano già nell'armi grande esperienza e riputazione, e successivamente l'uno dopo l'altro, secondo l'ordine della età, Giovanni di uno colpo di artiglieria nel campo che Innocenzio pontefice mandò contro alla città di Osimo, Cammillo soldato de' franzesi di uno sasso intorno a Cercelle, e Pagolo decapitato in Firenze; ma di Liverotto non potette negare alcuno che non avesse fine condegno delle sceleratezze sue, essendo molto giusto che e' morisse per tradimento chi poco innanzi aveva per tradimento ammazzato crudelissimamente in Fermo, per farsi grande in quella città, Giovanni Frangiani suo zio con molti altri de' cittadini principali di quella terra, avendogli nella casa sua propria condotti a uno convito.

                                                 Non accadde in questo anno altra cosa memorabile, eccetto che Lodovico e Federico della famiglia de' Pichi conti della Mirandola, essendo stati prima cacciati da Giovanfrancesco loro fratello, e pretendendo avervi, con tutto che fusse maggiore di età, le medesime ragioni che lui, ottenute genti in aiuto loro dal duca di Ferrara, di una sorella naturale del quale erano nati, e da Gianiacopo da Triulzi suocero di Lodovico ne cacciorono per forza il fratello: cosa non tanto degna di memoria per se stessa quanto perché poi, negli anni seguenti, le controversie tra questi fratelli produssono effetti di qualche momento.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.12

                                                  

                                                 Gli Orsini prigioni del pontefice; morte sospetta del cardinale Orsini. Intimazione del Valentino ai senesi e risposta di questi. Interessamento del re di Francia alle cose di Toscana. Il Valentino nel Lazio contro gli Orsini. Nuove terre occupate dal Valentino.

                                                  

                                                 Séguita l'anno mille cinquecento tre, pieno se mai niuno de' precedenti di cose memorabili e di gravissimi accidenti; al quale dette principio la perfidia e la empietà del principe della cristiana religione, ignaro di quel che avesse, questo anno medesimo, a succedere a sé e alle cose sue. Perché avendo il Valentino, con somma celerità come erano convenuti tra loro, significato al pontefice quanto felice fine avessino conseguito a Sinigaglia le insidie sue, egli, tenuto l'avviso segretissimo e procurato che per altre vie non potesse penetrare ad altri, chiamò subito sotto colore di altre faccende nel palagio di Vaticano il cardinale Orsino, il quale, fidandosi dello accordo fatto e della fede di chi era noto a tutto il mondo che mai non aveva avuto fede, tirato piú dal fato che dalla ragione era pochi dí innanzi andato a Roma; e arrivato in palazzo fu subito fatto prigione: e nel tempo medesimo presi alle loro case Rinaldo Orsino arcivescovo di Firenze, il protonotario Orsino, l'abate d'Alviano fratello di Bartolomeo, e Iacopo da Santa Croce gentiluomo romano de' principali di quella fazione. I quali come furono condotti in Castello Santo Agnolo, il pontefice mandò il principe di Squillaci suo figliuolo a pigliare la possessione delle terre di Pagolo e degli altri, e con lui il protonotario e Iacopo da Santa Croce perché le facessino consegnare; i quali furono dipoi rimessi sotto la medesima custodia. E aveva il pontefice motteggiato con arguzia spagnuola sopra quello che aveva fatto il figliuolo, dicendo che essendo stati Pagolo Orsino e gli altri i primi a mancargli della fede, perché si erano obligati di andare a lui uno per volta e vi erano andati tutti insieme, non era stato meno lecito a lui mancare a loro. Stette circa venti dí prigione il cardinale, pretendendo il pontefice alla incarcerazione di uno cardinale sí antico e di tale età e autorità varie cagioni; e finalmente, sparsa voce che fusse ammalato, morí in palazzo, come si credette certissimamente, di veleno: la quale opinione il pontefice per alleggierire, ancora che fusse assueto a non curarsi delle infamie, volle che di giorno fusse portato scoperto alla sepoltura, accompagnato dalla sua famiglia e di tutti i cardinali. E gli altri prigioni furono, non molto dipoi, data sicurtà di rappresentarsi, liberati.

                                                 Ma Valentino, non volendo essere stato scelerato senza premio, si partí senza indugio da Sinigaglia e si dirizzò a Città di Castello; e trovata quella città abbandonata da quegli che vi restavano della famiglia de' Vitelli, i quali intesa la morte di Vitellozzo si erano fuggiti, continuò il cammino verso Perugia; onde fuggí Giampagolo, il quale, destinato a piú tardo ma a maggiore supplizio, era per sospetto stato piú cauto che gli altri a andare a Sinigaglia. Lasciò l'una e l'altra città sotto il nome della Chiesa, avendo rimesso in Perugia Carlo Baglione gli Oddi e tutti gli altri inimici di Giampagolo; e volendo con sí grande occasione tentare di insignorirsi di Siena, seguitandolo alcuni fuorusciti di quella città andò con l'esercito, nel quale erano arrivati di nuovo gli aiuti promessi dal Bentivoglio, a Castel della Pieve; dove intesa la cattura del cardinale Orsino, fece strangolare il duca di Gravina e Pagolo Orsini, e mandò imbasciadori a Siena a ricercare che cacciassino Pandolfo Petrucci, come inimico suo e turbatore della quiete di Toscana, promettendo che, cacciato che fusse lui, se ne andrebbe con l'esercito in terra di Roma senza molestare altrimenti i loro confini: e da altra parte il pontefice ed egli, ardenti di desiderio che Pandolfo, cosí come era stato compagno di quegli altri nella vita fusse eziandio compagno nella morte, si ingegnavano di addormentarlo con le medesime arti con le quali avevano addormentati tutti gli altri, scrivendogli brevi e lettere molto umane, e mandandogli per messi propri imbasciate piene di affezione e di dolcezza. Ma il sospetto entrato nel popolo di Siena che non tendessino a occupare quella città faceva piú difficile il disegno loro contro a Pandolfo, perché molti cittadini, malcontenti per l'ordinario di lui, si riducevano a volere piú tosto temporeggiarsi sotto la tirannide di uno cittadino che cadere in servitú forestiera; in modo che di là non gli era dato nel principio risposta alcuna per la quale potesse sperare della partita di Pandolfo: ed egli nondimeno, continuando nella medesima simulazione di non volere altro che questo, procedeva avanti nel territorio loro, ed era già arrivato a Pienza, e Chiusi e l'altre terre vicine arrendutesegli d'accordo. Donde crescendo in Siena il timore, e cominciandosi a spargere nel popolo ed eziandio tra alcuni de' principali non essere conveniente che, per mantenere la potenza di uno cittadino, si mettesse tutta la città in sí grave pericolo, Pandolfo deliberò di fare con buona grazia di tutti quello che dubitava non avere a fare alla fine con odio universale, e con maggiore pericolo e danno proprio; e però, con consentimento suo, fu significato in nome publico al Valentino essere contenti compiacerlo della dimanda fatta, pure che si partisse con le sue genti de' terreni loro: la quale risoluzione, ancoraché il pontefice ed egli avessino aspirato a maggiore disegno, fu accettata, per la difficoltà conoscevano di espugnare Siena, terra grossa, forte di sito, nella quale erano Giampagolo Baglioni e molti soldati; e dove il popolo, quando fusse restato certificato che Valentino avesse altro fine che la partita di Pandolfo, sarebbe stato unito a resistergli. Aggiunsesi che al pontefice parve, per la sicurtà propria, necessario che il figliuolo riducesse l'esercito in terra di Roma, dove non si stava senza sospetto di qualche movimento: perché a Pitigliano si erano ridotti Giulio e alcuni degli Orsini, e in Cervetri erano con molti cavalli Fabio e Organtino Orsini; e Muzio Colonna, partito del reame di Napoli, era entrato in Palombara in soccorso de' Savelli, i quali avevano fatto di nuovo intelligenza e parentado con gli Orsini. Ma perdé piú l'uno e l'altro di loro la speranza di occupare Siena, perché già si comprendeva che al re di Francia, benché da principio ne fusse stato molto ambiguo, era molesta questa impresa come quello che, se bene avesse desiderato che fussino battuti Vitellozzo e gli altri confederati, gli pareva pure che la totale loro ruina, con l'aggiunta di tanti stati, facesse troppo potenti il pontefice e Valentino; ed essendo la città di Siena e Pandolfo sotto la sua protezione, e non appartenente alla Chiesa ma allo imperio, gli pareva potere molto giustificatamente opporsi a questo acquisto. Ebbeno anche speranza che per la partita di Pandolfo il governo di quella città rimanesse in qualche confusione, e per questo potersegli in progresso di tempo presentare occasione da colorire il disegno loro.

                                                 Partí adunque Pandolfo da Siena, ma lasciatavi la medesima guardia e la medesima autorità negli amici e dipendenti da lui, in modo non appariva fatta mutazione del governo; e il Valentino si dirizzò verso Roma, per andare alla distruzione degli Orsini. I quali, insieme co' Savelli, avevano preso il Ponte a Lamentano e correvano per tutto il paese; ma si raffrenorono per la giunta di Valentino, il quale assaltò subito lo stato di Giangiordano, non avendo rispetto che egli, che non si era dimostrato contro a lui, avesse la condotta l'ordine di San Michele e la protezione del re di Francia e fusse allora nel reame di Napoli a' servigi suoi: di che si giustificava il pontefice col re, non muoversi per cupidità di spogliarlo del suo stato ma perché, essendo tante ingiurie e offese tra lui e la famiglia Orsina, non poteva averlo sicuramente sí propinquo; però essere contento di dargli in ricompenso il principato di Squillaci e altre terre equivalenti. E nondimeno il re, non accettando queste ragioni, si risentí molto di tale insulto, non tanto perché in lui potesse piú che il solito il rispetto della protezione quanto perché, non continuando piú nella prima prosperità le cose sue nel regno di Napoli, cominciava avere a sospetto l'ardire e la insolenza del pontefice e di Valentino; ritornandogli in memoria l'assalto dell'anno passato di Toscana, e quel che poi, contro alla sua protezione, nelle cose di Siena tentato avevano, e considerando che quanto piú avevano ottenuto, e per l'avvenire otterrebbono da lui, tanto era diventata e per diventare sempre maggiore la loro cupidità: e però mandò con aspra imbasciata a comandare a Valentino che desistesse da molestare lo stato di Giangiordano, il quale per vie incognite, non senza grave pericolo, s'era condotto a Bracciano. E parendogli necessario assicurarsi che le cose di Toscana non facessino qualche variazione, inteso massime che in Siena appariva principio di discordia civile, cominciò per consiglio de' fiorentini a trattare che Pandolfo Petrucci, il quale si era fermato in Pisa, tornasse in Siena, e che tra fiorentini sanesi e bolognesi si facesse unione a difesa comune, restituendosi, per levare tutte le cause della dissensione, a' fiorentini Montepulciano; e che ciascuno di questi si provedesse, secondo la sua possibilità, di genti d'arme per difesa comune, acciocché si interrompesse al pontefice e al Valentino la facoltà di distendersi piú in Toscana. Avea in questo mezzo il Valentino preso con parte delle sue genti Vicovaro, dove erano per Giangiordano secento fanti; ma avuto il comandamento del re, levatosi, con molto sdegno del pontefice e suo, dalla impresa di Bracciano, andò a porre il campo a Ceri; ove con Giovanni Orsino signore di quel luogo era Renzo suo figliuolo, e Giulio e Franciotto della medesima famiglia; e nel tempo medesimo il padre procedeva per via di giustizia contro a tutta la casa degli Orsini, eccettuato Giangiordano e il conte di Pitigliano, il quale i viniziani non volevano comportare che fusse molestato.

                                                 È Ceri terra antichissima e per la fortezza del sito suo molto celebrata, perché è posta in su uno masso anzi piú presto in su uno poggio tutto d'un sasso intero; però da' romani, quando rotti da' franzesi al fiume di Allia, oggi detto [Caminate], si disperorono di potere difendere Roma, vi furno mandate, come in luogo sicurissimo, le vergini vestali e i simulacri piú secreti e piú venerandi degli dei, con molte altre cose sacre e religiose; e per la medesima cagione non fu ne' tempi seguenti violata dalla ferocia de' barbari, quando per la declinazione dello imperio romano inondorno con tanto impeto tutta Italia. E per questo, e per esservi copia di valorosi difensori, riusciva a Valentino impresa difficile; il quale per espugnarla né diligenza né industria pretermetteva, aiutandosi, oltre a molte altre macchine belliche, per superare l'altezza delle mura, con gatti e con vari instrumenti di legname. Dove mentre che sta, Francesco da Narni, mandato a Siena dal re di Francia, significò la mente regia essere che Pandolfo ritornasse; dal quale aveva prima ricevuto promessa di perseverare nella divozione del re e per sua sicurtà mandargli in Francia il figliuolo maggiore, pagargli quello di che rimaneva debitore per la convenzione de' quarantamila ducati e restituire a fiorentini Montepulciano: il che inteso in Siena, fu piccola difficoltà al ritorno suo, aggiugnendosi alla riputazione del nome del re il favore scoperto de' fiorentini e la disposizione de' cittadini amici suoi; i quali, avendo anticipato di pigliare l'armi la notte innanzi al dí destinato alla venuta sua, feciono stare fermi tutti quegli che sentivano altrimenti. Succedette questo con grandissimo dispiacere del pontefice: le cose del quale, per altro, felicemente procedevano, perché se gli erano arrendute Palombara e l'altre terre de' Savelli, e quegli che erano in Ceri, vessati dí e notte in molti modi e con molti assalti, finalmente si arrenderono, con patto che a Giovanni signore della terra fusse pagata dal pontefice certa quantità di danari, e lui e tutti gli altri fussino lasciati andare salvi a Pitigliano; le quali cose, fuora della consuetudine del papa e contro all'espettazione universale, furono osservate sinceramente.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.13

                                                  

                                                 Vicende della guerra franco spagnola nel reame di Napoli. Arrivo di nuovi aiuti spagnoli. Insuccessi de' francesi. La disfida di Barletta e la gloriosa vittoria degli italiani.

                                                  

                                                 Non procedevano già con simile prosperità le cose de' franzesi nel regno di Napoli, avendo insino nel principio di questo anno cominciato a difficultarsi. Imperocché, essendo il conte di Meleto con gente de' príncipi di Salerno e di Bisignano a campo a Terranuova, passò da Messina in Calavria don Ugo di Cardona con ottocento fanti spagnuoli, i quali stati a' soldi di Valentino aveva condotti da Roma, e con cento cavalli e ottocento fanti tra siciliani e calavresi; e giunto a Seminara si mosse verso Terranuova, per soccorrerla: il che intendendo il conte di Meleto, levatosi da Terranuova, andò per incontrargli. Camminavano gli spagnuoli per una pianura ristretta tra la montagna e una fiumana che mena pochissima acqua ma che si congiugne alla strada con uno argine; e i franzesi, superiori di numero, allo incontro, camminavano di sotto al fiume, desiderosi di tirargli nel luogo largo; ma vedendogli procedere stretti e in ferma ordinanza, dubitando che se non tagliavano loro la strada non si conducessino salvi a Terranuova, passorno per assaltargli di là dal fiume: dove, prevalendo la virtú de' fanti spagnuoli esercitati nella guerra e nocendo molto a' franzesi il disavvantaggio dell'argine, furono rotti. Né molto poi arrivorono di Spagna a Messina, per mare, dugento uomini d'arme dugento giannettieri e dumila fanti guidati da Manuello di Benavida: col quale passò allora in Italia Antonio de Leva, che salito poi di privato soldato, per tutti i gradi militari, al capitanato generale, acquistò in Italia molte vittorie. I quali, passati da Messina a Reggio di Calavria, preso non molto prima dagli spagnuoli, essendo allora Obigní in altra parte della Calavria che quasi tutta si teneva per lui, andorno ad alloggiare a Losarno propinquo a cinque miglia a Calimera, nella quale terra due dí innanzi era entrato Ambricort con trenta lancie e il conte di Meleto con mille fanti: e presentativisi la mattina seguente in sul fare del dí, dove non erano porte ma solamente la sbarra, prese e morte prima le sentinelle, la espugnorono al secondo assalto, benché francamente si difendessino: dove restò morto il capitano Spirito, Ambricort prigione; e il conte di Meleto rifuggito nella rocca si salvò, perché i vincitori si ritirorno subitamente a Terranuova, temendo di Obigní, che con trecento lancie tremila fanti forestieri e dumila del paese si approssimava. Dopo il quale accidente, essendo Obigní fermatosi a Pollistrine castello propinquo, gli spagnuoli, mancando loro le vettovaglie, si partirno una notte occultamente per andare a Ghiarace; ma seguitati dalla gente di Obigní insino alla montata d'una difficile montagna, perderno sessanta uomini d'arme e molti fanti: benché de' franzesi vi morí, per essersi messo troppo innanzi, Grugní, uomo stimato assai da loro e che guidava la compagnia stata del conte di Gaiazzo, il quale poco dopo la espugnazione di Capua era morto di morte naturale.

                                                 Sopravenne in questo tempo di Spagna in Sicilia un'altra armata, che condusse dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e duemila fanti, che n'era capitano Porto Carrera; il quale essendo morto a Reggio, dove era passato con le genti, rimase la cura a don Ferrando d'Andrada suo luogotenente. Per la giunta de' quali ripreso animo gli spagnuoli che s'erano ridotti a Ghiarace, ritornati a Terranuova, si fortificorno nella parte della terra contigua alla fortezza tenuta per loro, che è al capo d'una valle, alla qual valle si congiugne il resto della terra; temendo e non invano della venuta di Obigní, perché egli, venuto subito da Pollistrine, alloggiò in quella parte che non era occupata dagli spagnuoli: fortificandosi ciascuno, e mettendo le sbarre dal canto suo. Ma intendendo poi Obigní che gli spagnuoli, che erano smontati a Reggio, s'accostavano per unirsi con gli altri, si ritirò a Losarno; e gli inimici, seguitando la comodità delle vettovaglie, si poseno tutti insieme a Seminara.

                                                 Ma mentre che nella Calavria le cose in questa maniera procedevano, il viceré franzese, ritornato verso Barletta e fermatosi a Matera, aveva distribuito le genti in piú luoghi circostanti, attendendo a impedire che non vi entrassino vettovaglie, e sperando che per la peste e carestia che era in Barletta gli spagnuoli non potessino piú dimorarvi, né ridursi a Trani dove erano le difficoltà medesime. Ma era maravigliosa in tante incomodità e pericoli la perseveranza loro, confermata dalla virtú e dalla diligenza di Consalvo; il quale, ora dando speranza della venuta presta di dumila fanti tedeschi, a soldare i quali aveva mandato Ottaviano Colonna in Germania, e di altri soccorsi, ora spargendo fama di volere ritirarsi per mare a Taranto, gli sostentava; ancora molto piú con lo esempio, tollerando in se medesimo con allegro animo tutte le fatiche e tutta la strettezza del vivere e di tutte le cose necessarie; alle quali cose sopportare persuadeva gli altri con le parole. In tale stato essendo ridotta la guerra, cominciorono, per la negligenza e per gli insolenti portamenti de' franzesi, a essere superiori quegli che insino a quel dí erano stati inferiori: perché gli uomini di Castellaneta, terra vicina a Barletta, disperati per i danni e ingiurie che pativano da cinquanta lancie franzesi che v'alloggiavano, prese popolarmente l'armi gli svaligiorno; e pochi dí poi Consalvo, avendo notizia che monsignore della Palissa, il quale con cento lancie e trecento fanti alloggiava nella terra di Rubos distante da Barletta dodici miglia, faceva guardie negligenti, uscito una notte di Barletta e condottosi a Rubos, e piantate con grandissima celerità l'artiglierie, le quali per essere il cammino piano aveva facilmente condotte seco, l'assaltò con tale impeto che i franzesi, i quali aspettavano ogn'altra cosa, spaventati dallo assalto improviso, fatta debole difesa, si perderono, rimanendo insieme con gli altri la Palissa prigione; e il dí medesimo se ne ritornò Consalvo a Barletta, senza pericolo di ricevere nel ritirarsi, da Nemors, il quale pochi dí innanzi era venuto a Canosa, danno alcuno, perché le genti sue, alloggiate, per tenere Barletta assediata da piú lati e forse per maggiore loro comodità, in vari luoghi, non potevano essere a tempo a congregarsi. E si aggiunse che, come scrivono alcuni, cento cinquanta lancie de' franzesi, mandate per pigliare certi danari che si conducevano da Trani a Barletta, furono rotte da genti le quali per assicurare i danari erano state mandate da Consalvo.

                                                 Seguitò appresso a questi un altro accidente che diminuí assai l'ardire de' franzesi, non potendo attribuire alla malignità della fortuna quello che era stato opera propria della virtú. Perché essendo, sopra la recuperazione di certi soldati che erano stati presi in Rubos, andato un trombetto a Barletta per trattare di riscuotergli, furono dette contro a' franzesi da alcuni uomini d'arme italiani certe parole che, riportate dal trombetto nel campo franzese e da quegli fatto risposta agli italiani, acceseno tanto ciascuno di loro che, per sostenere l'onore della propria nazione, si convenneno che in campo sicuro, a battaglia finita, combattessino insieme tredici uomini d'arme franzesi e tredici uomini d'arme italiani; e il luogo del combattere fu statuito in una campagna tra Barletta, Andria e Quadrato, dove si conducessino accompagnati da determinato numero di gente: nondimeno, per assicurarsi dalle insidie, ciascuno de' capitani con la maggiore parte dell'esercito accompagnò i suoi insino a mezzo il cammino: confortandogli che, essendo stati scelti di tutto l'esercito, corrispondessino con l'animo e con l'opere alla espettazione conceputa, che era tale che nelle loro mani e nel loro valore si fusse con comune consentimento di tutti collocato l'onore di sí nobili nazioni. Ricordava il viceré franzese a' suoi, questi essere quegli medesimi italiani che non avendo ardire di sostenere il nome de' franzesi, avevano, senza fare mai esperienza della sua virtú, dato loro sempre la via quante volte dall'Alpi avevano corso insino all'ultima punta d'Italia; né ora accendergli nuova generosità d'animo o nuovo vigore, ma trovandosi agli stipendi degli spagnuoli e sottoposti a' loro comandamenti non avere potuto contradire alla volontà d'essi, i quali, assueti a combattere non con virtú ma con insidie e con fraudi, si facevano volentieri oziosi riguardatori degli altrui pericoli: ma come gli italiani fussino condotti in sul campo, e si vedessino a fronte l'armi e la ferocia di coloro da' quali erano stati sempre battuti, ritornati al consueto timore, o non ardirebbono combattere o combattendo timidamente sarebbeno facile preda loro, non essendo sufficiente scudo contro al ferro de' vincitori il fondamento fatto in su le parole e braverie vane degli spagnuoli. Da altra parte Consalvo infiammava con non meno pungenti stimoli gli italiani, riducendo in memoria gli antichi onori di quella nazione e la gloria dell'armi loro, con le quali già tutto il mondo domato avevano: essere ora in potestà di questi pochi, non inferiori alla virtú de' loro maggiori, fare manifesto a ciascuno che se Italia, vincitrice di tutti gli altri, era da pochi anni in qua stata corsa da eserciti forestieri esserne stata cagione non altro che la imprudenza de' suoi príncipi, i quali per ambizione discordanti fra loro medesimi, per battere l'un l'altro, l'armi straniere chiamate avevano: non avere i franzesi ottenuto in Italia vittoria alcuna per vera virtú, ma o aiutati dal consiglio e dall'armi degli italiani o per essere stato ceduto alle loro artiglierie; con lo spavento delle quali, per essere stata cosa nuova in Italia, non per il timore delle loro armi, essergli stata data la strada: avere ora occasione di combattere col ferro e con la virtú delle proprie persone; trovandosi presenti a sí glorioso spettacolo le principali nazioni de' cristiani, e tanta nobiltà de' suoi medesimi, i quali, cosí dall'una parte come dall'altra, avere estremo desiderio della vittoria loro. Ricordassinsi essere stati tutti allievi de' piú famosi capitani d'Italia, nutriti continuamente sotto l'armi, e avere ciascuno d'essi fatto in vari luoghi onorevoli esperienze della sua virtú: e però, o essere destinata a questi la palma di rimettere il nome italiano in quella gloria nella quale era stato non solo a tempo de' loro maggiori ma ve l'avevano veduto essi medesimi o, non si conseguendo per queste mani tanto onore, aversi a disperare che Italia potesse rimanere in altro grado che di ignominiosa e perpetua servitú. Né erano minori gli stimoli che dagli altri capitani e da' soldati particolari dell'uno e dell'altro esercito erano dati a ciascuno di loro, accendendogli a essere simili di se medesimi, a esaltare con la propria virtú lo splendore e la gloria della sua nazione. Co' quali conforti condotti al campo, pieni ciascuno d'animo e di ardore, essendo l'una delle parti fermatasi da una banda dello steccato opposita al luogo dove s'era fermata l'altra parte, come fu dato il segno, corseno ferocemente a scontrarsi con le lancie: nel quale scontro non essendo apparito vantaggio alcuno, messo con grandissima animosità e impeto mano all'altre armi, dimostrava ciascuno di loro egregiamente la sua virtú: confessandosi tacitamente per tutti gli spettatori che di tutti gli eserciti non potevano essere eletti soldati piú valorosi, né piú degni a fare sí glorioso paragone. Ma essendosi già combattuto per non piccolo spazio e coperta la terra di molti pezzi d'armadure e di molto sangue di feriti da ogni parte, e ambiguo ancora l'evento della battaglia, risguardati con grandissimo silenzio, ma quasi con non minore ansietà e travaglio d'animo che avessino loro, da' circostanti, accadde che Guglielmo Albimonte, uno degli italiani, fu gittato da cavallo da uno franzese; il quale mentre che ferocemente gli corre col cavallo addosso per ammazzarlo, Francesco Salamone correndo al pericolo del compagno ammazzò con uno grandissimo colpo il franzese, che intento a opprimere l'Albimonte da lui non si guardava; e di poi insieme con l'Albimonte che s'era sollevato, e col Miale che era in terra ferito, presi in mano spiedi che a questo effetto portati avevano, ammazzorono piú cavalli degl'inimici: donde i franzesi, cominciati a restare inferiori, furono chi da uno chi da un altro degli italiani fatti tutti prigioni. I quali, raccolti con grandissima letizia da' suoi, e rincontrando poi Consalvo che gli aspettava a mezzo il cammino, ricevuti con incredibile festa e onore, ringraziandogli ciascuno come restitutori della gloria italiana, entrorono come trionfanti, conducendosi i prigioni innanzi, in Barletta; rimbombando l'aria di suono di trombe e di tamburi, di tuoni d'artiglierie e di plauso e grida militari: degni che ogni italiano procuri, quanto è in sé, che i nomi loro trapassino alla posterità mediante lo instrumento delle lettere. Furono adunque Ettore Fieramosca capuano, Giovanni Capoccio, Giovanni Bracalone e Ettore Giovenale romani, Marco Corellario da Napoli, Mariano da Sarni, Romanello da Furlí, Lodovico Aminale da Terni, Francesco Salamone e Guglielmo Albimonte siciliani, Miale da Troia, e il Riccio e Fanfulla parmigiani; nutriti tutti nell'armi, o sotto i re d'Aragona o sotto i Colonnesi. Ed è cosa incredibile quanto animo togliesse questo abbattimento all'esercito franzese e quanto n'accrescesse allo esercito spagnuolo, facendo ciascheduno presagio, da questa esperienza di pochi, del fine universale di tutta la guerra.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.14

                                                  

                                                 Gli svizzeri occupano Lucherna e la Murata. Lotta che ne consegue fra svizzeri e francesi. Accordi fra gli svizzeri ed i francesi.

                                                  

                                                 Era in questo tempo medesimo il re di Francia molestato in Lombardia da' svizzeri, fatto il principio non da tutta la nazione ma dai tre cantoni occupatori di Bellinzone; i quali, volendo indurlo a consentire che quella terra fusse loro propria, assaltorono Lucherna e la Murata, muro di lunghezza grande in sul Lago maggiore presso a Lucherna, per il quale si proibisce lo scendere di quelle montagne alla pianura se non per una porta che sola è in quel muro: e benché nel principio non l'ottenessino, per la difesa de' franzesi che vi stavano a guardia, e che Ciamonte, il quale con ottocento lancie e tremila fanti s'era fermato a Varese e a Galera, sperasse ch'ella s'avesse a difendere, nondimeno cresciuti poi i svizzeri di numero, perché ebbono soccorso da' grigioni, dopo molti assalti dati invano, saliti una parte di loro in su uno aspro monte che soprafà la Murata, costrinsono a levarsene coloro che la guardavano; e preso poi il borgo di Lucherna ma non la rocca, ogni dí augumentavano, perché gli altri nove cantoni, se bene da principio avessino offerte genti al re per la confederazione che avevano con lui, cominciorono poi a dare soccorso a' tre cantoni, allegando non potere mancare d'aiutare i loro compagni e fratelli, ed esserne tenuti per le leghe antiche che erano tra loro, anteriori alle obligazioni che avevano con tutti gli altri. E mentre che già in numero quindicimila sono intorno alla rocca, non potendo i franzesi soccorrerla per la strettezza de' passi e per le diligenti guardie vi facevano, attendevano a predare il paese circostante; e sdegnati che il castellano di Musocco, terra di Gianiacopo da Triulzi, recusava di prestare loro l'artiglierie per battere la rocca di Lucherna, saccheggiorono la terra di Musocco, non molestando la rocca perché era inespugnabile. Da altra parte i franzesi, facendo stima non piccola di questo moto, e avendo raccolte tutte le forze che aveano in Lombardia e ottenuti aiuti da Bologna da Ferrara e da Mantova, ricercorono viniziani de' sussidi debiti per la difesa dello stato di Milano; i quali avendogli promessi prontamente, gli espedirono sí lentamente che non furono necessari: e attendeva Ciamonte, avendo bene provedute le fortezze che erano ne' luoghi montuosi, a tenere le genti alla pianura, sperando che i svizzeri, che non ardivano per non avere né cavalli né artiglierie scendere ne' luoghi aperti, si straccherebbono per la difficoltà delle vettovaglie, e perché erano senza danari e senza speranza di fare effetto alcuno importante. Nel quale stato essendo i svizzeri dimorati molti dí, e crescendo la penuria delle vettovaglie, perché i franzesi, armati molti legni, aveano sommerse molte barche che conducevano vettovaglie a' svizzeri e impedivano che per il lago non ne potessino avere, e cominciando a disunirsi tra loro, perché la impresa non atteneva se non ai cantoni che possedevano Bellinzone, corrotti ancora i capitani da' danari de' franzesi, furono alla fine contenti di ritirarsi, restituite, da Musocco infuora come cosa non appartenente al re, tutte le terre occupate in questa espedizione, e ottenuta dal re promessa di non molestare Bellinzone fra certo tempo. Tanto erano i franzesi alieni da volere l'inimicizia de' svizzeri che non si vergognavano, non solamente in questo tempo che avevano guerra co' re di Spagna temevano del re de' romani e avevano sospetti i viniziani ma eziandio in ogni altro tempo, comperare l'amicizia di quella nazione, con pagare provisioni annue in publico e in privato e fare accordi con loro con indegne condizioni; movendogli, oltre al non confidare della virtú de' fanti propri, il conoscere che con disavvantaggio grande si fa la guerra con chi non ha che perdere.

                                                  

                                                 Lib.5, cap.15

                                                  

                                                 Patti di pace stabiliti fra il re di Francia e l'arciduca Filippo come procuratore dei re di Spagna. La guerra continua nel reame di Napoli. Sfortuna delle armi francesi. Francesi e spagnoli a Cerignola. La sconfitta de' francesi. Consalvo a Napoli.

                                                  

                                                 Cosí liberato il re di Francia dalla guerra de' svizzeri, non aveva nel tempo medesimo minore speranza di liberarsi dalla guerra che era nel reame di Napoli: perché, dopo molte pratiche di pace tenute vanamente tra l'uno e l'altro re, volendosene ritornare di Spagna in Fiandra Filippo arciduca di Austria e principe di Fiandra, deliberò, benché contro a molti prieghi de' suoceri, ritornarsene per terra; da' quali ottenne ampia facoltà e libero mandato di fare la pace col re di Francia, stata molto, mentre che era in Ispagna, procurata da lui, ma accompagnandolo due loro imbasciadori, senza la partecipazione de' quali non voleva cosa alcuna né conchiudere né trattare. È incredibile con quanta magnificenza e onore fusse per ordine del re ricevuto per tutto il regno di Francia, non solo per desiderare di farselo propizio nella pratica dell'accordo ma per conciliarsi per ogni tempo l'animo di quel principe, giovane e in espettazione di somma potenza, perché era il piú prossimo alla successione dello imperio romano e de' reami di Spagna con tutte le dependenze loro; e con la medesima liberalità furono raccolti e fatti molti donativi a quegli che erano grandi appresso a lui: alle quali dimostrazioni corrispose con magnanimità reale Filippo; perché avendo il re, oltre alla fede datagli che e' potesse passare per Francia sicuramente, mandato per sua sicurtà a stare in Fiandra, tanto che e' fusse passato, alcuni de' primi signori del reame, Filippo, come e' fu entrato in Francia, per dimostrare di confidarsi in tutto della sua fede, ordinò che gli statichi fussino liberati. Né a queste dimostrazioni di amicizia tanto grandi succederono, per quanto fu in loro, effetti minori; perché convenutisi a Bles, dopo discussione di qualche dí, conchiuseno la pace con queste condizioni: che il reame tutto di Napoli si possedesse secondo la prima divisione, ma lasciando in diposito a Filippo le provincie per la differenza delle quali si era venuto all'armi, e che di presente Carlo figliuolo suo e Claudia figliuola del re, tra' quali si stabiliva lo sposalizio altre volte trattato, s'intitolassino re di Napoli e duchi di Puglia e di Calavria; che la parte che toccava al re di Spagna fusse in futuro governata dall'arciduca, quella del re di Francia da chi deputasse il re, ma tenendosi l'una e l'altra sotto nome de' due fanciulli, a' quali quando consumavano il matrimonio il re consegnasse, per dota della figliuola, la sua porzione. La quale pace fu solennemente publicata nella chiesa maggiore di Bles, e confermata con giuramento del re, e di Filippo come procuratore de' re suoi suoceri: pace certamente, se avesse avuto effetto, di momento grandissimo, perché non solo si posavano l'armi tra re tanto potenti ma dietro a questa sarebbe seguitata la pace tra il re de' romani e il re di Francia; onde contro a' viniziani nascevano nuovi pensieri, e il pontefice, sospetto a tutti e in pessimo concetto di ciascuno, non rimaneva senza timore di concili e d'altri disegni a depressione della sua autorità. Ma avendo subito il re e Filippo mandato nel regno di Napoli a intimare la pace fatta, e a comandare a' capitani che insino a tanto venisse la ratificazione de' re di Spagna, possedendo come possedevano, s'astenessino dalle offese, offersesi il capitano franzese di ubbidire al suo re, ma lo spagnuolo, o perché piú sperasse nella vittoria o perché l'autorità sola di Filippo non gli bastasse, rispose che insino non avesse il medesimo comandamento da' suoi re non poteva omettere di fare la guerra: alla continuazione della quale gli dava maggiore animo, che il re di Francia, sperando prima nelle pratiche e poi nella conclusione della pace e presupponendo per certo quel che ancora era incerto, aveva non solamente raffreddato l'altre provisioni ma sopratenuto tremila fanti che prima aveva ordinato che a Genova s'imbarcassino, e trecento lancie, destinate che sotto Persí andassino a quella impresa; e per contrario, a Barletta erano arrivati i duemila fanti tedeschi i quali, soldati con favore del re de' romani e imbarcatisi a Triesti, erano con grave querela del re di Francia passati sicuramente per il golfo de' viniziani. E però il duca di Nemors, non potendo promettersi la sospensione dell'armi e indebolito per i danni ricevuti poco innanzi, per essere sufficiente, se l'occasione lo invitasse o la necessità lo costrignesse, a combattere con gl'inimici, mandò a chiamare tutte le genti franzesi che erano divise in vari luoghi, da quelle in fuori che sotto Obigní militavano in Calavria; e tutti gli aiuti de' signori del regno: ma ebbe nel raccorle avversa la fortuna. Perché avendo il duca d'Atri e Luigi d'Ars, uno de' capitani franzesi che avevano le genti loro sparse in Terra di Otranto, deliberato d'andare insieme a unirsi col viceré, perché presentivano che Pietro Navarra con molti fanti spagnuoli era in luogo da potere loro nuocere se fussino andati separati, accadde che Luigi d'Ars, avendo avuta opportunità di condursi sicuro da se stesso, partí senza curarsi del pericolo del duca d'Atri; al quale, rimasto solo, essendo pervenuta notizia che Pietro Navarra si era mosso verso Matera per andare a unirsi con Consalvo, si messe ancora esso in cammino con la sua gente. Ma non bastano i consigli umani a resistere alla fortuna: perché avendo gli uomini di Rutiliano terra in quello di Bari, i quali in quegli medesimi dí si erano ribellati dai franzesi, chiamato Pietro Navarra, e però egli volgendosi dal cammino cominciato di Matera verso Rutiliano, si scontrò nel duca d'Atri; il quale, spaventato di questo accidente, stette sospeso di quello che avessi a fare, pure, non essendo sicura in tutto la ritirata e confidandosi che se bene era inferiore di numero di fanti aveva piú cavalli, e stimando che la fanteria spagnuola per avere la notte fatto lungo cammino fusse stracca, appiccò la battaglia; nella quale essendosi da ogni parte combattuto valentemente, fu alla fine rotta la gente sua, morto Giovann'Antonio suo zio ed egli fatto prigione. E, come pare ch'il piú delle volte le avversità non vadino sole, quattro galee franzesi, delle quali era capitano Pregianni Provenzale cavaliere di Rodi, sorseno nel porto d'Otranto, con licenza dell'offiziale viniziano, che promesse non patirebbe fussino molestate dall'armata di Spagna, la quale sotto Villamarina volteggiava ne' luoghi vicini; ma essendo poco dipoi entrata nel porto medesimo, Pregianni inferiore di forze, temendo non l'investissino, acciò che almanco il danno suo non fusse con guadagno degli inimici, liberata la ciurma e messe in fondo le galee, salvò sé e i suoi per la via di terra. Aveva il re di Francia commesso a' suoi capitani che standosi in su le difese fuggissino il venire alle mani, perché arebbono presto o lo stabilimento della pace o soccorso grande. Ma era difficile, essendo potenti e vicini tutti gli eserciti, raffrenare la caldezza de' franzesi e fargli stare pazienti a menare la guerra in lungo; anzi era destinato che, senza differire piú, si decidesse la somma delle cose. Di che nacque il principio in Calavria: perché, uniti che furono gli spagnuoli a Seminara, Obigní, raccolte tutte le genti sue e quelle de' signori che seguitavano la parte franzese, alloggiò le fanterie nella terra di Gioia vicina a tre miglia a Seminara, e la cavalleria a Losarno lontano tre miglia da Gioia; e fortificatosi con quattro pezzi d'artiglieria in su la riva del fiume in sul quale è posta Gioia, stava preparato per opporsi agl'inimici se e' tentassino di passare il fiume. Ma gli spagnuoli, fatto pensiero diverso dal suo, il dí che deliberorono passare, mossono per la strada diritta la vanguardia, condotta da Manuel di Benavida, alla via del fiume, il quale giunto alla riva cominciò a parlare con Obigní, che aveva condotto tutto l'esercito suo in su la riva opposita; e in detto tempo la retroguardia spagnuola, seguitata dalla battaglia, si volse per altro cammino a passare il fiume un miglio e mezzo di sopra a Gioia. Del qual tratto accorgendosi Obigní si mosse con grande celerità e senza artiglieria, per giugnergli innanzi che tutti avessino passato: ma erano già passati tutti; e ordinatisi, benché senza artiglierie, in ferma e stretta battaglia si mossono contro a' franzesi, i quali, accelerando il cammino e avendo, come dicono alcuni, molto minore numero di fanti, andavano disordinati; in modo che presto gli roppeno, innanzi che passasse il fiume l'antiguardia spagnuola. Nel quale conflitto restò prigione Ambricort con alcuni altri capitani franzesi e il duca di Somma con molti baroni del regno; e Obigní, benché fuggisse nella rocca di Angitola, rinchiusovi dentro, fu costretto ad arrendersi prigione, rotto e preso in quegli luoghi medesimi dove pochi anni innanzi aveva con tanta gloria superato e rotto il re Ferdinando e Consalvo: tanto è poco costante la prosperità della fortuna. Né a lui, che fu de' piú eccellenti capitani che Carlo conducesse in Italia, e di ingegno libero e nobile, aveva nociuto altro che il procedere con troppa caldezza alla speranza della vittoria. La qual cosa medesima nocette in Puglia al viceré, traportato forse a maggiore caldezza per avere intesa la rotta ricevuta in Calavria; perché Consalvo, essendogli incognita la vittoria de' suoi, né potendo piú per la fame e per la peste perseverare in Barletta, se ne partí, lasciatavi poca guardia, e si dirizzò alla Cirignola, terra lontana dieci miglia e quasi in triangolo tra Canosa, dove era il viceré, e Barletta.

                                                 Era già stato disputato prima nel consiglio del viceré se era da cercare o da fuggire l'occasione della giornata, e molti de' capitani avevano detta questa sentenza, che essendo gli spagnuoli accresciuti di gente e i suoi diminuiti, e cominciati a invilire per i disordini succeduti prima a Rubos e a Castellaneta e poi in Terra di Otranto e ultimatamente in Calavria, non fusse da commettersi alla fortuna ma, ritirandosi in Melfi o in qualche altra terra grossa e abbondante, aspettare che di Francia venisse o nuovo soccorso o lo stabilimento della pace; al quale modo di temporeggiarsi astrignergli anche il comandamento ricevuto nuovamente dal re: ma aveva questo consiglio avuto molti contradittori, a' quali pareva pericoloso l'aspettare che l'esercito vincitore di Calavria si unisse con Consalvo, o si voltasse a qualche impresa importante, dove non troverebbono chi resistesse. Ricordavansi che frutto avesse partorito l'avere eletto, l'esercito di Mompensieri, piú tosto il ritirarsi nelle terre che 'l combattere, e gli esempli passati gli ammonivano di quello che de' soccorsi lunghi e incerti di Francia sperare potessino; e se, essendo le cose ambigue, né Consalvo aveva consentito di levare le offese né i re di Spagna accettata la pace, tanto manco essere per farlo ora che erano in tanta speranza della vittoria. Non essere l'esercito loro inferiore di forze e di virtú a quello degl'inimici, né doversi arguire da' disordini ricevuti per propria negligenza a quello esperimento che col ferro e col valore dell'animo, non con l'astuzia o con gli inganni, si farebbe in campagna aperta; ed essere piú sicuro e piú glorioso partito fare, con speranza almanco eguale, esperienza della fortuna che, fuggendola e lasciandosi a poco a poco consumare, concedere agl'inimici la vittoria senza sangue e senza pericolo; e i comandamenti del re, che era lontano, doversi piú presto per ricordi che per precetti ripigliare, i quali erano fatti prudentemente se fussino stati seguitati da Obigní, ma essendo variato per quel disordine lo stato della guerra essere necessario che medesimamente le deliberazioni si variassino. Era prevaluta nel consiglio questa sentenza; e però, come ebbono notizia dalle spie che le genti spagnuole, o tutte o parte, erano uscite di Barletta, prese similmente Nemors il cammino verso la Cirignola, cammino all'uno e all'altro esercito molto incomodo; perché, per essere quegli paesi sterilissimi d'acqua, e la state sopravenuta molto piú tosto che non suole essere al principio di maggio, è fama che quel dí ne perirono nel camminare, di sete, molti di ciascuna delle parti: né sapevano i franzesi se quel che si era mosso era tutto o parte dello esercito spagnuolo, perché Fabrizio Colonna co' cavalli leggieri non lasciava penetrare a loro notizia alcuna, e le lancie ritte degli uomini d'arme, e i gambi de' finocchi che in quel paese sono altissimi, impedivano loro la vista. Arrivorono prima gli spagnuoli alla Cirignola, che si guardava per i franzesi; e ponendosi ad alloggiare tra certe vigne, allargorono per consiglio di Prospero Colonna un fosso che era alla fronte del loro alloggiamento. Sopragiunseno poi i franzesi mentre che l'alloggiamento si faceva, ed essendo già vicina la notte stettono dubbi o d'appiccare subito il fatto d'arme o di differire la battaglia al dí seguente; e consigliavano Ivo d'Allegri e il principe di Melfi che si indugiasse al dí seguente, nel qual dí speravano che gli spagnuoli, necessitati dal mancamento delle vettovaglie, avessino a muoversi, onde fuggirsi oltre alla propinquità della notte il disavvantaggio di assaltargli nel proprio alloggiamento, non sapendo massimamente la disposizione di quello; ma, disprezzando impetuosamente Nemors il consiglio piú salutifero, assaltorono gli spagnuoli con furore grande; combattendo con la medesima ferocità i svizzeri. Ed essendosi, o per caso o per altro, attaccato il fuoco alla munizione degli spagnuoli, Consalvo, abbracciato l'augurio, con franco animo gridò: - Noi abbiamo vinto; Iddio ci annunzia manifestamente la vittoria, dandoci segno che non ci bisogna piú adoperare l'artiglieria. -

                                                 Varia è la fama del progresso della battaglia. I franzesi publicorono, le genti loro avere nel primo congresso rotta la fanteria spagnuola, arrivati alla artiglieria avere arsa la polvere ed essersene insignoriti; ma che, sopravenuta la notte, le genti d'arme avevano percosso per errore nella fanteria propria, per il quale disordine gli spagnuoli essersi rifatti. Ma dagli altri fu publicato che, per la difficoltà di passare il fosso, i franzesi cominciando ad avvilupparsi tra loro medesimi si messeno in fuga, non meno per disordine proprio che per virtú degl'inimici; essendo massime spaventati per la morte di Nemors, il quale combattendo ferocemente tra i primi, e riscaldando i suoi a passare il fosso, cadde percosso d'uno scoppio. Altri, piú particolarmente, che Nemors, disperato di spuntare il fosso, volendo girare la gente al fianco del campo per fare pruova d'entrare da quella banda, fece gridare: - a dietro, a dietro, - la qual voce a chi non sapeva la cagione dava segno di fuggire; e la morte sua, che essendo nel primo squadrone nel medesimo tempo sopravenne, voltò tutto l'esercito in fuga manifesta. Rimuovono alcuni altri dal viceré la infamia d'avere contro al consiglio degli altri combattuto, anzi la trasferiscono in Allegri che, essendo inclinato il viceré a non combattere quel dí, riprendendolo di timidità lo indusse a contrario consiglio. Durò la battaglia per brevissimo spazio; e ancora che gli spagnuoli, passato il fosso, gli seguitassino, ne fu, per essere già notte oscura, presi e morti pochissimi, specialmente di uomini a cavallo; tra' quali fu morto monsignore di Ciandeu: il resto, perduti i carriaggi perduta l'artiglieria, si salvò con la fuga, spargendosi i capitani e i soldati in varie parti. È fama che, essendo già cacciati per tutto gli inimici, che Consalvo, non vedendo in luogo alcuno Prospero Colonna ne dimandava con instanza, dubitava non fusse stato ammazzato nel fatto d'arme; e che Fabrizio, volendo tassarlo di timidità, ridendo gli rispose non essere da temere che Prospero fusse entrato in luogo pericoloso. Acquistossi questa vittoria otto dí dopo la rotta di Obigní; e l'una e l'altra in venerdí, giorno osservato per felice dagli spagnuoli.

                                                 Feciono i franzesi, come furono raccolti dalla fuga, vari disegni, o di unirsi con le reliquie dello esercito in qualche luogo opportuno a impedire a' vincitori l'andare a Napoli o di fermarsi alla difesa di Napoli; nondimeno, come nelle cose avverse diventano ogni dí maggiori il timore e le difficoltà di chi è stato vinto, niuno di questi partiti si messe a esecuzione, perché e in altri luoghi aveano difficoltà di fermarsi, e Napoli giudicavano non potere difendere per la carestia delle vettovaglie: alla quale per provedere aveano prima i franzesi fatto comperare a Roma quantità grande di frumenti, ma il popolo romano impedí non si traessino, o per conservare Roma abbondante o per suggestione occulta (come molti credettono) del pontefice. Però Allegri, il principe di Salerno e molti altri baroni si ritirorno tra Gaeta e Traietto, ove si raccolse dietro al nome loro la maggiore parte delle reliquie dell'esercito. Ottenuta Consalvo tanta vittoria, non allentando il favore della fortuna, si dirizzò con l'esercito a Napoli; e passando da Melfi offerse al principe la facoltà di ritenersi il suo stato in caso volesse seguitare la divozione spagnuola: il quale, accettando piú tosto d'essere lasciato partire con la moglie e co' figliuoli, andò a congiugnersi con Luigi d'Ars che s'era fermato a Venosa. Avuto Melfi, seguitò Consalvo il cammino a Napoli; ove come cominciò ad accostarsi, i franzesi che v'erano dentro si ritirorno in Castelnuovo, e i napoletani abbandonati, il quartodecimo dí di maggio, riceverono Consalvo: come feceno, nel tempo medesimo, Aversa e Capua.

                                             

                                                 Lib.6, cap.1

                                                  

                                                 Lamentele del re di Francia per la inosservanza de' patti conclusi con l'arciduca Filippo; politica ambigua de' re di Spagna. Preparativi di guerra del re di Francia. Espugnazione di Castelnuovo da parte degli spagnuoli. Consalvo s'avvia verso Gaeta. Pietro Navarra prende Castel dell'Uovo. Altre vicende della guerra.

                                                  

                                                 Pervenute al re di Francia le novelle di tanto danno, in tempo che piú poteva in lui la speranza della pace che i pensieri della guerra, commosso gravissimamente per la perdita di uno reame tanto nobile, per la ruina degli eserciti suoi ne' quali era tanta nobiltà e tanti uomini valorosi, per i pericoli ne' quali rimanevano l'altre cose che in Italia possedeva, né meno per riputarsi grandissimo disonore di essere vinto da' re di Spagna senza dubbio meno potenti di lui, e sdegnato sommamente di essere stato ingannato sotto la speranza della pace, deliberava di attendere con tutte le forze sue a recuperare l'onore e il regno perduto e vendicarsi con l'armi di tanta ingiuria. Ma innanzi procedesse piú oltre si lamentò efficacissimamente con l'arciduca, che ancora non era partito da Bles, dimandandogli facesse quella provisione che era conveniente se voleva conservare la sua fede e il suo onore: il quale, essendo senza colpa, ricercava con grandissima instanza i suoceri del rimedio, dolendosi sopra modo che queste cose fussino cosí succedute, con tanta sua infamia, nel cospetto di tutto il mondo. I quali, innanzi alla vittoria, avevano con varie scuse differito di mandare la ratificazione della pace, allegando ora non trovarsi tutt'a due in uno luogo medesimo, come era necessario avendo a fare congiuntamente le espedizioni, ora di essere occupati molto in altri negozi; come quegli che erano mal sodisfatti della pace, o perché il genero avesse trapassato le loro commissioni o perché, dopo la partita sua di Spagna, avessino conceputo maggiore speranza dello evento della guerra, o perché fusse paruto loro molto strano ch'egli avesse convertita in se medesimo la parte loro del reame e senza avere certezza alcuna, per l'età tanto tenera degli sposi, che avesse ad avere effetto il matrimonio del figliuolo: e nondimeno non negando, anzi sempre dando speranza di ratificare ma differendo, si avevano riservato libero, piú tempo potevano, il pigliare consiglio secondo i successi delle cose. Ma intesa la vittoria de' suoi, deliberati di disprezzare la pace fatta, allungavano nondimeno il dichiarare all'arciduca la loro intenzione, perché quanto piú tempo ne stesse ambiguo il re di Francia tanto tardasse a fare nuove provisioni per soccorrere Gaeta e l'altre terre che gli restavano. Ma stretti finalmente dal genero, determinato di non partire altrimenti da Bles, vi mandorono nuovi imbasciadori; i quali, dopo avere trattato qualche giorno, manifestorono finalmente non essere la intenzione de' loro re di ratificare quella pace, la quale non era stata fatta in modo che fusse per loro né onorevole né sicura: anzi, venuti in controversia con l'arciduca, gli dicevano essersi i suoceri maravigliati assai che egli nelle condizioni della pace la volontà loro trapassata avesse; perché, benché per onore suo il mandato fusse stato libero e amplissimo, che egli si aveva a riferire alle istruzioni, che erano state limitate. Alle quali cose rispondeva Filippo non essere state manco libere le istruzioni che il mandato; anzi, avergli alla partita sua efficacemente detto, l'uno e l'altro de' suoceri, che desideravano e volevano la pace per mezzo suo, e avergli giurato, in sul libro dello evangelio e in su l'immagine di Cristo crocifisso, che osserverebbono tutto quello che da lui si conchiudesse; e nondimeno non avere voluto usare sí ampia e sí libera facoltà se non con partecipazione de' due uomini che seco mandati avevano. Proposeno gli oratori con le medesime arti nuove pratiche di concordia, mostrandosi inclinati a restituire il regno al re Federigo; ma conoscendosi essere cose non solo vane ma insidiose, perché tendevano ad alienare dal re di Francia l'animo di Filippo intento a conseguire quel reame per il figliuolo, il re proprio, in publica udienza, fece loro risposta, denegando volere prestare orecchi in modo alcuno a nuovi ragionamenti se prima non ratificavano la pace fatta e facevano segni che fussino dispiaciuti loro i disordini seguiti; aggiugnendo parergli cosa non solo maravigliosa ma detestanda e abominevole che quegli re, che tanto d'avere acquistato il titolo di cattolici si gloriavano, tenessino sí poco conto dell'onore proprio, della fede data, del giuramento e della religione, né avessino rispetto alcuno all'arciduca, principe di tanta grandezza nobiltà e virtú, e figliuolo ed erede loro: con la quale risposta avendo il dí medesimo fattigli partire dalla corte, si volse con tutto l'animo alle provisioni della guerra; disegnando farle maggiori, e per terra e per mare, che già gran tempo fa fussino state fatte per alcuno re di quel reame. Deliberò adunque di mandare grandissimo esercito e potentissima armata marittima nel regno di Napoli; e perché in questo mezzo non si perdesse Gaeta e le castella di Napoli, mandarvi con prestezza, per mare, soccorso di nuove genti e di tutte le cose necessarie; e per impedire che di Spagna non vi andasse soccorso, il che era stato causa di tutti i disordini, assaltare con due eserciti per terra il regno di Spagna, mandandone uno nel contado di Rossiglione, che è contiguo al mare Mediterraneo, l'altro verso Fonterabia e gli altri luoghi circostanti posti in sul mare Oceano; e con una armata marittima molestare, nel tempo medesimo, la costiera di Catalogna e di Valenza. Le quali espedizioni mentre che con grandissima sollecitudine si preparano, Consalvo, intento alla espugnazione delle castella di Napoli, piantò l'artiglierie contro a Castelnuovo alle radici del monte di San Martino, onde di luogo rilevato si batteva il muro della cittadella, la quale situata di verso il detto monte era di mura antiche fondate quasi sopra terra; e nel tempo medesimo Pietro Navarra faceva una mina per ruinare le mura della cittadella; e similmente si battevano le mura del castello dalla Torre di San Vincenzio, stata presa pochi dí prima da Consalvo. Era allora Castelnuovo in forma diversa dalla presente, perché ora, levata via la cittadella, comincia dove erano le mura di quella un circuito nuovo di mura che si distende per la piazza del castello insino alla marina; il quale circuito, principiato da Federigo e alzato da lui insino al bastione, fabbricato di muraglia forte e bene fondata, è molto difficile a minare, per essere contraminato bene per tutto e perché la sommità dell'acqua è molto vicina alla superficie della terra. Ed era il disegno di Consalvo, presa che avesse la cittadella, accostandosi alla scarpa del muro del castello, sforzarsi di rovinarlo con nuove mine; ma dalla temerità o dalla mala fortuna de' franzesi gli fu presentata maggiore occasione. Perché, poi che alla mina condotta alla sua perfezione fu fatto dare il fuoco da Pietro Navarra, aperse l'impeto della polvere il muro della cittadella; e nel tempo medesimo i fanti spagnuoli che stavano in battaglia aspettando questo, parte per la rottura del muro parte salendo con le scale da piú bande, entrorono dentro: e da altra parte i franzesi, usciti del castello, per non gli lasciare fermare nella cittadella andorono incontro a loro: dalle forze de' quali in poco tempo soprafatti, ritirandosi nel rivellino, gli spagnuoli alla mescolata con loro vi entrorono dentro, e spingendosi col medesimo impeto alla via della porta, dove non era allora il nuovo torrione il quale fece poi fabbricare Consalvo, accrebbono ne' franzesi, già inviliti, tanto il terrore che in meno d'una mezza ora, perduto al tutto l'animo, detteno il castello con le robe, delle quali vi era rifuggita quantità grandissima, e persone loro, a discrezione: ove restò prigione il conte di Montorio e molti altri signori. E riuscí questo acquisto piú opportuno, perché il dí seguente arrivò per soccorrerlo, da Genova, una armata di sei navi grosse e di molti altri legni carichi di vettovaglie d'armi e di munizioni, e con dumila fanti. In su l'approssimarsi della quale, l'armata spagnuola che era nel porto di Napoli si ritirò a Ischia; dove, intesa che ebbe la perdita di Castelnuovo, la seguitò l'armata franzese: ma avendo la spagnuola, per non essere sforzata a combattere, affondato innanzi a sé certe barche, poiché s'ebbono tirato qualche colpo d'artiglieria, l'una andò a Gaeta, l'altra assicuratasi per la partita sua ritornò al molo di Napoli.

                                                 Espugnato Castelnuovo, Consalvo intento allo acquisto di tutto il reame, non aspettato l'esercito di Calavria, il quale per levarsi tutti gli impedimenti del venire innanzi s'era fermato a conquistare la valle d'Ariano, mandò Prospero Colonna nello Abruzzi; ed egli, lasciato Pietro Navarra alla espugnazione di Castel dell'Uovo, si dirizzò col resto dello esercito a Gaeta: nella espugnazione della quale consisteva la perfezione della vittoria, perché la speranza e la disperazione de' franzesi dependeva totalmente dalla salvazione o dalla perdita di quella città, forte, marittima, e che ha porto tanto capace e sí opportuno alle armate mandate da Genova e di Provenza. Né erano perciò i franzesi ristretti in Gaeta sola, ma oltre a' luoghi circostanti che si tenevano per loro tenevano nello Abruzzi l'Aquila la Rocca d'Evandro e molte altre terre: e Luigi d'Ars, raccolti molti cavalli e fanti e fattosi forte col principe di Melfi in Venosa, molestava tutto il paese vicino; e Rossano, Matalona e molte altre terre forti, che erano di baroni della parte angioina, si conservavano costantemente alla divozione del re di Francia.

                                                 Faceva in questo tempo Pietro Navarra certe barche coperte, con le quali, accostatosi al muro di Castel dell'Uovo piú sicuramente, fece la mina dalla parte che guarda Pizzifalcone, non s'accorgendo quegli che erano dentro dell'opera sua; per la quale, dato il fuoco, balzò con grande impeto in aria una parte del masso insieme con gli uomini che vi erano sopra; per il qual caso spaventati gli altri fu subito presa la fortezza, con tanta riputazione di Pietro Navarra e con tanto terrore degli uomini che (come sono piú spaventevoli i modi nuovi dell'offese perché non sono ancora escogitati i modi delle difese) si credeva che alle sue mine muraglia o fortezza alcuna resistere piú non potesse. Ed era certamente cosa molto orribile che con la forza della polvere d'artiglieria, messa nella cava o veramente nella mina, si gittassino in terra grandissime muraglie. La quale specie d'espugnazione era stata la prima volta usata in Italia da' genovesi, co' quali, secondo che affermano alcuni, militava per fante privato Pietro Navarra, quando l'anno mille quattrocento ottantasette s'accamporono alla rocca di Serezanello tenuta da' fiorentini; ove con una cava fatta in simile modo aperseno parte della muraglia; ma non conquistando la rocca, per non essere la mina penetrata tanto sotto i fondamenti del muro quanto era necessario, non fu seguitato per allora l'esempio di questa cosa.

                                                 Ma approssimandosi Consalvo a Gaeta, Allegri, che aveva distribuito quattrocento lancie e quattromila fanti, di quegli che s'erano salvati della rotta, tra Gaeta, Fondi, Itri, Traietto e Rocca Guglielma, gli ritirò tutti in Gaeta; e vi entrorno insieme i príncipi di Salerno e di Bisignano il duca di Traietto il conte di Consa e molti baroni del regno, che prima si erano uniti con lui. Dopo la ritirata de' quali, Consalvo, insignoritosi di tutte quelle terre e della rocca di San Germano, alloggiò col campo nel borgo di Gaeta, col quale, poco poi, avendo presa la valle d'Ariano, si uní l'esercito di Calavria; e piantate le artiglierie batté con impeto grande dalla parte del porto e dalla parte del monte detto volgarmente il Monte di Orlando, congiunto e supereminente alla città, e il quale, cinto dipoi di mura da lui, era stato allora con ripari e con bastioni di terra fortificato da' franzesi: e avendo tentato invano, con due assalti non ordinati, di entrarvi, s'astenne finalmente di dare la battaglia ordinata, il dí che avevano determinato di darla, riputando la espugnazione difficile per il numero e virtú de' difensori, e considerando che quando bene l'esercito suo fusse per forza entrato nel monte si riduceva in maggior pericolo, perché sarebbe stato esposto alle artiglierie piantate nel monasterio e altri luoghi rilevati che erano in sul monte. Continuava nondimeno di battere con l'artiglierie e molestare la terra: stretta similmente dalla parte del mare, perché innanzi al porto erano diciotto galee spagnuole, delle quali era capitano don Ramondo di Cardona. Ma pochi dí poi arrivò una armata di sei caracche grosse genovesi sei altre navi e sette galee, carica di vettovaglie e di molti fanti, in sulla quale era il marchese di Saluzzo, mandato, per la morte del duca di Nemors, per nuovo viceré dal re di Francia, sollecito quanto era possibile alla conservazione di Gaeta, e perciò, parte in su questi legni parte in su altri che giunsono poco poi, vi mandò in pochi dí mille fanti corsi e tremila guasconi: per la venuta della quale armata l'armata spagnuola fu costretta a ritirarsi a Napoli; e Consalvo, disperando di potere farvi piú frutto alcuno, ridusse le genti a Mola di Gaeta e al Castellone, donde teneva Gaeta come assediata di largo assedio; avendovi perduto, parte nello scaramucciare parte nel ritirarsi, molti uomini, tra' quali fu ammazzato dall'artiglieria di dentro don Ugo di Cardona. Ma gli succedevano nel tempo medesimo prosperamente tutte le altre cose del regno: perché Prospero Colonna aveva preso la Rocca d'Evandro e l'Aquila, e tutte l'altre terre dello Abruzzi ridotte alla divozione spagnuola; e la Calavria quasi tutta la medesima ubbidienza seguitava, per l'accordo che nuovamente aveva fatto il conte di Capaccio con loro; né vi rimaneva altro che Rossano e Santa Severina, ove era assediato il principe di Rossano.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.2

                                                  

                                                 Successi de' fiorentini nella guerra contro Pisa. Trattative del Valentino coi pisani e sua ambizione al dominio della Toscana. Politica ambigua del pontefice e del Valentino verso il re di Francia. Aspirazione del pontefice e del Valentino agli stati di Giangiordano Orsini.

                                                  

                                                 Nel qual tempo non erano l'altre parti d'Italia vacue totalmente di sospetti e di fatiche. Perché i fiorentini, insino innanzi alle percosse che i franzesi ebbono nel reame, temendo le forze e gl'inganni del pontefice e del Valentino, avevano oltre a essersi proveduti d'altre armi condotto a' soldi loro e per governare tutte le loro genti, benché senza titolo, il baglí d'Occan capitano riputato nella guerra, con cinquanta lancie franzesi; persuadendosi che, per essere uomo del re di Francia e menando con volontà del re le cinquanta lancie che aveva da lui in condotta, quegli de' quali temevano avessino a procedere con piú rispetto, e che oltre a questo in ogni bisogno loro avessino a essere piú pronti gli aiuti regi: alla giunta del quale, raccolte insieme tutte le genti, tagliorono la seconda volta le biade de' pisani; non però per tutto il paese, perché l'entrare nel Valdiserchio non era senza pericolo, essendo quella valle situata tra monti e acque e in mezzo tra Lucca e Pisa. Espedito di dare il guasto, andò il campo a Vico Pisano, il quale si ottenne senza difficoltà: perché il baglí, minacciando cento fanti franzesi che v'erano dentro che e' sarebbono puniti come inimici del re e promettendo loro il soldo di uno mese, fu operatore che se n'uscissino; per la partita de' quali furono costretti quegli di Vico Pisano arrendersi liberamente. Preso Vico, si circondò subito la Verrucola dove erano pochi difensori, perché non vi entrasse nuova gente; e condottevi di poi per quegli monti aspri con difficoltà grande l'artiglierie, quegli di dentro aspettati pochi colpi s'arrenderono, salvo l'avere e le persone. È il sito del monte della Verrucola, nella sommità del quale era stata fabbricata una piccola fortezza, nelle guerre lunghe che si fanno nel contado di Pisa, di molta importanza; perché, vicino a Pisa a cinque miglia, non solo è opportuno a infestare il paese circostante, e insino in sulle porte di quella città, ma ancora a scoprire tutte le cavalcate e genti che n'escono; e il quale, in questa guerra, e da Paolo Vitelli e da altri era invano piú volte stato tentato. Ma la confidenza che i pisani aveano avuta che avesse a difendere Vico Pisano, senza l'acquisto del quale non potevano i fiorentini mettersi a campo alla Verrucola, era stata cagione che non l'aveano proveduta sufficientemente. Spaventò molto i pisani la perdita della Verrucola; e nondimeno, ancora che e' ricevessino tanti danni, avessino pochissimi soldati forestieri mancamento di danari carestia di vettovaglie, non si piegavano a ritornare all'ubbidienza de' fiorentini, mossi principalmente dalla disperazione di ottenere venia per la coscienza dell'offese gravissime fatte loro. La quale disposizione era necessario che conservassino, con grandissima diligenza e infinite arti, coloro che nel governo erano di maggiore autorità; perché pure a' contadini, senza i quali non erano sufficienti a difendersi, pareva grave il perdere le sue ricolte: perciò attendevano a nutrirgli con varie speranze, e insieme quegli del popolo che vivevano piú delle arti della pace che della guerra; con lettere finte e con diverse invenzioni mostrando (e le cose vere alle false mescolando, e ciò che in Italia di nuovo succedeva a proposito loro interpretando) che ora questo ora quell'altro principe in aiuto loro si moverebbono. Né erano però in queste estremità senza qualche aiuto e soccorso da' genovesi e da' lucchesi antichi inimici del nome fiorentino, e similmente da Pandolfo Petrucci poco grato de' benefici ricevuti; ma, quello che importava piú, erano eziandio nutriti, con qualche aiuto occulto ma con molto maggiori speranze, dal Valentino. Il quale, avendo lungamente avuto desiderio di insignorirsi di quella città, offertagli da' pisani medesimi, ma astenutosene per non offendere l'animo del re di Francia, ora, preso ardire dalle avversità sue nel regno di Napoli, trattava, con consentimento paterno, con gli imbasciadori pisani, i quali per questo erano stati mandati a Roma, di accettarne il dominio, distendendo, oltre a questo, i pensieri suoi a occupare tutta Toscana. Della qual cosa benché i fiorentini e i sanesi avessino grandissima sospezione, nondimeno, essendo impedito il bene universale dagli interessi particolari, non si tirava innanzi l'unione proposta dal re di Francia tra i fiorentini, bolognesi e sanesi; perché i fiorentini ricusavano di farla senza la restituzione di Montepulciano, come da principio era stato trattato e promesso, e Pandolfo Petrucci, avendone l'animo alieno benché le parole sonassino in contrario, allegava che il restituirlo gli conciterebbe tanto odio del popolo sanese che e' sarebbe necessitato a partirsi di nuovo di quella città, e però essere piú beneficio comune differire qualche poco per farlo con migliore occasione che, per restituirlo di presente, facilitare al Valentino l'occupare Siena; e cosí non negando ma prolungando si ingegnava che i fiorentini accettassino la speranza per effetto: le quali scuse, rifiutate da essi, erano per opera di Francesco da Narni, fermatosi per comandamento del re in Siena, accettate e credute nella corte di Francia.

                                                 Ma non era l'intenzione del pontefice e di Valentino di mettere mano a queste imprese se non quanto dessino loro animo i progressi dell'esercito che si preparava dal re di Francia, e secondo che da essi fusse deliberato dell'aderirsi piú all'uno re che all'altro: sopra che si facevano per essi in questo tempo vari pensieri, differendo quanto potevano il dichiarare la mente sua, non inclinata, se non quanto il timore fusse per costrignergli, al re di Francia, perché l'esperienza veduta nelle cose di Bologna e di Toscana gli privava di speranza di fare col favore suo maggiori acquisti. Perciò avevano cominciato, innanzi alla vittoria degli spagnuoli, ad alienarsi con la volontà ogni dí piú da lui, e dopo la vittoria, preso maggiore animo, non avevano piú il rispetto solito alla volontà e autorità sua; e ancora che avessino, subito dopo le rotte de' franzesi, affermato di volere seguitare la parte del re di Francia e fatto dimostrazione di soldare genti per mandarle ne reame, nondimeno tirati dalla cupidità di nuovi acquisti, né potendo levare gli occhi né rimuovere l'animo dalla Toscana, ricercandogli il re che si dichiarassino apertamente per lui, rispondeva il pontefice con tale ambiguità che ogni dí diventava piú sospetto, il figliuolo ed egli; la simulazione e dissimulazione de' quali era tanto nota nella corte di Roma che n'era nato comune proverbio che 'l papa non faceva mai quello che diceva e il Valentino non diceva mai quello che faceva. Né era ancora finita la contenzione loro con Giangiordano. Perché se bene il Valentino, temendo la indegnazione del re, si fusse, quando ricevé il comandamento suo, astenuto da molestarlo, nondimeno il pontefice, dimostrandone dispiacenza grandissima, non avea mai cessato di fare instanza col re che o gli concedesse l'acquistare con l'armi tutti gli stati di Giangiordano o costrignesse lui a riceverne ricompenso, dimostrando muoverlo a questo non l'ambizione ma giustissimo timore della sua vicinità, perché, essendosi trovato nelle scritture del cardinale Orsino uno foglio bianco sottoscritto di mano propria di Giangiordano, arguiva che nelle cose trattate alla Magione avea avuto contro a sé la medesima volontà e intelligenza che gli altri Orsini. Nella qual cosa il re, avendo per fine piú l'utilità che l'onestà, avea proceduto diversamente secondo la diversità de' tempi, ora dimostrandosi favorevole come prima a Giangiordano ora inclinato a sodisfare in qualche modo al pontefice. Però, avendo Giangiordano ricusato di deporre Bracciano in mano dell'oratore franzese che risedeva a Roma, dimandò il re che questa controversia fusse rimessa in sé, con patto che Giangiordano si trasferisse fra due mesi in Francia né si innovasse insino alla sua determinazione cosa alcuna; alla qual cosa acconsentí Giangiordano per necessità, perché avea sperato per i meriti paterni e suoi dovere essere in tutto liberato da questa molestia, e il pontefice piú per timore che per altro, essendo stata fatta la domanda nel tempo che l'arciduca in nome de' re di Spagna contrasse la pace. Ma mutata per la vittoria degli spagnuoli la condizione delle cose, il papa, vedendo il bisogno che il re aveva di lui, dimandava tutti gli stati suoi, offerendo quella ricompensa che fusse dichiarata dal re; il quale aveva, per la medesima cagione, indotto Giangiordano, benché malvolentieri, a consentirvi e a promettere di dargli, per sicurtà d'eseguire quel che il re dichiarasse, il figliuolo: perché la intenzione sua era non dare questi stati al pontefice se nel tempo medesimo non si congiugneva nella guerra napoletana apertamente con lui. Ma avendo recusato quegli di Pitigliano, dove il figliuolo era, di darlo a monsignore di Trans oratore del re, il quale era andato a Portercole per riceverlo, Giangiordano medesimo, che era ritornato, andò a Portercole a offerire all'oratore la propria persona; il quale accettatolo, impudentemente lo fece mettere in su una nave; benché, subito che 'l re n'ebbe notizia, comandò fusse liberato.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.6, cap.3

                                                  

                                                 Forze del re di Francia in Italia. Sospetti del re per la politica sempre ambigua del pontefice e del Valentino.

                                                  

                                                 Acceleravano intanto le provisioni ordinate per usarle di qua e di là da' monti. Perché in Ghienna erano andati, per rompere la guerra verso Fonterabia, monsignore di Alibret e il marisciallo di Gies con quattrocento lancie e cinquemila fanti tra svizzeri e guasconi; e nella Linguadoca, per muovere la guerra nella contea di Rossiglione, il marisciallo Ruis brettone con ottocento lancie e ottomila fanti, parte svizzeri parte franzesi; e nel tempo medesimo si moveva l'armata per infestare la costa di Catalogna e del regno di Valenza. E in Italia aveva espedito il re per capitano generale dell'esercito monsignore della Tramoglia, a cui allora per consentimento di tutti si dava il primo luogo, nell'armi, di tutto il reame di Francia; e aveva mandato il baglí di Digiuno a fare muovere ottomila svizzeri; e le genti d'arme e l'altre fanterie sollecitavano di camminare: non essendo però l'esercito tanto potente come da principio aveva disegnato, non perché fusse raffreddato l'ardore del re, né perché lo ritenesse o la impotenza o il desiderio di spendere meno, ma perché si conducesse nel regno di Napoli, come era giudicato molto utile, con maggiore celerità, e in parte perché Allegri, significandogli lo stato delle cose di là, aveva affermato essere piú gagliarde le reliquie dello esercito che in fatto non erano e piú ferme le terre e i baroni che ancora si tenevano a sua divozione, e perché aveva ricercato aiuto di gente da tutti quegli che in Italia gli aderivano; onde i fiorentini gli concederono il baglí d'Occan con le cinquanta lancie pagate da loro e cento cinquanta altri uomini d'arme, cento uomini d'arme per uno dettono il duca di Ferrara i bolognesi e il marchese di Mantova, il quale chiamato dal re v'andava in persona, e cento altri i sanesi. Le quali genti, aggiunte a ottocento lancie e cinquemila guasconi che conduceva in Italia la Tramoglia, e agli ottomila svizzeri che si aspettavano e a' soldati che erano in Gaeta, facevano il numero di mille ottocento lancie tra franzesi e italiane, e di piú di diciottomila fanti; oltre a' quali si era mossa l'armata marittima molto potente, sotto monsignore di... : di maniera che si confessava per ciascuno non essere memoria che alcuno re di Francia, computato le forze preparate per terra e per mare e di qua e di là da' monti, avesse mai fatto piú potente e maggiore preparazione.

                                                 Ma non era riputato sicuro che l'esercito regio passasse Roma se prima il re non era sicuro del pontefice e del Valentino, avendo causa giustissima di sospettarne per molte ragioni e per molti indizi, e perché per lettere intercette molto prima di Valentino a Consalvo si era compreso essere stato trattato tra loro che se Consalvo espugnava Gaeta, assicurato in caso tale delle cose del regno, passasse innanzi con l'esercito, occupasse Pisa il Valentino, e che uniti insieme Consalvo ed egli assaltassino la Toscana: e perciò il re, passato già l'esercito in Lombardia, faceva instanza grandissima che e' dichiarassino per ultimo la mente loro. I quali se bene udivano e trattavano con tutti, nondimeno giudicando essere il tempo comodo a fare mercatanzia de' travagli degli altri, aveano maggiore inclinazione a congiugnersi con gli spagnuoli; ma gli riteneva il pericolo manifesto che l'esercito franzese non cominciasse ad assaltare gli stati loro, e cosí, che avessino a cominciare a sentire danni e molestie donde disegnavano di conseguire premi ed esaltazione: nella quale ambiguità permettevano che ciascuna delle parti soldasse scopertamente fanti in Roma, differendo il piú potevano a dichiararsi. Ma essendo finalmente ricercatine strettamente dal re, offerivano che il Valentino si unirebbe con l'esercito suo con cinquecento uomini d'arme e dumila fanti, consentendogli il re non solamente le terre di Giangiordano ma eziandio l'acquisto di Siena; e nondimeno quando s'approssimavano alla conclusione variavano dalle cose trattate, introducendo nuove difficoltà, come quegli che per potere, secondo la loro consuetudine, pigliare consiglio dagli eventi delle cose, erano alieni dal dichiararsi. Però fu introdotta un'altra pratica, per la quale il pontefice, proponendo di non volere dichiararsi per alcuna delle parti per conservarsi padre comune, consentiva dare allo esercito franzese passo per il dominio della Chiesa, e prometteva durante la guerra nel regno di Napoli non molestare né i fiorentini né i sanesi né i bolognesi; le quali condizioni sarebbeno state finalmente, perché l'esercito passasse senza maggiore indugio nel reame, accettate dal re, ancora che conoscesse non essere questo partito né con onore né con sicurtà sua e di quegli che da lui in Italia dependevano: perché certezza alcuna non aveva che, se a' suoi nel reame sinistro alcuno sopravenisse, che il pontefice e il Valentino non se gli scoprissino contro; ed era oltre a questo mal sicuro che, uscite che fussino le genti sue di terra di Roma, essi, tenuto poco conto della fede, non assaltassino la Toscana, la quale per la sua disunione e per gli aiuti dati al re restava debole e quasi disarmata. E che avessino a tentare o questa o altra impresa era verisimile, poiché d'avere a conseguire di tanta occasione guadagni immoderati presupposto s'aveano.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.4

                                                  

                                                 Morte del pontefice; malattia del Valentino; giubilo di Roma per la morte del pontefice. Il Valentino si riconcilia con i Colonnesi. Torbidi in Roma. Ritorno di signori spodestati in terre dello stato pontificio e del Valentino. Accordi del Valentino col re di Francia. Il conclave e l'elezione di Pio III.

                                                  

                                                 Ma ecco che nel colmo piú alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da' caldi, è repentinamente portato per morto nel palazzo pontificale e incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dí seguente, che fu il decimo ottavo dí d'agosto, è portato morto secondo l'uso de' pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col vigore dell'età e per avere usato subito medicine potenti e appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e grave infermità. Credettesi costantemente che questo accidente fusse proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama piú comune, l'ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino, destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl'inimici o per assicurarsi de' sospetti ma eziandio per scelerata cupidità di spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai ricevuta offesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Santo Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e avendogli fatti consegnare a un ministro non consapevole della cosa, con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravenne per sorte il pontefice innanzi a l'ora della cena, e, vinto dalla sete e da' caldi smisurati ch'erano, dimandò gli fusse dato da bere, ma perché non erano arrivate ancora di palazzo le provisioni per la cena, gli fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino piú prezioso, dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino; il quale, sopragiugnendo mentre il padre beeva, si messe similmente a bere del medesimo vino. Concorse al corpo morto d'Alessandro in San Piero con incredibile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi d'alcuno di vedere spento un serpente che con la sua immoderata ambizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile crudeltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo senza distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato tutto il mondo; e nondimeno era stato esaltato, con rarissima e quasi perpetua prosperità, dalla prima gioventú insino all'ultimo dí della vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo piú di quello desiderava. Esempio potente a confondere l'arroganza di coloro i quali, presumendosi di scorgere con la debolezza degli occhi umani la profondità de' giudíci divini, affermano ciò che di prospero o di avverso avviene agli uomini procedere o da' meriti o da' demeriti loro: come se tutto dí non apparisse molti buoni essere vessati ingiustamente e molti di pravo animo essere esaltati indebitamente; o come se, altrimenti interpretando, si derogasse alla giustizia e alla potenza di Dio; la amplitudine della quale, non ristretta a' termini brevi e presenti, in altro tempo e in altro luogo, con larga mano, con premi e con supplíci sempiterni, riconosce i giusti dagli ingiusti.

                                                 Ma Valentino, ammalato gravemente in palazzo, ridusse intorno a sé tutte le sue genti; e avendo prima sempre pensato di fare, alla morte del padre, parte col terrore delle sue armi parte col favore de' cardinali spagnuoli, che erano undici, eleggere uno pontefice ad arbitrio suo, aveva al presente molto maggiore difficoltà che prima non s'era immaginato a questo e a tutti gli altri disegni, per la sua pericolosissima infermità: per il che si querelava con grandissima indegnazione che, avendo pensato molte volte in altri tempi a tutti gli accidenti che nella morte del padre potessino sopravenire, e a tutti pensato i rimedi, non gli era mai caduto nella mente potere accadere che nel tempo medesimo avesse egli a essere impedito da sí pericolosa infermità. Però, bisognandogli accomodare i consigli suoi non a disegni fatti prima ma alla necessità sopravenuta, parendogli non potere sostenere in un tempo medesimo l'inimicizia de' Colonnesi e degli Orsini e temendo non si unissino insieme contro a lui, si risolvé a fidarsi piú presto di quegli i quali aveva offesi solamente nello stato che di quegli i quali aveva offesi nello stato e nel sangue; e per questo, riconciliatosi prestamente co' Colonnesi e colla famiglia della Valle seguace della medesima fazione, e invitandogli a tornare negli stati propri, restituí loro le fortezze, le quali con spesa grande erano state fortificate e ampliate da Alessandro. Ma non bastava questo né alla sicurtà sua né a quietare la città di Roma, ove ogni cosa era piena di sospetti e di tumulti. Perché Prospero Colonna era venutovi e tutta la parte colonnese avea prese l'armi; e Fabio Orsino, venuto alle case loro in Montegiordano, aveva con turba grande di partigiani degli Orsini abbruciati alcuni fondachi e case di mercatanti e cortigiani spagnuoli (contro al nome della quale nazione erano concitati gli animi quasi di ciascuno, per la memoria delle insolenze che avevano usate nel pontificato d'Alessandro), e sitibondo del sangue del Valentino congregava molti soldati forestieri, e sollecitava Bartolomeo d'Alviano, che allora era agli stipendi de' veneziani, che venisse a vendicarsi, insieme con gli altri della famiglia loro, di tante ingiurie. Il Borgo e i Prati erano pieni di gente del Valentino; e i cardinali, giudicando non potere sicuramente congregarsi nel palazzo pontificale, si congregavano nel convento della chiesa della Minerva: nel qual luogo, fuora del costume antico, si cominciorono, ma piú tardi che 'l consueto, a fare le esequie d'Alessandro. Temevasi della venuta di Consalvo a Roma, massimamente perché Prospero Colonna avea lasciato a Marino certo numero di soldati spagnuoli, e perché per la riconciliazione del Valentino co' Colonnesi si era creduto che egli avesse convenuto di seguitare la parte spagnuola. Ma molto piú si temeva che non vi venisse l'esercito franzese, proceduto insino a quel dí lentamente perché i consigli publici de' svizzeri, spaventati per gl'infelici successi avuti da quella nazione nel regno di Napoli, erano stati molto sospesi innanzi concedessino a' ministri del re che soldassino de' fanti loro, e ricusando per la medesima cagione quasi tutti i capitani e fanti eletti di andarvi, erano stati soldati piú tardamente e dipoi stati lenti nel camminare. Ma per la morte del pontefice l'esercito, governato dal marchese di Mantova con titolo di luogotenente del re, e in compagnia sua, quanto all'effetto ma non in nome, dal baglí di Occan e da Sandricort (perché la Tramoglia ammalato s'era fermato a Parma) non aspettati i svizzeri, s'era condotto nel territorio di Siena con intenzione di andare a Roma, perché cosí avea commesso il re, ed eziandio che andasse a Ostia l'armata di mare che era a Gaeta, per impedire (secondo dicevano) se Consalvo volesse andare con l'esercito a Roma per costrignere i cardinali a eleggere ad arbitrio suo il nuovo pontefice. Soggiornorono nondimeno qualche dí tra Buonconvento e Viterbo, perché avendo, per le turbolenze di Roma, i mercatanti fatto difficoltà d'accettare le lettere di cambio mandate di Francia, i svizzeri condotti in quel di Siena recusavano, se prima non erano pagati, passare piú avanti.

                                                 Nel qual tempo non erano minori i tumulti nel territorio di Roma, e in molti altri luoghi dello stato della Chiesa e del Valentino. Perché gli Orsini e tutti i baroni romani ritornavano agli stati loro; i Vitelli erano tornati in Città di Castello; e Giampaolo Baglione aveva, sotto speranza d'un trattato, assaltato Perugia, e benché messo in fuga dagli inimici fusse stato costretto a partirsene, nondimeno tornatovi di nuovo con molta gente e con gli aiuti scoperti de' fiorentini, datovi uno assalto gagliardo, v'entrò dentro, non senza qualche uccisione degli inimici e de' suoi. Aveva e la terra di Piombino pigliato l'armi, e benché i sanesi si sforzassino di occuparla vi ritornò, col favore de' fiorentini, il vecchio signore. Il medesimo facevano negli stati loro il duca d'Urbino, i signori di Pesero, di Camerino e di Sinigaglia. Solamente la Romagna, benché non stesse senza sospetto de' viniziani, i quali a ­Ravenna molta gente riducevano, stava quieta, e inclinata alla divozione del Valentino; avendo per esperienza conosciuto quanto fusse piú stato tollerabile a quella regione il servire tutta insieme sotto un principe solo e potente che quando ciascuna di quelle città stava sotto un signore particolare, il quale né per la sua debolezza gli potesse difendere né per la povertà beneficare, piú tosto, non gli bastando le sue piccole entrate a sostentarsi, fusse costretto a opprimergli. Ricordavansi ancora gli uomini che, per l'autorità e grandezza sua e per l'amministrazione sincera della giustizia, era stato tranquillo quel paese da' tumulti delle parti, da' quali prima soleva essere vessato continuamente con spesse uccisioni d'uomini. Con le quali opere s'avea fatti benevoli gli animi de' popoli; e similmente co' benefici fatti a molti di loro, distribuendo soldi nelle persone armigere, uffici, per le terre sue e della Chiesa, nelle togate, e aiutando le ecclesiastiche nelle cose beneficiali appresso al padre: onde né l'esempio degli altri, che tutti si ribellavano, né la memoria degli antichi signori gli alienava dal Valentino. Il quale benché fusse oppressato da tante difficoltà, pure e gli spagnuoli e i franzesi facevano instanza grande, con molte promesse e offerte, di congiugnerselo: perché oltre al valersi delle sue genti speravano di guadagnare i voti de' cardinali spagnuoli per la futura elezione. Ma egli, benché per la reconciliazione fatta co' Colonnesi si fusse creduto che si fusse aderito agli spagnuoli, nondimeno non l'avendo indotto a quella altro che il timore che non si unissino con gli Orsini, e allora, secondo affermava, dichiarato di non volere essere tenuto a cosa alcuna contro al re di Francia, deliberò di seguitare la parte sua; perché, e in Roma, ove aveva sí vicino l'esercito, e negli altri suoi stati, poteva piú e nuocergli e giovargli che non potevano gli spagnuoli. Però, il primo dí di settembre, convenne col cardinale di San Severino e con monsignore di Trans oratore regio contraenti in nome del re, promettendo le genti sue all'impresa di Napoli, e a ogn'altra impresa contro a ciascuno eccetto che contro alla Chiesa; e da altra parte gli agenti predetti obligorno il re alla sua protezione con tutti gli stati possedeva, e ad aiutarlo alla recuperazione di quegli che aveva perduti. Dette oltre a questo il Valentino speranza di voltare i voti della maggiore parte de' cardinali spagnuoli al favore del cardinale di Roano; il quale, pieno di grandissima speranza d'avere a ottenere il pontificato con l'autorità co' danari e con l'armi del suo re, subito dopo la morte del pontefice si era partito di Francia per venire a Roma, menando seco oltre al cardinale di Aragona il cardinale Ascanio; il quale, cavato due anni innanzi della torre di Borges, era poi stato intrattenuto onoratamente nella corte e carezzato molto da Roano, sperando che nella prima vacazione del pontificato gli avesse a giovare molto l'antica riputazione e l'amicizie e dependenze grandi che egli soleva avere nella corte romana: fondamenti non molto saldi, perché né il Valentino poteva disporre totalmente de' cardinali spagnuoli, intenti piú, secondo l'uso degli uomini, all'utilità propria che alla remunerazione de' benefici ricevuti dal padre e da lui, e perché molti di loro, avendo rispetto a non offendere l'animo de' suoi re, non sarebbono trascorsi a eleggere in pontefice uno cardinale franzese; né Ascanio, se avesse potuto, arebbe consentito che Roano conseguitasse il pontificato, a perpetua depressione ed estinzione d'ogni speranza che avanzava a sé e alla casa sua.

                                                 Non si era dato ancora principio alla elezione del nuovo pontefice; non solo per essersi cominciate a celebrare piú tardi che 'l solito l'esequie del morto, innanzi alla fine delle quali, che durano nove dí, non entrano, secondo la consuetudine antica, i cardinali nel conclave, ma perché, per levare l'occasioni e i pericoli dello scisma in tanta confusione delle cose e in sí importante divisione de' príncipi, avevano i cardinali presenti consentito che si desse tempo a venire a' cardinali assenti: i quali benché fussino venuti, teneva sospeso il collegio il sospetto che l'elezione non avesse a essere libera, rispetto alle genti del Valentino e perché l'esercito franzese, ridotto finalmente tutto tra Nepi e l'Isola e che voleva distendersi insino a Roma, recusava di passare il fiume del Tevere se prima non si creava il nuovo pontefice, o per timore che la parte avversa non isforzasse il collegio a eleggere a modo suo o perché il cardinale di Roano volesse cosí, per piú sicurtà sua e per speranza di favorirsene al pontificato. Le quali cose, dopo molte contenzioni, recusando il collegio di volere altrimenti entrare nel conclave, pigliorono forma: perché il cardinale di Roano dette a tutto il collegio la fede sua che l'esercito franzese non passerebbe Nepi e l'Isola, e il Valentino consentí d'andarsene a Nepi e poi a Civita Castellana, mandati nel campo franzese dugento uomini d'arme e trecento cavalli leggieri sotto Lodovico dalla Mirandola e Alessandro da Triulzi; e il collegio, ordinati molti fanti per la guardia di Roma, dette autorità a tre prelati preposti alla custodia del conclave d'aprirlo se sentissino alcuno tumulto, acciò che, restando qualunque de' cardinali libero d'andare dove gli paresse, ciascuno perdesse la speranza di sforzargli. Entrorno finalmente i cardinali nel conclave, trentotto in numero; ove la disunione, solita in altri tempi a partorire dilazione, fu causa che accelerando creassino fra pochi dí il nuovo pontefice. Perché, non concordi della persona che avessino a eleggere, per l'altre loro cupidità e principalmente per la contenzione che era tra i cardinali dependenti dal re di Francia e i cardinali spagnuoli o dependenti da' re di Spagna, ma spaventati dal pericolo proprio, essendo le cose di Roma in tanti sospetti e tumulti, e dalla considerazione degli accidenti che, in tempi tanto difficili, sopravenire per la vacazione della sedia potevano, si inclinorono, consentendovi ancora il cardinale di Roano, al quale ogni dí piú mancava la speranza di essere eletto, a eleggere in pontefice Francesco Piccoluomini cardinale di Siena; il quale, perché era vecchio e allora infermo, ciascuno presupponeva dovere in brevissimo tempo terminare i suoi dí: cardinale certamente di intera fama, e giudicato per l'altre sue condizioni non indegno di tanto grado. Il quale, per rinnovare la memoria di Pio secondo, suo zio, e da cui era stato promosso alla degnità del cardinalato, assunse il nome di Pio terzo.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.6, cap.5

                                                  

                                                 Torbidi in Roma per l'inimicizia fra il Valentino e gli Orsini. Gli Orsini al soldo degli spagnoli. Contegno di Giampaolo Baglioni verso il re di Francia. Pace fra gli Orsini e i Colonnesi. Il Valentino assalito dagli Orsini si rifugia in Vaticano e, quindi, in Castel Sant'Angelo. Morte di Pio III ed elezione di Giulio II.

                                                  

                                                 Creato il pontefice, l'esercito franzese, non avendo piú causa di soprastare, indirizzandosi al cammino prima destinato, passò subito il fiume del Tevere; e nondimeno, né per la creazione del pontefice né per la partita dell'esercito, si quietavano i movimenti di Roma. Perché aspettandovisi l'Alviano e Giampaolo Baglione, che congiunti nel perugino facevano genti, il Valentino, oppresso ancora da grave infermità, temendo della venuta loro, era con centocinquanta uomini d'arme altrettanti cavalli leggieri e ottocento fanti ritornato in Roma, avendogli conceduto il salvocondotto il pontefice, il quale sperò potere piú facilmente fermare le cose con qualche composizione; ma essendo tra le medesime mura il Valentino e gli Orsini accesi da sete giustissima del suo sangue, e accumulando continuamente nuove genti, perché, se bene avevano dimandato contro a lui espedita giustizia al pontefice e al collegio de' cardinali, facevano il fondamento principale di vendicarsi in sull'armi, almeno come prima fussino giunti Giampagolo Baglione e l'Alviano, Roma e il Borgo, dove alloggiava il Valentino, quasi continuamente tumultuavano.

                                                 La quale contenzione non solamente turbava il popolo romano e la corte ma nocé, come si crede, molto alle cose franzesi. Perché preparandosi gli Orsini per andare, espediti che fussino delle cose del Valentino, agli stipendi o del re di Francia o de' re di Spagna, e giudicandosi dovere essere di non piccolo momento alla vittoria della guerra l'armi loro, erano invitati con ampie condizioni da ciascuna delle parti; ma essendo naturalmente piú studiosi del nome franzese, il cardinale di Roano condusse, in nome del suo re, Giulio Orsino, il quale contrasse seco in nome di tutta la casa, eccettuato l'Alviano a cui fu riserbato luogo con onorate condizioni. Ma si turbò ogni cosa per la venuta sua, perché se bene nel principio rimanesse quasi concorde col medesimo cardinale, nondimeno, ristrettosi quasi in uno momento con l'oratore spagnuolo, condusse co' suoi re sé e tutta la famiglia Orsina, eccetto Giangiordano, con cinquecento uomini d'arme e provisione di sessantamila ducati ciascuno anno. Alla quale deliberazione lo indusse principalmente, secondo che esso, creduto in questo da molti, costantemente affermava, lo sdegno che 'l cardinale, acceso piú che mai dalla cupidità del pontificato, favorisse il Valentino per la speranza di conseguire per mezzo suo la maggiore parte de' voti de' cardinali spagnuoli: benché il cardinale, scaricando la colpa che si dava a sé con imputazione di altri, dimostrasse di persuadersi esserne stati autori i viniziani, i quali, per desiderio che 'l re di Francia non ottenesse il reame di Napoli, non solo a questo effetto avessino consentito che egli si partisse da' soldi loro, promettendo, secondo si diceva, di riservargli il luogo medesimo, ma ancora avessino, perché il principio de' pagamenti fusse piú pronto, prestato all'oratore spagnuolo quindicimila ducati; il che se bene non era al tutto certo, non si poteva almeno negare lo imbasciadore viniziano essersi interposto manifestamente in questa pratica. Altri affermavano esserne stata cagione l'avere ottenute piú ampie condizioni dagli spagnuoli, perché si obligorono a dare stati nel regno di Napoli a lui e agli altri della casa, ed entrate ecclesiastiche al fratello e, quel che da lui era stimato molto, a concedergli, finita che fusse la guerra, sussidio di dumila fanti spagnuoli, per la impresa la quale aveva in animo di fare contro a' fiorentini in favore di Piero de' Medici.

                                                 Credettesi che Giampaolo Baglioni, che era venuto a Roma insieme con l'Alviano, cosí come, seguitando l'esempio suo, trattava in uno tempo medesimo di condursi co' franzesi e con gli spagnuoli lo seguitasse similmente nella deliberazione. Ma il cardinale di Roano, attonito della alienazione degli Orsini, per la quale si conosceva essere ridotte in dubbio le speranze prima quasi certe de' franzesi, lo condusse subito, concedendogli qualunque condizione dimandò, agli stipendi del suo re con cento cinquanta uomini d'arme, benché sotto nome de' fiorentini, perché cosí volle Giampagolo per essere piú sicuro di ricevere a tempi debiti i pagamenti: i quali si aveano a compensare in quello che dovevano al re per virtú delle loro convenzioni. E nondimeno Giampagolo, ritornato a Perugia per mettere in ordine le genti, e ricevuti ducati quattordicimila, governandosi piú secondo i successi delle cose comuni o secondo le passioni e interessi suoi che secondo quello che conviene all'onore e alla fede de' soldati, e differendo l'andare all'esercito franzese con varie scuse, non si mosse da Perugia; il che il cardinale di Roano interpretò essere proceduto perché Giampaolo, imitando la fede poco sincera de' capitani d'Italia, avesse, insino quando fu condotto, promesso a Bartolomeo d'Alviano e agli spagnuoli di cosí fare.

                                                 Con la condotta degli Orsini si congiunse la pace tra loro e i Colonnesi, stipulata nell'ora medesima nella abitazione dell'oratore spagnuolo, nel quale e nell'oratore viniziano rimessono concordemente tutte le differenze. Per l'unione de' quali il Valentino impaurito, avendo deliberato di partirsi di Roma e già movendosi per andare a Bracciano, perché Giangiordano Orsino aveva data la fede al cardinale di Roano di condurvelo sicuro, Giampaolo e gli Orsini, disposti di assaltarlo, non avendo potuto per il ponte di Castel Sant'Angelo entrare nel Borgo, usciti di Roma e condotti con lungo circuito alla porta del Torrone, la quale era chiusa, l'abbruciorono, ed entrati dentro cominciorono a combattere con alcuni cavalli del Valentino; e benché in aiuto suo concorressino molti soldati franzesi i quali non erano partiti ancora di Roma, nondimeno essendo maggiori le forze e grande l'impeto degli inimici, e facendo le genti sue, il numero delle quali era prima molto diminuito, segno di abbandonarlo, fu costretto insieme col principe di Squillaci e alcuni de' cardinali spagnuoli rifuggirsi nel palagio di Vaticano; donde si ritirò subito in Castel Sant'Angelo, ricevuta con consenso del pontefice la fede dal castellano, il quale era quel medesimo che a tempo del pontefice passato, di lasciarnelo, ogni volta volesse, partire salvo: e le sue genti tutte si dispersono. Fu ferito in questo tumulto, benché leggiermente, il baglí di Occan, e il cardinale di Roano ebbe quello giorno molto timore di se medesimo.

                                                 Rimossa per questo accidente la materia degli scandoli si rimossono medesimamente di Roma i tumulti, di maniera che quietamente si cominciò a dare opera alla elezione del nuovo pontefice: perché Pio, non ingannando la speranza conceputa nella sua creazione da' cardinali, era, ventisei dí dopo l'elezione, passato a vita migliore. Dopo la morte del quale essendosi differito dal collegio de' cardinali alquanti dí l'entrare in conclave, perché vollono che prima uscissino di Roma gli Orsini, rimastivi per fare il numero delle genti della condotta loro, si stabilí fuori del conclave la elezione; perché il cardinale di San Piero a Vincola, potente di amici di riputazione e di ricchezze, aveva tirati a sé i voti di tanti cardinali che, non avendo ardire di opporsegli quegli che erano di contraria sentenza, entrando in conclave già papa certo e stabilito, fu, con esempio incognito prima alla memoria degli uomini, senza che altrimenti si chiudesse il conclave, la notte medesima, che fu la notte dell'ultimo dí di ottobre, assunto al pontificato. Il quale, o risguardando al nome suo primo di Giuliano o, come fu la fama, per significare la grandezza de' suoi concetti o per non cedere, eziandio nella eccellenza del nome, ad Alessandro, assunse il nome di Giulio; secondo, tra tutti i pontefici passati, di tale nome. Grande fu certamente la maraviglia universale che il pontificato fusse stato deferito, con tanta concordia, a uno cardinale il quale era notissimo essere di natura molto difficile e formidabile a ciascuno; e il quale, inquietissimo in ogni tempo e che aveva consumato la età in continui travagli, aveva per necessità offeso molti ed esercitato odii e inimicizie con molti uomini grandi. Ma apparirono da altra parte manifestamente le cagioni per le quali, superate tutte le difficoltà, fu esaltato a tanto grado. Perché, per essere stato lungamente cardinale molto potente, e per la magnificenza con la quale aveva sempre trapassato tutti gli altri e per la grandezza rarissima del suo animo, non solo aveva amici assai ma autorità molto inveterata nella corte, e otteneva nome di essere precipuo difensore della degnità e libertà ecclesiastica. Ma molto piú ve lo promossono le promissioni immoderate e infinite fatte da lui a cardinali a príncipi a baroni e a ciascuno che gli potesse essere utile a questo negozio, di quanto seppono dimandare. Ed ebbe oltre a ciò facoltà di distribuire danari e molti benefici e degnità ecclesiastiche, cosí delle sue proprie come di quelle di altri, perché alla fama della sua liberalità molti concorrevano spontaneamente a offerirgli che usasse a proposito suo i danari il nome gli uffici e i benefici loro; né fu considerato per alcuno essere molto maggiori le sue promesse di quello che poi, pontefice, potesse o dovesse osservare, perché aveva lungamente avuto nome tale d'uomo libero e veridico che Alessandro sesto, inimico suo tanto acerbo, mordendolo nell'altre cose, confessava lui essere uomo verace: la quale laude egli, sapendo che niuno piú facilmente inganna gli altri che chi è solito e ha fama di mai non gli ingannare, non tenne conto, per conseguire il pontificato, di maculare. Assentí a questa elezione il cardinale di Roano, perché, disperando di potere ottenere il pontificato per sé, sperò che, per le dependenze passate, avesse a essere amico del suo re come insino allora era stato riputato. Assentivvi il cardinale Ascanio riconciliato prima con lui, deposta la memoria delle antiche contenzioni che avevano avute insieme quando, cardinali tutt'a due innanzi al pontificato di Alessandro, seguitavano la corte romana; perché conoscendo, meglio che non aveva fatto il cardinale di Roano, la sua natura, sperò che diventato pontefice avesse ad avere la inquietudine medesima o maggiore di quella che aveva avuta in minore fortuna, e concetti tali che gli potrebbono aprire la via a ricuperare il ducato di Milano. Assentironvi similmente, se bene prima n'avessino l'animo alienissimo, i cardinali spagnuoli: perché, vedendo concorrervi tanti altri e perciò temendo non essere sufficienti a interrompere la sua elezione, giudicorono essere piú sicuro il mitigarlo consentendo che esasperarlo negando, e confidando in qualche parte nelle promesse grandi che ottennono da lui; e indotti dalle persuasioni e da' prieghi del Valentino, ridotto in tale calamità che era necessitato a seguitare qualunque pericoloso consiglio, e ingannato non meno che gli altri dalle speranze sue; perché gli promesse di collocare la figliuola in matrimonio a Francesco Maria della Rovere prefetto di Roma, suo nipote, confermargli il capitanato delle armi della Chiesa e, quello che importava piú, aiutarlo a recuperare gli stati di Romagna, i quali già tutti, dalle fortezze in fuora, si erano alienati dalla ubbidienza sua.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.6

                                                  

                                                 L'azione dei veneziani in Romagna. La questione di Faenza fra il pontefice ed i veneziani. Faenza si dà ai veneziani. Il Valentino in potere del pontefice. Conferma della legazione pontificia in Francia al card. di Roano.

                                                  

                                                 Le cose della quale provincia, piena di molte novità e mutazioni, tormentavano con vari pensieri l'animo del pontefice, conoscendosi per allora impotente a disporla ad arbitrio suo, e con difficoltà potendo tollerare che la grandezza de' viniziani vi si ampliasse. Perché, come in Romagna si era inteso la fuga del Valentino in Castel Santo Agnolo e l'essersi dissipate le genti che erano seco, quelle città che prima cupidamente l'avevano aspettato, perduta la speranza della sua venuta, cominciorno a prendere diversi partiti. Cesena era tornata alla divozione antica della Chiesa; Imola, essendo stato il castellano della rocca per opera di alcuni principali cittadini ammazzato, stava sospesa, desiderando alcuni il dominio della Chiesa altri desiderando di ritornare sotto i Riari primi signori. La città di Furlí, stata posseduta lungamente dagli Ordelaffi innanzi che per concessione di Sisto pontefice pervenisse ne' Riari, aveva richiamato Antonio della medesima famiglia; il quale, avendo prima tentato di entrarvi con favore de' viniziani ma dipoi temendo che essi, per occuparla per sé, non usassino il nome suo, ricorrendo a' fiorentini vi era ritornato con aiuto loro. In Pesero era ritornato Giovanni Sforza, in Rimini Pandolfo Malatesta; l'uno e l'altro chiamati dal popolo: ma Dionigi di Naldo, soldato antico del Valentino, richiesto dal castellano di Rimini andò in soccorso suo; però, essendosene fuggito Pandolfo, la città ritornò sotto il nome del Valentino. Faenza sola era perseverata nella divozione sua piú lungamente; ma privata alla fine della speranza del suo ritorno, rivolgendosi alle reliquie de' Manfredi suoi antichi signori, chiamò Astore, giovane di quella famiglia ma naturale, perché non vi erano de' legittimi. Ma i viniziani, aspirando al dominio di tutta la Romagna, avevano, subito dopo la morte di Alessandro, mandati a Ravenna molti soldati, co' quali una notte all'improviso assaltorono con grande impeto la città di Cesena; il popolo della quale difendendosi virilmente, essi, che erano andativi senza artiglierie e sperando piú nel furto che nella forza, si ritornorono nel contado di Ravenna, intenti a tutte le cose che potessino dare loro occasione di distendersi in quella provincia. La quale si presentò loro prontamente, per la discordia tra Dionigi di Naldo e i faventini: perché essendo molestissimo a Dionigi che i faventini ritornassino sotto i Manfredi, da' quali si era ribellato quando il Valentino assaltò quella città, chiamati i viniziani, dette loro le fortezze di Valdilamone che erano guardate da lui; i quali poco dipoi messono nella rocca di Faenza trecento fanti, introdottivi dal castellano corrotto con danari. Occuporono similmente, nel tempo medesimo, il castello di Furlimpopolo e molte altre castella della Romagna, e mandorono una parte delle loro genti a pigliare la città di Fano; ma il popolo costantemente si difese per la Chiesa. Furono ancora introdotti in Arimini con volontà del popolo, avendo prima convenuto con Pandolfo Malatesta di dargli in ricompenso la terra di Cittadella nel territorio padovano, provisione annua e condotta perpetua di gente d'arme; e si voltorono dipoi con sommo studio alla oppugnazione di Faenza, perché i faventini, non spaventati per la perdita della rocca (la quale perché è edificata in luogo basso, e perché subito con uno fosso profondo avevano separata dalla città, poteva poco nuocergli), resistevano virilmente, affezionati al nome de' Manfredi, e sdegnati che dagli uomini di Valdilamone avesse a essere promesso ad altri il dominio di Faenza. Ma impotenti a difendersi da loro medesimi, perché i viniziani sotto Cristoforo Moro proveditore avevano accostato l'esercito e l'artiglierie alla terra e occupato i luoghi piú importanti del contado, ricercavano aiuto da Giulio già assunto al pontificato: al quale era molestissima questa audacia, ma essendo nuovo in quella sedia e senza forze e senza danari, né sperando aiuto né dal re di Francia né di Spagna, occupati in maggiori pensieri, e perché recusava di congiugnersi con alcuno di loro, non poteva provedervi se non con l'autorità del nome pontificale. La quale per fare esperienza quanto valesse appresso al senato viniziano, insieme col rispetto della amicizia tenuta lungo tempo da lui con quella republica, mandò il vescovo di Tivoli a Vinegia a lamentarsi che, essendo Faenza città della Chiesa, non si astenessino di fare questo disonore a uno pontefice il quale, innanzi che ascendesse a quel grado, era stato sempre congiuntissimo con la loro republica, e dal quale, salito ora a maggiore fortuna, potevano sperare frutti abbondantissimi della antica benivolenza.

                                                 È credibile che nel senato non mancassino di quegli medesimi che avevano già dissuaso lo implicarsi nelle cose di Pisa, il ricevere in pegno i porti del reame di Napoli e il dividere col re di Francia il ducato di Milano, i quali considerassino quel che potesse partorire il diventare ogni dí molto piú esosi e sospetti a molti, e aggiugnere all'altre inimicizie quella de' pontefici; ma essendo stati i consigli ambiziosi favoriti da successi tanto felici, e però spiegate tutte le vele al vento sí prospero della fortuna, non erano udite le parole di quegli che consigliavano il contrario. Però, fu con grande unione risposto allo imbasciadore del pontefice avere sempre quel senato sommamente desiderato che il cardinale di San Piero in Vincola ascendesse al pontificato, per l'amicizia lunghissima confermata con offici e benefici innumerabili dati e ricevuti da ciascuna delle parti, né essere da dubitare che colui che avevano tanto osservato quando era cardinale non osservassino ora molto piú quando era pontefice; ma non conoscere già in quello che offendessino la sua degnità abbracciando l'occasione, la quale se gli era offerta, di avere Faenza, perché quella città non solamente non era posseduta dalla Chiesa ma la Chiesa medesima si era spontaneamente spogliata di tutte le sue ragioni, avendone nel concistorio trasferito nel duca Valentino sí pienamente il dominio. Ricordargli che, eziandio innanzi a questa concessione, non avevano alla memoria degli uomini posseduto mai i pontefici Faenza, anzi di tempo in tempo l'avevano conceduta a nuovi vicari, non vi riconoscendo altra superiorità che il censo; il quale offerivano prontamente di pagare, in caso vi fussino obligati: né già i faventini desiderare il dominio della Chiesa anzi, aborrendolo, avere insino all'estremo adorato il nome del Valentino, e mancata di questo ogni speranza essersi precipitati a chiamare i bastardi della famiglia de' Manfredi. Supplicarlo finalmente che, pontefice, volesse conservare verso il senato viniziano il medesimo amore che aveva avuto quando era cardinale.

                                                 Arebbe il pontefice, poi che fu certificato dell'animo de' viniziani mandato il duca Valentino in Romagna, il quale raccolto da lui, subito che ascese al pontificato, con grande onore e dimostrazione di benivolenza, alloggiava nel palagio pontificale, ma se ne astenne, dubitando che l'andata sua la quale da principio sarebbe stata grata a tutti i popoli non fusse ora molto odiosa, poiché già tutti si erano ribellati da lui. Restava solamente a' faventini il ricorso de' fiorentini: i quali, malcontenti che una città tanto vicina pervenisse in potestà de' viniziani, vi avevano da principio mandato dugento fanti e nutritigli con grande speranza di mandarvi altre genti, per dare loro animo a sostenersi tanto che il pontefice avesse tempo a soccorrergli; ma vedendo che il pontefice non era disposto a pigliare l'armi, e che né l'autorità del re di Francia, il quale aveva da principio confortato i viniziani a non molestare gli stati del Valentino, era bastante a raffrenargli, non volendo soli implicarsi in guerra con inimici tanto potenti, s'astennono dal mandare loro maggiori aiuti. Però i faventini, esclusi di ogni speranza, e avendo già l'esercito viniziano, il quale era alloggiato alla chiesa della Osservanza, cominciato a battere con l'artiglierie le mura della città, commossi ancora per essersi scoperto uno trattato e presi alcuni che avevano congiurato di mettere dentro i viniziani, dettono loro la città; i quali si convennono di dare ad Astore certa sovvenzione, benché piccola, per la sua vita. Avuta Faenza, i viniziani arebbono occupato facilmente Imola e Furlí, ma per non irritare piú il pontefice, che maravigliosamente si risentiva, mandate le genti alle stanze deliberorono per allora non procedere piú oltre: avendo occupato in Romagna, oltre a Faenza e Arimini co' suoi contadi, Montefiore, Santarcangelo, Verrucchio, Gattea, Savignano, Meldola, Porto Cesenatico, Russi e, del territorio d'Imola, Tosignano, Solaruolo e Montebattaglia. Tenevansi per il Valentino in Romagna solamente le rocche di Furlí di Cesena di Furlimpopolo e di Bertinoro, le quali egli, con tutto che molto desiderasse di andare in Romagna, arebbe, perché non fussino occupate da' viniziani, consentito di darle in custodia al pontefice, con obligazione di riaverle da lui quando fussino assicurate; ma il pontefice, non essendo ancora superata dalla forza della dominazione l'antica sua sincerità, aveva recusato, dicendo non volere spontaneamente accettare l'occasioni che lo invitassino a mancargli della fede. Finalmente, per opporsi in qualche modo a' progressi de' viniziani, molestissimi per il pericolo dello stato ecclesiastico al pontefice, desideroso oltre a questo che il Valentino si partisse da Roma, fu convenuto con lui (interponendosi in questa convenzione oltre al nome del pontefice il nome del collegio de' cardinali) che 'l Valentino per mare se n'andasse alla Spezie e di quivi, per terra, a Ferrara e dipoi a Imola, ove si conducessino cento uomini d'arme e cento cinquanta cavalli leggieri che ancora seguitavano le sue bandiere. Con la quale resoluzione essendo andato a Ostia per imbarcarsi, il pontefice, pentitosi di non avere accettato le fortezze e già disposto, in qualunque modo potesse averle, a ritenerle per sé, mandò a lui i cardinali di Volterra e di Surrento, a persuadergli che per ovviare che quelle terre non andassino in mano de' viniziani fusse contento deporle in lui, sotto la medesima promessa che si era trattata in Roma: ma recusando il Valentino di farlo, il pontefice sdegnato lo fece ritenere in sulle galee in sulle quali era già montato, e dipoi con onesto modo menare alla Magliana, donde, giubilando tutta la corte e tutta Roma della sua retenzione, fu condotto in palazzo, ma onorato e carezzato, benché con diligente guardia, perché il pontefice, temendo che i castellani, disperati della salute sua, non vendessino le fortezze a' viniziani, cercava d'avere da lui i contrasegni con umanità e con piacevolezza. Cosí la potenza del duca Valentino, cresciuta quasi subitamente non manco con la crudeltà e con le fraudi che con l'armi e con la potenza della Chiesa, terminò con piú subita ruina; esperimentando in se medesimo di quegli inganni co' quali il padre ed egli avevano tormentati tanti altri. Né ebbono migliore fortuna le sue genti, che condotte in quel di Perugia, con speranza che da' fiorentini e altri fusse fatto loro salvocondotto, scoprendosi alle spalle le genti de' Baglioni de' Vitelli e de' sanesi, si ridusseno, per salvarsi, in sul paese de' fiorentini; dove essendosi distese tra Castiglione e Cortona, e ridotte al numero di quattrocento cavalli e pochi fanti, furono per ordine de' fiorentini svaligiate, e fatto prigione don Michele che le guidava. Il quale fu poi da loro conceduto al pontefice, che lo dimandò con somma instanza, avendo in odio tutti i ministri di quel pontificato, per essere egli stato fidatissimo ministro ed esecutore di tutte le sceleratezze del Valentino; benché (come per natura si mitigava facilmente verso coloro contro a' quali era in potestà sua lo incrudelire) non molto dipoi lo liberasse.

                                                 Partissi in questo tempo da Roma il cardinale di Roano per ritornarsene in Francia, ottenuta da Giulio, piú per non avere avuto ardire di dinegarla che per libera volontà, la confermazione della legazione di quel reame; ma non lo seguitò già il cardinale Ascanio, con tutto che quando partí di Francia avesse promesso al re con giuramento di ritornarvi: dal quale giuramento si era prima fatto occultamente assolvere dal pontefice. Ma l'esempio dell'essere stata la sua credulità schernita dal cardinale Ascanio non fece il cardinale di Roano piú cauto nelle cose di Pandolfo. Il quale, ricevutolo in Siena con grandissimo onore e insinuatosegli con grande astuzia e con artificiosi consigli, e promettendogli la restituzione di Montepulciano a' fiorentini, gli persuase tanto della sua fede e della devozione verso il re che 'l cardinale, come fu in Francia, oltre all'affermare non avere trovato in tutta Italia uomo piú saggio di Pandolfo, fu operatore che 'l re concedesse che Borghese suo figliuolo, mandato in Francia per sicurtà dell'osservanza delle promesse paterne, se ne ritornasse a Siena. -

                                                  

                                                  

                                                 Lib.6, cap.7

                                                  

                                                 Sfortuna dei francesi nella guerra contro la Spagna. Cessazione delle operazioni alla frontiera franco spagnola. La lotta al Garigliano. Infermità nell'esercito francese e discordia fra i capitani. Sconfitta dei francesi; resa di Gaeta. Le cause della sconfitta francese.

                                                  

                                                 Queste furono le mutazioni che succederono in Italia per la morte del pontefice. Ma in questi tempi medesimi l'imprese cominciate con tanta speranza dal re di Francia di là da' monti erano ridotte in molta difficoltà. Perché l'esercito andato a' confini di Guascogna, per mancamento di danari e per poco governo di chi lo comandava, si era prestamente risoluto; e l'armata di mare, avendo scorso con piccolo frutto per i mari di Spagna, si era ritirata nel porto di Marsilia. E l'esercito andato verso Perpignano, ne' progressi del quale il re molto confidava essendo continuamente bene proveduto di tutte le cose necessarie, si era posto a campo a Sals, fortezza vicina a Nerbona posta a' piedi de' monti Pirenei nel contado di Rossiglione, la quale essendo bene difesa faceva gagliarda resistenza; e ancoraché da' franzesi fusse valorosamente combattuta, e usate tutte le diligenze di battere le mura con l'artiglierie e di rovinarle con le mine, nondimeno non potettono mai ottenerla: anzi, essendosi congregato per soccorrerla grandissimo esercito di tutti i regni di Spagna a Perpignano, ove era venuta la persona del re, e unitesi a questo esercito, per la resoluzione de' franzesi che erano stati mandati verso Fonterabia, le genti che erano andate a difendere quella frontiera, e tutti insieme movendosi per assaltare l'esercito franzese, i capitani conoscendosi inferiori si ritirorno col campo verso Nerbona, essendo già stati intorno a Sals circa quaranta dí. Dietro a' quali entrorno gli spagnuoli ne' confini del re di Francia; e prese alcune terre di piccola importanza, essendo i franzesi fermatisi a Nerbona stativi pochi dí, si ritirorono ne' terreni loro per comandamento del suo re, che avendo conseguito quel che è il proprio fine di chi è assaltato nutriva malvolentieri la guerra di là da' monti, conscio che i suoi regni potentissimi a difendersi dal re di Francia erano deboli a offenderlo: né molti dí poi, interponendosene il re Federigo, feciono insieme tregua per cinque mesi, per le cose oltramontane solamente. Perché Federigo, essendogli data intenzione dal re di Spagna di consentire alla restituzione sua nel regno di Napoli, e sperando che il medesimo avesse a consentire il re di Francia, appresso al quale, indotta a compassione, si affaticava molto per lui la reina di Francia, aveva introdotto tra loro pratiche di pace: per le quali, mentre che ardeva la guerra in Italia, andorno in Francia imbasciadori del re di Spagna, governandosi con tanto artificio che Federigo si persuadeva che la difficoltà della sua restituzione, contradetta estremamente da' baroni della parte angioina, consistesse principalmente nel re di Francia.

                                                 Essendo adunque ridotte tutte le guerre de' due re nel regno di Napoli, erano volti a quella parte gli occhi e i pensieri di ciascuno. Perché i franzesi, partiti da Roma e passati per le terre di Valmontone e de' Colonnesi, per le quali furono concedute loro volontariamente le vettovaglie, camminavano per la campagna ecclesiastica inverso San Germano; ove Consalvo, messa guardia in Roccasecca e in Montecasino, si era fermato, non con intenzione di tentare la fortuna ma di proibire che non passassino piú innanzi, il che per la fortezza del sito sperava agevolmente potere fare. Arrivati i franzesi a Pontecorvo e a Cepperano, si uní con loro il marchese di Saluzzo con le genti di Gaeta; avendo prima, per l'occasione della partita di Consalvo, ricuperato il ducato di Traietto e il contado di Fondi insino al fiume del Garigliano. Fu la prima fatica dello esercito franzese la oppugnazione di Roccasecca; dalla quale, dato che v'ebbono invano uno assalto, si levorono, ma divenutine in tanto dispregio che publicamente si affermava, nell'esercito spagnuolo, quel giorno avere assicurato il reame di Napoli da' franzesi. I quali per questo, diffidandosi di spuntare gli inimici dal passo di San Germano, deliberorno voltarsi al cammino della marina; e perciò, poiché furono stati due dí fermi in Aquino, preso da loro, lasciati settecento fanti in Rocca Guglielma, ritornati indietro a Pontecorvo, andorno per la via di Fondi ad alloggiare alla torre posta in su il passo del fiume del Garigliano, nel quale luogo è fama essere già stata la città antichissima di Minturne: alloggiamento non solo opportuno per gittare il ponte e passare il fiume, come era la loro intenzione, ma comodissimo in caso fussino necessitati a soggiornarvi, imperocché avevano Gaeta e l'armata di mare alle spalle, Traietto, Itri, Fondi e tutto il paese insino al Garigliano a sua divozione. Riputavasi che nel passare l'esercito franzese il fiume consistesse momento grande alla vittoria, perché, essendo Consalvo tanto inferiore di forze che non poteva opporsi in sulla campagna aperta, rimaneva libero a' franzesi il cammino insino alle mura di Napoli; alle quali si sarebbe medesimamente accostata l'armata, che non aveva opposizione alcuna per mare. Perciò Consalvo, partitosi da San Germano, era venuto dall'altra parte del Garigliano, per opporsi con tutte le forze sue perché i franzesi non passassino: confidandosi di poterlo proibire, per il disavvantaggio e difficoltà che hanno gli eserciti nel passare, quando gli inimici si oppongono, i fiumi che non si guadano. Ma, come spesso accade, riuscí piú facile quello che prima si riputava piú difficile, e per contrario piú difficile quel che da tutti era stimato dovere essere piú facile: perché i franzesi, ancora che gli spagnuoli si sforzassino di vietarlo, gittato il ponte, guadagnorono il passo del fiume per forza delle artiglierie, piantate parte in sulla ripa dove alloggiavano, piú alta alquanto che la ripa opposita, parte in sulle barche levate dalla armata e condotte contro al corso dell'acqua. Ma avendo il dí seguente cominciato a passare si opposeno loro gli spagnuoli, e assaltando quegli che già erano passati, con grande animosità, gli rimessono sino a mezzo il ponte; e arebbeno seguitatigli piú oltre se dal furore delle artiglierie non fussino stati costretti a ritirarsi. Morí in questo assalto dalla parte de' franzesi il luogotenente del baglí di Digiuno, e dell'esercito spagnuolo Fabio figliuolo di Pagolo Orsino, giovane tra i soldati italiani di non piccola espettazione. Fu fama che se i franzesi, quando cominciorono a passare, fussino proceduti innanzi virilmente, che sarebbono rimasti quel dí superiori; ma mentre che procedono lentamente e con dimostrazione di timidità non solo perderono l'occasione della vittoria di quel giorno ma si debilitorono in gran parte la speranza del futuro, perché dopo quel dí le cose andorono sempre per loro poco felicemente; e già tra' capitani era piú presto confusione che concordia e, secondo il costume de' soldati franzesi verso i capitani italiani, poca obedienza al marchese di Mantova luogotenente regio: in modo che egli, o per questa cagione o perché veramente fusse, come allegava, ammalato, o perché dalla esperienza fatta prima a Roccasecca e poi il dí che si tentò di passare il ponte avesse perduto la speranza della vittoria, si partí dello esercito; lasciato di sé nel re di Francia concetto maggiore di fede che di animo o di governo nell'esercizio militare. Dopo la partita del quale, i capitani franzesi, che erano i principali il marchese di Saluzzo il baglí di Occan e Sandricort, fatto prima alla testa del ponte di là dal fiume uno riparo con le carrette, vi fabricorno uno bastione capace di molti uomini, per il quale non potevano gli inimici assaltargli quando passavano il ponte.

                                                 Ma gli ritardavano a procedere piú oltre altre difficoltà, causate parte per colpa loro parte per la virtú e tolleranza degli inimici parte per l'iniquità della fortuna. Perché Consalvo, intento a impedirgli piú con l'occasione della vernata e del sito del paese che con le forze, si era fermato a Cintura, casale posto in luogo alquanto eminente lontano dal fiume un miglio poco piú; e la fanteria e l'altre genti alloggiate all'intorno, ma con molta incomodità perché, alloggiando in luogo solitario e dove sono rarissime le case e le capanne de' contadini e de' pastori, non vi era quasi coperto alcuno, e il terreno, per la bassezza naturale di quella pianura e perché i tempi erano molti piovosi, pieno di acqua e di fango: però i soldati che non avevano luogo di alloggiare ne siti piú alti, conducendo quantità grande di fascine, si sforzavano coprire con esse il terreno dove alloggiavano. Per le quali difficoltà e perché l'esercito era mal pagato, e per avere i franzesi guadagnato del tutto il passo del fiume, fu consiglio di alcuni capitani di ritirarsi a Capua, acciò che le genti patissino manco, e per levarsi dal pericolo in che pareva che si stesse continuamente essendo inferiori di gente agli inimici. Il quale consiglio fu magnanimamente rifiutato da Consalvo, con quella voce memorabile: desiderare piú tosto di avere, al presente, la sua sepoltura un palmo di terreno piú avanti che, col ritirarsi indietro poche braccia, allungare la vita cento anni; e cosí resistendo alle difficoltà con la costanza dello animo, ed essendosi fortificato con uno fosso profondo e con due bastioni fatti alla fronte dello alloggiamento dello esercito, si manteneva opposito a' franzesi. I quali, benché avessino fatto il bastione, non tentavano di muoversi perché, essendo il paese tutto inondato per le pioggie e per l'acque del fiume (è questo luogo chiamato da Tito Livio, per la vicinità di Sessa, l'acque sinuessane, e forse sono le paludi di Minturne nelle quali C. Mario fuggendo Silla si occultò), non potevano procedere innanzi se non per via stretta, piena di fango altissimo e dove era sfondato tutto il terreno, né senza pericolo di essere assaltati per fianco dalla fanteria spedita degli spagnuoli che alloggiava molto vicina. Ed erano per sorte quella vernata i tempi freddissimi e asprissimi e con nevi e pioggie quasi continue, molto piú che non era il solito di quello paese e di quella stagione, onde pareva che la fortuna e il cielo fussino congiurati contro a' franzesi: i quali, soprasedendo, non solo consumavano il tempo inutilmente ma ricevevano dalla dilazione, per la natura loro, quasi quel medesimo nocumento che dal veleno che opera lentamente ricevono i corpi umani. Perché se bene alloggiavano con minore incomodità che non alloggiavano gli spagnuoli, perché le reliquie di uno teatro antico, alle quali avevano congiunti molti coperti di legname, e le case e l'osterie vicine ne coprivano una parte, e il luogo intorno alla torre essendo alquanto piú alto che il piano di Sessa era manco offeso dalle acque, e si era anche la maggiore parte della cavalleria ridotta in Traietto e nelle terre circostanti, nondimeno, non resistendo per natura i corpi de' franzesi e de' svizzeri alle fatiche lunghe e alle incomodità come resistono i corpi degli spagnuoli, raffreddava continuamente l'impeto e la caldezza degli animi loro. E si augumentavano queste difficoltà per la avarizia de' ministri proposti dal re sopra le vettovaglie e sopra i pagamenti de' soldati; i quali, intenti al guadagno proprio né pretermettendo alcuna specie di fraude, lasciavano diminuire il numero, né tenevano il campo abbondante di vettovaglie. Per le quali cagioni già molte infermità sopravenivano nell'esercito: e il numero de' soldati, benché a' pagamenti fusse quasi il medesimo, era in quanto allo effetto molto minore, essendosi anche delle genti italiane risoluta per se stessa qualche parte. I quali disordini faceva maggiori la discordia de' capitani, per la quale non si governava l'esercito né con lo ordine né con la obbedienza conveniente. Cosí i franzesi, impediti dall'asprezza della vernata, soggiornavano oziosamente in sulla ripa del Garigliano; non si facendo, né per gli inimici né per loro, fazione alcuna eccetto che leggiere battaglie, non importanti alla somma delle cose, nelle quali pareva che quasi sempre prevalessino gli spagnuoli. E accadde anche, in questi dí medesimi, che i fanti i quali erano stati lasciati da' franzesi alla guardia di Rocca Guglielma, non potendo sostenere le molestie che dalle genti che guardavano Roccasecca e le terre circostanti quotidianamente sostenevano e però ritornandosene all'esercito, furono nel cammino rotti da quelle.

                                                 Ma essendo sute già molti dí le cose in quello stato, sopragiunsono all'esercito spagnuolo con le compagnie loro Bartolomeo da Alviano e gli altri Orsini: per la venuta de' quali essendo accresciute le forze di Consalvo, in modo che aveva nello esercito novecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e novemila fanti spagnuoli, cominciò a pensare non di stare piú alla difesa ma di offendere gl'inimici; dandogli maggiore animo il sapere che i franzesi, superiori molto di cavalli ma non di fanti, si erano tanto sparsi per le terre vicine che già gli alloggiamenti loro occupavano poco manco che dieci miglia di paese, in modo che intorno alla torre del Garigliano erano rimasti il marchese di Saluzzo viceré e gli altri capitani principali con la minore parte dello esercito, e quella, benché vi fusse sopravenuta copia di vettovaglie, ampliandovisi ogni dí piú le infermità, per le quali erano morti molti e tra gli altri il baglí di Occan, diminuiva continuamente. Però deliberando di tentare di passare il fiume furtivamente, il che succedendo non si dubitava della vittoria, dette la cura allo Alviano, autore, secondo dicono alcuni, di questo consiglio, che fabricasse il ponte secretamente. Per ordine del quale essendo stato con molto silenzio fabricato, in uno casale appresso a Sessa, uno ponte in sulle barche, condottolo di notte al Garigliano e gittatolo al passo di Suio, quattro miglia sopra il ponte de' franzesi, dove per loro non si teneva guardia alcuna, subito che il ponte fu gittato, che fu la notte del vigesimo settimo dí di dicembre, passò tutto l'esercito, e in esso la persona di Consalvo; i quali la notte medesima alloggiorono nella terra di Suio contigua al fiume, occupata da' primi che passorono. E la mattina seguente, dí pure di venerdí, felice agli spagnuoli, avendo ordinato Consalvo che il retroguardo che era alloggiato tra la rocca di Mondragone e Carinoli, quattro miglia di sotto al ponte de' franzesi, andasse ad assaltare il ponte loro, si dirizzò con la vanguardia guidata dall'Alviano e con la battaglia, che erano passate seco, a seguitare i franzesi. I quali, avendo la notte medesima avuto notizia che gli spagnuoli, gittato il ponte, già passavano, occupati da grandissimo terrore, come quegli che avendo deliberato di non tentare insino sopravenisse benigna stagione piú cosa alcuna, e persuadendosi che negli inimici fusse la medesima negligenza e ignavia, si commossono tanto piú per questo ardire e accidente improviso; e però, se bene, piú presto trepidando, come si fa ne' casi subiti, che consigliando o deliberando, il viceré, al quale molti levatisi da Traietto e de' luoghi circostanti dove erano sparsi, si riducevano, avesse per proibire il passo inviato Allegri con alcuni fanti e cavalli verso Suio, nondimeno, occortisi che erano tardi, ed essendo superiore in ogni discorso e considerazione il timore, si levorono tumultuosamente a mezzanotte dalla torre del Garigliano per ritirarsi a Gaeta, lasciatavi la maggiore parte delle munizioni e nove pezzi grossi d'artiglieria, e insieme rimanendovi i feriti e moltitudine grande di ammalati. Ma Consalvo, intesa la levata loro, seguitandogli con l'esercito, spinse innanzi Prospero Colonna co' cavalli leggieri, acciò che essendo travagliati da loro fussino costretti a camminare piú lentamente. I quali essendo giunti alle spalle di essi, alla fronte di Scandi, cominciorono insieme a scaramucciare, non intermettendo i franzesi di camminare e nondimeno fermandosi spesso, per non si disordinare, a' ponti e a' passi forti; donde dopo essersi alquanto sostenuti si ritiravano, sempre con ricevere qualche danno: ed era l'ordine del procedere loro, l'artiglierie innanzi a tutti, la fanteria dipoi e in ultimo luogo i cavalli, de' quali quegli che erano gli ultimi combattevano continuamente con gl'inimici. Cosí essendo proceduti, ora fermandosi ora leggiermente combattendo, insino al ponte che è innanzi a Mola di Gaeta, la necessità costrinse il viceré a fare fermare una parte delle sue genti d'arme in su quel passo, per dare spazio di discostarsi alle sue artiglierie; le quali, non potendo procedere con la celerità con la quale procedevano le genti, già cominciavano a mescolarsi con loro. Però appiccata in quello luogo una battaglia grande, sopragiunse poco dipoi il retroguardo spagnuolo, che passato il fiume senza resistenza alcuna, con le barche medesime del ponte che era stato rotto da' franzesi, camminava verso Gaeta per la strada diritta; essendo Consalvo, col resto dell'esercito, andato sempre per la costiera. Combattessi al ponte di Mola per alquanto spazio di tempo ferocemente; sostenendosi i franzesi, benché pieni di molto timore, principalmente per la fortezza del sito, e assaltandogli gli spagnuoli, a' quali già pareva essere in possessione della vittoria, molto impetuosamente. Finalmente i franzesi non potendo piú resistere, e temendo non fusse tagliata loro la strada da una parte delle genti la quale Consalvo aveva mandata per la costiera a questo effetto, cominciorono con disordine a ritirarsi; e seguitandogli continuamente gli inimici, arrivati al capo di due vie, delle quali l'una va a Itri l'altra a Gaeta, si messono in manifesta fuga; restandone morti molti, tra' quali Bernardino Adorno luogotenente di cinquanta lancie, lasciate l'artiglierie con tutti i cavalli del suo servigio, che erano stati condotti di Francia, piú di mille; e restandone molti prigioni: gli altri fuggirono in Gaeta, seguitati vittoriosamente insino alle porte di quella città. E nel tempo medesimo Fabrizio Colonna, mandato da Consalvo, poiché ebbe passato il fiume, con cinquecento cavalli e mille fanti alla volta di Ponte Corvo e delle Frace, col favore della maggior parte delle castella e degli uomini del paese, svaligiò le compagnie di Lodovico della Mirandola e di Alessandro da Triulzi. Furono, oltre a questi, presi e spogliati per il paese molti di quegli i quali, alloggiati a Fondi a Itri e ne' luoghi circostanti, inteso essersi gittato il ponte dagli spagnuoli, non erano andati a unirsi con l'esercito alla torre del Garigliano ma per salvarsi avevano, sparsi, preso tumultuosamente il cammino in diversi luoghi. Maggiore infortunio ebbono Piero de' Medici, che seguitava il campo de' franzesi, e alcuni altri gentiluomini; i quali, essendo nella levata dello esercito dal Garigliano saliti in su una barca, con quattro pezzi di artiglieria per condurgli a Gaeta, per troppo peso e perché ebbono i venti contrari, alla foce del fiume andata sotto la barca, annegorono tutti. Alloggiò la notte seguente Consalvo con l'esercito a Castellone e a Mola; e accostatosi il dí seguente a Gaeta, ove oltre a' capitani franzesi erano rifuggiti i príncipi di Salerno e di Bisignano, occupò subito il borgo e il monte che era stato abbandonato da' franzesi. I quali, benché in Gaeta fusse gente bastante a difenderla e a sufficienza vettovaglie, e il luogo opportuno a essere con l'armate di mare soccorso, nondimeno inviliti, né disposti a tollerare il tedio dello aspettare gli aiuti incerti, voltorono subito l'animo ad accordarsi; e perciò, essendo di consentimento degli altri andati a trattare con Consalvo il baglí di Digiuno, Santa Colomba e Teodoro da Triulzi, convennono, il primo dí dell'anno mille cinquecento quattro, di consegnare Gaeta e la fortezza a Consalvo, avendo facoltà d'uscire con le robe loro salvi, per terra e per mare, fuora del reame di Napoli, e che Obigní e gli altri prigioni fussino da ogni parte liberati; ma questo non fu sí chiaramente capitolato che non avesse Consalvo occasione di disputare che, per virtú di tale convenzione, non si intendevano liberati i baroni del regno napoletano.

                                                 Questa è la rotta che ebbe l'esercito del re di Francia appresso al fiume del Garigliano, in sulla ripa del quale era stato fermo circa cinquanta dí; causata non meno da' disordini propri che dalla virtú degli inimici; e rotta molto memorabile, perché ne seguitò la perdita totale di sí nobile e potente reame e la stabilità dello imperio degli spagnuoli; e piú memorabile ancora, perché essendovi entrati i franzesi molto superiori di forze agli inimici, e abbondantissimi di tutte le provisioni terrestri e marittime che sono necessarie alla guerra, furono debellati con tanta facilità, e senza sangue e pericolo alcuno de' vincitori; e perché, con tutto che pochi ne morissino per il ferro degli inimici, fu per vari accidenti piccolissimo il numero di quegli che si salvorno di tanto esercito. Conciossiacosaché de' fanti i quali nella fuga salvorono le persone loro, e di quegli ancora che fatto l'accordo si partirono per terra da Gaeta, ne morí una parte per la strada consumati da' freddi e dalle infermità; e quegli di loro che giunsono a Roma vivi vi si condussono la piú parte ignudi e miserabili, donde molti ne morirono per gli spedali, e la notte, per il freddo e per la fame, per le piazze e per le strade. E quel che ne fusse cagione, o il fato avverso a' franzesi (né meno avverso alla nobiltà che alla gente plebea) o le infermità contratte per le incomodità sostenute intorno al Garigliano, molti di quegli che, fatto che fu l'accordo, si erano per mare partiti da Gaeta, ove lasciorno la maggiore parte de' loro cavalli, morirono o in cammino o subito che furono arrivati in Francia: tra' quali fu il marchese di Saluzzo, Sandricort e il baglí della Montagna e molti gentiluomini. Fu considerato che, oltre a quello che si poteva attribuire alla discordia e al poco governo de' capitani franzesi e alla asprezza de' tempi, e il non essere i franzesi e i svizzeri abili quanto gli spagnuoli a tollerare con l'animo il tedio della lunghezza delle cose né col corpo le incomodità e le fatiche, due cose principalmente aveano impedita al re di Francia la vittoria. L'una, la lunga dimora che fece l'esercito, per la morte del pontefice, in terra di Roma, dalla quale fu causato che prima sopravenne la vernata, e che prima Consalvo condusse agli stipendi suoi gli Orsini, che essi entrassino nel regno; perché non si dubita che se vi fussino entrati nella stagione benigna sarebbe stato necessitato Consalvo, allora molto inferiore di forze né favorito dalla rigidità de' tempi, abbandonata la maggiore parte del reame, a ritirarsi in pochi luoghi forti: l'altra, l'avarizia de' commissari regi, i quali fraudando il re ne' pagamenti de' soldati, e disordinando per la medesima intenzione le vettovaglie, furono non piccola cagione della diminuzione di quello esercito; perché il re aveva con grandissima prontezza fatta provisione tale di tutte le cose necessarie che è certo che al tempo della rotta erano in Roma, per ordine suo, quantità grande di danari e apparato grande di vettovaglie; e se bene all'ultimo, per le moltissime querele de' capitani e di tutto l'esercito, vi fusse maggiore larghezza del vivere, nondimeno prima ve ne era stata strettezza tale che questo disordine, aggiunto all'altre incomodità, era stato cagione di tante infermità e della partita di molta gente e dell'essersi molti distesi ne' luoghi circostanti: dalle quali cose finalmente procedette la ruina dello esercito. Perché come alla sostentazione di uno corpo non basta solamente il bene essere del capo ma è necessario che gli altri membri faccino lo ufficio suo, cosí non basta che il principe sia senza colpa delle cose se ne' ministri suoi non è proporzionatamente la debita diligenza e virtú.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.8

                                                  

                                                 Pace fra i veneziani ed i turchi; soddisfazione degli uni e degli altri; patti dell'accordo.

                                                  

                                                 Nell'anno medesimo che queste cose tanto gravi in Italia succederono si fece la pace tra Baiseth otomanno e i viniziani, la quale da ciascuna delle parti fu abbracciata cupidamente. Perché Baiseth, principe di ingegno mansueto e molto dissimile alla ferocia del padre, e dedito alle lettere e agli studi de' libri sacri della sua religione, aveva per natura l'animo alienissimo dalle armi: però, avendo cominciata la guerra con potentissimi apparati terrestri e marittimi, e occupato ne' primi due anni, nella Morea, Naupatto (oggi è detto Lepanto), Modone, Corone e Giunco, non l'aveva continuata poi con la medesima caldezza; movendolo forse, oltre al desiderio della quiete, il sospetto che o i pericoli propri o l'amore della religione non concitassino contro a lui i príncipi cristiani: perché e il pontefice Alessandro aveva mandato alcune galee sottili in aiuto de' viniziani, e insieme con loro aveva sollevato con danari Uladislao re di Boemia e di Ungheria a muovere la guerra ne' confini de' turchi; e i re di Francia e di Spagna mandorono ciascuno di loro, ma non nel tempo medesimo, l'armata sua a congiugnersi con quella da' viniziani. Ma piú cupidamente ancora fu accettata la pace de' viniziani, a' quali si interrompeva per la guerra, con gravissimo detrimento publico e privato, il commercio delle mercatanzie le quali dagli uomini loro si esercitavano in molte parti di levante; e perché, essendo la città di Vinegia consueta a trarre ciascuno anno delle terre suddite a' turchi copia grandissima di frumento, dava loro non piccole difficoltà l'essere privati di tale comodità; ma molto piú perché, soliti ad accrescere lo imperio loro nelle guerre con gli altri príncipi, niuna cosa avevano piú in orrore che la potenza degli otomanni, da' quali qualunque volta avevano avuta guerra insieme erano stati battuti: perché e Amurato avolo di Baiseth aveva occupato la città di Tessalonica, oggi Salonich, appartenente al dominio veneto, e poi Maumeth suo padre, avendo avuto sedici anni continua guerra con essi, tolse loro l'isola di Negroponte, una parte grande del Peloponneso oggi detta la Morea, Scudri e molte altre terre in Macedonia e in Albania. In modo che, sostenendo la guerra co' turchi con gravissime difficoltà e spese smisurate e senza speranza di conseguirne frutto alcuno, e oltre a questo temendo tanto piú di non essere assaltati nel tempo medesimo dagli altri príncipi cristiani, erano sempre desiderosissimi di avere la pace con loro. Fu lecito a Baiseth, per le condizioni dell'accordo, ritenersi tutto quello che aveva occupato; e i viniziani, ritenendosi l'isola di Cefalonia anticamente detta Leucade, furno costretti a restituirgli l'isola di Nerito, oggi denominata Santa Maura.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.9

                                                  

                                                 Commercio de' portoghesi coll'Oriente e danno derivatone a' veneziani. Cristoforo Colombo e la scoperta delle nuove terre a occidente. Errori degli antichi rivelati dalle nuove scoperte.

                                                  

                                                 Ma non aveva dato tanta molestia a' viniziani la guerra de' turchi quanta molestia e detrimento dette l'essere stato intercetto dal re di Portogallo il commercio delle spezierie, le quali i mercanti e i legni loro conducendo da Alessandria, città nobilissima, a Vinegia, spargevano con grandissimo guadagno per tutte le provincie della cristianità. La quale cosa, essendo stata delle piú memorabili che da molti secoli in qua siano accadute nel mondo, e avendo, per il danno che ne ricevé la città di Vinegia, qualche connessità con le cose italiane, non è al tutto fuora del proposito farne alquanto distesamente memoria.

                                                 Coloro i quali speculando, con ingegno e considerazioni maravigliose, il moto e la disposizione del cielo n'hanno dato notizia a' posteri, figurorno che, per la rotondità del cielo, discorra dall'occidente all'oriente una linea distante in ogni sua parte egualmente dal polo settentrionale e dal polo meridionale, detta da loro linea equinoziale perché quando il sole è sotto sono allora eguali il dí e la notte; la longitudine della quale linea divisono con la immaginazione in trecento sessanta parti, le quali chiamorono gradi; cosí come il circuito del cielo per mezzo de' poli è medesimamente gradi trecento sessanta. Dietro alla norma data da questi, i cosmografi, misurando e dividendo la terra, figurorono in terra una linea equinoziale che cade perpendicolarmente sotto la linea celeste figurata dagli astrologi; dividendo similmente quella e il circuito della terra con una linea cadente perpendicolarmente sotto i poli, in latitudine di gradi trecento sessanta: di maniera che dal polo nostro al polo meridionale posono distanza di gradi cent'ottanta, e da ciascuno de' poli alla linea equinoziale gradi novanta. Queste cose furono dette in generale da' cosmografi. Ma quanto al particolare dell'abitato della terra, data quella notizia che aveano di una parte della terra che è sotto al nostro emisperio, si persuasono che quella parte della terra che è sotto alla torrida zona, figurata in cielo dagli astrologi (nella quale zona si contiene la linea equinoziale) come piú prossima al sole, fusse per la calidità sua inabitabile, e che dal nostro emisperio non si potesse procedere alle terre che sono sotto la torrida zona né a quelle che di là da essa verso il polo meridionale consistono; le quali Tolemeo, per confessione di tutti principe de' cosmografi, chiamava terre e mari incogniti. Onde ed esso e gli altri presupposono che chi dal nostro emisperio volesse passare al seno arabico e al seno persico, o a quelle parti della India che prima feciono note agli uomini nostri le vittorie di Alessandro magno, fusse costretto andarvi o per terra, o approssimato che si fusse per il mare Mediterraneo quanto poteva a essi, fare per terra il rimanente del cammino. Queste opinioni e presuppositi essere stati falsi ha dimostrato a' tempi nostri la navigazione de' portogallesi. Perché avendo cominciato, già molti anni sono, i re di Portogallo a costeggiare, per cupidità di guadagni mercantili, l'Africa, e condottisi a poco a poco insino all'isole del Cavoverde dette dagli antichi, secondo l'opinione di molti, l'isole [Esperide], e che sono gradi [quattordici distanti dallo equinoziale verso il polo artico], preso di mano in mano maggiore animo, venuti con lungo circuito navigando verso il mezzodí al capo di Buona Speranza, promontorio piú distante che alcun altro della Affrica dalla linea equinoziale, e il quale dista da quello gradi [trentotto], e da quello volgendosi allo oriente, hanno navigato per l'oceano insino al seno arabico e al seno persico; ne' quali luoghi i mercatanti di Alessandria solevano comperare le spezierie, parte nate quivi ma che la maggiore parte vi sono condotte da [le isole Molucche] e altre parti della India, e di poi per terra, per cammino lungo e pieno di incomodità e di molte spese, condurle in Alessandria, e quivi venderle a' mercatanti viniziani; i quali condottele a Vinegia ne fornivano tutta la cristianità, ritornandone loro grandissimi guadagni: perché avendo soli in mano le spezierie costituivano i prezzi ad arbitrio loro, e co' medesimi legni co' quali le levavano di Alessandria vi conducevano moltissime mercatanzie, e i medesimi legni i quali portavano in Francia in Fiandra in Inghilterra e negli altri luoghi le spezierie tornavano medesimamente a Vinegia carichi di altre mercatanzie: la quale negoziazione augumentava medesimamente molto l'entrate della republica, per le gabelle e passaggi. Ma i portogallesi, condottisi per mare da Lisbona, città regia di Portogallo, in quelle parti remote, e fatto amicizia nel seno persico co’ re di Caligut e di altre terre vicine, e dipoi di mano in mano penetrati ne' luoghi piú intimi e edificate in progresso di tempo fortezze ne' luoghi opportuni, e con alcune città del paese confederatisi altre fattesi con l'armi suddite, hanno trasferito in sé quel commercio di comperare le spezierie che prima solevano avere i mercatanti di Alessandria; e conducendole per mare in Portogallo le mandano poi, eziandio per mare, in quegli luoghi medesimi ne' quali le mandavano prima i viniziani. Navigazione certamente maravigliosa e di spazio di miglia [sedicimila], per mari al tutto incogniti, sotto altre stelle sotto altri cieli; con altri instrumenti, perché passata la linea equinoziale non hanno piú per guida la tramontana, e rimangono privati dell'uso della calamita; né potendo per tanto cammino toccare se non a terre non conosciute, diverse di lingua di religione e di costumi, e del tutto barbare e inimicissime de' forestieri: e nondimeno, non ostante tante difficoltà, s'hanno fatta in progresso di tempo questa navigazione tanto familiare che, ove prima consumavano a condurvisi [dieci] mesi di tempo, la finiscono oggi comunemente, con pericoli molto minori, in [sei] mesi.

                                                 Ma piú maravigliosa ancora è stata la navigazione degli spagnuoli, cominciata l'anno mille quattrocento novanta..., per invenzione di Cristoforo Colombo genovese. Il quale, avendo molte volte navigato per il mare Oceano, e congetturando per l'osservazione di certi venti quel che poi veramente gli succedette, impetrati dai re di Spagna certi legni e navigando verso l'occidente, scoperse, in capo di [trentatré] dí, nell'ultime estremità del nostro emisperio, alcune isole, delle quali prima niuna notizia s'aveva; felici per il sito del cielo per la fertilità della terra e perché, da certe popolazioni fierissime infuora che si cibano de' corpi umani, quasi tutti gli abitatori, semplicissimi di costumi e contenti di quel che produce la benignità della natura, non sono tormentati né da avarizia né da ambizione; ma infelicissime perché, non avendo gli uomini né certa religione né notizia di lettere, non perizia di artifici non armi non arte di guerra non scienza non esperienza alcuna delle cose, sono, quasi non altrimenti che animali mansueti, facilissima preda di chiunque gli assalta. Onde allettati gli spagnuoli dalla facilità dell'occuparle e dalla ricchezza della preda, perché in esse sono state trovate vene abbondantissime d'oro, cominciorno molti di loro come in domicilio proprio ad abitarvi. E penetrato Cristoforo Colombo piú oltre, e dopo lui Amerigo Vespucci fiorentino e successivamente molti altri, hanno scoperte altre isole e grandissimi paesi di terra ferma; e in alcuni di essi, benché in quasi tutti il contrario e nell'edificare publicamente e privatamente, e nel vestire e nel conversare, costumi e pulitezza civile, ma tutte genti imbelli e facili a essere predate: ma tanto spazio di paesi nuovi che sono ‑ senza comparazione maggiore spazio che l'abitato che prima era a notizia nostra. Ne' quali distendendosi con nuove genti e con nuove navigazioni gli spagnuoli, e ora cavando oro e argento delle vene che sono in molti luoghi e dell'arene de' fiumi, ora comperandone per prezzo di cose vilissime dagli abitatori, ora rubando il già accumulato, n'hanno condotto nella Spagna infinita quantità; navigandovi privatamente, benché con licenza del re e a spese proprie, molti, ma dandone ciascuno al re la quinta parte di tutto quello che o cavava o altrimenti gli perveniva nelle mani. Anzi è proceduto tanto oltre l'ardire degli spagnuoli che alcune navi, essendosi distese verso il mezzodí [cinquantatré] gradi sempre lungo la costa di terra ferma, e dipoi entrati in uno stretto mare e da quello per amplissimo pelago navigando nello oriente, e dipoi ritornando per la navigazione che fanno i portogallesi, hanno, come apparisce manifestissimamente, circuito tutta la terra. Degni, e i portogallesi e gli spagnuoli e precipuamente Colombo, inventore di questa piú maravigliosa e piú pericolosa navigazione, che con eterne laudi sia celebrata la perizia la industria l'ardire la vigilanza e le fatiche loro, per le quali è venuta al secolo nostro notizia di cose tanto grandi e tanto inopinate. Ma piú degno di essere celebrato il proposito loro se a tanti pericoli e fatiche gli avesse indotti non la sete immoderata dell'oro e delle ricchezze ma la cupidità o di dare a se stessi e agli altri questa notizia o di propagare la fede cristiana: benché questo sia in qualche parte proceduto per conseguenza, perché in molti luoghi sono stati convertiti alla nostra religione gli abitatori.

                                                 Per queste navigazioni si è manifestato essersi nella cognizione della terra ingannati in molte cose gli antichi. Passarsi oltre alla linea equinoziale, abitarsi sotto la torrida zona; come medesimamente, contro all'opinione loro, si è per navigazione di altri compreso, abitarsi sotto le zone propinque a' poli, sotto le quali affermavano non potersi abitare per i freddi immoderati, rispetto al sito del cielo tanto remoto dal corso del sole. Èssi manifestato quel che alcuni degli antichi credevano, altri riprendevano, che sotto i nostri piedi sono altri abitatori, detti da loro gli antipodi. Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche anzietà agli interpreti della scrittura sacra, soliti a interpretare che quel versicolo del salmo, che contiene che in tutta la terra uscí il suono loro e ne' confini del mondo le parole loro, significasse che la fede di Cristo fusse, per la bocca degli apostoli, penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla verità, perché non apparendo notizia alcuna di queste terre, né trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di essere creduto o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi tempi o che questa parte sí vasta del mondo sia mai piú stata scoperta o trovata da uomini del nostro emisperio.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.10

                                                  

                                                 Dolore e cruccio del re e della corte di Francia pel cattivo esito della campagna in Italia. Timori de' partigiani dei francesi; inazione di Consalvo. Fuga del Valentino presso Consalvo e sua prigionia in Ispagna. Tregua tra il re di Francia e i re di Spagna. Rapine di soldati spagnuoli nel reame di Napoli.

                                                  

                                                 Ma ritornando al proposito della nostra narrazione, e alle cose che dopo l'essersi arrenduta agli spagnuoli Gaeta nell'anno mille cinquecento quattro succederono, le novelle della rotta ricevuta al Garigliano, e di tanti disordini che appresso seguitorono, empierono di lagrime e di pianti quasi tutto il regno di Francia, per la moltitudine de' morti e specialmente per la perdita di tanta nobiltà; donde la corte tutta, con gli abiti e con molti altri segni di dolore, appariva piena di mestizia e di afflizione; e si sentivano per tutto il reame le voci degli uomini e delle donne che maladivano quel dí nel quale prima entrò ne' cuori de' suoi re, non contenti di tanto impero che possedevano, la sfortunata cupidità di acquistare stati in Italia. Ma sopra tutto era tormentato l'animo del re per la disperazione d'avere piú a ricuperare uno regno sí nobile, e per tanta diminuzione della estimazione e autorità sua: ricordavasi delle magnifiche parole le quali aveva dette tante volte contro al re di Spagna, e quanto si fusse vanamente promesso degli apparati fatti per assaltarlo da tante bande; ma accresceva il dolore e la indegnazione sua il considerare che, essendo state fatte da sé con somma diligenza e senza risparmio alcuno tante provisioni, e avendo guerra con inimici poverissimi e bisognosi di ogni cosa, fusse stato per la avarizia e per le fraudi de' ministri suoi sí ignominiosamente superato. E però, esclamando insino al cielo, affermava con efficacissimi giuramenti che, poiché era con tanta negligenza e perfidia servito da' suoi medesimi, che giammai commetterebbe piú guerra alcuna a' suoi capitani ma andrebbe personalmente a tutte le imprese. Ma lo tormentava e cruciava ancora piú il conoscere quanto, per la perdita di uno tale esercito e per la morte di tanti capitani e di tanta nobiltà, fussino indebolite le forze sue; in modo che, se o da Massimiliano fusse stato fatto qualche movimento nel ducato di Milano o se l'esercito spagnuolo uscito del reame di Napoli fusse passato piú innanzi, diffidava esso medesimo sommamente di potere difendere quello stato, massime congiugnendosi ad alcuno di questi Ascanio Sforza lo imperio del quale era desiderato ardentemente da tutti i popoli.

                                                 Ma del re de' Romani non si maravigliò alcuno che non si destasse a tanta opportunità, essendo lo inveterato costume suo scambiare il piú delle volte i tempi e le occasioni. Ma di Consalvo si persuadeva ciascuno il contrario: donde stavano quelli che in Italia aderivano a' franzesi in grandissimo terrore che egli, con la speranza che all'esercito vincitore non avessino a mancare danari né occasioni, senza dilazione seguitasse la vittoria, per sovvertire lo stato di Milano e mutare in cammino le cose di Toscana: il che se avesse fatto si credeva fermamente che il re di Francia, esausto di danari e sbattuto d'animo, arebbe senza fare alcuna resistenza ceduto a questa tempesta; essendo massime l'animo delle sue genti alienissimo dal passare in Italia e avendo quelle che tornorono da Gaeta passato i monti, sprezzati i comandamenti regi che furono presentati loro a Genova. E si vedeva chiaramente che il re, senza pensiero alcuno alle armi, era tutto intento a trattare concordia con Massimiliano; né meno intento a continuare le pratiche co' re di Spagna, per le quali, non intermesse nell'ardore della guerra, erano stati sempre, e ancora erano, oratori spagnuoli nella sua corte. Ma Consalvo, che da qui innanzi chiameremo piú spesso il gran capitano, poiché con vittorie sí gloriose si aveva confermato il cognome datogli dalla iattanza spagnuola, non usò tanta occasione: o perché, trovandosi al tutto senza danari e debitore dell'esercito suo di molte paghe, gli fusse impossibile muovere con speranze di guadagni futuri o di pagamenti lontani le genti sue, che dimandavano danari e alloggiamenti, o perché fusse necessitato procedere secondo la volontà de' suoi re o perché non gli paresse bene sicuro, se prima non cacciava gli inimici di tutto il regno di Napoli, levarne l'esercito; perché Luigi d'Ars uno de' capitani franzesi, il quale dopo la giornata fatta alla Cirignola si era, con reliquie tali delle genti rotte che non erano in tutto da disprezzare, fermato a Venosa, e il quale mentre che gli eserciti stavano in sulle ripe del Garigliano aveva occupato Troia e San Severo, teneva sollevata tutta la Puglia; e alcuni de' baroni angioini ritiratisi agli stati loro si difendevano, seguitando scopertamente il nome del re di Francia: e si aggiunse che poco dopo la vittoria si ammalò di pericolosa infermità; per la quale non potendo andare in alcuna espedizione personalmente, mandò con parte delle genti l'Alviano a debellare Luigi d'Ars.

                                                 Per la quale sua o deliberazione o necessità di non seguitare per allora, fuora del reame di Napoli, la vittoria restavano l'altre cose d'Italia piú presto in sospetto che in travaglio: perché i viniziani stavano, secondo l'usanza loro, sospesi ad aspettare l'esito delle cose; e a' fiorentini pareva acquistare assai se, nel tempo che totalmente disperavano del soccorso del re di Francia, non fussino assaltati dal gran capitano; e il pontefice, differendo ad altro tempo i suoi vasti pensieri, si affaticava perché il Valentino gli concedesse le fortezze di Furlí di Cesena e di Bertinoro, che sole per lui si tenevano nella Romagna, perché Antonio degli Ordelaffi aveva, pochi dí innanzi, ottenuta con premi quella di Forlimpopolo dal castellano. Consentí Valentino dare al pontefice i contrasegni di quella di Cesena: con i quali andato Pietro d'Oviedo spagnuolo per riceverla in nome del pontefice, il castellano, dicendo essergli disonore ubidire al padrone suo mentre che era prigione, e meritare di essere punito chi avesse presunto di fargli tale richiesta, l'aveva fatto impiccare. Donde il pontefice, escluso dalla speranza di poterle ottenere senza la liberazione del Valentino, convenne seco (della quale convenzione fu espedita per maggiore sicurtà una bolla nel concistoro) che il Valentino fusse posto nella rocca di Ostia, in assoluta potestà di Bernardino Carvagial spagnuolo, cardinale di Santa Croce, di liberarlo ogni volta che avesse restituito al pontefice le fortezze di Cesena e di Bertinoro e che della rocca di Furlí avesse consegnati i contrassegni al pontefice, e data sicurtà di banchi in Roma per quindicimila ducati; perché quel castellano prometteva di restituirla ricevuti che avesse i contrassegni e la quantità predetta, per sodisfazione delle spese le quali affermava d'avere fatte. Ma altra era la mente del pontefice; il quale, benché non volesse rompere palesemente la fede data, avea in animo di prolungare la sua liberazione, o per timore che, liberato, operasse che 'l castellano di Furlí negasse di dare la rocca o per la memoria delle ingiurie ricevute dal padre e da lui o per l'odio che ragionevolmente gli portava ciascuno. Della qual cosa sospettando il Valentino, ricercò secretamente il gran capitano che gli desse salvocondotto di potere sicuramente andare a Napoli, e che gli mandasse due galee per levarlo da Ostia; le quali cose essendo consentite da Consalvo, il cardinale di Santa Croce, che avea il medesimo sospetto, subito che ebbe notizia che oltre alla sicurtà data in Roma de' quindicimila ducati i castellani di Cesena e di Bertinoro aveano consegnato le fortezze, gli dette senza saputa del pontefice facoltà di partirsi. Il quale, non aspettate le galee che doveva mandargli il gran capitano, se ne andò occultamente per terra a Nettunno, onde in su una piccola barchetta si condusse alla rocca di Mondracone, e di quivi per terra a Napoli; ricevuto da Consalvo lietamente e con grande onore. In Napoli, stando spesso a segreti ragionamenti con Consalvo, lo ricercò che gli desse comodità di andare a Pisa, proponendogli che, fermandosi in quella città, ne risulterebbe grandissimo beneficio alle cose de' suoi re: il che dimostrando Consalvo di approvare, e offerendogli le galee per portarlo, e dandogli facoltà di soldare nel reame i fanti che e' disegnava di condurre seco, lo nutrí in questa speranza insino a tanto che ebbe risposta da' suoi re conforme a quello che avea disegnato di fare; consultando ciascuno dí con lui sopra le cose di Pisa e di Toscana, e offerendosi l'Alviano di assaltare nel tempo medesimo i fiorentini, per il desiderio che avea della restituzione de' Medici in Firenze. Ma essendo preparate già le galee e i fanti per partire il dí seguente, il Valentino, poiché la sera ebbe parlato lungamente con Consalvo, e da lui con dimostrazione grande di amore avuto licenza e abbracciato nel partirsi, procedendo con quella simulazione medesima che si diceva avere usata già contro a Iacopo Piccinino Ferdinando vecchio d'Aragona, subito che uscí della camera fu per comandamento suo ritenuto nel castello, e mandato all'ora medesima alla casa dove alloggiava a tôrre il salvocondotto che, innanzi partisse da Ostia, gli avea fatto; con tutto che allegasse che, avendogli comandato i suoi re che lo facesse prigione, prevaleva il comandamento loro al suo salvocondotto, perché la sicurtà data di propria autorità dal ministro non era valida piú che si fusse la volontà del signore. Soggiugnendo oltre a questo essere stata cosa necessaria il ritenerlo, perché, non contento di tante iniquità che per l'addietro aveva commesse, procurava di alterare per l'avvenire gli stati d'altri, macchinare cose nuove seminare scandoli e fare nascere in Italia incendi perniciosi. E poco dipoi lo mandò in su una galea sottile prigione in Ispagna, non servito da altri de' suoi che da uno paggio, ove fu incarcerato nella rocca di Medina del Campo.

                                                 Fecesi circa a questi tempi medesima tregua per terra e [per] mare, cosí per le cose d'Italia come di là da' monti, tra 'l re di Francia e i re di Spagna; alla quale, desiderata molto dal re di Francia, acconsentirno volentieri i re di Spagna perché giudicorno essere meglio stabilire per questo mezzo, con maggiore sicurtà e quiete, l'acquisto fatto che per mezzo di nuove guerre; le quali essendo piene di molestia e di spese hanno spesse volte fine diverso dalle speranze. Le condizioni furono che ciascuno ritenesse quello possedeva: fusse libero per tutti i regni e stati di ciascuna delle parti il commercio a' sudditi loro, eccetto che nel reame di Napoli: con la quale eccezione ottenne per via indiretta il gran capitano quel che gli era proibito direttamente, perché nelle frontiere de' luoghi tenute da' franzesi, che erano solamente in Calavria Rossano, in Terra d'Otranto Oira e in Puglia Venosa, Conversano e Casteldelmonte, pose genti che proibissino che alcuno o de' soldati o degli uomini di quelle terre non conversassino in luogo alcuno posseduto dagli spagnuoli; la quale cosa gli ridusse prestamente in tale strettezza che vedendo Luigi d'Ars e gli altri soldati e baroni di quelle terre che gli uomini, non potendo tollerare tante incomodità, deliberavano d'arrendersi agli spagnuoli, se ne partirono. E nondimeno il reame di Napoli, benché per tutto ne fussino stati cacciati gli inimici, non godeva i frutti della pace. Perché i soldati spagnuoli, creditori già delle paghe di piú di uno anno, non contenti che 'l gran capitano, perché si sostentassino insino che avesse proveduto a' danari, gli aveva alloggiati in diversi luoghi ne' quali vivevano a spese de' popoli, ma prestate indiscretissimamente ad arbitrio loro (al che i soldati hanno dato nome di alloggiamento a discrezione), rotti i freni dell'ubbidienza erano, con grandissimo dispiacere del gran capitano, entrati in Capua e in Castell'a mare, onde recusando di partirsi se non si numeravano loro gli stipendi già corsi, né a questo, perché importavano quantità grandissima di danari, potendo provedersi senza aggravare eccessivamente il reame esausto per le lunghe guerre e consumato, erano miserabili le condizioni degli uomini, non essendo meno grave la medicina che la infermità che si cercava di curare: cose tanto piú moleste quanto piú erano nuove e fuora degli esempli passati. Perché se bene dopo i tempi antichi, ne' quali la disciplina militare s'amministrava severamente, i soldati erano stati sempre licenziosi e gravi a' popoli, nondimeno, non disordinate ancora in tutto le cose, vivevano in gran parte de' soldi loro né passava a termini intollerabili la loro licenza. Ma gli spagnuoli primi in Italia cominciorno a vivere totalmente delle sostanze de' popoli, dando cagione e forse necessità a tanta licenza l'essere dai suoi re, per l'impotenza loro, male pagati: dal quale principio ampliandosi la corruttela, perché l'imitazione del male supera sempre l'esempio come per il contrario l'imitazione del bene è sempre inferiore, cominciorno poi e gli spagnuoli medesimi e non meno gli italiani a fare, o siano pagati o non pagati, il medesimo; talmente che con somma infamia della milizia odierna, non sono piú sicure dalla sceleratezza de' soldati le robe degli amici che degli inimici.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.11

                                                  

                                                 Il pontefice ottiene Forlí. Vicende della guerra di Firenze contro Pisa. Vani tentativi de' fiorentini di ridurre con la benevolenza l'inimicizia de' contadini pisani. Richieste d'aiuto de' pisani a Genova.

                                                  

                                                 La tregua fatta tra i re di Francia e di Spagna, con opinione che non molto di poi avesse a seguitare la pace, e in qualche parte la cattura del Valentino quietorono del tutto le cose della Romagna. Perché essendo prima Imola venuta per volontà de' capi di quella città in potestà del pontefice, né senza volontà del cardinale di San Giorgio nutrito da lui con vana speranza di restituirla a' Riari suoi nipoti; ed essendo, in quegli dí, per la morte d'Antonio degli Ordelaffi, entrato in Furlí Lodovico suo fratello naturale, sarebbe quella città venuta in mano de' viniziani, a' quali Lodovico conoscendosi impotente a tenerla l'offeriva, ma le condizioni de' tempi gli spaventorno da accettarla per non accrescere maggiore indegnazione nel pontefice: il quale non avendo chi se gli opponesse ottenne la terra, fuggendosene Lodovico, e finalmente, pagati i quindicimila ducati, la cittadella; la quale il castellano, fedele al Valentino, non consentí mai di dargli se prima per uomini propri mandati a Napoli non ebbe certezza della sua incarcerazione.

                                                 Cosí essendosi fermate le guerre per tutte l'altre parti d'Italia, non cessorono per ciò, al principio di quella state, secondo il consueto, l'armi de' fiorentini contro a' pisani. I quali, avendo condotti di nuovo a' soldi loro Giampagolo Baglione e alcuni capitani di genti d'arme Colonnesi e Savelli, e unite maggiori forze che 'l solito, gli mandorno a guastare le ricolte de' pisani; procedendo a questo con maggiore animo, perché non dubitavano dovere essere impediti dagli spagnuoli, non solo perché i re di Spagna non aveano nominati i pisani nella tregua, nella quale era stato lecito a ciascuno de' re nominare gli amici e aderenti suoi, ma perché il gran capitano, dopo la vittoria ottenuta contro a' franzesi, se bene prima avesse dato molte speranze a' pisani, era proceduto con termini mansueti co' fiorentini, sperando potergli forse succedere con queste arti il separargli dal re di Francia, e con tutto che da poi fusse escluso da questa speranza nondimeno, non volendo col provocargli dare loro causa che maggiormente si precipitassino a tutte le volontà di quel re, avea per mezzo di Prospero Colonna fatta, benché non altrimenti che con semplici parole, quasi una tacita intelligenza con loro che se accadesse che 'l re di Francia assaltasse di nuovo il reame di Napoli non l'aiutassino, e da altra parte che da lui non fusse dato aiuto a' pisani se non in caso che i fiorentini mandassino l'esercito con l'artiglierie alla espugnazione di quella città, la quale desiderava non recuperassino mentre che seguitavano l'amicizia del re di Francia. Distesesi l'esercito de' fiorentini non solo a dare il guasto in quelle parti del contado di Pisa nelle quali per l'addietro si era dato ma ancora in San Rossore e in Barbericina, dipoi in Valdiserchio e in Val d'Osoli, luoghi congiunti a Pisa; dove quando l'esercito era stato meno potente non si era potuto andare senza pericolo: il quale come fu dato, andati a campo a Librafatta ove era piccolo presidio, costrinsono in pochi dí quelli che vi erano dentro ad arrendersi liberamente. Né si dubita che quello anno i pisani sarebbono stati costretti per la fame a ricevere il giogo de' fiorentini se non fussino suti sostentati da' vicini, e massimamente da' genovesi e da' lucchesi (perché Pandolfo Petrucci, prontissimo a confortare gli altri e larghissimo al promettere di concorrere alle spese, era tardissimo agli effetti): co' danari de' quali Rinieri della Sassetta soldato del gran capitano, ottenuta licenza da lui, e alcuni altri condottieri condussono per mare dugento cavalli; e i genovesi vi mandorno uno commissario con mille fanti; e il Bardella da Porto Venere, corsale famoso nel mare Tirreno, e che pagato da' predetti avea titolo di capitano de' pisani, metteva in Pisa continuamente, con uno galeone e alcuni brigantini, vettovaglie. Onde i fiorentini, giudicando necessario che oltre alle molestie che si davano per terra si proibisse loro l'uso del mare, soldorno tre galee sottili del re Federigo che erano in Provenza: con le quali come don Dimas Ricaiensio capitano loro si approssimò a Livorno il Bardella si discostò, con tutto che alcuna volta, presa l'occasione de' venti, conducesse qualche barca carica di vettovaglie alla foce d'Arno, onde facilmente entravano in Pisa. La quale nel tempo medesimo si molestava per terra: perché l'esercito fiorentino presa che ebbe Librafatta, distribuitosi in campagna in piú parti di quello contado, si ingegnava di proibire la coltivazione delle terre per l'anno futuro, e di impedire che per la via di Lucca e del mare non vi entrassino vettovaglie; e dando alla fine della state il guasto a' migli e altre biade simili, delle quali quel paese produce copiosamente. Né stracchi i fiorentini da tante spese, né giudicando impossibile cosa alcuna che desse loro speranza di pervenire al fine desiderato, si ingegnorono con nuovo modo di offendere i pisani, tentando di fare passare il fiume d'Arno, che corre per Pisa dalla torre della Fagiana vicina a Pisa a [cinque] miglia, per alveo nuovo, nello stagno che è tra Pisa e Livorno: onde si toglieva la facoltà di condurre cosa alcuna dal mare per il fiume d'Arno a Pisa; né avendo l'acque, che piovevano per il paese circostante, esito, per la bassezza sua, di condursi alla marina, rimaneva quella città quasi come in mezzo di una palude; né per la difficoltà di passare Arno arebbeno per l'avvenire potuto correre i pisani per le colline, interrompendo il commercio da Livorno a Firenze; e acciò che quella parte di Pisa per la quale entrava e usciva il fiume non rimanesse aperta agli insulti degli inimici sarebbeno stati i pisani necessitati a fortificarla. Ma questa opera, cominciata con grandissima speranza e seguitata con spesa molto maggiore, riuscí vana: perché, come il piú delle volte accade che simili cose, benché con le misure abbino la dimostrazione quasi palpabile, si ripruovano con l'esperienza (paragone certissimo quanto sia distante il mettere in disegno dal mettere in atto), oltre a molte difficoltà non prima considerate, causate dal corso del fiume, e perché avendo voluto ristrignerlo abbassava da se medesimo rodendo l'alveo suo, apparí il letto dello stagno nel quale aveva a entrare, contro a quello che aveano promesso molti ingegnieri e periti di acque, essere piú alto che il letto di Arno. E dimostrandosi, oltre a quello che per l'ardente desiderio di ottenere Pisa si aspettava, la malignità della fortuna contro a' fiorentini, essendo andate le galee soldate da loro a Villafranca per pigliare una nave de' pisani carica di grani, nel ritornarsene, combattute da' venti appresso a Rapalle, furno costrette a dare in terra; salvandosi con fatica il capitano e gli uomini che le guidavano.

                                                 Aggiunsono i fiorentini alla esperienza dell'armi e del terrore, per non lasciare intentata cosa alcuna, l'esperienza della benignità e della grazia; perché con nuova legge statuirono che qualunque cittadino o contadino pisano andasse fra certo tempo ad abitare alle sue possessioni o alle sue case conseguisse venia di tutte le cose commesse, con la restituzione de' suoi beni. Per la quale abilità pochi sinceramente uscirno di Pisa, ma molti, quasi tutti persone inutili, con volontà degli altri se ne partirono, alleggerendo in uno tempo medesimo la carestia che premeva la città, e conseguendo comodità di potere in futuro con quelle entrate aiutare quegli che vi erano rimasti, come occultamente facevano.

                                                 Diminuirno per queste cose in qualche parte le necessità de' pisani, ma non perciò tanto che per la somma povertà e per la carestia non fussino in grandissime angustie; ma avendo ogni altra cosa meno in orrore che 'l nome de' fiorentini, se bene qualche volta titubassino gli animi de' contadini, deliberavano patire, prima che arrendersi, qualunque estremità. Perciò offersono di darsi a' genovesi, co' quali aveano combattuto tante volte dello imperio e della salute, e da' quali la potenza loro era stata afflitta anticamente. Proposono questa cosa i lucchesi e Pandolfo Petrucci, desiderando, per fuggire quotidianamente spese e molestie, obligare i genovesi a difendere Pisa, e offerendo, perché piú facilmente vi consentissino, sostenere per tre anni qualche parte delle spese. Alla qual cosa benché molti in Genova repugnassino, e specialmente Giovanluigi dal Fiesco, accettando la città, feceno instanza che 'l re di Francia, senza la volontà del quale non erano liberi di prendere tale deliberazione, lo concedesse; dimostrandogli quanto fusse pericoloso che i pisani, esclusi da questa quasi unica speranza, si dessino a' re di Spagna, onde con grandissimo suo pregiudicio e Genova starebbe in continua molestia e pericolo, e la Toscana, quasi tutta, sarebbe necessitata a seguitare le parti di Spagna: le quali cagioni benché da principio movessino tanto il re che quasi cedesse alla loro dimanda, nondimeno, essendo dipoi considerato nel suo consiglio che, cominciando i genovesi a implicarsi per se medesimi in guerre e in confederazioni con altri potentati e in cupidità di accrescere imperio, sarebbe cagione che, alzandosi continuamente co' pensieri a cose maggiori, aspirerebbono dopo non molto ad assoluta libertà, denegò loro espressamente l'accettare il dominio de' pisani; ma non vietando, con tutte le querele gravissime co' fiorentini, che perseverassino di aiutargli.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.12

                                                  

                                                 Il re di Francia, per le difficoltà della conclusione della pace, licenzia gli ambasciatori spagnuoli. Patti conclusi dal re di Francia con Massimiliano e con l'arciduca. Morte di Federigo d'Aragona. Morte di Elisabetta di Castiglia: disposizioni del suo testamento.

                                                  

                                                 Trattavasi in questo tempo medesimo strettamente la pace tra il re di Francia e i re di Spagna; i quali simulatamente proponevano che il regno si restituisse al re Federigo o al duca di Calavria suo figliuolo, a' quali il re di Francia cedesse le sue ragioni, e che al duca si maritasse la reina vedova nipote di quel re, che era già stata moglie di Ferdinando giovane d'Aragona. Né era dubbio il re di Francia essere alienato tanto con l'animo dalle cose del regno di Napoli che per sé arebbe accettato qualunque forma di pace, ma nel partito proposto lo ritenevano due difficoltà: l'una, benché piú leggiera, che pure si vergognava abbandonare i baroni che per avere seguitato la parte sua erano privati de' loro stati, a' quali erano proposte condizioni dure e difficili; l'altra, che piú lo moveva, che, dubitando che se i re di Spagna avendo altrimenti nell'animo proponessino a qualche fine con le solite arti questa restituzione, temeva che, consentendovi, la cosa non avesse effetto, e nondimeno alienarsi l'animo dello arciduca, il quale, desiderando di avere il regno di Napoli per il figliuolo, faceva instanza che la pace fatta altre volte da sé andasse innanzi. Però rispondeva generalmente, desiderarsi da sé la pace ma essergli disonorevole cedere le ragioni che aveva in quel regno a uno aragonese; e da altra parte continuava le pratiche antiche col re de' romani e con l'arciduca: le quali come fu quasi certo dovere avere effetto, per non le interrompere con la pratica incerta de' re di Spagna, dimostrando per maggiore suo onore muoversi per le difficoltà che toccavano a' baroni, chiamati a sé gli imbasciadori spagnuoli, e sedendo nella sedia reale presente tutta la corte, con cerimonie solenni e solite usarsi rare volte, si lamentò che quei re con le parole mostravano desiderio della pace dalla quale erano colla intenzione molto distanti; e perciò, non essendo cosa degna da re consumare il tempo in pratiche vane, essere piú conveniente che si partissino del regno di Francia.

                                                 Dopo la partita de' quali vennono oratori di Massimiliano e dello arciduca per dare perfezione alle cose trattate; nelle quali, perché si indirizzavano a maggiori fini, interveniva il vescovo di Sisteron, nunzio residente ordinariamente in quella corte per il pontefice, e il marchese del Finale mandato propriamente da lui per questa negoziazione: la quale essendo molte altre volte stata ventilata, e dimostrandosi l'utilità molto grande a tutti questi príncipi, ebbe facilmente conclusione che il matrimonio, trattato prima, di Claudia figliuola del re di Francia con Carlo primogenito dello arciduca avesse effetto; aggiugnendo, per maggiore corroborazione, che fusse confermato col giuramento e con la soscrizione del re di Francia, di Francesco monsignore d'Angolem, il quale, non nascendo al re figliuoli maschi, era il piú prossimo alla successione, e di molti altri signori principali del regno di Francia: che annullate per giuste e oneste cagioni tutte le investiture dello stato di Milano concedute insino a quel dí, Massimiliano ne concedesse la investitura al re di Francia per sé e per i figliuoli maschi, in caso n'avesse, e non avendo maschi fusse per favore del matrimonio predetto conceduta a Claudia e a Carlo, e morendo Carlo innanzi al matrimonio consumato fusse conceduta a Claudia e al secondogenito dell'arciduca, in caso ch'ella si maritasse a lui: che tra il pontefice il re de' romani e il re di Francia e l'arciduca si intendesse fatta confederazione a difesa comune e a offesa de' viniziani, per recuperare le cose che occupavano di tutti: che Cesare passasse in Italia personalmente contro a' viniziani, e poi potesse passare a Roma per la corona dell'imperio: che per la investitura, il re di Francia, come ne fusse espedito il privilegio, pagasse a lui sessantamila fiorini di Reno e sessantamila altri fra sei mesi; e ciascuno anno, nella festa della Natività del Signore, un paio di sproni d'oro: che a' re di Spagna fusse lasciato luogo di entrarvi infra quattro mesi, ma non dichiarato se, in caso non vi entrassino, fusse lecito al re di Francia di assaltare il regno di Napoli: che il re di Francia non aiutasse piú il conte palatino, il quale, stimolato da lui e sostentato dalla speranza de' soccorsi suoi, era in guerra grave col re de' romani: esclusi i viniziani, benché gli oratori loro fussino dal re sempre molto gratamente uditi e che 'l cardinale [di Roano], per liberargli di ogni sospetto, promettesse continuamente, con molto efficaci parole e giuramenti, che mai il suo re contraverrebbe alla confederazione che aveva con loro. Queste cose si contennono nelle scritture stipulate solennemente; oltre alle quali si trattò che Cesare e il re convenissino insieme in quel luogo che altre volte si determinasse, promettendo il re che allora libererebbe di carcere Lodovico Sforza, dandogli onesto modo di vivere nel regno di Francia; la salute del quale si vergognava pure Cesare di non procurare, ricordandosi quanto per le promesse fattegli e per la speranza avuta vanamente in lui si fusse accelerata la sua rovina. Però, e quando il cardinale di Roano andò a trovarlo a Trento aveva operato che gli fusse rimesso molto della strettezza con la quale prima era tenuto, e ora faceva instanza che liberamente potesse stare nella corte del re o in quella parte di Francia che al re piú sodisfacesse. Promesse ancora il re, a instanza sua, la restituzione de' fuorusciti del ducato di Milano, sopra la quale erano state nella pratica di Trento molte difficoltà. La quale capitolazione, essendo tanto utile per lo arciduca e per Massimiliano, si credeva che, non ostante le spesse sue mutazioni, avesse a andare innanzi; essendovi compreso il pontefice, ed essendo grata al re di Francia, non tanto per cupidità che avesse allora di nuove imprese quanto per desiderio di ottenere la investitura di Milano, e di assicurarsi di non essere molestato da Cesare e dal figliuolo.

                                                 Morí quasi ne' dí medesimi il re Federigo a Tors, privato al tutto di speranza d'avere piú per accordo a recuperare il regno di Napoli: benché prima ingannato, come è cosa naturale degli uomini, dal desiderio si fusse persuaso essere piú inclinato a questo il re di Spagna che il re di Francia, non considerando essere vano sperare nel secolo nostro sí magnanima restituzione di uno tanto regno, essendone stati esempli sí rari eziandio ne' tempi antichi disposti molto piú che i tempi presenti agli atti virtuosi e generosi, né pensando essere alieno da ogni verisimile che chi aveva usato tante insidie per occuparne la metà volesse, ora che l'aveva conseguito tutto, privarsene: ma nel maneggio delle cose si era accorto non essere minore difficoltà nell'uno che nell'altro, anzi doversi piú disperare che chi possedeva restituisse che chi non possedeva consentisse.

                                                 Nella fine di questo anno medesimo morí Elisabeth reina di Spagna, donna d'onestissimi costumi e in concetto grandissimo, ne' regni suoi, di magnanimità e di prudenza: alla quale apparteneva propriamente il regno di Castiglia, parte molto maggiore e piú potente di Spagna, pervenutagli ereditaria per la morte di Enrico suo fratello, ma non senza sangue e senza guerra. Perché se bene era stato creduto lungamente che Enrico fusse per natura impotente al coito, e che perciò non potesse essere sua figliuola la [Beltramigia], partorita dalla sua moglie e nutrita molti anni da lui per figliuola, e che per questa cagione Elisabeth, vivente Enrico, fusse stata riconosciuta per principessa di Castiglia, titolo di chi è piú prossimo alla successione, nondimeno levandosi alla morte sua in favore della Beltramigia molti signori della Castiglia, e aiutandola con l'armi il re di Portogallo suo congiunto, venute finalmente le parti, appresso a..., alla battaglia, fu approvata dal successo della giornata per piú giusta la causa d'Elisabeth: conducendo l'esercito Ferdinando d'Aragona suo marito, nato ancora esso della casa de' re di Castiglia e congiunto a Elisabeth in terzo grado di consanguinità; e il quale essendo poi succeduto, per la morte di Giovanni suo padre, nel regno di Aragona, si intitolavano re e reina di Spagna. Perché, essendo unito al regno d'Aragona quello di Valenza e il contado di Catalogna, era sotto l'imperio loro tutta la provincia di Spagna la quale si contiene tra i monti Pirenei, il mare Oceano e il mare Mediterraneo, e sotto 'l cui titolo, per essere stata occupata anticamente da molti re mori, si comprende, come ciascuno di essi faceva uno titolo da per sé, il titolo di molti regni; eccettuato nondimeno il regno di Granata che, allora posseduto da' mori, fu dipoi gloriosamente ridotto da loro sotto lo imperio di Castiglia, e il piccolo regno di Portogallo e quello di Navarra molto minore, che avevano re particolari. Ma essendo il regno di Aragona, con la Sicilia, la Sardigna e l'altre isole appartenenti a quello, proprio di Ferdinando, si reggeva da lui solo, non vi si mescolando il nome o l'autorità della reina. Altrimenti si procedeva in Castiglia, perché essendo quel regno ereditario di Elisabeth e dotale di Ferdinando si amministrava col nome con le dimostrazioni e con gli effetti comunemente, non si eseguendo cosa alcuna se non deliberata ordinata e sottoscritta da tutt'a due; comune era il titolo di re di Spagna, comunemente gli imbasciadori si spedivano, comunemente gli eserciti s'ordinavano, le guerre comunemente s'amministravano, né l'uno piú che l'altro si arrogava della autorità e del governo di quello reame. Ma per la morte di Elisabeth senza figliuoli maschi apparteneva la successione di Castiglia, per le leggi di quel regno, che attendendo piú alla prossimità che al sesso non escludono le femmine, a Giovanna figliuola comune di Ferdinando e di lei, moglie dell'arciduca: perché la figliuola maggiore di tutte, che era stata congiunta a Emanuel re di Portogallo, e uno piccolo fanciullo nato di quella erano molto prima passati all'altra vita. Onde Ferdinando, non aspettando piú a lui, finito il matrimonio, l'amministrazione del regno dotale, aveva a ritornare al piccolo regno suo di Aragona, piccolo a comparazione del regno di Castiglia per la strettezza del paese e dell'entrate e perché i re aragonesi, non avendo assoluta l'autorità regia in tutte le cose, sono in molte sottoposti alle costituzioni e alle consuetudini di quelle provincie, molto limitate contro alla potestà de' re. Ma Elisabeth, quando fu vicina alla morte, nel testamento dispose che Ferdinando mentre viveva fusse governatore di Castiglia; mossa o perché, essendo sempre vivuta congiuntissima con lui, desiderava si conservasse nella pristina grandezza o perché, secondo diceva, conosceva essere piú utile a' suoi popoli il continuare sotto il governo prudente di Ferdinando, né meno al genero e alla figliuola; a' quali, poiché alla fine aveano similmente a succedere a Ferdinando, sarebbe beneficio non piccolo che insino a tanto che Filippo, nato e nutrito in Fiandra ove le cose si governano diversamente, pervenisse a piú matura età e a maggiore cognizione delle leggi delle consuetudini delle nature e de' costumi di Spagna, fussino conservati loro sotto pacifico e ordinato governo tutti i regni, mantenendosi in questo mezzo come uno corpo medesimo la Castiglia e l'Aragona.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.13

                                                  

                                                 Prime controversie fra il pontefice e Venezia per le terre di Romagna. Pubblicazione delle convenzioni fra Massimiliano e l'arciduca, e il re di Francia. Vicende della guerra de' fiorentini contro Pisa: fazione al ponte a Cappellese. Giampaolo Baglione abbandona il soldo de' fiorentini.

                                                  

                                                 La morte della reina partorí poi nuovi accidenti in Spagna; ma in quanto alle cose d'Italia, come di sotto si dirà, piú tranquilla disposizione e occasione di nuova pace. Continuossi nell'anno mille cinquecento cinque la medesima quiete che era stata nell'anno dinanzi, e tale che, se non l'avessino qualche poco perturbata gli accidenti che nacquono per rispetto de' fiorentini e de' pisani, si sarebbe questo anno cessato totalmente da' movimenti delle armi, essendo una parte de' potentati desiderosa della pace; gli altri piú inclinati alla guerra, impediti per varie cagioni. Perché al re di Spagna, che cosí continuava per ancora il titolo suo, occupato ne' pensieri che gli succedevano per la morte della reina, bastava conservarsi per mezzo della tregua fatta il regno napoletano; e il re di Francia stava coll'animo molto sospeso, perché Cesare, seguitando in questo come nell'altre cose la sua natura, non aveva mai ratificato la pace fatta; e il pontefice, desideroso di cose nuove, non ardiva né poteva muoversi se non accompagnato dall'armi di príncipi potenti; e a' viniziani non pareva piccola grazia se in tante cose trattate contro a loro, e in tanto mala disposizione del pontefice, non fussino molestati dagli altri. L'animo del quale per mitigare aveano, piú mesi innanzi, offertogli di lasciare Rimini e tutto quello che dopo la morte di Alessandro pontefice aveano occupato in Romagna, purché consentisse che ritenessino Faenza col suo territorio; mossi dal timore che aveano del re di Francia e perché Cesare, ricercatone da Giulio, mandato uno imbasciadore a Vinegia, gli avea confortati che restituisseno le terre della Chiesa: ma avendo il pontefice, secondo la costanza del suo animo e la natura libera di esprimere i suoi concetti, risposto che non consentirebbe ritenessino una piccola torre ma che sperava di recuperare innanzi alla sua morte Ravenna e Cervia, le quali città non meno ingiustamente che Faenza possedevano, non si era proceduto piú oltre. Ma nel principio di questo anno, essendo divenuto maggiore il timore, offersono per mezzo del duca d'Urbino, amico comune, di restituire quel che aveano occupato che non fusse de' contadi di Faenza e di Rimini, se il pontefice, che sempre avea negato di ammettere gli oratori loro a prestare l'ubbidienza, consentisse ora di ammettergli. Alla quale dimanda benché il pontefice stesse alquanto renitente, parendogli cosa aliena dalla sua degnità né conveniente a tante querele e minaccie che avea fatte, nondimeno astretto dalle molestie de' furlivesi degli imolesi e de' cesenati, che privati della maggiore parte de' loro contadi tolleravano grande incomodità, né vedendo per altra via il rimedio propinquo, poiché le cose tra Cesare e il re di Francia procedevano con tanta lunghezza, finalmente acconsentí a quel che in quanto agli effetti era guadagno senza perdita, poiché né con parole né con scritture non avea a obligarsi a cosa alcuna. Andorno adunque, ma restituite prima le terre predette, otto imbasciadori de' principali del senato, eletti insino al principio della sua creazione, numero maggiore che mai avesse destinato quella republica ad alcuno pontefice che non fusse stato viniziano; i quali, prestata l'ubbidienza con le cerimonie consuete, non riportorono per ciò a Vinegia segno alcuno né di maggiore facilità né d'animo piú benigno del pontefice.

                                                 Mandò in questo tempo il re di Francia, desideroso di dare perfezione alle cose trattate, il cardinale di Roano ad Agunod terra della Germania inferiore; nella quale, occupata nuovamente al conte palatino, l'aspettavano Cesare e l'arciduca. Alla venuta del quale si publicorno e giurorno solennemente le convenzioni fatte, e il cardinale pagò a Cesare la metà de' danari promessi per la investitura, de' quali doveva ricevere l'altra metà come prima fusse passato in Italia; e nondimeno e allora accennava e poco di poi dichiarò non potervi passare, l'anno presente, per l'occupazioni che avea nella Germania: onde tanto piú cessavano i sospetti delle guerre, perché senza il re de' romani non avea il re di Francia inclinazione a tentare cose nuove.

                                                 Rimanevano accesi solamente in Italia i travagli quasi perpetui tra i fiorentini e i pisani. Tra' quali, procedendosi con guerra lunga né a impresa alcuna determinata ma secondo l'occasioni che ora all'una ora all'altra parte si dimostravano, accadde che uscí di Cascina, nella qual terra i fiorentini facevano la sedia della guerra, Luca Savello e alcun'altri condottieri e conestabili de' fiorentini, con quattrocento cavalli e con molti fanti, per condurre vettovaglie a Librafatta e per andare a predare certe bestie de' pisani che erano di là dal fiume del Serchio in sul lucchese; non tanto per la cupidità della preda quanto per desiderio di tirare i pisani a combattere, confidandosi, per essere piú forti di loro in campagna, di rompergli: e avendo messe le vettovaglie in Librafatta e fatta la preda disegnata, ritornavano indietro lentamente per la medesima via, per dare tempo a' pisani di venire ad assaltargli. Uscí, ricevuto avviso della preda fatta, subito di Pisa Tarlatino capitano della guerra ma, per la prestezza del muoversi, con non piú che con quindici uomini d'arme quaranta cavalli leggieri e sessanta fanti, dato ordine che gli altri lo seguitassino; e avendo notizia che alcuni de' cavalli de' fiorentini erano corsi insino a San Iacopo appresso a Pisa andò verso loro: i quali si ritirorono per unirsi con l'altre genti le quali si erano fermate al ponte a Cappellese in sul fiume dell'Osole, vicino a Pisa a [tre] miglia, aspettando quivi le bestie predate e i muli co' quali aveano condotta la vettovaglia, che venivano dietro; ed essendo tutti di là dal ponte, il quale i primi fanti aveano occupato e muniti gli argini e i fossi. Aveagli Tarlatino seguitati insino appresso al ponte, né si accorse prima essersi fermate in quel luogo tutte le genti degli inimici che era condotto tanto innanzi che senza manifesto pericolo non poteva tornare indietro. [Però] deliberò di assaltare il ponte; dimostrato a' suoi che quello a che la necessità gli costrigneva non era senza speranza grande di potere vincere: perché nel luogo stretto ove pochi potevano combattere non poteva loro nuocere il numero maggiore degli inimici, in modo che quando bene non potessino passare il ponte, si difenderebbono facilmente tanto che sarebbe a tempo di soccorrergli il popolo di Pisa, il quale avea mandato a sollecitare; ma che passando il ponte sarebbe facilissima la vittoria, perché, essendo stretta la strada di là dal fiume che corre tra 'l ponte e il monte, la moltitudine degli inimici interrotta da' somieri e dalle bestie predate si disordinerebbe agevolmente da se medesima, ridotta in luogo impedito e a combattere e a fuggire. Succederono i fatti secondo le parole. Egli primo, spronato furiosamente il cavallo, assaltò il ponte, ma costretto a discostarsi, fece un altro il medesimo e dipoi il terzo; al quale essendo stato ferito il cavallo, il capitano ritornato con impeto grande ad aiutarlo passò, con la forza dell'armi e con la ferocia del cavallo, di là dal ponte, dandogli luogo i fanti che lo difendevano. Feciono il medesimo quattro altri de' suoi cavalli. I quali tutti mentre che di là dal ponte combattono co' fanti degli inimici in uno stretto prato, alcuni fanti de' pisani passato il fiume con l'acqua insino alle spalle, e da altra parte passando per il ponte, già abbandonato, senza ostacolo i cavalli, e cominciando a giugnere l'altra gente che sparsa e senza ordine veniva da Pisa, ed essendo i soldati de' fiorentini ridotti in luogo stretto e confusi tra loro medesimi e ripieni di grandissima viltà (piú ancora gli uomini d'arme che i fanti), né avendo capitano di autorità che gli ritenesse o riordinasse, si messono in manifesta fuga, lasciando la vittoria quegli che molto piú potenti di forze camminavano ordinatamente in battaglia a quegli che in pochissimo numero erano venuti alla sfilata, con intenzione piú presto di appresentarsi che di combattere; restando tra morti presi e feriti molti capitani di fanti e persone di condizione: e quegli che fuggirono furono la piú parte svaligiati nella fuga da' contadini del paese di Lucca.

                                                 Disordinoronsi per questa rotta molto nel contado di Pisa le cose de' fiorentini; perché essendo rimasti in Cascina pochi cavalli non potettono proibire per molti dí che i pisani insuperbiti per la vittoria non corressino e predassino tutto il paese. E quello che importò piú, entrato per questo caso Pandolfo Petrucci in isperanza che facilmente si potesse interrompere che i fiorentini non dessino quella state il guasto a' pisani, i quali combattendo con le solite difficoltà erano, benché molto parcamente, aiutati da' genovesi e da' lucchesi, perché i sanesi somministravano loro piú consigli che danari o vettovaglie, procurò che Giampaolo Baglioni, del quale i fiorentini per essere stati causa principale del suo ritorno in Perugia confidavano molto, durante la condotta sua recusò di continuare ne' soldi loro, allegando che essendo a' medesimi stipendi Marcantonio e Muzio Colonna, e Luca e Iacopo Savello, che tutti insieme aveano maggiore numero di soldati che non avea egli, non vi stava senza pericolo per la diversità delle fazioni: e perché avessino piú breve spazio di tempo a provedersi ritardò quanto potette prima che totalmente scoprisse il suo pensiero. E perché alla escusazione sua fusse prestata maggiore fede, promesse a' fiorentini di non pigliare l'armi contro a loro: di che perché fussino meglio sicuri lasciò, come per pegno, a' soldi loro Malatesta suo figliuolo di molto tenera età, con quindici uomini d'arme. Egli, per non rimanere del tutto senza condotta, si condusse con settanta uomini d'arme co' sanesi: i quali perché erano inabili a sopportare tanta spesa, i lucchesi partecipi di questo consiglio soldorno con settanta uomini d'arme Troilo Savello, soldato prima de' sanesi.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.14

                                                  

                                                 Timori de' fiorentini per accordi fra Pandolfo Petrucci Giampaolo Baglione e Bartolomeo d'Alviano. I fiorentini ricorrono al re di Francia, che pone condizioni troppo gravose. Il gran capitano ordina di non offendere i fiorentini. L'Alviano contro i fiorentini. I fiorentini comandati da Ercole Bentivoglio sconfiggono le genti dell'Alviano.

                                                  

                                                 Per la partita improvisa di Giampaolo e per il danno ricevuto al ponte a Cappellese, i fiorentini, rimasti con poca gente, non dettono per quello anno il guasto a' pisani: anzi erano necessitati a pensare rimedio a maggiori pericoli. Perché essendosi svegliato in Pandolfo e in Giampaolo l'antico umore, trattavano secretamente col cardinale de' Medici di turbare lo stato de' fiorentini; facendo il fondamento principale in Bartolomeo d'Alviano, il quale dimostrandosi discorde col gran capitano, venuto in terra di Roma, riduceva a sé con varie speranze e promesse molti soldati. I quali consigli si dubitava non penetrassino insino al cardinale Ascanio, con ordine, succedendo felicemente le cose di Toscana, di assaltare, con le forze unite de' fiorentini e degli altri che assentivano a questo movimento, il ducato di Milano, sperando che assaltato facesse facilmente mutazione, per le poche genti d'arme che vi erano de' franzesi, perché fuora erano moltissimi nobili, per la inclinazione de' popoli al nome sforzesco, e perché il re di Francia, essendosi per grave infermità sopravenutagli ridotto tanto allo stremo che per molte ore fu disperata totalmente la sua salute, se bene dipoi si fusse alquanto discostato dal punto della morte, pareva in modo condizionato che poco si sperava della sua vita. E quegli che consideravano piú intrinsecamente sospettavano che Ascanio, il quale era in questi tempi frequentato molto in Roma dallo oratore viniziano, avesse occulta intelligenza non solo col gran capitano ma ancora co' viniziani; i quali sarebbono stati piú pronti che per il passato e con maggiore confidenza all'offesa de' franzesi, perché il re di Francia, essendo venuto in nuovi sospetti e diffidenze col re de' romani e col figliuolo, e considerando, dopo la morte della reina di Spagna, quanta sarebbe la grandezza dell'arciduca, alienatosi apertamente da loro, aiutava contro all'arciduca il duca di Ghelleri acerrimo inimico suo, e inclinava a fare particolare intelligenza col re di Spagna. Ma (come sono fallaci i pensieri degli uomini e caduche le speranze) mentre che tali cose si trattano, il re di Francia del quale era quasi disperata la vita andava continuamente recuperando la salute, e Ascanio morí all'improviso di peste in Roma. Per la morte del quale essendo cessato il pericolo dello stato di Milano, non si interroppono perciò del tutto i disegni del molestare i fiorentini: per i quali si convennono insieme al Piegai, castello tra i confini de' perugini e de' sanesi, Pandolfo Petrucci Giampaolo Baglione e Bartolomeo d'Alviano, non piú con speranza di essere potenti a rimettere i Medici in Firenze ma perché l'Alviano, entrando in Pisa con volontà de' pisani, molestasse per sicurtà di quella città i confini de' fiorentini; con intenzione di procedere piú oltre secondo l'opportunità dell'occasioni. Le quali preparazioni cominciando a venire a luce, temevano i fiorentini della volontà del gran capitano, essendo certi che la condotta dell'Alviano col re di Spagna continuava insino al novembre prossimo, e perché non si credeva che senza suo consentimento Pandolfo Petrucci tentasse cose nuove; il quale, non avendo mai voluto pagare i danari promessi al re di Francia e circonvenutolo spesso con varie arti, totalmente dal re di Spagna dependeva. E accrebbe il sospetto de' fiorentini, che temendo il signore di Piombino, il quale era sotto la protezione del re di Spagna, di non essere assaltato da' genovesi, Consalvo, per sicurtà sua avea mandato a Piombino, sotto Nugno del Campo, mille fanti spagnuoli, e nel canale tre navi due galee e alcuni altri legni; le quali forze condotte in luogo tanto vicino a' fiorentini davano loro causa di temere che non si unissino con l'Alviano, come esso affermava essergli stato promesso. Ma la verità era che, avendo il re di Spagna dopo la tregua fatta col re di Francia, per diminuire le spese, commesso, insieme con la limitazione delle condotte degli altri, che la ricondotta dell'Alviano si riducesse a cento lancie, egli sdegnato non solo negava di ricondursi ma affermava essere libero dalla condotta prima, perché non gli erano pagati gli stipendi corsi e perché il gran capitano avea ricusato di osservargli la promessa fatta di concedergli, dopo la vittoria di Napoli, dumila fanti per usargli contro a' fiorentini in favore de' Medici. Ed era naturalmente il cervello dell'Alviano cupido di cose nuove e impaziente della quiete.

                                                 Ricercorono i fiorentini, per difendersi da questo assalto, il re di Francia, obligato per i capitoli della protezione a difendergli con quattrocento lancie, che ne mandasse dugento in aiuto loro; il quale, mosso piú dalla cupidità de' danari che da' prieghi o dalla compassione degli antichi collegati, rispose non volere dare loro soccorso alcuno se prima non gli numeravano trentamila ducati dovutigli per l'obligo della protezione; e benché i fiorentini, allegando essere aggravati da infinite spese necessarie alla loro difesa, lo supplicassino di alcuna dilazione, perseverò ostinatamente nella medesima sentenza: di maniera che piú giovò alla salute loro chi era sospetto e ingiuriato che chi era confidente e beneficato. Conciossiaché 'l gran capitano, desideroso che non si turbasse la quiete d'Italia, o per non interrompere le pratiche della pace cominciate di nuovo tra i due re o perché già, per l'occasione della morte della reina e i semi della discordia futura tra il suocero e il genero, avesse qualche pensiero d'appropriarsi il reame di Napoli, non solo faceva ogni diligenza per indurre l'Alviano alla ricondotta (il quale, per comandamento avuto dal papa che o licenziasse le genti o uscisse del territorio della Chiesa, era venuto a Pitigliano) ma gli aveva, come a feudatario e come a soldato del suo re, comandato che non procedesse piú innanzi, sotto pena di privazione degli stati che aveva nel reame, d'entrata di settemila ducati; e a' pisani, ricevuti non molto prima da lui secretamente nella protezione del suo re, e al signore di Piombino aveva significato che non lo ricevessino; e offerto a' fiorentini essere contento che usassino per la difesa loro i fanti suoi che erano in Piombino, i quali voleva che stessino sotto l'ubbidienza di Marcantonio Colonna loro condottiere. Ricercò similmente Pandolfo Petrucci che non fomentasse l'Alviano, e proibí a Lodovico, figliuolo del conte di Pitigliano, a Francesco Orsino e a Giovanni da Ceri suoi soldati che non lo seguitassino.

                                                 E nondimeno l'Alviano, con cui erano Gianluigi Vitello Giancurrado Orsino trecento uomini d'arme e cinquecento fanti venturieri, procedendo, benché lentamente, sempre innanzi e avendo vettovaglia dai sanesi, era per la Maremma de' sanesi venuto nel piano di Scarlino, terra sottoposta a Piombino, presso a una piccola giornata a' confini de' fiorentini, dove gli sopragiunse un uomo mandato dal gran capitano a comandargli di nuovo che non andasse a Pisa e non offendesse i fiorentini: al quale avendo replicato che era libero di se medesimo poiché il gran capitano non gli avea osservato le cose promesse, andò ad alloggiare appresso a Campiglia, terra de' fiorentini; ove si fece leggiera scaramuccia tra lui e le genti de' fiorentini che facevano la massa a Bibbona. Venne poi in su la Cornia, tra' confini de' fiorentini e di Sughereto; ma con disegni e speranze molto incerte, rappresentandosegli a ogn'ora maggiore difficoltà: perché né da Piombino aveva piú vettovaglie, né gli mandavano fanti, secondo la intenzione che gli era stata data, Giampagolo Baglione e i Vitelli, le deliberazioni de' quali si accomodavano volentieri agli esiti delle cose; vedeva ritenersi Pandolfo Petrucci da favorire come prima le cose sue, né era bene certo che i pisani per non disubbidire al gran capitano volessino riceverlo: per le quali cagioni, e perché continuamente si trattava la ricondotta sua, ma con maggiore speranza perché non ricusava piú di stare contento alle cento lancie, si ritirò al Vignale, terra del signore di Piombino, dando nome di aspettarne da Napoli l'ultima determinazione. Ma avuto in questo tempo da' pisani il consentimento di riceverlo in Pisa, partitosi dal Vignale, dove era stato alloggiato dieci dí, la mattina de' diciassette d'agosto si scoperse con l'esercito in battaglia alle Caldane, un miglio sotto a Campiglia, con intenzione di combattere quivi con l'esercito fiorentino, il quale vi era andato ad alloggiare il dí davanti, ma era accaduto che avendo per spie venute del campo suo presentito qualche cosa della sua mossa s'era la notte medesima ritirato alle mura di Campiglia: ove conoscendo l'Alviano non gli potere assaltare senza disavvantaggio grande, si voltò al cammino di Pisa per la strada della Torre a San Vincenzio, che è distante da Campiglia cinque miglia. Da altra parte le genti de' fiorentini, governate da Ercole Bentivoglio, il quale, come era peritissimo del paese, non desiderava per l'opportunità del sito altro che di fare la giornata seco in quello luogo, si dirizzorono per la via che va da Campiglia alla Torre medesima di San Vincenzio; avendo fatto due parti de' cavalli leggieri, l'una delle quali seguitava l'esercito dell'Alviano molestandolo continuamente alla coda, l'altra andava innanzi a incontrare gli inimici per la via medesima, per la quale veniva dietro l'esercito fiorentino: e questi, arrivati alla Torre innanzi che vi arrivassino le genti dello Alviano e attaccatisi con quegli che venivano innanzi, da' quali essendo facilmente ributtati, si andorono ritirando alla volta dello esercito, che era già presso a mezzo miglio. Ove fatta relazione che la piú parte degli inimici era già passata la Torre, Ercole, camminando lentamente, si condusse appunto alla coda loro nella rovina di San Vincenzio, dove avevano fatto testa gli uomini d'arme e i fanti loro, e come fu in sul piano del passo, investitigli quivi per fianco valorosamente con la metà dello esercito, poiché ebbe combattuto per buono spazio, gli piegò: nel quale primo assalto fu in modo rotta la fanteria loro e spinta insino al mare che mai piú rifece testa. Ma la cavalleria che si era ritirata una arcata, passato il fosso di San Vincenzio verso Bibbona, rifatta testa e ristrettasi, assaltò con grande impeto le genti de' fiorentini e le ributtò ferocemente insino al fosso: però Ercole tirò innanzi il resto delle genti, e ridotto quivi da ogni banda tutto il nervo dello esercito si combatté per grande spazio ferocemente, non inclinando ancora la vittoria a parte alcuna; sforzandosi l'Alviano, che facendo officio non manco di soldato che di capitano aveva avuto con uno stocco due ferite nella faccia, di spuntare da quel passo gl'inimici, il che succedendogli sarebbe restato vincitore. Ma Ercole, che piú dí innanzi aveva affermato che se la battaglia si conduceva in quel luogo otterrebbe con industria e senza pericolo la vittoria, fece piantare in su la ripa del fosso della Torre sei falconetti che conduceva seco; co' quali avendo cominciato a battere gli inimici, e vedendo che per l'impeto delle artiglierie cominciavano già ad aprirsi e disordinarsi, intento a questa occasione in su la quale s'aveva sempre promessa la vittoria, gli investí con grande impeto da piú parti con tutte le forze dello esercito, cioè co' cavalli leggieri per la via della marina, con le genti d'arme per la strada maestra e con la fanteria dal lato di sopra per il bosco; col quale impeto senza alcuna difficoltà gli ruppe e messe in fuga, salvandosi l'Alviano, non senza fatica con pochissimi cavalli corridori, co' quali fuggí a Monteritondo in quel di Siena: il resto della sua gente, da San Vincenzio insino in sul fiume della Cecina, quasi tutta fu presa e svaligiata; perdute tutte le bandiere e salvatisi pochissimi cavalli.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.6, cap.15

                                                  

                                                 Dopo vivi contrasti, a Firenze si delibera di porre il campo a Pisa. Fallimento dell'impresa per la debolezza delle milizie; i fiorentini levano il campo da Pisa.

                                                  

                                                 Questo esito ebbe il movimento di Bartolomeo d'Alviano, stato piú negli occhi degli uomini per le sue lunghe pratiche e per la iattanza delle sue parole piene di ferocia e di minaccie che per forze o fondamento stabile che avesse la impresa sua. Da questa vittoria preso animo Ercole Bentivoglio e Antonio Giacomini, commissario del campo, confortorono con veementi lettere e spessi messi i fiorentini che l'esercito vincitore si accostasse alle mura di Pisa, fatte prima con piú prestezza fusse possibile le provisioni necessarie per espugnarla; sperando che, per trovarsi in molte difficoltà ed essere mancata loro la speranza della venuta dell'Alviano, e come pare che ogni cosa ceda alla riputazione della vittoria, avesse con non molta difficoltà a ottenersi: nella quale speranza gli nutriva molto qualche intelligenza che avevano in Pisa con alcuni. Ma in Firenze, dimandando il magistrato de' dieci, magistrato proposto alle cose della guerra, consiglio di quello fusse da fare a quegli cittadini co' quali erano consueti di consultare le faccende importanti, fu dannata unitamente da tutti questa deliberazione; perché presupponevano che ne' pisani fusse la consueta durezza, e che essendo esperimentati tanti anni nella guerra non bastasse a superargli il nome e la reputazione della vittoria avuta contro ad altri, per la quale non erano in parte alcuna diminuite le forze loro, ma bisognasse vincergli, come in ogni altro tempo, con le forze, delle quali solamente temono gli uomini bellicosi: e questo apparire pieno di molte difficoltà. Perché essendo la città di Pisa circondata, quanto altra città d'Italia, da solidissime muraglie, e bene riparata e fortificata e difesa da uomini valorosi e ostinati, non si poteva sperare di sforzarla se non con grosso esercito e con soldati che non fussino inferiori di virtú e di valore; il quale anche non sarebbe bastante a vincerla d'assalto o con breve oppugnazione, ma che sarebbe necessitato di starvi intorno molti dí, per accostarsi sicuramente e col prendere de' vantaggi, e quasi piú presto straccandogli che sforzandogli. Repugnare a queste cose la stagione dell'anno, perché né si poteva con prestezza mettere insieme altro che fanteria tumultuaria e collettizia, né accostarvisi con intenzione di fermarsi molto, per la inclemenza dell'aria corrotta da' venti del mare, che diventano pestiferi per i vapori degli stagni e delle paludi, e perniciosa agli eserciti, come era accaduto quando fu campeggiata da Paolo Vitelli; e perché il paese di Pisa comincia insino di settembre a essere sottoposto alle pioggie, dalle quali per la bassezza sua è soprafatto tanto che in quel tempo difficilmente vi si sta intorno. Né in tanta ostinazione universale potersi fare fondamento in trattati o intelligenze particolari, perché o riuscirebbono cose simulate o maneggiate da persone che non arebbono facoltà d'eseguire quello che promettessino. Aggiugnersi che benché al gran capitano non fusse stata data la fede publica, nondimeno avergli pure Prospero Colonna, benché come da sé, quasi con tacito consentimento loro, dato intenzione che per questo anno non si andrebbe con artiglieria alle mura di Pisa; e però aversi a tenere per certo che, commosso da questo sdegno e per le promissioni fatte molte volte a' pisani e perché alle cose sue non espediva questo successo de' fiorentini, si opporrebbe a questa impresa; e avere modo facile di impedirla, potendo in poche ore mettere in Pisa quegli fanti spagnuoli che erano in Piombino, come molte volte avea affermato che farebbe quando si tentasse di espugnarla. Essere piú utile usare l'occasione della vittoria dove, se bene il frutto fusse minore, la facilità senza comparazione fusse maggiore, né perciò non senza notabile profitto. Nessuno essersi piú opposto e opporsi continuamente a' disegni loro, nessuno avere piú impedito la recuperazione di Pisa, nessuno piú procurato di alterare il presente governo, che Pandolfo Petrucci; egli avere confortato il Valentino a entrare armato nel dominio fiorentino, egli essere stato principale consultore e guida dello assalto di Vitellozzo e della rebellione d'Arezzo, essersi mediante i suoi consigli congiunti con lo stato di Siena i genovesi e i lucchesi a sostentare i pisani, egli avere indotto Consalvo a pigliare la protezione di Piombino e a intromettersi di Pisa e a ingerirsi nelle cose di Toscana; e chi altri essere stato stimolatore e fautore di questo moto dell'Alviano? Doversi voltare l'esercito contro a lui, predare e scorrere tutto il contado di Siena, dove non si farebbe resistenza alcuna: potere succedere, con la reputazione dell'armi loro contro a lui, qualche movimento nella città, dove aveva molti inimici; e almeno non essere per mancare occasione di occupare qualche castello importante in quel contado, da tenerlo come per cambio e per pegno di riavere Montepulciano; e quello che non avevano fatto i benefici potersi sperare che facesse questo risentimento, di farlo per lo avvenire procedere con maggiore circospezione all'offese loro. Doversi nel medesimo modo correre poi il paese de' lucchesi, co' quali essere stato pernicioso usare tanti rispetti. Cosí potersi sperare di trarre della vittoria acquistata onore e frutto, ma andando all'oppugnazione di Pisa non si conoscere altro fine che spesa e disonore. Le quali ragioni allegate concordemente non raffreddorno però lo ardore che aveva il popolo (che si governa spesso piú con l'appetito che con la ragione) che vi si andasse a porre il campo; accecato anche da quella opinione inveterata che a molti de' cittadini principali, per fini ambiziosi, non piacesse la recuperazione di Pisa. Nella quale sentenza essendo non meno caldo di tutti gli altri Piero Soderini gonfaloniere, convocato il consiglio grande del popolo, al quale non solevano referirsi queste deliberazioni, dimandò se pareva loro che si andasse col campo a Pisa: dove essendo co' voti quasi di tutti risposto che vi si andasse, superata la prudenza dalla temerità, fu necessario che l'autorità della parte migliore cedesse alla volontà della parte maggiore. Però si attese a fare le provisioni con incredibile celerità, desiderando prevenire non manco il soccorso del gran capitano che i pericoli de' tempi piovosi.

                                                 Con la quale celerità, il sesto dí di settembre, si accostò l'esercito con seicento uomini d'arme e settemila fanti sedici cannoni e molte altre artiglierie alle mura di Pisa, ponendosi tra Santa Croce e Santo Michele, nel luogo medesimo dove già si pose il campo de' franzesi; e avendo la notte seguente piantate prestissimamente le artiglierie, batterono il prossimo dí con impeto grande dalla porta di Calci insino al torrone di San Francesco dove le mura fanno dentro uno angolo: e avendo, da levata di sole, al quale tempo cominciorno a tirare l'artiglierie, insino a venti una ora rovinate piú di trenta braccia di muraglia, si fece dove era rovinato una grossa scaramuccia, ma con poco profitto, per non essere tanto spazio di muro in terra quanto sarebbe stato necessario a una terra dove gli uomini si erano presentati alla difesa col consueto animo e valore. Però la mattina seguente, per avere piú muro aperto, si cominciò un'altra batteria in luogo poco distante, restando in mezzo dell'una e dell'altra batteria quella parte della muraglia che già era stata battuta da' franzesi; e gittato in terra tanto muro quanto parve che fusse abbastanza, volle Ercole spingere le fanterie, che erano ordinate in battaglia, a dare gagliardamente lo assalto all'una e l'altra parte del muro rovinato; ove i pisani, lavorandovi, secondo il solito, con non minore animo le donne che gli uomini, aveano, mentre si batteva, tirato uno riparo con uno fosso innanzi. Ma non era nelle fanterie italiane, e raccolte tumultuariamente, tanto animo e tanta virtú. Però, cominciando per viltà a recusare di appresentarsi alla muraglia quello colonnello di fanti a' quali, per sorte gittata tra loro, aspettava il primo assalto, né l'autorità né i prieghi del capitano e del commissario fiorentino, né il rispetto dell'onore proprio né dell'onore comune della milizia italiana, furono bastanti a fargli andare innanzi. L'esempio de' quali seguitando gli altri che avevano ad appresentarsi dopo loro, si ritirorono le genti agli alloggiamenti: non avendo fatto altro che, col farsi i fanti italiani infami per tutta Europa, corrotta la felicità della vittoria ottenuta contro all'Alviano, e annichilata la reputazione del capitano e del commissario, che appresso a' fiorentini era grandissima, se contenti della gloria acquistata avessino saputo moderare la prospera fortuna. Ritirati agli alloggiamenti, non fu dubbia la deliberazione del levare il campo; massime che il dí medesimo erano entrati in Pisa, per comandamento avuto dal gran capitano, secento fanti spagnuoli di quegli che erano a Piombino. Però il dí seguente l'esercito fiorentino si ritirò a Cascina, con grandissimo disonore, e pochi dí poi entrorno di nuovo in Pisa mille cinquecento fanti spagnuoli; i quali, poiché non era necessario il presidio loro, dato che ebbono per suggestione de' pisani uno assalto invano alla terra di Bientina, continuorono la navigazione sua in Ispagna: dove erano mandati dal gran capitano, perché già era fatta la pace tra il re di Francia e Ferdinando re di Spagna.

                                                  

                                                 Lib.6, cap.16

                                                  

                                                 Matrimonio di Ferdinando d'Aragona con Germana di Fois e patti di pace tra Ferdinando e il re di Francia. Ippolito d'Este fa levare gli occhi al fratello naturale don Giulio per gelosia d'amore.

                                                  

                                                 Alla quale, rimosse tutte le difficoltà che prima avevano impedito, cioè il rispetto dell'onore del re di Francia e il timore di non alienare da sé l'animo dell'arciduca, aveva trovato modo facile la morte della reina di Spagna: perché e il re di Francia, essendogli molestissima la troppa grandezza sua, era desideroso di interrompergli i suoi disegni; e il re di Spagna, avendo notizia che l'arciduca, disprezzando il testamento della suocera, aveva in animo di rimuoverlo dal regno di Castiglia, era necessitato a fondarsi con nuove congiunzioni. Però si contrasse matrimonio tra lui e madama Germana di Fois, figliuola di una sorella del re di Francia, con condizione che il re gli desse in dote la parte che gli toccava del reame di Napoli; obligandosi il re di Spagna a pagargli in dieci anni settecentomila ducati per ristoro delle spese fatte, e a dotare in trecentomila ducati la nuova moglie. Col quale matrimonio essendo accompagnata la pace, fu convenuto: che i baroni angioini e tutti quegli che avevano seguitato la parte franzese fussino restituiti senza pagamento alcuno alla libertà alla patria e a loro stati degnità e beni, nel grado medesimo che si trovavano essere nel dí che tra franzesi e spagnuoli fu dato principio alla guerra, che si dichiarò essere stato il dí che i franzesi corsono alla Tripalda; intendessinsi annullate tutte le confiscazioni fatte dal re di Spagna e dal re Federigo: fusse liberato il principe di Rossano i marchesi di Bitonto e di Giesualdo, Alfonso e Onorato Sanseverini e tutti gli altri baroni che erano prigioni degli spagnuoli nel regno di Napoli: che il re di Francia deponesse il titolo del regno di Ierusalem e di Napoli: che gli omaggi e le recognizioni de' baroni si facessino respettivamente alle convenzioni sopradette, e nel medesimo modo si cercasse l'investitura dal pontefice; e morendo la reina Germana in matrimonio senza figliuoli la parte sua dotale si intendesse acquistata a Ferdinando, ma sopravivendo a lui ritornasse alla corona di Francia: fusse obligato il re Ferdinando ad aiutare Gastone conte di Fois, fratello della nuova moglie, al conquisto del regno di Navarra quale pretendeva appartenersegli, posseduto con titolo regio da Caterina di Fois e da Giovanni figliuolo di Alibret suo marito: costrignesse il re di Francia la moglie vedova del re Federigo a andare, con due figliuoli che erano appresso a sé, in Spagna, dove gli sarebbe assegnato onesto modo di vivere; e non volendo andarvi, la licenziasse del regno di Francia, non dando piú né a lei né a' figliuoli provisione o intrattenimento alcuno: proibito all'una parte e all'altra di fare contro a' nominati da ciascuno di loro; i quali nominorono tutt'a due in Italia il pontefice, e il re di Francia nominò i fiorentini: e, a corroborazione della pace, che tra i due re si intendesse essere perpetua confederazione a difesa degli stati; essendo tenuto il re di Francia con mille lancie e con seimila fanti, e Ferdinando con trecento lancie dumila giannettari e seimila fanti. Dopo la qual pace fatta, della quale il re d'Inghilterra promesse per l'una parte e per l'altra l'osservanza, i baroni angioini che erano in Francia, licenziatisi dal re, il quale per la tenacità sua usò loro alla partita piccoli segni di gratitudine, andorono quasi tutti con la reina Germana in Spagna; e Isabella, stata moglie di Federigo, licenziata del regno dal re di Francia perché ricusò di mettere i figliuoli in potestà del re cattolico, se ne andò a Ferrara.

                                                 Nella quale città, essendo poco innanzi morto Ercole da Esti e succedutogli nel ducato Alfonso suo figliuolo, accadde, alla fine dell'anno, uno atto tragico simile a quegli degli antichi tebani, ma per cagione piú leggiera, se piú leggiero è l'impeto sfrenato dell'amore che l'ambizione ardente del regnare. Perché essendo Ippolito da Esti cardinale innamorato ardentemente d'una giovane sua congiunta, la quale con non minore ardore amava don Giulio fratello naturale di Ippolito, e confessando ella medesima a Ippolito tirarla sopra tutte l'altre cose a sí caldo amore la bellezza degli occhi di don Giulio, il cardinale infuriato, aspettato il tempo comodo che Giulio fusse a caccia fuora della città lo circondò in campagna, e fattolo scendere da cavallo gli fece da alcuni suoi staffieri, bastandogli l'animo a stare presente a tanta sceleratezza, cavare gli occhi come concorrenti del suo amore: donde tra' fratelli poi seguitorono gravissimi scandoli. Cosí si terminò l'anno mille cinquecento cinque.

                                             

                                                 Lib.7, cap.1

                                                  

                                                 Indizi di prossimi turbamenti della pace. Politica di accordi del pontefice con la Francia e sua avversione al re ed al cardinale di Roano.

                                                  

                                                 Queste cose erano succedute l'anno mille cinquecento cinque; il quale benché avesse lasciato speranza che la pace d'Italia, dappoi che erano estinte le guerre nate per cagione del regno di Napoli, s'avesse a continuare, nondimeno apparivano da altra parte semi non piccoli di futuri incendi. Perché Filippo, che già si intitolava re di Castiglia, non contento che quel regno fusse governato dal suocero, incitato da molti baroni, si preparava a passare contro alla volontà del suocero in Ispagna; pretendendo, come era verissimo, non essere stato in potestà della reina morta prescrivere leggi al governo del regno finita la sua vita: e il re de' romani, preso animo dalla grandezza del figliuolo, trattava di passare in Italia. E il re di Francia, se bene l'anno precedente si fusse sdegnato col pontefice, perché avea senza sua partecipazione conferiti i benefici vacati per la morte del cardinale Ascanio e d'altri nel ducato di Milano e perché, avendo creato molti cardinali, avesse recusato di creare insieme con gli altri il vescovo di Aus nipote del cardinale di Roano e il vescovo di Baiosa nipote del la Tramoglia, dimandati da lui con somma instanza (e perciò avea fatto sequestrare i frutti de' benefici i quali il cardinale di San Piero a Vincola e altri prelati grati al pontefice possedevano nello stato di Milano), nondimeno, avendo da altra parte cominciato a temere di Cesare e del figliuolo e perciò, desideroso della amicizia del pontefice, rimessi i sequestri fatti, mandò nel principio di questo anno il vescovo di Sisteron, nunzio apostolico appresso a sé, a proporgli vari disegni e fare varie offerte contro a' viniziani; contro a' quali sapeva perseverare la sua pessima intenzione per il desiderio di recuperare le terre di Romagna, con tutto che insino a quel dí fusse proceduto in tutte le cose con tanta quiete che aveva suscitato negli uomini ammirazione non mediocre che colui il quale, quando era cardinale, era sempre stato pieno di pensieri vasti e smisurati, e che a tempo di Sisto e di Innocenzio e poi di Alessandro pontefici era stato molte volte instrumento di turbare Italia, avesse ora, promosso al pontificato, sedia comunemente della ambizione e delle azioni inquiete, deposto quegli spiriti sí ardenti, e dimenticatosi della grandezza dell'animo della quale aveva sempre fatto ambiziosa professione, non facesse, non che altro, segno di risentirsi delle ingiurie e di essere simile a se medesimo.

                                                 Ma in Giulio era intenzione molto diversa; e deliberato di superare l'espettazione conceputa, aveva atteso e attendeva, contro alla consuetudine della sua pristina magnanimità, ad accumulare con ogni studio somma grandissima di pecunia, acciò che alla volontà che aveva di accendere guerra fusse aggiunto la facoltà e il nervo di sostenerla: e trovandosi in questo tempo già non poco abbondante di danari, cominciava a scoprire i suoi pensieri indiritti a cose grandissime. Però, raccolto e udito molto lietamente il vescovo di Sisteron, l'aveva espedito indietro con prontezza grande a trattare nuovo restringimento tra loro: al quale, per disporre meglio l'animo del re e del cardinale di Roano, promesse, per breve portato dal medesimo Sisteron, la degnità del cardinalato a' vescovi di Aus e di Baiosa. E nondimeno, in tanto ardore, si distraeva qualche volta l'animo suo in vari scrupoli e difficoltà. Perché, o per odio che occultamente avesse conceputo contro al re, nel tempo che fuggendo l'insidie di Alessandro stette in Francia, o perché sommamente gli dispiaceva l'essere quasi necessitato, per la potenza e per la instanza del re, conservare nella legazione di Francia il cardinale di Roano o perché avesse sospetto che il medesimo cardinale, gli andamenti del quale manifestamente tendevano al pontificato, impaziente d'aspettare la morte sua cercasse di conseguirlo per vie estraordinarie, non era del tutto deliberato di congiugnersi col re di Francia; senza la congiunzione del quale conosceva essere impossibile che per allora gli succedesse cosa alcuna di momento. Perciò da altra parte aveva mandato a Pisa Baldassarre Biascia genovese, capitano delle sue galee, ad armare due galee sottili che v'avea fatte fare Alessandro pontefice, per essere, secondo si credeva, piú preparato, in caso che 'l re di Francia molestato ancora non poco dalle reliquie della infermità morisse, a liberare Genova dal dominio de' franzesi.

                                                  

                                                 Lib.7, cap.2

                                                  

                                                 Fortunoso viaggio dell'arciduca Filippo in Ispagna; suoi accordi con Ferdinando d'Aragona. Progetto di Massimiliano di passare in Italia per ricevere la corona imperiale. Massimiliano si porta a' confini dell'Ungheria con speranze di successione per la malattia del re Uladislao.

                                                  

                                                 In questo stato adunque e in tanta sospensione delle cose, fu il primo movimento dell'anno mille cinquecento sei la partita di Fiandra del re Filippo per passare per mare in Spagna, con grande armata. La quale andata per facilitare, temendo pure che 'l suocero non gli facesse con gli aiuti del re di Francia resistenza, si era, governandosi con l'arti spagnuole, convenuto con lui di rapportarsi nella maggiore parte delle cose al suo governo: che avessino a comune il titolo de' re di Spagna, come era stato comune tra lui e la reina morta; e che l'entrate si dividessino in certo modo: per il quale accordo il suocero, ancora che non bene sicuro dell'osservanza, gli aveva mandato in Fiandra per levarlo molto navi. Però imbarcato con la moglie e con Ferdinando suo secondogenito, prese con venti prosperi il cammino di Spagna; i quali essendo, in capo di due dí della sua navigazione, convertiti in venti avversissimi, travagliata da grandissima fortuna l'armata sua, dopo lunga resistenza fatta al furore del mare, si disperse in varie parti della costa d'Inghilterra e di Brettagna: ed egli con due o tre legni fu con grandissimo pericolo traportato in Inghilterra, nel porto d'Antona: la quale cosa intesa da Enrico settimo re di quella isola, che era a Londra, mandato subito molti signori a riceverlo con grandissimo onore, lo ricercò venisse a Londra; il che in potestà di Filippo, che si trovava quasi solo e senza navi, non era di negare. Soprastette appresso a lui insino che l'armata si riducesse insieme e riordinasse; e in questo mezzo fra loro furno fatte nuove capitolazioni. E nondimeno Filippo trattato in tutte l'altre cose come re fu in una sola trattato da prigione, che ebbe a consentire di dare in mano a Enrico il duca di Sufforth tenuto da lui nella rocca di Namur; il quale, perché pretendeva ragione al regno d'Inghilterra, Enrico sommamente d'avere in sua potestà desiderava: dettegli però la fede di non privarlo della vita; donde, custodito in carcere mentre Enrico visse, fu dipoi, per comandamento del figliuolo, decapitato. Passò dipoi Filippo con navigazione piú felice in Ispagna; dove concorrendo a lui quasi tutti i signori, il suocero, il quale per non essere da sé potente a resistergli, e che non giudicava essere sicuro fondamento le promesse de' franzesi, non aveva pensato mai ad altro che alla concordia, rimanendo abbandonato quasi da tutti, né avendo se non con molto tedio e difficoltà potuto avere il cospetto del genero, bisognò che cedesse alle condizioni che, sprezzato il primo accordo fatto tra loro, gli furono date: benché in questo non si procedé rigidamente, per la benignità della natura di Filippo e molto piú per i conforti di coloro che si erano dimostrati acerbissimi inimici a Ferdinando, perché dubitando continuamente che egli, con la prudenza e con l'autorità sua, non ripigliasse fede appresso al genero, sollecitavano quanto potevano la partita sua di Castiglia. Fu convenuto che Ferdinando, cedendo alla governazione lasciatagli per testamento dalla moglie e a tutto quello che perciò potesse pretendere, si partisse incontinente di Castiglia, promettendo di piú non vi tornare: che Ferdinando avesse proprio il regno di Napoli; non ostante che, con la medesima ragione con la quale era solito pretendere a quel reame allegando essere stato acquistato con l'armi e con le forze di Aragona, non mancasse chi mettesse in considerazione, e forse piú giustamente, appartenersi a Filippo per essere stato acquistato con l'armi e con la potenza del regno di Castiglia: furongli riservati i proventi dell'isole dell'India durante la sua vita, e i tre maestralghi di Santo Iacopo, Alcantara e Calatrava, e che delle entrate del regno di Castiglia avesse ciascuno anno venticinquemila ducati. La quale capitolazione fatta, Ferdinando, che da qui innanzi chiameremo o re cattolico o re di Aragona, se ne andò subito in Aragona, con intenzione di andarne, quanto piú prestamente potesse, per mare a Napoli; non tanto per desiderio di vedere quel regno e riordinarlo quanto per rimuoverne il gran capitano, del quale dopo la morte della reina aveva piú volte sospettato che non pensasse a trasferire quel regno in sé proprio o fusse piú inclinato a darlo a Filippo che a lui: e avendolo richiamato in Spagna invano, ed egli con varie scuse e impedimenti differita l'andata, dubitava, non vi andando in persona, avere difficoltà di levargli il governo, non ostante che, fatto l'accordo, il re Filippo gli facesse intendere che aveva totalmente a ubbidire al re d'Aragona.

                                                 Nel quale tempo erano nel petto del re di Francia, sollevato già molto della sua infermità, vari anzi contrari pensieri: inclinazione contro a' viniziani, per lo sdegno conceputo nel tempo della guerra di Napoli, per il desiderio di recuperare le appartenenze antiche dello stato di Milano e per giudicare che per molti accidenti gli potesse essere a qualche tempo pericolosa la loro potenza; la quale cagione trall'altre l'avea indotto a confederarsi col re de' romani e con Filippo suo figliuolo: da altra parte non gli era grata la passata di quel re in Italia, il quale si intendeva già che si preparava a passare con forze grandi; perché ne temeva piú che 'l solito, per la potenza che cresceva in Filippo successore di tanta grandezza, e dubitandosi che quando fu in Inghilterra avesse fatto con quel re nuove e strette congiunzioni; e perché era cessata, per la pace fatta col re cattolico (per la quale aveva deposto i pensieri del regno di Napoli) una delle cagioni principali per le quali si era confederato con loro. Nella quale varietà e fluttuazione di animo mentre stava vennono a lui imbasciadori di Massimiliano a significargli la deliberazione sua del passare in Italia e ricercarlo mettesse in ordine le cinquecento lancie che aveva promesso dare in suo favore, restituisse secondo la promessa fatta i fuorusciti dello stato di Milano, e a pregarlo anticipasse il pagamento de' danari che se gli dovevano pochi mesi poi: alle quali dimande ancorché il re non fusse inclinato a consentire fece dimostrazione di essere inclinato al contrario, non perciò se non a quelle che allora non ricercavano altro che parole; perché dimostrò desiderio grande che si mandassino a esecuzione le cose convenute, offerendosi prontamente a adempiere al tempo tutto quello a che era tenuto, ma negò con varie scuse l'anticipazione del pagamento. Da altra parte il re de' romani, non confidando piú dell'animo del re di Francia che 'l re si confidasse del suo, e desiderando con grande ardore il passare a Roma principalmente per prendere la corona dello imperio, per procurare poi l'elezione del figliuolo in re de' romani, tentava nel tempo medesimo di pervenire con altri mezzi allo intento suo. Perciò faceva instanza co' svizzeri di unirgli a sé; i quali dopo molte dispute fatte tra loro determinorno osservare l'accordo, che ancora durava col re di Francia per anni due; e a' viniziani aveva dimandato il passo per le terre loro: a' quali essendo molestissima la passata sua con esercito potente, dettono animo a rispondergli generalmente l'offerte del re di Francia, che gli confortò a apporsegli insieme con lui. E già il re, dimostrandosi alieno apertamente dalla confederazione fatta con lui e con Filippo, sposò Claudia sua figliuola a Francesco monsignore di Angulem, al quale dopo la morte sua senza figliuoli maschi perveniva la corona; simulando però farlo per i prieghi de' sudditi suoi, avendo prima a questo effetto ordinato che tutti i parlamenti e tutte le città principali del reame di Francia gli mandassino imbasciadori a supplicarnelo come di cosa utilissima al regno, poiché in lui mancava continuamente la speranza di procreare figliuoli maschi: la quale cosa significò subito per imbasciadori propri al re Filippo; escusandosi di non avere potuto repugnare al desiderio sí efficace di tutto 'l regno e di tutti i popoli suoi. Mandò ancora gente in aiuto al duca di Ghelleri contro a Filippo, per divertire Massimiliano dal passare in Italia. Ma aveva già da se medesimo interrotti questi pensieri; perché avendo inteso Uladislao re di Ungheria essere oppresso da gravissima infermità si era approssimato a' confini di quel regno, seguitando l'antico desiderio paterno e suo di insignorirsene, per le ragioni le quali affermavano d'avervi. Perché essendo morto moltissimi anni innanzi senza figliuoli Ladislao re di Ungheria e di Boemia, figliuolo di Alberto, che era stato fratello di Federigo imperadore, gli ungheri, pretendendo che morto il suo re senza figliuoli non avesse luogo la successione de' piú prossimi ma aspettasse a loro la elezione del nuovo re, avevano eletto, per la memoria delle virtú paterne, per loro re Mattia, quello che dipoi, con tanta gloria di regno sí piccolo, molestò tante volte lo imperio potentissimo de' turchi. Il quale, per fuggire nel principio del regno suo la guerra con Federigo, si convenne seco di non pigliare moglie, acciò che dopo la vita sua pervenisse quel reame a Federigo o a' figliuoli, il che benché non osservasse, morí nondimeno senza figliuoli. Né per questo adempié Federigo il desiderio suo, perché gli ungheri elessono in nuovo re Uladislao re di Pollonia: donde essendo ricominciate nuove guerre da Federigo e Massimiliano con loro, si erano finalmente convenuti, e statone prestato solennemente giuramento da i baroni del regno, che qualunque volta Uladislao morisse senza figliuoli riceverebbono per re Massimiliano. Onde egli aspirando a questa successione, intesa la infermità di Uladislao, si approssimò a' confini della Ungheria, omettendo per allora i pensieri del passare in Italia.

                                                  

                                                 Lib.7, cap.3

                                                  

                                                 Aspirazioni del pontefice al pieno dominio di Perugia e di Bologna. Il re di Francia risponde favorevolmente alle richieste d'aiuto del pontefice. Richiesta di Massimiliano ai veneziani di passare armato per il loro territorio per recarsi a Roma, e risposta de' veneziani. Accordi del pontefice con Giampaolo Baglione. Il pontefice a Imola. I Bentivoglio abbandonano Bologna, ove entra il pontefice.

                                                  

                                                 Le quali cose mentre che tra i príncipi oltramontani si trattano con tanta varietà, il pontefice, conoscendosi inabile a offendere senza gli aiuti del re di Francia i viniziani, né potendo piú tollerare di consumare ignobilmente gli anni del suo pontificato, ricercò il re che lo aiutasse a ridurre sotto l'ubbidienza della Chiesa le città di Bologna e di Perugia; le quali, appartenendo per antichissime ragioni alla sedia apostolica, erano tiranneggiate l'una da Giampaolo Baglione l'altra da Giovanni Bentivoglio: i maggiori de' quali, fattisi di privati cittadini capi di parte nelle discordie civili, e cacciati o ammazzati gli avversari, erano diventati assoluti padroni; né gli aveva ritardati a occupare il nome di legittimi príncipi altro che il rispetto de' pontefici; i quali nell'una e nell'altra città ritenevano poco piú che 'l nome nudo del dominio, perché ne pigliavano certa parte benché piccola dell'entrate, e tenevonvi governatori in nome della Chiesa i quali, essendo la potenza e la deliberazione di tutte le cose importanti in mano di coloro, vi erano quasi per ombra e per dimostrazione piú che per effetti. Ma la città di Perugia, o per la vicinità sua a Roma o per altre occasioni, era stata molto piú continuamente sottoposta alla Chiesa. Perché la città di Bologna aveva nelle avversità de' pontefici spesse volte variato, ora reggendosi in libertà ora tiranneggiata da' suoi cittadini ora sottoposta a príncipi esterni ora ridotta in assoluta subiezione de' pontefici, e ultimatamente ritornata, a tempo di Niccolao quinto pontefice a ubbidienza della Chiesa, ma con certe limitazioni e comunioni di autorità tra i pontefici e loro, che restando in progresso di tempo il nome e le dimostrazioni a' pontefici, l'effetto e la sostanza delle cose era pervenuta in potestà de' Bentivogli. De' quali quel che al presente reggeva, Giovanni, avendo a poco a poco tirato a sé ogni cosa, e depresse quelle famiglie piú potenti che erano state favorevoli a' maggiori suoi e a lui nel fondare e stabilire la tirannide, grave ancora per quattro figliuoli che aveva, la insolenza e le spese de' quali cominciavano a essere intollerabili, e però diventato odioso quasi a tutti, lasciato piccolo luogo alla mansuetudine e alla clemenza, conservava la sua potenza piú con la crudeltà e con l'armi che colla mansuetudine e benignità. Incitava il pontefice a queste imprese principalmente l'appetito della gloria, per la quale, pretendendo colore di pietà e zelo di religione alla sua ambizione, aveva in animo di restituire alla sedia apostolica tutto quello che in qualunque modo si dicesse essergli stato usurpato; e lo moveva piú particolarmente alla recuperazione di Bologna odio nuovo contro a Giovanni Bentivoglio, perché essendosi, mentre non ardiva stare a Roma, fermato a Cento terra del vescovado suo di Bologna, se n'ebbe di notte subitamente a fuggire perché ebbe avviso (o vero o falso che e fusse) che egli ordinava, a instanza del pontefice Alessandro, di farlo prigione.

                                                 Fu grata molto al re questa richiesta del pontefice, parendogli avere occasione di conservarselo benevolo, perché sapendo essergli molto molesta la congiunzione sua co' viniziani cominciava a temere non poco che egli non facesse qualche precipitazione; e già non era senza sospetto che certa pratica tenuta da Ottaviano Fregoso per privarlo del dominio di Genova fusse con sua partecipazione: e oltre a questo riputava che il Bentivoglio, se bene fusse sotto la sua protezione, avesse maggiore inclinazione a Cesare che a lui. Aggiugnevasi lo sdegno suo contro a Giampaolo Baglione per avere ricusato, ricevuti che ebbe quattordicimila ducati, di andare a unirsi coll'esercito suo in sul fiume del Garigliano; e il desiderio di offendere, con l'occasione di mandare genti in Toscana, Pandolfo Petrucci, perché né gli aveva mai pagato i danari promessi, e si era del tutto aderito alla fortuna degli spagnuoli. Però prontamente offerse al papa di dargli aiuto; e all'incontro il papa gli dette brevi del cardinalato d'Aus e di Baiosa, e facoltà di disporre de' benefici del ducato di Milano, come già ebbe Francesco Sforza.

                                                 Le quali pratiche essendo conchiuse per mezzo del vescovo di Sisteron, nuovamente promosso all'arcivescovado d'Ais, che per questa cagione andò piú volte dall'uno all'altro di loro, nondimeno non fu sí pronta la esecuzione. Perché avendo il pontefice differito qualche mese a fare la impresa, accadde che Massimiliano, il quale, avendo rotto guerra al re d'Ungheria, aveva allentato il pensiere di passare in Italia, si pacificò di nuovo con lui, rinnovato il patto della successione: e ritornò in Austria, facendo segni e apparati che dimostravano volesse passare in Italia. Alla quale cosa desiderando di non avere avversi i viniziani, mandò a Vinegia quattro oratori a significare la deliberazione sua di andare a Roma per la corona dello imperio; ricercandogli concedessino il passo a lui e al suo esercito, offerendosi parato ad assicurargli di non dare allo stato loro molestia alcuna, anzi desiderare di unirsi con quella republica, potendosi facilmente trovare modo di unione, che sarebbe non solo con sicurtà ma eziandio con augumento ed esaltazione dell'una parte e dell'altra: volendo tacitamente inferire che e' sarebbe utilità comune il congiugnersi insieme contro al re di Francia. Alla quale esposizione, dopo lunga consulta, fu fatto risposta con gratissime parole: dimostrando quanto era grande il desiderio del senato viniziano di accostarsi alla volontà sua, e sodisfargli in tutte le cose che potessino senza grave loro pregiudicio; il quale in questo caso non poteva essere né maggiore né piú evidente, conciossiaché Italia tutta, disperata per tante calamità che aveva sopportate, stava molto sollevata al nome della passata sua con esercito potente, con intenzione di pigliare l'armi per non lasciare aprire la via a nuovi travagli; e il medesimo era per fare il re di Francia per assicurare lo stato di Milano. Dunque, il venire egli con esercito armato in Italia non essere altro che cercare potentissima, opposizione, e con grandissimo pericolo loro; contro a' quali si conciterebbe tutta Italia, insieme con quel re, se gli consentissino il passo, come se agl'interessi propri avessino posposto il beneficio comune. Essere molto piú sicuro per tutti, e alla fine piú onorevole per lui, venendo a uno atto pacifico e favorevole appresso a ciascuno, passare in Italia disarmato; dove, dimostrando non meno benigna che potente la maestà dello imperio, arebbe grandissimo favore da ciascuno, sarebbe con somma gloria conservatore della tranquillità d'Italia, andando a incoronarsi in quel modo che innanzi a lui era andato a incoronarsi il padre suo e molti altri de' suoi predecessori; e in tal caso il senato viniziano farebbe verso di lui tutte quelle dimostrazioni e officii che egli medesimo sapesse desiderare.

                                                 Queste preparazioni di armi, e queste cose che si trattavano per Cesare, furono cagione che ricercando il pontefice, determinato di fare di presente la impresa di Bologna, al re le genti promesse, egli, parendogli non essere tempo da simili movimenti, lo confortava amichevolmente a differire a tempo che per questo accidente non s'avesse a commuovere tutta Italia; movendolo a questo eziandio il sospetto che i viniziani non si sdegnassino, perché gli avevano significato avere deliberato di pigliare l'armi per la difesa di Bologna se il pontefice non cedeva prima loro le ragioni pertinenti alla Chiesa in Faenza. Ma la natura del pontefice, impaziente e precipitosa, cercò contra tutte le difficoltà e opposizioni, con modi impetuosi, di conseguire il desiderio suo. Perché chiamati i cardinali in concistoro, giustificata la causa che lo moveva a desiderare di liberare da' tiranni le città di Bologna e di Perugia, membri tanto nobili e tanto importanti a quella sedia, significò volervi andare personalmente; affermando che oltre alle forze proprie arebbe aiuto dal re di Francia da' fiorentini e da molti altri d'Italia, né Dio giusto Signore essere per abbandonare chi aiutava la Chiesa sua. La quale cosa significata in Francia parve tanto ridicola al re (che il pontefice si promettesse, senza esserne certificato altrimenti, l'aiuto delle sue genti) che ridendo sopra la mensa, e volendo tassare la ebrietà sua nota a ciascuno, disse che il papa la sera innanzi doveva essersi troppo riscaldato col vino; non si accorgendo ancora che questa impetuosa deliberazione lo costrigneva o a venire in manifesta controversia con lui o a concedergli contro alla propria volontà le genti sue. Ma il papa, non aspettata altra resoluzione, era con cinquecento uomini d'arme uscito di Roma; e avendo mandato Antonio de Monte a significare a' bolognesi la sua venuta, e a comandare che preparassino di riceverlo e di alloggiare nel contado cinquecento lancie franzesi, procedeva innanzi lentamente; avendo in animo di non passare Perugia se prima non era certificato che le genti franzesi venissino in aiuto suo. Della venuta del quale temendo Giampaolo Baglione, confortato dal duca d'Urbino e da altri amici suoi, e sotto la fede ricevuta da loro, andò a incontrarlo a Orvieto: dove, rimettendosi totalmente alla volontà sua, fu ricevuto in grazia; avendogli promesso andare seco in persona e menare cento cinquanta uomini d'arme, lasciargli nelle mani le fortezze di Perugia e del perugino e la guardia della città, e dando statichi per la osservanza due figliuoli al duca d'Urbino.

                                                 Entrò in Perugia senza forze, e in modo che era in potestà di Giampaolo di farlo prigione con tutta la corte, se avesse saputo fare risonare per tutto il mondo, in cosa sí grande, quella perfidia la quale aveva già infamato il nome suo in cose tanto minori. Udí in Perugia il cardinale di Nerbona, venuto in nome del re di Francia a confortarlo che differisse ad altro tempo la impresa, ed escusare che, se bene il re desiderava mandargli le genti, non poteva, per i sospetti grandi che aveva di Cesare, disarmare il ducato di Milano. Della quale imbasciata commosso maravigliosamente, né mostrando per questo di volere mutare sentenza, cominciò a soldare fanti e accrescere tutte le provisioni: e nondimeno fu creduto da molti che, attese le difficoltà che si dimostravano e la natura sua non implacabile a chi gli cedeva, che se il Bentivoglio, che per suoi imbasciadori aveva offerto di mandargli tutti a quattro i figliuoli suoi, si fusse disposto ad andarvi come aveva fatto Giampaolo personalmente, arebbe trovato qualche forma tollerabile alle cose sue. In che mentre non si risolse per se stesso, o, secondo dicono alcuni, mentre è tenuto sospeso dalla contradizione della moglie, ebbe avviso che il re di Francia avea comandato a Ciamonte che andasse personalmente in aiuto suo con cinquecento lancie: perché il re, se bene, trovandosi allora il cardinale di Roano assente dalla corte, fusse stato inclinato a non le concedere, nondimeno confortato poi al contrario da lui, e considerando quanta offesa sarebbe al papa il denegargli quel che non solo da principio gli aveva promesso ma eziandio stimolato a volerlo usare, mutò sentenza; indotto ancora a questo piú facilmente perché le dimostrazioni di Massimiliano erano già, secondo la sua consuetudine, cominciate a raffreddare, e il pontefice, per sodisfare in qualche parte al re, era stato contento promettergli, benché non per scrittura ma con semplici parole, che per causa delle terre di Romagna non molesterebbe mai i viniziani. E nondimeno, non volendo astenersi da dimostrare essergli fisso nell'animo questo desiderio, andando da Perugia a Cesena prese la via de' monti; perché se fusse andato pel piano era necessitato passare per quello di Rimini, che gli occupavano i viniziani. A Cesena, ammoní sotto gravissime censure e pene spirituali e temporali il Bentivoglio a partirsi di Bologna, estendendole a chi aderisse o conversasse con lui; nel quale luogo avendo avuto avviso Ciamonte essere in cammino con secento lancie e tremila fanti, i quali si pagavano dal pontefice, ripieno di maggiore animo continuò senza dilazione il cammino; e sfuggendo, per la medesima cagione per la quale aveva sfuggito Arimini, di passare per il territorio di Faenza, presa la via de' monti, benché difficile e incomoda, per le terre possedute di là dallo Apennino da' fiorentini, andò a Imola, dove si raccoglieva l'esercito suo: nel quale, oltre a molti fanti che avea soldati, erano quattrocento uomini d'arme agli stipendi suoi, Giampaolo Baglione con cento cinquanta, cento prestatigli sotto Marcantonio Colonna da' fiorentini, cento prestatigli dal duca di Ferrara, molti stradiotti soldati nel regno di Napoli, e dugento cavalli leggieri menatigli dal marchese di Mantova, deputato luogotenente dell'esercito.

                                                 Da altra parte in Bologna non avevano i Bentivogli cessato di fare molte preparazioni, sperando se non di essere difesi almeno di non essere offesi da' franzesi; perché il re, ricercato di sussidio da loro secondo gli oblighi della protezione, aveva risposto non potere opporsi con l'armi alle imprese del pontefice, ma che non darebbe già né gente né aiuto contro a loro: donde si confidavano di potere facilmente resistere all'esercito ecclesiastico. Ma mancò loro ogni speranza per la venuta di Ciamonte; il quale benché per il cammino avesse dato agli uomini loro varie risposte, nondimeno, il dí che arrivò a Castelfranco nel bolognese, che fu il medesimo dí che 'l marchese di Mantova con le genti del Pontefice occupò Castel San Piero, mandò a significare a Giovanni Bentivogli che il re, non volendo mancargli di quello a che era tenuto per i capitoli della protezione, intendeva conservargli i beni suoi e operare che, lasciando il governo della città alla Chiesa, potesse sicuramente godendo i suoi beni abitare co' figliuoli in Bologna; ma questo, in caso che infra tre dí avesse ubbidito a' comandamenti del pontefice. Donde il Bentivoglio e i figliuoli, che prima con grandissime minaccie avevano publicato per tutto di volersi difendere, caduti interamente d'animo, e dimenticatisi della increpazione fatta a Piero de' Medici che senza effusione di sangue si fusse fuggito di Firenze, risposono volere rimettersi in arbitrio suo, supplicandolo che fusse operatore che almanco ottenessino condizioni tollerabili. Però egli, che era già venuto al Ponte al Reno vicino a Bologna a tre miglia, interponendosi col pontefice, convenne che fusse lecito a Giovanni Bentivogli e a' figliuoli e a Ginevra Sforza sua moglie partirsi sicuramente da Bologna, e fermarsi in qualunque luogo volessino del ducato di Milano; avessino facoltà di vendere o di cavare di Bologna tutti i mobili loro, né fussino molestati ne' beni immobili che con giusto titolo possedevano: le quali cose conchiuse si partirono subito da Bologna, ottenuto da Ciamonte, al quale dettono dodicimila ducati, amplissimo salvocondotto, con promessa per scrittura di fargli osservare quanto si conteneva nella protezione del re, e che potessino sicuramente abitare nello stato di Milano. Partiti i Bentivogli, il popolo di Bologna mandò subito oratori al pontefice a dargli liberamente la città né dimandare altro che l'assoluzione delle censure, e che i franzesi non entrassino in Bologna. I quali, mal pazienti di regola alcuna, accostatisi alle mura, feciono forza d'entrare; ma essendo fatto loro resistenza dal popolo si alloggiorono appresso alle mura tra le porte di San Felice e di Saragosa, in sul canale il quale, derivato dal fiume del Reno, passando per Bologna, conduce le navi al cammino di Ferrara; non sapendo essere in potestà de' bolognesi con l'abbassare, nel luogo ove l'acqua del canale entra nella città, una graticola di ferro, inondare il paese circostante: il che avendo fatto, il canale gonfiato d'acque inondò il luogo basso dove alloggiavano i franzesi; i quali, lasciate nel fango le artiglierie e molti carriaggi, si ritirorono tumultuosamente al Ponte al Reno, dove stetteno insino all'entrata del pontefice in Bologna: il quale con grandissima pompa e con tutte le cerimonie pontificali vi entrò molto solennemente il dí dedicato a san Martino. Cosí con grandissima felicità de' bolognesi venne in potestà della Chiesa la città di Bologna, città numerata meritamente, per la frequenza del popolo per la fertilità del territorio e per la opportunità del sito, tra le piú preclare città d'Italia. Nella quale benché il pontefice, costituiti i magistrati nuovi a esempio degli antichi, riservasse in molte cose segni e imagine di libertà, nondimeno in quanto allo effetto la sottomesse del tutto all'ubbidienza della Chiesa: liberalissimo in questo che, concedendo molte esenzioni, si sforzò, come medesimamente fece in tutte l'altre città, di fare il popolo amatore del dominio ecclesiastico. A Ciamonte, che se ne ritornò incontinente nel ducato di Milano, donò il pontefice ottomila ducati per sé e diecimila per le genti, e gli confermò per bolla la promessa fattagli prima di promuovere al cardinalato il vescovo d'Albi suo fratello, e nondimeno, volto con tutto l'animo alle offese de' viniziani, per lasciare piú stimoli al re di Francia e al cardinale di Roano di sovvenirlo, non volle, secondo l'instanza che gli era fatta e i brevi conceduti da sé, publicare allora cardinali Aus e Baiosa.

                                                  

                                                 Lib.7, cap.4

                                                  

                                                 Venuta di Ferdinando d'Aragona in Italia. Morte dell'arciduca Filippo. Concorrono ambasciatori di príncipi e di governi a Napoli presso Ferdinando. Scoperta d'una congiura contro il duca di Ferrara. Fuga del Valentino in Navarra e sua fine.

                                                  

                                                 Passò in questo tempo per mare in Italia il re d'Aragona. Al quale, innanzi si imbarcasse a Barzalona, venne un uomo del gran capitano a offerirsegli pronto a riceverlo, e a esibirgli la ubbidienza: al quale il re riconfermò non solo il ducato di Santo Angelo, il quale gli aveva già donato il re Federigo, ma ancora tutti gli altri che, per entrata di piú di ventimila ducati, possedeva nel reame di Napoli. Confermogli l'offizio del gran conestabile del medesimo regno, e gli promesse per cedola di sua mano il maestralgo di San Iacopo. E però, con maggiore speranza imbarcatosi a Barzalona, e onoratamente ricevuto per ordine del re di Francia, insieme con la moglie, in tutti i porti di Provenza, fu col medesimo onore ricevuto nel porto di Genova, dove lo aspettava il gran capitano andato, con ammirazione di molti, a rincontrarlo; perché non solo negli uomini volgari ma eziandio nel pontefice era stata opinione che egli, conscio della inubbidienza passata e de' sospetti i quali il re, forse non vanamente, aveva avuti di lui, fuggendo per timore il cospetto suo, passerebbe in Ispagna. Partito da Genova, non volendo con le galee sottili discostarsi da terra, stette piú giorni, per non avere i venti prosperi, in Portofino; dove mentre dimora gli sopragiunse avviso che il re Filippo suo genero, giovane d'anni e di corpo robusto e sanissimo, nel fiore della sua età e costituito in tanta felicità (dimostrandosi bene spesso maravigliosa la varietà della fortuna), era, per febbre duratagli pochi dí, passato, nella città di Burgus, all'altra vita: e nondimeno il re, che per molti si credette che, per desiderio di ripigliare il governo di Castiglia, volgesse subito le prue a Barzalona, continuando il cammino di prima, entrò quel medesimo giorno nel porto di Gaeta che il pontefice, andando a Bologna, era entrato in Imola. Onde condotto a Napoli, fu ricevuto in quella città, assueta a vedere re aragonesi, con grandissima magnificenza e onore, e con molto maggiore desiderio ed espettazione di tutti; persuadendosi ciascuno che, per mano d'uno re glorioso per tante vittorie avute contro agli infedeli e contro a' cristiani, venerabile per opinione di prudenza, e del quale risonava fama chiarissima che avesse con singolare giustizia e tranquillità governato i reami suoi, dovesse il regno di Napoli, ristorato di tanti affanni e oppressioni, ridursi in quieto stato e molto felice, e reintegrarsi de' porti che, con dispiacere non piccolo di tutto il reame, vi tenevano i viniziani. Concorsono a Napoli prontamente oratori di tutta Italia, non solo per congratularsi e onorare uno tanto principe ma eziandio per varie pratiche e cagioni; persuadendosi ciascuno che con l'autorità e prudenza sua avesse a dare forma e a essere il contrappeso di molte cose. Però che e il pontefice, benché mal sodisfatto di lui perché non aveva mai mandato imbasciadori a dargli secondo l'usanza comune l'ubbidienza, cercava di incitarlo contro a viniziani, pensando che per recuperare i porti della Puglia avesse desiderio della bassezza loro: e i viniziani si ingegnavano di conservarselo amico; e i fiorentini e gli altri popoli di Toscana trattavano diversamente con lui per le cose di Pisa: molestate, questo anno, meno che il solito dall'armi de' fiorentini, perché non aveano impedito le loro ricolte, o stracchi dalle spese o perché la giudicassino per l'esperienza degli anni passati cosa vana, sapendo che i genovesi e i lucchesi si erano insieme per uno anno convenuti di sostentare con spesa certa e determinata quella città. Alla qual cosa gli aveva prima confortati Pandolfo Petrucci, offerendo che i sanesi farebbono il medesimo; ma da altra parte, manifestando con la sua consueta duplicità quel che si trattava a' fiorentini, ottenne da loro, perché si separasse dagli altri, che si prorogasse per tre anni la tregua che ancora durava tra i fiorentini e sanesi, ma con patto espresso che a' sanesi e a Pandolfo non fusse lecito dare aiuto alcuno a' pisani: colla quale scusa astenendosi da spendere per loro, non cessava nell'altre cose, quanto poteva, di consigliargli e favorirgli.

                                                 Succedette, nell'anno medesimo, dalla tragedia cominciata innanzi a Ferrara nuovo e grave accidente. Perché Ferdinando, fratello del duca Alfonso, e Giulio, al quale dal cardinale erano stati tratti gli occhi, ma riposti senza perdita del lume nel luogo loro, per presta e diligente cura de' medici, si erano congiurati insieme contro alla vita del duca; mossi, Ferdinando, che era il secondogenito, per cupidità di occupare quello stato, Giulio per non gli parere che Alfonso si fusse risentito delle ingiurie sue, e perché non poteva sperare di vendicarsi contro al cardinale con altro modo: a' quali consigli interveniva il conte Albertino Buschetto gentiluomo di Modona. E avendo corrotto alcuni di vile condizione che per causa di piaceri erano assidui intorno ad Alfonso, ebbono molte volte facilità grandissima d'ammazzarlo; ma ritenuti da fatale timidità lasciorno sempre passare l'occasione, in modo che, come accade quasi sempre quando si differisce la esecuzione delle congiure, venuta la cosa a luce, furono incarcerati Ferdinando e gli altri partecipi; e Giulio, che scoperta la cosa si era fuggito a Mantova alla sorella, fu per ordine del marchese condotto prigione ad Alfonso, ricevuta da lui promessa di non gli nuocere nella vita; e poco dipoi, squartato il conte Albertino e gli altri colpevoli, furono amendue i fratelli condannati a stare in perpetua carcere nel castel nuovo di Ferrara.

                                                 Né è da passare con silenzio l'audacia e la industria del Valentino; il quale in questi tempi medesimi, con sottile modo calatosi per una corda della rocca di Medina del Campo, fuggí nel regno di Navarra al re Giovanni fratello della sua moglie. Dove, acciò che di lui non s'abbia a fare piú menzione, dimorato alquanti anni in basso stato, perché il re di Francia, il quale prima gli aveva confiscato il ducato di Valenza e toltogli la pensione de' ventimila franchi consegnatagli in supplemento dell'entrata promessa, non gli permesse, per non fare cosa molesta al re di Aragona, l'andare in Francia, fu finalmente, essendo con le genti del re di Navarra a campo a Viana castello ignobile di quel reame, combattendo contro agli inimici che si erano scoperti

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.5

                                                  

                                                 Discordie tumulti e ribellione in Genova. I genovesi deliberano di espugnare Monaco, e il re di Francia si prepara a ridurli a ubbidienza. Il pontefice delibera improvvisamente di tornare a Roma sdegnato col re per le vicende di Genova.

                                                  

                                                 Alla fine di questo anno, acciò che l'anno nuovo non cominciasse senza materia di nuove guerre, seguitò la rebellione de' genovesi dalla divozione del re di Francia; non mossa principalmente da altri che da loro medesimi, né cominciato il fondamento da desiderio di ribellarsi ma da discordie civili che traportorono gli uomini piú oltre che non erano state le prime deliberazioni. La città di Genova, città veramente edificata in quel luogo per lo imperio del mare, se tanta opportunità non fusse stata impedita dal pestifero veleno delle discordie civili, non è come molte dell'altre d'Italia sottoposta a una sola divisione ma divisa in piú parti; perché vi sono ancora le reliquie delle antiche contenzioni de' guelfi e de' ghibellini. Regnavi la discordia, dalla quale furono già in Italia e specialmente in Toscana conquassate molte città, tra i gentiluomini e i popolari: perché i popolari, non volendo sopportare la superbia della nobiltà, raffrenorno la potenza loro con molte severissime e asprissime leggi; e infra le altre, avendo lasciata loro porzione determinata in quasi tutti gli altri magistrati e onori, gli esclusono particolarmente dalla degnità del doge, il quale magistrato, supremo a tutti gli altri, si concedeva per tutta la vita di chi era eletto: benché, per la instabilità di quella città, a niuno forse o a pochissimi fu permesso continuare tanto onore insino alla morte. Ma non è divisione manco potente quella tra gli Adorni e i Fregosi, i quali di case popolari diventati cappellacci (cosí chiamano i genovesi coloro che sono ascesi a molta grandezza) contendono insieme la degnità del doge, continuata molti anni quasi sempre in una di loro. Perché i gentiluomini, guelfi e ghibellini, non potendo essi per la proibizione delle leggi conseguirla, procuravano che la fusse conferita ne' popolari della fazione medesima, e favorendo i ghibellini [gli Adorni] i guelfi [i Fregosi] si feciono in progresso di tempo queste due famiglie piú illustri e piú potenti di quegli il nome de' quali e l'autorità solevano prima seguitare. E si confondono in modo tutte queste divisioni che spesso quegli che sono d'una medesima parte, contro alla parte opposita, sono eziandio tra se medesimi divisi in varie parti, e per contrario congiunti in una parte con quegli che seguitano un'altra parte. Ma cominciò questo anno ad accendersi altercazione tra i gentiluomini e i popolari; la quale, avendo principio dalla insolenza di alcuni nobili e trovando per l'ordinario gli animi dell'una parte e dell'altra male disposti, si convertí prestamente da contenzioni private in discordie publiche, piú facili a generarsi nelle città, come era allora Genova, molto abbondanti di ricchezze: le quali trascorsono tanto oltre che 'l popolo, concitato tumultuosamente all'armi e ammazzato uno della famiglia d'Oria e feriti alcuni altri gentiluomini, ottenne, piú con la violenza che con la volontà libera de' cittadini, che ne' consigli publici, ne' quali intervennono pochissimi della nobiltà, si statuisse il dí seguente che degli uffici, i quali prima si dividevano tra i nobili e i popolari in parte eguale, se ne concedessino per l'avvenire due parti al popolo rimanendone una sola alla nobiltà: alla quale deliberazione, per timore che non si facessino maggiori scandoli, acconsentí Roccalbertino Catelano che invece di Filippo di Ravesten, governatore regio allora assente, era preposto alla città. E nondimeno i popolari non quietati per questo, suscitato fra pochissimi dí nuovo tumulto saccheggiorno le case de' nobili; per la qual cosa la maggiore parte della nobiltà, non si tenendo piú sicura nella patria, se n'uscí fuora. Ritornò di Francia a Genova subitamente, intese queste alterazioni, il governatore con cento cinquanta cavalli e settecento fanti, ma non potette, né con la autorità né con le persuasioni né con le forze, ridurre in parte alcuna le cose a stato migliore; anzi bisognandogli spesso accomodarsi alle volontà popolari, comandò che alcune altre genti che lo seguitavano ritornassino indietro. Da' quali princípi diventando la moltitudine continuamente piú insolente, ed essendo, come comunemente accade nelle città tumultuose, il reggimento, contro alla volontà di molti popolari onesti, caduto quasi interamente nella feccia della plebe, e avendo creato da se stessa per capo del suo furore uno magistrato nuovo di otto uomini plebei con grandissima autorità (i quali, acciò che il nome gli concitasse a maggiore insania, chiamavano tribuni della plebe) occuporno con l'armi la terra della Spezie e l'altre terre della riviera di levante, governate per ordinazione del re da Gianluigi dal Fiesco. Querelossi di queste insolenze al re in nome di tutta la nobiltà e per l'interesse suo proprio Gianluigi; dimostrandogli il pericolo manifesto di perdere il dominio di Genova, poiché la moltitudine era trascorsa in tale temerità che oltre a tanti altri mali aveva ardito, procedendo direttamente contro alla autorità regia, occupare le terre della riviera: essere facile, usando con celerità i rimedi convenienti, il reprimere tanto furore mentre che ancora non aveano fomento o sussidio da alcuno; ma tardando a provedervi, il male metterebbe, ogni dí piú, maggiori radici, perché la importanza di Genova per terra e per mare era tale che inviterebbe facilmente qualche principe a nutrire questo incendio tanto pernicioso allo stato suo, e la plebe, conoscendo quel che da principio era forse stato sedizione essere diventato ribellione, si accosterebbe a qualunque gli desse speranza di difenderla. Ma da altra parte si ingegnavano gli oratori mandati al re dal popolo di Genova di giustificare la causa loro, dimostrando non altro avere incitato il popolo che la superbia de' gentiluomini, i quali, non contenti degli onori convenienti alla nobiltà, voleano essere onorati e temuti come signori. Avere il popolo tollerato lungamente le insolenze loro, ma ingiuriati finalmente, non solo nelle facoltà ma nelle persone proprie, non avere potuto piú contenersi; e nondimeno non essere proceduti se non a quelle cose senza le quali non poteva essere sicura la libertà loro, perché partecipando i nobili negli uffici per parte eguale non si poteva, per mezzo de' magistrati e de' giudici, resistere alla tirannide loro: tenendosi per Gianluigi le terre delle riviere, senza il commercio delle quali era come assediata Genova, in che modo potere i popolari sicuramente usarvi e conversarvi? Il popolo essere stato sempre divotissimo e fedelissimo della Maestà regia, e le mutazioni di Genova essere in ogni tempo procedute piú da' gentiluomini che da' popolari. Supplicare il re che, perdonati quei delitti che contro alla volontà universale erano stati nell'ardore delle contenzioni commessi da alcuni particolari, confermasse la legge fatta sopra la distribuzione degli uffici, e che le terre della riviera fussino governate col nome publico. Cosí godendo i gentiluomini onoratamente il grado e la degnità loro, goderebbono i popolari la libertà e la sicurtà conveniente, per la quale non si faceva pregiudicio ad alcuno; e ridotti per l'autorità sua in questa tranquillità, adorerebbono in perpetuo la clemenza la bontà e la giustizia del re.

                                                 Erano stati molestissimi al re questi tumulti, o perché gli fusse sospetta la licenza della moltitudine o per la inclinazione che hanno comunemente i franciosi al nome de' gentiluomini, e perciò sarebbe stato disposto a punire gli autori di queste insolenze e a ridurre tutte le cose nel grado antico; ma temendo che se tentava rimedi aspri i genovesi non ricorressino a Cesare, di cui non essendo ancora morto il figliuolo molto temeva, e perciò deliberato di procedere umanamente, perdonava tutti i delitti fatti, confermava la nuova legge degli uffici, pure che riponessino in mano sua le terre occupate della riviera: e per disporre a queste cose il popolo piú facilmente mandò a Genova Michele Riccio, dottore e fuoruscito napoletano, a confortargli che sapessino usare l'occasione della sua benignità, piú tosto che moltiplicando la contumacia e gli errori lo mettessino in necessità di procedere contro a loro con la severità dello imperio. Ma negli animi acciecati dalle immoderate cupidità la prudenza, soffocata dalla temerità, non aveva parte alcuna: non solo la plebe e i tribuni, con tutto che i magistrati legittimi fussino di contraria sentenza, non accettata la mansuetudine del re, dinegorno di restituire le terre occupate ma procedendo continuamente a cose peggiori deliberorno di espugnare Monaco, castello posseduto da Luciano Grimaldo, o per l'odio comune contro a tutti i gentiluomini genovesi o perché, per essere situato in luogo molto opportuno in sul mare, importa assai alle cose di Genova, o movendosi pure per odio particolare, conciossiaché chi ha in potestà quel luogo, invitato dal sito comodissimo a questo effetto, soglia difficilmente astenersi da' guadagni marittimi, o perché, secondo diceano, apparteneva giuridicamente alla republica: e però, benché contradicendo invano il governatore mandorno per terra e per mare ad assediarlo molte genti. Onde Filippo di Ravesten, conoscendo stare quivi inutilmente e, per gli accidenti che potevano nascere, non senza pericolo, lasciato in luogo suo Roccalbertino, se ne partí; e il re disperato che le cose si potessino ridurre a forma migliore e giudicando che 'l consentire che le stessino cosí non fusse con degnità e con sicurtà sua, ed essere maggiore pericolo se si lasciassino trascorrere piú oltre, cominciò scopertamente a prepararsi con forze terrestri e marittime per ridurre i genovesi alla sua ubbidienza.

                                                 La quale deliberazione fu cagione che si interrompessino le cose le quali tra 'l pontefice e il re di Francia si trattavano contro a' viniziani; desiderate molto dal re, liberato per la morte del re Filippo del sospetto avuto delle preparazioni di Massimiliano, ma molto piú desiderate dal pontefice, indegnatissimo contro a loro per l'occupazione delle terre della Romagna, e perché senza alcuno rispetto della sedia apostolica conferivano i vescovadi vacanti nel loro dominio, e si intromettevano in molte cose appartenenti alla giurisdizione ecclesiastica: onde inclinato del tutto alla amicizia del re, oltre allo avere publicato cardinali i vescovi di Baiosa e di Aus, chiesti innanzi con grande instanza, aveva ricercato il re che passasse in Italia e venisse a colloquio seco: il che il re aveva consentito di fare: ma intendendo poi la sua deliberazione di muovere l'armi in favore de' gentiluomini contro al popolo di Genova, ne ricevé grandissima molestia, essendo, per la inclinazione, antica delle parti di Savona sua patria, contrario a' gentiluomini e favorevole al popolo. Però fece instanza col re che si contentasse di avere, non alterando lo stato popolare, quella città a ubbidienza, e lo confortò efficacemente ad astenersi dalle armi, allegandone molte ragioni; e principalmente essere pericolo che, suscitandosi in Italia per questo moto qualche incendio, non si turbasse il muovere la guerra disegnata contro a' viniziani: alle quali ragioni vedendo che il re non acconsente, o traportato dallo sdegno e dal dolore o veramente essendosi rinnovato in lui, o da se stesso o per sottile artificio d'altri, l'antico sospetto della cupidità del cardinale di Roano, e perciò dubitando di non essere ritenuto dal re in caso si riducessino in uno luogo medesimo, e forse concorrendo l'una e l'altra cagione, publicò all'improviso, nel principio dell'anno mille cinquecento sette, contro all'espettazione di tutti, volere ritornarsene a Roma; non allegando altre cagioni che l'aria di Bologna essere nociva alla sua salute e l'assenza di Roma fargli non piccolo detrimento nell'entrate. Dette questa deliberazione ammirazione assai a ciascuno, e specialmente al re, che senza alcuna causa lasciasse imperfette le pratiche che tanto aveva desiderato, interrompendo il colloquio del quale egli medesimo l'aveva ricerco; e turbatosene molto, non lasciò indietro opera alcuna perché variasse da questo nuovo pensiero: ma era piú tosto nociva che vana l'opera sua, perché il pontefice, pigliando dalla instanza che se gli faceva maggiore sospetto, si confermava tanto piú nella sua deliberazione; nella quale stando pertinace, partí alla fine di febbraio da Bologna, non potendo dissimulare lo sdegno conceputo contro al re. Fondò, innanzi partisse di quella città, la prima pietra della fortezza che per ordine suo, con infelici auspici, vi si faceva appresso alla porta di Galera che va a Ferrara, in quello luogo medesimo ove altra volta co' medesimi auspici era stata edificata da Filippo Maria Visconte duca di Milano: e avendo per lo sdegno nuovo col re di Francia mitigato alquanto lo sdegno antico contro a' viniziani, non volendo incomodarsi dal cammino diritto, passò per la città di Faenza. E sopravenivano a ogn'ora nuove altercazioni tra il re di Francia e lui: perché aveva instato che i Bentivogli fussino cacciati dello stato di Milano, con tutto che di consentimento suo fusse stata concessa loro la facoltà di abitarvi; né aveva voluto restituire al protonotario, figliuolo di Giovanni, la possessione delle chiese sue, promessagli con la medesima concordia e consentimento. Tanto spesso poteva in lui piú la contenzione dell'animo che la ragione! La quale disposizione non con arte o diligenza alcuna tentava di mitigare il re di Francia; ma sdegnato di tanta variazione e insospettito che, come era la verità, non desse occultamente animo al popolo di Genova, non si asteneva da minacciarlo palesemente, tassando con parole ingiuriose la sua ignobilità: perché non era dubbio il pontefice essere nato vilissimamente e nutrito per molti anni in umilissimo stato. Anzi, confermato tanto piú nella prima sentenza delle cose di Genova, preparava con somma diligenza l'esercito per andarvi personalmente, avendo, per l'esperienza delle cose accadute nel regno di Napoli, imparato che differenza fusse ad amministrare le guerre per se proprio a commetterle a' capitani.

                                                  

                                                 Lib.7, cap.6

                                                  

                                                 Continuano i tumulti in Genova; prevalenza del popolo contro i francesi. Il re di Francia sotto Genova. Successo de' francesi ed accordi di resa. Entrata del re in Genova, e condizioni imposte alla città.

                                                  

                                                 Non movevano queste preparazioni i genovesi, intenti alla occupazione di Monaco, ove aveano intorno molti legni, e semila uomini di gente raccolta tumultuariamente della plebe e del contado, sotto il governo di Tarlatino capitano de' pisani, il quale insieme con Piero Giambacorta e alcuni altri soldati era stato mandato da loro in favore de' genovesi. E a Genova, perseverandosi e moltiplicando continuamente negli errori, il castellano del Castelletto, che insino ad allora era stato quietissimo né aveva avuto dal popolo molestia alcuna, o per comandamento del re o per cupidità di rubare, fece all'improviso prigioni molti del popolo, e cominciò a molestare con l'artiglierie il porto e la città; per il che Roccalbertino entrato in timore di se medesimo si partí, e i fanti franzesi che erano alla guardia del palagio publico si rifuggirno nel Castelletto. Ebbe poco dipoi fine l'assedio stato molti mesi intorno a Monaco: perché intendendo quegli che vi erano accampati che per soccorrerlo s'approssimavano Ivo d'Allegri e i principali de' gentiluomini con tremila fanti soldati da loro e con altre genti mandate dal duca di Savoia, non avendo avuto ardire di aspettargli, se ne levorono. E già divulgava la fama passare continuamente in Lombardia l'esercito destinato dal re: per la qual cosa accendendosi il furore di quegli ne' quali doveva essere cagione di migliori consigli, la moltitudine, che insino a quel dí, avendo dissimulato con le parole quella ribellione che esercitava con l'opere, gridava il nome del re di Francia né avea rimosso de' luoghi publici i segni suoi, creò doge di Genova Paolo di Nove tintore di seta, uomo della infima plebe; scoprendosi per questo in manifestissima ribellione, perché con la creazione del doge era congiunta la dichiarazione che la città di Genova non fusse sottoposta a principe alcuno. Le quali cose eccitando l'animo del re a maggiore indegnazione, ed essendogli significato da' nobili che in luogo de' segni suoi aveva posto i segni di Cesare, augumentò le provisioni prima ordinate: commosso ancora piú perché Cesare, stimolato da' genovesi e forse occultamente dal pontefice, l'avea confortato a non molestare Genova come terra di imperio, offerendo di interporsi col popolo perché si riducessino alle cose che fussino giuste. Nutrirno qualche poco l'audacia del nuovo doge e de' tribuni i successi prosperi che ebbono nella riviera di levante: perché avendo Ieronimo figliuolo di Gianluigi dal Fiesco con dumila fanti e alcuni cavalli recuperato Rapallo, e andando di notte per prendere Recco, scontrandosi con le genti che vi venivano in soccorso da Genova, si messono, senza combattere, disordinatamente in fuga; la fuga de' quali venendo agli orecchi di Orlandino nipote di Gianluigi, che con un'altra moltitudine di gente era disceso a Recco, si messe medesimamente in fuga. Onde diventati il doge e i tribuni piú insolenti assaltorno il Castellaccio, fortezza antica ne' monti sopra Genova edificata da' signori di Milano quando dominavano quella città acciò che, quando fusse necessario, le genti mandate da loro di Lombardia potessino accostarsi a Genova e soccorrere il Castelletto; nel quale essendo piccola guardia lo occuporono facilmente, perché quegli pochi franzesi che vi erano si arrenderono sotto la fede di essere salva la vita e la roba loro: la quale fede fu incontinente violata, gloriandosi quegli che avevano fatto tale eccesso, per segno del quale tornorono in Genova con le mani sanguinose e con allegrezza grande. E nel tempo medesimo cominciorno a battere con l'artiglierie il Castelletto e la chiesa di San Francesco contigua a quello.

                                                 Ma era già passato il re in Italia, e l'esercito si andava continuamente raccogliendo per assaltare Genova senza indugio. E nondimeno i genovesi, abbandonati di ogni sussidio, perché il re cattolico benché desideroso della conservazione loro non voleva separarsi dal re di Francia, anzi l'aveva accomodato di quattro galee sottili, né il pontefice ardiva dimostrare con altro che con occulti conforti e speranze l'animo suo, avendo solo trecento fanti forestieri, non capitani esperti di guerra, carestia di munizione, persistevano nella ostinazione; confidandosi d'avere, per la strettezza de' passi e difficoltà e asprezza del paese, facilmente a proibire che gli inimici non si accostassino a Genova: per la quale vana speranza disprezzavano i conforti di molti, e specialmente del cardinale dal Finale; il quale seguitando il re gli confortava, con spessi messi e lettere, a rimettersi nella volontà sua, dando loro speranza di conseguire facilmente venia e tollerabili condizioni. Ma camminando già l'esercito per la via del Borgo de' Fornari e di Serravalle, cominciorono ad apparire vani i disegni de' genovesi, non discorsi né misurati dagli uomini periti della guerra ma co' clamori e con la iattanza vana della vile e imperita moltitudine. Però, non corrispondendo gli animi degli uomini nel pericolo presente a quello che temerariamente, quando il timore era lontano, si erano promessi, seicento fanti de' loro che erano a guardia de' primi passi, accostandosi i franzesi, vilmente si fuggirono; onde perduto l'animo tutti gli altri che erano alla guardia de' passi si ritirorono in Genova, lasciandogli liberi a franzesi: l'esercito de' quali, avendo già passato senza ostacolo alcuno il giogo de' monti, era sceso nella valle di Pozevera appresso a Genova miglia sette, con grandissima ammirazione de' genovesi, che contro a quello che si erano scioccamente persuasi ardisse di alloggiare in quella valle circondata da monti asprissimi, e in mezzo di tutto il paese inimico. Nel quale tempo l'armata del re di otto galee sottili otto galeoni molte fuste e brigantini, presentatasi innanzi a Genova, era passata verso Portovenere e la Spezie, seguitando l'armata genovese di sette galee e sei barche; la quale non avendo ardire di fermarsi nel porto di Genova si era ritirata in quegli luoghi. Di val di Pozevera andò l'esercito ad alloggiare nel borgo di Rivarolo distante da Genova due miglia, e presso alla chiesa di San Piero della Rena, che è contigua al mare; e benché camminando scontrassino a piú passi fanti de' genovesi, nondimeno tutti, non dimostrando maggiore virtú che avessino fatto gli altri, si ritirorono. E il dí medesimo arrivò all'esercito la persona del re, il quale alloggiò nella badia del Boschetto a rincontro del borgo di Rivarolo, accompagnato dalla maggiore parte della nobiltà di Francia, da moltissimi gentiluomini dello stato di Milano e dal marchese di Mantova: il quale il re aveva pochi dí innanzi dichiarato capo dell'ordine di San Michele, e donatogli lo stendardo il quale dopo la morte di Luigi undecimo non era mai stato dato ad alcuno: ed erano nell'esercito ottocento lancie (perché il re avea, rispetto all'asprezza del paese, lasciate l'altre in Lombardia) mille ottocento cavalli leggieri seimila svizzeri e seimila fanti di altre nazioni.

                                                 Avevano i genovesi, per non lasciare libero il cammino per il quale per i monti si va al Castellaccio, dipoi a Genova, per via piú corta che per la strada di San Piero della Rena contigua alla marina, edificato uno bastione in su l'altezza del monte che si dice la Montagna del promontorio, tra il borgo di Rivarolo e San Piero in Arena: dal quale bastione si andava al Castellaccio per la schiena del poggio. A questo bastione si indirizzò l'esercito, il dí medesimo che era alloggiato a Rivarolo; e da altra parte uscirno di Genova ottomila fanti guidati da Iacopo Corso luogotenente di Tarlatino, perché Tarlatino e i soldati de' pisani, fermatisi, quando il campo si levò da Monaco, in Ventimiglia, non aveano potuto, quando furno richiamati da' genovesi i quali mandorno la nave di Demetrio Giustiniano per condurgli, tornare a Genova, né per la via di terra per lo impedimento de' franzesi, né per mare per i venti contrari. Ma cominciando già i franzesi a salire scoperseno i fanti de' genovesi, i quali saliti in sul monte, per il colle per il quale si andava al bastione, e dipoi discesane la maggiore parte, aveva fatto testa in su uno poggetto che è a mezzo il monte: contro a' quali mandò Ciamonte a combattere molti gentiluomini e buono numero di fanteria: da' quali i genovesi, per la moltitudine e per il vantaggio del sito, si difendevano valorosamente, e con danno non piccolo de' franzesi perché, disprezzando gli inimici come raccolti quasi tutti di artefici e di uomini del paese, andavano volonterosamente, non considerando la fortezza del luogo, ad assaltargli; e già era stato ferito, benché non molto gravemente, la Palissa nella gola. Ma Ciamonte, volendo spuntargli di quello luogo, fece tirare ad alto due cannoni, i quali battendogli per fianco gli sforzorono a ritirarsi verso il monte, in sul quale era rimasta l'altra parte delle loro genti; dove seguitandogli ordinatamente i franzesi, quegli che erano a guardia del bastione, ancorché per il sito e per la fortificazione che vi era stata fatta potessino sicuramente aspettare l'artiglierie, dubitando che tra loro e la gente che era in sul monte non entrasse in mezzo qualche parte de' franzesi, l'abbandonorono con somma infamia; donde quegli che dal poggetto avevano cominciato a ritirarsi verso il bastione, vedutosi tagliato il cammino, presono fuori della strada consueta per balze e aspri precipizi la via di Genova, essendo nel ritirarsi morti di loro circa trecento. Dal quale successo essendo ripiena di incredibile terrore tutta la città, la quale governata secondo la volontà della infima plebe non si reggeva né con consiglio militare né con prudenza civile, mandorono due oratori nello esercito a trattare di darsi con capitoli convenienti; i quali, non ammessi agli orecchi del re, furono uditi dal cardinale di Roano, e da lui ebbono risposta che il re avea deliberato non accettargli se in lui non rimettevano senza altro patto assolutamente l'arbitrio di se stessi e di tutte le cose loro: ma mentre che trattavano con lui, una parte della plebe che recusava l'accordo, uscita tumultuosamente di Genova, si scoperse con molti fanti per i poggi e per il colle, che veniva dal Castellaccio, e si accostorono a uno quarto di miglio al bastione per recuperarlo; e avendo scaramucciato co' franzesi che erano usciti loro incontro, per spazio di tre ore, si ritirorono senza vantaggio di alcuna delle parti al Castellaccio. Nel quale tempo il re, dubitando di maggiore movimento, stette continuamente armato con molta gente a cavallo nel piano tra 'l fiume della Pozevera e l'alloggiamento dello esercito. E nondimeno la notte seguente, disperate le cose loro, ed essendo fama che i principali del popolo avevano composto occultamente col re insino quando era in Asti, lamentandosi la plebe di essere ingannata, il doge, con molti di quegli che per le cose commesse non speravano perdono e con quella parte de' pisani che vi era, si partí per andare a Pisa; e la mattina come fu dí, tornati in campo i medesimi imbasciadori, acconsentirono di dare la città alla discrezione del re: non avendo sostenuta piú che otto dí la guerra, con grandissimo esempio della imperizia e confusione de' popoli che, fondandosi in su speranze fallaci e disegni vani, feroci quando è lontano il pericolo, perduti poi presto d'animo quando il pericolo è vicino, non ritengono alcuna moderazione.

                                                 Fatto l'accordo, il re con l'esercito si accostò a Genova, alloggiati i fanti ne' borghi; i quali non ebbe piccola difficoltà a ritenere, massimamente i svizzeri, che non vi entrassino per saccheggiarla. Entrò dipoi in Genova con la maggiore parte delle altre genti, avendo prima messa la guardia nel Castellaccio, Ciamonte; al quale i genovesi consegnorono tutte le armi publiche e private che furono condotte nel Castelletto, e tre pezzi di artiglieria quali vi avevano condotti i pisani; che furono poi mandate a Milano: e il dí prossimo, che fu il vigesimonono d'aprile, entrò in Genova la persona del re con tutte le genti d'arme e arcieri della guardia, ed egli appiedi sotto il baldacchino, armato tutto con l'armi bianche, con uno stocco nudo in mano. Al quale si feciono incontro gli anziani con molti de' piú onorati cittadini; i quali essendosegli gittati innanzi a' piedi con molte lagrime, uno di loro, poiché alquanto fu fatto silenzio, in nome di tutti parlò cosí:

                                                 - Noi potremmo affermare, cristianissimo e clementissimo re, che se bene al principio delle contenzioni co' nostri gentiluomini intervenne quasi la maggiore parte de' popolari, nondimeno che l'esercitarle insolentemente, e molto piú la contumacia e la inubbidienza a' comandamenti regi, procedette solamente dalla feccia della infima plebe; la temerità della quale né noi né gli altri cittadini e mercatanti e artefici onesti potemmo mai raffrenare: e però, che qualunque pena si imponesse o alla città o a noi affliggerebbe gli innocenti senza detrimento alcuno degli autori e partecipi di tanti delitti; i quali, mendichi di tutte le cose e vagabondi, non sono tra noi in numero d'uomini non che di cittadini, né hanno essi questa infelice città in luogo di patria. Ma la intenzione nostra è, lasciate indietro tutte le scuse, non ricorrere ad altro che alla magnanimità e alla pietà di tanto re, in quella sommamente confidare, quella umilissimamente supplicare che, con quello animo col quale perdonò a' falli molto maggiori de' milanesi, si degni volgere quegli occhi pietosissimi verso i genovesi, pochi mesi innanzi felicissimi, ora esempio di tutte le miserie. Ricordatevi con quanta gloria del vostro nome fu allora per tutto il mondo celebrata la vostra clemenza, e quanto piú sia degno confermarla usando simile pietà che incrudelendo oscurarla. Ricordatevi che da Cristo, redentore di tutta l'umana generazione, derivò il cognome vostro di cristianissimo, e che però, a imitazione sua, vi si appartiene esercitare sopra ogni cosa la clemenza e la misericordia propria a lui. Siano grandissimi quanto si voglia i delitti commessi, siano inestimabili, non saranno giammai maggiori della pietà e della bontà vostra. Voi, nostro re, rappresentate tra noi il sommo Dio con la degnità e con la potenza (perché che altro che dii sono i re tra i sudditi loro?) e però tanto piú vi si appartiene rappresentarlo medesimamente con la similitudine della volontà e delle opere, delle quali nessuna è piú gloriosa nessuna piú grata nessuna fa piú ammirabile il nome suo che la misericordia. -

                                                 Seguitorono queste parole le voci alte di tutti gridando misericordia. Ma il re camminò innanzi non dando risposta alcuna; benché, comandando si levassino di terra e deponendo lo stocco che aveva nudo in mano, facesse segno di animo piú tosto inclinato alla benignità. Arrivò poi alla chiesa maggiore, dove si gli gittò innanzi a' piedi numero quasi infinito di donne e di fanciulli d'ogni sesso, i quali tutti vestiti di bianco supplicavano con grandissime grida e pianti miserabili la sua clemenza e misericordia. Commosse, secondo che si disse, questo aspetto non mediocremente l'animo del re; il quale, ancora che avesse deliberato di privare i genovesi di ogni amministrazione e autorità, e appropriare al fisco quelle entrate che sotto nome di San Giorgio appartengono a' privati e, spogliatigli d'ogni immagine di libertà, ridurgli a quella subiezione nella quale sono le terre dello stato di Milano, nondimeno, pochi dí poi, considerando che con questo modo non solo si punivano molti innocenti ma si alienavano eziandio gli animi di tutta la nobiltà, ed essere piú facile il signoreggiarla con qualche dolcezza che totalmente con la disperazione, confermò il governo antico, come era innanzi a queste ultime sedizioni. Ma per non dimenticare in tutto la severità, condannò la comunità in centomila ducati per la pena del delitto, i quali non molto poi rimesse; in dugentomila altri, in certi tempi, per rimborsarlo delle spese fatte e per edificare la fortezza alla torre di Codifà, poco lontana da Genova e che è situata in sul mare, sopra al borgo che va in val di Pozevera e a San Piero in Arena: la quale, perché può offendere tutto il porto e parte della città, è non immeritamente chiamata la Briglia. Volle ancora pagassino maggiore guardia che la solita e che continuamente tenessino nel porto armate tre galee sottili a sua ubbidienza, e che si fortificassino il Castelletto e il Castellaccio; annullò tutte le convenzioni fatte prima tra lui e quella città, riconcedendo quasi tutte le cose medesime ma come privilegi non come patti, acciò che fusse sempre in sua potestà il privarnegli; fece rimuovere delle monete genovesi i segni antichi, e ordinò che in futuro vi fusse impresso il segno suo per dimostrazione di assoluta superiorità. Alle quali cose si aggiunse la decapitazione di Demetrio Giustiniano, il quale manifestò nel suo esamine tutte le pratiche e le speranze avute dal pontefice; nel quale supplicio incorse, pochi mesi poi, Paolo da Nove ultimamente doge, il quale navigando da Pisa a Roma, ingannato da uno corso che era stato suo soldato, fu venduto a' franzesi. Fatto che ebbe il re queste cose, e ricevuto solennemente da' genovesi il giuramento della fedeltà e data venia a tutti, eccetto che a circa sessanta i quali rimesse alla disposizione della giustizia, se ne andò a Milano; avendo, subito che ebbe ottenuta Genova, licenziato l'esercito: col quale, essendo tutti gli altri male proveduti, gli sarebbe stato facile, continuando il corso della vittoria, opprimere chi gli fusse paruto in Italia; ma lo licenziò sí presto per certificare il pontefice il re de' romani e i viniziani, i quali stavano con grandissimo sospetto, che la venuta sua in Italia non era stata per altro che per la recuperazione di Genova.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.7

                                                  

                                                 Malcontento del pontefice verso il re di Francia per la soluzione della questione di Genova. Discorso di Massimiliano alla dieta di Costanza contro il re. Effetti del discorso.

                                                  

                                                 Ma nessuna cosa bastava a moderare l'animo del pontefice; il quale, interpretando tutte le cose in senso peggiore, si querelava di nuovo non mediocremente del re, come se per opera sua fusse proceduto che Annibale Bentivoglio, con secento fanti raccolti del ducato di Milano, aveva in quegli dí tentato di entrare in Bologna, affermando che quando gli fusse succeduto si sarebbe dimostrato piú oltre contro allo stato ecclesiastico: dalla qual cosa sdegnato, benché con grandissima difficoltà avesse prima publicati cardinali i vescovi di Aus e di Baiosa, recusava di publicare il vescovo d'Albi; lamentandosi che da Ciamonte suo fratello fusse permesso che i Bentivogli abitassino nel ducato di Milano. Ma quel che era di piú momento, traportato non meno dall'odio che dal sospetto, aveva, quando il re publicò di volere coll'armi ridurre a ubbidienza i genovesi, significato per suoi nunzi e con uno breve al re de' romani e agli elettori dello imperio che 'l re di Francia si preparava a passare in Italia con potentissimo esercito, simulando di volere raffrenare i tumulti di Genova, i quali era in potestà sua di quietare con la autorità sola, ma in verità per opprimere lo stato della Chiesa e usurpare la dignità dello imperio: e il medesimo, oltre al pontefice, gli significavano i viniziani, mossi dal medesimo timore della venuta del re di Francia in Italia con tanto esercito. Le quali cose intese, Massimiliano, cupidissimo per sua natura di cose nuove, essendo in quegli dí ritornato di Fiandra, dove invano tentò di assumere il governo del nipote, aveva convocato nella città di Gostanza i príncipi di Germania e le terre franche (chiamano terre franche quelle città che, riconoscendo in certi pagamenti determinati l'autorità dello imperio, si governano in tutte l'altre cose per se stesse, intente non ad ampliare il loro territorio ma a conservare la propria libertà). Dove concorsono i baroni e príncipi e i popoli di tutta Germania, forse piú prontamente e in maggiore numero che fussino, già lunghissimo tempo, concorsi a dieta alcuna: conciossiaché vi convennono personalmente tutti gli elettori, tutti i príncipi ecclesiastici e secolari della Alamagna, da quegli in fuora che erano ritenuti da qualche giusto impedimento, per i quali nondimeno vi vennono o figliuoli o fratelli o altre congiuntissime persone, che rappresentavano il nome loro; e similmente tutte le terre franche vi mandorono imbasciadori. I quali come furono congregati, Cesare fece leggere il breve del pontefice, e molte lettere per le quali gli era di vari luoghi significato il medesimo; e in alcuna delle quali era espresso essere la intenzione del re di Francia di collocare nella sedia pontificale il cardinale di Roano, e da lui ricevere la corona imperiale: per i quali avvisi essendo già concitati gli animi di tutti in grandissima indegnazione, Cesare, cessato che fu lo strepito, parlò in questa sentenza:

                                                 - Già vedete, nobilissimi elettori e príncipi e spettabili oratori, che effetti abbia prodotti la pazienza che abbiamo avuta per il passato; già, che frutto abbia partorito l'essere state disprezzate le querele mie in tante diete. Già vedete che il re di Francia, il quale non ardiva prima, se non con grandi occasioni e con apparenti colori, tentare le cose appartenenti al sacro imperio, ora apertamente si prepara non per difendere, come altre volte ha fatto, i ribelli nostri, non per occupare in qualche luogo le ragioni dello imperio, ma per spogliare la Germania della degnità imperiale, stata acquistata e conservata con tanta virtú e con tanta fatica da' nostri maggiori. A tanta audacia lo incita non l'essere accresciute le forze sue, non l'essere diminuite le forze nostre, non l'ignorare quanto sia senza comparazione piú potente la Germania che la Francia, ma la speranza, conceputa per l'esperienza delle cose passate, che noi abbiamo a essere simili a noi medesimi, che in noi abbia a potere piú o le dissensioni o la ignavia nostra che gli stimoli della gloria, anzi della salute; che per le medesime cagioni per le quali abbiamo con tanta vergogna tollerato che da lui sia occupato il ducato di Milano, che da lui siano nutrite le discordie tra noi, che da lui siano difesi i ribelli dello imperio, abbiamo similmente a tollerare che da lui ci sia rapita la degnità imperiale, trasferito in Francia l'ornamento e lo splendore di questa nazione. Quanto minore ignominia sarebbe del nome nostro, quanto minore dolore sentirebbe l'animo mio, se e' fusse noto a tutto il mondo che la potenza germanica fusse inferiore della potenza franzese! perché manco mi crucierebbe il danno che la infamia, perché almeno non sarebbe attribuito a viltà o a imprudenza nostra quel che procederebbe o dalla condizione de' tempi o dalla malignità della fortuna. E che maggiore infelicità, che maggiore miseria, essere ridotti in grado che ci sia cosa desiderabile il non essere potenti! che abbiamo a eleggere spontaneamente il danno gravissimo, per fuggire, poi che altrimenti non si può, la infamia e il vituperio eterno del nome nostro! Benché, la magnanimità di ciascuno di voi esperimentata tante volte nelle cose particolari, benché la ferocia propria e precipua di questa nazione, benché la memoria della virtú antica e de' trionfi de' padri nostri, terrore già e spavento di tutte l'altre nazioni, mi dànno quasi speranza, anzi quasi certezza, che in causa tanto grave s'abbino a destare i bellicosi e invitti spiriti vostri. Non si tratta della alienazione del ducato di Milano, non della ribellione de' svizzeri, nelle quali cause tanto gravi sia stata leggiera la mia autorità, per l'affinità che io avevo con Lodovico Sforza, per gli interessi particolari della casa di Austria. Ma ora, che escusazione si potrebbe pretendere? con che velame si potrebbe ricoprire la ignominia nostra? Trattasi se i Germani, possessori, non per fortuna ma per virtú, dello imperio romano, l'armi de' quali domorono già quasi tutto il mondo, il nome de' quali è anche al presente spaventoso a tutti i regni de' cristiani, hanno a lasciarsi vilmente spogliare di tanta degnità, hanno a essere esempio di infamia, hanno a diventare della prima e della piú gloriosa nazione l'ultima, la piú schernita, la piú vituperosa di tutto il mondo. E quali cagioni quali interessi quali sdegni giammai vi moveranno se questi non vi muovono? quali ecciteranno in voi i semi del valore e della generosità de' vostri maggiori se questi non gli eccitano? Con quanto dolore sentiranno, ne' tempi futuri, i vostri figliuoli e i vostri discendenti la memoria de' vostri nomi, se non conservate loro in quella grandezza, in quella autorità, il nome germanico, nella quale fu conservato a voi da' vostri padri? Ma lasciamo da parte i conforti e le persuasioni, perché a me, collocato da voi in tanta degnità, non conviene distendersi in parole ma proporvi fatti ed esempli. Io ho deliberato di passare in Italia, in nome per ricevere la corona dello imperio (solennità, come vi è noto, piú di cerimonia che di sostanza, perché la degnità e l'autorità imperiale depende in tutto dalla vostra elezione) ma principalmente per interrompere questi consigli scelerati de' franzesi, per scacciargli del ducato di Milano, poiché altrimenti non possiamo assicurarci dalla insolenza loro. Sono certo che niuno di voi farà difficoltà di darmi i sussidi soliti darsi agli imperadori che vanno a incoronarsi, i quali congiunti alle forze mie non dubito d'avere a passare vittorioso per tutto, e che la maggiore parte d'Italia supplichevole mi verrà incontro, chi per confermare i suoi privilegi, chi per conseguire dalla giustizia nostra rimedio alle oppressioni che gli sono fatte, chi per placare con divota sommissione l'ira del vincitore. Cederà il re di Francia al nome solo delle armi nostre, avendo i franzesi innanzi agli occhi la memoria quando giovanetto, e quasi fanciullo, roppi con vera virtú e magnanimità, a Guineguaste, l'esercito del re Luigi: dal quale tempo in qua, recusando di fare esperienza delle mie armi, non hanno mai i re di Francia combattuto meco se non con insidie e con fraudi. Ma considerate, con la generosità e magnanimità propria de' tedeschi, se e' conviene alla fama e onore vostro, in pericolo comune tanto grave, risentirsi sí pigramente, e non fare in caso tanto estraordinario estraordinarie provisioni. Non ricerca egli la gloria la grandezza del nome vostro, della quale è stato sempre proprio difendere la degnità de' pontefici romani l'autorità della sedia apostolica, che ora con la medesima ambizione ed empietà sono sceleratamente violate dal re di Francia, che per decreto comune di tutta la Germania si piglino a questo effetto potentissimamente l'armi? Questo interesse è tutto vostro, perché io ho adempiute assai le parti mie ad avervi convocato prontamente per manifestarvi il pericolo comune, ad avervi incitato con l'esempio della mia deliberazione. In me non mancherà fortezza di animo a espormi a qualunque pericolo, non corpo abile per la continua esercitazione a tollerare qualunque fatica; né il consiglio nelle cose della guerra, per la età e per la lunga esperienza, è tale che a questa impresa vi manchi capo capace di tutti gli onori: ma con quanta maggiore autorità il vostro re ornerete, con quanta maggiore potenza ed esercito lo circonderete, tanto piú facilmente, con somma gloria vostra, si difenderà la libertà della Chiesa romana, madre comune; esalterassi insino al cielo, insieme con la gloria del nome germanico, la degnità imperiale, grandezza e splendore comune a tutti voi, e comune a questa potentissima e ferocissima nazione. -

                                                 E alle parole di Cesare accresceva autorità la memoria che nelle altre diete non fussino state udite le querele sue; ed era facile aggiugnere negli animi già concitati nuova indegnazione. Però, essendo in tutti ardore grandissimo a non comportare che la maestà dello imperio fusse, per negligenza loro, trasferita in altre nazioni, si cominciorno con unione grande a trattare gli articoli necessari, affermandosi per tutti doversi preparare esercito potentissimo, e bastante eziandio, quando fussino oppositi il re di Francia e tutti gli italiani, a rinnovare e recuperare in Italia le antiche ragioni dello imperio, state usurpate o per impotenza o per colpa de' Cesari passati. Cosí ricercare la gloria del nome germanico, cosí il concorso di tanti príncipi e di tutte le terre franche; ed essere una volta necessario dimostrare a tutto il mondo che, se bene la Germania per molti anni non aveva avuto le volontà unite, non era però che non avesse la medesima possanza e la medesima magnanimità la quale aveva fatto temere gli antichi loro da tutto il mondo, donde e in universale era nata al nome loro grandissima gloria e la degnità imperiale, e in particolare molti nobili n'avevano acquistato signorie e grandezze. E quante case illustri avere lungo tempo regnato in Italia negli stati acquistati con la loro virtú! Le quali cose si cominciorono a trattare con tanta caldezza che è manifesto che, già moltissimi anni, non era stata cominciata dieta alcuna dalla quale si aspettassino maggiori movimenti: persuadendosi universalmente gli uomini che, oltre all'altre ragioni, farebbe gli elettori e gli altri príncipi piú pronti la speranza che aveano che, per l'età tenera de' figliuoli del re Filippo, la degnità imperiale, continuata successivamente in Alberto, Federigo e Massimiliano, tutt'a tre della casa d'Austria, avesse finalmente a passare in altra famiglia.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.8

                                                  

                                                 Desiderio del re di Francia d'abboccarsi con Ferdinando d'Aragona, che sta per riassumere il governo di Castiglia. Delusioni e malcontento nel reame di Napoli; il pontefice nega l'investitura a Ferdinando. Cordiale incontro a Savona de' due re. Ammirazione pel gran capitano. Accordi fra i due re; la questione di Pisa. Ira del pontefice contro i Bentivoglio.

                                                  

                                                 Le quali cose pervenute agli orecchi del re di Francia lo avevano indotto a dissolvere, per rimuovere tale suspicione, subito che ebbe ottenuto Genova, l'esercito; e arebbe esso con la medesima celerità ripassato i monti se non l'avesse ritenuto il desiderio di essere a parlamento col re di Aragona, il quale si preparava per ritornare in Spagna, intento tutto a riassumere il governo di Castiglia. Perché, essendo inabile Giovanna sua figliuola a tanta amministrazione, non tanto per la imbecillità del sesso quanto perché, per umori melanconici che se gli scopersono nella morte del marito, era alienata dello intelletto, e inabili ancora per la età i figliuoli comuni del re Filippo e di lei, de' quali il primogenito non arrivava al decimo anno, era Ferdinando desiderato e chiamato a quel governo da molti, per la memoria di essere stati retti giustamente, e fioriti per la lunga pace quegli regni sotto lui: e accrescevano questo desiderio le dissensioni già cominciate tra' signori grandi, e l'apparire da molte parti segni manifestissimi di future turbazioni. Ma non meno era desiderato dalla figliuola, la quale, non essendo nell'altre cose in potestà di se medesima, stette sempre costante in desiderare il ritorno del padre, negando, contro alle suggestioni e importunità di molti, ostinatamente, di non sottoscrivere di mano propria in espedizione alcuna il nome suo, senza la quale soscrizione non avevano secondo la consuetudine di quegli regni i negozi occorrenti la sua perfezione.

                                                 Per queste cagioni partí il re d'Aragona del regno di Napoli, non vi essendo dimorato piú che sette mesi, né avendo sodisfatto alla espettazione grandissima che si era avuta di lui; non solo per la brevità del tempo, e perché difficilmente si può corrispondere a' concetti degli uomini il piú delle volte non considerati con la debita maturità né misurati con le debite proporzioni, ma perché se gli opposono molte difficoltà e impedimenti, per i quali né per il comodo universale d'Italia fece cosa alcuna degna di laude o di memoria, né fece utilità o beneficio alcuno nel regno di Napoli: perché alle cose d'Italia non lo lasciò pensare il desiderio di ritornare presto nel governo di Castiglia, fondamento principale della grandezza sua, per il quale era necessitato fare ogni opera per conservarsi amici il re de' romani e il re di Francia, acciò che l'uno con l'autorità di essere avolo de' piccoli figliuoli del re morto, l'altro con la potenza vicina e col dare animo a opporsegli a chi avea l'animo alieno da lui, non gli mettessino disturbo a ritornarvi; e nel riordinare o gratificare il regno napoletano gli dette difficoltà l'essere obligato, per la pace fatta col re di Francia, a restituire gli stati tolti a' baroni angioini, che, o per convenzione o per remunerazione, erano stati distribuiti in coloro che avevano seguitato la parte sua. E questi, non volendo egli alienarsi i suoi medesimi, era necessitato di ricompensare o con stati equivalenti, che s'avevano a comperare da altri, o con danari: alla qual cosa essendo impotentissime le sue facoltà, era costretto non solo a fare vivi in qualunque modo i proventi regi, e a denegare di fare, secondo il costume de' nuovi re, grazia o esenzione alcuna o esercitare specie alcuna di liberalità, ma eziandio, con querele incredibili di tutti, ad aggravare i popoli, i quali avevano aspettato sollevazione e ristoro di tanti mali. Né si udivano minori le querele de' baroni di ciascuna delle parti: perché a quegli che possedevano, oltreché malvolentieri rilasciassino gli stati, furono per necessità scarse e limitate le ricompensazioni, e a quegli altri si ristrigneva quanto si poteva, in tutte le cose nelle quali accadeva controversia, il beneficio della restituzione, perché quanto meno a loro si restituiva tanto meno agli altri si ricompensava. Partí con lui il gran capitano, ma con benivolenza e fama incredibile; e del quale, oltre alle laudi degli altri tempi, era molto celebrata la liberalità dimostratasi nel fare innanzi alla partita sua grandissimi doni; a' quali impotente altrimenti, vendé, per non mancare di questo onore, non piccola parte degli stati propri. Né partí il re da Napoli con molta sodisfazione tra il pontefice e lui: perché dimandandogli la investitura del regno, il pontefice denegava di concederla se non col censo con il quale era stato conceduto agli antichi re, e il re faceva instanza che gli fusse fatta la medesima diminuzione che era stata fatta a Ferdinando suo cugino e a' figliuoli e a' nipoti; dimandando l'investitura di tutto 'l regno in nome suo proprio, come successore di Alfonso vecchio, nel qual modo, quando era a Napoli, aveva ricevuto l'omaggio e i giuramenti, con tutto che ne' capitoli della pace fatta col re di Francia si disponesse che, in quanto a Terra di Lavoro e l'Abruzzi, si riconoscesse insieme il nome della reina. Credettesi che l'avere denegato il concedere l'investitura fusse cagione che 'l re recusasse di venire a parlamento col pontefice, il quale essendo stato nel tempo medesimo piú dí nella rocca d'Ostia si diceva esservi stato per aspettare la passata sua.

                                                 Quel che di questo sia la verità, dirizzò il re d'Aragona la navigazione a Savona, ove era convenuto di abboccarsi col re di Francia; il quale, essendo per questa cagione soprastato in Italia, subito che ebbe intesa la partita sua da Napoli, vi era venuto da Milano. Furono in questo congresso da ogni parte molto libere e piene di somma confidenza le dimostrazioni, e tali quali non era memoria degli uomini essere mai state in alcuno congresso simile; perché negli altri príncipi, tra' quali era o emulazione o ingiurie antiche o causa di sospetto, si riducevano insieme con tale ordine che l'uno non si metteva in potestà dell'altro, ma in questo ogni cosa procedette diversamente. Perché, come l'armata aragonese si accostò al porto di Savona, il re di Francia, che allo apparire suo nel mare era disceso in sul molo del porto, passò, per uno ponte fatto per questo effetto di legname, con pochi gentiluomini e senza alcuna guardia, in sulla poppa della galea del re; ove raccolto con allegrezza inestimabile dal re e dalla reina nipote sua, poiché vi furono dimorati con giocondissime parole per alquanto spazio, usciti della galea, per il ponte medesimo entrorono a piedi nella città, avendo fatica non mediocre di passare per mezzo di infinita moltitudine d'uomini e di donne concorsa di tutte le terre circostanti. Aveva la reina alla mano destra il marito all'altra il zio, ornata maravigliosamente di gioie e di altri suntuosissimi abbigliamenti: appresso a' due re, il cardinale di Roano e il gran capitano. Seguitavano molte fanciulle e giovani nobili della corte della reina, tutte ornate superbissimamente: innanzi e indietro, le corti de' due re con magnificenza e pompa incredibile di suntuosissime vesti e di altri ricchissimi ornamenti. Con la quale celebrità furono dal re di Francia accompagnati il re e la reina di Aragona al castello, deputato per suo alloggiamento, il quale ha l'uscita in sul mare, e assegnata alla sua corte la metà della città contigua a quello; alloggiando il re di Francia nelle case del vescovado, che sono di fronte al castello. Spettacolo certamente memorabile, vedere insieme due re potentissimi tra tutti i príncipi cristiani, stati poco innanzi sí acerbissimi inimici, non solo reconciliati e congiunti di parentado ma, deposti tutti i segni dell'odio e della memoria delle offese, commettere ciascuno di loro la vita propria in arbitrio dell'altro, con non minore confidenza che se sempre fussino stati concordissimi fratelli; onde si dava occasione di ragionamenti a quegli che erano presenti, quale de' due re avesse dimostrato maggiore confidenza; ed era celebrata, da molti, piú quella del re di Francia, che primo si fusse messo in potestà dell'altro, non sicuro con altro legame che della fede, perché non era congiunta in matrimonio a lui una nipote del re di Aragona, non aveva quell'altro maggiore cagione di vergognarsi perché prima fusse stata osservata la fede a lui, ed era piú verisimile il sospetto che Ferdinando desiderasse di assicurarsi di lui per stabilirsi meglio il reame di Napoli. Ma da molti altri era piú predicata la confidenza di Ferdinando, che non per tempo brevissimo, come il re di Francia, ma per spazio di piú dí si fusse rimesso in potestà sua; perché avendolo spogliato di uno regno tale, con tanto danno delle sue genti e con tanta ignominia del suo nome, aveva da temere che grande fusse l'odio e il desiderio della vendetta, e perché s'aveva a sospettare piú dove era maggiore il premio della perfidia. Del fare prigione il re di Francia non riportava Ferdinando molto frutto, per essere in modo ordinato, con le sue leggi e consuetudini, il reame di Francia che non per questo diminuiva molto di forze e di autorità; ma fatto prigione Ferdinando non era dubbio che, per avere eredi di piccolissima età, per essergli reame nuovo il reame di Napoli, e perché gli altri regni suoi e quello di Castiglia sarebbeno stati per vari accidenti confusi in se stessi, non arebbe il re di Francia, per molti anni, ricevuto dalla potenza e armi di Spagna ostacolo alcuno.

                                                 Ma non dava minore materia a' ragionamenti il gran capitano; al quale non erano meno volti gli occhi degli uomini, per la fama del suo valore e per la memoria di tante vittorie: la quale faceva che i franzesi, ancora che vinti tante volte da lui e che solevano avere in sommo odio e orrore il suo nome, non si saziassino di contemplarlo e onorarlo, e di raccontare a quegli che non erano stati nel reame di Napoli, chi la celerità quasi incredibile e l'astuzia quando in Calavria assaltò all'improviso i baroni alloggiati a Laino, chi la costanza dell'animo e la tolleranza di tante difficoltà e incomodi quando, in mezzo della peste e della fame, era assediato in Barletta; chi la diligenza e l'efficacia di legare gli animi, gli uomini, con la quale sostentò tanto tempo i soldati senza danari; quanto valorosamente combattesse alla Cirignuola, con quanto valore e fortezza d'animo, inferiore tanto di forze, con l'esercito non pagato e tra infinite difficoltà, determinasse non si discostare dal fiume del Garigliano; con che industria militare e con che stratagemmi ottenesse quella vittoria, quanto sempre fusse stato svegliato a trarre frutto de' disordini degl'inimici: e accresceva l'ammirazione degli uomini la maestà eccellente della presenza sua, la magnificenza delle parole, i gesti e le maniere piene di gravità condita di grazia. Ma sopra tutti il re, che aveva voluto che alla mensa medesima alla quale cenorono insieme Ferdinando e la reina e lui cenasse ancora egli, e gliene aveva fatto comandare da Ferdinando, stava come attonito a guardarlo e a ragionare seco. In modo che, a giudizio di tutti, non fu manco glorioso quel giorno al gran capitano che quello nel quale, vincitore e come trionfante, entrò con tutto l'esercito nella città di Napoli. Fu questo l'ultimo dí de' dí gloriosi al gran capitano, perché dipoi non uscí mai de' reami di Spagna, né ebbe piú facoltà di esercitare la sua virtú né in guerra né in cose memorabili di pace.

                                                 Stettono i due re insieme tre dí; nel quale tempo ebbono secretissimi e lunghissimi ragionamenti, non ammesso a quegli, né onorato se non generalmente, il cardinale di Santa Prassede, legato del pontefice; i quali, per quello che parte allora si comprese parte dappoi si manifestò, furono principalmente: promessa l'uno all'altro di conservarsi insieme in perpetua amicizia e intelligenza, e che Ferdinando si ingegnasse di comporre insieme Cesare e il re di Francia, acciocché tutti uniti procedessino poi contro a' viniziani. E per mostrare di essere intenti non manco alle cose comuni che alle proprie, ragionorono di riformare lo stato della Chiesa, e a questo effetto convocare uno concilio; in che non procedeva con molta sincerità Ferdinando ma cercava nutrire il cardinale di Roano, cupidissimo del pontificato, con questa speranza: con le quali arti prese in modo l'animo suo che, forse con non piccolo detrimento delle cose del suo re, si accorse tardi, e dopo molti segni che dimostravano il contrario, quanto fussino in quel principe diverse le parole dalle opere, e quanto fussino occulti i consigli suoi. Parlossi ancora tra loro della causa de' pisani, trattata tutto l'anno medesimo da' fiorentini con l'uno e con l'altro. Perché il re di Francia, quando si preparava contro a' genovesi, essendo sdegnato contro a loro per i favori davano a' genovesi, e parendogli opportuno alle cose sue che i fiorentini recuperassino quella città, aveva data loro speranza, ottenuto che avesse Genova, mandarvi l'esercito, nel quale e in tutta la corte era, per la medesima cagione, convertita in odio la benivolenza antica de' pisani; ma espedita la impresa di Genova mutò consiglio, per le cagioni che lo indussono a licenziare l'esercito, e per non offendere l'animo del re di Aragona, che affermava che disporrebbe i pisani a ritornare concordemente sotto 'l dominio de' fiorentini: dalla qual cosa il re di Francia sperava conseguire da' fiorentini quantità grande di danari. A questo medesimo, benché per diverse cagioni, si indirizzava l'animo del re di Aragona: al quale sarebbe stato piú grato che i fiorentini non recuperassino Pisa, ma conoscendo non si potere piú conservarla senza spesa e senza difficoltà, e dubitando non la ottenessino per mezzo del re di Francia, aveva sperato di potere con l'autorità sua, quando era a Napoli, indurre i pisani a ricevere con oneste condizioni il dominio de' fiorentini, i quali gli promettevano, succedendo questo, di confederarsi seco e di donargli in certi tempi cento ventimila ducati; ma non avendo trovata ne' pisani quella corrispondenza della quale gli aveano prima data intenzione, per interrompere che il premio non fusse solamente del re di Francia, aveva detto apertamente agli oratori de' fiorentini che, in qualunque modo tentassino di recuperare Pisa senza l'aiuto suo, farebbe loro manifesta opposizione; e al re di Francia, per rimuoverlo da' pensieri di tentare l'armi, ora mostrava di confidare di indurgli a qualche composizione ora diceva i pisani essere sotto la sua protezione: benché questo fusse falso, perché era vero i pisani averla piú volte dimandata e offerto di dargli assolutamente il dominio, ma egli, dando loro sempre speranza di ricevergli, e facendo fare il medesimo piú amplamente al gran capitano, non mai l'aveva accettato. Ma in Savona, discussa piú particolarmente questa materia, conchiusono essere bene che Pisa ritornasse sotto i fiorentini; ma che ciascuno di loro ne ricevesse premio. Le quali cose furno cagione che i fiorentini, per non offendere l'animo del re di Aragona, pretermessono di dare quello anno il guasto alle ricolte de' pisani: cosa nella quale avevano molta speranza, perché Pisa era molto esausta di vettovaglie, e tanto debole di forze che le genti de' fiorentini correvano per tutto il paese insino alle porte; e i contadini, piú potenti di numero d'uomini in Pisa che i cittadini, essendo loro molestissimo il perdere il frutto delle fatiche loro di tutto l'anno, cominciavano a rimettere assai della solita ostinazione. Né a' pisani concorrevano piú gli aiuti soliti de' vicini; perché ne' genovesi battuti da tante calamità non erano piú i medesimi pensieri, Pandolfo Petrucci recusava lo spendere, e i lucchesi, con tutto che sempre occultamente di qualche cosa gli sovvenissino, non potevano soli tanta spesa sostenere.

                                                 Partirono da Savona con le medesime dimostrazioni di concordia e di amore dopo quattro giorni i due re; l'uno per mare al cammino di Barzalona; l'altro se ne ritornò per terra in Francia, lasciate l'altre cose d'Italia nel grado medesimo, ma con peggiore sodisfazione dell'animo del pontefice. Il quale, di nuovo, presa occasione dal movimento fatto da Annibale Bentivoglio, avea per il cardinale di Santa Prassede fatto instanza in Savona che gli facesse dare prigioni Giovanni Bentivogli e Alessandro suo figliuolo, i quali erano nel ducato di Milano; allegando che, poi che avevano contravenuto alla concordia fatta per mezzo di Ciamonte in Bologna, non era piú il re obligato a osservare loro la fede data; e offerendo, in caso gli fusse consentito questo, mandare l'insegne del cardinalato al vescovo d'Albi. Negava il re costare della colpa di costoro: la quale perché era disposto a punire aveva fatto ritenere molti dí Giovanni nel castello di Milano, ma non apparendo indizio alcuno del delitto loro, non volere mancare della fede alla quale pretendeva di essere obligato; e nondimeno, per fare cosa grata al pontefice, essere disposto a tollerare che egli, con le censure e con le pene, procedesse contro a loro come contro a ribelli della Chiesa; cosí come non si era lamentato che in Bologna, in sulla caldezza di questo moto, fusse stato distrutto da' fondamenti il palagio loro.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.9

                                                  

                                                 Minacce di Massimiliano contro il re di Francia; sospensione d'animi in Italia. Il contegno del pontefice. Raffreddamento degli animi de' príncipi tedeschi alla dieta di Costanza. Deliberazioni della dieta, e timori in Italia.

                                                  

                                                 Procedeva nel tempo medesimo la dieta, congregata a Gostanza, con la medesima espettazione degli uomini con la quale aveva avuto principio. La quale espettazione Cesare nutriva con varie arti e con magnifiche parole, publicando d'avere a passare in Italia con esercito tale che forze molto maggiori di quelle del re di Francia e degli italiani uniti insieme non potrebbono resistergli. E per dare maggiore degnità e autorità alla causa sua, dimostrando essergli fisso nell'animo il patrocinio della Chiesa, aveva per sue lettere significato al pontefice e al collegio de' cardinali avere dichiarato il re di Francia ribelle e inimico del sacro imperio, perché era venuto in Italia per trasferire nella persona del cardinale di Roano la degnità pontificale e in sé la imperiale, e per ridurre Italia tutta in acerba soggezione; prepararsi per venire a Roma per la corona, e per stabilire la sicurtà e la libertà comune; e che a sé, per la degnità imperiale avvocato della Chiesa e per la propria pietà desiderosissimo di esaltare la sedia apostolica, non era stato conveniente aspettare d'essere richiesto o pregato di questo, perché sapeva il pontefice per paura di tanti mali essersi fuggito da Bologna, e la medesima paura impedire che né egli né il collegio non facessino intendere i loro pericoli e dimandassino d'essere soccorsi. Significate adunque in Italia per vari avvisi le cose che in Germania si trattavano, traportate ancora dalla fama maggiore che la verità, e accrescendo fede a quel che publicamente se ne diceva i preparamenti grandissimi che faceva il re di Francia, il quale si credeva che non temesse senza cagione, molto commossono gli animi di tutti, chi per cupidità di cose nuove chi per speranza chi per timore; in modo che il pontefice mandò legato a Cesare il cardinale di Santa Croce; e i viniziani, i fiorentini e, dal marchese di Mantova in fuora, tutti quegli che in Italia dependevano da se medesimi, gli mandorno, o sotto nome di imbasciadori o sotto altro nome, uomini propri. Le quali cose angustiavano molto l'animo del re di Francia, incerto della volontà de' viniziani, e incertissimo di quella del pontefice, sí per l'altre cagioni antiche e specialmente per l'avere eletto a questa legazione il cardinale di Santa Croce, desideroso molto per antica inclinazione della grandezza di Cesare. E certamente la volontà del pontefice non che fusse manifesta agli altri non era nota a se stesso; perché avendo l'animo pieno di mala sodisfazione e di sospetti del re di Francia, talvolta, per liberarsene, la venuta di Cesare desiderava, talvolta la memoria delle antiche controversie tra i pontefici e gli imperadori lo spaventava, considerando che ancora duravano le medesime cagioni: nella quale ambiguità differiva a risolversi, aspettando di intendere prima quel che si deliberasse nella dieta; e perciò, procedendo con termini generali, aveva commesso al legato che confortasse in nome suo Cesare a passare in Italia senza esercito, offerendogli maggiori onori che mai da pontefice alcuno fusseno stati fatti nella incoronazione degli imperadori.

                                                 Ma cominciò non molto poi a diminuire l'espettazione delle deliberazioni della dieta: perché, come in Germania si seppe che il re di Francia aveva subito dopo la vittoria de' genovesi licenziato l'esercito, e che poi quanto piú presto aveva potuto si era ritornato di là da' monti, si raffreddò molto l'ardore de' príncipi e de' popoli, essendo cessato il timore che egli tentasse di usurpare il pontificato e lo imperio, né essendo in tanta considerazione gli altri interessi publici che, come il piú delle volte accade, non fussino superati dagli interessi privati; perché, oltre all'altre cagioni, era desiderio inveterato in tutta Germania che la grandezza degli imperadori non fusse tale che gli altri fussino costretti a ubbidirlo. Né aveva il re di Francia mancato di diligenza alcuna alla causa sua: perché a Gostanza mandò occultamente uomini propri, i quali, non si dimostrando in publico ma procedendo secretissimamente, si sforzavano con occulto favore de' príncipi amici suoi di mitigare gli animi degli altri, purgando le infamie che gli erano state date con l'evidenza degli effetti; poiché, come ebbe ridotta Genova all'ubbidienza sua, aveva cosí subitamente licenziato l'esercito, ed egli, benché rimasto in Italia senza armi, essersene quanto piú presto aveva potuto ritornato di là da' monti; e affermando che non solo si era sempre astenuto con l'opere da offendere l'imperio romano ma, in qualunque confederazione convenzione o obligazione che avea fatta, avere sempre eccettuato di non volere essere tenuto a cosa alcuna contro alle ragioni del sacro imperio: e nondimeno, non confidando tanto di queste giustificazioni che non attendessino con diligenza grande, e con la mano molto liberale, a temperare la ferocia dell'armi tedesche con la potenza dell'oro, del quale quella nazione è avidissima.

                                                 Terminò finalmente il vigesimo dí di agosto la dieta, nella quale fu determinato, dopo molte dispute, che al re de' romani, per seguitarlo in Italia fussino dati ottomila cavalli e ventiduemila fanti pagati per sei mesi, e per la spesa dell'artiglierie e altre spese estraordinarie cento ventimila fiorini di Reno, per tutto il tempo: le quali genti fu statuito che il dí della festività prossima di san Gallo, che è circa a mezzo il mese di ottobre, si ritrovassino in campagna appresso a Gostanza. E si divulgò allora che arebbono forse deliberato maggiori sussidi se Massimiliano avesse consentito che la impresa, benché sotto il governo e consiglio suo, si facesse interamente in nome dell'imperio, che per ordine dell'imperio i capitani si eleggessino e sotto il nome medesimo le genti si comandassino, e che la distribuzione de' luoghi che si acquistassino si facesse secondo la determinazione della dieta; ma non volendo Massimiliano altro compagno o altro nome che il suo, né che di altri che suoi, benché sotto nome dello imperio, fussino i premi della vittoria, e contentandosi piú di questo aiuto, in questo modo, che, in altro modo, di maggiore, non fu fatta altra deliberazione. La quale benché non corrispondesse alla espettazione degli uomini prima conceputa, nondimeno non cessava perciò in Italia il timore che s'aveva della passata sua; perché si considerava che, aggiunti alle genti stabilite nella dieta gli aiuti che gli darebbono i sudditi suoi, e quel che egli poteva fare da se medesimo, arebbe esercito molto potente e di gente tutta feroce ed esperimentata alla guerra, e accompagnato con infinite artiglierie; il che faceva piú formidabile l'essere egli, per la disposizione della natura e per il lungo esercizio nell'armi, peritissimo nella disciplina militare, e bastante a sostenere con le fatiche del corpo e con la sollecitudine dell'anima qualunque gravissima impresa; e perciò in maggiore estimazione che già cento anni fusse stata alcuna imperadore. Aggiugnevasi che continuamente trattava di condurre agli stipendi suoi dodicimila svizzeri: alla qual cosa benché il baglí di Digiuno e gli altri mandati dal re di Francia, con grande instanza si opponessino, nelle diete di quella nazione, riducendo in memoria la confederazione continuata tanti anni co' re di Francia e confermata poco innanzi con questo medesimo re, l'utilità che ne era pervenuta negli uomini loro, e da altra parte l'inimicizia inveterata con la casa di Austria e la grave guerra avuta con Massimiliano, e quanto fusse perniciosa a loro la grandezza dello imperio, nondimeno mostravano non piccola inclinazione di sodisfare alle dimande di Cesare, o almeno di non pigliare l'armi contro a lui; avendo, secondo si credeva, rispetto a non offendere il nome comune della Germania, il quale pareva pure annesso a questo movimento. Onde molti dubitavano che il re di Francia, in caso fusse abbandonato da' svizzeri o non si unissino seco i viniziani, non avendo fanteria potente a resistere a' fanti degli inimici, e sperando che il furore tedesco, entrato in Italia come uno torrente, s'avesse per mancamento di danari prestamente a risolvere, farebbe ritirare le genti sue alla guardia delle terre. E già si vedeva che con grandissima celerità si fortificavano i borghi di Milano e gli altri luoghi piú importanti di quello ducato.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.10

                                                  

                                                 Timori de' veneziani. Discussione intorno alla politica da seguire. Deliberazioni prese e risposta agli ambasciatori di Massimiliano.

                                                  

                                                 Nelle quali agitazioni e apparati non era minore perplessità nelle menti del senato viniziano che negli altri, e per essere di grandissimo momento la loro deliberazione, grandissime erano le diligenze e l'opere che si facevano da ciascuno per congiugnergli a sé. Perché Cesare v'aveva insino da principio mandato tre oratori, uomini di grande autorità, a fare instanza che gli concedessino il passo per il territorio loro; anzi, non contento a questa dimanda, gl'invitava a fare seco piú stretta congiunzione con patto che partecipassino de' premi della vittoria, e per contrario dimostrando essere in facoltà sua di concordarsi col re di Francia, con quelle condizioni a pregiudicio loro che tante volte in diversi tempi gli erano state proposte: da altra parte il re di Francia, con gli imbasciadori suoi appresso a quel senato e con lo imbasciadore viniziano che risedeva appresso a lui, non cessava di fare ogni opera per disporgli a opporsi con l'armi alla venuta di Cesare, come perniciosa a l'uno e l'altro, offerendo al medesimo tutte le forze sue e di conservare con loro perpetua confederazione. Ma non piaceva al senato viniziano, in questo tempo, che la quiete d'Italia si perturbasse; né gli moveva a desiderare nuovi tumulti la speranza proposta della ampliazione dello imperio, avendo per la esperienza conosciuto che l'acquisto di Cremona non era contrapeso pari a' sospetti e pericoli ne' quali erano continuamente stati, poiché avevano avuto il re di Francia tanto vicino. Volentieri si sarebbano risoluti alla neutralità, ma stretti e infestati da Cesare erano necessitati a negargli o concedergli il passo: negandolo temevano di essere i primi molestati, concedendolo offendevano il re di Francia, perché nella confederazione che era tra loro espressamente si proibiva il concedere passo agli inimici l'uno dell'altro; e conoscevano che, cominciando a offenderlo, sarebbe imprudenza, passato che fusse Massimiliano, stare oziosi a vedere l'esito della guerra, e aspettare la vittoria di coloro de' quali l'uno sarebbe inimicissimo al nome viniziano, l'altro, non avendo ricevuto altra sodisfazione che d'essere lasciato passare, non sarebbe loro molto amico. Per le quali ragioni ciascuno di quel senato affermava essere necessario aderirsi scopertamente a una delle parti, ma a quale si avessino a aderire erano in causa tanto grave molto diverse le sentenze; e poiché ebbeno allungato il farne deliberazione quanto potevano, non si potendo piú sostenere la instanza che ogni dí ne era loro fatta, ridottisi finalmente a farne nel consiglio de' pregati ultima determinazione, Niccolò Foscarini parlò in questa sentenza:

                                                 - Se e' fusse in nostra potestà, prestantissimi senatori, di fare deliberazione mediante la quale, ne' movimenti e travagli che ora si apparecchiano, si conservasse in pace la nostra republica, io sono certissimo che tra noi non sarebbe varietà alcuna di pareri; e che nessuna speranza che ci fusse proposta ci farebbe inclinare a una guerra di tanta spesa e pericolo quanta si dimostra avere a essere la presente. Ma poiché, per le ragioni le quali in questi dí sono state tante volte allegate tra noi, non si può sperare di conservarsi in questa quiete, io mi persuado che la principale ragione in su la quale abbiamo a fondare la nostra deliberazione sia il fermare una volta in noi medesimi, se noi crediamo che tra il re di Francia e il re de' romani, disperato che sarà dell'amicizia nostra, sia per nascere unione, o se pure l'inimicizia che è tra loro sia sí potente e sí ferma che impedisca non si congiunghino: perché quando fussimo sicuri di questo pericolo, io senza dubbio approverei il non partire dall'amicizia del re di Francia, perché congiunte con buona fede le forze nostre con le sue alla difesa comune difenderemmo facilmente lo stato nostro, e perché sarebbe con piú onore continuare la confederazione che abbiamo seco che partircene senza evidente cagione, e perché con piú laude e favore di tutto il mondo sarebbe l'entrare in una guerra che avesse titolo di volere conservare la pace d'Italia che congiugnersi con quelle armi che manifestamente si conosce che si prendono per fare grandissime perturbazioni; ma quando si presupponesse pericolo di questa unione, non credo che sia nessuno che negasse che fusse da prevenire, perché sarebbe senza comparazione piú utile unirsi col re de' romani contro al re di Francia che aspettare che l'uno e l'altro si unisse contro a noi. Ma quale di questo abbia a essere è difficile fare giudicio certo, perché depende non solo dalle volontà d'altri ma ancora da molti accidenti e da molte cagioni che appena lasciano questa deliberazione in potestà di chi l'ha a fare: nondimeno, per quel che si può asseguire con le congetture, e per quello che del futuro insegna l'esperienza del passato, a me pare sia cosa molto pericolosa e da starne con grandissimo timore. Perché dalla parte del re de' romani non è verisimile che abbia avere molta difficoltà, per l'ardente desiderio che gli ha di passare in Italia; e poterlo difficilmente fare se non si congiugne o col re di Francia o con noi: e se bene desideri piú la congiunzione nostra, chi può dubitare che escluso da noi si congiugnerà per necessità col re di Francia? non gli restando altro modo da pervenire a i disegni suoi. Dalla parte del re di Francia appariscono a questa unione maggiori difficoltà, ma non però a giudicio mio tali che possiamo promettercene sicurezza alcuna; perché a questa deliberazione lo possono indurre il sospetto e l'ambizione, stimoli potentissimi, e soliti ciascuno per sé a fare movimenti molto maggiori. Ègli nota l'instanza che fa il re de' romani della nostra unione; e benché falsamente, pure misurando la mente e gli appetiti nostri da se stesso, può dubitare che la suspicione che noi abbiamo di non essere prevenuti da lui ci induca a prevenire, sapendo massime esserci noto quel che tanto tempo hanno trattato insieme contro a noi: può ancora temere che l'ambizione ci muova, perché non dubiterà esserci offerti partiti grandissimi; e da questo timore che mezzo è bastante ad assicurarlo? non essendo cosa alcuna naturalmente piú sospettosa che gli stati. Può oltre al sospetto muoverlo l'ambizione, per il desiderio che sappiamo che ha della città di Cremona, accendendolo a questo gli stimoli de' milanesi, e non meno lo appetito di occupare tutto lo stato vecchio de' Visconti, nel quale come nel resto del ducato di Milano pretende titolo ereditario; e a questo non può sperare di pervenire se non si unisce col re de' romani, perché la republica nostra è potente per se medesima, e assaltandoci il re di Francia da sé solo sarebbe sempre in potestà nostra congiugnerci con Massimiliano: e che questi pensieri possino essere anzi sempre sieno stati in lui, ne fa fede manifesta che mai ha ardito di tentare d'opprimerci senza questa unione; la quale essendo il cammino unico che può condurlo al fine desiderato, perché non dobbiamo noi credere che finalmente vi si abbia a disporre? Né ci assicuri da questo timore il considerare che a lui sarebbe inutile deliberazione, per acquistare due o tre città, mettere in Italia il re de' romani inimico naturale suo, e dal quale sempre alla fine arà molestie e guerre né mai amicizia se non incerta, e che cosí incerta gli bisognerà comperare e sostenere con somma infinita di denari: perché, se ha sospetto che noi non ci uniamo col re de' romani, gli parrà che il prevenire non lo metta in pericolo ma lo assicuri; anzi, quando bene non temesse di questa unione, giudicherà forse necessario confederarsi seco per liberarsi dai travagli e pericoli che potesse avere da lui, o con l'aiuto della Germania o con altre aderenze e occasioni; e con tutto che potessino succedergli maggiori pericoli se il re de' romani cominciasse a fermare piede in Italia, è natura comune degli uomini temere prima i pericoli piú vicini e stimare piú che non conviene le cose presenti, e tenere minore conto che non si debbe delle future e lontane, perché a quelle si possono sperare molti rimedi dagli accidenti e dal tempo. Dipoi, quando bene il fare questa unione non fusse utile per il re di Francia, non siamo però sicuri che egli non l'abbia a fare. Non sappiamo noi quanto ora la paura ora la cupidità acciecano gli uomini? non conosciamo noi la natura de' franzesi, leggieri a imprese nuove, e che non hanno mai la speranza minore del desiderio? non ci sono noti i conforti e l'offerte, bastanti ad accendere ogni animo quieto, con le quali è stimolato contro a noi da' milanesi dal papa da' fiorentini dal duca di Ferrara e dal marchese di Mantova? Gli uomini non sono tutti savi, anzi sono pochissimi i savi; e chi ha a fare pronostico delle deliberazioni d'altri debbe, non si volendo ingannare, avere in considerazione non tanto quello che verisimilmente farebbe uno savio quanto quale sia il cervello e la natura di chi ha a deliberare. Però, chi vuole giudicare quello che farà il re di Francia, non avvertirà tanto a quello che sarebbe ufficio della prudenza quanto che i franzesi sono inquieti e leggieri, e soliti a procedere spesso piú con caldezza che con consiglio. Considererà quali sieno le nature de' príncipi grandi, che non sono simili alle nostre, né resistono sí facilmente agli appetiti loro come fanno gli uomini privati; perché assuefatti a essere adorati ne' regni suoi, e intesi e ubbiditi a cenni, non solo sono elati e insolenti ma non possono tollerare di non ottenere quello che gli pare giusto (e giusto pare ciò che desiderano), persuadendosi di potere spianare con una parola tutti gli impedimenti e superare la natura delle cose; anzi si recono a vergogna il ritirarsi per le difficoltà dalle loro inclinazioni, e misurano comunemente le cose maggiori con quelle regole con le quali sono consueti a procedere nelle minori, consigliandosi non con la prudenza e con la ragione ma con la volontà e alterezza: de' quali vizi comuni a tutti i príncipi, non sarà già alcuno che dica che i franzesi non partecipino. Non vedemmo noi frescamente l'esempio del regno di Napoli? che dal re di Francia, indotto da ambizione e da inconsiderazione, fu consentita la metà al re di Spagna per avere egli l'altra metà; non pensando quanto indebolisse la sua potenza, unica prima tra tutti gl'italiani, il mettere in Italia un altro re, eguale a lui di potenza e d'autorità. Ma che andiamo noi per congetture in quelle cose delle quali abbiamo la certezza? Non è egli cosa notissima quel che trattò il cardinale di Roano, con questo medesimo Massimiliano, a Trento, di dividersi il nostro stato? non si sa egli che poi a Bles fu conchiusa tra loro la medesima pratica, e che 'l medesimo cardinale, andato in Germania per questo, ne riportò la ratificazione e il giuramento di Cesare? Non ebbono effetto questi accordi, io lo confesso, per qualche difficoltà che sopravenne; ma chi ci assicura, che poiché la intenzione principale è stata la medesima, che non si possi trovare mezzo alle difficoltà che hanno disturbato il desiderio comune? Però considerate diligentemente, dignissimi senatori, i pericoli imminenti, e il carico e infamia che appresso a tutto il mondo oscurerà il nome chiarissimo della prudenza di questo senato se, misurando male la condizione delle cose presenti, permetteremo che altri si faccia formidabile, a offesa nostra, di quell'armi che ci sono offerte a sicurtà e augumento nostro; e vogliate, in beneficio della patria vostra, considerare quanta differenza sia dal muovere la guerra ad altri ad aspettare che la sia mossa a noi, trattare di dividere lo stato d'altri o aspettare che sia diviso il nostro, essere accompagnati contro a uno solo o rimanere soli contro a molti compagni: perché se questi due re si uniscono insieme contro a noi gli seguiterà il pontefice per conto delle terre di Romagna, il re d'Aragona per i porti del reame di Napoli, e tutta Italia, chi per ricuperare chi per assicurarsi. È noto a tutto il mondo quel che tanti anni ha trattato il re di Francia con Cesare contro a noi: però se ci armeremo contr'a chi ci ha voluto ingannare niuno ci chiamerà mancatori di fede, niuno se ne maraviglierà, ma da tutti saremo riputati prudenti; e con nostra somma laude sarà veduto in pericolo chi si sa per ciascuno che ha cercato fraudolentemente mettervi noi. -

                                                 Ma in contrario fu per [Andrea Gritti] parlato cosí:

                                                 - Se e' fusse conveniente in una medesima materia rendere sempre il voto nel bossolo de' non sinceri, io vi confesso, clarissimi senatori, che io in altro bossolo non lo renderei; perché questa consultazione ha da ogni parte tante ragioni che io spesso mi confondo: nondimeno, essendo necessario il risolversi, né potendo farsi con fondamenti o presuppositi certi, bisogna, pesate le ragioni che contradicono l'una a l'altra, seguitare quelle che sono piú verisimili e che hanno piú potenti congetture. Le quali quando io esamino, non mi può in modo alcuno essere capace che il re di Francia, o per sospetto di non essere prevenuto da noi o per cupidità di quelle terre che appartenevano già al ducato di Milano, si accordi col re de' romani a farlo passare in Italia contro a noi, perché i pericoli e i danni che gliene seguiterebbono sono senza dubbio maggiori e piú manifesti che non è il pericolo che noi ci uniamo con Cesare, o che non sono i premi che e' potesse sperare di questa deliberazione; atteso che, oltre alle inimicizie e ingiurie gravissime che sono tra loro, ci è la concorrenza della dignità e degli stati, solita a generare odio tra quegli che sono amicissimi. Però, che il re di Francia chiami in Italia il re de' romani, non vuole dire altro che in luogo d'una republica quieta e stata sempre in pace seco, e che non pretende con lui alcuna differenza, volere per vicino uno re ingiuriato, inquietissimo, e che ha mille cause di contendere seco d'autorità, di stato e di vendetta. Né sia chi dica che per essere il re de' romani povero, disordinato e mal fortunato, non sarà temuta dal re di Francia la sua vicinità; perché per la memoria delle antiche fazioni e inclinazioni d'Italia, le quali ancora in molti luoghi sono accese, e specialmente nel ducato di Milano, non arà mai uno imperadore romano sí piccolo nidio in Italia che non sia con grave pericolo degli altri; e costui massimamente, per lo stato che ha contiguo a Italia, per essere riputato principe di grande animo e di grande scienza ed esperienza nelle cose della guerra, e perché può avere seco i figliuoli di Lodovico Sforza, instrumento potente a sollevare gli animi di molti: senza che, in ogni guerra che avesse col re di Francia può sperare d'avere l'aderenza del re cattolico, se non per altro, perché tutti due hanno una medesima successione. Sa pure il re di Francia quanto è potente la Germania, e quanto sarà piú facile a unirsi, tutta o parte, quando sarà già aperto l'adito in Italia, e la speranza della preda sarà presente. E non abbiamo noi veduto quanto egli ha temuto sempre de' moti de' tedeschi e di questo re, cosí povero e disordinato come è? il quale se fusse in Italia, sarebbe certo non potere avere altro seco che o guerra pericolosa o pace infedelissima e di grandissima spesa. Può essere che abbia desiderio di recuperare Cremona, e forse l'altre terre; ma non è già verisimile che per cupidità di acquisto minore si sottoponga a pericolo di danno molto maggiore, ed è piú credibile che abbia a procedere in questo caso con prudenza che con temerità: massimamente che, se noi discorriamo gli errori i quali si dice avere commessi questo re, non hanno avuto origine da altro che da troppo desiderio di fare le imprese sicuramente. Perché, che altro lo indusse al dividere il regno di Napoli, che altro a consentire Cremona a noi, se non il volere fare piú facile la vittoria di quelle guerre? Dunque è piú credibile che, medesimamente ora, seguiterà i consigli piú savi e la sua consuetudine che i consigli precipitosi; massime che per questo non resterà privato al tutto di speranza di potere ad altro tempo, con sicurtà maggiore e con occasione migliore, conseguire lo intento suo: cose che gli uomini sogliono promettersi facilmente, perché manco erra chi si promette variazione nelle cose del mondo che chi se le persuade ferme e stabili. Né mi spaventa quello che si dice essere stato altre volte trattato tra questi due re, perché è costume de' príncipi della nostra età intrattenere artificiosamente l'uno l'altro con speranze vane e con simulate pratiche; le quali, poiché in tanti anni non hanno avuto effetto, bisogna confessare o che siano state finzioni o che abbino in sé qualche difficoltà che non si possa risolvere: perché la natura delle cose repugna a levare la diffidenza tra loro, senza il quale fondamento non possono venire a questa congiunzione. Non temo adunque che per cupidità delle nostre terre il re di Francia si precipiti a sí imprudente deliberazione; e manco, a mio giudizio, vi si precipiterà per sospetto che abbia di noi, perché oltre alla esperienza lunga che ha veduto dell'animo nostro, non ci essendo mancati molti stimoli e molte occasioni di partirci dalla sua confederazione, le ragioni medesime che assicurano noi di lui assicurano medesimamente lui di noi; perché nessuna cosa ci sarebbe piú perniciosa che l'avere il re de' romani stato in Italia, sí per l'autorità dell'imperio, l'augumento del quale ci ha sempre a essere sospetto, sí per conto della casa d'Austria che pretende ragione in molte terre nostre, sí per la vicinità della Germania, le inondazioni della quale sono troppo pericolose al nostro dominio: e abbiamo pure nome per tutto di maturare le nostre deliberazioni, e peccare piú tosto in tardità che in prestezza. Non nego che queste cose possono succedere diversamente dalla opinione degli uomini, e però, che quando si potesse facilmente assicurarsene sarebbe cosa laudabile; ma non si potendo, senza entrare in grandissimi pericoli e difficoltà, è da considerare che spesso sono cosí nocivi i timori vani come sia nociva la troppa confidenza: perché, se noi ci confederiamo col re de' romani contro al re di Francia, bisogna che la guerra si cominci e si sostenga co' danari nostri, co' quali aremo a supplire eziandio a tutte le prodigalità e disordini suoi; altrimenti o si accorderà con gl'inimici o si ritirerà in Germania, lasciando a noi soli tutti i pesi e pericoli. Arassi a fare la guerra contro a uno re di Francia potentissimo, duca di Milano, signore di Genova, abbondante di valorose genti d'arme, e instrutto, quanto alcuno altro principe, di artiglierie; e al nome de' danari del quale concorrono i fanti di qualunque nazione. Come adunque si può sperare che tale impresa abbia facilmente ad avere successo felice? potendosi anche non vanamente dubitare che tutti quegli d'Italia che o pretendono che noi occupiamo il suo o che temono la nostra grandezza si uniranno contro a noi; e il pontefice sopra gli altri, al quale, oltre agli sdegni che ha con noi, non piacerà mai la potenza dello imperadore in Italia, per la inimicizia naturale che è tra la Chiesa e lo imperio, per la quale i pontefici non temono manco degli imperadori nelle cose temporali che e' temino de' turchi nelle spirituali. E questa congiunzione ci sarebbe forse piú pericolosa che non sarebbe quella di che si teme tra il re di Francia e il re de' romani, perché dove si accompagnano piú príncipi che pretendono d'essere pari nascono facilmente tra loro sospetti e contenzioni; donde spesso le imprese, cominciate con grandissima riputazione, caggiono in molte difficoltà, e finalmente diventano vane. Né è da mettere in ultima considerazione che, quando bene il re di Francia abbia tenute pratiche contrarie alla nostra confederazione, non si sono però veduti effetti per i quali si possa dire averci mancato: però, il pigliargli guerra contro non sarà senza nota di maculare la nostra fede, della quale questo senato debbe fare precipuo capitale per l'onore e per l'utilità de' maneggi che tutto dí abbiamo avere con gli altri príncipi; né ci è utile augumentare continuamente l'opinione che noi cerchiamo di opprimere sempre tutti i vicini, che noi aspiriamo alla monarchia d'Italia. Volesse Dio che per l'addietro si fusse proceduto in questo con maggiore considerazione! perché quasi tutti i sospetti che noi abbiamo al presente procedono dall'avere per il passato offesi troppi; né si crederà che a una nuova guerra contro al re di Francia, nostro collegato, ci tiri il timore ma la cupidità di ottenere, congiugnendoci col re de' romani, una parte del ducato di Milano contro a lui, come congiunti seco ottenemmo contro a Lodovico Sforza: al quale tempo se ci fussimo governati con piú moderazione, né temuto troppo i sospetti vani, non sarebbano le cose d'Italia nelle presenti agitazioni, e noi, conservatici con fama di piú modestia e gravità, non saremmo ora necessitati a entrare in guerra con questo o con quello principe piú potenti di noi. Nella quale necessità poiché siamo, credo sia piú prudenza non partire dalla confederazione del re di Francia che, mossi da timore vano o da speranza di guadagni incerti e dannosi, abbracciare una guerra la quale soli non saremmo potenti a sostenere, e i compagni che noi aremmo ci sarebbano alla fine di maggiore peso che profitto. -

                                                 Vari furono in tanta varietà di ragioni i pareri del senato; ma alla fine prevalse la memoria della inclinazione la quale sapevano avere sempre avuta il re de' romani di recuperare, come n'avesse occasione, le terre tenute da loro, quali pretendeva appartenersi o allo imperio o alla casa d'Austria: però fu la loro deliberazione di concedergli il passo venendo senza esercito, negargliene se venisse con armi. La quale conclusione, nella risposta feciono a' suoi oratori, si sforzorono di persuadere quanto potettono che fusse mossa piú da necessità, per la confederazione che avevano col re di Francia, e dalle condizioni de' tempi presenti che da volontà che avessino di dispiacergli in cosa alcuna: aggiugnendo essere sforzati dalla medesima confederazione di aiutarlo alla difesa del ducato di Milano col numero di gente espresso in quella, ma che in questo procederebbono con somma modestia, non trapassando in parte alcuna le loro obligazioni; ed eccettuato quello che fussino costretti di fare in questo modo per la difesa del ducato di Milano, non si opporrebbono ad alcuno altro progresso suo; come quegli che non erano, in quel che consistesse in potestà loro, per mancare mai di quegli uffici e di quella reverenza che convenisse al senato viniziano di usare verso uno tanto principe, e col quale non avevano mai avuto altro che amicizia e congiunzione. Né per questo procederono col re di Francia a nuove confederazioni e obligazioni, desiderando mescolarsi il meno potevano nella guerra tra loro, e sperando che forse Massimiliano, per non si accrescere difficoltà, lasciati stare in pace i confini loro, volterebbe l'armi sue o nella Borgogna o contro allo stato di Milano.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.11

                                                  

                                                 Difficoltà di Massimiliano. I preparativi suoi, quelli del re di Francia e quelli dei veneziani. Fallita spedizione di fuorusciti genovesi contro Genova. Lamentele reciproche fra il re di Francia e il pontefice. Fallito tentativo de' Bentivoglio di ricuperare Bologna; morte di Giovanni Bentivoglio.

                                                  

                                                 Ma al re de' romani, rimasto senza speranza d'avere i viniziani congiunti seco, cominciorono a succedere nuove altre difficoltà; le quali benché si ingegnasse superare con la grandezza de' suoi concetti, facili a promettersi sempre maggiori le speranze che gli impedimenti, nondimeno ritardavano grandemente gli effetti de' suoi disegni; perché né per se medesimo aveva danari che gli bastassino a condurre i svizzeri e fare tante altre spese che erano necessarie a tanta impresa, né il sussidio pecuniario che gli aveva promesso la dieta era tale che potesse supplire a una minima parte della voragine della guerra; e quello fondamento in sul quale, insino da principio, aveva sperato assai, che le comunità e i signori d'Italia avessino, per il terrore del nome e della venuta sua, a comporre seco e sovvenirlo di danari, si andava ogni dí piú difficultando. Perché se bene nel principio vi fussino stati inclinati molti, nondimeno, non avendo corrisposto le conclusioni della dieta di Gostanza alla espettazione che la impresa avesse a essere piú presto di tutto lo imperio e di quasi tutta la Germania che sua propria, e vedendosi le preparazioni del re di Francia potenti, e la nuova dichiarazione de' viniziani, ciascuno stava sospeso, né ardiva, aiutandolo di quella cosa della quale aveva piú di bisogno, fare offesa sí grave al re di Francia; né le dimande di Massimiliano erano, nel tempo che si ebbe maggiore spavento di lui, state tali, che con la sua facilità avessino indotto gli uomini a sovvenirlo. Perché e a ciascuno, secondo le sue condizioni, dimandava assai; e ad Alfonso duca di Ferrara, il quale pretendeva essere debitore a Bianca sua moglie della dote di Anna sua sorella, morta molti anni innanzi nel matrimonio di Alfonso, faceva dimande molto eccessive; e a' fiorentini intollerabili: a' quali il cardinale brissinense, che trattava a Roma le cose sue, essendogli da lui stata rimessa la pratica della loro composizione, aveva dimandato ducati cinquecentomila; la quale dimanda immoderata gli fece fermare in questa resoluzione di temporeggiare seco insino a tanto che de' progressi suoi non si vedesse piú oltre, e nondimeno, avendo rispetto a non l'offendere, scusarsi col re di Francia, che dimandava le genti loro, non potergliene dare perché erano occupate nel guasto che con grande apparato si dava quello anno a' pisani, e perché, avendo cominciato di nuovo i genovesi e gli altri vicini ad aiutargli, erano necessitati a stare continuamente preparati contro a loro. Però, non potendo Cesare aiutarsi, secondo aveva disegnato, de' denari degl'italiani, perché solamente ebbe da' sanesi seimila ducati, fece instanza col pontefice che almanco gli concedesse di pigliare centomila ducati i quali, riscossi prima in Germania sotto nome della guerra contro a' turchi, ed essendo a questo effetto custoditi in quella provincia, non si potevano senza licenza della sedia apostolica in altro uso convertire; offerendo, che se bene non poteva sodisfare alle dimande sue di non passare in Italia con esercito, nondimeno che, come avesse restituiti nel ducato di Milano i figliuoli di Lodovico Sforza, il patrocinio de' quali pretendeva, per farsi i popoli di quello stato piú favorevoli e manco esosa la passata sua, lasciate quivi tutte le genti, andrebbe senza armi a Roma a ricevere la corona dello imperio. Ma gli fu similmente negata questa dimanda dal pontefice, il quale non si vedeva inclinare in parte alcuna, dimostrandogli che in questo stato delle cose non poteva senza molto suo pericolo provocare l'armi del re di Francia contro a sé. Nondimeno Massimiliano costituito in queste difficoltà, come era sollecito, confidente, e che con fatica incredibile voleva eseguire da se medesimo, non ometteva alcuna di quelle cose che conservassino la fama della passata sua; inviando in piú luoghi a' confini d'Italia artiglierie, sollecitando la pratica del condurre i dodicimila svizzeri, i quali interponendo varie dimande e proponendo molte eccezioni non gli davano ancora certa resoluzione, sollecitando le genti promesse, e trasferendosi personalmente ogni dí da uno luogo a uno altro per diverse espedizioni: in modo che, stando gli uomini molto confusi, erano per tutta Italia, quanto mai fussino in cosa alcuna, vari i giudíci; avendo altri maggiore concetto che mai di questa impresa, altri pensando che andasse piú presto a diminuzione che ad augumento. La quale incertitudine accresceva egli, perché, segretissimo di natura, non comunicava ad altri i suoi pensieri; e perché fussino manco noti in Italia aveva ordinato che il legato del pontefice e gli altri italiani non seguitassino la persona sua, ma stessino appartati in luogo fermo fuori della corte.

                                                 Già era venuta la festività di san Gallo, termine destinato alla congregazione delle genti, ma non se ne era condotta a Gostanza altro che piccola parte, né si vedevano quasi altri apparati di lui che movimenti d'artiglierie e l'attendere egli con somma diligenza a fare provisioni di danari per diverse vie. Onde essendo incerto con quali forze, e in quale tempo e da quale parte avesse a muoversi (o entrare nel Friuli o da Trento nel veronese, altri credendo che per la Savoia o per la via di Como assalterebbe il ducato di Milano essendo seco molti fuorusciti di quello stato, né standosi senza dubitazione che non facesse qualche movimento nella Borgogna), si facevano da quelli che temevano di lui potenti provisioni in diversi luoghi. Però il re di Francia aveva mandato nel ducato di Milano numero grande di genti a cavallo e a piedi, e soldato, oltre all'altre preparazioni, per difesa di quello stato, nel reame di Napoli, con permissione del re cattolico (contro a cui Cesare per questo gravissimamente si lamentò) dumila cinquecento fanti spagnuoli; avendo nel tempo medesimo Ciamonte, dubitando della fede del cavaliere de' Borromei, occupato all'improviso Arona, castello di quella famiglia in sul Lago Maggiore. In Borgogna avea mandato cinquecento lancie sotto la Tramoglia governatore di quella provincia; e per distrarre in piú parti i pensieri e le forze di Cesare dava continuamente aiuti e fomento al duca di Ghelleri, il quale molestava il paese di Carlo nipote di Cesare. Aveva oltre a questo mandato a Verona Giaiacopo da Triulzi, con quattrocento lancie franzesi e quattromila fanti, in soccorso de' viniziani; i quali aveano fermato, verso Roveré, per opporsi a' movimenti che si facevano di verso Trento, il conte di Pitigliano con quattrocento uomini d'arme e molti fanti, e nel Friuli ottocento uomini d'arme sotto Bartolomeo d'Alviano, ritornato piú anni innanzi agli stipendi loro.

                                                 Ma si dimostrò da parte non pensata il primo pericolo, perché Polbatista Giustiniano e Fregosino, fuorusciti di Genova, condusseno a Gazzuolo, terra di Lodovico da Gonzaga feudatario imperiale, mille fanti tedeschi, i quali passorno all'improviso con grandissima celerità per monti e luoghi asprissimi del dominio viniziano, con intenzione di andare, passato il fiume del Po, per la montagna di Parma verso Genova; ma Ciamonte, sospettandone, mandò subito a Parma, per opporsi loro nel cammino, molti cavalli e fanti: per la venuta de' quali i tedeschi, perduta la speranza che contro a Genova potesse piú succedere effetto alcuno, se ne ritornorono in Germania, per la medesima via ma non col medesimo timore e celerità, perché i viniziani, per beneficio comune, consentirono tacitamente il ritorno loro.

                                                 Erano nel tempo medesimo molti fuorusciti genovesi nella città di Bologna, e perciò il re ebbe dubitazione non mediocre che questa cosa fusse stata trattata con saputa del pontefice; dell'animo del quale molte altre cose gli davano sospetto: perché il cardinale di Santa Croce confortava, benché piú per propria inclinazione che per altra cagione, Cesare a passare; ed essendo accaduto che i fuorusciti di Furlí, movendosi da Faenza, avevano tentato una notte di entrare in Furlí, il pontefice si querelava essere consiglio comunicato tra 'l re di Francia e i viniziani. Aggiugnevasi che un certo frate incarcerato a Mantova avea confessato avere trattato co' Bentivogli di avvelenare il pontefice, e che per parte di Ciamonte era stato confortato a fare quanto avea promesso a' Bentivogli; onde il pontefice, ridotta in forma autentica la esamina, mandò con essa al re Achille de' Grassi bolognese, vescovo di Pesero che fu poi cardinale, a fare instanza che si ritrovasse la verità e si punissino quegli che erano in colpa di tanta sceleratezza: della qual cosa essendo sospetto piú che gli altri Alessandro Bentivogli, fu per commissione del re citato in Francia.

                                                 Con queste azioni e incertitudini si finí l'anno mille cinquecento sette. Ma nel principio dell'anno mille cinquecento otto, non potendo quietarsi gli ingegni mobili de' bolognesi, Annibale ed Ermes Bentivogli, avendo intelligenza con certi giovani de' Peppoli e altri nobili della gioventú, si accostorono allo improviso a Bologna; il quale movimento non fu senza pericolo perché i congiurati avevano già, per mettergli dentro, occupato la porta di san Mammolo: ma essendosi il popolo messo in arme in favore dello stato ecclesiastico, i giovani spaventati abbandonorono la porta, e i Bentivogli si ritirorno. Il quale insulto mitigò piú tosto che accendesse l'animo del pontefice contro al re di Francia; perché il re, dimostrando essergli molestissimo questo insulto, comandò a Ciamonte che qualunque volta fusse di bisogno soccorresse con tutte le genti d'arme alle cose di Bologna, né permettesse che i Bentivogli fussino piú ricettati in parte alcuna del ducato di Milano. De' quali era in quegli dí morto Giovanni per dolore di animo, non assueto, innanzi fusse cacciato di Bologna, a sentire l'acerbità della fortuna, essendo stato prima, lungo tempo, felicissimo di tutti i tiranni d'Italia ed esempio di prospera fortuna; perché in spazio di quaranta anni ne' quali dominò ad arbitrio suo Bologna (nel qual tempo, non che altro, non sentí mai morte di alcuno de' suoi) aveva sempre avuto, per sé e per i figliuoli, condotte provisioni e grandissimi onori da tutti i príncipi d'Italia, e liberatosi sempre con grandissima facilità da tutte le cose che se gli erano dimostrate pericolose: della quale felicità pareva che principalmente fusse debitore alla fortuna, oltre alla opportunità del sito di quella città, perché secondo il giudicio comune non gli era attribuita laude né di ingegno né di prudenza né di valore eccellente.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.12

                                                  

                                                 Prime azioni di Massimiliano contro i veneziani. Castelli veneziani presi dalle sue milizie. Vittoria dell'Alviano sui tedeschi e suoi successi nel Friuli; presa di Trieste, di Fiume e di Postumia. Vicende della lotta nel Trentino. Tregua fra Massimiliano e i veneziani.

                                                  

                                                 Nel principio dell'anno medesimo Cesare, non volendo piú differire il muovere delle armi, mandò uno araldo a Verona a notificare di volere passare in Italia per la corona imperiale, e dimandare alloggiamento per quattromila cavalli; alla qual cosa i rettori di Verona, consultata prima a Vinegia questa dimanda, gli feciono risposta che se la passata sua non avesse altra cagione che il volere incoronarsi sarebbe onorato da loro sommamente, ma apparire gli effetti diversi da quello che proponeva, poiché aveva condotto a' loro confini tanto apparato d'armi e d'artiglierie: però venuto a Trento per dare principio alla guerra, fece fare il terzo dí di febbraio una solenne processione, dove andò in persona, avendo innanzi a sé gli araldi imperiali e la spada imperiale nuda; nel progresso della quale Matteo Lango suo segretario, che fu poi vescovo Gurgense, salito in su uno eminente tribunale, publicò in nome di Cesare la deliberazione di passare ostilmente in Italia, nominandolo non piú re de' romani ma eletto imperadore, secondo hanno consuetudine di nominarsi i re de' romani quando vengono per la corona: e avendo il dí medesimo proibito che di Trento non uscisse alcuno, fatto fare quantità grande di pane, e di ripari e gabbioni di legname, e inviato per il fiume dello Adice molti foderi carichi di provisioni, uscí la notte seguente, poco avanti il giorno, di Trento con mille cinquecento cavalli e quattromila fanti, non di genti dategli dalla dieta ma delle proprie della corte e degli stati suoi; dirizzandosi al cammino che per quelle montagne riesce a Vicenza. E nel medesimo tempo uscí verso Roveré il marchese di Brandiborgo con cinquecento cavalli e dumila fanti pure de' medesimi paesi. Tornò il seguente dí Brandiborgo, non avendo fatto altro effetto che presentatosi a Roveré e dimandato invano d'essere alloggiato dentro; ma Cesare, entrato nella montagna di Siago, le radici della quale si approssimano a dodici miglia a Vicenza, pigliate le terre de' Sette Comuni, che cosí denominati abitano nella sommità della montagna con molte esenzioni e privilegi de' viniziani, e spianate molte tagliate che per difendersi e impedirgli il cammino avevano fatte, vi condusse alcuni pezzi d'artiglieria: donde, aspettandosi a ogn'ora piú prosperi successi, il quarto dí che era partito da Trento, ritornò subito a Bolzano, terra piú lontana che Trento da' confini d'Italia; avendo ripieno di sommo stupore, per tanta o inconsiderazione o incostanza, gli animi di ciascuno. Eccitò questo principio tanto debole gli animi de' viniziani; e però, avendo già soldato molti fanti, chiamorno a Roveré le genti franzesi che col Triulzio erano a Verona, e cominciate a fare maggiori preparazioni stimolavano il re di Francia a fare il medesimo: il quale venendo verso Italia inviava innanzi a sé cinquemila svizzeri pagati da lui e tremila che si pagavano da' viniziani; perché quella nazione, non avendo potuto Massimiliano dargli danari, si era senza rispetto voltata finalmente agli stipendi del re. E nondimeno non vollono i svizzeri, poiché furono mossi e pagati, andare nel dominio viniziano, allegando non volere servire contro a Cesare in altro che nella difesa dello stato di Milano.

                                                 Maggiore movimento, ma con evento piú infelice e destinato a dare principio a cose molto maggiori, fu suscitato nel Friuli, dove per ordine di Cesare passorono per la via de' monti quattrocento cavalli e cinquemila fanti, gente tutta comandata del contado suo di Tiruolo; i quali entrati nella valle di Cadoro presono il castello e la fortezza, ove era piccola guardia, insieme con l'offiziale de' viniziani che vi era dentro: la quale cosa intesa a Vinegia, comandorono all'Alviano e a Giorgio Cornaro proveditore, che erano nel vicentino, che andassino subito al soccorso di quel paese; e per travagliare ancora loro gl'inimici da quella parte, mandorno verso Triesti quattro galee sottili e altri navili. E nel tempo medesimo Massimiliano, che da Bolzano era andato a Brunech, voltatosi al cammino del Friuli, per la comodità de' passi e de' paesi piú larghi, con seimila fanti comandati del paese, scorse per certe valli piú di quaranta miglia dentro a' confini de' viniziani; e presa la valle di Codauro onde si va verso Trevigi, e lasciatosi addietro il castello di Bostauro che era già del patriarcato d'Aquilea, prese il castello di San Martino, il castel della Pieve e la valle Conelogo, dove erano a guardia i conti Savignani, e altri luoghi vicini: e fatto questo progresso, degno piú tosto di piccolo capitano che di re, lasciato ordine che quelle genti andassino verso il trevigiano, si ritornò alla fine di febbraio a Spruch, per impegnare gioie e fare in altri modi provisione di danari; de' quali essendo piú tosto dissipatore che spenditore, niuna quantità bastava a supplire a' bisogni suoi. Ma avendo per il cammino inteso che i svizzeri avevano accettati i danari del re di Francia, sdegnato contro a loro, andò a Olmo città de' svevi per indurre la lega di Svevia a dargli aiuto, come altra volta aveva fatto nella guerra contro a' svizzeri: instava ancora con gli elettori perché gli fussino prorogati per altri sei mesi gli aiuti promessi nella dieta di Gostanza. E nel tempo medesimo le genti degli stati suoi che erano restate a Trento, in numero di novemila tra cavalli e fanti, presono in tre dí a discrezione, avendolo prima battuto con l'artiglierie, castello Baioco, che è a rincontro di Roveré in su la strada diritta, a mano destra da andare da Trento in Italia, tramezzando quello e Roveré, che è in sulla mano sinistra, il fiume dello Adice.

                                                 Ma l'Alviano si mosse per soccorrere il Friuli con grandissima celerità, e avendo passato le montagne cariche di neve si condusse in due dí presso a Cadoro; ove aspettati i fanti, che non avevano potuto pareggiare la sua celerità, occupò uno passo non guardato da' tedeschi donde si entra nella valle di Cadoro: per la venuta del quale preso animo gli uomini del paese, inclinati a stare sotto lo imperio viniziano, occuporono gli altri passi della valle onde i tedeschi arebbano avuto facoltà di ritirarsi. I quali, vedendosi rinchiusi né avendo altra salute o speranza che nell'armi, e giudicando che l'Alviano fusse ogni dí per ingrossarsi, se gli feciono con grandissima animosità incontro, e non essendo recusato il combattere da lui si cominciò tra l'uno e l'altro di loro asprissima battaglia, nella quale i tedeschi, che combattevano ferocemente piú per desiderio di morire gloriosi che per speranza di salvarsi, si erano messi in uno grosso squadrone; e posto in mezzo di loro le donne combatterono con grande impeto per qualche ora, ma non potendo finalmente resistere al numero e alla virtú degli inimici restorno del tutto vinti, essendone morti piú di mille di loro e gli altri restati prigioni. Dopo la quale vittoria l'Alviano avendo assaltato da due bande la rocca di Cadoro la espugnò, ove morí Carlo Malatesta, uno de' signori antichi di Rimini, da uno sasso gittato dalla torre; e seguitando con lo esercito suo l'occasione, prese Porto Navone, dipoi Cremonsa situata in su uno alto colle: la quale presa, andò a campo a Gorizia situata nelle radici delle Alpi Giulie, forte di sito e bene munita e che ha una rocca ardua a salire; e avendo prima preso il ponte di Gorizia e poi piantate l'artiglierie alla terra, l'ottenne il quarto giorno per accordo, perché mancava loro armi acqua e vettovaglie; e presa la terra, il castellano e le genti che erano nella rocca, avuti quattromila ducati, la déttano: dove i viniziani feciono subito molte fortificazioni, perché fusse come uno propugnacolo e uno freno a' turchi a spaventargli a passare il fiume dell'Isonzio, perché con l'opportunità di quello luogo si poteva facilmente impedire loro la facoltà del ritirarsi. Presa Gorizia, l'Alviano andò a campo a Triesti, la quale città nel tempo medesimo era molestata per mare; e la presano facilmente, non senza dispiacere del re di Francia, il quale dissuadeva lo irritare tanto il re de' romani, ma per essere per l'uso del golfo di Vinegia molto utile a' loro commerci, ed enfiati dalla prosperità della fortuna, erono disposti a seguitare il corso della vittoria. Però, avuta che ebbono Triesti e la rocca, presano Portonon e dipoi Fiume, terra di Schiavonia che è a riscontro di Ancona; la quale terra abbruciorono, perché era ricetto delle navi che senza pagare i dazi posti da loro volevano passare per il mare Adriatico: e passate poi le Alpi, presono Postonia che è ne' confini della Ungheria.

                                                 Queste cose si facevano nel Friuli. Ma dalla parte di verso Trento, l'esercito tedesco che era venuto a Calliano, villa famosa per i danni de' viniziani (perché appresso a quella, poco piú di venti anni innanzi, era stato rotto e ammazzato Ruberto da San Severino, famosissimo capitano del loro esercito), assaltò tremila fanti de' viniziani, che sotto Iacopo Corso, Dionigi di Naldo e Vitello da città di Castello erano a guardia di Monte Brettonico; i quali, ancora che fussino assai bene fortificati, fuggirono subito in su uno monte vicino: e i tedeschi, deridendo e giustamente la viltà de' fanti italiani, arse molte case e spianati i ripari che erano fatti al monte, ritornorono a Caliano. Dal quale successo invitato il vescovo di Trento, andò, con dumila fanti comandati e parte delle genti che erano a Caliano, a campo a Riva di Trento, castello posto in sul lago di Garda, dove già il Triulzio aveva mandato sufficiente guardia; e avendo battuta due dí la chiesa di san Francesco, e fatta, mentre vi stavano, qualche correria nelle ville circostanti a Lodrone, dumila grigioni che erano nel campo tedesco, sollevatisi per discordia di piccola importanza nata ne' pagamenti, depredorno le vettovaglie del campo. Onde essendo ogni cosa in disordine, e partiti quasi tutti i grigioni, il resto dell'esercito, che erano settemila uomini, fu costretto a ritirarsi: per la levata de' quali scorrendo le genti viniziane per le ville vicine, e andando tremila fanti de' loro ad ardere certe ville del conte di Agresto, furono messi in fuga dai paesani e mortine circa trecento. Ma essendo per la ritirata de' tedeschi dalla Riva resoluta quasi tutta la gente, e i cavalli, che erano mille dugento, ritiratisi dallo alloggiamento di Caliano in Trento, le genti de' viniziani, la mattina di pasqua, assaltorono la Pietra, luogo lontano da Trento sei miglia; ma uscendo al soccorso delle genti che erano in Trento, si ritirorono: e dipoi assaltorono la rocca di Cresta, passo di importanza, che si arrendé innanzi vi arrivasse il soccorso che veniva di Trento. Però i tedeschi, che si erano riordinati di fanti, ritornorono con mille cavalli e seimila fanti allo alloggiamento di Caliano, distante per una balestrata dalla Pietra, ed essendosi partiti da loro dugento cavalli del duca di Vertimberg, i viniziani con quattromila cavalli e sedicimila fanti vennono a porsi a campo alla Pietra, e vi piantorono sedici pezzi di artiglierie. È la Pietra una rocca situata nella radice di una montagna in su la mano destra a chi va da Roveré a Trento, e da quella si parte uno muro assai forte, che camminando per spazio d'una balestrata si distende insino in su l'Adice, il quale muro ha nel mezzo una porta; e chi non è padrone di questo passo può con difficoltà offendere la Pietra. Stavano gli eserciti vicini l'uno all'altro a uno miglio, avendo ciascuno a fronte la rocca e il muro, e da uno de' fianchi il fiume dell'Adice dall'altro i monti, e ciascuno alle spalle i suoi ridotti sicuri; e perché i tedeschi aveano in potestà la rocca e il muro potevano a loro piacere sforzare l'esercito viniziano a combattere, a che non potevano essere sforzati loro, ma per essere di numero molto inferiori non ardivano commettersi alla fortuna; solamente attendevano a difendere la rocca dagli insulti degli inimici, i quali sollecitamente la battevano. Ma vedendo uno giorno l'occasione di non essere bene guardata l'artiglieria, usciti furiosamente ad assaltarla e rotti i fanti che la guardavano, ne tirorno con grande ferocia due pezzi agli alloggiamenti loro; donde i viniziani inviliti, e giudicando anche vana l'oppugnazione, nella quale avevano perduti molti uomini, si ritirorno a Roveré: e i tedeschi si ritornorono a Trento, e pochi dí poi se ne disperse la maggiore parte. E le genti della dieta, delle quali, per venire chi piú presto e chi piú tardi, non ne erano mai stati insieme quattromila uomini (perché quasi tutti quegli che si messono insieme a Trento e a Cadoro erano de' paesi circostanti), finiti i loro sei mesi se ne ritornavano alle case loro; e la maggiore parte de' fanti comandati facevano il medesimo. Né Massimiliano, occupato a andare da luogo a luogo per vari pensieri e provisioni, era mai stato presente a queste cose; anzi rimessa la dieta di Olmo a tempo piú comodo, confuso tra se medesimo e pieno di difficoltà e di vergogna, se ne era andato verso Colonia, essendo stato occulto piú dí dove si trovava la persona sua, né potendo resistere con le forze sue a questo impeto, avendo perduto tutto quello teneva in Friuli e l'altre terre vicine, abbandonato da ciascuno, e in pericolo le cose di Trento, se le genti franzesi fussino volute congiugnersi con l'esercito viniziano a offenderlo. Ma il Triulzio, per comandamento del re che aveva fisso nell'animo piú di placare che di provocare, non volle passare piú oltre di quel che fusse necessario per la difesa de' viniziani.

                                                 Aveva Cesare, vedendosi abbandonato da tutti e desideroso di levarsi in qualche modo dal pericolo, insino quando le genti sue furono rotte a Cadoro, mandato Pré Luca suo uomo a Vinegia a ricercare di fare tregua con loro per tre mesi; la quale dimanda era stata sprezzata da quel senato, disposto a non fare tregua per minore tempo di uno anno, né in modo alcuno se medesimamente non vi si comprendeva il re di Francia: ma crescendo i suoi pericoli, perduto già Triesti, e ogni cosa succedendo in peggio, il vescovo di Trento, come da sé, invitò i viniziani a fare tregua, proponendo che con questo fondamento si aveva da sperare di potere fare la pace. I viniziani risposono, che poiché la pratica non si proponeva piú a loro soli ma in modo che eziandio il re di Francia vi poteva intervenire, non averne l'animo alieno: dal quale principio introdotto il ragionamento, si convennono a parlare insieme il vescovo di Trento e il Serentano segretario di Massimiliano, e per il re di Francia il Triulzio e Carlo Giuffré presidente del senato di Milano, mandato da Ciamonte per questa pratica, e per i viniziani Zacheria Contareno, oratore destinato particolarmente a questo negozio. Convenivano facilmente nell'altre condizioni, perché del tempo concordavano durasse per tre anni, che ciascuno possedesse come possedeva di presente, con facoltà di edificare e fortificare ne' luoghi occupati; ma la difficoltà era che i franzesi volevano si facesse tregua generale, includendovi eziandio i confederati che aveva ciascuno fuora d'Italia, e specialmente il duca di Ghelleri, e a questo stavano molto ostinati gli agenti di Massimiliano, che aveva volto totalmente l'animo allo eccidio di quel duca, e allegavano che la guerra era tutta in Italia, però non essere né conveniente né necessario parlare se non delle cose d'Italia; in che i viniziani facevano ogni opera perché si sodisfacesse al desiderio del re di Francia, ma non sperando piú di potervi piegare i tedeschi erano inclinati ad accettare la tregua nel modo consentito da loro, inducendogli il desiderio di rimuoversi una guerra che tutta si riduceva nello stato loro, e la volontà anche di confermarsi, mediante la tregua de' tre anni, le terre che in questo moto avevano conquistate; e si scusavano a' franzesi, con verissima ragione, che non essendo l'uno e l'altro di loro tenuti se non alla difesa delle cose d'Italia e in su questo fondata la loro confederazione, non appartenere a loro pensare alle cose di là da' monti; le quali se non erano tenuti a difenderle con le armi non erano anche tenuti a pensare di assicurarle con la tregua. Sopra la quale contenzione avendo il Triulzio scritto in Francia e i viniziani a Vinegia, venne risposta dal senato che non potendo fare altrimenti conchiudessino solamente la tregua per Italia, riservando luogo e tempo al re di Francia di entrarvi: alla quale cosa né il Triulzio né il presidente volendo consentire, anzi lamentandosi gravemente che non che altro non volessino aspettare la risposta del re, e protestando il presidente che la impresa comune non si doveva finire se non comunemente, e del poco rispetto alla amicizia e congiunzione, non restorono i veneti per questo di non conchiudere; contraendo Massimiliano e loro, in nomi loro propri semplicemente, e con patto che per la parte di Massimiliano si nominassino e avessinsi per inclusi e nominati il pontefice, i re cattolici, di Inghilterra e di Ungheria e tutti i príncipi e sudditi del sacro imperio in qualunque luogo, e tutti i confederati di Massimiliano e de' prenominati re e stati dello imperio, da nominarsi infra tre mesi; e per la parte de' viniziani, il re di Francia e il re cattolico, e tutti gli amici e confederati de' viniziani del re di Francia e del cattolico, in Italia solamente costituti, da nominarsi infra tre mesi. La quale tregua, stipulata il vigesimo dí di aprile, essendo stata quasi incontinente ratificata dal re de' romani e da' viniziani, si deposono l'armi tra loro, con speranza di molti che Italia avesse a godere per qualche tempo questa quiete.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.7, cap.13

                                                  

                                                 Lamentele del re di Francia co' fiorentini e risposta di questi. Pratica fra il re di Francia, Ferdinando d'Aragona e i fiorentini riguardo a Pisa.

                                                  

                                                 Posate che furono l'armi per la tregua fatta, il re di Francia, parendogli che l'animo de' fiorentini non fusse stato sincero verso lui, ma piú tosto inclinati a Cesare se alle cose sue si fusse dimostrato principio di prosperi successi, e sapendo non procedere da altro che dal desiderio di recuperare in qualunque modo Pisa, e dallo sdegno che egli, non attendendo né alla divozione né alle opere loro, non solo non gli avesse favoriti né con l'autorità né coll'armi ma tollerato che da' genovesi sudditi suoi fussino aiutati, deliberò di pensare che con qualche onesto modo ottenessino il desiderio loro. Ma volendo, secondo i disegni primi, farlo con utilità propria, e sperando essere migliore mezzo a tirargli a somma maggiore il timore che la speranza, mandò Michele Riccio a lamentarsi: che avessino mandato uomini propri per convenire con Cesare suo inimico; che avendo sotto colore di dare il guasto a' pisani congregato esercito potente senza avere rispetto alle condizioni de' tempi e de' sospetti e pericoli suoi, né avendo voluto in sí grave moto che si preparava dichiarare mai perfettamente l'animo loro, aveano dato a lui causa non mediocre di dubitare a che fine tendessino queste preparazioni; che a lui che gli aveva ricercati che con le genti loro gli dessino aiuti in pericoli tanto gravi avessino dinegato di farlo, fuora d'ogni sua espettazione: e nondimeno, che per l'amore che avea sempre portato alla loro republica, e per la memoria delle cose che per il passato aveano fatte in beneficio suo, era parato a rimettere queste ingiurie nuove, pure che, per rimuovere le cagioni per le quali si sarebbe potuta turbare la quiete d'Italia, non molestassino piú in futuro senza consentimento suo i pisani. Alle quali querele risposono i fiorentini: la necessità avergli indotti a mandare a Cesare, non con intenzione di convenire con lui contro al re ma per cercare di assicurare, in caso passasse in Italia, le cose proprie, le quali il re, nella capitolazione fatta con loro, non si era voluto obligare a difendere contro a Cesare, ma v'aveva espressa dentro la clausula: “salve le ragioni dello imperio”; e nondimeno, non avere fatta con lui convenzione alcuna: non essere giusta la querela dell'esercito mandato contro a' pisani, perché essendo stato secondo la consuetudine loro esercito mediocre, né per altro effetto che per impedire, come molte altre volte aveano fatto, le ricolte, non avere avuto alcuno causa ragionevole di sospettarne: questa cagione, insieme con gli aiuti dati da' genovesi e dagli altri vicini a' pisani, non avere permesso che al re mandassino le genti loro; alla quale cosa se bene non erano obligati, nondimeno che per la continua divozione loro al nome suo non arebbono pretermesso, quando bene non ne fussino stati ricercati, questo officio: maravigliarsi sopra modo che 'l re desiderasse non fussino molestati i pisani, i quali a comparazione de' fiorentini non aveva causa di stimare e di amare, se si ricordava quel che avessino operato contro a lui nella ribellione de' genovesi: né potere il re con giustizia proibire che non molestassino i pisani, perché cosí era espresso nella confederazione che aveano fatta con lui. Da questi princípi si cominciò a trattare che Pisa ritornasse sotto il dominio de' fiorentini, alla quale cosa pareva dovesse bastare il provedere che i genovesi e lucchesi non dessino aiuto a' pisani, ridotti in tale estremità di vettovaglie e di forze che non ardivano uscire piú della città; aggiugnendosi massime, per la perdita delle ricolte, la mala disposizione de' contadini, i quali erano maggiore numero che i cittadini: [in modo] che si credeva non si potessino piú sostentare se da' genovesi e lucchesi non avessino ricevuto qualche sussidio di danari, co' quali quegli che reggevano, tenendo in Pisa alcuni soldati e forestieri, e gli altri distribuendo nella gioventú de' cittadini e de' contadini, e con l'armi di questi spaventando coloro che desideravano concordarsi co' fiorentini, non avessino tenuta quieta la città.

                                                 A questa pratica, cominciata dal re cristianissimo, si aggiunse l'autorità del re cattolico, geloso che senza lui non si conducesse a effetto: però, subito che ebbe intesa l'andata di Michele Riccio a Firenze, vi mandò uno imbasciadore, il quale, entrato prima in Pisa, gli confortò e dette loro animo in nome del suo re a sostenersi; non per altro se non perché, stando piú ostinati a non cedere a' fiorentini, potessino essere venduti con maggiore prezzo. Trasferironsi poco dipoi questi ragionamenti, per volontà de' due re, nella corte del re di Francia ove, senza rispetto della protezione tanto affermata, la sollecitava molto il re cattolico, conoscendo che non essendo difesa era necessario cadesse in potestà de' fiorentini, e avendo l'animo alieno allora da implicarsi in cose nuove, e specialmente contro alla volontà del re di Francia: perché se bene, subito che ritornò in Spagna, avesse riassunto il governo di Castiglia non l'aveva però totalmente stabilito, e per le volontà diverse de' signori e perché il re de' romani non v'aveva, in nome del nipote, prestato il consentimento.

                                             

                                                 Lib.8, cap.1

                                                  

                                                 Nuovi e piú gravi mali che affliggeranno l'Italia. Responsabilità de' veneziani e sdegno contro di loro di Massimiliano e del re di Francia. Ragioni di sdegno del pontefice contro i veneziani e timori suoi di successi francesi. Lega di Cambrai contro Venezia. Ratifica del trattato da parte del re d'Aragona. Ratifica del pontefice, dopoché i veneziani hanno respinto la richiesta sua di Faenza e di Rimini.

                                                  

                                                 Non erano tali le infermità d'Italia, né sí poco indebolite le forze sue, che si potessino curare con medicine leggiere; anzi, come spesso accade ne' corpi ripieni di umori corrotti, che uno rimedio usato per provedere al disordine di una parte ne genera de' piú perniciosi e di maggiore pericolo, cosí la tregua fatta tra il re de' romani e i viniziani partorí agli italiani, in luogo di quella quiete e tranquillità che molti doverne succedere sperato aveano, calamità innumerabili, e guerre molto piú atroci e molto piú sanguinose che le passate: perché se bene in Italia fussino state, già quattordici anni, tante guerre e tante mutazioni, nondimeno, o essendosi spesso terminate le cose senza sangue o le uccisioni state piú tra' barbari medesimi, avevano patito meno i popoli che i príncipi. Ma aprendosi in futuro la porta a nuove discordie, seguitorono per tutta Italia, e contro agli italiani medesimi, crudelissimi accidenti, infinite uccisioni, sacchi ed eccidi di molte città e terre, licenza militare non manco perniciosa agli amici che agli inimici, violata la religione, conculcate le cose sacre con minore riverenza e rispetto che le profane.

                                                 La cagione di tanti mali, se tu la consideri generalmente, fu come quasi sempre l'ambizione e la cupidità de' príncipi: ma considerandola particolarmente, ebbono origine dalla temerità e dal procedere troppo insolente del senato viniziano, per il quale si rimossono le difficoltà che insino allora avevano tenuto sospesi il re de' romani e il re di Francia a convenirsi contro a loro; l'uno de' quali immoderatamente esacerbato condussono in grandissima disperazione, l'altro nel tempo medesimo concitorono in somma indegnazione, o almeno gli dettono facoltà di aprire sotto apparente colore quel che lungamente aveva desiderato. Perché Cesare, stimolato da tanta ignominia e danno ricevuto, e avendo in luogo di acquistare gli stati di altri perduto una parte de' suoi ereditari, non era per lasciare indietro cosa alcuna per risarcire tanta infamia e tanto danno; la quale disposizione accrebbono di nuovo, dopo la tregua fatta, imprudentemente i viniziani, perché, non si astenendo da provocarlo non meno con le dimostrazioni vane che con gli effetti, riceverono in Vinegia con grandissima pompa e quasi come trionfante l'Alviano: e il re di Francia, ancora che da principio desse speranza di ratificare la tregua fatta, dimostrandosene poi alterato maravigliosamente, si lamentava che i viniziani avessino presunto di nominarlo e includerlo come aderente, e che, avendo proveduto al riposo proprio, avessino lasciato lui nelle molestie della guerra: necessitato, per l'onore e utilità propria, a difendere contro a Cesare (che da Cologna andava in Fiandra per opprimerlo), il duca di Ghelleri, antico collegato suo e pronto sempre per lui a opporsi a' fiamminghi e a molestargli, e per la cui autorità ne' popoli vicini e per l'opportunità del suo paese gli era facile il fare passare nella Francia fanti tedeschi, quante volte avesse volontà di soldarne. Le quali disposizioni dell'animo dell'uno e dell'altro incominciorono in breve spazio di tempo a manifestarsi: perché Cesare, delle forze proprie non confidando, né sperando piú che per le ingiurie sue si risentissino i príncipi o i popoli di Germania, inclinava a unirsi col re di Francia contro a' viniziani, come unico rimedio a ricuperare l'onore e gli stati perduti; e il re, avendogli lo sdegno nuovo rinnovata la memoria delle offese che si persuadeva avere ricevute da loro nella guerra napoletana, e stimolato dall'antica cupidità di Cremona e dell'altre terre possedute lungo tempo da' duchi di Milano, aveva la medesima inclinazione: perciò si cominciò a trattare tra loro, per potere, rimosso l'impedimento delle cose minori, attendere insieme alle maggiori, di comporre le differenze trall'arciduca e il duca di Ghelleri.

                                                 Stimolava similmente l'animo del re contro a' viniziani nel tempo medesimo il pontefice, acceso oltre all'antiche cagioni da nuove indegnazioni; perché si persuadeva che per opera loro i fuorusciti di Furlí, i quali si riducevano a Faenza, avessino tentato di entrare in quella città, e perché nel dominio veneto aveano ricetto i Bentivogli, stati dal re scacciati del ducato di Milano; aggiugnendosi che all'autorità della corte di Roma avevano in molte cose minore rispetto che mai: nelle quali avea ultimatamente turbato molto l'animo del pontefice che avendo conferito il vescovado di Vicenza, vacato per la morte del cardinale di San Piero a Vincola suo nipote, a Sisto similmente nipote suo, surrogato da lui nella degnità del cardinalato e ne' medesimi benefici, il senato viniziano disprezzata questa collazione aveva eletto uno gentiluomo di Vinegia; il quale, recusando il pontefice di confermarlo, ardiva temerariamente nominarsi vescovo eletto di Vicenza dallo eccellentissimo consiglio de' pregati. Dalle quali cose infiammato, mandò prima al re Massimo secretario del cardinale di Nerbona e di poi il medesimo cardinale, che succeduto nuovamente per la morte del cardinale di Aus nel suo vescovado si chiamava il cardinale di Aus; i quali, uditi dal re con allegra fronte, riportorono a lui vari partiti da eseguirsi, e senza Cesare e unitamente con Cesare. Ma il pontefice era piú pronto a querelarsi che a determinarsi; perché da una parte combatteva nella sua mente il desiderio ardente che si movessino l'armi contro a' viniziani, da altra parte lo riteneva il timore di non essere costretto a spendere immoderatamente per la grandezza d'altri, e molto piú la gelosia antica conceputa del cardinale di Roano, per la quale gli era molestissimo che eserciti potenti del re passassino in Italia: e turbava in qualche parte le cose maggiori l'avere il pontefice conferito poco innanzi senza saputa del re i vescovadi d'Asti e di Piacenza, e il ricusare il re che 'l nuovo cardinale di San Piero in Vincola, a cui per la morte dell'altro era stata conferita la badia di Chiaravalle, beneficio ricchissimo e propinquo a Milano, ne conseguisse la possessione.

                                                 Nelle quali difficoltà quel che non risolveva il pontefice deliberorno finalmente Cesare e il re di Francia, i quali trattando insieme secretissimamente contro a' viniziani, si convennono nella città di Cambrai, per dare alle cose trattate perfezione, per la parte di Cesare madama Margherita sua figliuola, sotto 'l cui governo si reggevano la Fiandra e gli altri stati pervenuti per l'eredità materna nel re Filippo, seguitandola a questo trattato Matteo Lango secretario accettissimo di Cesare, e per la parte del re di Francia il cardinale di Roano; spargendo fama di convenirsi per trattare la pace tra l'arciduca e il duca di Ghelleri, tra' quali aveano fatta tregua per quaranta dí, ingegnandosi che la vera cagione non pervenisse alla notizia de' viniziani: all'oratore de' quali affermava con giuramenti gravissimi il cardinale di Roano, volere il suo re perseverare nella confederazione con loro. Seguitò il cardinale, piú tosto non contradicente che permettente, lo imbasciadore del re d'Aragona; perché se bene quel re fusse stato il primo motore di questi ragionamenti tra Cesare e il re di Francia erano stati dipoi continuati senza lui, persuadendosi l'uno e l'altro di loro essergli molesta la prosperità del re di Francia, e sospetto, per rispetto del governo di Castiglia, ogni augumento di Cesare, e che perciò i pensieri suoi non fussino in questa cosa conformi colle parole. A Cambrai si fece in pochissimi dí l'ultima determinazione, non partecipata cosa alcuna, se non dopo la conclusione fatta, con l'oratore del re cattolico; la quale il dí seguente, che fu il decimo di dicembre, fu con solenni cerimonie confermata nella chiesa maggiore, col giuramento di madama Margherita, del cardinale di Roano e dello imbasciadore spagnuolo, non publicando altro che l'essere contratta tra 'l pontefice e ciascuno di questi príncipi perpetua pace e confederazione. Ma negli articoli piú secreti si contennono effetti sommamente importanti; i quali, ambiziosi e in molte parti contrari a' patti che Cesare e il re di Francia aveano co' viniziani, si coprivano (come se la diversità delle parole bastasse a trasmutare la sostanza de' fatti) con uno proemio molto pietoso nel quale si narrava il desiderio comune di cominciare la guerra contro agli inimici del nome di Cristo, e gli impedimenti che faceva a questo l'avere i viniziani occupate ambiziosamente le terre della Chiesa. Li quali volendo rimuovere per procedere poi unitamente a cosí santa e necessaria espedizione, e per i conforti e consigli del pontefice, il cardinale di Roano come procuratore e col suo mandato e come procuratore e col mandato del re di Francia, e madama Margherita come procuratrice e col mandato del re de' romani e come governatrice dell'arciduca e degli stati di Fiandra, e l'oratore del re d'Aragona come procuratore e col mandato del suo re, convennono di muovere guerra a' viniziani, per ricuperare ciascuno le cose sue occupate da loro, che si nominavano: per la parte del pontefice, Faenza, Rimini, Ravenna e Cervia; per il re de' romani, Padova, Vicenza e Verona appartenentigli in nome dello imperio, e il Friuli e Trevigi appartenenti alla casa d'Austria; per il re di Francia, Cremona e la Ghiaradadda, Brescia, Bergamo e Crema; per il re d'Aragona, le terre e i porti stati dati in pegno da Ferdinando re di Napoli. Fusse tenuto il re cristianissimo venire alla guerra in persona, e dargli principio il primo giorno del prossimo mese di aprile; al qual tempo avessino similmente a cominciare il pontefice e il re cattolico: che acciò che Cesare avesse giusta causa di non osservare la tregua fatta, il papa lo richiedesse, come avvocato della Chiesa, di aiuto; dopo la quale richiesta Cesare gli mandasse almeno uno condottiere, e fusse tenuto, fra quaranta dí che 'l re di Francia avesse rotta la guerra, assaltare personalmente lo stato de' viniziani: qualunque di loro avesse recuperato le cose proprie fusse tenuto aiutare gli altri insino che avessino interamente ricuperato, obligati tutti alla difesa di chiunque di loro fusse nelle terre ricuperate molestato da' viniziani; co' quali niuno potesse convenire senza consentimento comune: potessino essere nominati infra tre mesi il duca di Ferrara, il marchese di Mantova e ciascuno che pretendesse i viniziani occupargli alcuna terra; nominati, godessino come principali tutti i benefici della confederazione, avendo facoltà di ricuperarsi da se stessi le cose perdute: ammunisse il pontefice, sotto pene e censure gravissime, i viniziani a restituire le cose occupate alla Chiesa; e fusse giudice della differenza tra Bianca Maria moglie del re de' romani e il duca di Ferrara, per conto della eredità di Anna sorella di lei e moglie già del duca predetto: investisse Cesare il re di Francia, per sé per Francesco d'Anguelem e loro discendenti maschi, del ducato di Milano; per la quale investitura il re gli pagasse ducati centomila: non facessino né Cesare né l'arciduca, durando la guerra e sei mesi poi, novità alcuna contro al re cattolico per cagione del governo e de' titoli de' regni di Castiglia; esortasse il papa il re di Ungheria a entrare nella presente confederazione: nominasse ciascuno tra quattro mesi i collegati e aderenti suoi, non potendo nominare i viniziani né i sudditi o feudatari di alcuno de' confederati; e che ciascuno de' contraenti principali dovesse intra sessanta dí prossimi ratificare. Alla concordia universale s'aggiunse la particolare trall'arciduca e il duca di Ghelleri, nella quale fu convenuto che le terre occupate nella guerra presente allo arciduca, si restituissino, ma non già il simigliante di quelle che al duca erano state occupate. Stabilita in questa forma la nuova confederazione, ma tenendosi quanto si poteva secreto quel che apparteneva a viniziani, il cardinale di Roano si partí il dí seguente da Cambrai, mandati prima a Cesare il vescovo di Parigi e Alberto Pio conte di Carpi per ricevere da lui la ratificazione in nome del re di Francia; il quale senza dilazione ratificò e confermò con giuramento, colle solennità medesime colle quali era stata fatta la publicazione nella chiesa di Cambrai. Con questi semi di gravissime guerre finí l'anno mille cinquecent'otto.

                                                 È certo che questa confederazione, con tutto che nella scrittura si dicesse intervenirvi il mandato del papa e del re d'Aragona, fu fatta senza mandato o consentimento loro, persuadendosi Cesare e il re cristianissimo che avessino a consentire, parte per l'utilità propria parte perché, per la condizione delle cose presenti, né l'uno né l'altro di essi alla loro autorità ardirebbe repugnare: e massimamente il re d'Aragona, al quale benché fusse molesta questa capitolazione (perché temendo che non si augumentasse troppo la grandezza del re di Francia anteponeva la sicurtà di tutto il reame di Napoli alla recuperazione della parte posseduta da' viniziani), nondimeno, ingegnandosi di dimostrare con la prontezza il contrario di quello che sentiva nello animo, ratificò con le solennità medesime subitamente.

                                                 Maggiore dubitazione era nel pontefice, combattendo in lui, secondo la sua consuetudine, da una parte il desiderio di ricuperare le terre di Romagna e lo sdegno contro a' viniziani e dall'altra il timore del re di Francia; oltre che, essere pericoloso per sé e per la sedia apostolica giudicava che la potenza di Cesare cominciasse in Italia a distendersi. E però, parendogli piú utile l'ottenere con la concordia una parte di quello desiderava che il tutto con la guerra, tentò di indurre il senato viniziano a restituirgli Rimini e Faenza; dimostrando che i pericoli che soprastavano per l'unione di tanti príncipi sarebbono molto maggiori concorrendo nella confederazione il pontefice, perché non potrebbe recusare di perseguitargli con le armi spirituali e temporali, ma che, restituendo le terre occupate alla Chiesa nel suo pontificato, e cosí riavendo insieme con le terre l'onore, arebbe giusta cagione di non ratificare quel che era stato fatto in nome suo ma senza suo consentimento; e che rimovendosene l'autorità pontificale diventerebbe facilmente vana questa confederazione, che per se stessa aveva avute molte difficoltà: il che potevano essere certi che egli, quanto potesse, procurerebbe con l'autorità e con la industria, se non per altro perché in Italia non si augumentasse piú la potenza de' barbari, pericolosissima non meno alla sedia apostolica che agli altri. Sopra la quale dimanda facendosi nel senato viniziano varie consulte, e inclinando molti a consentire alle sue domande per l'utilità che risulterebbe dal separarsi l'autorità del pontefice dagli altri, molti per contrario affermando non si dovere comperare con tanta indegnità quel che non basterebbe a liberargli dalla guerra, sarebbe finalmente prevaluta l'opinione di quegli che confortavano la piú sana e migliore sentenza, se Domenico Trivisano senatore di grande autorità, e uno de' procuratori del tempio ricchissimo di San Marco, onore nella republica veneta di maggiore stima che alcun altro dopo il doge, levatosi in piedi, non avesse consigliato il contrario: il quale, con molte ragioni e con efficacia grande di parlare, si ingegnò di persuadere essere cosa molto aliena dalla degnità e dalla utilità di quella chiarissima e amplissima republica restituire le terre dimandate dal pontefice, dalla cui congiunzione o alienazione cogli altri confederati poco si accrescerebbono o alleggierirebbeno i loro pericoli. Perché se bene, acciò che apparisse meno disonesta la causa loro, avessino nel convenire usato il nome del pontefice, si erano effettualmente convenuti senza lui, in modo che per questo non diventerebbono né piú lenti né piú freddi alle esecuzioni deliberate; e per contrario, non essere l'armi del pontefice di tale valore che e' dovessino comprare con tanto prezzo il fermarle. Conciossiaché, se nel tempo medesimo fussino assaltati dagli altri, potersi con mediocre guardia difendere quelle città, le quali le genti della Chiesa (infamia della milizia, secondo il vulgatissimo proverbio) non erano per se medesime bastanti né a espugnare, né a fare inclinazione alcuna alla somma della guerra; e ne' movimenti e nel fervore delle armi temporali non sentirsi la riverenza né i minacci delle armi spirituali, le quali non essere da temere che nocessino piú loro in questa guerra che fussino nociute in molte altre e specialmente nella guerra fatta contro a Ferrara, nella quale non erano state potenti a impedire che non conseguissino la pace onorevole per sé e vituperosa per il resto d'Italia, che con consentimento tanto grande, e nel tempo che fioriva di ricchezze d'armi e di virtú, si era unita tutta contro a loro: e ragionevolmente, perché non era verisimile che il sommo Dio volesse che gli effetti della sua severità e della sua misericordia, della sua ira e della sua pace, fussino in potestà d'uno uomo ambiziosissimo e superbissimo, sottoposto al vino e a molte altre inoneste voluttà: che la esercitasse ad arbitrio delle sue cupidità, non secondo la considerazione della giustizia o del bene publico della cristianità. Già, se in questo pontificato non era piú costante la fede sacerdotale che fusse stata negli altri, non vedere che certezza potesse aversi che, conseguita da loro Faenza e Rimini, non si unisse con gli altri per recuperare Ravenna e Cervia, non avendo maggiore rispetto alla fede data che sia stato proprio de' pontefici; i quali, per giustificare le fraudi loro, hanno statuito, tra l'altre leggi, che la Chiesa, non ostante ogni contratto ogni promessa ogni beneficio conseguitone, possa ritrattare e direttamente contravenire alle obligazioni che i suoi medesimi prelati hanno solennemente fatte. La confederazione essere stata fatta tra Massimiliano e il re di Francia con grande ardore, ma non essere simili gli animi degli altri collegati, perché il re cattolico vi aderiva malvolentieri e nel pontefice apparivano segni delle sue consuete vacillazioni e sospizioni; però non essere da temere piú della lega fatta a Cambrai che di quello che altra volta a Trento e dipoi a Bles avevano convenuto, col medesimo ardore, i medesimi Massimiliano e Luigi, perché alla esecuzione delle cose determinate repugnavano molte difficoltà, le quali per sua natura erano quasi impossibili a svilupparsi. E perciò, il principale studio e diligenza di quel senato doversi voltare a cercare di alienare Cesare da quella congiunzione, il che per la natura e per le necessità sue, e per l'odio antico fisso contro a' franzesi, si poteva facilmente sperare; e alienatolo, non essere pericolo alcuno che fusse mossa la guerra, perché il re di Francia abbandonato da lui non ardirebbe d'assaltargli piú di quello che avesse ardito per il passato. Doversi in tutte le cose publiche considerare diligentemente i princípi, perché non era poi in potestà degli uomini partirsi, senza sommo disonore e pericolo, dalle deliberazioni già fatte e nelle quali si era perseverato lungo tempo. Avere i padri loro ed essi successivamente atteso in tutte l'occasioni ad ampliare l'imperio, con scoperta professione di aspirare sempre a cose maggiori: di qui essere divenuti odiosi a tutti, parte per timore parte per dolore delle cose tolte loro. Il quale odio benché si fusse conosciuto molto innanzi potere partorire qualche grande alterazione, nondimanco non si erano però né allora astenuti da abbracciare l'occasioni che se gli offerivano, né ora essere rimedio a' presenti pericoli cominciare a cedere parte di quello possedevano; conciossiaché non per questo si quieterebbono, anzi si accenderebbeno, gli animi di chi gli odiava, pigliando ardire dalla loro timidità: perché essendo titolo inveterato, già molti anni, in tutta Italia che il senato viniziano non lasciava giammai quel che una volta gli era pervenuto nelle mani, chi non conoscerebbe che il fare ora cosí vilmente il contrario procederebbe da ultima disperazione di potersi difendere dai pericoli imminenti? Cominciando a cedere qualunque cosa benché piccola, declinarsi dalla riputazione e dallo splendore antico della loro republica; onde augumentarsi grandemente i pericoli. Ed essere piú difficile, senza comparazione, conservare, eziandio da' minori pericoli, quel che rimane, a chi ha cominciato a declinare che non è a chi, sforzandosi di conservare la degnità e il grado suo, si volge prontamente, senza fare segno alcuno di volere cedere, contra chi cerca di opprimerlo. Ed essere necessario o disprezzare animosamente le prime dimande o, consentendole, pensare d'averne a consentire molte altre: dalle quali, in brevissimo spazio di tempo, risulterebbe la totale annullazione di quello imperio, e seguentemente la perdita della propria libertà. Avere la republica veneta, e ne' tempi de' padri e ne' tempi di loro medesimi, sostenuto gravissime guerre co' príncipi cristiani, e per avere sempre ritenuta la costanza e generosità dell'animo riportatone gloriosissimo fine. Doversi nelle difficoltà presenti, ancorché forse paressino maggiori, sperarne il medesimo successo; perché e la potenza e l'autorità loro era maggiore, e nelle guerre fatte comunemente da molti príncipi contro a uno solere essere maggiore lo spavento che gli effetti, perché prestamente si raffreddavano gli impeti primi, prestamente cominciando a nascere varietà di pareri indeboliva tra loro la fede; e dovere quel senato confidarsi che, oltre alle provisioni e rimedi che essi farebbono da se medesimi, Dio, giudice giustissimo, non abbandonerebbe una republica nata e nutrita in perpetua libertà, ornamento e splendore di tutta la Europa, né lascerebbe conculcare alla ambizione de' príncipi, sotto falso colore di preparare la guerra contro agli infedeli, quella città la quale, con tanta pietà e con tanta religione, era stata tanti anni la difesa e il propugnacolo di tutta la republica cristiana. Commossono in modo gli animi della maggiore parte le parole di Domenico Trivisano che, come già qualche anno era stato spesse volte quasi fatale in quello senato, fu, contro al parere di molti senatori grandi di prudenza e di autorità, seguitato il consiglio peggiore. Però il pontefice, il quale aveva differito insino all'ultimo dí assegnato alla ratificazione il ratificare, ratificò; ma con espressa dichiarazione di non volere fare atto alcuno di inimicizia contro a' viniziani se non dappoi che il re di Francia avesse dato alla guerra cominciamento.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.2

                                                  

                                                 Difficili condizioni de' pisani; fallito tentativo de' genovesi e de' lucchesi di introdurre grano in Pisa; accordi fra fiorentini e lucchesi. Convenzione fra i fiorentini e i re di Francia e d'Aragona.

                                                  

                                                 Erano, in questo tempo medesimo, ridotte e ogni dí piú si riduceano in grandissima strettezza le cose de' pisani: perché i fiorentini, oltre all'avere la state precedente tagliate tutte le loro ricolte, e oltre al correre continuamente le genti loro dalle terre circostanti insino in sulle porte di Pisa, aveano, per impedire che per mare non vi entrassino vettovaglie, soldato con alcuni legni il figliuolo del Bardella da Portoveneri; onde i pisani, assediati quasi per terra e per mare, né avendo per la povertà loro facoltà di condurre o legni o soldati forestieri, ed essendo da' vicini aiutati lentamente, non avevano piú quasi speranza alcuna di sostentarsi. Dalle quali cose mossi i genovesi e lucchesi deliberorono di fare esperienza che in Pisa entrasse quantità grande di grani; i quali, caricati sopra grande numero di barche e accompagnati da due navi genovesi e due galeoni, erano stati condotti alla Spezie e dipoi a Vioreggio, acciò che di quivi per ordine de' pisani, con quattordici brigantini e molte barche, si conducessino in Pisa. Ma volendo opporsi i fiorentini, perché nella condotta o esclusione di questi grani consisteva totalmente la speranza o la disperazione di conseguire quello anno Pisa, aggiunsono a' legni che aveano prima una nave inghilese, che per ventura si trovava nel porto di Livorno, e alcune fuste e brigantini; e aiutando quanto potevano, con le preparazioni terrestri, l'armata marittima, mandorno tutta la cavalleria e grande numero di fanti, raccolti subitamente del loro dominio, a tutte quelle parti donde i legni degli inimici potessino, o per la foce d'Arno o per la foce di Fiumemorto entrando in Arno, condursi in Pisa. Condussonsi gli inimici tralla foce d'Arno e...; [e] essendo i legni de' fiorentini tra la foce e Fiumemorto, e la gente di terra occupati tutti i luoghi opportuni e distese l'artiglierie in sulle ripe da ogni parte del fiume donde aveano a passare, giudicando non potere procedere piú innanzi, si ritornorno nella riviera di Genova, perduti tre brigantini carichi di frumento. Dal quale successo apparendo quasi certa per mancamento di vettovaglie la vittoria i fiorentini, per impedire piú agevolmente che per il fiume non ne potessino essere condotte, gittorono in su Arno uno ponte di legname, fortificandolo con bastioni dall'una e l'altra ripa; e nel tempo medesimo, per rimuovere gli aiuti de' vicini, convennono co' lucchesi, avendo prima, per reprimere l'audacia loro, mandato a saccheggiare, con una parte delle genti mossa da Cascina, il porto di Vioreggio e i magazzini dove erano molti drappi di mercatanti di Lucca. E per questo avendo i lucchesi impauriti mandato a Firenze imbasciadori, rimasono finalmente concordi che tra l'una e l'altra republica fusse confederazione difensiva per anni tre, escludendo nominatamente i lucchesi dalla facoltà di aiutare in qualunque modo i pisani; la quale confederazione, recuperandosi per i fiorentini Pisa infra uno anno, si intendesse prorogata per altri dodici anni, e durante questa confederazione non dovessino i fiorentini, senza pregiudicio per ciò delle loro ragioni, molestare i lucchesi nella possessione di Pietrasanta e di Mutrone.

                                                 Ma fu di momento molto maggiore a facilitare lo acquisto di Pisa la capitolazione fatta da loro coi re cristianissimo e cattolico. La quale, trattata molti mesi, aveva avuto varie difficoltà: temendo i fiorentini, per l'esperienza del passato, che questo non fusse mezzo a trarre da loro quantità grande di danari e nondimeno che le cose di Pisa rimanessino nel medesimo grado; e da altra parte interpretando il re di Francia procurarsi la dilazione artificiosamente, per la speranza che i pisani, l'estremità de' quali erano notissime, da loro medesimi cedessino, né volendo che in modo alcuno la ricuperassino senza pagargliene la mercede, comandò al Bardella suo suddito che si partisse da' soldi loro, e a Ciamonte che da Milano mandasse in aiuto de' pisani secento lancie: per la quale cosa, rimosse tutte le dubitazioni e difficoltà, convenneno in questa forma: non dessino né il re di Francia né il re d'Aragona favore o aiuto a' pisani, e operassino con effetto che da' luoghi sudditi a loro, o confederati o raccomandati, non andassino a Pisa vettovaglie né soccorso di danari né di genti né di alcun'altra cosa; pagassino i fiorentini in certi termini a ciascuno di essi, se infra un anno prossimo ricuperassino Pisa, cinquantamila ducati; e nel caso predetto si intendesse fatta tra loro lega per tre anni dal dí della recuperazione, per la quale i fiorentini fussino obligati difendere con trecento uomini d'arme gli stati che aveano in Italia, ricevendo per la difesa propria da qualunque di loro almeno trecento uomini d'arme. Alla capitolazione fatta in comune fu necessario aggiugnere, senza saputa del re, cattolico, nuove obligazioni di pagare al re di Francia, ne' tempi e sotto le condizioni medesime, cinquantamila altri ducati. Oltre che fu di bisogno promettessino di donare a' ministri de' due re venticinquemila ducati, de' quali la maggiore parte s'aveva a distribuire secondo la volontà del cardinale di Roano. Le quali convenzioni, benché fussino con gravissima spesa de' fiorentini, dettono nondimeno appresso a tutti gli uomini infamia piú grave a quei re: de' quali l'uno si dispose per danari ad abbandonare quella [città], che molte volte aveva affermato avere ricevuta nella sua protezione, e della quale, come si manifestò poi, essendosegli spontaneamente data, il gran capitano avea accettato in suo nome il dominio; l'altro, non si ricordando delle promesse fatte molte volte a' fiorentini, o vendé per brutto prezzo la libertà giusta de' pisani o costrinse i fiorentini a comperare da lui la facoltà di ricuperare giustamente le cose proprie. Tanto può oggi comunemente piú la forza della pecunia che il rispetto dell'onestà.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.3

                                                  

                                                 Preparativi del re di Francia per la guerra. Sollecite misure di difesa de' veneziani; casi sfortunati per loro. Piano di guerra de' veneziani. Inizi della spedizione del re di Francia contro i veneziani.

                                                  

                                                 Ma le cose de' pisani, che già solevano essere negli occhi di tutta Italia, erano in questo tempo di piccola considerazione, dependendo gli animi degli uomini da espettazione di cose maggiori. Perché, ratificata che fu la lega di Cambrai da tutti i confederati, cominciò il re di Francia a fare grandissime preparazioni; e con tutto che per ancora a protesti o minaccie di guerra non si procedesse, nondimeno, non si potendo piú la cosa dissimulare, il cardinale di Roano, presente tutto il consiglio, si lamentò con ardentissime parole con l'oratore de' viniziani che quel senato, disprezzando la lega e l'amicizia del re, faceva fortificare la badia di Cerreto nel territorio di Crema: nella quale essendo stata anticamente una fortezza, fu distrutta per i capitoli della pace fatta l'anno mille quattrocento cinquantaquattro tra, viniziani e Francesco Sforza nuovo duca di Milano, con patto che i viniziani non potessino in tempo alcuno fortificarvi; a' capitoli della quale pace si riferiva, in questo e in molte altre cose, la pace fatta tra loro e il re. E già, essendo venuto il re pochi dí poi a Lione, camminavano le genti sue per passare i monti, e si apparecchiavano per scendere nel tempo medesimo in Italia seimila svizzeri soldati da lui. E aiutandosi, oltre alle forze proprie, di quelle degli altri, avea ottenute da' genovesi quattro caracche, da' fiorentini cinquantamila ducati per parte di quegli che se gli dovevano dopo l'acquisto di Pisa; e dal ducato di Milano, desiderosissimo d'essere reintegrato nelle terre occupate da' viniziani, gli erano stati donati centomila ducati, e molti gentiluomini e feudatari di quello stato si provedevano di cavalli e d'armi per seguitare alla guerra con ornatissime compagnie la persona del re.

                                                 Da altra parte si preparavano i viniziani a ricevere con animo grandissimo tanta guerra, sforzandosi, co' danari con l'autorità e con tutto il nervo del loro imperio, di fare provisioni degne di tanta republica; e con tanto maggiore prontezza quanto pareva molto verisimile che, se sostenessino il primo impeto, s'avesse facilmente l'unione di questi príncipi, male conglutinata, ad allentarsi o risolversi: nelle quali cose, con somma gloria del senato, il medesimo ardore si dimostrava in coloro che prima aveano consigliato invano che la fortuna prospera modestamente si usasse che in quegli che erano stati autori del contrario; perché, preponendo la salute publica alla ambizione privata, non cercavano che crescesse la loro autorità col rimproverare agli altri i consigli perniciosi né con l'opporsi a' rimedi che si facevano a' pericoli nati per la loro imprudenza. E nondimeno, considerando che contro a loro si armava quasi tutta la cristianità, si ingegnorono quanto potettono di interrompere tanta unione, pentitisi già d'avere dispregiata l'occasione di separare dagli altri il pontefice, avendo massimamente avuta speranza che egli sarebbe stato paziente se gli restituivano Faenza sola. Però con lui rinnovorno i primi ragionamenti, e ne introdusseno de' nuovi con Cesare e col re cattolico; perché col re di Francia, o per l'odio o per la disperazione d'averlo a muovere, non tentorno cosa alcuna. Ma né il pontefice poteva accettare piú quel che prima avea desiderato, e al re cattolico con tutto che forse non mancasse la volontà mancava la facoltà di rimuovere gli altri; e Cesare, pieno d'odio smisurato contro al nome viniziano, non solamente non gli esaudí ma né udí l'offerte loro, perché recusò di ammettere al cospetto suo Giampiero Stella loro secretario mandatogli con amplissime commissioni. Però, voltati tutti i pensieri a difendersi coll'armi, soldavano da ogni parte quantità grandissima di cavalli e di fanti, e armavano molti legni per la custodia de' liti di Romagna, e per metterne nel lago di Garda e nel Po e negli altri fiumi vicini, per i quali fiumi temevano essere molestati dal duca di Ferrara e dal marchese di Mantova. Ma gli turbavano, oltre a' minacci degli uomini, molti casi o fatali o fortuiti. Percosse una saetta la fortezza di Brescia, una barca mandata dal senato a portare danari a Ravenna si sommerse con diecimila ducati nel mare, l'archivio pieno di scritture attenenti alla republica andò totalmente in terra con subita rovina; ma gli empié di grandissimo terrore che in quegli dí, e nell'ora medesima che era congregato il consiglio maggiore, appiccatosi, o per caso o per fraude occulta di qualcuno, il fuoco nel loro arzanale, nella stanza dove si teneva il salnitro, con tutto vi concorresse numero infinito d'uomini a estinguerlo, aiutato dalla forza del vento e dalla materia atta a pascerlo e ampliarlo, abbruciò dodici corpi di galee sottili e quantità grandissima di munizioni. Alle difficoltà loro si aggiunse che avendo soldato Giulio e Renzo Orsini e Troilo Savello, con cinquecento uomini d'arme e tremila fanti, il pontefice con asprissimi comandamenti, fatti come a feudatari e sudditi della Chiesa, gli costrinse a non si partire di terra di Roma, invitandogli a ritenersi quindicimila ducati ricevuti per lo stipendio, con promettere di compensargli in quello che i viniziani, per i frutti avuti delle terre di Romagna, alla sedia apostolica doveano. Volgevansi le preparazioni del senato principalmente verso i confini del re di Francia, dall'armi del quale aspettavano l'assalto piú presto e piú potente: perché dal re d'Aragona, con tutto che avesse agli altri confederati promesso molto, si spargevano dimostrazioni e romori, secondo la sua consuetudine, ma non si facevano apparati di molto momento; e Cesare, occupato in Fiandra perché i popoli sottoposti al nipote lo sovvenissino volontariamente di danari, non si credeva dovesse cominciare la guerra al tempo promesso; e il pontefice pensavano che, sperando piú nella vittoria degli altri che nell'armi proprie, avesse a regolarsi secondo i progressi de' collegati.

                                                 Non si dubitava che 'l primo assalto del re di Francia avesse a essere nella Ghiaradadda, passando il fiume dell'Adda appresso a Casciano però si raccoglieva a Pontevico, in sul fiume dell'Oglio, l'esercito veneto, del quale era capitano generale il conte di Pitigliano e governatore Bartolomeo d'Alviano, e vi erano proveditori in nome del senato Giorgio Cornaro e Andrea Gritti, gentiluomini chiari e molto onorati per l'ordinarie loro qualità, e per la gloria acquistata l'anno passato, l'uno per le vittorie del Friuli l'altro per l'opposizione fatta a Roveré contro a' tedeschi. Tra' quali consultandosi in che maniera fusse da procedere nella guerra erano varie le sentenze, non solo tra gli altri ma tra 'l capitano e il governatore. Perché l'Alviano, feroce di ingegno e insuperbito per i successi prosperi dell'anno precedente, e pronto a seguitare le occasioni sperate e di incredibile celerità cosí nel deliberare come nell'eseguire, consigliava che, per fare piú tosto la sedia della guerra nel paese degli inimici che aspettare fusse trasferita nello stato proprio, si assaltasse, innanzi che 'l re di Francia passasse in Italia, il ducato di Milano. Ma il conte di Pitigliano, o raffreddato il vigore dell'animo (come diceva l'Alviano) per la vecchiezza o considerando per la lunga esperienza con maggiore prudenza i pericoli, e alieno dal tentare senza grandissima speranza la fortuna, consigliava che disprezzata la perdita delle terre della Ghiaradadda, che non rilevavano alla somma della guerra, l'esercito si fermasse appresso alla terra degli Orci, come già nelle guerre tra' viniziani e il ducato di Milano aveano fatto Francesco Carmignuola e poi Iacopo Piccinino, famosi capitani de' tempi loro; alloggiamento molto forte per essere in mezzo tra' fiumi dell'Oglio e del Serio, e comodissimo a soccorrere tutte le terre del dominio viniziano: perché se i franzesi andassino ad assaltargli in quello alloggiamento potevano, per la fortezza del sito, sperarne quasi certa la vittoria; ma se andassino a campo [a] Cremona o Crema o Bergamo o Brescia, potrebbono per difesa di quelle accostarsi coll'esercito in luogo sicuro, e infestandogli, con tanto numero di cavalli leggieri e stradiotti che avevano, le vettovaglie e l'altre comodità, impedirebbeno loro il prendere qualunque terra importante. E cosí, senza rimettersi in potestà della fortuna, potersi facilmente difendere lo imperio viniziano da cosí potente e impetuoso assalto del re di Francia. De' quali consigli l'uno e l'altro era stato rifiutato dal senato; quello dell'Alviano come troppo audace, questo del capitano generale come troppo timido e non consideratore della natura de' pericoli presenti: perché al senato sarebbe piú piaciuto, secondo la inveterata consuetudine di quella republica, il procedere sicuramente e l'uscire il meno potessino della potestà di loro medesimi; ma da altra parte si considerava, se nel tempo che tutte quasi le loro forze fussino impegnate a resistere al re di Francia assaltasse il loro stato potentemente il re de' romani, con quali armi con quali capitani con quali forze potersi opporsegli; per il quale rispetto, quella via che per se stessa pareva piú certa e piú sicura rimanere piú incerta e piú pericolosa. Però, seguitando come spesso si fa nelle opinioni contrarie, quella che è in mezzo, fu deliberato che l'esercito s'accostasse al fiume dell'Adda, per non lasciare in preda degli inimici la Ghiaradadda; ma con espressi ricordi e precetti del senato viniziano che, senza grande speranza o urgente necessità, non si venisse alle mani con gli inimici.

                                                 Diversa era molto la deliberazione del re di Francia, ardente di desiderio che gli eserciti combattessino. Il quale, accompagnato dal duca dell'Oreno e da tutta la nobiltà del reame di Francia, come ebbe passati i monti, mandò Mongioia suo araldo a intimare la guerra al senato viniziano; commettendogli che, acciocché tanto piú presto si potesse dire intimata, facesse nel passare da Cremona il medesimo co' magistrati viniziani. E se bene, non essendo ancora unito tutto l'esercito suo, avesse deliberato che non si movesse cosa alcuna insino a tanto che egli non fusse personalmente a Casciano, nondimeno, o per gli stimoli del pontefice, che si lamentava essere passato il tempo determinato nella capitolazione, o acciocché cominciasse a correre il tempo a Cesare obligato a muovere la guerra quaranta dí poi che il re l'avesse mossa, mutata la prima deliberazione, comandò a Ciamonte desse principio, non essendo ancora le genti viniziane, perché non erano raccolte tutte, partite da Pontevico.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.8, cap.4

                                                  

                                                 Primi fatti di guerra. La bolla del pontefice contro i veneziani; l'intimazione di guerra del re di Francia e la risposta del doge. I francesi passano l'Adda a Cassano. I francesi a Rivolta. La battaglia di Ghiaradadda. Resa di Bergamo e di Brescia al re di Francia.

                                                  

                                                 Fu il primo movimento di tanto incendio il quintodecimo dí d'aprile. Nel quale dí Ciamonte, passato a guazzo con tremila cavalli il fiume dell'Adda appresso a Casciano, e fatto passare in su battelli seimila fanti e dietro a loro l'artiglierie, si dirizzò alla terra di Trevi, lontana tre miglia da Casciano, nella quale era Giustiniano Morosino proveditore degli stradiotti de' viniziani, e con lui Vitello da Città di Castello e Vincenzio di Naldo, che rassegnavano i fanti che si doveano distribuire nelle terre vicine: i quali, credendo che i franzesi, che in piú parti si erano sparsi per la campagna, non fussino gente ordinata per assaltare la terra ma per correre il paese, mandorno fuora dugento fanti e alcuni stradiotti, co' quali appiccatasi una parte delle genti franzesi, gli seguitò scaramucciando insino al rivellino della porta; e poco dipoi sopragiugnendo gli altri, e appresentate l'artiglierie e cominciato già a battere co' falconetti le difese, o la viltà de' capi spaventati di questo impeto sí improviso o la sollevazione degli uomini della terra gli costrinse ad arrendersi allo arbitrio libero di Ciamonte. Cosí rimasono prigioni Giustiniano proveditore, Vitello e Vincenzio e il conte Braccio, e con loro cento cavalli leggieri e circa mille fanti quasi tutti di Valdilamone; essendosi solamente salvati col fuggire dugento stradiotti: e dipoi Ciamonte, a cui si erano arrendute alcune terre vicine, ritornò con le genti tutte di là da Adda. E il medesimo dí il marchese di Mantova, come soldato del re da cui avea la condotta di cento lancie, corse a Casalmaggiore; il quale castello senza fare resistenza gli fu dato dagli uomini della terra, insieme con Luigi Bono officiale viniziano. Corse eziandio il medesimo dí da Piacenza Roccalbertino, con cento cinquanta lancie e tremila fanti passati in su uno ponte di barche, fatto dove l'Adda entra nel Po nel contado di Cremona; in altra parte del quale corsono similmente le genti che erano alla guardia di Lodi, gittato uno ponte in su Adda, e tutti i paesani della montagna di Brianza insino a Bergamo. Il quale assalto fatto in uno giorno medesimo da cinque parti, senza dimostrarsi gli inimici in luogo alcuno, ebbe maggiore strepito che effetto; perché Ciamonte si ritornò subito a Milano per aspettare la venuta del re che già era vicino, e il marchese di Mantova, che preso Casalmaggiore aveva tentato Asola invano, inteso che l'Alviano con molta gente aveva passato il fiume dell'Oglio a Pontemolaro, abbandonò Casalmaggiore.

                                                 Fatto questo principio alla guerra, il pontefice incontinente publicò, sotto nome di monitorio, una bolla orribile; nella quale furno narrate tutte le usurpazioni che avevano fatte i viniziani delle terre pertinenti alla sedia apostolica, e l'autorità arrogatesi, in pregiudicio della libertà ecclesiastica e della giurisdizione de' pontefici, di conferire i vescovadi e molti altri benefici vacanti, di trattare ne' fori secolari le cause spirituali e l'altre attenenti al giudicio della Chiesa, e di molte altre cose, e tutte le inobbedienze passate. Oltre alle quali fu narrato che pochi dí innanzi, per turbare in pregiudicio della medesima sedia le cose di Bologna, avevano chiamati a Faenza i Bentivogli rebelli della Chiesa; e sottoposti, loro e chi gli ricettasse, a gravissime censure; ammonendogli a restituire, infra ventiquattro dí prossimi, le terre che occupavano della Chiesa insieme con tutti i frutti ricevuti nel tempo l'aveano tenute, sotto pena, in caso non ubbidissino, di incorrere nelle censure e interdetti, non solo la città di Vinegia ma tutte le terre che gli ubbidissino, e quelle ancora che non suddite allo imperio loro ricettassino alcuno viniziano; dichiarandogli incorsi in crimine di maestà lesa e diffidati come inimici, in perpetuo, da tutti i cristiani: a' quali concedeva facoltà di occupare per tutto le robe loro e fare schiave le persone. Contro alla quale bolla fu da uomini incogniti presentata, pochi dí poi, nella città di Roma, una scrittura in nome del principe e de' magistrati viniziani; nella quale, dopo lunga e acerbissima narrazione contro al pontefice e il re di Francia, si interponeva l'appellazione dal monitorio al futuro concilio e, in difetto della giustizia umana, a' piedi di Cristo giustissimo giudice e principe supremo di tutti. Nel quale tempo, aggiugnendosi al monitorio spirituale le denunzie temporali, l'araldo Mongioia, arrivato in Vinegia e introdotto innanzi al doge e al collegio, protestò in nome del re di Francia la guerra già cominciata, aggravandola con cagioni piú efficaci che vere o giuste: alla proposta del quale, avendo alquanto consultato, fu risposto dal doge con brevissime parole che, poi che il re di Francia aveva deliberato di muovere loro la guerra nel tempo che piú speravano di lui, per la confederazione la quale non aveano mai violata, e per aversi, per non si separare da lui, provocato inimico il re de' romani, che attenderebbeno a difendersi, sperando poterlo fare con le forze loro accompagnate dalla giustizia della causa. Questa risposta parve piú secondo la degnità della republica che distendersi in giustificazioni e querele vane contro a chi già gli avea assaltati con l'armi.

                                                 Ma unito che fu a Pontevico l'esercito viniziano, nel quale erano dumila uomini d'arme tremila tra cavalli leggieri e stradiotti, quindicimila fanti eletti di tutta Italia, e veramente il fiore della milizia italiana non meno per la virtú de' fanti che per la perizia e valore de' capitani, e quindicimila altri fanti scelti dell'ordinanza de' loro contadi, e accompagnati da copia grandissima di artiglierie, venne a Fontanella, terra vicina a Lodi a sei miglia e sedia opportuna a soccorrere Cremona, Crema, Caravaggio e Bergamo: ove giudicando avere occasione, per la ritirata di Ciamonte di là da Adda né essendo ancora unito tutto l'esercito del re, di ricuperare Trevi, si mossono per deliberazione del senato ma contro al consiglio, secondo che esso affermava poi, dell'Alviano; il quale allegava essere deliberazioni quasi repugnanti vietare che si combattesse coll'esercito degli inimici e da altra parte accostarsegli tanto, perché non sarebbe forse in potestà loro il ritirarsi, e quando pure potessino farlo, sarebbe con tanta diminuzione della reputazione di quello esercito che nocerebbe troppo alla somma di tutta la guerra; e che egli, per questo rispetto e per l'onore proprio e per l'onore comune della milizia italiana, eleggerebbe piú tosto di morire che di consentire a tanta ignominia. Occupò prima l'esercito Rivolta dove i franzesi non avevano lasciata guardia alcuna, ove messi cinquanta cavalli e trecento fanti, si accostò a Trevi, terra poco distante da Adda e situata in luogo alquanto eminente, e nella quale Ciamonte aveva lasciate cinquanta lancie e mille fanti sotto il capitano Imbalt, Frontaglia guascone e il cavaliere Bianco, e piantate l'artiglierie dalla parte di verso Casciano ove il muro era piú debole, e facendo processo grande, quegli che erano dentro il dí seguente si arrenderono, salvi i soldati ma senza armi, e rimanendo prigioni i capitani, e la terra a discrezione libera del vincitore: la quale subito andò a sacco, con danno maggiore de' vincitori che de' vinti. Perché il re di Francia, come intese il campo inimico essere intorno a Trevi, parendogli che la perdita di quel luogo quasi in su gli occhi suoi gli togliesse molto della reputazione, si mosse subitamente da Milano per soccorrerlo, e condotto, il dí poi che era stato preso Trevi che fu il nono di maggio, in sul fiume presso a Casciano, ove prima per l'opportunità di Casciano erano stati senza difficoltà gittati tre ponti in sulle barche, passò con tutto l'esercito, senza farsi dagli inimici dimostrazione alcuna di resistergli; maravigliandosi ciascuno che oziosamente perdessino tanta occasione di assaltare la prima parte delle genti che fusse passata, ed esclamando il Triulzio, quando vedde passarsi senza impedimento: - Oggi, o re cristianissimo, abbiamo guadagnato la vittoria. - La quale occasione è manifesto che medesimamente fu conosciuta e voluta usare dai capitani, ma non fu mai in potestà loro, né con autorità né con prieghi né con minaccie, fare uscire di Trevi i soldati, occupati nel sacco e nella preda: al quale disordine non bastando alcuno altro rimedio a provedere, l'Alviano per necessitargli a uscire fece mettere fuoco nella terra; ma fu fatto questo rimedio tanto tardi che già i franzesi con grandissima letizia erano interamente passati, beffandosi della viltà e del poco consiglio degli inimici.

                                                 Alloggiò il re con l'esercito poco piú di uno miglio vicino allo alloggiamento de' viniziani, posto in luogo alquanto rilevato e, per il sito e per i ripari fatti, forte in modo che non si poteva senza manifesto pericolo andare ad assaltargli; ove consultandosi in quale modo si dovesse procedere, molti di quegli che intervenivano ne' consigli del re, persuadendosi che l'armi di Cesare avessino presto a sentirsi, confortavano che si procedesse lentamente, perché essendo ne' fatti d'arme migliori le condizioni di colui che aspetta di essere assaltato che di chi cerca di assaltare altri, la necessità costrignerebbe i capitani viniziani, vedendosi impotenti a difendere quello imperio da tante parti, a cercare di fare la giornata. Ma il re sentiva diversamente, purché s'avesse occasione di combattere in luogo dove il sito non potesse prevalere alla virtú de' combattitori; mosso o perché temesse non fussino tardi i movimenti del re de' romani, o perché, trovandosi in persona con tutte le forze del suo reame, non solo avesse speranza grande della vittoria ma giudicasse disonorarsi molto il nome suo se da per sé senza aiuto d'altri non terminasse la guerra, e pel contrario essergli sommamente glorioso che per la potenza e virtú sua ottenessino non meno di lui gli altri confederati i premi della vittoria. Da altra parte il senato e i capitani de' viniziani, non accelerando per timore di Cesare i consigli loro, aveano deliberato, non si mettendo in luoghi eguali a loro e agli inimici ma fermandosi sempre in alloggiamenti forti, fuggire in un tempo medesimo la necessità del combattere e impedire a' franzesi il fare processo alcuno importante. Con queste deliberazioni stette fermo l'uno e l'altro esercito; nel quale luogo, benché tra i cavalli leggieri si facessino spessi assalti, e che i franzesi facendo piú innanzi l'artiglierie cercassino avere occasione di combattere, non si fece maggiore movimento. Mossesi il dí seguente il re verso Rivolta, per tentare se il desiderio di conservarsi quella terra facesse muovere gli italiani; i quali non si movendo, per ottenere almeno la confessione tacita che e' non ardissino di venire alla battaglia, stette fermo per quattro ore innanzi allo alloggiamento loro con tutto l'esercito ordinato alla battaglia, non facendo essi altro moto che di volgersi, senza abbandonare il sito forte, alla fronte de' franzesi in ordinanza: nel qual tempo condotta da una parte de' soldati del re l'artiglieria alle mura di Rivolta, fu in poche ore presa per forza; ove alloggiò la sera medesima il re con tutto l'esercito, angustiato nell'animo, e non poco, del modo col quale procedevano gli inimici, il consiglio de' quali tanto piú laudava quanto piú gli dispiaceva. Ma per tentare di condurgli per necessità a quel che non gli induceva la volontà, dimorato che fu un giorno a Rivolta, abbruciatala nel partirsi, mosse l'esercito per andare ad alloggiare a Vaila o a Pandino la notte prossima, sperando da qualunque di questi due luoghi potere comodamente impedire le vettovaglie che da Cremona e da Crema venivano agli inimici, e cosí mettergli in necessità di abbandonare l'alloggiamento nel quale insino ad allora erano stati. Conoscevano i capitani viniziani quali fussino i pensieri del re, né dubitavano essere necessario di mettersi in uno alloggiamento forte propinquo agli inimici, per continuare di tenergli nelle medesime difficoltà e impedimenti; ma il conte di Pitigliano consigliava che si differisse il muoversi al dí seguente; nondimeno fece instanza tanto ardente del contrario l'Alviano, allegando essere necessario il prevenire, che finalmente fu deliberato di muoversi subitamente.

                                                 Due erano i cammini, l'uno piú basso vicino al fiume dell'Adda ma piú lungo a condursi a' luoghi sopradetti andandosi per linea obliqua, l'altro piú discosto dal fiume ma piú breve perché si andava per linea diritta, e (come si dice) questo per la corda dell'arco quello per l'arco. Per il cammino di sotto procedeva l'esercito del re, nel quale si dicevano essere piú di dumila lancie seimila fanti svizzeri e dodicimila tra guasconi e italiani, munitissimo di artiglierie e che aveva copia grande di guastatori; per il cammino di sopra, e a mano destra inverso lo inimico, procedeva l'esercito viniziano, nel quale si dicevano essere dumila uomini d'arme piú di ventimila fanti e numero grandissimo di cavalli leggieri, parte italiani parte condotti da' viniziani di Grecia, i quali correvano innanzi, ma non si allargando quanto sogliono perché gli sterpi e arbuscelli, de' quali tra l'uno e l'altro esercito era pieno il paese, gli impedivano: come medesimamente impedivano che l'uno e l'altro esercito non si vedesse. Nel qual modo procedendo, e avanzando continuamente di cammino l'esercito viniziano, si appropinquorno molto in un tempo medesimo l'avanguardia franzese governata da Carlo d'Ambuosa e da Gianiacopo da Triulzi, nella quale erano cinquecento lancie e i fanti svizzeri, e il retroguardo de' viniziani guidato da Bartolomeo d'Alviano, nel quale erano [ottocento] uomini d'arme e quasi tutto il fiore de' fanti dello esercito, ma che non procedeva molto ordinato non pensando l'Alviano che quel dí si dovesse combattere. Ma come vedde essersi tanto approssimato agli inimici, o svegliatasi in lui la solita caldezza o vedendosi ridotto in luogo che era necessario fare la giornata, significata subitamente al conte di Pitigliano, che andava innanzi con l'altra parte dell'esercito, la sua o necessità o deliberazione, lo ricercò che venisse a soccorrerlo: alla qual cosa il conte rispose che attendesse a camminare, che fuggisse il combattere, perché cosí ricercavano le ragioni della guerra e perché tale era la deliberazione del senato viniziano. Ma l'Alviano, in questo mezzo, avendo collocati i fanti suoi con sei pezzi di artiglieria in su uno piccolo argine fatto per ritenere l'impeto di uno torrente, il quale non menando allora acqua passava trall'uno e l'altro esercito, assaltò gli inimici con tale vigore e con tale furore che gli costrinse a piegarsi; essendogli in questo molto favorevole l'essersi principiato il fatto d'arme in una vigna, ove per i tralci delle viti non poteano i cavalli de' franzesi espeditamente adoperarsi. Ma fattasi innanzi per questo pericolo la battaglia dell'esercito franzese, nella quale era la persona del re, si serrorono i due primi squadroni addosso alla gente dell'Alviano; il quale per il principio felice venuto in grandissima speranza della vittoria, correndo in qua e in là, riscaldava e stimolava con ardentissime voci i soldati suoi. Combattevasi da ogni parte molto ferocemente, avendo i franzesi per il soccorso de' suoi ripigliato le forze e l'animo, ed essendo la battaglia ridotta in luogo aperto ove i cavalli, de' quali molto prevalevano, si potevano liberamente maneggiare; accesi ancora assai per la presenza del re il quale, non avendo maggiore rispetto alla persona sua che se fusse stato privato soldato, esposto al pericolo dell'artiglierie non cessava, secondo che co' suoi era di bisogno, di comandare, di confortare, di minacciare: e da altra parte i fanti italiani, inanimiti da' successi primi, combattevano con vigore incredibile, non mancando l'Alviano di tutti gli offici convenienti a eccellente soldato e capitano. Finalmente, essendosi con somma virtú combattuto circa a tre ore, la fanteria italiana danneggiata maravigliosamente nel luogo aperto da' cavalli degli inimici, ricevendo oltre a questo non piccolo impedimento che nel terreno diventato lubrico per grandissima pioggia, sopravenuta mentre si combatteva, non potevano i fanti combattendo fermare i piedi, e sopratutto mancandogli il soccorso de' suoi, cominciò a combattere con grandissimo disavvantaggio; e nondimeno resistendo con grandissima virtú, ma già avendo perduta la speranza del vincere, piú per la gloria che per la salute, fece sanguinosa e per alquanto spazio di tempo dubbia la vittoria de' franzesi; e ultimatamente, perdute prima le forze che il valore, senza mostrare le spalle agli inimici, rimasono quasi tutti morti in quel luogo: tra' quali fu molto celebrato il nome di Piero, uno de' marchesi del Monte a Santa Maria di Toscana, esercitato condottiere di fanti nelle guerre di Pisa agli stipendi de' fiorentini, e allora uno de' colonnelli della fanteria viniziana. Per la quale resistenza tanto valorosa di una parte sola dell'esercito, fu allora opinione costante di molti che se tutto l'esercito de' viniziani entrava nella battaglia arebbe ottenuta la vittoria: ma il conte di Pitigliano con la maggiore parte si astenne dal fatto d'arme; o perché, come diceva egli, essendosi voltato per entrare nella battaglia fusse urtato dal seguente squadrone de' viniziani che già fuggiva, o pure, come si sparse la fama, perché non avendo speranza di potere vincere, e sdegnato che l'Alviano avesse contro alla autorità sua presunto di combattere, migliore consiglio riputasse che quella parte dell'esercito si salvasse che il tutto per l'altrui temerità si perdesse. Morirno in questa battaglia pochi uomini d'arme, perché la uccisione grande fu de' fanti de' viniziani, de' quali alcuni affermano esserne stati ammazzati ottomila; altri dicono che 'l numero de' morti da ogni parte non passò in tutto seimila. Rimase prigione Bartolomeo d'Alviano, il quale con uno occhio e col volto tutto percosso e livido fu menato al padiglione del re; presi venti pezzi d'artiglieria grossa e molta minuta; e il rimanente dell'esercito, non seguitato, si salvò. Questa fu la giornata famosa di Ghiaradadda o, come altri la chiamano, di Vaila, fatta il quartodecimo dí di maggio; per memoria della quale il re fece nel luogo ove si era combattuto edificare una cappella, onorandola col nome di Santa Maria della Vittoria.

                                                 Ottenuta tanta vittoria, il re, per non corrompere con la negligenza l'occasione acquistata con la virtú e con la fortuna, andò il dí seguente a Caravaggio; ed essendosegli arrenduta subito a patti la terra, batté con l'artiglierie la fortezza, la quale in spazio di uno dí si dette liberamente. Arrendessegli il prossimo dí, non aspettato che l'esercito s'accostasse, la città di Bergamo; nella quale lasciate cinquanta lancie e mille fanti per la espugnazione della fortezza, si indirizzò a Brescia; dove, innanzi arrivasse, la fortezza di Bergamo stata battuta uno dí con l'artiglierie si arrendé, con patto che fussino prigioni Marino Giorgio e gli altri ufficiali viniziani: perché il re, non tanto mosso da odio quanto dalla speranza d'averne a trarre quantità grande di danari, era deliberato di non accettare mai, quando se gli arrendevano le terre, patto alcuno per il quale fussino salvati i gentiluomini viniziani. Ne' bresciani non era piú quella antica disposizione con la quale avevano, al tempo degli avoli loro, sostenuto nelle guerre di Filippo Maria Visconte gravissimo assedio per conservarsi sotto lo imperio viniziano; ma inclinati a darsi a' franzesi, parte per il terrore delle armi loro parte per i conforti del conte Giovanfrancesco da Gambara, capo della fazione ghibellina, avevano il dí dopo la rotta occupate le porte della città, opponendosi apertamente a Giorgio Cornaro, il quale andato quivi con grandissima celerità voleva mettervi gente; e dipoi accostatosi alla città l'esercito diminuito assai di numero, non tanto per il danno ricevuto nel fatto d'arme quanto perché, come accade ne' casi simili, molti volontariamente se ne partivano, disprezzorono l'autorità e i prieghi di Andrea Gritti, che entrò in Brescia a persuadergli che gli accettassino per loro difesa. Però l'esercito, non si riputando sicuro in quel luogo, andò verso Peschiera; e la città di Brescia, facendosene autori i Gambereschi, si arrendé al re di Francia; e il medesimo fece due dí poi la fortezza, con patto che fussino salvi tutti quegli che vi erano dentro, eccetto i gentiluomini viniziani.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.5

                                                  

                                                 Dolore e spavento a Venezia dopo la disfatta e provvedimenti del governo. Nuove conquiste del re di Francia. Il pontefice acquista le terre di Romagna. Altre terre perdute da' veneziani.

                                                  

                                                 Ma come a Vinegia pervenne la nuova di tanta calamità non si potrebbe immaginare non che scrivere quanto fusse il dolore e lo spavento universale, e quanto divenissino confusi e attoniti gli animi di tutti, insoliti a sentire avversità tali anzi assuefatti a riportare quasi sempre vittoria in tutte le guerre, e presentandosegli innanzi agli occhi la perdita dello imperio e il pericolo della ultima ruina della loro patria, in luogo di tanta gloria e grandezza con la quale da pochi mesi indietro si proponevano nell'animo l'imperio di tutta Italia. Però da ogni parte della città si concorreva con grandissimi gridi e miserabili lamenti al palagio publico: nel quale consultandosi per i senatori quello che in tanto caso fusse da fare, rimaneva dopo lunga consulta soprafatto il consiglio dalla disperazione, tanto deboli e incerti erano i rimedi, tanto minime e quasi nulle le speranze della salute; considerando non avere altri capitani né altre genti per difendersi che quelle che avanzavano della rotta spogliate di forze e di animo, i popoli sudditi a quello dominio o inclinati a ribellarsi o alieni da tollerare per loro danni e pericoli, il re di Francia, con esercito potentissimo e insolente per la vittoria, disposto a seguitare il corso della prospera fortuna, al nome solamente del quale essere per cedere ciascuno; e se a lui solo non avevano potuto resistere, che sarebbe venendo innanzi il re de' romani, il quale si intendeva appropinquarsi a' confini loro, e che ora invitato da tanta occasione accelererebbe il venire? mostrarsi da ogni parte pericoli e disperazione con pochissimi indizi di speranze. E che sicurtà avere che nella propria patria, piena di innumerabile moltitudine, non si suscitasse, parte per la cupidità del rubare parte per l'odio contro a' gentiluomini, qualche pericoloso tumulto? Già (quel che è l'estremo grado della timidità) reputavano certissimi tutti i casi avversi i quali si rappresentavano alla immaginazione propria che potessino succedere; e nondimeno, raccolto in tanto timore il meglio potevano l'animo, deliberorno di fare estrema diligenza di riconciliarsi per qualunque modo col pontefice col re de' romani e col re cattolico, senza pensiero alcuno di mitigare l'animo del re di Francia, perché, dell'odio suo contro a loro non manco diffidavano che e' temessino delle sue armi: né posti perciò da parte i pensieri di difendersi, attendendo a fare provisione di danari, ordinavano di soldare nuova gente per terra e, temendo della armata che si diceva prepararsi a Genova, accrescere insino in cinquanta galee l'armata loro, della quale era capitano Angelo Trevisano.

                                                 Ma preveniva tutti i consigli loro la celerità del re di Francia, al quale dopo l'acquisto di Brescia si era arrenduta la città di Cremona, ritenendosi ancora per i viniziani la fortezza; la quale benché fortissima arebbe seguitato l'esempio degli altri (avendo massime, ne' medesimi dí, fatto il medesimo la fortezza di Pizichitone)..., se il re avesse consentito che tutti ne uscissino salvi; ma essendovisi ridotti dentro molti gentiluomini viniziani, e tra gli altri Zacheria Contareno ricchissimo uomo, negava di accettarla se non con patto che questi venissino in sua potestà. Però mandatevi genti a tenerla assediata, ed essendosi le genti viniziane, che continuamente diminuivano, fermate nel Campomarzio appresso a Verona perché i veronesi non avevano voluto riceverle dentro, il re camminò innanzi a Peschiera per acquistare la fortezza, essendosi già arrenduta la terra; la quale come ebbeno cominciata a battere con l'artiglierie, vi entrorono per piccole rotture di muro con impeto grandissimo i fanti svizzeri e guasconi, ammazzando i fanti che in numero circa quattrocento vi erano dentro; e il capitano della fortezza che era medesimamente capitano della terra, gentiluomo viniziano, fatto prigione, fu per comandamento del re insieme col figliuolo a' merli medesimi impiccato: inducendosi il re a questa crudeltà acciò che quegli che erano nella fortezza di Cremona, spaventati per questo supplicio, non si difendessino insino all'ultima ostinazione. Cosí aveva, in spazio di quindici dí dopo la vittoria, acquistato il re di Francia, dalla fortezza di Cremona in fuora, tutto quello che gli apparteneva per la divisione fatta a Cambrai: acquisto molto opportuno al ducato di Milano, e per il quale s'accrescevano le entrate regie, ciascuno anno, molto piú di dugentomila ducati.

                                                 Nel quale tempo, non si sentendo ancora in luogo alcuno l'armi del re de' romani, aveva il pontefice assaltate le terre di Romagna con quattrocento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e ottomila fanti, e con artiglierie del duca di Ferrara, il quale avea eletto gonfaloniere della Chiesa, titolo, secondo l'uso de' tempi nostri, piú di degnità che di autorità; preposti a questo esercito Francesco da Castel del Rio cardinale di Pavia, con titolo di legato apostolico, e Francesco Maria della Rovere figliuolo già di Giovanni suo fratello, il quale adottato in figliuolo di Guido Ubaldo duca di Urbino, zio materno, e confermata per l'autorità del pontefice l'adozione nel concistorio, era l'anno dinanzi, morto lui senza altri figliuoli, succeduto in quel ducato. Con questo esercito avendo scorso da Cesena verso Cervia e venuti poi tra Imola e Faenza preseno la terra di Solarolo, e stati qualche dí alla bastia vicina a tre miglia di Faenza andorno a Berzighella, terra principale di Valdilamone, ove era entrato Giampaolo Manfrone con ottocento fanti e alcuni cavalli; i quali usciti fuora a combattere, condotti in uno agguato furno sí vigorosamente assaliti da Giampaolo Baglioni e Lodovico dalla Mirandola, condottieri nello esercito ecclesiastico, che rifuggendo nella terra vi entrorono mescolati insieme con loro, e con tale impeto che il Manfrone caduto da cavallo appena ebbe tempo a ritirarsi nella rocca: alla quale essendo presentata l'artiglieria, fu dal primo colpo abbruciata la munizione che vi era dentro, dal quale caso impauriti si rimessono senza alcuna condizione nell'arbitrio de' vincitori. Occupata tutta la valle, l'esercito sceso nel piano, preso Granarolo e tutte l'altre terre del contado di Faenza, andò a campo a Russi, castello situato tra Faenza e Ravenna, ma di non facile espugnazione perché, circondato da fosse larghe e profonde e forte di mura, era guardato da seicento fanti forestieri. E faceva l'espugnazione piú difficile non essere nello esercito ecclesiastico né quel consiglio né quella concordia che sarebbe stata necessaria, benché le forze vi abbondassino, conciossiaché di nuovo vi erano giunti tremila fanti svizzeri soldati dal pontefice; e però, con tutto che i viniziani non fussino potenti in Romagna, si faceva per gli ecclesiastichi poco progresso. I quali per infestare essendo uscito di Ravenna con la sua compagnia Giovanni Greco, capitano di stradiotti, fu rotto e fatto prigione da Giovanni Vitelli uno de' condottieri ecclesiastici. Pure finalmente, poi che furono stati intorno a Russi dieci dí l'ottennono per accordo; ed essendo in questo tempo medesimo succeduta la vittoria del re di Francia, la città di Faenza, la quale per esservi pochi soldati de' viniziani era in potestà di se medesima, convenne di ricevere il dominio del pontefice se infra quindici dí non fusse soccorsa: la quale convenzione poi che fu fatta, essendo usciti di Faenza cinquecento fanti de' viniziani, sotto la fede del legato, furono svaligiati per commissione del duca di Urbino. Fece il medesimo e la città di Ravenna, subito che se gli accostò l'esercito. Cosí, piú con la riputazione della vittoria del re di Francia che con le armi proprie, acquistò presto il pontefice le terre tanto desiderate della Romagna; nella quale non tenevano piú i viniziani altro che la fortezza di Ravenna.

                                                 Contro a' quali si scoprivano, dopo la rotta dello esercito loro, ogni dí nuovi inimici. Perché il duca di Ferrara, il quale insino a quel dí non si era voluto dimostrare, cacciò subito di Ferrara il bisdomino, magistrato che per antiche convenzioni, per rendere ragione a' sudditi loro, vi tenevano i viniziani, e prese l'armi recuperò senza ostacolo alcuno il Polesine di Rovigo, e sfondò con l'artiglierie l'armata de' viniziani che era nel fiume dello Adice; e al marchese di Mantova si arrenderono Asola e Lunato, occupate già da' viniziani, nelle guerre contro a Filippo Maria Visconte, a Giovanfrancesco da Gonzaga suo proavo. In Istria Cristoforo Frangiapane occupò Pisinio e Divinio, e il duca di Brunsvich, entrato per comandamento di Cesare nel Friuli con duemila uomini comandati, prese Feltro e Bellona. Alla venuta del quale e alla fama della vittoria de' franzesi, Triesti, e l'altre terre, dallo acquisto delle quali era proceduta a' viniziani l'origine di tanti mali, tornorno allo imperio di Cesare. Occuporono eziandio i conti di Lodrone alcune castella vicine; e il vescovo di Trento, con simile movimento, Riva di Trento e Agresto.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.6

                                                  

                                                 Padova, Verona ed altre terre lasciate in arbitrio de' popoli. Ambasciata e orazione di Antonio Giustiniano a Massimiliano. I veneziani mandano in Puglia per la consegna dei porti al re d'Aragona e in Romagna per la consegna al pontefice di quanto ancora essi possiedono.

                                                  

                                                 Ma niuna cosa aveva dopo la rotta di Vaila spaventato tanto i viniziani quanto la espugnazione della rocca di Peschiera, intorno alla quale si erano persuasi doversi per la fortezza sua fermare l'impeto dei vincitori. Però attoniti per tanti mali, e temendo estremamente che non si facesse piú innanzi il re di Francia, disperate le cose loro e astretti piú da timidità che da consiglio, ritiratesi le genti loro a Mestri, le quali senza obedienza e ordine alcuno erano ridotte a numero molto piccolo, deliberorono, per non avere piú tanti inimici, con disperazione forse troppo presta, di cedere allo imperio di terra ferma: né meno, per levare al re di Francia l'occasione di approssimarsi a Vinegia; perché non stavano senza sospetto che in quella città si facesse qualche tumulto, concitato da' popolari o dalla moltitudine innumerabile che vi abita di forestieri, questi tirati da desiderio di rubare, quegli da non volere tollerare che, essendo cittadini nati per lunga successione in una medesima città, anzi molti del medesimo sangue e delle medesime famiglie, fussino esclusi dagli onori, e in tutte le cose quasi soggetti a' gentiluomini. Della quale abiezione d'animo fu anche nel senato allegata questa ragione, che se volontariamente cedevano allo imperio per fuggire i presenti pericoli, che con piú facilità, ritornando mai la prospera fortuna, lo ricupererebbeno; perché i popoli, licenziati spontaneamente da loro, non sarebbeno cosí renitenti a tornare sotto l'antico dominio come sarebbeno se se ne fussino partiti con aperta rebellione. Dalle quali ragioni mossi, dimenticata la generosità viniziana, e lo splendore di tanto gloriosa republica, contenti di ritenersi solamente l'acque salse, commesseno agli ufficiali che erano in Padova in Verona e nelle altre terre destinate a Massimiliano, che lasciatele in arbitrio de' popoli se ne partissino. E oltre a questo, per ottenere da lui con qualunque condizione la pace, gli mandorono con somma celerità imbasciadore Antonio Giustiniano; il quale, ammesso in publica udienza al cospetto di Cesare, parlò miserabilmente e con grandissima sommissione: ma invano, perché Cesare recusava di fare senza il re di Francia convenzione alcuna. Non mi pare alieno dal nostro proposito, acciò che meglio si intenda in quanta costernazione d'animo fusse ridotta quella republica, la quale già piú di dugento anni non avea sentito avversità pari a questa, inserire la propria orazione avuta da lui innanzi a Cesare, trasferendo solamente le parole latine in voci volgari; le quali furono in questo tenore:

                                                 - È manifesto e certo che gli antichi filosofi e gli uomini principali della gentilità non errorono, quando quella essere vera, salda, sempiterna e immortale gloria affermorono la quale si acquista dal vincere se medesimo: questa esaltorono sopra tutti i regni trofei e trionfi. Di questo è laudato Scipione maggiore, chiaro per tante vittorie; e piú splendore gli dette che l'Africa vinta e Cartagine domata. Non partorí questa cosa medesima la immortalità a quel macedone grande? quando Dario vinto da lui in una battaglia grandissima pregò gli dèi immortali che stabilissino il suo regno, ma se altrimenti avessino disposto non chiese altro successore che questo tanto benigno inimico tanto mansueto vincitore. Cesare dittatore, del quale tu hai il nome e la fortuna, del quale tu ritieni la liberalità la munificenza e l'altre virtú, non meritò egli di essere descritto nel numero degli dèi per concedere per rimettere per perdonare? Il senato finalmente e il popolo romano, quello domatore del mondo, il cui imperio è in terra in te solo e in te si rappresenta la sua amplitudine e maestà, non sottopose egli piú popoli e provincie con la clemenza con la equità e mansuetudine che con le armi o con la guerra? Le quali cose poi che sono cosí, non sarà numerata trall'ultime laudi se la Maestà tua, che ha in mano la vittoria acquistata de' viniziani, ricordatasi della fragilità umana, saprà moderatamente usarla, e se piú inclinerà agli studi della pace che agli eventi dubbi della guerra. Perché quanta sia la incostanza delle cose umane, quanto incerti i casi, quanto dubbio mutabile fallace e pericoloso lo stato de' mortali, non è necessario mostrare con esempli forestieri o antichi: assai e piú che abbastanza lo insegna la republica viniziana, la quale poco innanzi florida risplendente chiara e potente, in modo che 'l nome e la fama sua celebrata non stesse dentro a' confini della Europa ma con pompa egregia corresse per l'Africa e per l'Asia, e risonando facesse festa negli ultimi termini del mondo, questa, per una sola battaglia avversa e ancora leggiera, privata della chiarezza delle cose fatte, spogliata delle ricchezze, lacerata conculcata e rovinata, bisognosa di ogni cosa, massime di consiglio, è in modo caduta che sia invecchiata la imagine di tutta l'antica virtú, e raffreddato tutto il fervore della guerra. Ma ingannansi, senza dubbio ingannansi i franzesi, se attribuiscono queste cose alla virtú loro; conciossiaché per il passato, travagliati da maggiore incomodità, percossi e consumati da grandissimi danni e ruine, non rimessono mai l'animo, e allora potissimamente quando con grande pericolo facevano guerra molti anni col crudelissimo tiranno de' turchi; anzi sempre di vinti diventorono vincitori. Il medesimo arebbono sperato che fusse stato al presente se, udito il nome terribile della Maestà tua, udita la vivace e invitta virtú delle tue genti, non fussino in modo caduti gli animi di tutti che non ci sia rimasta speranza alcuna non dico di vincere ma né di resistere. Però, gittate in terra l'armi, abbiamo riposta la speranza nella clemenza inenarrabile o piú tosto divina pietà della Maestà tua, la quale non diffidiamo dovere trovare alle cose nostre perdute. Adunque, supplicando in nome del principe, del senato e del popolo viniziano, con umile divozione ti preghiamo oriamo scongiuriamo: degnisi tua Maestà riguardare con gli occhi della misericordia le cose nostre afflitte, e medicarle con salutifero rimedio. Abbraccieremo tutte le condizioni della pace che tu ci darai, tutte le giudicheremo eque oneste conformi alla equità e alla ragione. Ma forse noi siamo degni che da noi medesimi ci tassiamo. Tornino con nostro consenso a te, vero e legittimo signore, tutte le cose che i nostri maggiori tolsono al sacro imperio e al ducato di Austria. Alle quali cose, perché venghino piú convenientemente, aggiugniamo tutto quello che possediamo in terra ferma; alle ragioni delle quali, in qualunque modo siano acquistate, rinunciamo. Pagheremo oltre a questo, ogni anno, alla Maestà tua e a' successori legittimi dello imperio, in perpetuo, ducati cinquantamila; ubbidiremo volentieri a' tuoi comandamenti decreti leggi precetti. Difendici, priego, dalla insolenza di coloro co' quali poco fa accompagnammo l'armi nostre, i quali ora proviamo crudelissimi inimici, che non appetiscono non desiderano cosa alcuna tanto quanto la ruina del nome viniziano: dalla quale clemenza conservati chiameremo te padre progenitore e fondatore della nostra città, scriveremo negli annali e continuamente a' figliuoli nostri i tuoi meriti grandi racconteremo. Né sarà piccola aggiunta alle tue laudi, che tu sia il primo a' piedi del quale la republica veneta supplichevole si prostra in terra, al quale abbassa il collo, il quale onora riverisce osserva come uno dio celeste. Se il sommo massimo Dio avesse dato inclinazione a' maggiori nostri non si fussino ingegnati di maneggiare le cose di altri, già la nostra republica piena di splendore avanzerebbe di molto l'altre città della Europa; la quale ora, marcida di squallore di sorde di corruzione, deforme di ignominia e di vituperio, piena di derisione di contumelie di cavillazioni, ha dissipato in uno momento l'onore di tutte le vittorie acquistate. Ma perché il parlare ritorni finalmente dove cominciò, è in potestà tua, rimettendo e perdonando a' tuoi viniziani, acquistare un nome, un onore, del quale niuno, vincendo, in qualunque tempo, acquistò mai il maggiore il piú splendido. Questo niuna vetustà niuna piú lunga antichità niuno corso di tempo cancellerà delle menti de' mortali, ma tutti i secoli ti chiameranno predicheranno e confesseranno pio, clemente, principe piú glorioso di tutti gli altri. Noi, tuoi viniziani, attribuiremo tutto alla tua virtú felicità e clemenza: che noi viviamo, che usiamo l'aura celeste, che godiamo il commercio degli uomini. -

                                                 Mandorono i viniziani, per la medesima deliberazione, uno uomo in Puglia a consegnare i porti al re d'Aragona; il quale, sapendo senza spesa e senza pericolo godere il frutto delle altrui fatiche, aveva mandato di Spagna una armata piccolissima, dalla quale erano state occupate alcune terre di poco momento de' contadi di quelle città. Mandorno similmente in Romagna uno secretario publico, con commissione che al pontefice si consegnasse quel che ancora si teneva per loro, in caso che e' fusse liberato Giampagolo Manfrone e gli altri prigioni, avessino facoltà di trarne l'artiglierie, e che le genti che erano in Ravenna fussino salve. Le quali condizioni mentre che il pontefice, per non dispiacere a' confederati, fa difficoltà di accettare, si arrendé la città di Ravenna. E poco dipoi i soldati, che erano nella fortezza, per loro medesimi la dettono; recusando il secretario de' viniziani che vi era entrato dentro, perché quegli che per loro trattavano a Roma davano speranza che alla fine il pontefice consentirebbe alle condizioni con le quali la restituzione aveano offerta: lamentandosi gravemente il pontefice essere stata dimostrata maggiore contumacia con lui che non era stata usata né con Cesare né col re d'Aragona. E però, addimandandogli i cardinali Grimanno e Cornaro viniziani, in nome del senato, l'assoluzione dal monitorio come debita, per avere offerta nel termine de' ventiquattro dí la restituzione, rispose non avere ubbidito, perché non l'aveano offerta semplicemente ma con limitate condizioni, e perché erano stati ammuniti a restituire oltre alle terre i frutti presi e tutti i beni che e' possedevano appartenenti alle chiese o alle persone ecclesiastiche.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.7

                                                  

                                                 Sentimenti diversi in Italia per le sventure de' veneziani. Il pontefice acconsente a ricevere gli ambasciatori di Venezia. Mentre Padova, Vicenza e altre terre consegnano le chiavi agli ambasciatori di Massimiliano, Treviso si afferma fedele a Venezia. Inazione e lentezze di Massimiliano.

                                                  

                                                 In questo modo precipitavano con impeto grandissimo e quasi stupendo le cose della republica viniziana, calamità sopra a calamità continuamente accumulandosi, qualunque speranza si proponevano mancando, né indizio alcuno apparendo per il quale sperare potessino almeno conservare, dopo la perdita di tanto imperio, la propria libertà. Moveva variamente tanta rovina gli animi degli italiani, ricevendone molti sommo piacere per la memoria che, procedendo con grandissima ambizione, posposti i rispetti della giustizia e della osservanza della fede e occupando tutto quello di che se gli offeriva l'occasione, aveano scopertamente cercato di sottoporsi tutta Italia: le quali cose facevano universalmente molto odioso il nome loro, odioso ancora piú per la fama che risonava per tutto della alterezza naturale a quella nazione. Da altra parte, molti considerando piú sanamente lo stato delle cose, e quanto fusse brutto e calamitoso a tutta Italia il ridursi interamente sotto la servitú de' forestieri, sentivano con dispiacere incredibile che una tanta città, sedia sí inveterata di libertà, splendore per tutto il mondo del nome italiano, cadesse in tanto esterminio; onde non rimaneva piú freno alcuno al furore degli oltramontani, e si spegneva il piú glorioso membro, e quel che piú che alcuno altro conservava la fama e l'estimazione comune.

                                                 Ma sopra a tutti gli altri era molesta tanta declinazione al pontefice, sospettoso della potenza del re de' romani e del re di Francia, e desideroso che l'essere implicati in altre faccende gli rimovesse da' pensieri di opprimere lui. Per la quale cagione, deliberando, benché occultamente, di sostentare quanto poteva che piú oltre non procedessino i mali di quella republica, accettò le lettere scrittegli in nome del doge di Vinegia, per le quali lo pregava con grandissima sommissione che si degnasse ammettere sei imbasciadori eletti de' principali del senato, per ricercarlo supplichevolmente del perdono e della assoluzione. Lette le lettere e proposta la dimanda in concistoro, allegando il costume antico della Chiesa di non si mostrare duro a coloro che, avendo penitenza degli errori commessi, dimandano venia, consentí d'ammettergli: repugnando molto gli oratori di Cesare e del re di Francia, e riducendogli in memoria che per la lega di Cambrai era espressamente obligato a perseguitargli, con l'armi temporali e spirituali, insino a tanto che ciascuno de' confederati avesse recuperato quello che se gli apparteneva: a' quali rispondeva avere consentito di ammettergli con intenzione di non concedere l'assoluzione se prima Cesare, che solo non avea recuperato il tutto, non conseguitava le cose che se gli appartenevano.

                                                 Dette questa cosa qualche cominciamento di speranza e di sicurtà a' viniziani. Ma gli assicurò molto piú dal terrore estremo dal quale erano oppressi la deliberazione del re di Francia, di osservare con buona fede la capitolazione fatta con Cesare e, poiché aveva acquistato tutto quello che aspettava a sé, non entrare con lo esercito piú oltre che fussino i termini suoi. Però, essendo in potestà sua non solo accettare Verona, gl'imbasciadori della quale città venneno a lui per darsegli, presa che ebbe Peschiera, ma similmente occupare senza ostacolo alcuno Padova e l'altre terre abbandonate da' viniziani, volle che gli imbasciadori de' veronesi presentassino le chiavi della terra agli imbasciadori di Cesare che erano nello esercito suo. E per questa cagione si fermò con tutte le genti a Peschiera; la quale terra, invitato dalla opportunità del luogo, ritenne per sé, non ostante che appartenesse al marchese di Mantova, perché insieme con Asola e Lunato era stata occupata da' viniziani: non avendo ardire di negarlo il marchese, al quale riservò l'entrate della terra e promesse di ricompensarlo con cosa equivalente. E aveva ne' medesimi dí ricevuta per accordo la fortezza di Cremona, con patto che a tutti i soldati fusse salva la vita e la roba, eccetto quegli che fussino sudditi suoi, e che i gentiluomini viniziani a' quali dette la fede di salvare la vita fussino suoi prigioni. Seguitorono l'esempio di Verona, Vicenza Padova e l'altre terre, eccetto la città di Trevisi; la quale, abbandonata già da' magistrati e dalle genti de' viniziani, arebbe fatto il medesimo, se di Cesare fusse apparito o forze benché minime o almeno persona di autorità. Ma essendovi andato per riceverla in suo nome, senza forze senza armi senza maestà alcuna di imperio, Lionardo da Dressina fuoruscito vicentino, che per lui aveva nel modo medesimo ricevuto Padova, ed essendo già stato ammesso dentro, gli sbanditi di quella città stati nuovamente restituiti da' viniziani, e per questo beneficio amatori del nome loro, cominciorno a tumultuare; dietro a' quali sollevandosi la plebe affezionata allo imperio viniziano, e facendosene capo uno Marco calzolaio, il quale con concorso e grida immoderate della moltitudine portò in su la piazza principale la bandiera de' viniziani, cominciorono a chiamare unitamente il nome di san Marco, affermando non volere riconoscere né altro imperio né altro signore: la quale inclinazione aiutò non poco uno oratore del re d'Ungheria, che andando a Vinegia e passando per Trevisi, scontratosi a caso in questo tumulto, confortò il popolo a non si ribellare. Però cacciato il Dressina, e messo nella città settecento fanti de' viniziani e poco dipoi tutto l'esercito che, augumentato di fanti venuti di Schiavonia e di quegli che erano ritornati di Romagna, disegnava fare uno alloggiamento forte tra Marghera e Mestri, entrò in Trevisi; dove atteseno con somma diligenza a fortificarlo, e facendo correre i cavalli per tutto il paese vicino e mettere dentro piú vettovaglie potevano, cosí per bisogno di quella città come per uso della città di Vinegia; nella quale da ogni parte accumulavano grandissima copia di vettovaglie.

                                                 Cagione principale di questo accidente e di rendere speranza a' viniziani di potere ritenere qualche parte del loro imperio, e di molti gravissimi casi che seguitorono poi, fu la negligenza e il disordinato governo di Cesare; del quale non si era insino a quel dí udito, in tanto corso di vittoria, altro che il nome: con tutto che per il timore dell'armi de' franzesi se gli fussino arrendute tante terre, le quali gli sarebbe stato facilissimo a conservare. Ma era, dopo la confederazione fatta a Cambrai, soprastato qualche dí in Fiandra, per avere spontaneamente danari da' popoli per sussidio della guerra, i quali non prima avuti che, secondo la sua consuetudine, gli spese inutilmente; e ancora che, partito da Molins armato e con tutta la pompa e ceremonie imperiali, e accostatosi a Italia, publicasse di volere rompere la guerra innanzi al termine statuitogli nella capitolazione, nondimeno oppressato dalle sue solite difficoltà e confusioni non si faceva piú innanzi: non bastando gli stimoli del pontefice che, per il terrore che aveva delle armi franzesi, lo sollecitava continuamente a venire in Italia, e perché meglio potesse farlo gli aveva mandato Costantino di Macedonia con cinquantamila ducati, avendogli prima consentito i centomila ducati che per spendere contro agli infedeli erano stati depositati piú anni innanzi in Germania. Aveva oltre a questo ricevuto dal re di Francia centomila ducati, per causa della investitura del ducato di Milano. Sopragiunselo, essendo vicino a Spruch, la nuova del fatto d'arme di Vaila; e benché mandasse subito il duca di Brunsvich a recuperare il Friuli nondimeno non si moveva, come in tanta occasione sarebbe stato conveniente, impedito dal mancamento di danari, non essendo bastati alla sua prodigalità quegli che aveva raccolti di tanti luoghi. Condussesi finalmente a Trento, donde ringraziò per lettere il re di Francia d'avere mediante l'opera sua ricuperate le sue terre; e si affermava che, per dimostrare a quel re maggiore benivolenza, e acciò che in tutto si spegnesse la memoria delle offese antiche, avea fatto ardere uno libro che si conservava a Spira, nel quale erano scritte tutte l'ingiurie fatte per il passato da' re di Francia allo imperio e alla nazione degli alamanni. A Trento venne a lui, il terzodecimo dí di giugno, per trattare delle cose comuni il cardinale di Roano, il quale raccolto con grandissimo onore gli promesse in nome del re aiuto di cinquecento lancie; e avendo espedito concordemente l'altre cose, statuirono che Cesare e il re convenissino a parlare insieme in campagna aperta appresso alla terra di Garda, ne' confini dell'uno dominio e dell'altro. Però il re di Francia si mosse per esservi il dí determinato, e Cesare per la medesima cagione venne a Riva di Trento; ma poi che vi fu stato solamente due ore ritornò subitamente a Trento, significando nel tempo medesimo al re di Francia che per accidenti nuovi nati nel Friuli era stato necessitato a partirsi, e pregandolo si fermasse a Cremona, perché presto ritornerebbe per dare perfezione al parlamento deliberato. La quale varietà, se però è possibile in uno principe tanto instabile ritrovarne la verità, molti attribuivano a sospetto stillatogli (come per natura era molto credulo) negli orecchi da altri; alcuni interpretando che, per avere seco poca corte e poca gente, non gli paresse potersi presentare con quella dignità e riputazione che si paragonasse alla pompa e alla grandezza del re di Francia. Ma il re, desideroso per alleggerirsi da tanta spesa, di dissolvere presto lo esercito, né meno di ritornarsene presto in Francia, non attesa questa proposta, si voltò verso Milano, ancora che da Matteo Lango, doventato episcopo Gurgense, che mandatogli da Massimiliano per questo effetto lo seguitò insino a Cremona, fusse molto pregato ad aspettare, promettendogli che senza fallo alcuno ritornerebbe. Il discostarsi la persona e l'esercito del re cristianissimo da' confini di Cesare tolse assai di riputazione alle cose sue; e nondimeno, con tutto che avesse seco tante genti che potesse facilmente provedere Padova e l'altre terre, non vi mandò presidio, o per instabilità della natura sua o per disegno di attendere prima ad altre imprese o perché gli paresse piú onorevole avere congiunto seco, quando scendeva in Italia, maggiore esercito: anzi, come se le prime cose avessino avuto la debita perfezione, proponeva che colle forze unite di tutti i confederati, si assaltasse la città di Vinegia; cosa udita volentieri dal re di Francia, ma molesta al pontefice e contradetta apertamente dal re di Aragona.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.8

                                                  

                                                 I fiorentini svolgono piú decisamente le azioni contro Pisa. Le condizioni degli assediati sempre piú difficili; grave malcontento dei contadini. Patti di resa dei pisani ai fiorentini.

                                                  

                                                 Poseno in questo tempo i fiorentini l'ultima mano alla guerra contro a' pisani: perché, poiché ebbono proibito che in Pisa entrasse il soccorso de' grani, fatta nuova provisione di gente, si messono con ogni industria e con ogni sforzo a vietare che né per terra né per acqua non vi entrassino vettovaglie; il che non si faceva senza difficoltà per la vicinità del paese de' lucchesi, i quali dove occultamente potevano osservavano con mala fede la concordia fatta nuovamente co' fiorentini. Ma in Pisa cresceva di giorno in giorno la strettezza del vivere, la quale non volendo i contadini piú tollerare, quegli capi de' cittadini in mano de' quali erano le deliberazioni publiche e che erano seguitati dalla piú parte della gioventú pisana, per addormentare i contadini con le arti consuete, introdusseno, adoperando per mezzo il signore di Piombino, pratica dello accordarsi co' fiorentini, nella quale artificiosamente consumorono molti dí; essendo andato per questo Niccolò Machiavelli, secretario de' fiorentini, a Piombino e molti imbasciadori de' pisani, eletti de' cittadini e de' contadini. Ma era molto difficile il chiudere Pisa, perché ha la campagna larga montuosa e piena di fossi e di paludi, da potere male proibire che, di notte massime, non vi entrassino vettovaglie; atteso la prontezza di darne loro del paese de' lucchesi, e la disposizione feroce de' pisani che per condurvene si esponevano a ogni fatica e a ogni pericolo: le quali difficoltà per superare determinorno i capitani de' fiorentini di fare tre parti dello esercito, acciocché diviso in piú luoghi potesse piú comodamente proibire l'entrare in Pisa. Collocoronne una parte a Mezzana fuora della porta alle Piaggie, la seconda a San Piero a Reno e a San Iacopo opposita alla porta di Lucca, la terza presso all'antichissimo tempio di San Piero in Grado che è tra Pisa e la foce d'Arno, e in ciascuno campo, bene fortificato, oltre a' cavalli mille fanti; e per guardare meglio la via de' monti, per la strada di Val d'Osole che va al monte a San Giuliano, si fece verso lo Spedale magno uno bastione capace di dugento cinquanta fanti: donde cresceva ogni dí la penuria de' pisani. I quali, cercando di ottenere con le fraudi quello che già disperavano di potere ottenere con la forza, ordinorno che Alfonso del Mutolo, giovane pisano di bassa condizione (il quale stato preso non molto prima da' soldati de' fiorentini avea ricevuto grandissimi benefici da colui [di] cui prigione era stato), offerisse per mezzo suo di dare furtivamente la porta che va a Lucca; disegnando, nel tempo medesimo che 'l campo che era a San Iacopo andasse di notte per riceverla, non solamente, messane dentro una parte, opprimere quella ma nel tempo medesimo assaltare uno degli altri campi de' fiorentini, i quali secondo l'ordine dato si avevano ad accostare piú presso alla città. I quali essendosi accostati, ma non con temerità né con disordine, i pisani non conseguirno altro di questo trattato che la morte di pochi uomini che si condusseno nello antiporto per entrare nella città al segno dato: tra' quali fu morto Canaccio da Pratovecchio (cosí si chiamava quello di cui era stato prigione Alfonso del Mutolo), quello sotto la confidenza di chi era stato tenuto il trattato e vi morí anche d'una artiglieria Paolo da Parrano capitano di una compagnia di cavalli leggieri de' fiorentini. La quale speranza mancata, né entrando piú in Pisa se non piccolissima quantità di grani, e quegli occultamente e con grandissimo pericolo di quei che ve gli conducevano, né comportando i fiorentini che di Pisa uscissino bocche disutili, perché facevano vari supplíci a coloro che ne uscivano, si comperavano con prezzo smisurato le cose necessarie al vivere umano; e non ve ne essendo tante che bastassino a tutti, molti già si morivano per non avere da alimentarsi. E nondimeno era maggiore di tanta necessità l'ostinazione di quegli cittadini che erano capi del governo; i quali, disposti a vedere prima l'ultimo esterminio della patria che cedere a sí orribile necessità, andavano di giorno in giorno differendo il convenire, ingegnandosi di dare alla moltitudine ora una speranza ora un'altra; e sopratutto che, aspettandosi a ogni ora Cesare in Italia, sarebbono i fiorentini necessitati a discostarsi dalle loro mura. Ma una parte de' contadini, e quegli massime che, stati a Piombino, avevano compreso quale fusse l'animo loro, fatta sollevazione gli costrinse a introdurre nuove pratiche co' fiorentini: le quali trattate con Alamanno Salviati, commissario di quella parte dello esercito che alloggiava a San Piero in Grado, dopo varie dispute, usando continuamente quegli medesimi ogni possibile diligenza per interrompere, si conchiuse. E nondimeno la concordia fu fatta con condizioni molto favorevoli per i pisani: conciossiaché fussino rimessi loro non solo tutti i delitti fatti ma ancora concesse molte esenzioni, rimessi tutti i debiti publici e privati, e assoluti dalla restituzione de' beni mobili de' fiorentini che avevano rapiti quando si ribellorono. Tanto era il desiderio che avevano i fiorentini di insignorirsene, tanto il timore che da Massimiliano, che aveva nella lega di Cambrai nominato i pisani, benché dal re di Francia non fusse accettata la nominazione, o da altro luogo, non sopravenisse qualche insperato impedimento che, ancora che fussino certi che i pisani erano necessitati fra pochissimi dí cedere alla fame, vollono piú presto assicurarsene con inique condizioni che, per ottenerla senza convenzione alcuna, rimettere niente della certezza alla fortuna. La quale concordia, benché cominciata a trattarsi nel campo, fu dipoi dagli imbasciadori pisani trattata e conchiusa in Firenze: e in questo fu memorabile la fede de' fiorentini che, ancorché pieni di tanto odio ed esacerbati da tante ingiurie, non furono manco costanti nell'osservare le cose promesse che facili e clementi nel concederle.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.9

                                                  

                                                 Risveglio di speranze e di attività ne' veneziani; riconquista di Padova, del contado e della fortezza di Legnago. Nuove convenzioni fra il pontefice e il re di Francia. I veneziani occupano Isola della Scala e fanno prigioniero il marchese di Mantova. Modeste azioni di guerra e grandiosi progetti di Massimiliano. Vicende della lotta nel Friuli. Umile atteggiamento degli ambasciatori veneziani in Roma e loro trattative coi cardinali.

                                                  

                                                 È certo che il re de' romani sentí con non piccola molestia l'essersi sottomessi i pisani, perché si era persuaso o che il dominio di quella città gli avesse a essere potente instrumento a molte occasioni o che il consentirla a' fiorentini gli avesse a fare ottenere da loro quantità non mediocre di danari: per mancamento de' quali lasciava cadere le amplissime occasioni che, senza fatica o industria sua, se gli erano offerte. Le quali mentre che sí debolmente aiuta che in Vicenza e Padova non era quasi soldato alcuno per lui, ed egli, con la sua tardità raffreddando la caldezza degli uomini delle terre, si trasferisce con poca gente, spesso e con presta variazione, da luogo a luogo, i viniziani non pretermetterono l'opportunità che se gli offerse di recuperare Padova, indotti a questo da molte ragioni: perché lo avere ritenuto Trevigi gli aveva fatto riconoscere quanto fusse stato inutile l'avere con sí precipitoso consiglio disperato sí subito dello imperio di terra ferma, e perché per la tardità degli apparati di Massimiliano si temeva manco l'uno dí che l'altro di lui; stimolati ancora non poco perché volendo condurre a Vinegia le entrate de' beni che i particolari viniziani tenevano, molti, nel contado di Padova, era stato dinegato dai padovani. In modo che, congiunto lo sdegno dei privati con la utilità publica, e invitandogli il sapere Padova essere male provista di gente, e che, per le insolenze che i gentiluomini di Padova usavano con la plebe, molti ricordatisi della moderazione del governo viniziano cominciavano a desiderare il primo dominio, deliberorono fare esperienza di recuperarla; e a questo dava loro occasione non piccola che la piú parte de' contadini del padovano era ancora a loro divozione. E perciò fu stabilito che Andrea Gritti, uno de' proveditori, lasciato a dietro l'esercito che era di quattrocento uomini d'arme piú di dumila tra stradiotti e cavalli leggieri e cinquemila fanti, andasse a Novale nel padovano, e unitosi nel cammino con una parte de' fanti che, accompagnati da molti contadini, erano stati mandati alla villa di Mirano si dirizzasse verso Padova per assaltare la porta di Codalunga; e che nel tempo medesimo dumila villani con trecento fanti e alcuni cavalli assaltassino, per confondere piú gli animi di quegli di dentro, il portello che è nella parte opposita della città: e che, per occultare piú questi pensieri, Cristoforo Moro, l'altro proveditore, dimostrasse di andare a campo alla terra di Cittadella. Il quale disegno bene ordinato non ebbe però maggiore ordine che felicità. Perché i fanti, arrivati a grande ora del dí, trovorno la porta di Codalunga mezza aperta, perché poco innanzi erano per sorte entrati dentro per quella alcuni contadini con carri carichi di fieno; in modo che occupatala senza alcuna difficoltà, e aspettata senza fare strepito la venuta delle altre genti che erano vicine, furono non solo entrate prima dentro, anzi quasi condotte in su la piazza, che in quella città, grandissima di circuito e vota di abitatori, fusse sentito il romore: camminando innanzi a tutti il cavaliere della Volpe co' cavalli leggieri, e il Zitolo di Perugia e Lattanzio da Bergamo con parte de' fanti. Ma pervenuto il romore alla cittadella, il Dressina governatore di Padova in nome di Massimiliano, con trecento fanti tedeschi che soli erano a quella guardia, uscí in piazza, e 'l medesimo fece con cinquanta cavalli Brunoro da Serego; aspettando se, col sostenere quivi lo impeto degli inimici, quegli che in Padova amavano lo imperio tedesco pigliassino l'armi in loro favore. Ma era vana questa e ogni altra speranza, perché nella città, oppressa da sí subito tumulto e nella quale era già entrata molta gente, nessuno faceva movimento; in modo che, abbandonati da ciascuno, furono in breve spazio di tempo, con perdita di molti de' suoi, costretti a ritirarsi nella rocca e nella cittadella; le quali essendo poco munite bisognò che in spazio di poche ore si arrendessino liberamente. E cosí, fattesi le genti viniziane padrone del tutto, attesono ad acquietare il tumulto e salvare la città; la maggiore parte della quale, per la imprudenza e insolenza d'altri, era diventata loro benevola: non avendo ricevuto danno se non le case degli ebrei e alcune case di padovani che si erano scoperti prima inimici del nome viniziano. Il quale dí, dedicato a santa Marina, è ogni anno in Vinegia, per deliberazione publica, celebrato solennemente, come dí felicissimo e principio della recuperazione del loro imperio. Commossesi alla fama di questa vittoria tutto il paese circostante; ed era grandissimo pericolo che Vicenza non facesse per se stessa il medesimo se Costantino di Macedonia, che a caso era quivi vicino, non vi fusse entrato con poca gente. Recuperata Padova, i viniziani recuperorno subito tutto il contado, avendo in favore loro la inclinazione della gente bassa delle terre e de' contadini; recuperorono ancora col medesimo impeto la terra e le fortezze di Lignago, terra molto opportuna a perturbare tutti i contadi di Verona di Padova e di Vicenza. Tentorno oltre a questo di pigliare la torre Marchesana distante otto miglia da Padova, passo opportuno a entrare nel Pulesine di Rovigo e offendere il paese di Mantova; ma non l'ottennono, perché il cardinale da Esti la soccorse con gente e con artiglierie.

                                                 Non ritardò il caso di Padova, come molti aveano creduto, la ritornata del re di Francia di là da' monti; il quale, mentre partiva, fece nella terra di Biagrassa col cardinale di Pavia, legato del pontefice, nuove convenzioni. Per le quali il pontefice e il re, obligatisi alla protezione l'uno dell'altro, convennono di potere ciascuno di loro con qualunque altro principe convenire, purché non fusse in pregiudicio della presente confederazione. Promesse il re non tenere protezioni, né accettarne in futuro, di alcuno suddito o feudatario o che dependesse mediatamente o immediatamente dalla Chiesa, annichilando espressamente tutte quelle che insino a quel dí avesse ricevute: promessa poco conveniente all'onore di tanto re, perché non molto innanzi essendo venuto a lui il duca di Ferrara, con tutto che prima si fusse sdegnato che senza sua saputa avesse accettato il gonfalonierato della Chiesa, riconciliatosi seco e ricevuti trentamila ducati, l'avea ricevuto nella sua protezione. Convenneno che i vescovadi che allora vacavano in tutti gli stati del re ne disponesse ad arbitrio suo il pontefice, ma che quegli che in futuro vacassino si conferissino secondo la nominazione che ne farebbe il re; al quale per sodisfare piú, mandò il pontefice per il medesimo cardinale di Pavia al vescovo di Albi le bolle del cardinalato, promettendo dargli le insegne di quella degnità subito che andasse a Roma. Fatta questa convenzione, il re senza dilazione si partí d'Italia, riportandone in Francia gloria grandissima per la vittoria tanto piena e acquistata con tanta celerità contro a' viniziani: e nondimeno, come nelle cose che dopo lungo desiderio s'ottengono non truovano quasi mai gli uomini né la giocondità né la felicità che prima s'aveano immaginata, non riportò né maggiore quiete di animo né maggiore sicurtà alle cose sue; anzi si vedeva preparata materia di maggiori pericoli e alterazioni, e piú incerto l'animo suo di quel che, negli accidenti nuovamente nati, avesse a deliberare. Se a Cesare succedevano le cose prosperamente temeva molto piú di lui che prima non avea temuto de' viniziani. Se la grandezza de' viniziani cominciava a risorgere era necessitato stare in continui sospetti e in continue spese per conservare le cose tolte loro: né questo solamente, ma gli bisognava con gente e con danari aiutare Cesare, perché abbandonandolo avea da sospettare che non si congiugnesse co' viniziani contro a lui, con timore che al medesimo non concorresse il re cattolico e per avventura il pontefice; né bastavano aiuti mediocri a conservargli l'amicizia di Cesare, ma bisognava fussino tali che ottenesse la vittoria contro a' viniziani; l'aiutarlo potentemente, oltre che con gravissimo dispendio si faceva, lo rimetteva ne' medesimi pericoli della grandezza di Cesare. Le quali difficoltà considerando, era stato sospeso da principio se gli dovesse essere grata o molesta la mutazione di Padova; benché poi, contrapesando la sicurtà che gli potesse partorire l'essere privati i viniziani dello imperio di terra ferma con le molestie e pericoli che egli temeva dalla grandezza del re de' romani, e con la speranza d'avere a ottenere da lui per mezzo delle sue necessità, con danari, la città di Verona, la quale sommamente desiderava, come opportuna a impedire i movimenti che si facessino in Germania, riputava finalmente piú sicuro e piú utile per sé che le cose rimanessino in tale stato che, dovendo verisimilmente essere lunga guerra tra Cesare e i viniziani, l'una parte e l'altra, affaticata dalle spese continue, ne divenisse piú debole: confermato molto piú in questa sentenza quando ebbe convenuto col pontefice, perché sperò dovere avere seco, stabile confederazione e amicizia. Lasciò nondimeno a' confini del veronese, sotto la Palissa, settecento lancie perché seguissino la volontà di Cesare; cosí per la conservazione delle cose acquistate come per ottenere quel che ancora possedevano i viniziani: per la andata de' quali a Vicenza, secondo il comandamento che ebbono da Cesare, si assicurò la città di Verona, la quale per il piccolo presidio che vi era dentro stava con non mediocre sospetto; e l'esercito de' viniziani che era andato a campo a Cittadella se ne partí.

                                                 Succedette innanzi alla partita del re un altro accidente favorevole a' viniziani, perché correndo continuamente i cavalli loro, che erano in Lignago, per tutto il paese e insino in sulle porte di Verona e facendo danni grandissimi, a' quali le genti che erano in Verona, per non vi essere piú di dugento cavalli e settecento fanti, non potevano resistere, il vescovo di Trento governatore per Cesare in quella città, deliberando porvi il campo, chiamò il marchese di Mantova; il quale, per aspettare le preparazioni che si facevano, fermatosi, con la compagnia de' cavalli che aveva dal re, all'Isola della Scala, casale grande in veronese non circondato di mura né di alcuna fortificazione, mentre sta quivi senza sospetto, fu esempio notabile a tutti i capitani quanto in ogni luogo e in ogni tempo debbino stare vigilanti e ordinati, e in modo possino confidarsi delle forze proprie, non si assicurando né per la lontananza né per la debolezza degli inimici. Perché essendosi il marchese convenuto con alcuni stradiotti dell'esercito de' viniziani che venissino a trovarlo in quel luogo per fermarsi agli stipendi suoi, e avendo essi, insino dal principio che furno ricercati da lui, manifestata la cosa a' loro capitani, e però essendosi dato ordine con questa occasione di assalirlo all'improviso, Luzio Malvezzo con dugento cavalli leggieri e il Zitolo da Perugia con ottocento fanti, venuti occultamente da Padova a Lignago e unitisi con le genti che erano a Lignago e con mille cinquecento de' contadini del paese, e mandati innanzi alcuni cavalli che con spesse voci gridassino Turco (era questo il cognome del marchese) per fare credere che fussino gli stradiotti aspettati, si condussono non sospettando alcuno, la mattina destinata in sul fare del dí all'Isola della Scala; ove entrati senza resistenza, trovando senza guardia alcuna tutti i soldati e gli altri che servivano e seguitavano il marchese a dormire, gli messono in preda, ove tra gli altri rimase prigione Boisí luogotenente del marchese nipote del cardinale di Roano; e il marchese, sentito il romore, essendo fuggito quasi ignudo per una finestra e occultatosi in un campo di saggina, fu manifestato agli inimici da uno contadino del luogo medesimo, il quale, anteponendo il comodo de viniziani alla propria utilità, secondo l'ardore comune degli altri del paese, mentre che simulatamente, udite l'offerte grandissime che 'l marchese gli faceva, dimostrava di attendere a salvarlo, fece il contrario: onde menato a Padova e poi a Vinegia, fu con allegrezza inestimabile di tutta la città incarcerato nella torretta del palagio publico.

                                                 Non aveva insino a ora impedito né impediva Cesare in parte alcuna i progressi de' viniziani, non avendo avuto insieme forze bastanti ad alloggiare in sulla campagna, ed essendo stato occupato molti dí nella montagna di Vicenza, ove i villani affezionati al nome viniziano, confidatisi nella asprezza de' luoghi, se gli erano manifestamente ribellati; e scendendo dipoi nella pianura, essendo già seguita la rebellione di Padova, fu non senza suo pericolo assalito da numero infinito di paesani che l'aspettavano a uno passo forte: onde avendogli scacciati venne alla Scala nel vicentino, ove l'esercito de' viniziani avea recuperata gran parte del contado di Vicenza; ed espugnata Serravalle, passo importante, avea usata crudeltà grande contro a' tedeschi: il quale luogo recuperando pochi dí poi Massimiliano, usò contro a' fanti italiani e contro agli uomini del paese la medesima crudeltà. Cosí, non essendo ancora maggiori le forze sue, si occupava in piccole imprese, procedendo all'espugnazione ora di questo castello ora di quello, con poca degnità e riputazione del nome cesareo; proponendo nel tempo medesimo agli altri confederati, come sempre erano maggiori i concetti suoi che le forze e l'occasioni, che si attendesse con le forze di tutti a occupare la città di Vinegia, usando oltre all'armi di terra l'armate marittime de' re di Francia e di Aragona e le galee del pontefice, che allora erano congiunte insieme. Alla qual cosa, non trattata nella confederazione fatta a Cambrai, arebbe acconsentito il re di Francia, pure che si proponessino condizioni tali che l'acquistarla risultasse in beneficio comune; ma era cosa molesta al pontefice, e la quale, e allora e in altro tempo che piú lungamente si trattò, fu sempre contradetta dal re cattolico, detestandola, perché gli pareva utile al re di Francia, sotto colore di essere cosa ingiustissima e inonestissima.

                                                 Ma mentre che dall'armi tedesche e italiane sono cosí vessati i contadi di Padova di Vicenza e di Verona, era ancora piú miserabilmente lacerato il paese del Friuli e quello che in Istria ubbidiva a' viniziani. Perché essendo per commissione di Cesare entrato nel Friuli il principe di Analt con diecimila uomini comandati, poi che invano ebbe tentato di pigliare Montefalcone, aveva espugnata la terra e la fortezza di Cadoro con uccisione grande di quegli che la difendevano; e all'incontro alcuni cavalli leggieri e fanti de' viniziani, seguitati da molti del paese, presono per forza la terra di Valdisera e per accordo Bellona, ove non era guardia di tedeschi; e da altra parte il duca di Brunsvich mandato medesimamente da Cesare, non avendo potuto ottenere Udine terra principale del Friuli, era andato a campo a Civitale d'Austria, terra situata in luogo eminente in sul fiume Natisone; a guardia della quale era Federico Contareno, con piccolo presidio ma confidatosi nelle forze del popolo dispostissimo a difendersi: al cui soccorso venendo con ottocento cavalli e cinquecento fanti Giampaolo Gradanico, proveditore del Friuli, fu messo in fuga dalle genti tedesche; e nondimeno, ancora che avessino battuta Civitale con l'artiglieria, non potettono, né con l'assalto feroce che gli dettono né con la fama di avere rotti coloro che venivano a soccorrerla, espugnarla. E in Istria Cristoforo Frangiapane roppe al castello di Verme gli ufficiali de' viniziani, seguitati dalle genti del paese; con l'occasione del quale successo prospero fece per tutto il paese grandissimi danni e incendi, e occupò Castelnuovo e la terra di Raspruchio. Però i viniziani mandorno Angelo Trivisano, capitano della armata loro, con sedici galee; il quale, presa per forza nella prima giunta la terra di Fiume, tentò di occupare la città di Triesti, ma non gli succedendo, ricuperò per forza Raspruchio, e dipoi si ritirò colle galee verso Vinegia: rimanendo lacrimabile lo stato del Friuli e della Istria, perché essendovi piú potenti ora i viniziani ora i tedeschi, quelle terre che prima avea preso e saccheggiato l'uno recuperava e saccheggiava poi l'altro; accadendo molte volte questo medesimo: di modo che, essendo continuamente in preda le facoltà e la vita delle persone, tutto 'l paese orribilmente si consumava e distruggeva.

                                                 Ne' quali accidenti dell'armi temporali si disputava in Roma sopra l'armi spirituali: ove, insino innanzi alla recuperazione di Padova, erano entrati con abito e con parole miserabili i sei oratori del senato viniziano; i quali, essendo consueti a entrarvi con pompa e fasto grandissimo e concorrendo loro incontro tutta la corte, non solo non erano stati né onorati né accompagnati, ma entrativi, perché cosí volle il pontefice, di notte né ammessi al cospetto suo, andavano a trattare in casa il cardinale di Napoli, con lui e con altri cardinali e prelati deputati; opponendosi grandemente perché non ottenessino l'assoluzione dalle censure gl'imbasciadori del re de' romani del re cristianissimo e del re cattolico, e in contrario affaticandosi per loro palesemente l'arcivescovo eboracense, mandato per questa cagione principalmente da Enrico ottavo, succeduto pochi mesi avanti, per la morte di Enrico settimo suo padre, nel regno di Inghilterra.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.8, cap.10

                                                  

                                                 Preparativi de' veneziani per la difesa di Padova; orazione del doge in senato. I giovani della nobiltà veneziana accorrono alla difesa di Padova. Massimiliano corre il contado, mentre la città viene sempre piú fortificata e approvvigionata.

                                                  

                                                 Ma espettazione di cose molto maggiori occupava in questo tempo gli animi di tutti gli uomini: perché Cesare, raccogliendo tutte le forze che per se stesso poteva e che gli erano concedute da molti, si preparava per andare con esercito potentissimo a campo a Padova; e da altra parte il senato viniziano, giudicando consistere nella difesa di quella città totalmente la salute sua, attendeva con somma diligenza alle provisioni necessarie a difenderla, avendovi fatto entrare, da quelle genti in fuora che erano deputate alla guardia di Trevigi, l'esercito loro con tutte quelle forze che da ogni parte aveano potute raccorre, e conducendovi numero infinito d'artiglierie di qualunque sorte, vettovaglie d'ogni ragione bastanti a sostentargli molti mesi, moltitudine innumerabile di contadini e di guastatori; co' quali, oltre all'avere con argini e con copia grande di legnami e di ferramenti riparato per non essere privati dell'acque che appresso alla terra di Limini si divertono a Padova, aveano fatto alle mura della città e faceano continuamente maravigliose fortificazioni. E con tutto che le provisioni fussino tali che quasi maggiori non si potessino desiderare, nondimeno in caso tanto importante era inestimabile la sollecitudine e la ansietà di quel senato, non cessando dí e notte i senatori di pensare, di ricordare e di proporre le cose che credevano che fussino opportune. Delle quali trattandosi continuamente nel senato, Lionardo Loredano loro doge, uomo venerabile per l'età e per la degnità di tanto grado, nel quale era già seduto molti anni, levatosi in piedi parlò in questa sentenza:

                                                 - Se, come è manifestissimo a ciascuno, prestantissimi senatori, nella conservazione della città di Padova consiste non solamente ogni speranza di potere mai recuperare il nostro imperio ma ancora di conservare la nostra libertà, e per contrario se dalla perdita di Padova ne seguita, come è certissimo, l'ultima desolazione di questa patria, bisogna di necessità confessare che le provisioni e preparazioni fatte insino a ora, ancorché grandissime e maravigliose, non siano sufficienti, né per quello che si conviene per la sicurtà di quella città né per quello che si appartiene alla degnità della nostra republica; perché in una cosa di tanta importanza e di tanto pericolo non basta che i provedimenti fatti siano tali che si possa avere grandissima speranza che Padova s'abbia a difendere, ma bisogna sieno tanto potenti che, per quel che si può provedere con la diligenza e industria umana, si possa tenere per certo che abbino ad assicurarla da tutti gli accidenti che improvisamente potesse partorire la sinistra fortuna, potente in tutte le cose del mondo ma sopra tutte l'altre in quelle della guerra. Né è deliberazione degna della antica fama e gloria del nome viniziano che da noi sia commessa interamente la salute publica, e l'onore e la vita propria e della moglie e figliuoli nostri, alla virtú di uomini forestieri e di soldati mercenari, e che non corriamo noi spontaneamente e popolarmente a difenderla co' petti e con le braccia nostre; perché se ora non si sostiene quella città non rimane a noi piú luogo d'affaticarci per noi medesimi, non di dimostrare la nostra virtú, non di spendere per la salute nostra le nostre ricchezze: però, mentre che ancora non è passato il tempo di aiutare la nostra patria, non debbiamo lasciare indietro opera o sforzo alcuno, né aspettare di rimanere in preda di chi desidera di saccheggiare le nostre facoltà, di bere con somma crudeltà il nostro sangue. Non contiene la conservazione della patria solamente il publico bene, ma nella salute della republica si tratta insieme il bene e la salute di tutti i privati, congiunta in modo con essa che non può stare questa senza quella; perché cadendo la republica e andando in servitú, chi non sa che le sostanze l'onore e la vita de' privati rimangono in preda dell'avarizia della libidine e della crudeltà degli inimici? Ma quando bene nella difesa della republica non si trattasse altro che la conservazione della patria, non è questo premio degno de' suoi generosi cittadini? pieno di gloria e di splendore nel mondo e meritevole appresso a Dio? Perché è sentenza insino de' gentili, essere nel cielo determinato uno luogo particolare il quale felicemente godino in perpetuo tutti coloro che aranno aiutato conservato e accresciuto la patria loro. E quale patria è giammai stata che meriti di essere piú aiutata e conservata da' suoi figliuoli che questa? la quale ottiene e ha ottenuto per molti secoli il principato intra tutte le città del mondo, e dalla quale i suoi cittadini ricevono grandissime e innumerabili comodità utilità e onori: ammirabile se si considerano o le doti ricevute dalla natura, o le cose che dimostrano la grandezza quasi perpetua della prospera fortuna, o quelle per le quali apparisce la virtú e la nobiltà degli animi degli abitatori. Perché è stupendissimo il sito suo; posta, unica nel mondo, tra l'acque salse, e congiunte in modo tutte le parti sue che in uno tempo medesimo si gode la comodità dell'acqua e il piacere della terra; e sicura, per non essere posta in terra ferma, dagli assalti terrestri; sicura, per non essere posta nella profondità del mare, dagli assalti marittimi. E quanto sono maravigliosi gli edifici publici e privati! edificati con incredibile spesa e magnificenza, e pieni di ornatissimi marmi forestieri e di pietre singolari condotte in questa città da tutte le parti del mondo; e quanto ci sono eccellenti le pitture le statue le sculture gli ornamenti de' musaici e di tante bellissime colonne e d'altre cose simiglianti! E quale città si truova al presente ove sia maggiore concorso delle nazioni forestiere? che vengono qui, parte per abitare in questa libera e quasi divina stanza sicuramente, parte per esercitare i loro commerci; onde Vinegia è piena di grandissime mercatanzie e faccende, onde crescono continuamente le ricchezze de' nostri cittadini, onde la republica ha tanta entrata del circuito solo di questa città quanta non hanno molti re degli interi regni loro. Lascio andare la copia de' letterati in ogni scienza e facoltà, la qualità degli ingegni e la virtú degli uomini, dalla quale congiunta con le altre condizioni è nata la gloria delle cose fatte, maggiori da questa republica e dagli uomini nostri che da' romani in qua abbia fatto patria alcuna. Lascio andare quanto sia maraviglioso vedere in una città nella quale non nasca cosa alcuna, e che sia pienissima di abitatori, abbondare ogni cosa. Fu il principio della città nostra ristretto in su questi soli scogli sterili e ignudi, e nondimeno, distesasi la virtú degli uomini nostri prima ne' mari piú vicini e nelle terre circostanti, dipoi ampliatasi con felici successi ne' mari e nelle provincie piú lontane, e corsa insino nell'ultime parti dello Oriente, acquistò per terra e per mare tanto imperio, e tennelo sí lungamente, e ampliò in modo la sua potenza che, stata tempo lunghissimo formidabile a tutte l'altre città d'Italia, sia stato necessario che ad abbatterla siano concorse le fraudi e le forze di tutti i príncipi cristiani: cose certamente procedute con l'aiuto del sommo Dio, perché è celebrata per tutto il mondo la giustizia che si esercita indifferentemente in questa città; per il nome solo della quale molti popoli si sono spontaneamente sottoposti al nostro dominio. Già a quale città, a quale imperio cede di religione e di pietà verso il sommo Dio la patria nostra? ove sono tanti monasteri, tanti templi, pieni di ricchissimi e preziosissimi ornamenti di tanti stupendi vasi e apparati dedicati al culto divino, ove sono tanti ospedali e luoghi pii ne' quali, con incredibile spesa e incredibile utilità de poveri, si esercitano assiduamente le opere della carità? È meritamente per tutte queste cose preposta la patria nostra a tutte l'altre, ma oltre a queste ce n'è una per la quale sola trapassa tutte le laudi e la gloria di se medesima. Ebbe la patria nostra in uno tempo medesimo l'origine sua e la sua libertà, né mai nacque né morí in Vinegia cittadino alcuno che non nascesse e morisse libero, né mai è stata turbata la sua libertà; procedendo tanta felicità dalla concordia civile, stabilita in modo negli animi degli uomini che in uno tempo medesimo entrano nel nostro senato e ne' nostri consigli e depongono le private discordie e contenzioni. Di questo è causa la forma del governo che, temperato di tutti i modi migliori di qualunque specie di amministrazione publica e composta in modo a guisa di armonia, proporzionato e concordante tutto a se medesimo, è durato già tanti secoli, senza sedizione civile senza armi e senza sangue tra i suoi cittadini, inviolabile e immaculato; laude unica della nostra republica, e della quale non si può gloriare né Roma né Cartagine né Atene né Lacedemone, né alcuna di quelle republiche che sono state piú chiare e di maggiore grido appresso agli antichi: anzi appresso a noi si vede in atto tale forma di republica quale quegli che hanno fatto maggiore professione di sapienza civile non seppeno mai né immaginarsi né descrivere. Adunque a tanta e a sí gloriosa patria, stata moltissimi anni antimuro della fede, splendore della republica cristiana, mancheranno le persone de' suoi figliuoli e de' suoi cittadini? e ci sarà chi rifiuti di mettere in pericolo la propria vita e de' figliuoli per la salute di quella? la quale contenendosi nella difesa di Padova, chi sarà quello che neghi di volere personalmente andare a difenderla? E quando bene fussimo certissimi essere bastanti le forze che vi sono, non appartiene egli all'onore nostro, non appartiene egli allo splendore del nome viniziano, che e' si sappia per tutto il mondo che noi medesimi siamo corsi prontissimamente a difenderla e conservarla? Ha voluto il fato di questa città che in pochi dí sia caduto delle mani nostre tanto imperio: nella quale cosa non abbiamo da lamentarci tanto della malignità della fortuna (perché sono casi comuni a tutte le republiche a tutti i regni) quanto abbiamo cagione di dolerci che, dimenticatici della costanza nostra stata insino a quel dí invitta, che perduta la memoria di tanti generosi e gloriosi esempli de' nostri maggiori, cedemmo con troppo subita disperazione al colpo potente della fortuna; né fu per noi rappresentata a' figliuoli nostri quella virtú che era stata rappresentata a noi da' padri nostri. Torna ora a noi l'occasione di recuperare quello ornamento, non perduto, se noi vorremo essere uomini, ma smarrito; perché andando incontro alla avversità della fortuna, offerendoci spontaneamente a' pericoli, cancelleremo la infamia ricevuta; e vedendo non essere perduta in noi l'antica generosità e virtú, si ascriverà piú tosto quel disordine a una certa fatale tempesta (alla quale né il consiglio né la costanza degli uomini può resistere) che a colpa e vergogna nostra. Però, se fusse lecito che tutti popolarmente andassimo a Padova, che senza pregiudicio di quella difesa e delle altre urgentissime faccende publiche si potesse per qualche giorno abbandonare questa città, io primo, senza aspettare la vostra deliberazione, piglierei il cammino; non sapendo in che meglio potere spendere questi ultimi dí della mia vecchiezza che nel partecipare, colla presenza e con gli occhi, di vittoria tanto preclara, o quando pure (l'animo aborrisce di dirlo) morendo insieme con gli altri non essere superstite alla ruina della patria. Ma perché né Vinegia può essere abbandonata da' consigli publici, ne' quali, col consigliare provedere e ordinare, non manco si difende Padova che la difendino con l'armi quegli che sono quivi, e la turba inutile de' vecchi sarebbe piú di carico che di presidio a quella città, né anche, per tutto quello che potesse occorrere, è a proposito spogliare Vinegia di tutta la gioventú, però consiglio e conforto che, avendo rispetto a tutte queste ragioni, si elegghino dugento gentiluomini de' principali della nostra gioventú, de' quali ciascuno, con quella quantità di amici e di clienti atti all'arme che tollereranno le sue facoltà, vadia a Padova, per stare quanto sarà necessario alla difesa di quella terra: due miei figliuoli, con grande compagnia, saranno i primi a eseguire quel che io, padre loro principe vostro, sono stato il primo a proporre; le persone de' quali in sí grave pericolo offerisco alla patria volentieri. Cosí si renderà piú sicura la città di Padova, cosí i soldati mercenari che vi sono, veduta la nostra gioventú pronta alle guardie e a tutti i fatti militari, ne riceveranno inestimabile allegrezza e animosità; certi che, essendo congiunti con loro i figliuoli nostri, non abbia a mancare da noi provisione o sforzo alcuno: la gioventú e gli altri che non andranno, si accenderanno tanto piú con questo esempio a esporsi, sempre che sarà di bisogno, a tutte le fatiche e pericoli. Fate voi, senatori, le parole e i fatti de' quali sono in esempio e negli occhi di tutta la città, fate, dico, a gara, ciascuno di voi che ha facoltà sufficienti, di fare descrivere in questo numero i vostri figliuoli acciò che sieno partecipi di tanta gloria; perché da questo nascerà non solo la difesa sicura e certa di Padova ma si acquisterà questa fama appresso a tutte le nazioni: che noi medesimi siamo quegli che col pericolo della propria vita difendiamo la libertà e la salute della piú degna patria e della piú nobile che sia in tutto il mondo. -

                                                 Fu udito con grandissima attenzione e approvazione, e messo con somma celerità in esecuzione, il consiglio del principe; per il quale il fiore de' nobili della gioventú viniziana, raccolti ciascuno quanti piú amici e familiari atti allo esercizio dell'armi potette, andò a Padova, accompagnati insino che entrorno nelle barche da tutti gli altri gentiluomini e da moltitudine innumerabile, e celebrando ciascuno con somme laudi e con pietosi voti tanta prontezza in soccorso della patria: né con minore letizia e giubilo di tutti furono ricevuti in Padova, esaltando i capitani e i soldati insino al cielo che questi giovani nobili, non esperimentati né alle fatiche né a' pericoli della milizia, preponessino l'amore della patria alla vita propria; e in modo che confortando l'uno l'altro aspettavano con lietissimi animi la venuta di Cesare.

                                                 Il quale, attendendo a raccorre le genti che da molte parti gli concorrevano, era venuto al ponte alla Brenta lontano tre miglia da Padova; e preso per forza Limini e interrotto il corso delle acque, aspettava l'artiglierie le quali, terribili per quantità e per qualità, venivano di Germania. Delle quali essendo condotta una parte a Vicenza, ed essendo andati Filippo Rosso e Federigo Gonzaga da Bozzole con dugento cavalli leggieri per fargli scorta, assaltati da cinquecento cavalli leggieri (che guidati dai villani, i quali in tutta la guerra feciono a' viniziani utilità maravigliosa, erano usciti di Padova) furno rotti presso a Vicenza cinque miglia, e Filippo fatto prigione; e Federigo, con grande fatica, per beneficio della notte, a piede e in camicia si era salvato. Dal ponte alla Brenta Massimiliano si allargò dodici miglia verso il Pulesine di Rovigo per aprirsi meglio la comodità delle vettovaglie, e preso di assalto e saccheggiato il castello di Esti andò a campo a Monselice; dove, essendo abbandonata la terra che è in piano, spugnò il secondo dí la fortezza situata in su la cima d'uno alto sasso. Ebbe dipoi per accordo Montagnano; donde ritornato verso Padova si fermò al ponte di Bassanello vicino a Padova, dove invano tentò di divertire la Brenta o il Bachiglione, che di quivi si conduce a Padova. Nel quale luogo essendo giunte tutte l'artiglierie e le munizioni che aspettava, e raccolte tutte le genti che erano distribuite in diversi luoghi, si accostò alla terra con tutto l'esercito; e avendo messi quattromila fanti nel borgo che si dice di Santa Croce aveva in animo di assaltarla da quella parte: ma essendo dipoi certificato che la terra in quel luogo era piú forte di sito e di muraglia e statevi fatte maggiori fortificazioni, e ricevendo ancora in quello alloggiamento dalle artiglierie di Padova molto danno, deliberò trasferirsi con tutto lo esercito alla porta del Portello che è volta verso Vinegia, perché gli era riferito la terra esservi piú debole, e per impedire i soccorsi che per terra o per acqua venissino a Padova da Vinegia. Ma non potendo, per lo impedimento de' paludi e di certe acque che inondano il paese, andarvi se non con lungo circuito, venne al ponte di Bovolenta lontano da Padova sette miglia, dove è una tenuta situata in sul fiume del Bachiglione verso la marina tra Padova e Vinegia: nel qual luogo, per essere circondato dalle acque e nella parte piú sicura del padovano, si erano ridotti tremila villani con numero grandissimo di bestiami; i quali, sforzati dalla vanguardia de' fanti spagnuoli e italiani, furono quasi tutti morti o presi. Né si attese, per due dí seguenti, ad altro che a correre tutto il paese insino al mare, pieno di quantità infinita di bestiami; e furono prese nella Brenta molte barche, che cariche di vettovaglie andavano a Padova: tanto che, finalmente, il quintodecimo dí del mese di settembre, avendo consumato tanto tempo inutilmente e dato spazio agli inimici di fortificarla ed empierla di vettovaglie, si accostò alle mura di Padova allato alla porta del Portello.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.11

                                                  

                                                 Importanza del dominio di Padova per i veneziani. Forze degli avversari e fortificazioni di Padova. Assalti de' soldati di Massimiliano alle mura e valorosa difesa de' veneziani. Ritirata dell'esercito di Massimiliano; querele di questo contro gli alleati. Accordi fra Massimiliano e gli ambasciatori fiorentini. Le truppe francesi si ritirano nel ducato di Milano; i veneziani rifiutano la tregua con Massimiliano.

                                                  

                                                 Non aveva mai, né in quella età né forse in molte superiori, veduto Italia tentarsi oppugnazione che fusse di maggiore espettazione e piú negli occhi degli uomini, per la nobiltà di quella città e per gli effetti importanti che dal perderla o vincerla resultavano. Conciossiaché Padova, nobilissima e antichissima città e famosa per l'eccellenza dello studio, cinta da tre ordini di mura e per la quale corrono i fiumi di Brenta e di Bachiglione, è di circuito tanto grande quanto forse sia alcuna altra delle maggiori città d'Italia; situata in paese abbondantissimo, ove è aria salubre e temperata, e benché stata allora piú di cento anni depressa sotto l'imperio de' viniziani, che ne spogliorno quegli della famiglia di Carrara, ritiene ancora superbi e grandi edifici e molti segni memorabili di antichità, da' quali si comprende la pristina sua grandezza e splendore: e dallo acquisto e difesa di tanta città dipendeva non solamente lo stabilimento o debolezza dello imperio de' tedeschi in Italia ma ancora quello che avesse a succedere della città propria di Vinegia. Perché difendendo Padova poteva facilmente sperare quella republica, piena di grandissime ricchezze e unita con animi prontissimi in se medesima né sottoposta alle variazioni alle quali sono sottoposte le cose de' príncipi, avere in tempo non molto lungo a recuperare grande parte del suo dominio; e tanto piú che la maggiore parte di quegli che avevano desiderato le mutazioni, non vi avendo trovato dentro effetti corrispondenti a' suoi pensieri, e conoscendosi per la comparazione quanto fusse diverso il reggimento moderato de' viniziani da quello de' tedeschi alieno da' costumi degli italiani e disordinato maggiormente per le confusioni e danni della guerra, cominciavano a voltare gli occhi all'antico dominio: e per contrario, perdendosi Padova, perdevano i viniziani interamente la speranza di reintegrare lo splendore della sua republica; anzi era grandissimo pericolo che la città medesima di Vinegia, spogliata di tanto imperio e vota di molte ricchezze per la diminuzione delle entrate publiche e per la perdita di tanti beni che i privati possedevano in terra ferma, o non potesse difendersi dalle armi de' príncipi confederati o almeno non diventasse, in progresso di tempo, preda non meno de' turchi (co' quali confinano per tanto spazio, e hanno sempre con loro o guerra o pace infedele e male sicura) che de' príncipi cristiani.

                                                 Ma non era minore l'ambiguità degli uomini: perché gli apparati potentissimi che da ciascuna delle parti si dimostravano tenevano molto sospesi i giudici comuni, incertissimi quale avesse ad avere effetto piú felice, o l'assalto o la difesa. Perché nell'esercito di Cesare, oltre alle settecento lancie del re di Francia le quali governava la Palissa, erano dugento uomini d'arme mandatigli in aiuto dal pontefice, dugento altri mandatigli dal duca di Ferrara sotto il cardinale da Esti, benché ancora non fussino composte le differenze tra loro, e sotto diversi condottieri secento uomini d'arme italiani soldati da lui. Né era minore il nerbo del peditato che de' cavalli, perché aveva diciottomila tedeschi seimila spagnuoli seimila venturieri di diverse nazioni e duemila italiani menatigli e pagati dal cardinale da Esti nel medesimo nome. Seguitavalo apparato stupendo di artiglierie e copia grande di munizioni, della quale una parte gli avea mandata il re di Francia. E benché i soldati suoi propri la piú parte del tempo non ricevessino danari, nondimeno, per la grandezza e autorità di tanto capitano, e per la speranza di pigliare e saccheggiare Padova e d'avere poi in preda tutto quello che ancora possedevano i viniziani, non per questo l'abbandonavano; anzi continuamente augumentava ogni dí il numero, sapendosi massime per ciascuno che egli, di natura liberalissimo e pieno di umanità co' suoi soldati, mancava di pagargli non per avarizia e volontà ma per impotenza. Era cosí potente l'esercito cesareo, benché raccolto non solo delle forze sue ma eziandio degli aiuti e forze d'altri; ma non era manco potente, per quanto fusse necessario alla difesa di Padova, l'esercito che per i viniziani si ritrovava in quella città. Perché vi erano seicento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri mille cinquecento stradiotti, sotto famosi ed esperti capitani: il conte di Pitigliano preposto a tutti, Bernardino dal Montone, Antonio de' Pii, Luzio Malvezzo, Giovanni Greco e molti condottieri minori. Aggiugnevansi a questa cavalleria dodicimila fanti de' piú esercitati e migliori di Italia, sotto Dionigi di Naldo, il Zitolo da Perugia, Lattanzio da Bergamo, Saccoccio da Spoleto e molti altri conestabili; diecimila fanti tra schiavoni greci e albanesi, tratti da le loro galee, ne' quali benché fusse molta turba inutile e quasi collettizia ve ne era pure qualche parte utile. Oltre a questi, la gioventú viniziana con quegli che l'aveano seguitata; la quale benché fusse piú chiara per la nobiltà e per la pietà verso la patria, nondimeno, per offerirsi prontamente a' pericoli e per l'esempio che faceva agli altri, non era di piccolo momento. Abbondavanvi, oltra alle genti, tutte l'altre provisioni necessarie: numero grandissimo d'artiglierie, copia maravigliosa di vettovaglie d'ogni sorte (non essendo stati meno solleciti i paesani a ridurle quivi per sicurtà loro che gli ufficiali viniziani in provedere e comandare che assiduamente ve ne entrassino) e moltitudine quasi innumerabile di contadini, i quali condotti a prezzo non cessavano mai di lavorare; talmente che quella città, fortissima per la virtú e per tanto numero di difensori, era stata riparata e fortificata maravigliosamente a quello circuito delle mura che circonda tutta la città; avendo alzata, a grande altezza per tutto il fosso, l'acqua che corre intorno alle mura di Padova, e fatti a tutte le porte della terra e in altri luoghi opportuni molti bastioni, dalla parte di fuora ma congiunti alle mura e che avevano l'entrata dalla parte di dentro; co' quali pieni di artiglierie si percotevano quegli che fussino entrati nel fosso: e nondimeno, acciò che la perdita de' bastioni non potesse portare pericolo alla terra, a tutti, dalla parte di sotto, avevano fatto una cava con bariglioni pieni di molta polvere, per potergli disfare e gittare in aria quando non si potessino piú difendere. Né confidandosi totalmente alla grossezza e bontà del muro antico, con tutto che prima l'avessino diligentemente riveduto e dove era di bisogno riparato, e tagliato tutti i merli, fatti dal lato di dentro, per quanto gira la città tutta, steccati con alberi e altri legnami distanti dal muro quanto era la sua grossezza, empierono questo vano, insino all'altezza del muro, di terra consolidatavi con grandissima diligenza. La quale opera maravigliosa e di fatica inestimabile, e nella quale si era esercitata moltitudine infinita d'uomini, non assicurando ancora alla sodisfazione intera di chi era disposto a difendere quella città, avevano, dopo il muro cosí ingrossato e raddoppiato, cavato uno fosso alto e largo sedici braccia; il quale, ristringendosi nel fondo e avendo per tutto casematte e torrioncelli pieni di artiglieria, pareva impossibile a pigliare: ed erano quegli edifici, a esempio de' bastioni, con avere la cava di sotto, disposti in modo da potersi facilmente con la forza del fuoco rovinare. E nondimeno, per essere piú preparati a ogni caso, alzorono dopo il fosso uno riparo della medesima o maggiore larghezza, che si distendeva quanto tutto il circuito della terra, da pochi luoghi infuora a' quali si conosceva essere impossibile piantare l'artiglieria; innanzi al quale riparo feciono uno parapetto di sette braccia, che proibiva che quegli che fussino a difesa del riparo non potessino essere offesi dall'artiglierie degli inimici. E perché a tanti apparati e fortificazioni corrispondessino prontamente gli animi de' soldati e degli uomini della terra, il conte di Pitigliano, convocatigli in su la piazza di Santo Antonio e confortatigli con gravi e virili parole alla salute e onore loro, astrinse se medesimo con tutti i capitani e con tutto l'esercito e i padovani a giurare solennemente di perseverare insino alla morte fedelmente nella difesa di quella città.

                                                 Con tanto apparato adunque, e contro a tanto apparato, condottosi l'esercito di Cesare sotto le mura di Padova, si distese dalla porta del Portello insino alla porta d'Ognisanti che va a Trevigi, e dipoi si allargò insino alla porta di Codalunga che va a Cittadella, contenendo per lunghezza di tre miglia. Egli, alloggiato nel monasterio di beata Elena distante per uno quarto di miglio dalle mure della città, e quasi in mezzo della fanteria tedesca, avendo distribuito a ciascuno secondo la diversità degli alloggiamenti e delle nazioni quel che avessino a fare, cominciò a fare piantare l'artiglierie; le quali per essere tante di numero e alcuna di smisurata e quasi stupenda grandezza, e per essere molto infestato dalle artiglierie di dentro tutto il campo e specialmente i luoghi dove si cercava di piantare, non si potette fare senza lunghezza di tempo e difficoltà: con tutto che egli invitto di animo, e di corpo pazientissimo alle fatiche, scorrendo il dí e la notte per tutto e intervenendo personalmente a tutte le cose, stimolasse con grandissima sollecitudine che le opere si conducessino alla perfezione. Era piantata il quinto dí quasi tutta l'artiglieria, e il dí medesimo i franzesi e i fanti tedeschi, da quella parte alla quale era preposto la Palissa, dettono uno assalto a uno rivellino della porta, ma piú per tentare che per combattere ordinatamente; onde, vedendo che era difeso animosamente, si ritirorno senza molta dilazione agli alloggiamenti. Tirava il dí seguente per tutto ferocemente l'artiglieria; la maggiore parte della quale, per la grossezza sua e per la quantità grande della polvere che se gli dava, passati i ripari, ruinava le case prossime alle mura; e già in molte parti era gittato in terra spazio grandissimo di muraglia, e quasi spianato uno bastione fatto alla porta di Ognisanti: né per ciò appariva segno alcuno di timore in quegli di dentro, i quali infestavano con l'artiglierie tutto l'esercito; e gli stradiotti, i quali alloggiati animosamente ne' borghi aveano recusato di ritirarsi ad alloggiare nella città, e i cavalli leggieri, correndo continuamente per tutto, ora correvano, quando dinanzi quando di dietro, insino in su gli alloggiamenti degl'inimici, ora assalivano le scorte del saccomanno e delle vettovaglie, ora, scorrendo e predando per tutto il paese, rompevano tutte le vie, eccetto quella che va da Padova al monte di Abano. E nondimeno il campo era copioso di vettovaglie, delle quali si trovavano piene le case e le campagne per tutto; perché né il timore de' paesani né la sollecita diligenza de' viniziani né i danni infiniti de' soldati, da ogni parte, aveano potuto essere pari alla abbondanza grande di quello bellissimo e fertilissimo contado. Uscí ancora fuora di Padova in quei dí Lucio Malvezzo con molti cavalli, per condurre dentro quarantamila ducati mandati da Vinegia; il quale, benché il suo retroguardo fusse assaltato dagli inimici nel ritornare, gli condusse salvi, benché con perdita di qualcuno de' suoi uomini d'arme. Avevano, il nono dí, l'artiglierie fatto tanto progresso che non pareva fusse necessario procedere con esse piú oltre. Però il dí seguente si messe in battaglia, per accostarsi alle mura, tutto l'esercito; ma essendosi accorti che la notte medesima quegli di dentro avevano rialzata l'acqua del fosso che innanzi era stata abbassata, non volendo Cesare mandare le genti a manifestissimo pericolo, ritornò ciascuno agli alloggiamenti. Abbassossi di nuovo l'acqua; e il dí seguente si dette, ma con piccolo successo, uno assalto al bastione che era fatto alla punta della porta di Codalunga: onde Cesare, avendo deliberato di fare somma diligenza di sforzarlo, vi voltò l'artiglieria che era piantata dalla parte de' franzesi, i quali alloggiavano tra le porte di Ognisanti e di Codalunga; con la quale avendone rovinata una parte, vi fece dare dopo due dí l'assalto dai fanti tedeschi e spagnuoli accompagnati da alcuni uomini d'arme a piede, i quali ferocemente combattendo salirono in sul bastione, e vi rizzorono due bandiere. Ma era tale la fortezza del fosso, tale la virtú de' difensori (tra' quali il Zitolo da Perugia combattendo con somma laude fu ferito gravemente), tale la copia degli instrumenti da difendersi, non solo di artiglierie ma di sassi e di fuochi lavorati, che e' furono necessitati impetuosamente scenderne, essendo feriti e morti molti di loro: donde l'esercito, che era ordinato per dare, come si credeva, subito che il bastione fusse spugnato, la battaglia alla muraglia, si disarmò senza avere tentato cosa alcuna.

                                                 Perdé Cesare per questa esperienza interamente la speranza della vittoria; e però, deliberato di partirsene, condotta che ebbe l'artiglieria in luogo sicuro, si ritirò con tutto l'esercito alla terra di Limini che è verso Trevigi, il settimo decimo dí dapoi che si era accampato a Padova, e poi continuamente si condusse in piú alloggiamenti a Vicenza; ove ricevuto il giuramento della fedeltà dal popolo vicentino, e dissoluto quasi tutto l'esercito, andò a Verona: disprezzato, perché non erano successi ma molto piú perché erano, e nello esercito e per tutta Italia, biasimati maravigliosamente i consigli suoi, e non meno le esecuzioni delle cose deliberate. Perché non era dubbio che e il non avere acquistato Trevigi e l'avere perduto Padova era proceduto per colpa sua; similmente, che la tardità del suo venire innanzi avea fatta difficile l'espugnazione di Padova, perché da questo era nato che i viniziani avevano avuto tempo a provedersi di soldati, a empiere Padova di vettovaglie e a fare quelle riparazioni e fortificazioni maravigliose. Né egli negava questa essere stata la cagione che si fusse difesa quella città, ma rimovendo la colpa dalla varietà e da' disordini suoi e trasferendola in altri si lamentava del pontefice e del re di Francia che, con l'avere l'uno di loro concesso l'andare a Roma agli oratori viniziani l'altro avere tardato a mandare il soccorso delle sue genti, avevano dato cagione di credere a ciascuno che si fussino alienati da lui, onde avere preso animo i villani delle montagne di Vicenza a ribellarsi; e che avendo consumato nel domargli molti dí aveva poi trovato per la medesima cagione le medesime difficoltà nella pianura, e che per aprirsi e assicurarsi le vettovaglie e liberarsi da molte molestie era stato necessitato a pigliare tutte le terre del paese: né solamente avergli nociuto in questo la tarda venuta de' franzesi, ma che se fussino venuti al tempo conveniente non sarebbe seguitata la ribellione di Padova; e che questo e l'avere il re di Francia e il re d'Aragona licenziate l'armate di mare aveva poi data facoltà a' viniziani, liberati d'ogni altro timore, di potere meglio provedere e fortificare Padova: querelandosi, oltre a questo, che al re d'Aragona erano grate le sue difficoltà per indurlo piú facilmente [a] consentire che a lui restasse l'amministrazione del regno di Castiglia. Le quali querele non miglioravano le sue condizioni, né gli accrescevano l'autorità perduta per non avere saputo usare sí rare occasioni; anzi, che tale opinione fusse comunemente conceputa di lui era gratissimo al re di Francia, né molesto al pontefice perché, sospettoso e diffidente di ciascuno e considerando quanto sempre fusse bisognoso di danari e importuno a dimandarne, non vedeva volentieri crescere in Italia il nome suo.

                                                 A Verona ricevette similmente il giuramento della fedeltà: e in quella città gl'imbasciadori fiorentini, tra' quali fu Piero Guicciardini mio padre, convennono con lui in nome della loro republica, indotta a questo, oltre all'altre ragioni, da' conforti del re di Francia, di pagargli in brevi tempi quarantamila ducati; per la quale promessa ottennono da lui privilegi in forma amplissima della confermazione cosí della libertà di Firenze come del dominio e giurisdizione delle terre e stati tenevano, con la quietazione di tutto quello gli dovessino per il tempo passato. E avendo Cesare deliberato di tornarsene in Germania, per ordinarsi, secondo diceva, a fare la guerra alla prossima primavera, chiamò a sé Ciamonte per trattare delle cose presenti: al quale, venuto a lui nella villa di Arse nel veronese, dimostrò il pericolo che i viniziani non recuperassino Cittadella e Bassano, i quali luoghi molto importanti, insuperbiti per la difesa di Padova, si preparavano per assaltare; e che 'l medesimo non intervenisse poi di Monselice di Montagnana e di Esti. Essere necessario pensare oltre alla conservazione di queste terre non meno alla recuperazione di Lignago, e che essendo egli per sé solo impotente a fare le provisioni necessarie a questi effetti bisognava fusse aiutato dal re; le cose del quale, non si sostenendo le sue, si mettevano in pericolo. Alle quali dimande non potendo Ciamonte dargli certa risoluzione si rimesse a darne notizia al re, dandogli speranza che la risposta sarebbe conforme al suo desiderio. Da questo parlamento Massimiliano, lasciato a guardia di Verona il marchese di Brandiborgh, andò alla Chiusa. E poco dipoi la Palissa, il quale era rimasto con cinquecento lancie nel veronese, allegando difficoltà degli alloggiamenti e molte incomodità, ottenuta quasi per importunità licenza da lui, si ritirò ne' confini del ducato di Milano; perché la intenzione del re era che avendo a stare le sue genti oziosamente alle guarnigioni stessino nello stato suo, ma che tornassino a servire Massimiliano per fare qualunque impresa gli piacesse, e specialmente quella di Lignago: la quale, desiderata e sollecitata sommamente da lui, si differí per le sue solite difficoltà tanto che essendo sopravenute per la stagione del tempo le pioggie grandi non si poteva piú campeggiare in quello paese, che per la bassezza sua è molto soprafatto dalle acque. Però Cesare, ridotto in queste difficoltà, desiderò di fare per qualche mese tregua co' viniziani: ma essi, pigliando animo da i suoi disordini e vedendolo aiutato cosí freddamente da' collegati, non giudicorno essere a loro proposito il sospendere l'armi.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.12

                                                  

                                                 Dissenso fra il pontefice e il re di Francia. Cause di dissenso fra tutti i collegati per la benevolenza del pontefice verso i veneziani. Discussioni fra il pontefice e gli ambasciatori veneziani.

                                                  

                                                 Ritornossene alla fine Cesare a Trento, lasciate in pericolo grave le cose sue, e lo stato di Italia in non piccola sospensione, perché era nata tra 'l pontefice e il re di Francia nuova contenzione, il principio della quale benché paresse procedere da cagioni leggiere si dubitava non avesse occultamente piú importanti cagioni. Quel che allora si dimostrava era che essendo vacato uno vescovado di Provenza, per la morte del vescovo suo nella corte di Roma, il papa l'aveva conferito contro alla volontà del re di Francia; il quale pretendeva questo essere contrario alla capitolazione fatta tra loro per mezzo del cardinale di Pavia, nella quale, se bene nella scrittura non fusse stato nominatamente espresso che il medesimo si osservasse ne' vescovadi che vacassino nella corte di Roma che in quegli che vacavano negli altri luoghi, nondimeno il cardinale avergliene promesso con le parole: il che negando il cardinale essere vero (forse piú per timore che per altra cagione) e il re affermando il contrario, il pontefice diceva non sapere quello che tacitamente fusse stato trattato, ma che avendo nella ratificazione sua riferitosi a quello che appariva per scrittura, con inserirvi nominatamente capitolo per capitolo, né comprendendo questo il caso quando i vescovi morivano in corte di Roma, non essere tenuto piú oltre. E perciò crescendo la indignazione, il re, disprezzato contro alla sua consuetudine il consiglio del cardinale di Roano, stato sempre autore della concordia col pontefice, fece sequestrare i frutti di tutti i benefici che tenevano nello stato di Milano i cherici residenti nella corte di Roma; e il papa da altra parte ricusava di dare le insegne del cardinalato ad Albi, il quale per riceverle, secondo la promessa fatta al re, era andato a Roma. E con tutto che il pontefice, vinto da' prieghi di molti, disponesse alla fine del vescovado di Provenza secondo la volontà del re e con lui convenisse di nuovo come s'avesse a procedere ne' benefici che nel tempo futuro vacassino nella corte di Roma, e che perciò dall'una parte si liberassino i sequestri fatti, dall'altra concedute le insegne del cardinalato ad Albi, nondimeno non bastavano queste cose a mollificare l'animo del pontefice, esacerbato per molte cose, ma specialmente perché avendo insino dal principio del pontificato conceduta malvolentieri al cardinale di Roano la legazione del regno di Francia, come dannosa alla corte di Roma, e con indegnità sua, gli era molestissimo essere costretto, per non irritare tanto l'animo del re di Francia, consentire la continuasse; e perché, persuadendosi che quel cardinale tendesse con tutti i suoi pensieri e arti al pontificato, sospettava d'ogni progresso e d'ogni movimento de' franzesi.

                                                 Queste erano le cagioni apparenti degli sdegni suoi: ma per quello che si manifestò poi de' suoi pensieri, avendo nell'animo piú alti fini, desiderava ardentissimamente, o per cupidità di gloria o per occulto odio contro al re di Francia o per desiderio della libertà de' genovesi, che 'l re perdesse quel che possedeva in Italia; non cessando di lamentarsi senza rispetto di lui e del cardinale, ma in modo che e' pareva che la sua mala sodisfazione procedesse principalmente da timore. E nondimeno, come era di natura invitto e feroce, e che alla disposizione dell'animo accompagnava il piú delle volte le dimostrazioni estrinseche, ancora che s'avesse proposto nella mente fine di tanto momento e tanto difficile a conseguire, rifidandosi in sé solo e nella riverenza e autorità che conosceva avere appresso a' príncipi la sedia apostolica, non dependente né congiunto con alcuno anzi dimostrando con le parole e con le opere di tenere poco conto di ciascuno, né si congiugneva con Cesare né si ristrigneva col re cattolico, ma salvatico con tutti non dimostrava inclinazione se non a' viniziani; confermandosi ogni dí piú nella volontà di assolvergli, perché giudicava il non gli lasciare perire essere molto a proposito della salute di Italia e della sicurtà e grandezza sua. Alla quale cosa molto efficacemente contradicevano gli oratori di Cesare e del re di Francia; concorrendo con loro in publico al medesimo l'oratore del re d'Aragona, benché, temendo per l'interesse del regno di Napoli della grandezza del re di Francia né confidandosi in Cesare per la sua instabilità procurasse occultissimamente il contrario col pontefice. Allegavano non essere conveniente che il pontefice facesse tanto beneficio a coloro i quali era tenuto a perseguitare con l'armi, atteso che, per la confederazione fatta a Cambrai, era ciascuno de' collegati obligato ad aiutare l'altro insino a tanto che avesse interamente acquistate tutte le cose nominate nella sua parte; dunque, non avendo mai Cesare acquistato Trevigi, non essere ancora alcuno di loro liberato da questa obligazione: oltre che, con giustizia si poteva dinegare l'assoluzione a' viniziani perché né volontari né infra 'l tempo determinato nel monitorio aveano restituite alla Chiesa le terre della Romagna; anzi non avere insino a quest'ora ubbidito interamente, imperocché erano stati ammuniti di restituire oltre alle terre i frutti presi, il che non aveano adempiuto. Ma a queste cose rispondeva il pontefice che, poi che si erano ridotti a penitenza e dimandato con umiltà grande l'assoluzione, non era ufficio del vicario di Cristo perseguitargli piú con l'armi spirituali, in pregiudicio della salute di tante anime, avendo conseguite le terre e cosí cessando la cagione per la quale erano stati sottoposti alle censure; perché la restituzione de' frutti presi era cosa accessoria e inserita piú per aggravare la inubbidienza che per altro, e che non era conveniente venisse in considerazione di tanta cosa. Diversa esser la causa del perseguitargli con l'armi temporali; alle quali, perché aveva nell'animo di perseverare nella lega di Cambrai, si offeriva parato di concorrere insieme cogli altri: benché da questo potesse ciascuno de' confederati giustamente discostarsi, perché dal re de' romani era mancato il non avere Trevigi avendo rifiutato le prime offerte fattegli da' viniziani (quando gli mandorno imbasciadore Antonio Giustiniano) di lasciargli tutto quello possedevano in terra ferma, e perché dipoi gli aveano offerto molte volte di dargli in cambio di Trevigi conveniente ricompensa.

                                                 E cosí, non lo ritenendo le contradizioni degli imbasciadori, lo ritardava solamente la generosità del suo animo; per la quale, ancora che riputasse l'assoluzione de' viniziani utile a sé e opportuna a' fini propostisi, aveva deliberato non la concedere se non con degnità grande della sedia apostolica, e in modo che le cose della Chiesa si liberassino totalmente dalle loro oppressioni: e perciò, recusando i viniziani di cedere a due condizioni le quali oltre a molte altre aveva proposte, differiva l'assolvergli. L'una era che lasciassino libera a' sudditi della Chiesa la navigazione del mare Adriatico, la quale vietavano a tutti quegli che per le robe conducevano non pagavano loro certe gabelle; l'altra, che non tenessino piú in Ferrara, città dependente dalla Chiesa, il magistrato del bisdomino. Allegavano i viniziani questo essere stato consentito da' ferraresi, non repugnando Clemente sesto pontefice romano che a quel tempo risedeva con la corte nella città d'Avignone; e la superiorità e custodia del golfo avere conceduta loro con amplissimi privilegi Alessandro quarto pontefice, mosso perché coll'armi e colla virtú e con molte spese l'aveano difeso da' saracini e da' corsali, e renduta sicura quella navigazione a' cristiani. Alle quali cose si replicava per la parte del pontefice non avere potuto i ferraresi, in pregiudicio della superiorità ecclesiastica, acconsentire che da altri fusse tenuto un magistrato o esercitata giurisdizione in Ferrara, né averlo consentito volontariamente ma sforzati da lunga e grave guerra; e dopo avere ricercato invano l'aiuto del pontefice, le censure del quale dispregiavano i viniziani, avere accettata la pace con quelle condizioni che era paruto a chi poteva contro a loro piú coll'armi che colla ragione. Né della concessione d'Alessandro pontefice apparire né in istorie né in iscritture memoria o fede alcuna, eccetto il testimonio de' viniziani, il quale in causa propria e sí ponderosa era sospetto; e quando pure ne apparisse cosa alcuna, essere piú verisimile che da lui, il quale dicevano averlo conceduto in Vinegia, fusse stato conceduto per minaccie o per timore che uno pontefice romano, a cui sopra tutti gli altri apparteneva il patrocinio della giustizia e il ricorso degli oppressi, avesse conceduto una cosa tanto imperiosa e impotente in detrimento di tutto il mondo.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.13

                                                  

                                                 I veneziani riprendono Vicenza ed altre terre. Impresa de' veneziani contro il duca d'Este; i veneziani occupano il Polesine; scacco de' ferraresi.

                                                  

                                                 Nel quale stato delle cose, variazione degli animi de' príncipi, piccola potenza e riputazione del re de' romani, i viniziani mandorono l'esercito, nel quale era proveditore Andrea Gritti, a Vicenza, ove sapevano il popolo desiderare di ritornare sotto l'imperio loro; e accostativisi che era già notte, battuto con l'artiglierie il sobborgo della Posterla, l'ottennono. E nondimeno, benché nella città fussino pochi soldati, non confidavano molto di espugnarla; ma gli uomini della terra confortati (come fu fama) da Fracasso, mandati loro a mezzanotte imbasciadori, gli messono dentro, ritirandosi il principe di Analt e il Fracasso nella fortezza: e fu costante opinione che se, ottenuta Vicenza, si fusse senza differire accostato l'esercito veneto a Verona arebbe Verona fatto il medesimo, ma non parve a' capitani dovere partire da Vicenza se prima non acquistavano la fortezza. La quale benché il quarto dí venisse in potestà loro (perché il principe di Anault e Fracassa, per la debolezza sua, l'abbandonorono) entrò in questo tempo in Verona nuova gente di Cesare, e sotto Obigní trecento lancie del re di Francia; di maniera che, essendovi circa cinquecento lancie e cinquemila fanti tra spagnuoli e tedeschi, non era piú facile l'occuparla. Accostossi dipoi l'esercito veneto a Verona diviso in due parti, in ciascuna delle quali erano trecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e tremila fanti, sperando che come si fussino accostati si facesse movimento nella città: ma non si essendo presentati alle mura in uno tempo medesimo, quegli che erano nella terra fattisi incontro alla prima parte, che veniva di là dal fiume dell'Adice e già era entrata nel borgo, la costrinsono a ritirarsi; e sopravenendo poco di poi Lucio Malvezzo, dall'altra ripa del fiume coll'altra parte, si ritirò medesimamente; e amendue congiunte insieme si fermorno alla villa di San Martino, distante da Verona cinque miglia. Nel qual luogo mentre stavano, avendo inteso che duemila fanti tedeschi, partiti da Basciano erano andati a predare a Cittadella, mossisi a quella parte gli rinchiusono in Vallefidata; ma i tedeschi, avendo ricevuto soccorso da Basciano, uscirono per forza, benché non senza danno, de' passi stretti e avendo abbandonato Basciano l'occuporono i viniziani. Da Basciano andò una parte dell'esercito a Feltro e Civitale e, dopo avere ricuperate quelle terre, alla rocca della Scala, la quale spugnò, avendovi prima piantate l'artiglierie; e nel tempo medesimo Antonio e Ieronimo da Savorniano, gentiluomini, che nel Friuli seguitavano le parti viniziane, presono Castelnuovo posto in su uno monte aspro in mezzo della Patria (cosí chiamano il Friuli), di là dal fiume del Tigliavento: non si intendendo di Cesare, il quale commosso dal caso di Vicenza era venuto subitamente alla Pietra, altro che romori vari, e spesso muoversi con celerità, ma senza effetto alcuno, da uno luogo a un altro.

                                                 Andò dipoi l'esercito de' viniziani verso Monselice e Montagnana, per recuperare il Pulesine di Rovigo e per entrare nel ferrarese, insieme coll'armata, la quale il senato, disprezzato il consiglio de' senatori piú prudenti, che giudicavano essere cosa temeraria lo implicarsi in nuove imprese, aveva deliberato mandare potente per il fiume del Po contro al duca di Ferrara: mossi non tanto dalla utilità delle cose presenti quanto dallo sdegno che incredibile aveano conceputo contro a lui; parendo loro che di quel che aveva fatto per liberarsi dal giogo del bisdomino e per ricuperare il Pulesine non dovere giustamente lamentarsi, ma non potendo già tollerare che, non contento di quel che pretendeva appartenersegli di ragione, avesse, quando Cesare si levò con l'esercito da Padova, ricevuto da lui in feudo il castello di Esti, donde è l'antica origine e il cognome della famiglia da Esti, e in pegno, per sicurtà di danari prestati, il castello di Montagnana, ne' quali due luoghi non pretendeva ragione alcuna. Aggiugnevasi la memoria che le sue genti, nella recuperazione del Pulesine, concitate da odio estremo contro al nome viniziano, avevano danneggiato eccessivamente i beni de' gentiluomini, incrudelendo eziandio contro agli edifici con incendi e con ruine. Però fu determinato che l'armata loro guidata da Angelo Trevisano, e nella quale furono diciassette galee sottili con numero grandissimo di legni minori, e bene provista d'uomini atti alla guerra, andasse verso Ferrara: la quale armata, entrata nel Po per la bocca delle Fornaci e abbruciata Corbola e altre ville vicine al Po, andò predando tutto il paese insino al Lagoscuro: dal quale luogo i cavalli leggieri che per terra l'accompagnavano scorseno per insino a Ficheruolo, palazzo piú presto che fortezza, famoso per la lunga oppugnazione di Ruberto da San Severino capitano de' viniziani, nella guerra contro a Ercole padre di Alfonso.

                                                 La venuta di questa armata, e la fama d'avere a venire l'esercito di terra, spaventò molto il duca di Ferrara; il quale trovandosi con pochissimi soldati, né essendo il popolo di Ferrara, o per il numero o per la perizia della guerra, bastante a opporsi a tanto pericolo, non aveva, insino a tanto gli sopravenissino gli aiuti che sperava dal pontefice e dal re di Francia, altra difesa che impedire, con frequentissimi colpi d'artiglierie piantate in sulla ripa del Po, che gli inimici non passassino piú innanzi. Perciò il Trivisano, avendo tentato invano di passare e conoscendo non potere fare senza gli aiuti di terra maggiore progresso, fermò l'armata in mezzo al fiume del Po dietro a una isoletta che è di riscontro alla Pulisella, luogo distante da Ferrara per [undici] miglia e molto opportuno a travagliarla e tormentarla, con intenzione di aspettare quivi l'esercito; al quale si era arrenduto senza difficoltà tutto il Pulesine, recuperata prima Montagnana per accordo, per il quale furono concessi loro prigioni gli ufficiali ferraresi e i capitani de' fanti che vi erano dentro. Insino all'arrivare del quale, perché l'armata stesse piú sicura, cominciò il Trivisano a fabricare due bastioni con grandissima celerità in sulla riva del Po, l'uno dalla parte di Ferrara l'altro in sulla ripa opposita; gittando similmente uno ponte in sulle navi per il quale si potesse dall'armata soccorrere il bastione che si fabricava verso Ferrara. La perfezione del quale per impedire, il duca, ma con consiglio forse piú animoso che prudente, raccolti quanto piú giovani potette della città e i soldati che continuamente concorrevano agli stipendi suoi, mandò all'improviso ad assaltarlo; ma quegli che erano nel bastione, soccorsi dalla armata, usciti fuora a combattere, gli cominciorno a mettere in fuga; e benché il duca, sopravenendo con molti cavalli, rendesse animo e rimettesse in ordine la gente sua, imperita la piú parte e disordinata, nondimeno fu tale l'impeto degli inimici, per i quali combatteva la sicurtà del luogo e molte artiglierie piccole, che finalmente fu costretto a ritirarsi, restando o morti o presi molti de' suoi, né tanto della turba imperita e ignobile quanto de' soldati piú feroci e della nobiltà ferrarese; tra i quali Ercole Cantelmo, giovane di somma espettazione, i maggiori del quale aveano già dominato nel reame di Napoli il ducato di Sora: il quale condotto prigione in su una galea, e venuti in quistione gli schiavoni di cui di loro dovesse essere prigione, gli fu da uno di essi, con inaudito esempio di barbara crudeltà, miserabilmente troncata la testa. Per le quali cose parendo a ciascuno che la città di Ferrara non fusse senza pericolo, Ciamonte vi mandò in soccorso Ciattiglione con cento cinquanta lancie franzesi; e il pontefice, sdegnatosi che i viniziani l'avessino assaltata senza rispetto della superiorità che vi ha la Chiesa, ordinò che i suoi dugento uomini d'arme che erano in aiuto di Cesare si volgessino alla difesa di Ferrara: ma sarebbono state per avventura tarde queste provisioni se i viniziani non fussino stati costretti di pensare alla difesa delle cose proprie.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.14

                                                  

                                                 I veneziani per la minacciata espugnazione di Vicenza ritirano parte delle milizie dal ferrarese. Rotta dell'armata veneziana sul Po.

                                                  

                                                 Non erano, come è detto di sopra, state moleste al re di Francia le difficoltà che aveva Massimiliano, parte per il timore che ebbe sempre delle prosperità sue parte perché, ardendo di desiderio di insignorirsi della città di Verona, sperava che per le sue necessità glien'avesse finalmente a concedere, o in vendita o in pegno; ma da altra parte gli dispiaceva che la grandezza de' viniziani risorgesse, dalla quale sarebbe risultato molestia e pericolo continuo alle cose sue: però, essendo per la penuria de' danari molto deboli le provisioni di Cesare in Verona, fu necessitato il re a procurare, con altro aiuto che con quello delle genti d'arme che vi erano entrate, che quella città non ritornasse in potestà loro. Alla qual cosa dette principio Ciamonte, venuto dopo la perdita di Vicenza a' confini del veronese; perché, cominciando a tumultuare per mancamento de' pagamenti dumila fanti spagnuoli che erano in Verona, ve gli fermò agli stipendi del re di Francia, e vi mandò per maggiore sicurtà altri fanti; seguitato in questo il consiglio del Triulzio, che dubitando Ciamonte che al re non fusse molesta questa spesa gli rispose essere minore male che il re lo imputasse di avere speso danari che d'avere perduto o messo in pericolo il suo stato. Prestò oltre a questo a Cesare, per pagare i soldati che erano in Verona, ottomila ducati, ma ricevendo, per pegno della restituzione di questi e degli altri che per beneficio suo vi spendesse in futuro, la terra di Valeggio; la quale terra, per essere uno de' passi del fiume del Mincio (anzi chi possiede quella e Peschiera domina il Mincio) e propinqua a Brescia a sei miglia, era per sicurtà di Brescia molto stimata dal re. La venuta di Ciamonte seguitato dalla maggiore parte delle lancie che alloggiavano nel ducato di Milano, il mettere genti in Verona, e il divulgarsi che si preparava per andare all'espugnazione di Vicenza, furono cagione che l'esercito de' viniziani, lasciati per difesa del Pulesine e per sussidio dell'armata quattrocento cavalli leggieri e quattrocento fanti, si partí del ferrarese e si divise tra Lignago, Soave e Vicenza, e che i viniziani, desiderando assicurarsi che Vicenza e il paese circostante non fusse molestato dalle genti che erano in Verona, lo fortificorno con una fossa di opera memorabile, larga e piena di acqua, intorniata da uno riparo in sul quale erano distribuiti molti bastioni; la quale, cominciando dalle radici della montagna sopra a Suave e distendendosi per spazio di cinque miglia, si distendeva per il piano dalla parte che da Lonigo si va a Monforte, terminando in certi paludi contigui al fiume dello Adice: e fortificato Soave e Lonigo, avevano, mentre la si guardava, assicurato, massime la vernata, tutto il paese.

                                                 Alleggerissi per la partita delle genti viniziane, ma non si levò però in tutto, il pericolo di Ferrara: perché se bene fusse cessato il timore dello essere sforzata non era cessato il sospetto che, per i danni gravissimi, o non si estenuasse troppo o non si riducesse il popolo a ultima disperazione; perché le genti dell'armata e quelle che l'accompagnavano correvano ogni dí insino in sulle porte della città, e altri legni de' viniziani, assaltato da altra parte lo stato del duca di Ferrara, avevano preso Comacchio. Sopragiunsono in questo tempo le genti del pontefice e del re di Francia; e perciò il duca, il quale prima ammunito dal danno ricevuto nell'assalto del bastione avea fermate le genti sue in alloggiamento forte appresso a Ferrara, cominciò a fare spesse cavalcate e scorrerie per condurre gli inimici a combattere: i quali, sperando che l'esercito ritornasse, recusavano prima di combattere. E accadde che essendo cavalcato un giorno insino appresso al bastione il cardinale da Esti, nel ritornarsene, un colpo d'artiglieria scaricata da uno de' legni degli inimici levò il capo al conte Lodovico della Mirandola, uno de' condottieri della Chiesa; non avendo, tra tanta moltitudine, né quello né altro colpo offeso alcuno. Finalmente, la perizia del paese e della natura e opportunità del fiume fece facile quel che da principio era paruto pericoloso e difficile. Perché, sperando il duca e il cardinale di rompere coll'artiglierie l'armata, pure che avessino facoltà di poterle sicuramente distendere in sulla ripa del fiume, ritornò il cardinale con parte delle genti ad assaltare il bastione; e avendo, con uccisione di alcuni di loro, rimessi gli inimici che erano usciti a scaramucciare, occupò e fortificò la parte prossima dell'argine, in modo che senza che gli inimici lo sapessino condusse al principio della notte l'artiglierie in sulla ripa opposita all'armata; e distesele con silenzio grande, cominciò con terribile impeto a percuoterla: e benché tutti i legni si movessino per fuggire, nondimeno essendo distese per lungo spazio molte e grossissime artiglierie, le quali maneggiate da uomini periti tiravano molto da lontano, mutavano piú tosto il luogo del pericolo che fuggissino il pericolo; essendo sopravenuto ed esercitandosi maravigliosamente la persona del duca, peritissimo e nel fabbricare e nell'usare l'artiglierie. Per i quali colpi tutti i legni inimici, con tutto che essi similmente non cessassino di tirare (ma invano, perché quegli che erano in sulla ripa erano coperti dall'argine), con vari e spaventosi casi si consumavano: alcuni de' quali non potendo piú reggere a' colpi si arrendevano; alcuni altri, appresovi il fuoco per i colpi dell'artiglierie, miserabilmente ardevano con gli uomini che vi erano dentro; altri, per non venire in mano degli inimici, messe insieme molte navi e gittandovi fuoco, si precipitavano da se medesimi in quella crudeltà che da altri temevano. Il capitano dell'armata, montato quasi al principio dell'assalto in su una scafa, fuggendo si salvò; la sua galea, fuggita per spazio di tre miglia, al continuo tirando e difendendo e provedendo alle percosse riceveva, all'ultimo tutta forata andò nel fondo. Finalmente, essendo pieno ogni cosa di sangue di fuoco e di morti, vennono in potestà del duca quindici galee, alcune navi grosse, fuste, barbotte e altri legni minori, quasi senza numero; morti circa dumila uomini o dall'artiglierie o dal fuoco o dal fiume, prese sessanta bandiere, ma non lo stendardo principale che si salvò col capitano; molti fuggiti in terra, de' quali parte raccolti da' cavalli leggieri de' viniziani si salvorono, parte seguitati dagli inimici furno presi, parte riceverono nel fuggirsi vari danni da' paesani. Furono i legni presi condotti a Ferrara, ove per memoria della vittoria acquistata si conservorno molti anni; insino a tanto che Alfonso desideroso di gratificare al senato viniziano li concedé loro. Rotta l'armata, mandò subito Alfonso trecento cavalli e cinquecento fanti per rompere l'altra armata che aveva preso Comacchio; i quali, avendo recuperato Loreto fortificato da i viniziani, si crede che arebbono rotta l'armata se quella, conosciuto il pericolo, non si fusse ritirata alle Bebie. Questo fine ebbe in spazio di uno mese l'assalto di Ferrara; nel quale lo evento, che spesso è giudice non imperito delle cose, manifestò quanto fusse piú prudente il consiglio de' pochi che confortavano che, lasciate l'altre imprese e riservati a maggiore opportunità i danari, si attendesse solamente alla conservazione di Padova e di Trevigi e dell'altre cose ricuperate, che di quegli che piú di numero ma inferiori di prudenza, concitati dall'odio e dallo sdegno, erano facili a implicarsi in tante imprese: le quali, cominciate temerariamente, partorirono alla fine spese gravissime, con non mediocre ignominia e danno della republica.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.15

                                                  

                                                 Massimiliano si ritira dal Veneto. Posizione di Verona. Vane trattative di tregua tra Massimiliano e i veneziani. Accordi tra Massimiliano e il re d'Aragona per il regno di Castiglia. Nuovi sospetti del pontefice verso il re di Francia. Morte del conte di Pitigliano.

                                                  

                                                 Ma dalla parte di Padova succedevano per i viniziani piú presto le cose prospere che altrimenti. Perché trovandosi Cesare nel vicentino con quattromila fanti, una parte non molto grande delle genti dei viniziani, con aiuto de' villani del paese, presono quasi in su gli occhi suoi il passo della Scala, e appresso il Cocollo e Basciano, luogo importante per impedire chi della Magna volesse passare in Italia; ed egli, lamentandosi che per la partita della Palissa fussino succeduti molti disordini, se ne andò a Bolzano, per trasferirsi alla dieta che per ordine suo si aveva a tenere in Spruch. Il cui esempio seguitando Ciamonte, omessi i pensieri caldi che aveva avuto di fare la impresa di Vicenza e di Lignago, considerato ancora i luoghi essere bene proveduti e la stagione del tempo molto contraria, si ritirò a Milano, lasciata bene guardata Brescia, Peschiera e Valeggio, e in Verona, per difesa di quella città (la quale Cesare per se stesso era impotente a difendere), seicento lancie e quattromila fanti: i quali, separati dai soldati di Cesare, alloggiavano nel borgo di San Zeno, avendo anche in potestà loro, per essere piú sicuri, la cittadella. La città di Verona, nobile e antica città, è divisa dal fiume dello Adice, fiume profondo e grossissimo; il quale, nato ne' monti della Magna, come è condotto al piano si torce in su la mano sinistra rasente i monti, ed entrando in Verona, come ne è uscito, discostandosi da' monti si allarga per bella e fertile pianura. Quella parte della città che è situata nella costa, con alquanto piano, è da l'Adice in là verso la Magna; il resto della terra, che è tutto in piano, è posto dallo Adice in qua verso Mantova. In sul monte, alla porta di San Giorgio, è posta la rocca di San Piero; e due balestrate distante da quella, piú alta in su la cima del poggio, è quella di San Felice: forte l'una e l'altra assai piú di sito che di muraglia. E nondimeno, perdute quelle, perché soprafanno, tanto la città, resterebbe Verona in grave pericolo. Queste erano guardate da' tedeschi. Ma nell'altra parte, separata da questa parte dal fiume, è Castelvecchio di verso Peschiera, posto quasi in mezzo della città e che attraversa il fiume con uno ponte; e tre balestrate distante da quello, verso Vicenza, è la cittadella e tra l'una e l'altra si congiungono le mura della città dalla parte di fuora, che rendono figura di mezzo tondo. Ma dal lato di dentro si congiugne loro uno muro edificato in mezzo di due fossi grandissimi, e lo spazio tra l'uno muro e l'altro è chiamato il borgo di San Zeno; che insieme con la guardia della cittadella fu assegnato per alloggiamento de' franzesi.

                                                 Dove mentre che stanno quasi quiete l'armi, Massimiliano continuamente trattava di fare tregua co' viniziani; interponendosene molto il pontefice, per mezzo di Achille de Grassis vescovo di Pesero, suo nunzio. Per la qual cosa si convennono allo Spedaletto sopra la Scala a trattare gli oratori suoi e Giovanni Cornaro e Luigi Mocenigo, oratori de' viniziani, ma per le dimande alte di Cesare riuscí pratica vana; con molto dispiacere del pontefice, che desiderava liberare i viniziani da tutte le molestie. E perché tra loro e sé non fusse materia da contendere, aveva operato rendessino al duca di Ferrara la terra di Comacchio la quale avevano prima abbruciata, e a sé promettessino di non molestare piú lo stato del duca di Ferrara; del quale, credendo che avesse a essere grato de' benefici che per mezzo suo aveva conseguito ed era per conseguire, teneva allora singolare protezione, sperando che avesse a dipendere piú da lui che dal re di Francia: contro al quale, stando in continui pensieri di farsi fondamenti di grandissima importanza, avea segretamente mandato uno uomo al re d'Inghilterra e cominciato a trattare con la nazione de' svizzeri, la quale allora cominciava a venire in qualche controversia col re di Francia; per il che essendo venuto a lui il vescovo di Sion (diconlo i latini sedunense), inimico del re e che aspirava per questi mezzi al cardinalato, l'avea ricevuto con animo lietissimo.

                                                 Succedette alla fine di questo anno concordia tra 'l re de' romani e il re cattolico, discordi per causa del governo de' regni di Castiglia. La quale, trattata lungamente nella corte del re di Francia e avendo molte difficoltà, fu per poco consiglio del cardinale di Roano (che non considerò quanto questa congiunzione fusse male a proposito delle cose del suo re) condotta a perfezione; perché, parendogli forse che il farsene autore gli potesse giovare a pervenire al pontificato, se ne interpose con grandissima diligenza e fatica: con la quale e con l'autorità sua indusse Massimiliano a consentire che il re cattolico, in caso non avesse figliuoli maschi, fusse governatore di quegli reami insino che Carlo nipote comune pervenisse all'età di venticinque anni, né pigliasse il nipote titolo regio vivente la madre, che aveva titolo di reina, perché in Castiglia non sono le femmine escluse da' maschi; pagasse il re cattolico a Cesare ducati cinquantamila, aiutasselo secondo i capitoli di Cambrai insino a tanto avesse acquistato e recuperato le cose sue, e a Carlo pagasse ciascuno anno quarantamila ducati. Per la quale convenzione stabilito il re di Aragona nel governo del regno di Castiglia, e avuta facoltà di acquistare fede appresso a Cesare, per essere levate via le differenze tra loro e per essere in tutti due il medesimo interesse del nipote comune, potette con maggiore animo attendere a impedire la grandezza del re di Francia, la quale per l'interesse del reame di Napoli gli era sempre sospetta.

                                                 Ebbe in questi medesimi dí sospetto il pontefice che 'l protonotario de' Bentivogli, che era a Cremona, non trattasse di ritornare furtivamente in Bologna, per il quale sospetto fece per alcuni dí ritenere nel palazzo di Bologna Giuliano de' Medici; e riferendo ogni cosa alla mala volontà del re di Francia dimostrava di temere che e' non passasse in Italia per soggiogarla, e per fare violentemente eleggere il cardinale di Roano per pontefice: e nondimeno, nel tempo medesimo, detraeva senza rispetto all'onore di Cesare, come di persona incapace di tanta degnità, e che per l'incapacità sua avesse ridotto in grande disprezzo il nome dello imperio.

                                                 Morí nella fine di questo anno il conte di Pitigliano, capitano generale de' viniziani, uomo molto vecchio e nell'arte militare di lunga esperienza; e nella fede del quale si confidavano assai i viniziani, né temevano che temerariamente mettesse in pericolo il loro imperio.

                                                  

                                                 Lib.8, cap.16

                                                  

                                                 Fazioni sotto Verona. Incertezza del re di Francia intorno all'opportunità di una nuova impresa contro i veneziani per la conquista di tutta la terraferma. Politica del re per acquietare l'animo del pontefice. Condizioni con cui il pontefice concede l'assoluzione ai veneziani.

                                                  

                                                 Séguita, in questa ambiguità di cose, l'anno mille cinquecento dieci; nel principio del quale procedevano da ogni parte, come anche era conforme alla stagione, le cose dell'armi freddamente. Perché l'esercito viniziano, alloggiato a San Bonifazio in veronese, teneva quasi come assediata Verona; onde essendo usciti alla scorta Carlo Baglione, Federigo da Bozzole e Sacramoro Visconte, assaltati dagli stradiotti, furono rotti e fatti prigioni Carlo e Sacramoro, perché Federigo si salvò per opera de' franzesi che al soccorso loro erano usciti da Verona; e poco dipoi ruppono un'altra compagnia di cavalli franzesi, tra' quali fu preso monsignore di Clesí; e da altra parte dugento lancie franzesi, uscite di Verona con tremila fanti, sforzorono per assalto uno bastione verso Soave guardato da seicento fanti, e nel ritorno ruppono una moltitudine grande di villani.

                                                 Ma in questa freddezza dell'armi erano angustiati da gravissimi pensieri gli animi de' príncipi, e principalmente quello del re de' romani. Il quale, non conoscendo come potesse riportare la vittoria della guerra contro a' viniziani, e traportando, come era solito, le cose sue di dieta in dieta, aveva chiamato la dieta in Augusta; e sdegnato col pontefice, perché gli elettori dello imperio, mossi dalla sua autorità, facevano instanza che prima si trattasse nella dieta della concordia co' viniziani che delle provisioni della guerra, aveva fatto partire il vescovo di Pesero suo nunzio da Augusta; e considerando avere incertitudine lunghezza e molte difficoltà le deliberazioni delle diete anzi il piú delle volte il fine dell'una partorire il principio di un'altra, e che il re di Francia dalle dimande interrotte e dalle imprese che gli erano proposte ogni dí si escusava, ora con lo allegare l'asprezza della stagione ora col dimandare assegnamento certo di quello che spendesse ora ricordando non essere solo obligato ad aiutarlo, per i capitoli di Cambrai, ma essere ancora nelle medesime obligazioni il pontefice e il re di Aragona, co' quali era conveniente si procedesse comunemente, secondo che erano comuni la confederazione e la obligazione, si risolveva niuno rimedio essere piú pronto alle cose sue che indurre il re di Francia ad abbracciare la impresa di pigliare Padova, Vicenza e Trevigi con le forze proprie, ricevendone il ricompenso conveniente: ed era nel consiglio regio questa dimanda approvata da molti; i quali, considerando che insino che i viniziani non erano esclusi totalmente di terra ferma il re starebbe sempre in continue spese e pericoli, lo confortavano a liberarsene con lo spendere una volta potentemente. Né era il re alieno totalmente da questo consiglio, mosso dalla medesima ragione; e però inclinando a passare in persona in Italia con esercito potente, il quale chiamava potente ogni volta che in esso fussino piú di mille seicento lancie e i suoi pensionari e gentiluomini, nondimeno, essendo distratto da altre ragioni in diversa sentenza, stava con l'animo sospeso: piú confuso anche che il solito perché il cardinale di Roano, uomo molto efficace e di grande animo, oppresso da lunga e grave infermità, non vacava piú a' negozi i quali solevano totalmente espedirsi col suo consiglio. Riteneva il re l'essere per natura molto alieno dallo spendere, la cupidità ardente di conseguire Verona, alla quale cosa gli pareva migliore mezzo l'essere il re de' romani implicato in continui travagli; e appunto, essendo egli impotente a pagare le genti tedesche che erano alla guardia di quella città, gli aveva il re prestato di nuovo diciottomila ducati, e obligatosi a prestargliene insino alla somma di cinquantamila: con patto che non solo tenesse, per sicurtà di riavergli, la cittadella, ma che eziandio gli fusse consegnato Castelvecchio e una porta vicina della città, per avere libera l'entrata e l'uscita; e che non gli essendo restituiti i danari infra uno anno gli rimanesse in governo perpetuo la terra di Valeggio, con facoltà di fortificare quella e la cittadella a spese di Cesare.

                                                 Tenevano perplesso lo animo del re questi rispetti, ma molto piú lo riteneva il timore di non alterare totalmente la mente del pontefice, se conducesse o mandasse nuovo esercito in Italia. Perché il pontefice, pieno di sospetto, e malcontento ancora che egli si impadronisse di Verona, oltre al perseverare nel volere assolvere i viniziani dalle censure, faceva ogni opera per congiugnersi i svizzeri, per il che aveva rimandato al paese il vescovo di Sion con danari per la nazione e con promessa per lui del cardinalato; e cercava con grandissima diligenza di alienare dal re di Francia l'animo del re di Inghilterra: il quale, se bene avesse auto per ricordo dal padre, nello articolo della morte, che per quiete e sicurtà sua continuasse l'amicizia col regno di Francia, per la quale gli erano pagati ciascuno anno cinquantamila ducati, nondimeno, mosso dalla caldezza della età e dalla pecunia grandissima lasciatagli dal padre, non pareva che avesse manco in considerazione i consigli di quegli che, cupidi di cose nuove e concitati dall'odio che quella nazione ha comunemente grandissimo contro al nome de' franzesi, lo confortavano alla guerra che la prudenza ed esempio del padre; il quale, non discordante de' franzesi, ancora che fatto re d'uno regno nuovo e perturbatissimo, aveva con grande obedienza e con grandissima quiete governato e goduto il suo regno. Le quali cose angustiando gravemente l'animo del re di Francia, il quale per essere piú propinquo alle cose d'Italia si era trasferito a Lione, e temendo che il passare suo in Italia, detestato palesemente dal pontefice, non suscitasse per sua opera cose nuove, e dissuadendolo dal medesimo il re d'Aragona, ma dimostrando dissuadernelo come amico e come amatore della quiete comune, non ebbe in queste ambiguità che lo strignevano da ogni parte piú certo e determinato consiglio che di cercare con ogni studio e diligenza di quietare l'animo del pontefice, talmente che almeno s'assicurasse di non l'avere opposito e inimico: alla qual cosa pareva lo favorisse assai l'occasione, perché si credeva che la morte del cardinale di Roano, la infermità del quale era sí grave che si poteva sperare poco di lunga vita, avesse a essere causa di levargli quella sospizione per la quale principalmente si pensavano gli uomini essere nate le sue alterazioni. E avendo il re notizia che il cardinale di Aus nipote di Roano e gli altri che trattavano le cose sue nella corte di Roma avevano temerariamente, e con parole e con fatti, atteso piú a esacerbare che a mitigare come sarebbe stato necessario la mente del pontefice, non volendo usare piú l'opera loro, mandò in poste a Roma Alberto Pio conte di Carpi, persona di grande spirito e destrezza; al quale furono date amplissime commissioni, non solo di offerirgli in tutti i casi e desideri suoi le forze e autorità del re, e usare seco tutti i rispetti e i riguardi che fussino piú secondo la mente e la natura sua, ma oltre a questo di comunicargli sinceramente lo stato di tutte le cose che si trattavano e le richieste fattegli dal re de' romani, e di rimettere finalmente in arbitrio suo il passare o non passare in Italia, l'aiutare piú lentamente o piú prontamente le cose di Cesare.

                                                 Fu commesso al medesimo che dissuadesse l'assoluzione de' viniziani; ma questa, alla venuta sua, era già deliberata e promessa dal pontefice, avendo i viniziani, poi che tra i deputati dal pontefice e gli oratori loro fu disputato molti mesi, consentito alle condizioni sopra le quali si faceva la difficoltà, perché non vedevano altro rimedio alla salute loro che l'essere congiunti seco. Furono, il vigesimoquarto dí di febbraio, lette nel concistorio le condizioni colle quali si doveva concedere l'assoluzione, presenti gli oratori viniziani e confermandole, col mandato autentico della loro republica, per instrumento. Non conferissino o in qualunque modo concedessino benefici o degnità ecclesiastiche, né facessino resistenza o difficoltà alle provisioni che sopra essi venissino dalla corte romana; non impedissino che nella corte predetta si agitassino le cause beneficiali o appartenenti alla giurisdizione ecclesiastica; non ponessino decime o alcuna specie di gravezza in su' beni delle chiese e de' luoghi esenti dal dominio temporale; rinunziassino all'appellazione interposta dal monitorio, a tutte le ragioni acquistate in qualunque modo in sulle terre della Chiesa, e specialmente alle ragioni che e' pretendessino di potere tenere il bisdomino in Ferrara; che i sudditi della Chiesa e i legni loro avessino libera la navigazione del golfo, e con facoltà sí ampia che eziandio le robe d'altre nazioni portate in su' legni loro non potessino essere molestate, né fatta dichiarazione che fussino obligate alle gabelle; non potessino in modo alcuno intromettersi di Ferrara o delle terre di quello stato che avessino dependenza dalla Chiesa; fussino annullate tutte le convenzioni che in pregiudicio ecclesiastico avessino fatto con alcuno suddito o vassallo della Chiesa; non ricettassino duchi baroni o altri sudditi o vassalli della Chiesa che fussino ribelli o inimici della sedia apostolica; e fussino obligati a restituire tutti i danari esatti da' beni ecclesiastici, e ristorare le chiese di tutti i danni che avessino fatto loro. Le quali obligazioni colle promesse e rinunzie debite ricevute nel concistorio, gli imbasciadori viniziani, il dí che fu determinato, seguitando gli esempli antichi, si condussono nel portico di San Piero; dove gittatisi in terra innanzi a' piedi del pontefice, il quale presso alle porte di bronzo sedeva in su la sedia pontificale assistendogli tutti i cardinali e numero grande di prelati, gli dimandorono umilmente perdono, riconoscendo la contumacia e i falli commessi; e dipoi, lettesi secondo il rito della Chiesa certe orazioni e fatte solennemente le cerimonie consuete, il pontefice ricevutigli a grazia gli assolvé, imponendo loro per penitenza che andassino a visitare le sette chiese. Assoluti, entrorno nella chiesa di San Piero, introdotti dal sommo penitenziere; dove avendo udita la messa, che prima era stata denegata, furono onoratamente, non piú come scomunicati o interdetti ma come buoni cristiani e divoti figliuoli della sedia apostolica, da molti prelati e altri della corte accompagnati insino alle loro abitazioni. Dopo la quale assoluzione si ritornorno a Vinegia, lasciato a Roma Ieronimo Donato uomo dottissimo, uno del numero loro; il quale, per le virtú sue e per la destrezza dello ingegno divenuto molto grato al pontefice, fu di grandissimo giovamento alla sua patria nelle cose che si ebbono poi a trattare appresso a lui.

                                             

                                                 Lib.9, cap.1

                                                  

                                                 Attività del pontefice per suscitare nemici al re di Francia. Difficoltà di accordi fra il re e gli svizzeri. Intimazioni del pontefice al duca di Ferrara per la lavorazione del sale a Comacchio.

                                                  

                                                 Dell'assoluzione de' viniziani, fatta con animo tanto costante del pontefice, si perturbò molto Cesare al quale questa cosa principalmente apparteneva. Ma non se ne perturbò quasi meno il re di Francia, perché per l'utilità propria desiderava che la grandezza de' viniziani non risorgesse. Non si accorgeva perciò interamente quali fussino gli ultimi fini del pontefice; ma nutrendosi, nelle difficoltà che se gli preparavano, con vane speranze, si persuadeva che 'l pontefice si movesse per sospetto dell'unione sua con Cesare, e che temporeggiando con lui e non gli dando causa di maggiore timore, contento della assoluzione fatta, non procederebbe piú oltre. Ma il pontefice, confermandosi piú l'un dí che l'altro nelle sue deliberazioni, dette licenza, con tutto che molto contradicessino gli oratori de' confederati, a' feudatari e sudditi della Chiesa che si conducessino agli stipendi de' viniziani; i quali soldorno Giampaolo Baglione con titolo di governatore delle loro genti, rimaste per la morte del conte di Pitigliano senza capitano generale, e Giovanluigi e Giovanni Vitelli figliuoli già di Giovanni e di Cammillo, e Renzo da Ceri per capitano di tutti i fanti loro; e avendo cosí scopertamente preso il patrocinio de' viniziani, procurava di concordargli con Cesare, sperando per questo mezzo non solo di separarlo dal re di Francia ma che, unito seco e co' viniziani, gli moverebbe la guerra; la qual cosa perché, per le necessità di Cesare, gli succedesse piú facilmente interponeva l'autorità sua con gli elettori dello imperio e colle terre franche che nella dieta di Augusta non gli deliberassino alcuna sovvenzione. Ma quanto piú si maneggiava questa materia tanto piú si trovava dura e difficile; perché Cesare non voleva concordia alcuna se non ritenendosi Verona, e i viniziani, ne' quali il papa avea sperato dovere essere maggiore facilità, promettendosi in qualunque caso d'avere a difendere Padova e che tenendo quella città dovesse il tempo porgere loro molte occasioni, dimandavano ostinatamente la restituzione di Verona, offerendo di pagare, in ricompenso di quella, quantità grandissima di danari. Né cessava il pontefice di stimolare occultamente il re di Inghilterra a muovere guerra contro al re di Francia, rinnovando la memoria delle inimicizie antiche tra quegli regni, dimostrando l'occasione d'avere successi felicissimi, perché se egli pigliava l'armi contro al re, molt'altri, a' quali era o sospetta o odiosa la sua potenza, le piglierebbono; e confortandolo ad abbracciare con quella divozione che era stata propria de' re di Inghilterra la gloria che se gli offeriva, di essere protettore e conservatore della sedia apostolica, la quale altrimenti era per l'ambizione del re di Francia in manifestissimo pericolo: alla qual cosa lo confortava medesimamente, ma molto occultamente, il re d'Aragona.

                                                 Ma quel che importava piú, il pontefice continuando co' svizzeri le pratiche cominciate per mezzo del vescovo di Sion (la cui autorità era grande in quella nazione, e il quale non cessava con somma efficacia di orare a questo effetto ne' consigli e di predicare nelle chiese), avea finalmente ottenuto che i svizzeri accettando pensione di fiorini mille di Reno l'anno per ciascuno cantone, si fussino obligati alla protezione sua e dello stato della Chiesa, permettendogli di soldare, per difendersi da chi lo molestasse, certo numero de' fanti loro: la qual cosa gli avea renduta piú facile la discordia che cominciava a nascere tra loro e il re di Francia. Perché i svizzeri, insuperbiti per l'estimazione che universalmente si faceva di loro, e presumendo che tutte le vittorie che il re presente e il re Carlo suo antecessore aveano ottenute in Italia fussino principalmente procedute per la virtú e per il terrore dell'armi loro, e perciò dalla corona di Francia meritare molto, aveano dimandato, ricercandogli il re di rinnovare insieme la confederazione che finiva, che accrescesse loro le pensioni; le quali erano di sessantamila franchi l'anno, cominciate dal re Luigi undecimo e continuate insino a quel tempo, oltre alle pensioni che secretamente si davano a molti uomini privati: le quali cose dimandando superbamente, il re sdegnato della insolenza loro e che da villani nati nelle montagne (cosí erano le parole sue) gli fusse cosí imperiosamente posta la taglia, cominciò, piú secondo la degnità reale che secondo l'utilità presente, con parole alterate a ribattergli e dimostrare quasi di disprezzargli. Alla qual cosa gli dava maggiore animo, che nel tempo medesimo, per opera dí Giorgio Soprasasso, i vallesi sudditi di Sion, che si reggono in sette comunanze chiamate da loro le corti, corrotti da' donativi e da promesse dí pensioni, in publico e in privato si erano confederati con lui, obligandosi di dare il passo alle sue genti, negarlo agli inimici suoi e andare al soldo suo con quel numero di fanti che comportavano le forze loro; e in simigliante modo si erano confederati seco i signori delle tre leghe che si chiamano i grigioni; e benché una parte de' vallesi non avesse ancora ratificato, sperava il re indurgli co' mezzi medesimi alla ratificazione: onde si persuadeva non gli essere piú tanto necessaria l'amicizia de' svizzeri; avendo determinato, oltre a' fanti che gli concederebbono i vallesi e i grigioni, di condurre nelle guerre fanti tedeschi; temendo medesimamente poco de' movimenti loro, perché non credeva potessino assaltare il ducato di Milano se non per la via di Bellinzone e altre molte anguste, per le quali venendo molti potevano facilmente essere ridotti in necessità di vettovaglie da pochi, venendo pochi basterebbono similmente pochi a fargli ritirare. Cosí stando ostinato a non augumentare le pensioni, non si otteneva ne' consigli de' svizzeri di rinnovare seco la confederazione, con tutto che confortata da molti di loro, a' quali privatamente ne perveniva grandissima utilità; e per la medesima cagione piú facilmente consentirono alla confederazione dimandata dal pontefice.

                                                 Per la quale nuova confederazione parendogli avere fatto fondamento grande a' pensieri suoi, e oltre a questo procedendo per natura in tutte le cose come se fusse superiore a tutti e come se tutti fussino necessitati a ricevere le leggi da lui, seminava origine di nuovo scandolo col duca di Ferrara: o mosso veramente dalla cagione che venne in disputa tra loro o per lo sdegno conceputo contro di lui che, ricevuti da sé tanti benefici e onori, dependesse piú dal re di Francia che da lui. Quale si fusse la cagione, cercando principio di controversie, comandò imperiosamente ad Alfonso che desistesse da fare lavorare sali a Comacchio, perché non era conveniente che quel che non gli era lecito fare quando i viniziani possedevano Cervia gli fusse lecito possedendo la sedia apostolica, di cui era il diretto dominio di Ferrara e di Comacchio: cosa di grande utilità, perché dalle saline di Cervia, quando non si lavorava a Comacchio, si diffondeva il sale in molte terre circostanti. Ma piú confidava Alfonso nella congiunzione che aveva col re di Francia e nella sua protezione che non temeva delle forze del pontefice; e lamentandosi d'avere a essere costretto di non ricôrre il frutto il quale nella casa propria con pochissima fatica gli nasceva, anzi avere per uso de' popoli suoi a comperare da altri quello di che poteva riempiere i paesi forestieri, né dovere passare in esempio quello a che i viniziani non con la giustizia ma con l'armi l'aveano indotto a consentire, recusava di ubbidire a questo comandamento: onde il pontefice mandò a protestargli, sotto gravi pene e censure, non gli era lecito fare quando i viniziani possedevano Cervia gli fusse lecito possedendo la sedia apostolica, di cui era il diretto dominio di Ferrara e di Comacchio: cosa di grande utilità, perché dalle saline di Cervia, quando non si lavorava a Comacchio, si diffondeva il sale in molte terre circostanti. Ma piú confidava Alfonso nella congiunzione che aveva col re di Francia e nella sua protezione che non temeva delle forze del pontefice; e lamentandosi d'avere a essere costretto di non ricôrre il frutto il quale nella casa propria con pochissima fatica gli nasceva, anzi avere per uso de' popoli suoi a comperare da altri quello di che poteva riempiere i paesi forestieri, né dovere passare in esempio quello a che i viniziani non con la giustizia ma con l'armi l'aveano indotto a consentire, recusava di ubbidire a questo comandamento: onde il pontefice mandò a protestargli, sotto gravi pene e censure, che desistesse.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.9, cap.2

                                                  

                                                 Massimiliano e il re di Francia si accordano per assalire di nuovo i veneziani; contrarietà del pontefice. Vano tentativo de' veneziani per prendere Verona. Nuove querele e minaccie del pontefice contro il duca di Ferrara. Discussione fra il pontefice e il re di Francia per la controversia col duca.

                                                  

                                                 Questi erano i pensieri e l'opere del pontefice, intento con tutto l'animo alla sollevazione de' viniziani. Ma da altra parte il re de' romani e il re di Francia, desiderosi parimenti della loro depressione e malcontenti delle dimostrazioni che faceva per essi il pontefice, e perciò venuti insieme in maggiore unione, convennono di assalire quella state con forze grandi i viniziani: mandando da una parte il re di Francia Ciamonte con potente esercito, al quale si unissino le genti tedesche che erano in Verona; e da altra parte Cesare, con le genti le quali sperava ottenere dallo imperio nella dieta di Augusta, entrasse nel Friuli, e presolo procedesse ad altre imprese secondo che gli mostrasse il tempo e l'occasioni. Alla qual cosa ricercorno il pontefice che, come obligato per la lega di Cambrai, concorresse coll'armi insieme con loro; ma esso a cui era sommamente molesta questa cosa rispose apertamente non essere tenuto a quella confederazione, che aveva già avuta perfezione poiché era stato in potestà di Cesare avere prima Trevigi e poi ricompenso di danari. Ricercò similmente Massimiliano il re cattolico di sussidio per le obligazioni medesime di Cambrai, e per le convenzioni fatte seco particolarmente quando gli consentí il governo di Castiglia, ma con prieghi che l'accomodasse piú tosto di danari che di genti; ma egli, non si disponendo a sovvenirlo di quel che piú aveva di bisogno, gli promesse mandargli quattrocento lancie, sussidio a Cesare di poca utilità perché nell'esercito franzese e suo abbondavano cavalli.

                                                 Nel quale tempo, essendo la città di Verona molto vessata da' soldati che la guardavano perché non erano pagati, le genti viniziane, chiamate occultamente da alcuni cittadini, partitesi da San Bonifazio, si accostorono di notte alla città per scalare castello San Piero essendo entrati per la porta San Giorgio dove mentre dimorano, per congiugnere insieme le scale, perché separate non ascendevano all'altezza delle mura, o sentiti da quegli che guardavano il castello di San Felice o parendo loro vanamente udire romore, impauriti, lasciate le scale si discostorono; donde l'esercito si ritornò a San Bonifazio, e in Verona venuta a luce la congiurazione ne furono puniti molti.

                                                 Inclinò in questo tempo l'animo del pontefice a riunirsi col re di Francia, mosso non da volontà ma da timore; perché Massimiliano dimandava superbamente che gli prestasse dugentomila ducati, minacciandolo che altrimenti si unirebbe col re di Francia contro a lui; e perché era fama che nella dieta di Augusta si determinerebbe di concedergli aiuti grandi, e perché di nuovo tra il re di Inghilterra e il re di Francia era stata fatta e publicata con solennità grande la pace: e perciò molto strettamente cominciò a trattare con Alberto da Carpi, col quale era proceduto insino a quel dí con parole e speranze generali. Ma perseverò poco tempo in questa sentenza: perché la dieta di Augusta, senza le forze della quale erano in piccola estimazione i minacci di Cesare, non corrispondendo all'espettazione, non gli determinò altro aiuto che di trecentomila fiorini di Reno, sopra il quale assegnamento aveva già fatte molte spese; e dal re di Inghilterra gli fu significato avere nella pace inserito uno capitolo ch'ella si intendesse annullata qualunque volta il re di Francia offendesse lo stato della Chiesa. Dalle quali cose ripreso animo e ritornato a' primi pensieri, aggiunse contro al duca di Ferrara nuove querele. Perché quel duca, dappoi che 'l golfo fu liberato, avea poste nuove gabelle alle robe che per il fiume del Po andavano a Vinegia; le quali, allegando il pontefice che secondo la disposizione delle leggi non si potevano imporre dal vassallo senza licenza del signore del feudo, e che erano in pregiudicio grande de' bolognesi suoi sudditi, faceva instanza che si levassino; minacciando altrimenti assaltarlo con l'armi: e per fargli maggiore timore fece passare le sue genti d'arme nel contado di Bologna e in Romagna.

                                                 Turbavano queste cose molto l'animo del re: perché da una parte gli era molestissimo il pigliare l'inimicizia col pontefice, da altra parte lo moveva l'infamia d'abbandonare il duca di Ferrara, dal quale per obligarsi alla protezione avea ricevuto trentamila ducati; né meno lo moveva il rispetto della propria utilità, perché dependendo totalmente Alfonso da lui e augumentando tanto piú nella sua divozione quanto piú vedeva perseguitarsi dal pontefice, ed essendo lo stato suo alle cose di Lombardia molto opportuno, riputava interesse suo il conservarlo. Però si interponeva col pontefice perché tra loro si introducesse qualche concordia. Ma al pontefice pareva giusto che 'l re si rimovesse da questa protezione, allegando averla presa contro a' capitoli di Cambrai: per i quali, fatti sotto colore di restituire quello che era occupato alla Chiesa, si proibiva che alcuno de' confederati pigliasse la protezione de' nominati dall'altro, e da sé essere stato nominato il duca di Ferrara: e di piú, che alcuno non si intromettesse delle cose appartenenti alla Chiesa. Confermarsi il medesimo per la confederazione fatta particolarmente tra loro a Biagrassa, nella quale espressamente si diceva che 'l re non tenesse protezione alcuna di stati dependenti dalla Chiesa e non ne accettasse in futuro, annullando tutte quelle che per il passato avesse preso. Alle quali cose benché per la parte del re si rispondesse, contenersi nella medesima convenzione che ad arbitrio suo si conferissino i vescovadi di qua da' monti, il che il pontefice avere violato nel primo vacante, avere medesimamente contravenuto in favore de' viniziani a' capitoli fatti a Cambrai, onde essergli lecito non osservare a lui le cose promesse; nondimeno, per non avere per gli interessi del duca di Ferrara a venire all'armi col pontefice, proponeva condizioni per le quali, non si contravenendo totalmente né direttamente al suo onore, potesse il pontefice restare in maggiore parte sodisfatto negli interessi che la Chiesa ed egli pretendevano contro ad Alfonso; ed era oltre a questo contento obligarsi, secondo una richiesta fatta dal pontefice, che le genti franzesi non passassino il fiume del Po, se non in quanto fusse tenuto per la protezione de' fiorentini o per dare molestia a Pandolfo Petrucci e a Giampaolo Baglione, sotto pretesto de' danari promessigli dall'uno e intercettigli dall'altro.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.9, cap.3

                                                  

                                                 Resa di Vicenza e di altre terre alle milizie francesi e tedesche. Discorso del capo della legazione de' vicentini. Inumana risposta del principe di Analt. Intercessione benevola di Ciamonte; crudeltà dei tedeschi.

                                                  

                                                 Le quali cose mentre che si agitavano, Ciamonte con mille cinquecento lancie e con diecimila fanti di varie nazioni, tra' quali erano alcuni svizzeri, condotti privatamente non per concessione de' cantoni, seguitandolo copia grande d'artiglierie e tremila guastatori e co' ponti preparati per passare i fiumi, ed essendogli congiunto il duca di Ferrara con dugento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e duemila fanti, e avendo senza ostacolo occupato (perché i viniziani l'abbandonorno) il Pulesine di Rovigo, e presa la torre Marchesana posta in su la ripa dell'Adice di verso Padova, venuto a Castel Baldo, ebbe con semplici messi le terre di Montagnana ed Esti, appartenenti l'una ad Alfonso da Esti per donazione di Massimiliano, l'altra impegnatagli da lui per sicurtà di danari prestati; i quali luoghi recuperato che ebbe Alfonso, sotto pretesto di certe galee de' viniziani che venivano su per il Po, ne rimandò la piú parte delle sue genti. Unissi con Ciamonte il principe di Anault luogotenente di Cesare, uscito di Verona con trecento lancie franzesi dugento uomini d'arme e tremila fanti tedeschi, seguitandolo sempre dietro uno alloggiamento; e lasciatosi addietro Monselice tenuto da' viniziani, vennono in quel di Vicenza, dove Lunigo e tutto il paese senza contradizione se gli arrendé: perché l'esercito viniziano, che si diceva essere di seicento uomini d'arme quattromila tra cavalli leggieri e stradiotti e ottomila fanti, sotto Giampaolo Baglione governatore e Andrea Gritti proveditore, partitosi prima da Soave e andatosi continuamente ritirando, secondo i progressi degli inimici, ne' luoghi sicuri, finalmente messa sufficiente guardia in Trevigi, e a Mestri posto mille fanti, si era ritirato alle Brentelle luogo vicino a tre miglia di Padova, in alloggiamento molto forte, perché il paese è pieno di argini e quel luogo circondato dall'acque di tre fiumi, Brenta, Brentella e Bacchiglione. Per la ritirata del quale, i vicentini del tutto abbandonati e impotenti per se stessi a difendersi, non rimanendo loro altra speranza che la misericordia del vincitore, e confidando potere piú facilmente ottenerla per mezzo di Ciamonte, mandorono a dimandargli salvocondotto per mandare imbasciadori a lui e al principe di Anault; il quale ottenuto, si presentorono in abito miserabile e pieni di mestizia e di spavento innanzi all'uno e l'altro di loro, che erano al Ponte a Barberano propinquo a dieci miglia a Vicenza. Ove, presenti tutti i capitani e persone principali degli eserciti, il capo della legazione parlò, secondo si dice, cosí:

                                                 - Se fusse noto a ciascuno quello che la città di Vicenza, invidiata già per le ricchezze e felicità sua da molte città vicine, ha patito, poiché, piú per errore e stoltizia degli uomini e forse piú per una certa fatale disposizione che per altra cagione, ritornò sotto il dominio de' viniziani, e i danni infiniti e intollerabili che ha ricevuto, ci rendiamo certissimi, invittissimi capitani, che ne' petti vostri sarebbe maggiore la pietà delle nostre miserie che lo sdegno e l'odio per la memoria della ribellione: se ribellione merita d'essere chiamata lo errore di quella notte, nella quale, essendo spaventato il popolo nostro, perché lo esercito inimico aveva per forza espugnato il borgo della Postierla, non per ribellarsi né per fuggire lo imperio mansueto di Cesare ma per liberarsi dal sacco e dagli ultimi mali delle città, uscirono fuora imbasciadori ad accordarsi con gli inimici; movendo sopratutto gli uomini nostri, non assuefatti all'armi e a' pericoli della guerra, l'autorità del Fracassa; il quale, capitano esperimentato in tante guerre e soldato di Cesare, o per fraude o per timore (il che a noi non appartiene di ricercare), ci consigliò che mediante l'accordo provedessimo alla salute delle donne e figliuoli nostri e della nostra afflitta patria. In modo che si conosce che non alcuna malignità ma solo il timore, accresciuto per l'autorità di tale capitano, fu cagione non che si deliberasse ma piú tosto che in breve spazio di tempo, in tanto tumulto in tanti strepiti d'arme in tanti tuoni d'artiglierie nuovi agli orecchi nostri, si precipitasse ad arrenderci a viniziani; la felicità de' quali e la potenza non era tale che ci dovesse per se stessa invitare a questo: e quanto sieno diversi i falli nati dal timore e dallo errore da quegli peccati che sono mossi dalla fraude e dalla mala intenzione è manifestissimo a ciascuno. Ma quando bene la nostra fusse stata non paura ma volontà di rebellarsi, e fusse stato consiglio e consentimento universale di tutti, non, in tanta confusione, piú presto movimento e ardire di pochi non contradetto dagli altri, e che i peccati di quella infelice città fussino del tutto inescusabili, le nostre calamità da quel tempo in qua sono state tali che si potrebbe veramente dire che la penitenza fusse senza comparazione stata maggiore che il peccato: perché dentro alle mura, per le rapine de' soldati stati alla guardia nostra, siamo stati miserabilmente spogliati di tutte le facoltà; e chi non sa quel che, di fuora, per la guerra continua abbiamo patito? e che rimane piú in questo misero paese che sia salvo? Arse tutte le case delle nostre possessioni, tagliati tutti gli alberi, perduti gli animali, non condotte al debito fine già due anni le ricolte, impedite in grande parte le semente, senza entrate e senza frutti, senza speranza che mai piú possa risorgere questo distruttissimo paese, siamo ridotti in tante angustie, in tanta miseria che, avendo consumato per sostentare la vita nostra, per resistere a infinite spese che per necessità abbiamo fatte, tutto quello che occultamente ci avanzava, non sappiamo piú come in futuro possiamo pascere noi medesimi e le famiglie nostre. Venga qualunque piú inimico animo e piú crudele, ma che in altri tempi abbia veduto la patria nostra, a vederla di presente; siamo certi non potrà contenere le lagrime, considerando che quella città che, benché piccola di circuito, soleva essere pienissima di popolo, superbissima di pompe, illustre per tante magnifiche e ricche case, ricetto continuo di tutti i forestieri, quella città dove non si attendeva ad altro che a conviti a giostre e a piaceri, sia ora quasi desolata di abitatori, le donne e gli uomini vestiti vilissimamente, non vi essere piú aperta casa alcuna, non vi essere alcuno che possa promettersi di avere modo di sostentare sé e la famiglia sua pure per uno mese, e in cambio di magnificenze, di feste e di piaceri non si vedere e sentire altro che miserie, lamentazioni publiche di tutti gli uomini, pianti miserabili per tutte le strade di tutte le donne: le quali sarebbono ancora maggiori se non ci ricordassimo che dalla volontà tua, gloriosissimo principe di Anault, depende o l'ultima desolazione di quella afflittissima nostra patria o la speranza di potere, sotto l'ombra di Cesare, sotto il governo della sapienza e clemenza tua, non diciamo respirare o risorgere, perché questo è impossibile, ma, consumando la vita per ogni estremità, fuggire almeno l'ultimo eccidio. Speriamo, perché ci è nota la benignità e umanità tua, perché è verisimile che tu vogli imitare Cesare, degli esempli, della clemenza e mansuetudine del quale è piena tutta l'Europa. Sono consumate le sostanze nostre, sono finite tutte le nostre speranze, non ci è piú altro che le vite e le persone: nelle quali incrudelire, che frutto sarebbe a Cesare? che laude a te? Supplichiamti con umilissimi prieghi, (i quali immaginati essere mescolati con pianti miserabili d'ogni sesso, d'ogni età, d'ogni ordine della nostra città) che tu voglia che Vicenza infelice sia esempio a tutti gli altri della mansuetudine dello imperio tedesco, sia simile alla clemenza e alla magnanimità de' vostri maggiori; che trovandosi vittoriosi in Italia conservorono le città vinte, eleggendole molti di loro per propria abitazione: donde, con gloria grande del sangue germanico, discesono tante case illustri in Italia, quegli da Gonzaga quegli da Carrara quegli dalla Scala, antichi già signori nostri. Sia esempio, in uno tempo medesimo, Vicenza, che i viniziani nutriti e sostentati da noi ne' minori pericoli l'abbino ne' maggiori pericoli, ne' quali erano tenuti a difenderla, vituperosamente abbandonata; e che i tedeschi, che avevano qualche causa di offenderla, l'abbino gloriosamente conservata. Piglia il patrocinio nostro tu, invittissimo Ciamonte, e commemora l'esempio del tuo re, nel quale fu maggiore la clemenza verso i milanesi e verso i genovesi, che senza causa o necessità alcuna si erano spontaneamente ribellati, che non fu il fallo loro; a' quali avendo del tutto perdonato, essi, ricomperati da tanto beneficio, gli sono stati sempre divotissimi e fedelissimi. Vicenza conservata, o principe di Analt, se non sarà a Cesare a comodità sarà almeno a gloria, rimanendo come esempio della sua benignità; distrutta non potrà essergli utile a cosa alcuna, e la severità usata contro a noi sarà molesta a tutta Italia, la clemenza farà appresso a tutti piú grato il nome di Cesare: e cosí, come nelle opere militari e nel guidare gli eserciti si riconosce in lui la similitudine dello antico Cesare, sarà riconosciuta similmente la clemenza; dalla quale fu piú esaltato insino al cielo e fatto divino il nome suo, piú perpetuata appresso a' posteri la sua memoria, che da l'armi. Vicenza, città antica e chiara, e già piena di tanta nobiltà, è in mano tua; da te aspetta la sua conservazione o la sua distruzione, la sua vita o la sua morte. Muovati la pietà di tante persone innocenti, di tante infelici donne e piccoli fanciulli i quali, quella calamitosa notte e piena di insania e di errori, non intervennono a cosa alcuna; e i quali ora con pianti e lamenti miserabili aspettano la tua deliberazione. Manda fuora quella voce, tanto desiderata, di misericordia e di clemenza; per la quale, risuscitata, la infelicissima patria nostra ti chiamerà sempre suo padre e suo conservatore. -

                                                 Non potette orazione sí miserabile, né la pietà verso la infelice città, mitigare l'animo del principe di Analt in modo che, pieno di insolenza barbara e tedesca crudeltà, non potendo temperarsi che le parole fussino manco feroci che i fatti, non facesse inumanissima risposta; la quale per suo comandamento fu pronunziata da uno dottore suo auditore, in questa sentenza:

                                                 - Non crediate, o ribelli vicentini, che le lusinghevoli parole vostre sieno bastanti a cancellare la memoria dei delitti commessi in grandissimo vilipendio del nome di Cesare: alla cui grandezza e alla benignità con la quale vi aveva ricevuto non avendo rispetto alcuno, comunicato insieme da tutta la città di Vicenza il consiglio, chiamaste dentro l'esercito viniziano; il quale avendo con grandissima difficoltà sforzato il borgo, diffidando di potere vincere la città, pensava già di levarsi; chiamastelo contro alla volontà del principe che rappresentava l'imperio di Cesare, costrignestelo a ritirarsi nella fortezza; e pieni di rabbia e di veleno saccheggiaste l'artiglierie e la munizione di Cesare, laceraste i suoi padiglioni, spiegati da lui in tante guerre e gloriosi per tante vittorie. Non feciono queste cose i soldati viniziani ma il popolo di Vicenza, scoprendo sete smisurata del sangue tedesco. Non mancò per la perfidia vostra che l'esercito viniziano, se conosciuta l'occasione avesse seguitato la vittoria, non pigliasse Verona. Né furono questi i consigli o conforti di Fracassa, il quale circonvenuto dalle vostre false calunnie ha giustificata chiaramente la sua innocenza; fu pure la vostra malignità, fu l'odio che senza cagione avete al nome tedesco. Sono i peccati vostri inescusabili, sono sí grandi che non meritano rimessione; sarebbe non solo di gravissimo danno ma eziandio vituperabile quella clemenza che si usasse con voi, perché si conosce chiaramente che in ogni occasione fareste peggio. Né sono stati errori i vostri ma sceleratezze; né i danni che voi avete ricevuti sono stati per penitenza de' delitti ma perché contumacemente avete voluto perseverare nella rebellione: e ora chiedete la pietà e la misericordia di Cesare, il quale avete tradito, quando abbandonati da' viniziani non avete modo alcuno di difendervi. Aveva deliberato il principe di non vi udire: cosí era la mente e la commissione di Cesare; non ha potuto negarlo perché cosí è stata la volontà di Ciamonte; ma non per questo si altererà quella sentenza che, dal dí della vostra rebellione, è stata sempre fissa nella mente di Cesare: non vi vuole il principe altrimenti che a discrezione delle facoltà, della vita e dell'onore. Né sperate che questo si faccia per avere facoltà di dimostrare piú la sua clemenza, ma si fa per potere piú liberamente farvi esempio a tutto il mondo della pena che si conviene contro a coloro che sí sceleratamente hanno mancato al principe suo della loro fede. -

                                                 Attoniti per sí atroce risposta i vicentini, poiché per alquanto spazio furono stati immobili, come privi di tutti i sentimenti, cominciorno di nuovo con lagrime e con lamenti a raccomandarsi alla misericordia del vincitore; ma essendo ribattuti dal medesimo dottore, che gli riprese con parole piú inumane e piú barbare che le prime, non sapevano né che rispondere né che pensare. Se non che Ciamonte gli confortò che ubbidissino alla necessità, e col rimettersi liberamente nello arbitrio del principe cercassino di placare la sua indegnazione: la mansuetudine di Cesare essere grandissima, né doversi credere che il principe, nobile di sangue ed eccellente capitano, avesse a fare cosa indegna della sua nobiltà e della sua virtú: né dovergli spaventare l'acerbità della risposta, anzi essere da desiderare che gli animi generosi e nobili si traportino con le parole, perché spesso, avendo sfogato parte dello sdegno in questo modo, alleggieriscono l'asprezza de' fatti: offersesi intercessore a mitigare l'ira del principe, ma che essi prevenissino col rimettersi in lui liberamente. Il consiglio del quale e la necessità seguitando i vicentini, distesisi in terra, rimesseno assolutamente sé e la loro città alla potestà del vincitore. Le parole de' quali ripigliando Ciamonte, confortò il principe che nel punirgli avesse piú rispetto alla grandezza e alla fama di Cesare che al delitto loro; né facesse esempio, agli altri che fussino caduti o per potere cadere in simili errori, tale che, disperata la misericordia, avessino a perseverare insino all'ultima ostinazione. Sempre la clemenza avere dato a' príncipi benivolenza e riputazione; la crudeltà, dove non fusse necessario, avere sempre fatto effetti contrari, né rimosso, come molti imprudentemente credevano, gli ostacoli e le difficoltà ma accresciutele, e fattele maggiori. Con l'autorità del quale, e co' prieghi di molti altri e le miserabili lamentazioni de' vicentini, fu contento finalmente Analt promettere loro la salute delle persone, restando libera allo arbitrio e volontà sua la disposizione di tutte le sostanze: preda maggiore in opinione che in effetti, perché già la città era rimasta quasi vota di persone e di robe. Le quali ricercando la ferità tedesca, inteso che in certo monte vicino a Vicenza erano ridotti molti della città e del contado con le loro robe, in due caverne dette la grotta di Masano, ove per la fortezza del luogo e difficoltà dello entrarvi si reputavano essere sicuri, i tedeschi andati per pigliargli, combattuta invano e non senza qualche loro danno la caverna maggiore, andati alla minore né potendo sforzarla altrimenti, fatti fuochi grandissimi la ottennono con la forza del fumo; dove è fama morissino piú di mille persone.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.4

                                                  

                                                 Presa di Legnago da parte de' francesi. Nuove terre abbandonate da' veneziani; guerra devastatrice e indecisa nel Friuli. Nuovi accordi fra Massimiliano e il re di Francia. Presa di Monselice. L'esercito francese si ritira nel ducato di Milano.

                                                  

                                                 Presa Vicenza, si mostrava maggiore la difficoltà delle altre cose che da principio non era stato disegnato. Perché Massimiliano non solamente non si moveva contro a' viniziani, come aveva promesso, ma le genti che aveva in Italia, per mancamento di danari, continuamente diminuivano; in modo che Ciamonte era necessitato di pensare non che altro alla custodia di Vicenza; e nondimeno deliberò di andare a campo a Lignago, la quale terra se non si acquistava riuscivano di niuno momento tutte le cose fatte insino a quel giorno. Passa per la terra di Lignago il fiume dello Adige, rimanendo verso Montagnana la parte minore detta da loro il Porto; ove i viniziani, confidandosi non tanto nella fortezza della terra e nella virtú de' difensori quanto nello impedimento dell'acque, aveano tagliato il fiume in uno luogo; dalla ripa di là è la parte maggiore, dalla quale l'aveano tagliato in due luoghi; per le quali tagliate il fiume avendo sparso ne' luoghi piú bassi alcuni rami aveva coperto in modo il paese circostante che, per essere stato soffocato dall'acque molti mesi, era diventato quasi palude. Facilitò in qualche parte le difficoltà, la temerità e il disordine degli inimici: perché venendo Ciamonte con l'esercito ad alloggiare a Minerbio distante tre miglia da Lignago, e avendo mandati innanzi alcuni cavalli e fanti de' suoi, scontrorono, al passare dell'ultimo ramo propinquo a mezzo miglio a Lignago, i fanti che stavano a guardia di Porto, usciti per vietare loro il passare; ma i fanti guasconi e spagnuoli, entrati ferocemente nell'acqua insino al petto, gli urtorono, e poi gli seguitorno con tale impeto che alla mescolata insieme con loro entrorono in Porto; salvatasi piccola parte di quegli fanti, perché alcuni ne furno ammazzati nel combattere e la piú parte degli altri, studiando di ritirarsi in Lignago, era annegata nel passare lo Adice. Per il quale successo, Ciamonte mutato il disegno di alloggiare a Minerbio, alloggiò la sera medesima in Porto; e fatte condurre l'artiglierie grosse sotto l'acqua (le quali il fondo del terreno reggeva), la notte medesima fece serrare da' guastatori la tagliata del fiume: e conoscendo che dalla parte di Porto era Lignago inespugnabile, per la larghezza del fiume sí grosso che con difficoltà si poteva battere da quella parte (benché tra Lignago e Porto, per essere infra gli argini, non sia sí grosso come di sotto), comandò si gittasse il ponte per passare dalla parte di là l'artiglierie e la maggiore parte dello esercito; ma trovato che le barche condotte da lui non erano pari alla larghezza del fiume, fermato l'esercito appresso al fiume all'opposito di Lignago, di là dall'Adice fece passare in sulle barche il capitano Molardo, con quattromila fanti guasconi e con sei pezzi di artiglieria. Il quale passato, si cominciò da l'una parte e l'altra del fiume a percuotere il bastione fatto in su l'argine alla punta della terra, dalla banda di sopra; ed essendone già abbattuta una parte, ancora che quegli di dentro non omettessino di riparare sollecitamente, la notte seguente il proveditore viniziano, avendo maggiore timore delle offese degli inimici che speranza nella difesa de' suoi, si ritirò improvisamente con alcuni gentiluomini viniziani nella rocca: la ritirata del quale intesasi come fu dí, il capitano de' fanti che era nel bastione si arrendé a Molardo, salvo l'avere e le persone; e nondimeno, uscitone, fu co' fanti svaligiato da quegli del campo. Preso il bastione, fu da Molardo saccheggiata la terra; e i fanti che erano a guardia d'uno bastione fabricato in su l'altra punta della terra se ne fuggirono per quegli paludi, lasciate l'armi all'entrare dell'acque: e cosí, per la viltà di quegli che vi erano dentro, riuscí piú facile e piú presto che non si era stimato l'acquisto di Lignago. Né fece maggiore resistenza il castello che avesse fatto la terra; perché essendo il dí seguente levate con l'artiglieria le difese, e cominciato a tagliare da basso co' picconi uno cantone d'uno torrione, con intenzione di dargli poi fuoco, si arrenderono: con patto che, rimanendo i gentiluomini viniziani in potestà di Ciamonte, i soldati lasciate l'armi se ne andassino salvi in giubbone. Mescolò la fortuna nella vittoria con amaro fiele l'allegrezza di Ciamonte, perché quivi ebbe avviso della morte del cardinale di Roano suo zio, per l'autorità somma del quale appresso al re di Francia esaltato a grandissime ricchezze e onori sperava continuamente cose maggiori. In Lignago, per essere i tedeschi impotenti a mettervi gente, lasciò Ciamonte a guardia cento lancie e mille fanti; e avendo dipoi licenziato i fanti grigioni e vallesi, si preparava per ritornare col rimanente dello esercito nel ducato di Milano per comandamento del re, inclinato a non continuare piú in tanta spesa, dalla quale, per non corrispondere alle deliberazioni prima fatte le provisioni dalla parte di Cesare, non risultava effetto alcuno importante. Ma gli comandò poi il re che ancora soprasedesse per tutto giugno, perché Cesare venuto a Spruch, pieno di difficoltà secondo il solito ma pieno di disegni e di speranze, faceva instanza non si partisse, promettendo di passare d'ora in ora in Italia.

                                                 Nel quale tempo, desiderando i tedeschi di recuperare Morostico, Cittadella, Basciano e altre terre circostanti, per fare piú facile a Cesare il venire da quella parte, Ciamonte si fermò coll'esercito a Lungara in sul fiume del Bacchiglione, per impedire alle genti de' viniziani l'entrare in Vicenza, rimasta senza guardia, e similmente l'opporsi a' tedeschi; ma inteso quivi le genti viniziane essersi ritirate in Padova, congiunti seco di nuovo i tedeschi, vennono alle Torricelle, in sulla strada maestra che va da Vicenza a Padova: onde lasciata Padova a mano destra, si condussono a Cittadella, con non piccola incomodità di vettovaglie, impedite da i cavalli leggieri che erano in Padova e molto piú da quegli che erano a Monselice. Arrendessi Cittadella senza contrasto, e il medesimo fece poi Morostico, Bassano e l'altre terre circostanti, abbandonate dalle genti viniziane: però espedite le cose da quella parte, gli eserciti, ritornati alle Torricelle, lasciato Padova in su la destra e girando alla sinistra verso la montagna, si fermorno in su la Brenta accanto alla montagna, a dieci miglia di Vicenza; condottisi in quel luogo perché i tedeschi desideravano di occupare la Scala, passo opportuno per le genti che avevano a venire di Germania, e che solo di tutte le terre da Trevigi insino a Vicenza rimaneva in mano de' viniziani. Dal quale alloggiamento partito il principe di Analt, co' tedeschi e con cento lancie franzesi, si dirizzò alla Scala lontana venti miglia; ma non potendo passare innanzi, perché i villani pieni di incredibile affezione verso i viniziani, e in tanto che. fatti prigioni, eleggevano piú tosto di morire che di rinnegare o bestemmiare il nome loro, avevano occupato molti passi nella montagna, ottenuto per accordo Castelnuovo, passo medesimamente della montagna, se ne ritornò allo alloggiamento della Brenta; avendo mandato molti fanti per altra via verso la Scala: i quali, secondo l'ordine avuto da lui, schifando la via di Bassano per sfuggire il Covolo, passo forte in quelle montagne, girorno piú basso per il cammino di Feltro; e trovato in Feltro pochissima gente e saccheggiatolo e abbruciatolo, si condusseno al passo della Scala, il quale insieme con quello del Covolo trovorno abbandonato da ciascuno. Né erano in questo tempo minori ruine nel paese del Friuli, perché assaltato ora da' viniziani ora da' tedeschi, ora difeso ora predato da' gentiluomini del paese, e facendosi ora innanzi questi ora ritirandosi quegli secondo l'occasione, non si sentiva per tutto altro che morti, sacchi e incendi; accadendo che spesso uno luogo medesimo saccheggiato prima da una parte fu poi saccheggiato e abbruciato dall'altra: e da pochissimi luoghi, che erano forti, in fuora, sottoposto tutto il resto a questa miserabile distruzione. Le quali cose non avendo avuto in sé fatto alcuno memorabile, sarebbe superfluo raccontare particolarmente e fastidioso a intendere tanto varie rivoluzioni, le quali non partorivano effetto alcuno alla somma e importanza della guerra.

                                                 Ma approssimandosi il tempo determinato alla partita dell'esercito franzese, fu di nuovo convenuto tra Cesare e il re di Francia che l'esercito suo soprasedesse per tutto 'l mese seguente, ma che le spese straordinarie (cioè quelle che corrono oltre al pagamento delle genti), le quali aveva insino ad allora pagate il re, si pagassino per l'avvenire da Cesare, e similmente i fanti per il mese predetto; ma, perché Cesare non aveva danari, che, fatto il calcolo quel che importassino queste spese, il re gli prestasse, computate queste spese, insino in cinquantamila ducati; e che se Cesare non restituiva, infra uno anno prossimo, questi e gli altri cinquantamila che gli erano stati prestati prima, il re avesse, insino ne fusse rimborsato, a tenere in mano Verona con tutto il suo territorio.

                                                 Avuto Ciamonte il comandamento dal re di soprasedere, voltò l'animo all'espugnazione di Monselice; e perciò, subito che furno unite co' tedeschi quattrocento lancie spagnuole guidate dal duca di Termini, le quali mandate dal re cattolico in aiuto di Massimiliano avevano, secondo le consuete arti loro, camminato tardissimamente, gli eserciti, passato il fiume della Brenta e dipoi alla villa della Purla il fiume del Bacchiglione, presso a cinque miglia di Padova, arrivorono a Monselice; avendo in questo tempo patito molto nelle vettovaglie e ne' saccomanni, per le correrie de' cavalli che erano in Padova e in Monselice: da' quali anche fu preso Sonzino Benzone da Crema condottiere del re di Francia, che con pochi cavalli andava a rivedere le scorte; il quale, perché era stato autore della ribellione di Crema, Andrea Gritti, avendo piú in considerazione l'essere suddito de' viniziani che l'essere soldato degl'inimici, fece subito impiccare. Sorge nella terra di Monselice, posta nella pianura, come uno monte di sasso (dal quale è detta Monselice) che si distende molto in alto; nella sommità del quale è una rocca, e per il dosso del monte, che tuttavia si ristrigne, sono tre procinti di muraglia, il piú basso de' quali abbraccia tanto spazio che a difenderlo da esercito giusto sarebbeno necessari duemila fanti. Abbandonorno gli inimici subitamente la terra; nella quale alloggiati i franzesi piantorno l'artiglieria contro al primo procinto, con la quale essendosi battuto assai e da piú lati, i fanti spagnuoli e guasconi cominciorono senza ordine ad accostarsi alla muraglia, tentando di salire dentro da molte parti. Eranvi a guardia settecento fanti; i quali, pensando fusse battaglia ordinata né essendo sufficienti per il numero a potere resistere quando fussino assaltati da piú luoghi, fatta leggiera difesa cominciorono a ritirarsi, per deliberazione fatta, secondo si credé, prima tra loro: ma lo feciono tanto disordinatamente che gli inimici che erano già cominciati a entrare dentro, scaramucciando con loro e seguitandogli per la costa, entrorno seco mescolati negli altri due procinti e dipoi insino nel castello della fortezza; dove essendo ammazzata la maggiore parte di loro, gli altri, ritiratisi nella torre e volendo arrendersi salve le persone, non erano accettati da' tedeschi: i quali dettono alla fine fuoco al mastio della torre, in modo che di settecento fanti con cinque conestabili, e principale di tutti Martino dal Borgo a San Sepolcro di Toscana, se ne salvorono pochissimi; avendo ciascuno minore compassione della loro calamità per la viltà che avevano usata. Né si dimostrò minore la crudeltà tedesca contro agli edifici e alle mura, perché non solo, per non avere gente da guardarla, rovinorono la fortezza di Monselice ma abbruciorono la terra. Dopo il qual dí non feceno piú questi eserciti cosa alcuna importante, eccetto che una correria di quattrocento lancie franzesi insino in su le porte di Padova.

                                                 Partí in questo tempo medesimo dal campo il duca di Ferrara e con lui Ciattiglione, mandato da Ciamonte con dugento cinquanta lancie per la custodia di Ferrara, dove era non piccola sospezione per la vicinità delle genti del pontefice: e nondimeno i tedeschi stimolavano Ciamonte che, secondo che prima si era trattato tra loro, andasse a campo a Trevigi, dimostrando essere di piccola importanza le cose fatte con tanta spesa se non si espugnava quella città, perché di potere spugnare Padova non s'avea speranza alcuna. Ma in contrario replicava Ciamonte: non essere passato Cesare contro a' viniziani con quelle forze che avea promesse, quegli che erano congiunti seco essere ridotti a piccolo numero, in Trevigi essere molti soldati, la città munita con grandissime fortificazioni, non si trovare piú nel paese vettovaglie ed essere molto difficile il condurne di luoghi lontani al campo per le assidue molestie de' cavalli leggieri e degli stradiotti de' viniziani; i quali, avvisati per la diligenza de' villani di ogni piccolo loro movimento ed essendo tanto numero, apparivano sempre dovunque potessino danneggiargli. Levò queste disputazioni nuovo comandamento venuto di Francia a Ciamonte che, lasciate quattrocento lancie e mille cinquecento fanti spagnuoli, pagati dal re, in compagnia de' tedeschi, oltre a quegli che erano alla guardia di Lignago, ritornasse subito coll'esercito nel ducato di Milano: perché già, per opera del pontefice, si cominciavano a scoprire molte molestie e pericoli. Però Ciamonte, lasciato Persis al governo di queste genti, seguitò il comandamento del re; e i tedeschi, diffidando di potere fare piú effetto alcuno importante, si fermorono a Lunigo.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.5

                                                  

                                                 Cresce sempre piú l'odio del pontefice contro il re di Francia per la protezione di questo al duca di Ferrara. Nuove manifestazioni dell'avversione del pontefice al duca ed al re. Sospetti e gelosia di Ferdinando d'Aragona per il re di Francia.

                                                  

                                                 Aveva il pontefice propostosi nell'animo, e in questo fermati ostinatamente tutti i pensieri suoi, non solo di reintegrare la Chiesa di molti stati, i quali pretendeva appartenersegli, ma oltre a questo di cacciare il re di Francia di tutto quello possedeva in Italia; movendolo o occulta e antica inimicizia che avesse contro a lui o perché il sospetto avuto tanti anni si fusse convertito in odio potentissimo, o la cupidità della gloria di essere stato, come diceva poi, liberatore di Italia da' barbari. A questi fini aveva assoluto dalle censure i viniziani, a questi fini fatta la intelligenza e stretta congiunzione co' svizzeri; simulando di procedere a queste cose piú per sicurtà sua che per desiderio di offendere altri: a questi fini, non avendo potuto rimuovere il duca di Ferrara dalla divozione del re di Francia, aveva determinato di fare ogni opera per occupare quello ducato, pretendendo di muoversi solamente per le differenze delle gabelle e de' sali. E nondimeno, per non manifestare totalmente, insino che avesse le cose meglio preparate, i suoi pensieri, trattava continuamente con Alberto Pio di concordarsi col re di Francia; il quale, persuadendosi non avere seco altra differenza che per causa della protezione del duca di Ferrara e desideroso sopramodo di fuggire la sua inimicizia, consentiva, di fare con lui nuove convenzioni, riferendosi a capitoli di Cambrai, ne' quali si esprimeva che nessuno de' confederati potesse ingerirsi nelle cose appartenenti alla Chiesa, e inserendovi tali parole e tali clausule che al pontefice fusse lecito procedere contro al duca quanto apparteneva alle particolarità de' sali e delle gabelle, a' quali fini solamente pensava il re distendersi i pensieri suoi: interpretando talmente l'obligo che avea della protezione del duca, che e' paresse quasi potesse convenire in questo modo lecitamente. Ma quanto piú il re si accostava alle dimande del pontefice tanto piú egli si discostava: non lo piegando in parte alcuna la morte succeduta del cardinale di Roano, perché a quegli che, arguendo essere finito il sospetto, lo confortavano alla pace rispondeva vivere il medesimo re e però durare il medesimo sospetto; allegando in confermazione di queste parole, sapersi che l'accordo fatto dal cardinale di Pavia era stato violato del re per propria sua deliberazione, contro alla volontà e consiglio del cardinale di Roano: anzi, a chi piú perspicacemente considerò i progressi suoi, parve se ne accrescessino il suo animo e le speranze. Né senza cagione: perché, essendo tali le qualità del re che aveva piú bisogno di essere retto che e' fusse atto a reggere, non è dubbio che la morte di Roano indebolí molto le cose sue; conciossiaché in lui oltre alla lunga esperienza fusse nervo grande e valore, e tanta autorità appresso al re che quasi non mai si discostasse dal consiglio suo, donde egli confidando nella grandezza sua ardiva spesse volte risolvere e dare forma alle cose per se stesso; condizione che non militando in alcuno di quegli che succedettono nel governo, non ardivano non che deliberare ma né pure di parlare al re di cose che gli fussino moleste, né egli prestava la medesima fede a' consigli loro; ed essendo piú persone e avendo rispetto l'uno a l'altro, né confidandosi all'autorità ancora nuova, procedevano piú lentamente e piú freddamente che non ricercava la importanza delle cose presenti e che non sarebbe stato necessario contro alla caldezza e impeto del pontefice. Il quale, non accettando niuno dei partiti proposti dal re, lo ricercò alla fine apertamente che rinunziasse, non con condizione o limitazione ma semplicemente e assolutamente, alla protezione presa del duca di Ferrara; e cercando il re di persuadergli essergli di troppa infamia una tale rinunziazione, rispose in ultimo che, poi che il re recusava di renunziare semplicemente, non voleva convenire seco né anche essergli opposito, ma conservandosi libero da ogni obligazione con ciascuno, attenderebbe a guardare quietamente lo stato della Chiesa: lamentandosi piú che mai del duca di Ferrara che, confortato da amici suoi a soprasedere di fare il sale, aveva risposto non potere seguitare questo consiglio per non pregiudicare alle ragioni dello imperio, al quale apparteneva il dominio diretto di Comacchio. Ma fu oltre a questo dubitazione e opinione di molti, la quale in progresso di tempo si augumentò, che Alberto Pio imbasciadore del re di Francia, non procedendo sinceramente nella sua legazione, attendesse a concitare il pontefice contro al duca di Ferrara; movendolo il desiderio ardentissimo, nel quale continuò insino alla morte, che Alfonso fusse spogliato del ducato di Ferrara: perché avendo Ercole padre di Alfonso ricevuto, non molti anni avanti, da Giberto Pio la metà del dominio di Carpi, datogli in ricompenso il castello di Sassuolo con alcune altre terre, dubitava Alberto di non avere (come bisogna spesso che 'l vicino manco potente ceda alla cupidità del piú potente) a cedergli alla fine l'altra metà che apparteneva a sé. Ma quel che di questo sia la verità, il pontefice, dimostrando segni piú implacabili contro ad Alfonso e avendo già in animo di muovere l'armi, si preparava di procedergli contro con le censure, attendendo di giustificare i fondamenti, e specialmente avendo trovato, secondo diceva, nelle scritture della camera apostolica la investitura fatta da' pontefici alla casa da Esti della terra di Comacchio.

                                                 Questi erano palesemente gli andamenti del pontefice; ma occultamente trattava di cominciare movimenti molto maggiori, parendogli avere fondato le cose sue con l'amicizia de' svizzeri, con l'essere in piede i viniziani e ubbidienti a' cenni suoi, vedere inclinato a' medesimi fini o almeno non congiunto col re di Francia sinceramente il re di Aragona, deboli in modo le forze e l'autorità di Cesare che non gli dava causa di temerne, né essendo senza speranza di potere concitare il re di Inghilterra. Ma sopratutto gli accresceva l'animo quello che arebbe dovuto mitigarlo, cioè il conoscere che il re di Francia, aborrente di fare la guerra con la Chiesa, desiderava sommamente la pace; in modo che gli pareva che sempre dovesse essere in potestà sua il fare concordia seco, eziandio poiché gli avesse mosso contro l'armi. Per le quali cose diventando ogni dí piú insolente, e moltiplicando scopertamente nelle querele e nelle minaccie contro al re di Francia e contro al duca di Ferrara, recusò il dí della festività di san Piero, nel quale dí secondo l'antica usanza si offeriscono i censi dovuti alla sedia apostolica, accettare il censo dal duca di Ferrara; allegando che la concessione di Alessandro sesto, che nel matrimonio della figliuola l'aveva da quattromila ducati ridotto a cento, non era valida in pregiudicio di quella sedia: e nel dí medesimo, avendo prima negato licenza di ritornarsene in Francia al cardinale di Aus e agli altri cardinali franzesi, inteso che quello di Aus era uscito con reti e con cani in campagna, avendo sospetto vano che occultamente non si partisse, mandato precipitosamente a pigliarlo, lo ritenne prigione in Castel Santo Agnolo. Cosí, già scoprendosi in manifesta contenzione col re di Francia, e però costretto tanto piú a fare fondamenti maggiori, concedette al re cattolico la investitura del regno di Napoli, col censo medesimo col quale l'avevano ottenuta i re di Aragona; avendo prima negato di concederla se non col censo di quarantottomila ducati, col quale l'avevano ottenuta i re franzesi: seguitando il pontefice in questa concessione non tanto l'obligazione la quale, secondo il consueto dell'antiche investiture, gli fece quel re di tenere ciascuno anno per difesa dello stato della Chiesa, qualunque volta ne fusse ricercato, trecento uomini d'arme, quanto il farselo benevolo: e la speranza che questi aiuti potessino, in qualche occasione, essere cagione di condurlo a inimicizia aperta col re di Francia. Della quale erano già sparsi i semi, perché il re cattolico, insospettito della grandezza del re di Francia, e ingelosito della sua ambizione, poiché non contento a' termini della lega di Cambrai cercava di tirare sotto il dominio suo la città di Verona, mosso ancora dalla antica emulazione, desiderava non mediocremente che qualche impedimento s'opponesse alle cose sue; e perciò non cessava di confortare la concordia tra Cesare e i viniziani, molto desiderata dal pontefice: nelle quali cose benché occultissimamente procedesse non era possibile che del tutto si coprissino i pensieri suoi; onde essendo sorta in Sicilia la sua armata, destinata ad assaltare l'isola delle Gerbe (è questa appresso a' latini la Sirte maggiore), faceva sospetto al re e metteva negli animi degli uomini, consci della astuzia sua, diverse dubitazioni.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.6

                                                  

                                                 Disegni del pontefice contro il re di Francia. Inizi della guerra contro Ferrara. Insuccesso della spedizione veneto pontificia contro Genova. Successi dell'esercito pontificio nel ferrarese.

                                                  

                                                 Ma cominciorono al re di Francia le molestie onde manco pensava, e in tempo che non pareva che alcuno movimento d'arme potesse essere preparato contro a sé. Perché il pontefice, procedendo con grandissimo secreto, trattava che in uno tempo medesimo fusse assaltata Genova per terra e per mare, e che nel ducato di Milano scendessino dodicimila svizzeri, che i viniziani unite tutte le forze loro si movessino per ricuperare le terre che si tenevano per Cesare, e che l'esercito suo entrasse nel territorio di Ferrara, con intenzione di farlo dipoi passare nel ducato di Milano se a' svizzeri cominciassino a succedere le cose felicemente: sperando che Genova, assaltata all'improviso, avesse facilmente a fare mutazione, per la volontà di molti avversa allo imperio de' franzesi e perché si solleverebbe la parte Fregosa, procedendosi sotto nome di fare doge Ottaviano, il padre e il zio del quale erano stati nella medesima degnità; che i franzesi, spaventati per il movimento di Genova e assaltati da' svizzeri, rivocherebbono nel ducato di Milano tutte le genti che aveano in aiuto di Cesare e del duca di Ferrara, onde i viniziani facilmente ricupererebbono Verona, e recuperatala procederebbono contro al ducato di Milano; il medesimo farebbono le genti sue, ottenuta facilmente, come sperava, Ferrara abbandonata dagli aiuti de' franzesi; talmente che non potrebbe difendersi contro a tanti inimici, e da una guerra tanto repentina, lo stato di Milano.

                                                 Cominciò in un tempo medesimo la guerra contro a Ferrara e contro a Genova. Perché, con tutto che 'l duca di Ferrara, contro al quale procedeva, per accelerare l'esecuzione, come contro a notorio delinquente, gli offerisse di dargli i sali fatti a Comacchio e obligarsi che non vi se ne lavorasse in futuro, licenziati di corte i suoi oratori, mosse le genti contro a lui; le quali, con la denunzia solamente di uno trombetto ottennono, non le difendendo Alfonso, Cento e la Pieve: le quali castella, appartenenti prima al vescovado di Bologna, erano state da Alessandro, nel matrimonio della figliuola, applicate al ducato di Ferrara; data ricompensa a quel vescovado di altre entrate. Contro a Genova andorno undici galee sottili de' viniziani, delle quali era capitano Grillo Contareno, e una di quelle del pontefice, in sulle quali erano Ottaviano Fregoso Ieronimo Doria e molti altri fuorusciti, e nel tempo medesimo per terra Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme e settecento fanti; il quale, partitosi dagli stipendi de' fiorentini e soldato dal pontefice, si era fermato nel territorio di Lucca sotto nome di fare la compagnia, spargendo voce d'avere poi a passare a Bologna: la stanza del quale benché avesse dato a Ciamonte qualche sospetto delle cose di Genova, nondimeno, non sapendo dovere venire l'armata, ed essendosi astutamente, per opera del pontefice, divulgato che le preparazioni per muoversi che già facevano i svizzeri e il soprasedere di Marcantonio fussino per assaltare all'improviso Ferrara, non aveva Ciamonte fatto altra provisione a Genova che di mandarvi pochi fanti. Accostossi Marcantonio con le sue genti in val di Bisagna, uno miglio presso alle mura di Genova, con tutto non fusse stato ricevuto, come il pontefice si era persuaso, né in Serezana né nella terra della Spezie; e nel tempo medesimo l'armata di mare, che aveva occupato Sestri e Chiaveri, era venuta da Rapalle alla foce del fiume Entello, che entra in mare appresso al porto di Genova. Nella quale città, al primo romore dello appropinquarsi degli inimici, era entrato in favore del re di Francia con ottocento uomini del paese il figliuolo di Gianluigi dal Fiesco, e con numero non minore uno nipote del cardinale del Finale; per i quali presidi essendo confermata la città non vi si fece dentro movimento alcuno: onde cessata la speranza principale de' fuorusciti e del pontefice, e sopravenendovi tuttavia gente di Lombardia e della riviera di ponente, ed essendo entrato nel porto Preianni con sei galee grosse, parve senza frutto e non senza pericolo il dimorarvi piú; in modo che e l'armata di mare e il Colonna per terra si ritirorono a Rapalle, tentato nel ritorno di occupare Portofino, dove fu morto Francesco Bollano, padrone di una galea de' viniziani. E partendosi dipoi l'armata per ritirarsi a Civitavecchia, Marcantonio Colonna, non confidando di potere condursi salvo per terra perché era sollevato tutto il paese, ardente, secondo l'usanza de' villani, contro a' soldati quando disfavorevolmente si ritirano, montato in su le galee con sessanta cavalli de' migliori, rimandò gli altri per terra alla Spezie; i quali furono, la maggiore parte, in quel di Genova, dipoi in quel di Lucca e ne' confini de' fiorentini, svaligiati. Passò questo assalto con piccola laude di Grillo e di Ottaviano, perché per timore si astennono da investire l'armata di Preianni, alla quale superiori, si credette che innanzi entrasse nel porto l'arebbono con vantaggio grande assaltata. Uscí del porto di Genova, dopo la partita loro, il Preianni con sette galee e quattro navi, seguitando l'armata viniziana; la quale, superiore di galee, era inferiore di numero di navi e meglio armate. Toccò l'una e l'altra all'isola dell'Elba, la viniziana in Portolungaro, la franzese in Portoferrato; e dipoi l'armata franzese, costeggiata la inimica insino al monte Argentaro, si ritornò a Genova.

                                                 Erano in questo tempo le genti del pontefice, sotto il duca d'Urbino, entrate contro al duca di Ferrara in Romagna; dove, avendo preso la terra di Lugo, Bagnacavallo e tutto quello che il duca teneva di qua dal Po, erano a campo alla rocca di Lugo. Alla quale mentre che stanno con poca diligenza e poco ordine, sopravenendo avviso che il duca di Ferrara, con le genti franzesi e con cento cinquanta uomini d'arme de' suoi, con molti cavalli leggieri e con tremila fanti tra guasconi spagnuoli e italiani, veniva per soccorrerla, il duca d'Urbino, levatosi subitamente e lasciate in preda agli inimici tre bocche d'artiglierie, si ritirò a Imola; e Alfonso con questa occasione recuperò tutto quello che in Romagna gli era stato occupato. Ma rimessosi in ordine e ingrossato di nuovo il campo ecclesiastico, ripigliò facilmente le terre medesime; e poco dipoi pigliò la rocca di Lugo, dopo averla battuta molti dí: la quale spugnata, si presentò loro occasione di maggiore successo. Perché non essendo in Modona presidio alcuno, non avendo il duca, occupato nella difesa dell'altre cose ove il pericolo era piú propinquo, potuto provedervi da se stesso né ottenere da Ciamonte che vi mandasse dugento lancie, il cardinale di Pavia, passato con l'esercito a Castelfranco, ottenne subitamente d'accordo quella città; invitato a andarvi da Gherardo e Francesco Maria conti de' Rangoni, gentiluomini modonesi, di tale autorità che ne potevano, massime Gherardo, disporre ad arbitrio loro: i quali si mosseno, secondo si credette, piú per ambizione e per cupidità di cose nuove che per altra cagione. Perduta Modona, il duca, temendo che Reggio non facesse il medesimo, vi messe subito gente; e Ciamonte, facendo dopo il danno ricevuto quel che piú utilmente arebbe fatto da principio, vi mandò dugento lancie: con tutto che già fusse occupato per il movimento de' svizzeri.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.7

                                                  

                                                 Gli svizzeri soldati dal pontefice giungono a Varese. Azione de' francesi contro gli svizzeri. Ritirata degli svizzeri.

                                                  

                                                 Era molti mesi prima finita la confederazione tra i svizzeri e il re di Francia, avendo il re perseverato nella sentenza di non accrescere loro le pensioni (benché contro al consiglio di tutti i suoi, i quali gli ricordavano considerasse di quanta importanza fusse il farsi inimiche quelle armi colle quali prima avea spaventato ciascuno); e perciò essi, sollevati dalla autorità e promesse del pontefice e istigati dal vescovo di Sion, e accendendogli sopratutto lo sdegno, per le dimande negate, contro al re, aveano con consentimento grande della moltitudine, in una dieta tenuta a Lucerna deliberato di muoversi contro a lui. Il movimento de' quali avendo presentito Ciamonte avea posto guardia a' passi verso Como, rimosso del lago tutte le barche, ritirato le vettovaglie a' luoghi sicuri e levato i ferramenti de' mulini; e incerto se i svizzeri volessino scendere nello stato di Milano o, calato il monte di San Bernardo, entrare per Val di Augusta nel Piemonte per andare a Savona, con intenzione di molestare le cose di Genova, o di condursi di quivi, passato lo Apennino, contro al duca di Ferrara, aveva indotto il duca di Savoia a negare loro il passo e, per potergli impedire, mandato di consentimento suo a Ivrea cinquecento lancie: non cessando però in questo mezzo di fare ogni opera per corrompere con doni o con promesse i príncipi della nazione, per divertirgli da questo moto. Ma questo vanamente si tentava, tanto odio avevano e tanto erano concitati, massime la moltitudine, contro al nome del re di Francia: talmente che, reputando la causa quasi propria, non ostante le difficoltà che aveva il pontefice di mandare loro denari (perché i Fucheri, mercatanti tedeschi, che avevano prima promesso di pagargli, aveano poi ricusato, per non offendere l'animo del re de' romani), si mossono al principio di settembre seimila, soldati dal pontefice, tra' quali erano quattrocento cavalli, la metà scoppiettieri, dumila cinquecento fanti con gli scoppietti e cinquanta con gli archibusi, senza artiglieria senza provedimento o di ponti o di navi; e voltatisi al cammino di Bellinzone, e preso il ponte della Tresa abbandonato da seicento fanti de' franzesi che vi erano alla guardia, si fermorno a Varese, per aspettare, secondo publicavano, il vescovo di Sion con nuove genti.

                                                 Turbava molto questa cosa l'animo de' franzesi, e per il terrore ordinario che avevano de' svizzeri e piú particolarmente perché allora era piccolo numero di gente d'arme a Milano; essendone distribuita una parte alla guardia di Brescia, Lignago, Valeggio e Peschiera, trecento lancie erano andate in aiuto al duca di Ferrara, cinquecento congiunte con l'esercito tedesco contro a' viniziani: nondimeno Ciamonte, ristrette le forze sue, venne con cinquecento lancie e quattromila fanti nel piano di Castiglione distante da Varese due miglia; avendo mandato nel monte di Brianza Gianiacopo da Triulzi, acciocché non tanto con la gente che menò seco, che fu piccola quantità, quanto col favore degli uomini del paese si sforzasse di impedire che i svizzeri non facessino quel cammino. I quali, subito che arrivorono a Varese, avevano mandato a dimandare il passo a Ciamonte, dicendo volere andare in servigio della Chiesa; e perciò si dubitava che o per il ducato di Milano volessino passare a Ferrara, per il quale cammino, oltre alle opposizioni delle genti franzesi, arebbono avuto la difficoltà di passare i fiumi del Po e dell'Oglio, o che volgendosi a mano sinistra girassino per le colline sotto Como e dipoi sotto Lecco, per passare Adda in quegli luoghi dove è stretto e poco corrente, e che dipoi per le colline del bergamasco e del bresciano, passato il fiume dell'Oglio, scendessino o per il bresciano o per la Ghiaradadda nel mantovano, paese largo e dove non si trovavano terre o fortezze che gli potessino impedire: e in qualunque di questi casi era la intenzione di Ciamonte, ancora che scendessino nella pianura (tanta era la riputazione della ferocia e della ordinanza di quella nazione), di non gli assaltare, ma uniti insieme i cavalli e i fanti e con molte artiglierie da campagna andargli costeggiando, per impedire loro le vettovaglie e difficultare, in quanto si potesse fare senza tentare la fortuna, i passi de' fiumi. E in questo mezzo, avendo bene proveduti di cavalli e di fanti i luoghi vicini a Varese, col fare nascere spesso la notte romori vani e costrignergli a dare all'arme, gli tenevano infestati tutta la notte.

                                                 A Varese, dove già si pativa molto di vettovaglie, si unirno di nuovo insieme cogli altri quattromila svizzeri; dopo la venuta de' quali il quarto dí tutti si mossono verso Castiglione e si voltorono alla mano sinistra per le colline, camminando sempre stretti e in ordinanza con lento passo, essendo in ciascuna fila ottanta o cento di loro e nell'ultime file tutti gli scoppiettieri e gli archibusieri: col quale modo procedendo si difendevano valorosamente dallo esercito franzese, il quale gli andava continuamente costeggiando e scaramucciando alla fronte e alle spalle; anzi uscivano spesso cento o centocinquanta svizzeri dello squadrone per andare a scaramucciare, andando, stando e ritirandosi senza che nascesse nella loro ordinanza uno minimo disordine. Arrivorono con questo ordine il primo dí al passo del ponte di Vedan, guardato dal capitano Molard co' fanti guasconi; donde avendolo fatto ritirare con gli scoppietti, alloggiorono la notte ad Appiano distante otto miglia da Varese; e Ciamonte si fermò ad Assaron, villa grossa verso il monte di Brianza lontana sei miglia da Appiano. Il dí seguente si dirizzorno per le colline al cammino di Cantú, costeggiandogli pure Ciamonte con dugento lancie, perché, per l'asprezza de' luoghi, l'artiglierie e alla guardia di quelle i fanti erano restati piú al basso: e nondimeno, a mezzo il cammino, o per le molestie, come si gloriava Ciamonte, avute il dí da' franzesi o perché tale fusse stato il disegno loro, lasciato il cammino di Cantú, voltatisi piú alla sinistra, si andorono per luoghi alti ritirando verso Como; in uno borgo della quale città e nelle ville vicine alloggiorono quella notte. Dal borgo di Como feciono l'altro alloggiamento al Chiasso, tre miglia piú innanzi, tenendo sospesi i franzesi se per la valle di Lugana se ne ritornerebbeno a Bellinzone o se pure si condurrebbeno in su l'Adda, dove benché non avessino ponte era opinione di molti che si sforzerebbono passare tutti il fiume in uno tempo medesimo in su foderi di legname; ma levata l'altro giorno questa dubitazione, se ne andorono ad alloggiare al ponte a Tressa, e di quivi sparsi alle case loro; ridotti già in ultima estremità di pane e con carestia grandissima di danari: la quale subita ritirata si credette procedesse per la carestia di danari, per la difficoltà del passare i fiumi e molto piú per la necessità delle vettovaglie. Cosí si liberorono per allora i franzesi da quel pericolo, non stimato poco da loro: ancora che il re, magnificando sopra la verità le cose sue, affermasse stare ambiguo se fusse stato utile alle cose il lasciargli passare, e che cosa facesse piú debole il pontefice, o essere senza armi o avere armi che lo offendessino come offenderebbono i svizzeri; i quali egli, con tante forze e con tanti danari, aveva avuto infinite difficoltà a maneggiare.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.8

                                                  

                                                 Rapida riconquista da parte de' veneziani delle terre precedentemente perdute. Vano tentativo contro Verona. Liberazione dalla prigionia del marchese di Mantova.

                                                  

                                                 Ma maggiore sarebbe stato il pericolo de' franzesi se in uno tempo medesimo fussino concorse contro a loro le offese disegnate dal pontefice. Ma come fu prima l'assalto di Genova che il movimento de' svizzeri cosí tardò a farsi innanzi, piú che non era disegnato, l'esercito de' viniziani; ancora che avessino avuto molto opportuna occasione. Perché essendo molto diminuite le genti de' tedeschi che alla partita di Ciamonte erano restate in vicentino, con le quali erano i fanti spagnuoli e le cinquecento lancie franzesi, l'esercito viniziano, uscito di Padova, recuperò senza fatica Esti, Monselice, Montagnana, Morostico, Bassano; e fattisi innanzi, ritirandosi continuamente i tedeschi alla volta di Verona, entrorno in Vicenza abbandonata da loro: e cosí avendo ricuperato, da Lignago in fuora, tutto quello che con tanta spesa e travaglio de' franzesi avevano perduto in tutta la state, vennono a San Martino a cinque miglia di Verona; nella quale città si ritirorno gli inimici. La ritirata de' quali non fu senza pericolo se (come affermano i viniziani) in Luzio Malvezzo, il quale allora, per la partita di Giampagolo Baglione dagli stipendi veneti, governava le genti loro, fusse stato maggiore ardire: perché essendo i viniziani venuti alla villa della Torre, gli inimici lasciate nello alloggiamento molte vettovaglie si indirizzorono verso Verona, seguitandogli tutto l'esercito veneto e infestandogli continuamente i cavalli leggieri; e nondimeno sostenendo i franzesi, massime con l'artiglierie, valorosamente il retroguardo, passato il fiume Arpano si condussono senza danno a Villanuova, alloggiando i viniziani propinqui a mezzo miglio; e il seguente dí non gli seguitando sollecitamente i viniziani, perché allegavano i fanti non potere pareggiare la prestezza de' cavalli, si ritirorno in Verona.

                                                 Da San Martino, poiché vi furono stati alquanti dí, accostatisi a Verona, non senza biasimo che il differire fusse stato inutile, cominciorno a battere con l'artiglierie piantate in sul monte opposito il castello di San Felice e la muraglia vicina: eletto forse quel luogo perché vi si può difficilmente riparare, e perché non vi possono se non molto incomodamente adoperare i cavalli. Erano nell'esercito veneto ottocento uomini d'arme tremila cavalli leggieri, la maggiore parte stradiotti, e diecimila fanti, oltre a quantità grandissima di villani; e in Verona erano trecento lancie spagnuole, cento tra tedesche e italiane, piú di quattrocento lancie franzesi, millecinquecento fanti pagati dal re, e quattromila tedeschi, non piú sotto il principe di Analt morto non molti giorni avanti; e il popolo veronese di mala disposizione contro a' tedeschi aveva l'armi in mano, cosa nella quale aveano sperato molto i viniziani: la cavalleria leggiera de' quali, nel tempo medesimo, passando l'Adice a guazzo sotto Verona, scorreva per tutto il paese. Batteva con grande impeto la muraglia l'artiglieria de' viniziani, ancora che l'artiglieria piantata dentro da' franzesi e coperta co' suoi ripari facesse a quegli di fuora, che non erano riparati, gravissimo danno: da uno colpo della quale essendo state levate le natiche a Lattanzio da Bergamo, uno de' piú stimati colonnelli de' fanti viniziani, morí fra pochi giorni. Finalmente, avendo fatto maraviglioso progresso l'artiglieria di fuora e rovinata una parte grande del muro insino al principio della scarpa e battute tutte le cannoniere in modo che l'artiglierie di dentro non potevano piú fare effetto alcuno, non stavano i tedeschi senza timore di perdere il castello, ancora che bene riparato; alla perdita del quale perché non fusse congiunta la perdita della città, disegnavano, in caso di necessità, ritirarsi a certi ripari i quali avevano fatti in luogo propinquo, per battere subito co' loro cannoni, quali già v'avevano tutti piantati, la facciata di dentro del castello, sperando aprirla in modo che gli inimici non potessino fermarvisi. Ma era molto superiore la virtú delle genti che erano in Verona, perché nell'esercito viniziano non erano altri fanti che italiani; e quegli, pagati per l'ordinario ogni quaranta dí, stavano a quel servizio piú per trovare in altri luoghi piccola condizione che per altre cagioni: conciossiaché la fanteria italiana, non assueta all'ordinanze oltramontane né stabile in campagna, fusse allora quasi sempre rifiutata da coloro che avevano facoltà di servirsi di fanti forestieri, massimamente di fanti svizzeri di tedeschi e di spagnuoli. Però, essendo con maggiore virtú sostentata la difesa che fatta l'offesa, usciti una notte ad assaltare l'artiglieria circa mille ottocento fanti con alcuni cavalli de' franzesi, e messi in fuga facilmente i fanti che vi erano alla guardia, ne chiavorono due pezzi; e sforzandosi di condurgli dentro, ed essendo già levato il romore per tutto il campo, soccorse con molti fanti il Zitolo da Perugia, il quale combattendo valorosamente finí la vita con molta gloria: ma sopragiugnendo Dionigi di Naldo e la maggiore parte dello esercito, furno costretti quegli di dentro, lasciata quivi l'artiglieria, a ritirarsi; ma con laude non piccola, avendo da principio rotti i fanti che la guardavano, ammazzato parte di quegli che primi vennono al soccorso e tra gli altri il Zitolo colonnello molto stimato di fanti, e preso Maldonato capitano spagnuolo, e ultimamente ritiratisi salvi quasi tutti. Finalmente, i capitani viniziani, inviliti da questo accidente né sentendo farsi per il popolo movimento alcuno, giudicando anche non solo inutile ma pericoloso il soprastarvi perché l'alloggiamento era male sicuro, essendo alloggiati i fanti in sul monte e i cavalli nella valle assai lontani da' fanti, deliberorono di ritirarsi allo alloggiamento vecchio di San Martino: la quale deliberazione fece accelerare il presentirsi che Ciamonte, essendo già partiti i svizzeri, inteso il pericolo di Verona veniva a soccorrerla. Nel levarsi il campo entrorono i saccomanni di Verona, accompagnati da grossa scorta, nella Valle Pollienta contigua al monte di San Felice; ma, essendo venuti al soccorso molti cavalli leggieri de' viniziani, i quali presono la bocca della valle, furono tutti quegli che erano usciti di Verona o ammazzati o fatti prigioni. Da San Martino, per la fama della venuta di Ciamonte, l'esercito veneto si ritirò a San Bonifazio. Nel quale tempo le genti che erano alla guardia di Trevigi presono per accordo la terra di Assilio propinqua al fiume Musone, dove erano ottocento fanti tedeschi, e poi la rocca. E nel Friuli si procedeva con le medesime variazioni e con le crudeltà consuete, non piú guerreggiando con gli inimici ma attendendosi da ogni parte alla distruzione ultima degli edifici e del paese: i quali mali consumavano medesimamente la Istria.

                                                 Succedette in questo tempo, per modo molto notabile, la liberazione dalla carcere del marchese di Mantova, trattata dal pontefice, mosso dalla affezione che prima gli aveva e da disegno di usare l'opera sua e servirsi delle comodità del suo stato nella guerra contro al re di Francia: e si credette per tutta Italia egli essere stato causa della sua liberazione. Nondimeno io intesi già da autore degno di fede, e per mano del quale passava allora tutto il governo dello stato di Mantova, essere stata molto diversa la cagione. Perché dubitandosi, come era la verità, che i viniziani, per l'odio che gli avevano e per il sospetto che avevano di lui, non fussino inclinati a tenerlo perpetuamente incarcerato, ed essendosi invano tentato molti rimedi, fu determinato nel consiglio di Mantova di ricorrere a Baiset principe de' turchi; l'amicizia del quale il marchese, col mandargli spessi messi e vari presenti, aveva molti anni intrattenuta. Il quale, intesa la sua calamità, chiamato a sé il bailo de' mercatanti viniziani che negoziavano in Pera appresso a Costantinopoli, lo ricercò gli promettesse che 'l marchese sarebbe liberato; e recusando il bailo di promettere quel che non era in potestà sua e offerendo scriverne a Vinegia, ove non dubitava si farebbe deliberazione conforme al desiderio suo, Baiset replicandogli superbamente essere la sua volontà che egli assolutamente lo promettesse, fu necessitato a prometterlo: il che essendo significato dal bailo a Vinegia, il senato, considerando non essere tempo a irritare principe tanto potente, determinò di liberarlo; ma per occultare il suo disonore, e riportare qualche frutto della sua liberazione, prestò orecchi al desiderio del pontefice. Per mezzo del quale essendo, benché occultamente, conchiuso che, per assicurare i viniziani che 'l marchese non si moverebbe loro contro, il figliuolo primogenito fusse custodito in mano del pontefice, il marchese condotto a Bologna, poiché quivi ebbe consegnato il figliuolo agli agenti del pontefice, liberato se ne andò a Mantova: scusando sé appresso a Cesare e al re di Francia se, per la necessità di riordinare lo stato suo, non andava ne' loro eserciti a servirgli, come feudatario dell'uno e soldato dell'altro (perché dal re di Francia gli era stata sempre conservata la solita condotta e provisione), ma veramente avendo nell'animo di stare neutrale.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.9

                                                  

                                                 Altra vana spedizione veneto pontificia contro Genova. Ostinata pertinacia del pontefice malgrado gli insuccessi e sua deliberazione di recarsi a Bologna perché sian condotte piú efficacemente le imprese. Il re di Francia pensa alla convocazione di un concilio.

                                                  

                                                 Ma le cose tentate infelicemente non aveano diminuito in parte alcuna le speranze del pontefice; il quale, promettendosi piú che mai la mutazione dello stato di Genova, deliberò di nuovo d'assaltarla. Però, avendo i viniziani, i quali piú per necessità seguitavano che approvavano questi impetuosi movimenti, accresciuta l'armata loro che era a Civitavecchia con quattro navi grosse, persuadendosi che il nome suo inducesse piú facilmente i genovesi a ribellarsi, aggiuntavi una sua galeazza con alcuni altri legni, benedisse publicamente con le solennità pontificali la sua bandiera: maravigliandosi ciascuno che, ora che scoperti i pensieri suoi erano in Genova molti soldati e nel porto potente armata, egli sperasse ottenere quello che non aveva ottenuto quando il porto era disarmato e nella città pochissima guardia, né si aveva sospetto alcuno di lui. All'armate marittime, le quali seguitavano i medesimi fuorusciti e di piú il vescovo di Genova figliuolo di Obietto dal Fiesco, si doveano congiugnere forze terrestri: perché Federico arcivescovo di Salerno, fratello di Ottaviano Fregoso, soldava co' danari del pontefice nelle terre della Lunigiana cavalli e fanti; e Giovanni da Sassatello e Rinieri della Sassetta, suoi condottieri, aveano avuto comandamento di fermarsi colle compagnie loro al Bagno della Porretta, per potere quando fusse di bisogno accostarsi a Genova. Ma in quella città erano state fatte per terra e per mare potenti provisioni: e perciò alla fama dell'approssimarsi dell'armata degli inimici, nella quale erano quindici galee sottili tre galee grosse una galeazza e tre navi biscaine l'armata franzese uscita con ventidue galee sottili del porto di Genova si fermò a Porto Venere; facendogli sicurtà la diversità de' legni, perché, inferiore agli inimici uniti insieme ma superiore o almeno pari di forze alle galee, poteva sempre con la prestezza del discostarsi salvarsi dalle navi. Accostoronsi l'armate l'una all'altra sopra Porto Venere quanto pativa il tiro delle artiglierie, e poi che alquanto si furono battute, l'armata del pontefice andò a Sestri di Levante donde si presentò innanzi al porto di Genova, entrando insino nel porto con uno brigantino Gianni Fregoso; ma essendo la terra guardata in modo che chi era di contrario animo non poteva fare sollevazione, e tirando gagliardamente all'armata la torre di Codifà, fu necessitata partirsi. Andò dipoi a Portovenere, e avendolo per parecchie ore combattuto senza frutto, disperati del successo di tutta la impresa ritornorno a Civitavecchia: onde partita l'armata viniziana, di consentimento del pontefice, per ritornarsene ne' suoi mari, fu assaltata nel Faro di Messina da gravissima tempesta; andorono a traverso cinque galee, l'altre scorsono verso la costa di Barberia, riducendosi alla fine molto conquassate ne porti de' viniziani. Non concorsono in questo assalto le forze disegnate per terra: perché le genti che si soldavano di Lunigiana, giudicando per la fama delle provisioni fatte da' franzesi pericoloso l'entrare nella riviera di levante, non si mossono; e quelle che erano al Bagno della Porretta, scusandosi che i fiorentini avessino denegato loro il passo, non si feciono piú innanzi, ma entrati nella montagna di Modona, che ancora ubbidiva al duca di Ferrara, assaltorono la terra di Fanano: la quale benché nel principio non ottenessino, nondimeno alla fine tutta la montagna, non sperando essere soccorsa dal duca, si arrendé loro.

                                                 Cosí non era, insino a questo dí, riuscita al pontefice cosa alcuna tentata contro al re di Francia: perché né le cose di Genova avevano fatto, come egli si era promesso certissimamente, mutazione; né i viniziani, tentata invano Verona, speravano piú di fare progresso da quella parte; né i svizzeri, avendo piú presto mostrate che mosse l'armi, erano passati innanzi; né Ferrara aiutata prontamente dai franzesi, e sopravenendo la stagione del verno, si giudicava che fusse in alcuno pericolo: solamente gli era succeduto furtivamente l'acquisto di Modena, premio non degno di tanti moti. E nondimeno al pontefice, ingannato di tante speranze, pareva che intervenisse quello che di Anteo hanno lasciato gli scrittori fabulosi alla memoria de' posteri, che quante volte domato dalle forze di Ercole toccava la terra tanto si dimostrava in lui maggiore vigore: il medesimo operavano l'avversità nel pontefice, che quando pareva piú depresso e piú conculcato risorgeva con l'animo piú costante e piú pertinace, promettendosi del futuro piú che mai; non avendo per ciò quasi altri fondamenti che se medesimo, e il presupporsi (come diceva publicamente) che, per non essere l'imprese sue mosse da interessi particolari ma da mero e unico desiderio della libertà d'Italia, avessino per l'aiuto di Dio ad avere prospero fine. Imperocché egli, spogliato di valorose e fedeli armi, non aveva altri amici certi che i viniziani, che correvano per necessità la medesima fortuna; de' quali, per essere esausti di danari e oppressi da assai difficoltà e angustie, non poteva sperare molto; e dal re cattolico riceveva piú tosto occulti consigli che palesi aiuti, perché secondo l'astuzia sua si intratteneva con Massimiliano e col re di Francia, facendo a lui varie promesse ma sospese da molte condizioni e dilazioni. La diligenza e fatiche usate con Cesare per alienarlo dalla amicizia del re di Francia e indurlo a concordia co' viniziani apparivano del continuo piú inutili; perché Cesare, quando l'esercito del pontefice si mosse contro al duca di Ferrara, v'aveva mandato uno araldo a protestare che non lo molestassino, ed essendo andato in nome del pontefice Costantino di Macedonia per trattare tra lui e i viniziani aveva ricusato udirlo, e dimostrando di volere unirsi maggiormente col re di Francia ordinava di mandargli, per convenire seco della somma delle cose, il vescovo Gurgense: né gli elettori dello imperio, benché inclinati al nome del pontefice e alla divozione della sedia apostolica, alieni dallo spendere e volti co' pensieri loro solo alle cose di Germania, erano di momento in questi travagli. Poco piú pareva potesse sperare del re d'Inghilterra, benché giovane e desideroso di cose nuove, e che faceva professione di amare la grandezza della Chiesa e che aveva non senza inclinazione d'animo udite le sue imbasciate; perché, essendo separato da Italia per tanto spazio di terra e di mare, non poteva solo deprimere il re di Francia: oltre che, aveva ratificato la pace fatta con lui e per una solenne imbasceria, che a questo effetto gli mandò, ricevuta la sua ratificazione. Nessuno certamente, avendo sí deboli fondamenti e tanti ostacoli, non arebbe rimesso l'animo; avendo massime facoltà di ottenere la pace dal re di Francia, con quelle condizioni che, vincitore, appena arebbe dovuto desiderare maggiori. Perché il re consentiva di abbandonare la protezione del duca di Ferrara, se non direttamente, per onore suo, almanco indirettamente, rimettendola di giustizia ma in giudici che avessino pronunziato secondo la volontà del pontefice; il quale, come fu certo di potere ottenere questo, aggiunse volere che oltre a questo lasciasse libera Genova: procedendo in queste cose con tanta pertinacia che nessuno, eziandio de' suoi piú intrinsechi, ardiva di parlargli in contrario; anzi, tentato per ordine del re dallo oratore de' fiorentini, si alterò maravigliosamente; ed essendo venuto a lui per altre faccende uno uomo del duca di Savoia, e offerendo che il suo principe, quando gli piacesse, si intrometterebbe in qualche pratica di pace, proruppe in tanta indegnazione che, esclamando che era stato mandato per spia non per negoziatore, lo fece sopra questo incarcerare ed esaminare con tormenti. E finalmente, diventando ogni dí piú feroce nelle difficoltà e non conoscendo né impedimenti né pericoli, risoluto di fare ogni opera possibile per pigliare Ferrara e omettere per allora tutti gli altri pensieri, deliberò di trasferirsi personalmente a Bologna, per strignere piú con la sua presenza e dare maggiore autorità alle cose, e accrescere la caldezza de' capitani inferiore allo impeto suo; affermando che a espugnare Ferrara gli bastavano le forze sue e de' viniziani: i quali, temendo che alla fine, disperato di buono successo, non si concordasse col re di Francia, si sforzavano di persuadergli il medesimo.

                                                 Da altra parte il re di Francia, già certo per tante esperienze dell'animo del pontefice contro a sé, e conoscendo essere necessario provedere che non sopravenissino allo stato suo nuovi pericoli, deliberò di difendere il duca di Ferrara, stabilire quanto poteva la congiunzione con Cesare, e col consentimento suo perseguitare con l'armi spirituali il pontefice; e sostentate le cose insino alla primavera, passare allora in Italia personalmente con potentissimo esercito, per procedere o contro a' viniziani o contro al pontefice, secondo lo stato delle cose. Perciò, proponendo a Cesare non solo di muoversi altrimenti che per il passato contro a' viniziani ma ancora di aiutarlo, secondo si sapeva essere suo antico desiderio, a occupare Roma e tutto lo stato della Chiesa come appartenente di ragione allo imperio, e similmente tutta Italia, dal ducato di Milano, Genova, lo stato de' fiorentini e del duca di Ferrara in fuora, lo indusse facilmente nella sentenza sua; e specialmente che si chiamasse, con l'autorità di ambidue e delle nazioni germanica e franzese, a uno concilio universale; non essendo senza speranza che, per non avere ardire di discostarsi dalla volontà sua e di Cesare, concorrerebbe al medesimo il re di Aragona e la nazione spagnuola: alla qual cosa si aggiugneva un altro grandissimo fondamento, che molti cardinali italiani e oltramontani di animo ambizioso e inquieto promettevano di farsene scopertamente autori. Per ordinare queste cose aspettava il re con sommo desiderio la venuta del vescovo Gurgense, destinato a sé da Cesare; ma in questo mezzo, per dare principio alla instituzione del concilio e levare di presente al pontefice l'ubbidienza del suo reame, aveva fatto convocare tutti i prelati di Francia, che a mezzo settembre convenissino nella città di Orliens. Queste erano le deliberazioni e i preparamenti del re di Francia, non approvati in tutto dal suo consiglio e dalla sua corte; i quali, considerando quanto possa essere inutile il dare spazio di tempo allo inimico, lo stimolavano a non differire il muovere dell'armi insino al tempo nuovo: il consiglio de' quali se fusse stato seguitato si metteva subito il pontefice in tante molestie, e si perturbavano di maniera le cose sue, che non gli sarebbe per avventura stato facile, come poi fu, concitare tanti príncipi contro a lui. Ma il re perseverò in altra sentenza, o dominato dalla avarizia o raffrenato da timore che facendo da sé solo guerra al pontefice non si ritenessino gli altri príncipi, o avendolo forse in orrore per essere cosa contraria al cognome del cristianissimo e alla professione di difendere la Chiesa, che sempre ne' tempi antichi aveano fatta i suoi predecessori.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.10

                                                  

                                                 Accanimento del pontefice per prendere Ferrara. Fazione franco veneziana presso Montagnana. I francesi minacciano Modena. Il duca di Ferrara occupa Cento e altre terre; quindi accorre ad impedire a' veneziani il passaggio del Po. Le armi spirituali usate dal pontefice contro il duca di Ferrara e i suoi aderenti. Decisioni del clero gallicano; cardinali dissidenti dal pontefice.

                                                  

                                                 Entrò il pontefice in Bologna alla fine di settembre, disposto ad assaltare con tutte le forze sue e de' viniziani Ferrara, per terra e per acqua. Però i viniziani, ricercatine da lui, mandorono due armate contro a Ferrara; le quali entrate nel fiume del Po, l'una per le Fornaci l'altra per il porto di Primaro, facevano nel ferrarese gravissimi danni: non mancando nel tempo medesimo le genti del pontefice di scorrere e predare per tutto il paese, ma non si accostando a Ferrara, nella quale città oltre alle genti del duca erano dugento cinquanta lancie franzesi. Perché, se bene gli ecclesiastici fussino pagati per ottocento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti, nondimeno, oltre a essere la maggiore parte gente collettizia, il numero (come i pontefici comunemente sono malserviti nelle cose della guerra) era molto minore; e si aggiugneva che, avendo Ciamonte dopo la perdita di Modona mandate tra Reggio e Rubiera dugento cinquanta lancie e dumila fanti, erano per comandamento del pontefice andati con l'esercito alla guardia di Modena Marcantonio Colonna e Giovanni Vitelli, con dugento uomini d'arme e ottocento fanti. Però il pontefice faceva instanza che dell'esercito viniziano, il quale, essendo molto diminuite a Verona e per tutto le forze di Cesare, aveva senza difficoltà recuperato quasi tutto il Friuli, ne passasse una parte nel ferrarese, che di nuovo avea recuperato il Polesine di Rovigo, abbandonato per le molestie che il duca aveva intorno a Ferrara. Aspettava similmente il pontefice trecento lancie spagnuole, quali dimandate da lui per l'obligo della investitura gli erano mandate dal re d'Aragona, sotto Fabrizio Colonna; disegnando che, unite queste con l'esercito suo, assaltassino da una parte Ferrara e dall'altra l'assaltassino le genti de' viniziani; e persuadendosi che 'l popolo di Ferrara, subito che l'esercito si accostasse alle mura, piglierebbe l'armi contro al duca: con tutto che i capitani suoi gli dimostrassino, il presidio che vi era dentro essere tale che facilmente poteva difendere la città contro agli inimici e contenere il popolo, quando bene avesse inclinazione di tumultuare. Perciò, con incredibile sollecitudine, soldava in molti luoghi quantità grande di fanti. Ma tardavano a venire, piú che non arebbe voluto, le genti de' viniziani; perché avendo condotto per il Po in mantovano molte barche per gittare il ponte, il duca di Ferrara con le genti franzesi, assaltatele allo improviso, le tolse loro. Prese anche in certi canali del Pulesine molte barche e altri legni, insieme col proveditore viniziano. Nel quale tempo essendo venuto a luce uno trattato che avevano in Brescia per farla ribellare al re di Francia, vi fu decapitato il conte Giovanmaria da Martinengo. Ma molto piú tardavano a venire le lancie spagnuole; le quali condotte in su' confini del regno di Napoli recusavano, per comandamento del re loro, di passare il fiume del Tronto se prima non si consegnava allo imbasciadore suo la bolla della investitura conceduta: la quale il papa, sospettando che ricevuta la bolla le genti promesse non venissino, faceva difficoltà di concedere se prima non giugnevano a Bologna. E nondimeno, né per le ragioni allegate da' capitani né per queste difficoltà, diminuiva della speranza di ottenere con le sue genti sole Ferrara; attendendo con maraviglioso vigore a tutte l'espedizioni della guerra: non ostante che gli fusse sopravenuta nel tempo medesimo grave infermità, la quale, reggendosi contro al consiglio de' medici, non meno che l'altre cose disprezzava; promettendosi la vittoria di quella come della guerra, perché affermava essere volontà divina che per opera sua Italia si riducesse in libertà. Procurò similmente che 'l marchese di Mantova, il quale chiamato a Bologna da lui era stato onorato del titolo di gonfaloniere della Chiesa, si conducesse con titolo di capitano generale agli stipendi de' viniziani, partecipando il pontefice in questa condotta con cento uomini d'arme e con mille dugento fanti, ma con patto che questa cosa si tenesse occulta; ricercando cosí il marchese, sotto colore di essere necessario che prima riordinasse e provedesse il paese suo, acciò che i franzesi avessino minore facilità di offenderlo, ma in verità perché il marchese, sottomettendosi a questo peso non per volontà ma per necessità delle promesse fatte, cercava di interporre tempo all'esecuzione per potere, con qualche occasione che sopravenisse, liberarsene.

                                                 Ma l'ardore che aveva il pontefice di offendere altri si convertí in necessità di difendere le cose proprie, la quale sarebbe stata ancora piú presta e maggiore se nuovi accidenti non avessino costretto Ciamonte a differire le sue deliberazioni. Perché, poi che l'esercito viniziano si era levato d'intorno a Verona, Ciamonte, il quale era venuto a Peschiera per andare a soccorrere quella città, deliberò voltarsi subito con l'esercito alla recuperazione di Modena, dove le genti che erano a Rubiera avevano presa la terra di Formigine di assalto; il che se avesse fatto arebbe facilmente, come si crede, ottenutala, perché dentro erano piccole forze, la terra non fortificata né tutti amatori del dominio della Chiesa: ma accadde che, quando era per muoversi, i fanti tedeschi che erano in Verona, per essere mal pagati da Cesare, tumultuorno; onde Ciamonte, perché non rimanesse abbandonata quella città, fu costretto a soprasedere insino a tanto avesse fermato gli animi loro, per la qual cosa pagò novemila ducati per lo stipendio presente e promesse di pagargli medesimamente per il mese seguente. Ma non rimediato prima a questo disordine, sopravenne subito un altro accidente. Perché essendosi le genti de' viniziani ritirate verso Padova, La Grotta che in suo nome era governatore di Lignago, parendogli avere occasione di saccheggiare la terra di Montagnana, vi spinse tutte le lancie e quattrocento fanti; da' quali mentre che gli uomini della terra, impauriti del sacco, si difendono, sopravenneno molti cavalli leggieri de' viniziani, e, trovandogli disordinati, facilmente gli ruppono con gravissimo danno, perché era stata impedita la fuga per la rottura fatta dagli inimici di uno ponte: per il quale caso, essendo spogliato quasi Lignago di gente, non è dubbio che se vi si fussino volte subito le genti viniziane l'arebbeno preso; la quale opportunità passò presto perché Ciamonte, inteso il caso, vi mandò con grandissima celerità nuova gente. Ma tolsono a lui questi impedimenti l'occasione di recuperare Modena, nella quale in questo spazio di tempo erano entrati molti fanti e fatte sollecitamente molte reparazioni. E nondimeno, per la venuta sua a Rubiera, fu costretto il pontefice mandare a Modena l'esercito destinato contro a Ferrara: dove, essendo unite tutte le forze sue sotto il duca di Urbino capitano generale, e legato il cardinale di Pavia, e condottieri di autorità Giampaolo Baglione Marcantonio Colonna e Giovanni Vitelli, faceva instanza che si combattesse cogli inimici; cosa molto detestata da' capitani, perché erano senza dubbio maggiori le forze de' franzesi e di numero e di virtú, perché la fanteria ecclesiastica era raccolta subitamente e nell'esercito non era né ubbidienza né ordine conveniente, e tra 'l duca di Urbino e il cardinale di Pavia discordia manifesta. La quale procedette tanto oltre che il duca, accusandolo di infedeltà appresso al pontefice, o di propria autorità o per comandamento avuto da lui, lo condusse come prigione a Bologna; ma purgate con la presenza sola tutte le calunnie, rimase appresso a lui in maggiore grado e autorità che prima.

                                                 Mentre che queste genti stanno a fronte l'una dell'altra, Ciamonte alloggiato con la cavalleria a Rubiera, i fanti a Marzaglia, gli ecclesiastici a Modena nel borgo verso Rubiera, facendosi tra loro spesse correrie e scaramuccie, il duca di Ferrara, il quale aveva prima senza resistenza recuperato il Polesine di Rovigo, con Ciattiglione e con le lancie franzesi, riprese senza ostacolo il Finale; e dipoi entrato nella terra di Cento, occupata prima dal pontefice, per la rocca la quale si teneva per lui, la saccheggiò e abbruciò, e si preparava per andare a unirsi con Ciamonte: per il quale timore le genti della Chiesa si ritirorno in Modona, avendo messo una parte delle fanterie nel borgo che è volto alla montagna. Ma essendo il duca appena mosso, fu necessitato di fermarsi a difendere le cose proprie; perché le genti viniziane, in numero di trecento uomini d'arme molti cavalli leggieri e quattromila fanti, erano venute per acquistare il passo del Po e dipoi unirsi colle genti del pontefice, a campo a Ficheruolo, castello in sul Po, piccolo e debole ma celebrato molto nella guerra che ebbeno i viniziani con Ercole duca di Ferrara, per la lunga oppugnazione di Ruberto da San Severino e per la difesa di Federigo duca di Urbino, capitani famosissimi di quella età. Ottennonlo i viniziani per accordo avendolo prima battuto con l'artiglierie, e dipoi presono la terra della Stellata che è in su la riva opposita; e avendo libero il passo del Po, non mancava a passare altro che gittare il ponte. Il quale Alfonso, che dopo la perdita della Stellata si era con lo esercito ridotto al Bondino, impediva si gittasse, con artiglierie piantate in su una punta donde facilmente si batteva quel luogo; e scorreva oltre a questo il fiume del Po con due galee. Le quali presto si ritirorono, perché l'armata viniziana, impedita da principio di entrare nel Po perché le bocche del fiume erano guardate per ordine del duca, venuta per l'Adice contr'acqua vi entrò: in modo che dalle due armate de' viniziani era infestato gravemente il paese di Ferrara. Ma cessò presto questa molestia, perché il duca uscito di Ferrara assaltò quella che, entrata per Primaro, si era condotta a Adria con due galee due fuste e molte barche minori; e rottala senza difficoltà si voltò a quella che non avendo se non fuste e legni minori, entrata per le Fornaci, era venuta alla Pulisella. La quale, volendo per uno rivo vicino ridursi nello Adice, fu impedita di entrarvi per la bassezza dell'acque; donde assaltata e battuta dall'artiglierie degli inimici, la gente che vi era non potendo difenderla l'abbandonò, attendendo a salvare sé e l'artiglierie.

                                                 In questi movimenti dell'armi temporali cominciavano a risentirsi da ogni parte l'armi spirituali. Perché il pontefice avea sottoposti publicamente alle censure Alfonso da Esti e insieme tutti quegli che si erano mossi o moveano in aiuto suo, e nominatamente Ciamonte e tutti i principali dell'esercito franzese: e in Francia la congregazione de' prelati, trasferita da Orliens a Torsi, aveva, benché piú per non si opporre alla volontà del re, che molte volte intervenne con loro, che per propria volontà o giudicio, consentito a molti articoli proposti contro al pontefice; modificato solamente che, innanzi se gli levasse la obbedienza, si mandassino oratori a fargli noti gli articoli che aveva determinati il clero gallicano e ad ammunirlo che in futuro gli osservasse, e che in caso che dipoi contravenisse fusse citato al concilio; al quale si facesse instanza con gli altri príncipi che concorressino tutte le nazioni de' cristiani. Concesseno ancora al re facoltà di fare grande imposizione di danari sopra le chiese di Francia; e poco poi, in una altra sessione che fu tenuta il vigesimo settimo dí di settembre, intimorono il concilio per al principio di marzo prossimo a Lione: nel qual dí entrò in Torsi il vescovo di Gursia, ricevuto con sí raro ed eccessivo onore che apparí quanto la sua venuta fusse stata lungamente desiderata e aspettata. Scoprivasi ancora già la divisione de' cardinali contro al pontefice. Perché i cardinali di Santa Croce e di Cosenza spagnuoli, e i cardinali di Baiosa e San Malò franzesi, e Federigo cardinale di Sanseverino, lasciato il pontefice che per la via di Romagna andò a Bologna, visitando per il cammino il tempio di Santa Maria dell'Oreto nobilissimo per infiniti miracoli, andorono con sua licenza per la Toscana; ma condotti a Firenze e ottenuto salvocondotto da' fiorentini, non per alcuno tempo determinato ma per insino a tanto che lo revocassino e quindici dí dappoi che la revocazione fusse intimata, soprasedevano con varie scuse lo andare piú innanzi: del soprastare de' quali insospettito il pontefice, dopo molte instanze fatte che andassino a Bologna, scrisse uno breve al cardinale di San Malò e a quello di Baiosa e al cardinale di Sanseverino che sotto pena della sua indignazione si trasferissino alla corte; e procedendo con piú mansuetudine col cardinale di Cosenza e col cardinale di Santa Croce, cardinale chiaro per nobiltà per lettere e per costumi, e per le legazioni che in nome della sedia apostolica aveva esercitate, gli confortò con uno breve a fare il medesimo. I quali, disposti a non ubbidire, avendo invano tentato che i fiorentini concedessino, non solo a loro ma a tutti i cardinali che vi volessino venire, salvocondotto fermo per lungo tempo, se ne andorono per la via di Lunigiana a Milano.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.11

                                                  

                                                 Gli ecclesiastici perdono Carpi. Confusione e tumulto in Bologna per l'avvicinarsi de' francesi coi Bentivoglio. Timori de' cardinali; energia del pontefice, che conforta i bolognesi alla fedeltà alla Chiesa. L'esercito francese trattenuto per le speranze della concordia col pontefice. Vane trattative di concordia. Commenti e critiche all'azione dei comandanti francesi.

                                                  

                                                 Ciamonte infratanto, per recuperare Carpi, che prima era stato occupato dalle genti della Chiesa, vi mandò Alberto Pio e la Palissa con quattrocento lancie e quattromila fanti; innanzi a quali essendosi mosso Alberto con uno trombetto e con pochi cavalli, la terra che molto l'amava, intesa la venuta sua, cominciò a tumultuare: per il quale timore gli ecclesiastici, che in numero di quaranta cavalli leggieri e cinquecento fanti vi erano a guardia, si partirono, dirizzandosi a Modona, ma seguitati dalle genti franzesi che erano sopravenute poco poi, e a furore al prato del Cortile che è quasi in mezzo tra Carpi e Modona, messi in fuga; salvandosi i cavalli ma perdendosi la piú parte de' fanti. Pareva utile a Ciamonte combattere con gl'inimici innanzi che arrivassino le lancie spagnuole (le quali il papa per sollecitare aveva depositato in mano del cardinale Regino la bolla della investitura), e innanzi che le genti viniziane si unissino con loro; le quali, avendo fatto certi ripari contro alle artiglierie di Alfonso, speravano di avere gittato presto il ponte: perciò si accostò a Modona, dove essendosi scaramucciato assai tra' cavalli leggieri dell'una parte e dell'altra, non vollono mai gli ecclesiastici, conoscendosi inferiori, uscire con tutte le forze fuora.

                                                 Perduta questa speranza, deliberò di mettere a esecuzione quel che molti, e principalmente i Bentivogli, con varie offerte lo stimolavano; che e' non fusse da consumare inutilmente il tempo intorno a cose delle quali era molto maggiore la difficoltà che l'utilità, ma da assaltare all'improviso la sedia della guerra, il capo principale dal quale procedevano tante molestie e pericoli: essere di questo molto opportuna occasione, perché in Bologna erano pochi soldati forestieri, nel popolo molti fautori de' Bentivogli, la maggiore parte degli altri inclinata piú presto ad aspettare l'esito delle cose che a pigliare l'armi per sottoporsi a pericoli o contrarre inimicizie nuove; se ora non si tentasse, passare la presente occasione, perché sopravenendo le genti che aspettavano, o de' viniziani o degli spagnuoli, non si potere sperare, quando bene vi si andasse con potentissimo esercito, quel che ora con forze molto minori era facilissimo a ottenere. Raccolto adunque insieme tutto l'esercito, e seguitandol'i Bentivogli con alcuni cavalli e con mille fanti pagati da loro, preso il cammino tra 'l monte e la strada maestra, assaltò Spilimberto castello de' conti Rangoni, nel quale erano quattrocento fanti mandati dal pontefice, ma poi che ebbe battuto alquanto l'ottenne il dí medesimo a patti; e arrendutosegli il dí seguente Castelfranco, alloggiò a Crespolano castello distante dieci miglia da Bologna, con intenzione di appresentarsi il prossimo dí alle porte di quella città: nella quale, divulgata la sua venuta e che erano con esso i Bentivogli, ogni cosa si era piena di confusione e di tumulto, grandissima sollevazione nella nobiltà e nel popolo, temendo una parte desiderando l'altra la ritornata de' Bentivogli; altri stando sospesi, o incerti dell'animo o veramente mossi cosí leggiermente o dal desiderio [o] dal timore che oziosamente fussino per risguardare il processo di questa cosa.

                                                 Ma maggiore confusione e molto maggiore terrore occupava gli animi de' prelati e de' cortigiani, avvezzi non a' pericoli delle guerre ma all'ozio e alle dilicatezze di Roma. Correvano i cardinali mestissimi al pontefice, lamentandosi che avesse condotto sé, la sedia apostolica e loro in tanto pericolo, e aggravandolo con somma instanza o che facesse provedimenti bastanti a difendersi (il che in tanta brevità di tempo stimavano impossibile) o che tentasse di comporre con condizioni meno gravi che fusse possibile le cose cogli inimici, i quali si giudicava non doverne essere alieni, o che insieme con loro si partisse da Bologna; considerando almeno, se pure il pericolo proprio non lo moveva, quanto importasse all'onore della sedia apostolica e di tutta la cristiana religione se nella persona sua accadesse sinistro alcuno: del medesimo lo supplicavano tutti i piú intrinsechi e piú grati ministri e servitori suoi. Egli solo, in tanta confusione e in tanto disordine di ogni cosa, incerto dell'animo del popolo e mal sodisfatto della tardità de' viniziani, resisteva pertinacemente a queste molestie; non potendo neanche la infermità che conquassava il corpo piegare la fortezza dell'animo. Aveva nel principio fatto venire Marcantonio Colonna con una parte de' soldati che erano a Modona, e chiamato a sé Ieronimo Donato imbasciadore de' viniziani, si era con esclamazioni ardentissime lamentato che per la tardità degli aiuti promessigli tante volte si era lo stato e la persona sua condotta in tanto pericolo; non solamente con ingratitudine abominevole in quanto a lui, che principalmente per salvargli aveva presa la guerra e che, con gravissime spese e pericoli e con l'aversi provocati inimici lo imperadore e il re di Francia, era stato cagione che la libertà loro si fusse conservata insino a quel dí, ma oltre a questo con imprudenza inestimabile in quanto a se stessi, perché, dappoi che egli o fusse vinto o necessitato di cedere a qualche composizione, in che speranza di salute in che grado rimarrebbe quella republica? protestando in ultimo con ardentissime parole che farebbe concordia co' franzesi se per tutto il dí seguente non entrava in Bologna il soccorso delle loro genti che erano alla Stellata; avendo, per la difficoltà di gittare il ponte, passato in su varie barche e legni il Po. Convocò ancora il reggimento e i collegi di Bologna, e con gravi parole gli confortò che, ricordandosi de' mali della tirannide passata e quanto piú perniciosi ritornerebbono i tiranni stati scacciati, volessino conservare il dominio della Chiesa, nel quale aveano trovato tanta benignità; concedendo per fargli piú pronti, oltre alle concedute prima, esenzioni della metà delle gabelle delle cose che si mettevano dentro per il vitto umano, e promettendo di concederne in futuro delle maggiori; notificando le cose medesime per publico bando, nel quale invitò il popolo a pigliare l'armi per la difesa dello stato ecclesiastico: ma senza frutto, perché niuno si moveva, niuno faceva in favore suo segno alcuno. Perciò conoscendo finalmente in quanto pericolo fusse ridotto, ed espugnato dalla importunità e lamentazioni di tanti, e instando oltre a ciò molto appresso a lui gli oratori di Cesare del re cattolico e del re di Inghilterra, pregati da' cardinali, consentí si mandasse a domandare a Ciamonte che concedesse facoltà di andare a lui sicuramente, in nome del pontefice, a Giovanfrancesco Pico conte della Mirandola; e poche ore dipoi mandò egli medesimo uno de' suoi camerieri a ricercarlo che mandasse a lui Alberto da Carpi, non sapendo che non fusse nello esercito: e nel tempo medesimo, acciò che in ogni caso si salvassino le cose piú preziose del pontificato, mandò Lorenzo Pucci, suo datario, col regno (chiamano cosí la mitria principale) che era pieno di gioie nobilissime, perché si custodissino nel famoso monasterio delle Murate di Firenze. Sperò Ciamonte per le richieste fattegli che il pontefice inclinasse alla concordia, la quale esso, perché sapeva essere cosí la mente del re, molto desiderava; e per non perturbare questa disposizione ritenne il dí seguente l'esercito nel medesimo alloggiamento: benché permettesse che i Bentivogli con molti cavalli di amici e seguaci loro, seguitandogli alquanto da lontano cento cinquanta lancie franzesi, corressino insino appresso alle mura di Bologna. Per la venuta de' quali, con tutto che Ermes, minore ma il piú feroce de' fratelli, si appresentasse allato alla porta, non si fece dentro movimento alcuno.

                                                 Udí Ciamonte benignamente Giovanfrancesco dalla Mirandola, e lo rimandò il dí medesimo a Bologna, a significare le condizioni con le quali era contento di convenire: che 'l pontefice assolvesse Alfonso da Esti dalle censure, e tutti quegli che per qualunque cagione si erano intromessi nella difesa sua o nell'offesa dello stato ecclesiastico: liberasse medesimamente i Bentivogli dalle censure e dalle taglie, restituendo i beni che manifestamente a essi appartenevano: degli altri posseduti innanzi all'esilio si conoscesse in giudicio; e che avessino facoltà d'abitare in qualunque luogo piacesse loro, pure che non si appropinquassino a ottanta miglia a Bologna: non si alterasse nelle cose de' viniziani quel che si disponeva nella confederazione fatta a Cambrai: che tra il pontefice e Alfonso da Esti si sospendessino l'armi almanco per sei mesi, ritenendo ciascuno quello possedeva; nel quale tempo le differenze loro si decidessino per giudici che si dovessino deputare concordemente; riservando a Cesare la cognizione delle cose di Modena, la qual città si deponesse incontinente in sua mano: Cotignuola si restituisse al re cristianissimo: liberassesi il cardinale di Aus, perdonassesi a' cardinali assenti; e le collazioni de' benefici di tutto il dominio del re di Francia si facessino secondo la sua nominazione. Con la quale risposta essendo ritornato il Mirandolano, ma non senza speranza che Ciamonte non persisterebbe rigorosamente in tutte queste condizioni, udiva pazientemente il pontefice, contro alla sua consuetudine, la relazione, e insieme i prieghi de' cardinali che con ardore inestimabile lo supplicavano che, quando non potesse ottenere meglio, accettasse in questa maniera la composizione; ma da altra parte, lamentandosi essergli proposte cose troppo esorbitanti, e mescolando in ogni parola doglienze gravissime de' viniziani, e dimostrando di stare sospeso consumava il dí senza esprimere quale fusse la sua deliberazione. Alzò la speranza sua che alla fine del dí entrò in Bologna Chiappino Vitello, con seicento cavalli leggieri de viniziani e una squadra di turchi che erano a' soldi loro; il quale partito la notte dalla Stellata era venuto galoppando per tutto il cammino, per la somma prestezza impostagli dal proveditore viniziano. La mattina seguente alloggiò Ciamonte con tutto l'esercito al Ponte a Reno vicino a tre miglia a Bologna, dove andorno subito a lui i segretari degli oratori de' re de' romani di Aragona e di Inghilterra, e poco dipoi gli imbasciadori medesimi; i quali quel giorno, e con loro Alberto Pio venuto da Carpi, ritornorno piú volte al pontefice e a Ciamonte. Ma era, nell'uno e nell'altro variata non mediocremente la disposizione: perché Ciamonte, mancandogli per l'esperienza del dí dinanzi la speranza di sollevare per mezzo de' Bentivogli il popolo bolognese, e cominciando a sentire strettezza di vettovaglie la quale era per diventare continuamente maggiore, diffidava della vittoria; e il pontefice, inanimito perché il popolo, scoprendosi favorevole alla Chiesa, aveva, finalmente il giorno medesimo pigliato l'armi, e perché s'aspettava che innanzi al principio della notte entrasse in Bologna, oltre a dugento altri stradiotti de' viniziani, Fabbrizio Colonna con dugento cavalli leggieri e una parte degli uomini d'arme spagnuoli, non solo conosceva essere liberato dal pericolo ma, ritornato nella consueta elazione, minacciava di assaltare gli inimici, subito che fussino giunte tutte le genti spagnuole che erano vicine: per la qual confidenza rispose sempre quel dí, niuno mezzo esservi di concordia se il re di Francia non si obligava ad abbandonare totalmente la difesa di Ferrara. Proposonsi il dí seguente nuove condizioni, per le quali ritornorono a Ciamonte i medesimi imbasciadori; le quali si disturborno per varie difficoltà: di maniera che Ciamonte, disperato di potere fare piú, o coll'armi o per i trattati della pace, frutto alcuno, ed essere difficile a dimorare quivi, diminuendogli le vettovaglie e cominciando a essere per il sopravenire della vernata i tempi sinistri, ritornò il dí medesimo a Castelfranco e il dí prossimo a Rubiera; dimostrando di farlo mosso da' prieghi degli oratori, e per dare al pontefice spazio di pensare sopra le cose proposte, e a sé di intendere la mente del re.

                                                 Accusorno in questo tempo molti la deliberazione di Ciamonte di imprudenza, l'esecuzione di negligenza: come se, non avendo forze sufficienti a spugnare Bologna, conciossiaché nell'esercito non fussino piú di tremila fanti, fusse stato inconsiderato consiglio il muoversi per i conforti de' fuorusciti; le speranze de' quali, misurate piú col desiderio che con le ragioni, riescono quasi sempre vanissime. Avere dovuto almeno, se pure deliberava di tentare questa impresa, ristorare colla prestezza la debolezza delle forze, ma per contrario avere corrotta l'opportunità con la tardità; perché dopo l'indugio del muoversi da Peschiera aveva perduti inutilmente tre o quattro dí, mentre che considerando la impotenza del suo esercito stava sospeso o di tentare da se medesimo o di aspettare le genti del duca di Ferrara e Ciattiglione con le lancie franzesi: potersi forse questo difendere; ma come mai potersi scusare che preso Castelfranco non si fusse subito accostato alle porte di Bologna, né dato spazio di respirare a una città dove non era ancora entrato alcuno soccorso, il popolo sospeso, e maggiore (come accade nelle cose súbite) la confusione e il terrore? mezzo unico, se alcuno ve ne era, a fargli ottenere o vittoria o onesta composizione. Ma sarebbe, per avventura, minore spesso l'autorità di quegli che riprendono le cose infelicemente succedute se nel tempo medesimo si potesse sapere quel che sarebbe accaduto se si fusse proceduto diversamente; perché molte volte si conoscerebbe che sarebbe seguito altrimenti di quello che da se stessa si presuppone la fallacia de' discorsi umani, quando, giudicando le cose incerte, affermano che se si fusse proceduto in questa forma, o se si fusse proceduto altrimenti, sarebbe risultato l'effetto che si desiderava o non arebbe avuto luogo quel che ora è accaduto.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.12

                                                  

                                                 Il pontefice sempre piú indignato contro il re di Francia; milizie veneziane in suo aiuto. Terre occupate da' pontifici. Il pontefice fa decidere l'impresa contro Ferrara e la Mirandola. Massimiliano e il re di Francia deliberano di accertarsi delle intenzioni del re d'Aragona; risposta di Ferdinando. Nuova convenzione fra Massimiliano e il re di Francia. L'esercito pontificio, presa Concordia, si reca alla Mirandola. Congiura contro Pier Soderini in Firenze.

                                                  

                                                 Partito Ciamonte, il pontefice, infiammato sopra modo contro al re, si lamentò con tutti i príncipi cristiani che il re di Francia, usando ingiustamente e contro alla verità de' fatti il titolo e il nome di cristianissimo, sprezzando ancora la confederazione con tante solennità fatta a Cambrai, mosso da ambizione di occupare Italia, da sete scelerata del sangue del pontefice romano, aveva mandato lo esercito ad assediarlo con tutto il collegio de' cardinali e con tutti i prelati in Bologna; e ritornando con animo molto maggiore a' pensieri della guerra negò agli imbasciadori, i quali, seguitando i ragionamenti cominciati con Ciamonte, gli parlavano della concordia, volere udire piú cosa alcuna se prima non gli era data Ferrara: e con tutto che, per le fatiche sopportate in tanto accidente e col corpo e coll'animo, fusse molto aggravata la sua infermità, cominciò di nuovo a soldare gente e a stimolare i viniziani, che finalmente avevano gittato il ponte tra Ficheruolo e la Stellata, che mandassino sotto il marchese di Mantova parte delle loro genti a Modena a unirsi con le sue, e con l'altra parte molestassino Ferrara; affermando che in pochissimi dí acquisterebbe Reggio, Rubiera e Ferrara. Tardorono le genti viniziane a passare il fiume, per il pericolo nel quale sarebbeno incorsi se (come si dubitava) fusse sopravenuta la morte del pontefice; ma costretti finalmente cedere alle sue voglie, lasciate l'altre genti in su le rive di là dal Po, mandorono verso Modona cinquecento uomini d'arme mille seicento cavalli leggieri e cinquemila fanti, ma senza il marchese di Mantova. Il quale, fermatosi a Sermidi a soldare cavalli e fanti, per andare, come diceva, dipoi all'esercito, benché sospetta già a' viniziani la sua tardità, si condusse a San Felice castello del Modonese: dove avuto avviso che i franzesi che erano in Verona erano entrati a predare nel contado di Mantova, allegando la necessità di difendere lo stato suo, se ne tornò con licenza del pontefice a Mantova; ma con querela grave de' viniziani, perché, ancora che avesse promesso di ritornare presto, insospettiti della sua fede, credevano, come similmente fu creduto quasi per tutta Italia, che Ciamonte, per dargli scusa di non andare all'esercito, avesse con suo consentimento fatto correre i soldati franzesi nel mantovano. La quale suspizione si accrebbe, perché da Mantova scrisse al pontefice essere, per infermità sopravenutagli, impedito a partirsi.

                                                 Unite che furno intorno a Modena le genti del pontefice le viniziane e le lancie spagnuole, non si dubita che, se senza indugio si fussino mosse, che Ciamonte, il quale, quando si partí del bolognese, aveva per diminuire la spesa licenziati i fanti italiani, arebbe abbandonata la città di Reggio, ritenendosi la cittadella; ma ripreso animo per la tardità del muoversi, cominciò di nuovo a soldare fanti, con deliberazione di attendere solamente a guardare Sassuolo, Rubiera, Reggio e Parma. Ma mentre che quello esercito soggiorna intorno a Modena, incerto ancora se avesse a andare innanzi o volgersi a Ferrara, correndo alcune squadre di quelle della Chiesa verso Reggio, messe in fuga da' franzesi, perderono cento cavalli e fu fatto prigione il conte di Matelica. Nel qual tempo, essendo il duca di Ferrara e con lui Ciattiglione, con le genti franzesi, alloggiati in sul fiume del Po tra lo Spedaletto e il Bondino, opposito alle genti de' viniziani che erano di là dal Po, l'armata loro, volendo, per l'asprezza del tempo e per essere male proveduta da Vinegia, ritirarsi, assaltata da molte barche di Ferrara che con l'artiglieria messono in fondo otto legni, si condusse con difficoltà a Castelnuovo del Po, nella fossa che va nel Tartaro e nello Adice; dove come fu condotta si disperse. Comandò poi il pontefice che l'esercito il quale, non vi essendo venuto il marchese di Mantova, governava Fabrizio Colonna, lasciato a guardia di Modona il duca di Urbino, andasse a dirittura a Ferrara; dando a' capitani, che unitamente dannavano questo consiglio, speranza quasi certa che il popolo tumultuerebbe. Ma il dí medesimo che si erano mossi ritornorono indietro per suo comandamento, non si sapendo quel che l'avesse indotto a sí subita mutazione; e lasciati i primi disegni, andorono a campo alla terra di Sassuolo, ove Ciamonte avea mandati cinquecento fanti guasconi: la quale avendo battuto due dí, con giubilo grande del pontefice, che sentiva della camera medesima il tuono delle artiglierie sue intorno a Sassuolo della quale aveva, pochi dí innanzi, sentito con gravissimo dispiacere il tuono di quelle degli inimici intorno a Spilimberto, gli dettono l'assalto, il quale con piccolissima difficoltà succedette felicemente, perché si disordinorono i fanti che vi erano dentro; e appresentate poi subito l'artiglierie alla fortezza dove si erano ritirati, e cominciata a batterla, si arrenderono quasi subito senza alcuno patto: con la medesima infamia e infelicità di Giovanni da Casale (che era loro capitano) che avea sentita quando il Valentino occupò la rocca di Furlí; uomo di vilissima nazione, ma pervenuto a qualche grado onorato perché nel fiore della età era stato grato a Lodovico Sforza, e poi famoso per l'amore noto di quella madonna. Espugnato Sassuolo, prese l'esercito Formigine; e volendo il pontefice che andassino a pigliare Montecchio, terra forte e importante situata tra la strada maestra e la montagna in sui confini di Parma e di Reggio, e che era tenuta dal duca di Ferrara ma parte del territorio di Parma, recusò Fabrizio Colonna, dicendo essergli proibito dal suo re il molestare le giurisdizioni dello imperio. Non provedeva a questi disordini Ciamonte; il quale, lasciato in Reggio Obigní con cinquecento lancie e con dumila fanti guasconi sotto il capitano Molard, si era fermato a Parma, avendo ricevute nuove commissioni dal re di astenersi dalle spese. Perché il re, perseverando nel proposito di temporeggiarsi insino alla primavera, non faceva allora per le cose di qua da' monti provedimento alcuno. Onde declinando in Italia la sua riputazione e diventandone maggiore l'animo degl'inimici, il pontefice, impaziente che le sue genti non procedessino piú oltre né ammettendo le scuse che della stagione del tempo e dell'altre difficoltà gli facevano i suoi capitani, chiamatigli tutti a Bologna, propose si andasse a campo a Ferrara: approvando il parere suo solamente gli imbasciadori viniziani, o per non lo sdegnare contradicendogli o perché i soldati loro ritornassino piú vicini a' suoi confini; dannandolo tutti gli altri, ma invano, perché non consultava piú ma comandava. Fu adunque deliberato che si andasse col campo a Ferrara, ma con aggiunta che per impedire a' franzesi il soccorrerla si tentasse, in caso non apparisse molto difficile, la Mirandola: la quale terra, insieme con la Concordia, signoreggiata da' figliuoli del conte Lodovico Pico, [e da Francesca,] madre e nutrice loro, conservava sotto la divozione del re di Francia; seguitando l'autorità di Gianiacopo da Triulzi suo padre naturale, per cui opera i piccoli figliuoli n'aveano da Cesare ottenuta la investitura. Aveva il pontefice molto prima ricevutigli, come appariva per uno breve, nella sua protezione, ma si scusava che le condizioni de' tempi presenti lo costrignevano a procurare che quelle terre non fussino tenute da persone sospette a sé; offerendo, se volontariamente gli erano concedute, di restituirle come prima avesse acquistato Ferrara. Fu dubitato insino allora (la quale dubitazione si ampliò poi molto piú) che il cardinale di Pavia, sospetto già d'avere occulto intendimento col re di Francia, fusse stato artificiosamente autore di questo consiglio, per interrompere con la impresa della Mirandola l'andare a campo a Ferrara; la quale città non era allora molto fortificata né aveva presidio molto grande, e i soldati franzesi stracchi col corpo e con l'animo dalle fatiche, il duca impotente e il re alieno dal farvi maggiori provedimenti.

                                                 Ma mentre che il pontefice attendeva con tanto ardore all'espedizione della guerra, il re di Francia, intento piú alle pratiche che all'armi, continuava di trattare col vescovo di Gursia le cose cominciate: le quali, dimostratesi al principio molto facili, procedetteno in maggiore lunghezza per la tardità delle risposte di Cesare e perché, dubitando del re di Aragona (il quale, oltre all'altre azioni, aveva di nuovo, sotto colore che verso Otranto si fusse scoperta l'armata de' turchi, rivocato nel regno di Napoli le genti sue che erano a Verona), giudicorno Cesare e il re di Francia necessario di accertarsi della mente sua, cosí circa la continuazione nella lega di Cambrai come in quello che si avesse a fare col pontefice, perseverando egli nella congiunzione co' viniziani e nella cupidità di acquistare immediatamente alla Chiesa il dominio di Ferrara. Alle quali dimande rispose dopo spazio di qualche dí il re cattolico, pigliando in uno tempo medesimo occasione di purgare molte querele che da Cesare e dal re di Francia si facevano di lui: avere conceduto le trecento lancie al pontefice per l'obligazione della investitura, e a effetto solamente di difendere lo stato della Chiesa e recuperare le cose che erano antico feudo di quella; avere revocato le genti d'arme da Verona perché era passato il termine per il quale le aveva promesse a Cesare, e nondimeno che non l'arebbe revocate se non fusse stato il sospetto de' turchi; essersi interposto l'oratore suo a Bologna con Ciamonte insieme con gli altri oratori allo accordo non per dare tempo a' soccorsi del pontefice ma per rimuovere tanto incendio della cristianità, sapendo massimamente essere al re molestissima la guerra con la Chiesa; essere stato sempre nel medesimo proposito di adempiere quel che era stato promesso a Cambrai, e volerlo fare in futuro molto piú, aiutando Cesare con cinquecento lancie e dumila fanti contro a' viniziani: non essere già sua intenzione di legarsi a nuove obligazioni né ristrignersi a capitolazioni nuove, perché non ne vedeva alcuna urgente cagione e perché, desideroso di conservarsi libero per potere fare la guerra contro agli infedeli d'Affrica, non voleva accrescere i pericoli e gli affanni della cristianità che aveva bisogno di riposo: piacergli il concilio e la riformazione della Chiesa quando fusse universale e che i tempi non repugnassino, e di questa sua disposizione niuno essere migliore testimonio del re di Francia, per quello che insieme ne avevano ragionato a Savona; ma i tempi essere molto contrari, perché il fondamento de' concili era la pace e la concordia tra i cristiani, non potendosi senza l'unione delle volontà convenire cosa alcuna in beneficio comune, né essere degno di laude cominciare il concilio in tempo e in maniera che e' paresse cominciarsi piú per sdegno e per vendetta che per zelo o dell'onore di Dio o dello stato salutifero della republica cristiana. Diceva oltre a questo separatamente agli oratori di Cesare, parergli grave aiutarlo a conservare le terre perché dipoi per danari le concedesse al re di Francia, significando espressamente di Verona. Intesa adunque per questa risposta la intenzione del re cattolico, non tardorno piú, Gurgense da una parte in nome di Cesare e il re di Francia dall'altra, di fare nuova confederazione; riserbata facoltà al pontefice di entrarvi infra due mesi prossimi, e al re cattolico e al re d'Ungheria infra quattro. Obligossi il re di pagare a Cesare (fondamento necessario alle convenzioni che si facevano con lui), parte di presente parte in tempi, centomila ducati: promesse Cesare di passare alla primavera in Italia con tremila cavalli e diecimila fanti contro a' viniziani; nel quale caso il re fusse obligato a spese proprie mandargli mille dugento lancie e ottomila fanti con provedimento sufficiente d'artiglierie, e per mare due galee sottili e quattro bastarde: osservassino la lega fatta a Cambrai, e ricercassino in nome comune alla osservanza del medesimo il pontefice e il re cattolico; e se il pontefice facesse difficoltà per le cose di Ferrara fusse il re tenuto a stare contento a quello che fusse consentaneo alla ragione, ma in caso denegasse la richiesta loro si proseguisse il concilio; per il quale Cesare dovesse congregare i prelati di Germania, come aveva il re di Francia fatto de' prelati suoi, per procedere piú innanzi secondo che fusse poi deliberato da loro. Non si trattò in questa convenzione de' danari prestati dal re a Cesare né dell'obligazione acquistata sopra Verona, ma si credeva il re avesse rimosso l'animo dallo appropriarsela, sapendo quanto Cesare fusse desideroso di ritenersela. Publicate le convenzioni, Gurgense, molto onorato e ricevuti grandissimi doni, se ne ritornò al suo principe; e il re, col quale nuovamente i cinque cardinali che procuravano il concilio avevano convenuto che né egli senza consenso loro né essi senza consenso suo concorderebbeno col pontefice, dimostrandosi con le parole molto acceso a passare personalmente in Italia con tale potenza che per molto tempo assicurasse le cose sue, le quali perché prima non cadessino in maggiore declinazione, commesse a Ciamonte che non lasciasse perire il duca di Ferrara. Il quale aggiunse ottocento fanti tedeschi alle dugento lancie che prima vi erano con Ciattiglione.

                                                 Da altra parte l'esercito del pontefice, poiché furono fatte benché lentamente le provisioni necessarie, lasciato alla guardia di Modona Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e dumila cinquecento fanti, andò a campo alla Concordia; la quale presa per forza, il medesimo dí che vi furono piantate l'artiglierie, e poi ottenuta a patti la fortezza, si accostò alla Mirandola. Approssimavasi già la fine del mese di dicembre e, per sorte, la stagione di quello anno era molto piú aspra che ordinariamente non suole essere: per il che e per essere la terra forte, e perché si credeva che i franzesi non dovessino lasciare perdere uno luogo tanto opportuno, i capitani principalmente diffidavano di ottenerla; e nondimeno tanto certamente si prometteva il pontefice la vittoria di tutta la guerra che mandando, per la discordia che era tra 'l duca di Urbino e il cardinale di Pavia, legato nuovo nell'esercito il cardinale di Sinigaglia gli commesse, in presenza di molti, che sopra tutto procurasse che, quando l'esercito entrava in Ferrara, si conservasse quanto si poteva quella città. Cominciorno a tirare contro alla Mirandola l'artiglierie il quarto dí poi che l'esercito si fu accostato; ma patendo molti sinistri e incomodità de' tempi e delle vettovaglie, le quali venivano al campo scarsamente del modenese, perché essendo state messe in Guastalla cinquanta lancie de' franzesi, altrettante in Coreggio, e in Carpi dugento cinquanta, e avendo rotto per tutto i ponti e occupati i passi donde potevano venire del mantovano, facevano impossibile il condurle per altra via. Ma s'allargò prestamente alquanto questa strettezza, perché quegli che erano in Carpi, essendo pervenuto falso romore che l'esercito inimico andava per assaltargli, spaventati perché non vi avevano artiglierie, se ne partirono.

                                                 Ebbe nella fine di questo anno qualche infamia la persona del pontefice, come se fusse stato conscio e fautore che, per mezzo del cardinale de' Medici, si trattasse, con Marcantonio Colonna e alcuni giovani fiorentini, che fusse ammazzato in Firenze Piero Soderini gonfaloniere; per opera del quale si diceva i fiorentini seguitare le parti franzesi: perché, avendo il pontefice procurato con molte persuasioni di congiugnersi quella republica, non gli era mai potuto succedere; anzi non molto prima avevano, a richiesta del re di Francia, disdetta la tregua a' sanesi, con molestia grandissima del pontefice, benché avessino recusato non muovere l'armi se non dopo i sei mesi della disdetta, come il re desiderava per mettere in sospetto il pontefice; e oltre a questo aveano mandato al re dugento uomini d'arme perché stessino a guardia del ducato di Milano, cosa dimandata dal re per virtú della loro confederazione, non tanto per l'importanza di tale aiuto quanto per desiderio di inimicargli col pontefice.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.13

                                                  

                                                 Il pontefice presso l'esercito all'assedio della Mirandola. Pericoli corsi dal pontefice; presa della Mirandola. Il re di Francia ordina una piú decisa azione di guerra.

                                                  

                                                 Finí in questo stato delle cose l'anno mille cinquecento dieci. Ma il principio dell'anno nuovo fece molto memorabile una cosa inaspettata e inaudita per tutti i secoli. Perché, parendo al pontefice che l'oppugnazione della Mirandola procedesse lentamente, e attribuendo parte alla imperizia parte alla perfidia de' capitani, e specialmente del nipote, quel che procedeva maggiormente da molte difficoltà, deliberò di accelerare le cose con la presenza sua; anteponendo l'impeto e l'ardore dell'animo a tutti gli altri rispetti, né lo ritenendo il considerare quanto fusse indegno della maestà di tanto grado che il pontefice romano andasse personalmente negli eserciti contro alle terre de' cristiani, né quanto fusse pericoloso, disprezzando la fama e il giudicio che appresso a tutto il mondo si farebbe di lui, dare apparente colore e quasi giustificazione a coloro che, sotto titolo principalmente di essere pernicioso alla Chiesa il reggimento suo e scandolosi e incorriggibili i suoi difetti, procuravano di convocare il concilio e suscitare i príncipi contro a lui. Risonavano queste parole per tutta la corte: ciascuno si maravigliava, ciascuno grandemente biasimava, né meno che gli altri gli imbasciadori de' viniziani; supplicavanlo i cardinali con somma instanza che non andasse. Ma vani erano i prieghi di tutti, vane le persuasioni. Partí il secondo dí di gennaio da Bologna, accompagnato da tre cardinali; e giunto nel campo alloggiò in una casetta di uno villano sottoposta a' colpi dell'artiglierie degli inimici, perché non era piú lontana dalle mura della Mirandola che tiri in due volte una balestra comune. Quivi, affaticandosi ed esercitando non meno il corpo che la mente e che lo imperio, cavalcava quasi continuamente ora qua ora là per il campo, sollecitando che si desse perfezione al piantare dell'artiglierie, delle quali insino a quel dí era piantata la minore parte; essendo impedite quasi tutte l'opere militari da' tempi asprissimi e dalla neve quasi continua, e perché niuna diligenza bastava a ritenere che i guastatori non si fuggissino, essendo oltre alla acerbità del tempo molto offesi dall'artiglierie, di quegli di dentro. Però, essendo necessario fare ne' luoghi dove s'avevano a piantare l'artiglierie, per sicurtà di coloro che vi s'adoperavano, nuovi ripari e fare venire al campo nuovi guastatori, il pontefice, mentre che queste cose si provedevano, andò, per non patire in questo tempo delle incomodità dell'esercito, alla Concordia: nel quale luogo venne a lui, per commissione di Ciamonte, Alberto Pio, proponendo vari partiti di composizione; i quali, benché piú volte andasse dall'uno all'altro, furno tentati vanamente, o per la solita durezza sua o perché Alberto, del quale sempre crescevano i sospetti, non negoziasse con la sincerità conveniente. Stette alla Concordia pochi giorni, riconducendolo all'esercito la medesima impazienza e ardore, il quale non raffreddò punto nel cammino la neve grossissima che tuttavia cadeva dal cielo né i freddi cosí smisurati che appena i soldati potevano tollerargli; e alloggiato in una chiesetta propinqua alle sue artiglierie e piú vicina alle mura che non era l'alloggiamento primo, né gli sodisfacendo cosa alcuna di quelle che si erano fatte e che si facevano, con impetuosissime parole si lamentava di tutti i capitani, eccetto che di Marcantonio Colonna, il quale di nuovo avea fatto venire da Modona: né procedendo con minore impeto per l'esercito, ora questi sgridando ora quegli altri confortando, e facendo colle parole e co' fatti l'ufficio del capitano, prometteva che se i soldati procedevano virilmente che non accetterebbe la Mirandola con alcuno patto ma lascierebbe in potestà loro il saccheggiarla. Ed era certamente cosa notabile, e agli occhi degli uomini molto nuova, che il re di Francia, principe secolare, di età ancora fresca e allora d'assai prospera disposizione, nutrito dalla giovanezza nell'armi, al presente riposandosi nelle camere, amministrasse per capitani una guerra fatta principalmente contro a lui; e da altra parte vedere che il sommo pontefice, vicario di Cristo in terra, vecchio e infermo e nutrito nelle comodità e ne' piaceri, si fusse condotto in persona a una guerra suscitata da lui contro a cristiani, a campo a una terra ignobile; dove sottoponendosi, come capitano d'eserciti, alle fatiche e a' pericoli, non riteneva di pontefice altro che l'abito e il nome.

                                                 Procedevano, per la sollecitudine estrema per le querele per le promesse per le minaccie, le cose con maggiore celerità che altrimenti non arebbono fatto; e nondimeno, repugnando molte difficoltà, procedevano lentamente, per il piccolo numero de' guastatori, perché nell'esercito non erano molte artiglierie né quelle de' viniziani molto grosse, e perché per l'umidità del tempo le polveri facevano con fatica l'ufficio consueto. Difendevansi arditamente quegli di dentro, a' quali era preposto Alessandro da Triulzio con [quattrocento] fanti forestieri, sostenendo con maggiore virtú i pericoli per la speranza del soccorso promesso da Ciamonte: il quale, avendo avuto comandamento dal re di non lasciare occupare al pontefice quella terra, aveva chiamati a sé i fanti spagnuoli che erano in Verona; e raccogliendo da ogni parte le genti sue e soldando continuamente fanti, e il medesimo facendo fare al duca di Ferrara, prometteva d'assaltare, innanzi che passasse il vigesimo dí di gennaio, il campo inimico. Ma molte cose facevano difficile e pericoloso questo consiglio: la strettezza del tempo breve a raccorre tanti provvedimenti, lo spazio dato agli inimici di fortificare l'alloggiamento, la fatica di condurre, nella stagione tanto fredda, per vie pessime e per le nevi, maggiori che molti anni fussino state, l'artiglierie le munizioni e le vettovaglie: e augumentò le difficoltà colui che doveva, ricompensando con la prestezza il tempo perduto, diminuirle. Perché Ciamonte corse subitamente in su' cavalli delle poste a Milano, affermando andarvi per provedere piú sollecitamente danari e l'altre cose che bisognavano; ma essendosi divulgato e creduto averlo indotto a questo l'amore di una gentildonna milanese, raffreddò molto l'andata sua, con tutto che presto ritornasse, gli animi de' soldati e le speranze di quegli che difendevano la Mirandola: onde non oscuramente molti dicevano, nuocere forse non meno che la negligenza o la viltà di Ciamonte l'odio suo contro a Gianiacopo da Triulzi; e che perciò, preponderando (come spesso si fa) la passione propria alla utilità del re, gli fusse grato che i nipoti fussino privati di quello stato. Da altra parte il pontefice non perdonava a cosa alcuna per ottenere la vittoria, acceso in maggiore furore perché da uno colpo di cannone tirato da quegli di dentro erano stati ammazzati nella cucina sua due uomini: per il quale pericolo partitosi di quello alloggiamento, e dipoi, perché non poteva temperare se medesimo, il dí seguente ritornatovi, era stato costretto per nuovi pericoli ridursi nell'alloggiamento del cardinale Regino; dove quegli di dentro, sapendo per avventura egli esservisi trasferito, indirizzorno una artiglieria grossa non senza pericolo della sua vita. Finalmente gli uomini della terra, perduta interamente la speranza di essere soccorsi e avendo l'artiglierie fatto processo grande, essendo oltre a questo cosí profondamente le fosse congelate che sostenevano i soldati, temendo di non potere resistere alla prima battaglia che si ordinava di dare infra due giorni, mandorno, in quel medesimo dí, nel quale Ciamonte avea promesso di accostarsi, imbasciadori al pontefice per arrendersi, con patto che fussino salve le persone e le robe di tutti. Il quale, benché da principio rispondesse non volere obligarsi a salvare la vita de' soldati, pure alla fine, vinto da' prieghi di tutti i suoi, gli accettò con le condizioni proposte; eccettuato che Alessandro da Triulzi con alcuni capitani de' fanti rimanessino prigioni suoi, e che la terra, per ricomperarsi dal sacco stato promesso a' soldati, pagasse certa quantità di danari: e nondimeno, parendo loro essergli debito quel che era stato promesso, non fu piccola fatica al pontefice rimediare non la saccheggiassino; il quale fattosi tirare in sulle mura, perché le porte erano atterrate, discese da quelle nella terra. Arrendessi insieme la rocca, data facoltà alla contessa di partirsene con tutte le robe sue. Restituí il pontefice la Mirandola al conte Giovanfrancesco, e gli cedette le ragioni de' figliuoli del conte Lodovico come acquistate da sé con guerra giusta; ricevuta da lui obligazione (e, per sicurtà dell'osservanza, la persona del figliuolo) di pagargli fra certo tempo, per la restituzione delle spese fatte, ventimila ducati; e vi lasciò, perché, partito che fusse l'esercito i franzesi non l'occupassino, cinquecento fanti spagnuoli e trecento italiani. Dalla Mirandola andò a Sermidi nel mantovano, castello posto in sulla riva del Po, pieno di grandissima speranza di acquistare senza dilazione alcuna Ferrara; per il che, il dí medesimo che ottenne la Mirandola, aveva molto risolutamente risposto ad Alberto Pio non volere piú porgere l'orecchie a ragionamento alcuno di concordia se, innanzi che si trattassino l'altre condizioni della pace, non gli era consegnata Ferrara.

                                                 Ma per nuova deliberazione de' franzesi variorno i suoi pensieri. Perché il re, considerando quanto per la perdita della Mirandola fusse diminuita la riputazione delle cose sue, e disperando che l'animo del papa si potesse piú ridurre spontaneamente a quieti consigli, comandò a Ciamonte che non solamente attendesse a difendere Ferrara ma che oltre a questo non si astenesse, presentandosegli occasione opportuna, da offendere lo stato della Chiesa; onde raccogliendo Ciamonte da ogni parte le genti, il pontefice per consiglio de' capitani si ritirò a Bologna: dove stato pochi dí o per timore o per sollecitare, secondo diceva, di luogo piú vicino l'oppugnazione della bastia del Genivolo, contro alla quale disegnava mandare alcuni soldati che aveva in Romagna, venne a Lugo; e se ne andò finalmente a Ravenna, non gli parendo forse sí piccola espedizione degna della presenza sua.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.14

                                                  

                                                 Discussione e deliberazioni de' capitani francesi e del duca di Ferrara. Parere del Triulzio. Il pontefice consegna Modena al re de' romani. Morte di Ciamonte e giudizio dell'autore su di lui. Insuccesso de' pontifici.

                                                  

                                                 Eransi le genti viniziane, non comportando la propinquità degli inimici assaltare Ferrara, fermate al Bondino, e tra Cento e il Finale l'ecclesiastiche e le spagnuole; le quali, con tutto che fusse passato il termine de' tre mesi, soprasedevano a' prieghi del pontefice. Da altra parte Ciamonte, raccolto l'esercito, superiore agli inimici di fanti, superiore ancora per la virtú degli uomini da cavallo ma inferiore di numero, consultava quello fusse da fare; e proponevano i capitani franzesi che, congiunte all'esercito le genti del duca di Ferrara, si andasse a trovare gli inimici, i quali benché fussino alloggiati in luoghi forti si doveva sperare con la virtú dell'armi e coll'impeto dell'artiglierie avergli facilmente a costrignere a ritirarsi; e succeduto questo, non solamente rimaneva Ferrara liberata da ogni pericolo ma si ricuperava interamente la riputazione perduta insino a quel dí. Allegavasi, per la medesima opinione, che nel passare con l'esercito per il mantovano si rimoverebbono le scuse del marchese, e gli impedimenti da' quali affermava essere stato ritenuto a non pigliare l'armi come feudatario di Cesare e soldato del re; e che la dichiarazione sua era molto utile alla sicurtà di Ferrara e molto nociva in questa guerra agli inimici, perdendone comodità non piccole gli eserciti de' viniziani di vettovaglie di ponti e di passi di fiumi, e perché il marchese incontinente rivocherebbe i soldati che aveva nel campo della Chiesa. Ma in contrario consigliava il Triulzio, il quale ne' dí medesimi che la Mirandola si perdette era ritornato di Francia; dimostrando essere pericoloso il cercare di assaltare nella fortezza de' suoi alloggiamenti l'esercito degli inimici, pernicioso il sottomettersi a necessità di procedere dí per dí secondo i processi loro. Piú utile e piú sicuro essere il voltarsi verso Modona o verso Bologna: perché se gli inimici, temendo di non perdere qualcuna di quelle città, si movessino, si conseguiterebbe il fine che si cercava, di liberare Ferrara dalla guerra; non si movendo, si poteva facilmente acquistare o l'una o l'altra, il che succedendo, maggiore necessità gli tirerebbe a difendere le cose proprie; e forse che, uscendo di sito sí forte, s'arebbe occasione di ottenere qualche preclara vittoria. Questa era la sentenza del Triulzo: nondimeno, per la inclinazione di Ciamonte e degli altri capitani franzesi a detrarre alla sua autorità, fu approvato l'altro consiglio; affaticandosene oltre a questo sommamente Alfonso da Esti, perché sperava che gli inimici sarebbono necessitati a discostarsi dal suo stato, il quale afflitto e consumato diceva essere impossibile che sostenesse piú lungamente sí grave peso; perché temeva che se i franzesi s'allontanavano non entrassino le genti inimiche nel Polesine di Ferrara, onde la infermità di quella città, privata di tutto lo spirito che gli rimaneva, irrimediabilmente s'aggravava.

                                                 Andò adunque l'esercito franzese per il cammino di Lucera e di Gonzaga ad alloggiare a Razzuolo e alla Moia, ove soggiornò per l'asprezza del tempo tre dí; rifiutando il consiglio di chi proponeva s'assaltasse la Mirandola, perché era impossibile alloggiare alla campagna, e alla partita del pontefice erano stati abbruciati i borghi e tutte le case all'intorno. Non piacque similmente l'assaltare la Concordia lontana cinque miglia, per non perdere tempo in cosa di piccola importanza. Però venne a Quistelli, e passato il fiume della Secchia in su uno ponte fatto colle barche alloggiò il dí prossimo a Revere, in sul fiume del Po: il quale alloggiamento fu cagione che Andrea Gritti, che, ricuperato prima il Pulesine di Rovigo e lasciata una parte de' soldati viniziani sotto Bernardino dal Montone a Montagnana per resistere alle genti che guardavano Verona, si era con trecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e mille fanti accostato al fiume del Po per andare a unirsi con l'esercito della Chiesa, si ritirò a Montagnana; avendo prima saccheggiata la terra di Guastalla. Da Revere andorno i franzesi a Sermidi, distendendosi, ma ordinatamente, per le ville circostanti: i quali come furono alloggiati, andò Ciamonte con alcuni de' capitani, ma senza il Triulzo, a [la terra della Stellata], nel quale luogo l'aspettava Alfonso da Esti, per deliberare con qual modo s'avesse a procedere contro agli inimici, i quali tutti si erano ridotti ad alloggiare al Finale; e fu deliberato che, unite le genti d'Alfonso colle franzesi intorno al Bondino, andassino tutti ad alloggiare in certe ville vicine a tre miglia al Finale, per procedere dipoi secondo la natura de' luoghi e quel che facessino gl'inimici. Ma a Ciamonte, come fu tornato a Sermidi, fu detto essere molto difficile il condursi a quello alloggiamento, perché per l'impedimento dell'acque, delle quali era pieno il paese intorno al Finale, non si poteva andarvi se non per la strada e per gli argini del canale, il quale gli inimici aveano tagliato in piú luoghi e messevi le guardie per impedire non si passasse; il che pareva dovesse riuscire molto difficile, aggiunta l'opposizione loro a' tempi tanto sinistri: onde stando Ciamonte molto dubbio, Alfonso, avendo appresso a sé alcuni ingegneri e uomini periti del paese, e dimostrando il sito e la disposizione de' luoghi, si ingegnava di persuadere il contrario; affermando che con la forza dell'artiglierie sarebbeno costretti quegli che guardavano i passi tagliati ad abbandonargli, e che perciò sarebbe molto facile gittare, ove fusse necessario, i ponti per passare. Le quali cose essendo referite da Ciamonte e disputate nel consiglio, era approvato il parere di Alfonso, piú tosto non impugnando che consentendo il Triulzio: e forse che la taciturnità sua mosse piú gli uomini che non arebbe fatto la contradizione. Perché considerandosi piú dappresso che le difficoltà si dimostravano maggiori, e che quel capitano, vecchio e di sí lunga esperienza, aveva sempre riprovata tale andata, e che se ne intervenisse alcuno sinistro sarebbe imputato dal re chi contro al parere suo ne fusse stato autore, Ciamonte, richiamato l'altro dí sopra la medesima deliberazione il consiglio, pregò efficacemente il Triulzio che non con silenzio, come aveva fatto il dí precedente, ma con aperto parlare esprimesse la sua sentenza. Egli incitato da questa instanza, e molto piú dall'essere deliberazione di tanto peso, stando tutti attentissimi a udirlo, parlò cosí:

                                                 - Io tacetti ieri perché per esperienza molte volte ho veduto essere tenuto piccolo conto del consiglio mio, il quale se si fusse seguitato da principio non saremmo al presente in questi luoghi, né aremmo perduto invano tanti giorni che si potevano spendere con piú profitto; e sarei oggi nella medesima sentenza di tacere se non mi spronasse la importanza della cosa, perché siamo in procinto di volere mettere sotto il punto incertissimo di uno dado questo esercito, lo stato del duca di Ferrara e il ducato di Milano, posta troppo grande senza ritenersi niente in mano: e mi invita oltre a questo a parlare il parermi comprendere che Ciamonte desideri che il primo a consigliare sia io quello che già comincia a andare a lui per l'animo, cosa che non mi è nuova, perché altre volte ho compreso essere manco disprezzati i consigli miei quando si tratta di ritirare qualche cosa forse non troppo maturamente deliberata che quando si fanno le prime deliberazioni. Noi trattiamo di andare a combattere con gli inimici; e io ho sempre veduto essere fondamento immobile de' grandi capitani, il quale io medesimamente ho con l'esperienza imparato, che mai debbe tentare la fortuna della battaglia chi non è invitato da molto vantaggio o stretto da urgente necessità; oltre che è secondo la ragione della guerra che agli inimici che sono gli attori, poiché si muovono per acquistare Ferrara, tocchi il cercare di assaltare noi, e non che a noi, a' quali basta il difendersi, tocchi contro a tutte le regole della disciplina militare sforzarci d'assaltare loro. Ma vediamo quale sia il vantaggio o la necessità che ci induce. A me pare ed è, se io non mi inganno del tutto, cosa molto evidente che non si possa tentare quel che propone il duca di Ferrara se non con grandissimo disavvantaggio nostro; perché non possiamo andare a quello alloggiamento se non per uno argine e per una stretta e pessima strada, dove non si possono spiegare tutte le forze nostre, e dove loro possono con poche forze resistere a numero molto maggiore. Bisognerà che per l'argine camminiamo cavallo per cavallo, che per la strettezza dell'argine conduciamo l'artiglierie i carriaggi le carra e i ponti: e chi non sa che, nel cammino stretto e cattivo, ogni artiglieria ogni carro che inciampi fermerà almanco per una ora tutto l'esercito? e che, essendo inviluppati in tante incomodità, ogni mediocre sinistro potrà facilmente disordinarci? Alloggiano i nimici al coperto, provisti di vettovaglie e di strami; noi alloggieremo quasi tutti allo scoperto e ci bisognerà portarci dietro gli strami, né potremo se non con gran fatica condurne la metà del bisogno. Non abbiamo a rapportarci a quel che dichino gl'ingegneri e i villani pratichi del paese, perché le guerre si fanno con le armi de' soldati e col consiglio de' capitani; fannosi combattendo in su la campagna, non co' disegni che dagli uomini imperiti della guerra si notano in su le carte, o si dipingono col dito o con una bacchetta nella polvere. Non mi presuppongo io i nimici sí deboli, non le cose loro in tale disordine, né che abbino nello alloggiarsi e nel fortificarsi saputo sí poco valersi dell'opportunità dell'acque e de' siti, che io mi prometta che subito che saremo giunti nello alloggiamento che si disegna, quando bene vi ci conducessimo agevolmente, abbia a essere in potestà nostra l'assaltargli. Potranno molte difficoltà sforzarci a soprasedervi due o tre dí, e, se non altra difficoltà, le nevi e le pioggie, in sí sinistra e sí rotta stagione: in che grado saremo delle vettovaglie e degli strami se ci accadrà soprastarvi? E quando pure fusse in potestà nostra l'assalirgli, chi è quello che si prometta tanto facile la vittoria? chi è quello che non consideri quanto sia pericoloso l'andare a trovare gli inimici alloggiati in luogo forte, e l'avere in uno tempo medesimo a combattere con loro e con le incomodità del sito del paese? Se non gli costrigniamo a levarsi subito di quello alloggiamento saremo necessitati a ritirarci; e questo con quante difficoltà si farà, per il paese che tutto ci è contrario, e ove diventerebbe grandissimo ogni piccolissimo disfavore? Meno veggo la necessità di mettere tutto lo stato del re in questo precipizio; perché ci siamo mossi principalmente non per altro che per soccorrere la città di Ferrara, nella quale se mettiamo a guardia piú genti, possiamo starne sicurissimi, quando bene noi dissolvessimo l'esercito; e se si dicesse che è tanto consumata che, rimanendogli addosso l'esercito degli inimici, è impossibile che in breve tempo non caggia per se stessa, non abbiamo noi il rimedio della diversione, rimedio potentissimo nelle guerre, con la quale, senza mettere pure uno cavallo in pericolo, gli necessitiamo ad allargarsi da Ferrara? Io ho sempre consigliato, e consiglio piú che mai, che noi ci voltiamo o verso Modona o verso Bologna, pigliando il cammino largo e lasciando Ferrara, per questi pochi dí, che per piú non sarà necessario, bene proveduta. Piacemi ora piú l'andare a Modena, alla qual cosa ci stimola il cardinale da Esti, persona tale, e che afferma avervi dentro intelligenza, proponendo lo acquisto molto facile: e conquistando uno luogo sí importante, gli inimici sarebbeno costretti a ritirarsi subito verso Bologna; e quando bene non si pigliasse Modona, il timore di quella e delle cose di Bologna gli costrignerà a fare il medesimo; come indubitatamente arebbono fatto, già molti dí, se da principio si fusse seguitato questo parere. -

                                                 Conobbeno tutti per le efficaci ragioni del savio capitano, quando le difficoltà erano già presenti, quello che egli, quando erano ancora lontane, aveva conosciuto. Però approvato da tutti il suo parere, Ciamonte, lasciato al duca di Ferrara per sicurtà sua maggiore numero di gente, si mosse coll'esercito per il cammino medesimo verso Carpi; non avendo né anche conseguito che il marchese di Mantova si dichiarasse, che era stata una delle cagioni allegata principalmente da coloro che aveano consigliato contro all'opinione del Triulzo. Perché il marchese, desiderando conservarsi in queste turbolenze neutrale, come s'approssimava il tempo nel quale aveva data speranza di dichiararsi, pregava con varie scuse che gli fusse permesso il differire ancora qualche dí: al pontefice dimostrando il pericolo evidente che gli soprastava dall'esercito franzese; a Ciamonte supplicando che non gli interrompesse la speranza che aveva, che 'l papa, in brevissimo spazio di tempo, gli renderebbe il figliuolo. Ma né anche il disegno di occupare Modona procedette felicemente, facendo maggiore impedimento l'astuzia e i consigli occulti del re d'Aragona che l'armi del pontefice. Era stato molesto a Cesare che il pontefice avesse occupato Modona, città stata riputata lunghissimo tempo di giurisdizione dello imperio, e tenuta moltissimi anni dalla famiglia da Esti co' privilegi e investiture de' Cesari; e con tutto che con molte querele avesse fatta instanza che la gli fusse conceduta, il pontefice, che delle ragioni di quella città o sentiva o pretendeva altrimenti, era stato da principio renitente, massimamente mentre sperò dovergli essere facile l'occupare Ferrara. Ma scoprendosi poi manifestamente in favore da Esti l'armi franzesi, né potendo sostenere Modona se non con gravi spese, aveva cominciato a gustare il consiglio del re d'Aragona; il quale lo confortò che, per fuggire tante molestie, mitigare l'animo di Cesare e tentare di fare nascere alterazione tra il re di Francia e lui, lo consentisse, atteso massimamente che quando in tempo piú comodo desiderasse di riaverla gli sarebbe sempre facile, dando a Cesare quantità mediocre di danari: il quale ragionamento era stato prolungato molti dí, perché secondo la variazione delle speranze si variava la deliberazione del pontefice; ma sempre era stata ferma questa difficoltà, che Cesare ricusava riceverla se nell'instrumento della consegnazione non s'esprimeva chiaramente quella città essere appartenente all'imperio, il che al pontefice pareva durissimo consentire. Ma come, occupata che ebbe la Mirandola, vedde Ciamonte uscito potente alla campagna, e che a lui ritornavano le medesime difficoltà e spese della difesa di Modona, omessa la disputazione delle parole, consentí che nello instrumento si dicesse, restituirsi Modona a Cesare della cui giuridizione era: la possessione della quale come Vitfrust, oratore di Cesare appresso al papa, ebbe ricevuta, persuadendosi dovere essere sicura per l'autorità cesarea, licenziò Marcantonio Colonna e le genti con le quali l'avea prima guardata in nome della Chiesa: e a Ciamonte significò, Modona non appartenere piú al pontefice ma essere giustamente ritornata sotto il dominio di Cesare. Non credette Ciamonte questo essere vero, e però stimolava il cardinale da Esti all'esecuzione del trattato che diceva avere in quella città: per ordine del quale, i soldati franzesi che Ciamonte aveva lasciati alla guardia di Rubiera, essendosi una notte accostati piú tacitamente potettono a uno miglio appresso a Modona, si ritirorno la notte medesima a Rubiera, non corrispondendo gli ordini dati da quegli di dentro, o per qualche difficoltà sopravenuta o perché i franzesi si fussino mossi innanzi al tempo. Uscirono dipoi un'altra notte di Rubiera per accostarsi pure a Modona, ma dalla grossezza e furore dell'acque furno impediti di passare il fiume della Secchia che corre innanzi a Rubiera. Dalle quali cose insospettito Vitfrust, avendo fatti incarcerare alcuni modonesi, incolpati che macchinassino col cardinale da Esti, impetrò dal pontefice che Marcantonio Colonna col medesimo presidio vi ritornasse; il che non arebbe ritenuto Ciamonte, che già era venuto a Carpi, di andarvi a campo, se la qualità del tempo non gli avesse impedito il condurre l'artiglierie, per quella via, non piú lunga di dieci miglia, che è tra Ruolo e Carpi, la quale è peggiore di tutte le strade di Lombardia; le quali, la invernata, sfondate dall'acque e piene di fanghi, sono pessime. Certificossi oltre a questo ogni dí piú Ciamonte, Modona essere stata data veramente a Cesare; perciò convenne con Vitfrust di non offendere Modona né 'l suo contado, ricevuta all'incontro promessa da lui che ne' movimenti tra 'l pontefice e il re cristianissimo non favorisse né l'una né l'altra parte.

                                                 Sopravenne pochi dí poi infermità grave a Ciamonte, il quale portato a Coreggio finí dopo quindici giorni l'ultimo dí della vita sua; avendo innanzi morisse dimostrato con divozione grande di pentirsi sommamente dell'offese fatte alla Chiesa, e supplicato per instrumento publico al pontefice che gli concedesse l'assoluzione: la quale, conceduta che ancora viveva, non potette, sopravenendo la morte, pervenire alla sua notizia. Capitano, mentre visse, di grande autorità in Italia, per la potenza somma del cardinale di Roano e per l'amministrazione quasi assoluta del ducato di Milano e di tutti gli eserciti del re, ma di valore inferiore molto a tanto peso: perché, costituito nel grado infimo degli uomini non sapeva da se stesso l'arti della guerra né prestava fede a quegli che le sapevano. Di maniera che, non essendo dopo la morte del zio sostentata piú la insufficienza dal favore, era negli ultimi tempi venuto quasi in dispregio de' soldati; a' quali perché non rapportassino male dí lui al re, permetteva grandissima licenza: in modo che 'l Triulzo, capitano nutrito nella antica disciplina, affermava spesso con sacramento, non volere mai piú andare negli eserciti franzesi se non vi fusse o il re proprio o egli superiore a tutti. Aveva nondimeno il re destinato, prima, di dargli successore... monsignore di Lungavilla, benché illegittimo, del sangue regio; non seguitando tanto la virtú quanto, per la nobiltà e per le ricchezze, l'autorità e l'estimazione della persona.

                                                 Per la morte di Ciamonte ricadde, secondo gli instituti di Francia, insino a nuova ordinazione del re, il governo dell'esercito a Gianiacopo da Triulzi, uno de' quattro mariscialli di quel reame; il quale, non sapendo se in lui avesse a continuare o no, non ardiva di tentare cosa alcuna di momento. Ritornò nondimeno coll'esercito a Sermidi, per andare a soccorrere la bastia del Genivolo; la quale il pontefice molestava colle genti che erano in Romagna, avendo similmente procurato che nel tempo medesimo vi si appressasse l'armata de' viniziani di tredici galee sottili e molti legni minori. Ma non fu necessitato a procedere piú oltre, perché, mentre che le genti di terra vi stanno intorno con piccola ubbidienza e ordine, ecco che all'improviso sopravengono il duca di Ferrara e Ciattiglione coi soldati franzesi; i quali, usciti da Ferrara con maggiore numero di genti che non aveano gli inimici, i fanti per il Po alla seconda, i capitani co' cavalli camminando per terra in sulla riva del Po, arrivorno in sul fiume del Santerno, in sul quale gittato il ponte che aveano condotto seco furono in un momento addosso agl'inimici: i quali disordinati, non facendo resistenza alcuna altri che trecento fanti spagnuoli deputati a guardare l'artiglierie, si messono in fuga: salvandosi con difficoltà Guido Vaina, Brunoro da Furlí e Meleagro suo fratello, condottieri di cavalli, perdute l'insegne e l'artiglierie. Per il che l'armata viniziana, discostatasi per fuggire il pericolo, s'allargò nel Po.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.15

                                                  

                                                 Massimiliano per consiglio del re d'Aragona si fa propugnatore di pace. Timori e sospetti del re di Francia verso Ferdinando. Il re di Francia manda il cardinale di Parigi a Mantova per le eventuali trattative. Fazioni di guerra vicino al Po e nel mirandolese. L'ambasciatore di Massimiliano, per invito del pontefice, si reca presso di lui a Bologna.

                                                  

                                                 Variavano in questo modo le cose dell'armi, non si vedendo ancora indizio da potere fondatamente giudicare quale dovesse essere l'esito della guerra. Ma non meno né con minore incertitudine variavano i pensieri de' príncipi, principalmente di Cesare; il quale inaspettatamente deliberò di mandare il vescovo Gurgense a Mantova a trattare la pace. Erasi, come è detto di sopra, stabilito per mezzo del vescovo prefato tra 'l re di Francia e Cesare di muovere potentemente alla primavera la guerra contro a' viniziani e che in caso che 'l pontefice non consentisse d'osservare la lega di Cambrai, di convocare il concilio: al quale Cesare molto inclinato, aveva dopo il ritorno di Gurgense chiamato i prelati degli stati suoi patrimoniali, perché trattassino in quali modi e in qual luogo si dovesse celebrare. Ma, come naturalmente era vario e incostante e inimico del nome franzese, avea dipoi prestato l'orecchie al re d'Aragona; il quale, considerando che l'unione di Cesare e del re, e la depressione con l'armi comuni de' viniziani, medesimamente la ruina del pontefice per mezzo del concilio, accrescerebbeno immoderatamente la grandezza del re di Francia, si era ingegnato persuadergli essere piú a proposito suo la pace universale, pure che con quella conseguisse o in tutto o in maggiore parte quello che gli occupavano i viniziani; confortandolo che a questo effetto mandasse a Mantova una persona notabile con ampia autorità e che operasse che il re di Francia facesse il medesimo, e che egli simigliantemente vi manderebbe; onde il pontefice non potrebbe dinegare di fare il simile, né finalmente deviare dalla volontà di tanti príncipi; dalla cui deliberazione dependendo la deliberazione de' viniziani (perché per non rimanere soli erano necessitati seguitare la sua autorità), potersi verisimilmente sperare che Cesare, senza difficoltà senza armi senza accrescere la riputazione o la potenza del re di Francia, otterrebbe con somma laude insieme con la pace universale lo intento suo. E quando pure non ne succedesse quel che ragionevolmente ne doveva succedere, non per questo rimanere privato della facoltà di muovere, al tempo determinato e coll'opportunità medesime, la guerra: anzi, essendo egli il capo di tutti i príncipi cristiani e avvocato della Chiesa, augumentarsi molto le giustificazioni ed esaltarsi assai da questo consiglio la gloria sua; perché a tutto il mondo manifestamente apparirebbe avere principalmente desiderato la pace e l'unione de' cristiani, ma averlo costretto alla guerra l'ostinazione e perversi consigli degli altri. Furno capaci a Cesare le ragioni addotte dal re cattolico, e perciò nel tempo medesimo scrisse al pontefice e al re di Francia. Al pontefice, avere deliberato di mandare il vescovo Gurgense in Italia, perché, come conveniva a principe religioso, e per la degnità imperiale avvocato della Chiesa e capo di tutti i príncipi cristiani, aveva statuito procurare quanto potesse la tranquillità della sedia apostolica e la pace della cristianità; e confortare lui che, come apparteneva a vicario vero di Cristo, procedesse con la medesima intenzione, acciò che, non facendo quel che era ufficio del pontefice, non fusse costretto egli a pensare a' rimedi necessari per la quiete de' cristiani. Non approvare che e' trattasse di privare i cardinali assenti della degnità del cardinalato, perché non si essendo assentati per maligni pensieri né per odio contro a lui non meritavano tale pena; né appartenere al papa solo la privazione de' cardinali. Ricordargli oltre a questo, essere cosa molto indegna e inutile creare in tante turbazioni cardinali nuovi, come similmente gli era proibito per i capitoli fatti da' cardinali nel tempo della sua elezione al pontificato; esortandolo a riservare tal cosa a tempo piú tranquillo, nel quale non arebbe o necessità o cagione di promuovere a tanta degnità se non persone approvatissime per prudenza per dottrina e per costumi. Al re di Francia scrisse che, sapendo la inclinazione che sempre avea avuta alla pace onesta e sicura, avea deliberato di mandare a Mantova il vescovo Gurgense a trattare la pace universale, alla quale credeva con fondamenti non leggieri che il pontefice, l'autorità del quale erano costretti a seguitare i viniziani, fusse inclinato; il medesimo prometterebbono gli oratori del re d'Aragona; e che perciò lo ricercava che egli similmente vi mandasse imbasciadori con ampio mandato: i quali come fussino congregati, Gurgense richiederebbe il pontefice che facesse il medesimo, e in caso lo denegasse se gli denunzierebbe in nome di tutti il concilio: mandando che per procedere con maggiore giustificazione e porre fine alle controversie di tutti, Gurgense udirebbe le ragioni di tutti; ma che, in qualunque caso, tenesse per certo che giammai co' viniziani non farebbe concordia alcuna se nel tempo medesimo non si terminassino col pontefice le differenze sue.

                                                 Fu grata questa cosa al pontefice, non a fine di pace o di concordia ma perché, persuadendosi potere disporre il senato viniziano a comporsi con Cesare, sperava che Cesare liberato per questo mezzo dalla necessità di stare unito col re di Francia si separerebbe da lui; onde agevolmente potrebbe contro al re nascere congiunzione di molti príncipi. Ma questa improvisa deliberazione fu molestissima al re di Francia; perché, non avendo speranza che ne avesse a risultare la pace universale, giudicava che il minore male che ne potesse succedere sarebbe interporre lunghezza all'esecuzione delle cose convenute da sé con Cesare. Temeva che il pontefice, promettendo a Cesare di aiutarlo acquistare il ducato di Milano e a Gurgense la degnità del cardinalato e altre grazie ecclesiastiche, non l'alienasse da lui; o almeno, essendo mezzo che la composizione co' viniziani non fusse piú favorevole a Cesare, mettesse lui in necessità d'accettare la pace con inonestissime condizioni. Accrescevagli il sospetto l'essersi Cesare confederato di nuovo co' svizzeri, benché solamente a difesa. Persuadevasi, il re cattolico essere stato autore a Cesare di questo nuovo consiglio; della cui mente sospettava grandemente per molte cagioni. Sapeva che l'oratore suo appresso a Cesare si era affaticato e affaticava scopertamente per la concordia tra Cesare e i viniziani: credeva che occultamente desse animo al pontefice, nell'esercito del quale erano state le genti sue molto piú tempo che quello che per i patti della investitura del regno di Napoli era tenuto: sapeva che, per impedire l'azioni sue, si opponeva efficacemente alla convocazione del concilio; e sotto specie d'onestà dannava palesemente che, ardendo Italia di guerre, e con la mano armata, si trattasse di fare una opera che senza la concordia di tutti i príncipi non poteva partorire altro che frutti velenosissimi: aveva notizia prepararsi da lui nuovamente in mare una armata molto potente, e con tutto che publicasse di volere passare in Affrica personalmente non si poteva però sapere se ad altri fini si preparava. Facevanlo molto piú sospettare le dolcissime parole sue colle quali pregava quasi fraternalmente il re che facesse la pace col pontefice, rimettendo eziandio, quando altrimenti fare non si potesse, delle sue ragioni, per non si dimostrare persecutore della Chiesa, contro all'antica pietà della casa di Francia, e per non interrompere a lui la guerra destinata per esaltazione del nome di Cristo contro a' mori di Affrica, turbando in uno tempo medesimo tutta la cristianità; soggiugnendo essere stata sempre consuetudine de' príncipi cristiani, quando preparavano l'armi contro agli infedeli, domandare in causa tanto pia sussidio dagli altri, ma a lui bastare non essere impedito, né ricercarlo d'altro aiuto se non che consentisse che Italia stesse in pace. Le quali parole, benché porte al re dall'oratore suo e da lui proprio dette all'oratore del re risedente appresso a lui, molto destramente e con significazione grande di amore, pareva perciò che contenessino uno tacito protesto di pigliare l'armi in favore del pontefice: il che al re non pareva verisimile che ardisse di fare senza speranza di indurre Cesare al medesimo.

                                                 Angustiavano queste cose non mediocremente l'animo del re, e l'empievano di sospetto che il trattare la pace per mezzo del vescovo Gurgense sarebbe opera o vana o perniciosa a sé; nondimeno, per non dare causa di indegnazione a Cesare, si risolvé a mandare a Mantova il vescovo di Parigi, prelato di grande autorità e dotto nella scienza delle leggi. In questo tempo medesimo significò il re a Gianiacopo da Triulzi, il quale fermatosi a Sermidi avea, per maggiore comodità dell'alloggiare e delle vettovaglie, distribuito in piú terre circostanti l'esercito, essere la volontà sua che da lui fusse amministrata la guerra; con limitazione che, per l'espettazione della venuta di Gurgense, non assaltasse lo stato ecclesiastico: alla qual cosa repugnando anche l'asprezza inusitata del tempo, per la quale, con tutto che fusse cominciato il mese di marzo, era impossibile alloggiare allo scoperto.

                                                 Perciò il Triulzo, poi che non s'aveva occasione di tentare altro e che era ne' luoghi tanto vicini, deliberò di tentare se si poteva offendere l'esercito inimico; il quale, allargatosi quando Ciamonte ritornò da Sermidi a Carpi, alloggiava al Bondino quasi tutta la fanteria, e la cavalleria al Finale e per le ville vicine. Però, ricevuta la commissione del re, andò il dí seguente alla Stellata e l'altro dí alquanto piú innanzi; ove distribuí al coperto per le ville circostanti l'esercito, e facendo gittare il ponte con le barche tra la Stellata e Ficheruolo in su tutto il fiume del Po: avendo ordinato che 'l duca di Ferrara ne gittasse un altro un miglio di sotto ove si dice la Punta, in su quello ramo del Po che va a Ferrara; e che con l'artiglierie venisse allo Spedaletto, luogo in sul Polesine di Ferrara che è di riscontro al Bondino. Ebbe in questo mezzo il Triulzio notizia dalle sue spie che molti cavalli leggieri, di quella parte dell'esercito de' viniziani che era di là dal Po, dovevano la notte prossima venire appresso alla Mirandola a ordinare certe insidie; perciò vi mandò occultamente molti cavalli: i quali giunti a Bellaere, palagio del contado mirandolano, vi trovorno fra' Lionardo napoletano capitano de' cavalli leggieri de' viniziani, uomo chiaro in quello esercito, il quale non temendo dovessino venirvi gli inimici, smontato quivi con cento cinquanta cavalli ne aspettava molti altri che lo doveano seguitare; ma oppresso all'improviso, volendosi difendere, fu ammazzato con molti de' suoi. Venne Alfonso da Esti, come era destinato, allo Spedaletto, e la notte seguente cominciò a tirare con l'artiglierie contro al Bondino; e nel tempo medesimo il Triulzio mandò Gastone monsignore di Fois, figliuolo di una sorella del re (il quale, giovanetto, era l'anno dinanzi venuto all'esercito), a correre, con cento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti, insino alle sbarre dell'alloggiamento degli inimici: il quale messe in fuga cinquecento fanti destinati alla guardia di quella fronte; onde gli altri tutti, lasciato guardato il Bondino, si ritirorno di là dal canale nel sito forte. Ma non succedette al Triulzo alcuna delle cose destinate; perché l'artiglieria piantata contro al Bondino, essendovi in mezzo il Po, faceva per la distanza del luogo piccolo progresso, e molto piú perché cresciuto il fiume, e tagliato l'argine da quegli che erano nel Bondino, allagò talmente il paese che dalla fronte degli alloggiamenti franzesi al Bondino non si poteva piú andare se non colle barche: di maniera che 'l capitano, disperato di potere piú condursi per quella via agli alloggiamenti degli inimici, chiamò da Verona dumila fanti tedeschi e ordinò si soldassino tremila grigioni, per accostarsi loro per la via di San Felice; in caso che, per opera del vescovo Gurgense, non si introducesse la pace.

                                                 La cui venuta era stata alquanto piú tarda perché a Salò, in sul lago di Garda, aveva aspettato piú dí invano la risposta del pontefice; il quale aveva per lettere ricercato che mandasse imbasciadori a trattare. Venne finalmente a Mantova, accompagnato da don Petro d'Urrea, il quale per il re d'Aragona risedeva ordinariamente appresso a Cesare ove pochi dí poi sopravenne il vescovo di Parigi; persuadendosi il re di Francia (il quale, per essere piú vicino alle pratiche della pace e a provedimenti della guerra, era venuto a Lione) che medesimamente il pontefice dovesse mandarvi. Il quale, da altra parte, faceva instanza che Gurgense andasse a lui; mosso non tanto perché gli paresse questo essere piú secondo la degnità pontificale quanto perché sperava, e coll'onorarlo e col caricarlo di promesse, e con l'efficacia e autorità della presenza, averlo a indurre nella sua volontà, alienissima piú che mai dalla concordia e dalla pace: il che per persuadergli piú facilmente procurò che andasse a lui Ieronimo Vich valenziano, oratore del re cattolico appresso a sé. Non negava Gurgense di volere andare al pontefice; ma diceva, essere richiesto di fare prima quel che era conveniente fare dipoi; affermando che piú facilmente si rimoverebbono le difficoltà se si trattasse prima a Mantova, con intenzione di andare poi al pontefice con le cose digerite e quasi conchiuse. Astrignerlo a questo medesimo non meno la necessità che il rispetto della facilità: perché come era egli conveniente lasciare solo il vescovo di Parigi, mandato dal re di Francia a Mantova per l'instanza fatta da Cesare? con che speranza potersi trattare da lui le cose del suo re? come conveniente richiederlo che andasse insieme con lui al pontefice? perché né secondo la commissione né secondo la degnità del re poteva andare in casa dello inimico, se prima non fussino composte, o quasi composte, le differenze loro. In contrario argomentavano i due imbasciadori aragonesi, dimostrando che tutta la speranza della pace dipendeva dal comporre le cose di Ferrara; perché composte quelle, non rimanendo al pontefice piú causa alcuna di sostentare i viniziani, sarebbono essi del tutto necessitati di cedere alla pace con quelle leggi che volesse Cesare medesimo. Pretendere il pontefice che la sedia apostolica avesse in sulla città di Ferrara potentissime ragioni: riputare, oltre a questo, Alfonso da Esti avere usato seco grande ingratitudine, avergli fatte molte ingiurie; e per mollificare l'animo suo gravemente sdegnato essere piú conveniente e piú a proposito che il vassallo dimandasse piú tosto clemenza al superiore che disputasse della giustizia. Dunque, avendosi a impetrare clemenza, essere non solamente onesto ma quasi necessario il trasferirsi a lui; il che facendo non dubitavano che molto mitigato diminuirebbe il rigore; né essi giudicare essere utile che quella diligenza industria e autorità che s'aveva a usare per disporre il pontefice alla pace si spendesse nel persuaderlo a mandare. Soggiugnevano, con parole bellissime, non si potere né disputare né terminare le differenze se non intervenivano tutte le parti, ma in Mantova non essere altri che una, perché Cesare il re cristianissimo e il re cattolico erano in tanta congiunzione di leghe, di parentadi e di amore che si dovevano riputare come fratelli, e che gli interessi di ciascuno di loro fussino comuni di tutti. Assentí finalmente Gurgense, con intenzione che 'l vescovo di Parigi, aspettando a Parma che partorisse l'andata sua, vi andasse anch'egli, se cosí piacesse al suo re, di andare al pontefice.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.16

                                                  

                                                 Nomina di nuovi cardinali. Entrata dell'ambasciatore di Massimiliano in Bologna e suo superbo contegno. Sue trattative di accordo coi veneziani. Avversione del pontefice alla pace coi francesi e subito fallimento delle trattative. Gli ambasciatori aragonesi per invito dell'inviato di Massimiliano ritirano le milizie spagnole dall'esercito pontificio.

                                                  

                                                 Il quale non aveva in questo tempo, per le cose che si trattavano attenenti alla pace, deposti i pensieri della guerra: perché di nuovo tentava l'espugnazione della bastia del Genivolo, avendo preposto a questa impresa Giovanni Vitelli. Ma essendo, per la strettezza de' pagamenti, il numero de' fanti molto minore di quel che aveva disegnato, ed essendo per le pioggie grandi, e perché quegli che erano nella bastia aveano rotto gli argini del Po, inondato il paese all'intorno, non si faceva progresso alcuno: e per acqua vi erano superiori le cose d'Alfonso da Esti; perché avendo con una armata di galee e di brigantini assaltata appresso a Santo Alberto l'armata de' viniziani, quella, spaventata perché mentre combattevano si scoperse una armata di legni minori che veniva da Comacchio, si rifuggí nel porto di Ravenna, avendo perduto due fuste tre barbotte e piú di quaranta legni minori. Onde il papa, perduta la speranza di pigliare la bastia, mandò quelle genti nel campo che alloggiava al Finale, diminuito molto di fanti perché strettissimamente erano pagati. Creò nel tempo medesimo il pontefice otto cardinali, parte per conciliarsi gli animi de' príncipi, parte per armarsi, contro alle minaccie del concilio, di prelati dotti ed esperimentati e di autorità nella corte romana, e di persone confidenti a sé, tra' quali fu l'arcivescovo d'Iorch (diconlo i latini eboracense) imbasciadore del re di Inghilterra, e il vescovo di Sion: questo come uomo importante a muovere la nazione de' svizzeri; quello perché ne fu ricercato dal suo re, il quale aveva già non piccola speranza di concitare contro a' franzesi. E per dare arra quasi certa della medesima degnità a Gurgense, e renderselo con questa speranza piú facile, si riservò, col consentimento del concistorio, facoltà di nominarne un altro riservato nel petto suo.

                                                 Ma inteso che ebbe, Gurgense avere consentito di andare a lui, disposto a onorarlo sommamente, e parendogli niuno onore potere essere maggiore che il pontefice romano farsegli incontro, e oltre a questo dargli maggiore comodità d'onorarlo il riceverlo in una magnifica città, andò da Ravenna a Bologna; dove, il terzo dí dopo l'entrata sua, entrò il vescovo Gurgense, ricevuto con tanto onore che quasi con maggiore non sarebbe stato ricevuto re alcuno: né si dimostrò da lui pompa e magnificenza minore; perché, venendo con titolo di luogotenente di Cesare in Italia, aveva seco grandissima compagnia di signori e di gentiluomini, tutti colle famiglie loro, vestiti e ornati molto splendidamente. Alla porta della città se gli fece incontro, con segni di grandissima sommissione, l'imbasciadore che 'l senato viniziano teneva appresso al pontefice: contro al quale egli, pieno di fasto inestimabile, si voltò con parole e gesti molto superbi, sdegnandosi che uno che rappresentava gli inimici di Cesare avesse avuto ardire di presentarsi al cospetto suo. Con questa pompa accompagnato insino al concistorio publico, ove con tutti i cardinali l'aspettava il pontefice, propose con breve ma superbissimo parlare, Cesare averlo mandato in Italia per il desiderio che aveva di conseguire le cose sue piú tosto per la via della pace che della guerra; la quale non poteva avere luogo se i viniziani non gli restituivano tutto quello che in qualunque modo se gli apparteneva. Parlò dopo l'udienza publica col pontefice privatamente, nella medesima sentenza e con la medesima alterezza: alle quali parole e dimostrazioni accompagnò, il seguente dí, fatti non meno superbi. Perché avendo il pontefice, con suo consentimento, diputati a trattare seco tre cardinali, San Giorgio, Regino e quel de' Medici, i quali aspettandolo all'ora che erano convenuti di essere insieme, egli, come se fusse cosa indegna di lui trattare con altri che col pontefice, mandò a trattare con loro tre de' suoi gentiluomini, scusandosi di essere occupato in altre faccende: la quale indegnità divorava insieme con molt'altre il pontefice, vincendo la sua natura l'odio incredibile contro a' franzesi.

                                                 Ma nella concordia tra Cesare e i viniziani, della quale cominciò a trattarsi prima, erano molte difficoltà. Perché se bene Gurgense, il quale aveva dimandato prima tutte le terre, consentisse alla fine che a loro rimanessino Padova e Trevigi con tutti i loro contadi e appartenenze, voleva che in ricompenso dessino a Cesare quantità grandissima di danari; che da lui in feudo le riconoscessino, e le ragioni dell'altre terre gli cedessino: le quali cose erano nel senato ricusate; ove tutti unitamente conchiudevano piú utile essere alla republica (poi che aveano talmente fortificate Padova e Trevigi che non temevano di perderle) conservarsi i danari; perché, se mai passava questa tempesta, potrebbe offerirsi qualche occasione che facilmente recupererebbono il loro dominio. Da altra parte il pontefice ardeva di desiderio convenissino con Cesare, sperando che da questo avesse a succedere che egli si alienasse dal re di Francia; però gli stimolava, parte con prieghi parte con minaccie, che accettassino le condizioni proposte. Ma era minore appresso a loro la sua autorità, non solamente perché conoscevano da quali fini procedesse tanta caldezza ma perché, sapendo quanto gli fusse necessaria la compagnia loro in caso non si riconciliasse col re di Francia, tenevano per certo che mai gli abbandonerebbe. Pure, da poi che fu disputato molti dí, rimettendo il vescovo Gurgense qualche parte della sua durezza e i viniziani cedendo piú di quel che aveano destinato alla instanza ardentissima del pontefice, interponendosi medesimamente gli oratori del re d'Aragona, che a tutte le pratiche intervenivano, pareva che finalmente fussino per convenire; pagando i viniziani, per ritenersi con consentimento di Cesare Padova e Trevigi, ma in tempi lunghi, quantità grandissima di danari.

                                                 Rimaneva la causa della riconciliazione tra 'l pontefice e il re di Francia, tra i quali non appariva altra controversia che per le cose del duca di Ferrara; la quale Gurgense per risolvere (perché Cesare senza questa aveva deliberato non convenire) andò a parlare al pontefice, al quale rarissime volte era stato; persuadendosi, per le speranze avute dal cardinale di Pavia e dagli oratori del re cattolico, dovere essere materia non difficile, perché da altra parte sapeva, il re di Francia, avendo minore rispetto alla degnità che alla quiete, essere disposto a consentire molte cose di non piccolo pregiudicio al duca. Ma il pontefice, interrompendogli quasi nel principio del parlare il ragionamento, cominciò per contrario a confortarlo che, concordando co' viniziani, lasciasse pendenti le cose di Ferrara; lamentandosi che Cesare non conoscesse l'occasione paratissima di vendicarsi, con l'altrui forze e danari, di tante ingiurie ricevute da' franzesi, e che aspettasse d'essere pregato di quel che ragionevolmente doveva con somma instanza supplicare. Alle quali cose Gurgense poi che con molte ragioni ebbe replicato, né potendo rimuoverlo dalla sentenza sua, gli significò volersi partire senza dare altrimenti perfezione alla pace co' viniziani; e baciatigli secondo il costume i piedi, il dí medesimo, che fu il quintodecimo dalla venuta sua a Bologna, se ne andò a Modona; avendo invano il pontefice mandato a richiamarlo subito che fu uscito della città: onde si indirizzò verso Milano, lamentandosi in molte cose del pontefice, e specialmente che, mentre che per la venuta sua in Italia erano quasi sospese l'armi, avesse mandato secretamente per turbare lo stato di Genova... vescovo di Ventimiglia figliuolo già di Paolo cardinale Fregoso. Dell'andata del quale essendo penetrata notizia a' franzesi, lo feciono, cosí incognito come andava, pigliare nel Monferrato; onde condotto a Milano manifestò interamente le cagioni e i consigli della sua andata.

                                                 Ricercò Gurgense, quando partí da Bologna, gli imbasciadori aragonesi (i quali, essendosi per quel che appariva affaticati molto per la pace comune, si dimostravano sdegnati della durezza del pontefice) che facessino ritornare nel reame di Napoli le trecento lancie spagnuole; il che essi prontamente acconsentirono. Donde ciascuno tanto piú si maravigliava che, nel tempo che si trattava del concilio, e che si credeva dovere essere potenti in Italia, con la presenza d'amendue i re, l'armi franzesi e tedesche, il pontefice, oltre all'inimicizia del re di Francia, si alienasse Cesare e si privasse degli aiuti del re cattolico. Dubitavano alcuni che in questo come in molte altre cose fussino diversi i consigli del re d'Aragona dalle dimostrazioni, e che altro avessino in publico operato gli oratori suoi altro in secreto col pontefice; perché avendo provocato il re di Francia con nuove offese, e per quelle risuscitata la memoria delle antiche, pareva che dovesse temere che la pace di tutti gli altri non producesse gravissimi pericoli contro a sé, rimanendo indeboliti di stato di danari e di riputazione i viniziani, poco potente in Italia il re de' romani e vario instabile e prodigo piú che mai: altri, discorrendo piú sottilmente, interpretavano potere per avventura essere che il pontefice, quantunque il re cattolico gli protestasse d'abbandonarlo e richiamasse le sue genti, confidasse che egli, considerando quanto nocerebbe a sé proprio la sua depressione, avesse sempre ne' bisogni maggiori a sostenerlo.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.17

                                                  

                                                 I francesi, occupata Concordia, si portano vicino a Bologna. Il pontefice abbandona Bologna per Ravenna. Eccitazione degli animi in Bologna. Il legato del papa abbandona la città, ove vengono chiamati i Bentivoglio. Ritirata e perdite degli eserciti ecclesiastico e veneziano. I francesi in attesa di istruzioni del re. Consegna della fortezza di Bologna ai cittadini; terre ricuperate dal duca di Ferrara.

                                                  

                                                 Per la partita di Gurgense, perturbate le speranze della pace, ancora che il pontefice gli avesse quattro dí poi mandato dietro il vescovo di Moravia, oratore appresso a sé del re di Scozia, per trattare della pace col re di Francia, si rimossono le cagioni che aveano ritardato Gianiacopo da Triulzi; il quale ardeva di onesta ambizione di fare qualche opera degna della virtú e antica gloria sua, e donde al re si dimostrasse con quanto danno proprio si commetta il governo delle guerre (cosa tra tutte l'azioni umane la piú ardua e la piú difficile, e che ricerca maggiore prudenza ed esperienza) non a capitani veterani ma a giovani inesperti, e della virtú de' quali niuna altra cosa fa testimonianza che il favore. Però, continuando nelle prime deliberazioni, ancora che non fussino arrivati i fanti grigioni, perché il generale di Normandia dal quale dipendevano l'espedizioni, sperando nella pace e cercando di farsi piú grato al re con la parsimonia dello spendere, aveva differito il mandare a soldargli, pose al principio del mese di maggio, con mille dugento lancie e settemila fanti, il campo alla Concordia; la quale ottenne il dí medesimo, perché avendo gli uomini della terra, impauriti perché aveano già cominciato a tirare l'artiglierie, mandato imbasciadori a lui per arrendersi, ed essendo perciò allentata la diligenza delle guardie, i fanti dell'esercito saltati dentro la saccheggiorno. Presa la Concordia, per non dare occasione agli emuli suoi di calunniarlo che attendesse piú alla utilità propria che a quella del re, lasciata indietro la Mirandola si dirizzò verso Buonporto, villa posta in sul fiume del Panaro, per accostarsi tanto agli inimici che con l'impedire loro le vettovaglie gli costrignesse a diloggiare, o a combattere fuora della fortezza del loro alloggiamento. Entrato nel contado di Modena e alloggiato alla villa del Cavezzo, inteso che a Massa presso al Finale alloggiava Giampaolo, Manfrone con trecento cavalli leggieri de' viniziani, mandò là Gastone di Fois con trecento fanti e cinquecento cavalli; contro a' quali Giampaolo, sentito il romore, si messe sopra uno ponte in battaglia: ma non corrispondendo la virtú de' suoi all'ardire e animosità sua, abbandonato da loro, restò con pochi compagni prigione. Accostossi poi l'esercito a Buonporto, avendo in animo il Triulzio gittare il ponte dove il canale, derivato di sopra a Modona dal fiume del Panaro, si unisce col fiume. Ma già l'esercito inimico, per impedirgli il passo del fiume, era venuto ad alloggiare in luogo tanto vicino che si offendevano con l'artiglierie: da uno colpo delle quali fu ammazzato, passeggiando lungo l'argine del fiume, il capitano Perault spagnuolo, soldato dello esercito ecclesiastico. Sono in quello luogo le ripe del fiume altissime, e perciò era agli inimici facilissimo lo impedirlo; onde il Triulzio, preso nuovo consiglio, gittò il ponte piú alto, uno miglio solamente sopra al canale. Passato il canale si dirizzò verso Modena, camminando lungo lo argine del Panaro, cercando luogo dove fusse piú facile il gittare il ponte; e avendo sempre vista de' cavalli e de' fanti degli inimici, i quali erano alloggiati vicini a Castelfranco in su la strada Romea, ma in uno alloggiamento cinto da argini e da acque, entrò in su la medesima strada al ponte di Fossalta presso a due miglia a Modena; e piegatosi a mano destra verso la montagna, passò senza contrasto il Panaro a guazzo, che in quel luogo ha il letto largo e senza ripa: il quale passato, alloggiò nel luogo dove si dice la Ghiara di Panaro, distante tre miglia dallo esercito ecclesiastico. Camminò il dí seguente verso Piumaccio, accomodato di vettovaglie, con consentimento di Vitfrust, da' Modonesi; e nel medesimo dí l'esercito ecclesiastico, non avendo ardire di opporsi alla campagna, e giudicando essere necessario l'accostarsi a Bologna perché in quella città non si facesse movimento, atteso che i Bentivogli seguitavano l'esercito franzese, andò ad alloggiare al ponte a Casalecchio tre miglia di sopra a Bologna, in quel luogo medesimo nel quale, nell'età de' proavi nostri, Giovan Galeazzo Visconte potentissimo duca di Milano, superiore molto di forze agli inimici, ottenne contro a' fiorentini bolognesi e altri confederati una grandissima vittoria; ma alloggiamento di sito molto sicuro tra 'l fiume del Reno e il canale, e che ha la montagna alle spalle, e per il quale si impedisce che Bologna non sia privata della comodità del canale che, derivato dal fiume, passa per quella città. Arrendessi il dí seguente al Triulzio Castelfranco. Il quale, soprastato tre dí nello alloggiamento di Piumaccio, per le pioggie e per ordinarsi delle vettovaglie delle quali non aveano molta copia, venne ad alloggiare in su la strada maestra tra la Samoggia e Castelfranco; nel quale luogo stette sospeso quello avesse a fare, per molte difficoltà le quali in qualunque deliberazione se gli rappresentavano: perché conosceva essere vano l'assaltare Bologna se dentro il popolo non tumultuava, e accostandosi in sulle speranze de' moti popolari dubitava non essere costretto a ritirarsi presto, come avea fatto Ciamonte, con la reputazione diminuita; piú imprudente e pericoloso andare a combattere cogli inimici, fermatisi in alloggiamento tanto forte; l'accostarsi a Bologna dalla parte di sotto non avere altra speranza se non che gli inimici, per timore che e' non assaltasse la Romagna, forse si moverebbono, onde potersi dare occasione o a lui di combattere o a' bolognesi di fare tumulto. Pure alla fine, deliberando di tentare se alcuna cosa partorisse o la disposizione universale della città o le intelligenze particolari de' Bentivogli, condusse l'esercito (l'avanguardia del quale guidava Teodoro da Triulzio, la battaglia egli, e il retroguardo Gastone di Fois) ad alloggiare al ponte a Lavino, luogo in su la strada maestra distante cinque miglia da Bologna, e famoso per la memoria dello abboccamento di Lepido, Marcantonio e Ottaviano, i quali quivi (cosí affermano gli scrittori), sotto nome del triumvirato, stabilirono la tirannide di Roma e quella non mai abbastanza detestata proscrizione.

                                                 Non era in questo tempo piú il pontefice in Bologna: il quale, dopo la partita di Gurgense, quando dimostrando superchia audacia quando timore, come intese essersi mosso il Triulzio, con tutto che non vi fussino piú le lancie spagnuole, si partí da Bologna per andare all'esercito, a fine di indurre con la presenza sua i capitani a combattere con gli inimici; alla qual cosa non gli aveva potuti disporre né con lettere né con imbasciate. Partí con intenzione di alloggiare il primo dí a Cento; ma fu necessitato alloggiare nella terra della Pieve, perché mille fanti de' suoi entrati in Cento non volevano partirsene se prima non ricevevano lo stipendio: dalla qual cosa forse stomacato, o considerando piú da presso il pericolo, mutata sentenza, ritornò il dí seguente in Bologna. Ove crescendogli, per l'approssimarsi del Triulzio, il timore, deliberato di andarsene a Ravenna, chiamato a sé il magistrato de' quaranta, ricordò loro che, per beneficio della sedia apostolica e per opera e fatica sua, usciti dal giogo di una acerbissima tirannide, avevano conseguita la libertà, ottenuto molte esenzioni, ricevute da sé in publico e in privato grandissime grazie ed essere per conseguirne ogni dí piú; per le quali cose, dove prima, oppressi da dura servitú e vilipesi e conculcati da' tiranni, non erano negli altri luoghi di Italia in considerazione alcuna, ora esaltati di onori e di ricchezze, e piena di artifici e mercatanzie la città, e sollevati alcuni di loro ad amplissime dignità, erano in pregio e in estimazione per tutto; liberi di se medesimi, padroni interamente di Bologna e di tutto il suo contado, perché loro erano i magistrati, loro gli onori, tra essi e nella loro città si distribuivano le entrate publiche, non avendo la Chiesa quasi altro che il nome e tenendovi solo per segno della superiorità uno legato o governatore, il quale senza essi non poteva deliberare delle cose importanti, e di quelle che pure erano rimesse ad arbitrio suo si referiva assai a' loro pareri e alle loro volontà: e che se per questi benefici, e per il felice stato che avevano, erano disposti a difendere la propria libertà, sarebbono da lui non altrimenti aiutati e difesi che sarebbe in caso simile aiutata e difesa Roma. Necessitarlo la gravità delle cose occorrenti a andare a Ravenna, ma non per questo essersi dimenticato o per dimenticarsi la salute di Bologna; per la quale avere ordinato che le genti viniziane, che con Andrea Gritti erano di là dal Po e per questo gittavano il ponte a Sermidi, andassino a unirsi con l'esercito suo. Essere sufficientissimi questi provedimenti a difendergli; ma non quietarsi l'animo suo se anche non gli liberava dalla molestia della guerra: e perciò, per necessitare i franzesi a tornare a difendere le cose proprie, erano già preparati diecimila svizzeri per scendere nello stato di Milano; i quali perché si movessino subitamente erano stati mandati da lui a Vinegia ventimila ducati, e ventimila altri averne ordinati i viniziani. E nondimeno, quando a loro fusse piú grato tornare sotto la servitú de' Bentivogli che di godere la dolcezza della libertà ecclesiastica, pregargli che gli aprissino liberamente la loro intenzione, perché sarebbe seguitata da lui; ma ricordare bene che, quando si risolvessino a difendersi, era venuto il tempo opportuno a dimostrare la loro generosità e obligarsi in eterno la sedia apostolica, sé e tutti i pontefici futuri. Alla quale proposta, fatta secondo il costume suo con maggiore efficacia che eloquenza, poiché ebbono consultato tra loro medesimi, rispose in nome di tutti con la magniloquenza bolognese il priore del reggimento, magnificando la fede loro, la gratitudine de' benefici ricevuti, la divozione infinita al nome suo; conoscere il felice stato che avevano e quanto per la cacciata de' tiranni fussino amplificate le ricchezze e lo splendore di quella città, e dove prima avevano la vita e le facoltà sottoposte allo arbitrio d'altri ora sicuri da ciascuno godere quietamente la patria, partecipi del governo partecipi dell'entrate, né essere alcuno di loro che privatamente non avesse ricevuto da lui molte grazie e onori; vedere nella città loro rinnovata la degnità del cardinalato, vedere nelle persone de' suoi cittadini molte prelature molti uffici de' principali della corte romana: per le quali grazie innumerabili e singolarissimi benefici, essere disposti prima consumare tutte le facoltà, prima mettere in pericolo l'onore e la salute delle moglie e de' figliuoli, prima perdere la vita propria che partirsi dalla divozione sua e della sedia apostolica. Andasse pure lieto e felice senza timore o scrupolo alcuno delle cose di Bologna, perché prima intenderebbe essere corso il canale tutto di sangue del popolo bolognese che quella città chiamare altro nome o ubbidire altro signore che papa Giulio. Detteno queste parole maggiore speranza che non conveniva al pontefice: il quale, lasciatovi il cardinale di Pavia, se ne andò a Ravenna, non per il cammino diritto (con tutto che accompagnato dalle lancie spagnuole che se ne tornavano a Napoli) ma pigliando, per paura del duca di Ferrara, la strada piú lunga di Furlí.

                                                 Venuto il Triulzio al ponte a Lavino, si dimostrava grandissima sollevazione nella città di Bologna, empiendosi gli animi degli uomini di molti e diversi pensieri. Perché molti, assuefatti al vivere licenzioso della tirannide e a essere sostentati con la roba e co' danari d'altri, avendo in odio lo stato ecclesiastico, desideravano ardentemente il ritorno de' Bentivogli; altri, per i danni ricevuti e che temevano di ricevere vedendo condotti in su le loro possessioni e nel tempo propinquo alle ricolte due tali eserciti, ridotti in grave disperazione, desideravano ogni cosa che fusse per liberargli da questi mali; altri, sospettando che per qualche tumulto che nascesse nella città o per i prosperi successi de' franzesi (la memoria dello impeto de' quali, quando vennono sotto Ciamonte la prima volta a Bologna, era ancor loro innanzi agli occhi) non andasse la città a sacco, proponevano la liberazione da questo pericolo a qualunque governo o dominio potessino avere; pochi, dimostratisi prima inimici de' Bentivogli, favorivano ma quasi piú con la volontà che con le opere il dominio della Chiesa: ed essendo tutto il popolo, chi per desiderio di cose nuove chi per sicurtà e salute sua, messosi in su l'arme ogni cosa era piena di timore e di spavento; né nel cardinale di Pavia legato di Bologna era animo o consiglio bastante a tanto pericolo. Perché non avendo in quella città, sí grande e sí popolosa, piú che dugento cavalli leggieri e mille fanti, e perseverando piú che mai nella discordia col duca d'Urbino che era con l'esercito a Casalecchio, aveva, menato o dal caso o dal fato, soldati, del numero de' cittadini, quindici capitani; a' quali, insieme con le compagnie loro e col popolo, aveva dato cura della guardia della terra e delle porte: de' quali, non avendo egli avuto prudenza nello eleggergli, era la maggiore parte di quegli che erano affezionati a' Bentivogli; e tra questi Lorenzo degli Ariosti, il quale prima incarcerato e tormentato in Roma, per sospetto che avesse congiurato co' Bentivogli, era poi stato lungamente guardato in Castel Santo Agnolo. I quali come ebbeno l'armi in mano, cominciando a fare occulti ragionamenti e conventicole, e seminando nel popolo scandalose novelle, cominciò il legato ad accorgersi tardi della propria imprudenza; e per fuggire il pericolo nel quale da se medesimo si era posto, fatta finzione che cosí ricercasse il duca d'Urbino e gli altri capitani, volle che andassino con le compagnie loro nello esercito: ma rispondendo essi non volere abbandonare la guardia della terra, tentò di mettere dentro con mille fanti Ramazzotto, ma gli fu dal popolo vietato l'entrarvi. Onde ínvilito maravigliosamente il cardinale, e ricordandosi essere in sommo odio del popolo il governo suo, e avere nella nobiltà molti inimici, perché non molto innanzi aveva (benché, secondo disse, per comandamento del pontefice) fatto, procedendo con la mano regia, decapitare tre onorati cittadini come fu notte, uscito occultamente in abito incognito per uno uscio segreto del palazzo, si ritirò nella cittadella: e con tanta precipitazione che si dimenticasse di portarne le sue gioie e i suoi danari: le quali cose avendo poi subitamente mandato a pigliare, come l'ebbe ricevute, se ne andò per la porta del soccorso verso Imola, accompagnato con cento cavalli da Guido Vaina marito della sorella, capitano de' cavalli deputati alla sua guardia; e poco dopo lui uscí della cittadella Ottaviano Fregoso, non con altra compagnia che di una guida. Intesa la fuga del legato, si cominciò per tutta la città a chiamare con tumulti grandissimi il nome del popolo: la quale occasione non volendo perdere Lorenzo degli Ariosti e Francesco Rinucci, anche egli uno del numero de' quindici capitani e seguace de' Bentivogli, seguitandogli molti della medesima fazione, corsi alle porte che si chiamano di San Felice e delle Lame, piú comode al campo de' franzesi, le roppono con l'accette, e occupatele mandorno senza indugio a chiamare i Bentivogli; i quali, avuti dal Triulzio molti cavalli franzesi, per fuggire il cammino diritto del Ponte a Reno, alla cui custodia era Raffaello de' Pazzi uno de' condottieri ecclesiastici, passato il fiume, piú basso, e accostatisi alla porta delle Lame, furno subitamente introdotti.

                                                 Alla ribellione di Bologna fu congiunta la fuga dello esercito: perché, alla terza ora della notte il duca d'Urbino, le genti del quale dal ponte da Casalecchio si distendevano insino alla porta detta di Siragosa, avendo, come si crede, intesa la fuga del legato e il movimento del popolo, si levò tumultuosamente, lasciando la piú parte de' padiglioni distesi, con quasi tutto l'esercito; eccetto quegli che deputati alla guardia del campo erano dalla parte del fiume verso i franzesi, a' quali non dette avviso alcuno della partita. Ma sentita la mossa sua i Bentivogli, che erano già dentro, avvisatone subitamente il Triulzio, mandorono fuora della terra parte del popolo a danneggiargli; da' quali, e da' villani che già calavano da ogni parte, con smisurati gridi e romori assaltato il campo che passava lungo le mura, furono tolte loro l'artiglierie e le munizioni con quantità grande di carriaggi; benché sopravenendo i franzesi, tolseno al popolo e a' villani delle cose guadagnate la maggiore parte. E già era arrivato al Ponte a Reno con la vanguardia Teodoro da Triulzi; dove Raffaello de' Pazzi combattendo valorosamente gli sostenne per alquanto spazio di tempo, ma non potendo finalmente resistere al numero tanto maggiore rimase prigione: avendo, come confessava ciascuno, con la resistenza sua dato comodità non piccola a' soldati della Chiesa di salvarsi. Ma le genti de viniziani e con loro Ramazzotto, che alloggiava in sul monte piú eminente di Santo Luca, non avendo se non tardi avuta notizia della fuga del duca d'Urbino, preseno per salvarsi la via de' monti; per la quale, ancora che ricevessino danno gravissimo, si condussono in Romagna. Furono in questa vittoria, acquistata senza combattere, tolti quindici pezzi d'artiglieria grossa e molti minori tra del pontefice e de' viniziani, lo stendardo del duca proprio con piú altre bandiere, grande parte de' carriaggi degli ecclesiastici e quasi tutti quegli de' viniziani; svaligiati qualcuno degli uomini d'arme della Chiesa, ma de' viniziani piú di cento cinquanta, e dell'uno e dell'altro esercito dissipati quasi tutti i fanti; preso Orsino da Mugnano Giulio Manfrone e molti condottieri di minore condizione. In Bologna non furno commessi omicidi, né fatta violenza ad alcuno né della nobiltà né del popolo; solamente fatti prigioni il vescovo di Chiusi e molti altri prelati, secretari e altri officiali che assistevano al cardinale, rimasti nel palagio della residenza del legato, perché a tutti aveva celata la sua partita. Insultò il popolo bolognese, la notte medesima e il dí seguente, a una statua di bronzo del pontefice, tirandola per la piazza con molti scherni e derisioni: o perché ne fussino autori i satelliti de' Bentivogli o pure perché il popolo, infastidito da' travagli e danni della guerra (come è per sua natura ingrato e cupido di cose nuove), avesse in odio il nome e la memoria di chi era stato cagione della liberazione e della felicità della loro patria.

                                                 Soprastette il dí seguente, che fu il vigesimo secondo di maggio, il Triulzio nel medesimo alloggiamento; e l'altro dí lasciatasi indietro Bologna andò in su il fiume dello Idice, e poi si fermò a Castel San Piero, terra posta in sull'estremità del territorio bolognese, per aspettare, innanzi passasse piú oltre, quale fusse la intenzione del re di Francia, o di procedere avanti contro allo stato del pontefice o se pure, bastandogli avere assicurato Ferrara e levato alla Chiesa Bologna che per opera sua aveva acquistata, volesse fermare il corso della vittoria. Però avendogli Giovanni da Sassatello condottiere del pontefice, e che cacciata di Imola la parte ghibellina quasi dominava come capo de' guelfi quella città, offerto occultamente di dargli Imola, non volle insino alla risposta del re accettarla.

                                                 Restava la cittadella di Bologna nella quale era il vescovo Vitello, cittadella ampia e forte ma proveduta secondo l'uso delle fortezze della Chiesa, perché vi erano pochi fanti poche vettovaglie e quasi niuna munizione. Nella quale, udito il caso di Bologna, era venuto la notte da Modona Vitfrust a persuadere al vescovo con promesse grandi che la desse a Cesare; ma il vescovo, pattuito il quinto dí co' bolognesi che fussino salve le persone e la roba di quegli che vi erano, e ricevuta obligazione che a lui in certo tempo fussino pagati tremila ducati, la dette loro: la quale avuta corsono subito popolarmente a rovinarla, incitandogli al medesimo i Bentivogli, non tanto per farsi benevoli i cittadini quanto per sospetto che il re di Francia non la volesse in potestà sua, come era stato già parere di qualcuno de' capitani di domandarla; ma il Triulzio, giudicando essere alieno dalla utilità del re il credersi che egli volesse insignorirsi di Bologna, l'aveva contradetto.

                                                 Ricuperò con l'occasione di questa vittoria il duca di Ferrara, oltre a Cento e la Pieve, Cutignuola, Lugo e l'altre terre di Romagna; e nel tempo medesimo cacciò Alberto Pio di Carpi, il [quale] lo possedeva con lui comunemente.

                                                  

                                                 Lib.9, cap.18

                                                  

                                                 Il pontefice per timore de' nemici vincitori avanza richieste di pace. Il duca d'Urbino uccide il cardinale legato. Viene indetto il concilio di Pisa. Ragioni della scelta di Pisa. Concessione de' fiorentini. Giudizi di fautori e di avversari del concilio.

                                                  

                                                 Ricevette della perdita di Bologna grandissima molestia, come era conveniente, il pontefice; affliggendolo non solamente l'essere alienata da sé la principale e piú importante città, eccettuata Roma, di tutto lo stato ecclesiastico, e il parergli essere privato di quella gloria che, grande appresso agli uomini e nel concetto suo massimamente, gli aveva data l'acquistarla, ma, oltre a questo, per il timore che l'esercito vincitore non seguitasse la vittoria al quale conoscendo non potere resistere, e desideroso di rimuovere l'occasioni che lo invitassino a passare piú innanzi, sollecitava che le reliquie de' soldati viniziani, richiamate già dal senato, si imbarcassino al Porto Cesenatico; e per la medesima cagione commesse gli fussino restituiti i ventimila ducati i quali, mandati prima a Vinegia per fare muovere i svizzeri, si ritrovavano ancora in quella città. Ordinò ancora che il cardinale di Nantes di nazione brettone invitasse, come da sé, il Triulzio alla pace, dimostrando essere al presente il tempo opportuno a trattarla; il quale rispose, non convenire il procedere con questa generalità ma essere necessario venire espressamente alle particolarità: avere il re quando desiderava la pace, proposto le condizioni; dovere ora il pontefice fare il medesimo, poi che tale era lo stato delle cose che a lui apparteneva il desiderarla. Procedeva in questo modo il pontefice piú per fuggire il pericolo presente che perché avesse veramente disposto del tutto l'animo alla pace, combattendo insieme nel petto suo la paura la pertinacia l'odio e lo sdegno.

                                                 Nel quale tempo medesimo sopravenne un altro accidente che gli raddoppiò il dolore. Accusavano appresso a lui molti il cardinale di Pavia, alcuni di infedeltà altri di timidità altri di imprudenza: il quale, per scusarsi da se stesso venuto a Ravenna, mandò, come prima arrivò, a significargli la sua venuta e a dimandargli l'ora della udienza; della qual cosa il pontefice, che l'amava sommamente, molto rallegratosi, rispose che andasse a desinare seco. Dove andando, accompagnato da Guido Vaina e dalla guardia de' suoi cavalli, il duca di Urbino, per l'antica inimicizia che aveva con lui, e acceso dallo sdegno che per colpa sua (cosí diceva) fusse proceduta la ribellione di Bologna e per quella la fuga dell'esercito, fattosegli incontro accompagnato da pochi, ed entrato tra' cavalli della sua guardia che per riverenza gli davano luogo, ammazzò di sua mano propria con uno pugnale il cardinale: degno, forse, per tanta degnità di non essere violato ma degnissimo, per i suoi vizi enormi e infiniti, di qualunque acerbissimo supplizio. Il romore della morte del quale pervenuto subitamente al papa, cominciò con grida insino al cielo e urli miserabili a lamentarsi; movendolo sopramodo la perdita di uno cardinale che gli era tanto caro, e molto piú l'essere in su gli occhi suoi e dal proprio nipote, con esempio insolito, violata la degnità del cardinalato, cosa tanto piú molesta a lui quanto piú faceva professione di conservare ed esaltare l'autorità ecclesiastica: il quale dolore non potendo tollerare, né temperare il furore, partí il dí medesimo da Ravenna per ritornarsene a Roma. Né giunto a fatica a Rimini, acciocché da ogni parte in uno tempo medesimo lo circondassino infinite e gravissime calamità, ebbe notizia che in Modona in Bologna e in molte altre città erano appiccate, ne' luoghi publici, le cedole per le quali se gli intimava la convocazione del concilio, con la citazione che vi andasse personalmente. Perché il vescovo Gurgense, benché partito che fu da Modona avesse camminato alquanti dí lentamente, aspettando risposta dallo oratore del re di Scozia (ritornato da lui a Bologna) sopra le proposte che 'l pontefice medesimo gli aveva fatte, nondimeno essendo venuto con risposte molto incerte, mandò subito tre procuratori in nome di Cesare a Milano; i quali, congiunti co' cardinali e co' procuratori del re di Francia, indissono il concilio, per il primo dí di settembre prossimo, nella città di Pisa.

                                                 Voltorono i cardinali l'animo a Pisa come luogo comodo, per la vicinità del mare, a molti che aveano a venire al concilio, e sicuro per la confidenza che il re di Francia avea ne' fiorentini, e perché molti altri luoghi, che ne sarebbeno stati capaci, erano o incomodi o sospetti a loro, o da potere essere con colore giusto ricusati dal pontefice. In Francia non pareva onesto il chiamarlo, o in alcuno luogo sottoposto al re; Gostanza, una delle terre franche di Germania proposta da Cesare, benché illustre per la memoria di quel famoso concilio nel quale, privati tre che procedevano come pontefici, fu estirpato lo scisma continuato nella Chiesa [circa quaranta] anni, pareva molto incomodo; sospetto all'una parte e all'altra Turino, per la vicinità de' svizzeri e degli stati del re di Francia; Bologna, innanzi si alienasse dalla Chiesa, non era sicura per i cardinali, dipoi era il medesimo per il pontefice. E fu ancora, nella elezione di Pisa, seguitata in qualche parte la felicità dello augurio, per la memoria di due concili che vi erano stati celebrati prosperamente: l'uno quando quasi tutti i cardinali, abbandonati Gregorio [duodecimo] e Benedetto [tredecimo] che contendevano del pontificato, celebrando il concilio in quella città, elessono in pontefice Alessandro quinto; l'altro piú anticamente quando... Aveano prima i fiorentini consentitolo al re di Francia, il quale gli aveva ricercati, proponendo essere autore della convocazione del concilio non meno Cesare che egli, e consentirvi il re d'Aragona: degni di essere lodati forse piú del silenzio che della prudenza o della fortezza dell'animo; perché, o non avendo ardire di dinegare al re quel che era loro molesto o non considerando quante difficoltà e quanti pericoli potesse partorire uno concilio che si celebrava contro alla volontà del pontefice, tennono tanto secreta questa deliberazione, fatta in un consiglio di piú di cento cinquanta cittadini, che e fusse incerto a' cardinali (a' quali il re di Francia ne dava speranza ma non certezza) se l'avessino conceduto, e al pontefice non ne pervenisse notizia alcuna.

                                                 Pretendevano i cardinali potersi giuridicamente convocare da loro il concilio senza l'autorità del pontefice, per la necessità evidentissima che aveva la Chiesa di essere riformata (come dicevano) non solamente nelle membra ma eziandio nel capo, cioè nella persona del pontefice; il quale, (secondo che affermavano) inveterato nella simonia e ne' costumi infami e perduti né idoneo a reggere il pontificato, e autore di tante guerre, era notoriamente incorrigibile, con universale scandolo della cristianità, alla cui salute niun altra medicina bastava che la convocazione del concilio: alla qual cosa essendo stato il pontefice negligente, essersi legittimamente devoluta a loro la potestà del convocarlo; aggiugnendovisi massimamente l'autorità dell'eletto imperadore e il consentimento del re cristianissimo, col concorso del clero della Germania e della Francia. Soggiugnevano, lo usare frequentemente questa medicina essere non solamente utile ma necessario al corpo infermissimo della Chiesa, per istirpare gli errori vecchi, per provedere a quegli che nuovamente pullulavano, per dichiarare e interpretare le dubitazioni che alla giornata nascevano, e per emendare le cose che da principio ordinate per bene si dimostravano talvolta per l'esperienza perniciose. Perciò avere i padri antichi, nel concilio di Gostanza, salutiferamente statuito che perpetuamente per l'avvenire, di dieci anni in dieci anni, si celebrasse il concilio. E che altro freno che questo avere i pontefici di non torcere della via retta? e come altrimenti potersi, in tanta fragilità degli uomini, in tanti incitamenti che aveva la vita nostra al male, stare sicuri, se chi aveva somma licenza sapesse non avere mai a rendere conto di se medesimo? Da altra parte molti, impugnando queste ragioni e aderendo piú alla dottrina de' teologi che de' canonisti, asserivano l'autorità del convocare i concili risedere solamente nella persona del pontefice, quando bene fusse macchiato di tutti i vizi, pure che non fusse sospetto di eresia; e che altrimenti interpretando, sarebbe in potestà di pochi (il che in modo niuno si doveva consentire), o per ambizione o per odii particolari palliando la intenzione corrotta con colori falsi, l'alterare ogni dí lo stato quieto della Chiesa: le medicine tutte per sua natura essere salutifere, ma non date con le proporzioni debite né a' tempi convenienti essere piú tosto che medicine veleno; e però, condannando coloro che sentivano diversamente, chiamavano questa congregazione non concilio ma materia di divisione della unità della sedia apostolica, principio di scisma nella Chiesa d'Iddio e diabolico conciliabolo.

                                             

                                                 Lib.10, cap.1

                                                  

                                                 Il re di Francia ordina che le milizie si ritirino nel ducato di Milano; suo contegno amichevole e di devozione al pontefice; i Bentivoglio imitano il re. Il Triulzio licenzia parte de' soldati. Condizioni di pace del pontefice. Progetti di Massimiliano e sua impotenza d'effettuarli.

                                                  

                                                 Aspettavasi, con grandissima sospensione degli animi di tutta Italia e della maggiore parte delle provincie de' cristiani, quel che il re di Francia, ottenuta che ebbe la vittoria, deliberasse di fare; perché a tutti manifestamente appariva essere in sua potestà l'occupare Roma e tutto lo stato della Chiesa: essendo le genti del pontefice quasi tutte disperse e dissipate e molto piú quelle de' viniziani, né essendo in Italia altre armi che potessino ritenere l'impeto del vincitore; e parendo che il pontefice, difeso solamente dalla maestà del pontificato, rimanesse per ogn'altro rispetto alla discrezione della fortuna. E nondimeno il re di Francia, o raffrenandolo la riverenza della religione o temendo di non concitare contro a sé, se procedeva piú oltre, l'animo di tutti i príncipi, deliberato di non usare l'occasione della vittoria, comandò, con consiglio per avventura piú pietoso che utile, a Giaiacopo da Triulzi che, lasciata Bologna in potestà de' Bentivogli e restituito se altro avesse occupato appartenente alla Chiesa, riducesse subitamente l'esercito nel ducato di Milano. Aggiunse a' fatti mansueti umanissime dimostrazioni e parole. Vietò che nel suo reame alcuno segno di publica allegrezza non si facesse; e affermò piú volte alla presenza di molti che, con tutto non avesse errato né contro alla sedia apostolica né contro al pontefice, né fatto cosa alcuna se non provocato e necessitato, nondimeno, che per riverenza di quella sedia voleva umiliarsi e dimandargli perdono; persuadendosi che certificato per l'esperienza, delle difficoltà che aveano i suoi concetti, e assicurato del sospetto avuto vanamente di lui, avesse a desiderare la pace con tutto l'animo: il trattato della quale non si era mai intermesso totalmente, perché il pontefice, insino innanzi si partisse da Bologna, aveva per questa cagione mandato al re lo imbasciadore del re di Scozia, continuando di trattare quel che, per il medesimo vescovo, si era cominciato a trattare col vescovo Gurgense. L'autorità del re seguitando i Bentivogli, significavano al pontefice non volere essere contumaci o rebelli della Chiesa ma perseverare in quella subiezione nella quale aveva tanti anni continuato il padre loro: in segno di che, restituito il vescovo di Chiusi alla libertà, l'aveano, secondo l'uso antico, collocato nel palazzo come apostolico luogotenente.

                                                 Partí adunque il Triulzio con l'esercito, e si accostò alla Mirandola per ricuperarla; con tutto che, per i prieghi di Giovanfrancesco Pico, vi fusse entrato Vitfrust sotto colore di tenerla in nome di Cesare, e protestato al Triulzio che essendo giurisdizione dello imperio si astenesse da offenderla. Il quale alla fine, conoscendo che l'autorità vana non bastava, se ne partí, ricevute da lui certe promesse, piú tosto apparenti per l'onore di Cesare che sostanziali; e il medesimo fece Giovanfrancesco, impetrato che fusse salvo l'avere e le persone: e il Triulzio, non avendo da fare altra espedizione, mandate cinquecento lancie e mille trecento fanti tedeschi, sotto il capitano Iacob, alla custodia di Verona, licenziò gli altri fanti, eccetto duemila cinquecento guasconi sotto Molard e Mongirone; i quali e le genti d'arme distribuí per le terre del ducato di Milano.

                                                 Ma al desiderio e alla speranza del re non corrispondeva la disposizione del pontefice; il quale ripreso animo per la revocazione dell'esercito, rendendolo piú duro quel che pareva verisimile lo dovesse mollificare, essendo ancora a Rimini oppressato dalla podagra e in mezzo di tante angustie, proponeva, piú tosto come vincitore che vinto, per mezzo del medesimo scozzese, che per l'avvenire fusse per il ducato di Ferrara pagato il censo consueto innanzi alla diminuzione fatta per il pontefice Alessandro, che la Chiesa tenesse uno visdomino in Ferrara come prima tenevano i viniziani, e se gli cedessino Lugo e l'altre terre che Alfonso da Esti possedeva nella Romagna: le quali condizioni benché al re paressino molto gravi, nondimeno, tanto era il desiderio della pace col pontefice, fece rispondere essere contento di consentire a quasi tutte queste dimande, pure che vi intervenisse il consentimento di Cesare. Ma già il pontefice ritornato a Roma aveva mutata sentenza; dandogli ardire, oltre a quello che si dava da se stesso, i conforti del re d'Aragona: il quale, entrato per la vittoria del re di Francia in maggiore sospezione, aveva subito intermesso tutti gli apparati potentissimi che aveva fatti per passare personalmente in Affrica, ove continuamente guerreggiava co' mori; e revocatone Pietro Navarra con tremila fanti spagnuoli lo mandò nel reame di Napoli, assicurando, in uno tempo medesimo, le cose proprie e al pontefice dando animo di alienarsi tanto piú dalla concordia. Rispose adunque non volere la pace se insieme non si componevano con Cesare i viniziani, se Alfonso da Esti, oltre alle prime dimande, non gli restituiva le spese fatte nella guerra, e se il re non si obligava a non gli impedire la recuperazione di Bologna: la quale città, come ribellata dalla Chiesa, aveva già sottoposta allo interdetto ecclesiastico e, per dare il guasto alle biade del contado loro, mandato nella Romagna Marcantonio Colonna e Ramazzotto; benché questi, affatica entrati nel bolognese, furno facilmente scacciati dal popolo. Aveva nondimeno il pontefice, vinto da' prieghi de' cardinali, quando ritornò a Roma, consentito alla liberazione del cardinale d'Aus, il quale era stato insino a quel dí custodito in Castel Sant'Angelo; ma con condizione che non uscisse del palagio di Vaticano insino a tanto non fussino liberati tutti i prelati e ufficiali che erano stati presi in Bologna, e che dipoi non potesse sotto pena di quarantamila ducati, per la quale desse idonee sicurtà, partirsi di Roma: benché non molto poi gli consentí il ritornarsene in Francia, sotto la medesima pena di non intervenire al concilio. Commosse la risposta del pontefice tanto piú l'animo del re quanto piú si era persuaso, il pontefice dovere consentire alle condizioni che esso medesimo aveva proposte: onde deliberando impedire che non recuperasse Bologna vi mandò quattrocento lancie, e pochi dí poi prese in protezione quella città e i Bentivogli senza ricevere da loro obligazione alcuna di dargli o gente o danari; e conoscendo essergli piú necessaria che mai la congiunzione con Cesare, ove prima (benché per aspettare i progressi suoi fusse venuto nella provincia del Dalfinato) aveva qualche inclinazione di non gli dare le genti promesse nella capitolazione fatta con Gurgense, se egli non passava personalmente in Italia (perché sotto questa condizione aveva convenuto di dargliene) comandò che dello stato di Milano vi andasse il numero delle genti convenuto: sotto il governo del la Palissa, perché 'l Triulzio, il quale Cesare aveva domandato, ricusava di andarvi.

                                                 Era Cesare venuto a Spruch, ardente da una parte alla guerra contro a viniziani, dall'altra combattuto nell'animo suo da diversi pensieri. Perché considerando che tutti i progressi che e' facesse riuscirebbeno alla fine di poco momento se non si espugnava Padova, e che a questo bisognavano tante forze e tanti apparati che era quasi impossibile il mettergli insieme, ora si volgeva al desiderio di concordare co' viniziani, alla quale cosa molto lo confortava il re cattolico, ora traportato da' suoi concetti vani pensava di andare personalmente con lo esercito a Roma, per occupare, come era suo antico desiderio, tutto lo stato della Chiesa; promettendosi, oltre alle genti de' franzesi, di condurre seco di Germania potente esercito: ma non corrispondendo poi, per l'impotenza e disordini suoi, l'esecuzioni alle immaginazioni, promettendo ora di venire di giorno in giorno in persona ora di mandare gente, consumava il tempo senza mettere in atto impresa alcuna. E perciò al re di Francia pareva molto grave d'avere solo a sostenere tutto il peso: la quale ragione, conforme alla sua tenacità, poteva spesso piú in lui che quello che gli era da molti dimostrato in contrario, che Cesare se da lui non fusse aiutato potentemente si congiugnerebbe finalmente con gli inimici suoi; dalla qual cosa, oltre al sostenere per necessità spesa molto maggiore, gli stati suoi di Italia cadrebbeno in gravissimi pericoli.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.2

                                                  

                                                 Azione del pontefice contro la convocazione del concilio di Pisa; convocazione d'un concilio universale in San Giovanni in Laterano; intimazione a' cardinali dissidenti. Politica del pontefice verso il re di Francia. Confederazione tra i fiorentini e i senesi.

                                                  

                                                 Raffreddavansi in queste ambiguità e difficoltà i tumulti delle armi temporali, ma andavano riscaldando quegli dell'armi spirituali; cosí dalla parte de' cardinali autori del concilio come dalla parte del pontefice, intento tutto a opprimere questo male innanzi facesse maggiore progresso. Erasi, come è detto di sopra, inditto e intimato il concilio con l'autorità del re de' romani e del re di Francia, intervenuti alla intimazione i cardinali di Santa Croce di San Malò di Baiosa e di Cosenza, e consentendovi manifestamente il cardinale di San Severino; e successivamente, alle consulte e deliberazioni che si facevano, intervenivano i procuratori dell'uno e dell'altro re. Ma avevano i cinque cardinali, autori di questa peste, aggiunto nella intimazione, per dare maggiore autorità, il nome di altri cardinali: de' quali Alibret, cardinale franzese, benché malvolentieri vi consentisse, non poteva disubbidire a' comandamenti del suo re; e degli altri, nominati da loro, il cardinale Adriano e il cardinale del Finale apertamente affermavano non essere stato fatto con loro mandato né di loro consentimento. Però, non si manifestando in questa cosa piú di sei cardinali, il Pontefice, sperando potergli fare volontariamente desistere da questa insania, trattava continuamente con loro, offerendo venia delle cose commesse e con tale sicurtà che e' non avessino da temere di essere offesi; cose che i cardinali udivano simulatamente. Ma non per questo cessava da' rimedi piú potenti; anzi per consiglio, secondo si disse, proposto da Antonio del Monte a San Sovino, uno de' cardinali creati ultimatamente a Ravenna, volendo purgare la negligenza, intimò il concilio universale, per il primo dí di maggio prossimo, nella città di Roma nella chiesa di San Giovanni Laterano: per la quale convocazione pretendeva avere dissoluto il concilio convocato dagli avversari, e che nel concilio inditto da lui si fusse trasferita giuridicamente la potestà e l'autorità di tutti; non ostante che i cardinali allegassino che, se bene questo fusse stato vero da principio, nondimeno, poiché essi avevano prevenuto, dovere avere luogo il concilio convocato e intimato da loro. Publicato il concilio, confidando già piú delle ragioni sue, e disperandosi di potere riconciliarsi il cardinale di Santa Croce, il quale, per ambizione di essere pontefice, era stato in grande parte autore di questo moto, e il medesimo di San Malò, e di quello di Cosenza (perché degli altri non aveva ancora perduta la speranza di ridurgli sotto l'ubbidienza sua), publicò contro a quegli tre uno monitorio, sotto pena di privazione della degnità del cardinalato e di tutti i benefici ecclesiastici se infra sessantacinque dí non si presentassino innanzi a lui: alla quale cosa perché piú facilmente si disponessino, il collegio de' cardinali mandò a loro uno auditore di ruota, a invitargli e pregargli che, deposte le private contenzioni, ritornassino all'unione della Chiesa, offerendo di fare concedere qualunque sicurtà desiderassino.

                                                 Nel quale tempo medesimo, o essendo ambiguo e irrisoluto nell'animo o movendolo altra cagione, udiva continuamente la pratica della pace col re di Francia, la quale appresso a lui trattavano gli oratori del re e appresso al re il medesimo imbasciadore del re di Scozia e il vescovo di Tivoli nunzio apostolico; e da altra parte trattava di fare col re d'Aragona e co' viniziani nuova confederazione contro a' franzesi. Procurò nel tempo medesimo che a' fiorentini fusse restituito Montepulciano, non per benivolenza inverso loro ma per sospetto che, essendo spirata la tregua che aveano co' sanesi, non chiamassino, per essere piú potenti a recuperare quella terra, in Toscana genti franzesi; e con tutto che al pontefice fusse molesto che i fiorentini recuperassino Montepulciano, e che per impedirgli avesse già mandato a Siena Giovanni Vitelli, condotto con cento uomini d'arme da' sanesi e da lui, e Guido Vaina con cento cavalli leggieri, nondimeno, considerando poi meglio che quanto piú la difficoltà si dimostrava maggiore tanto piú si inciterebbono i fiorentini a chiamarle, deliberò, acciò che il re non avesse occasione di mandare genti in luogo vicino a Roma, provedere con modo contrario a questo pericolo: alla qual cosa consentiva Pandolfo Petrucci, che era nel medesimo sospetto, nutritovi artificiosamente da' fiorentini. Trattossi la cosa molti dí: perché, come spesso le cose piccole non hanno minori difficoltà né meno difficili a esplicarsi che le grandissime, Pandolfo, per non incorrere nell'odio del popolo sanese, voleva si procedesse in modo che e' paresse niuno altro rimedio essere ad assicurarsi della guerra e a non si alienare l'animo del pontefice. Volevano oltre a questo, il pontefice ed egli, che nel tempo medesimo si facesse tra i fiorentini e i sanesi confederazione a difesa degli stati; e da altra parte temevano che i montepulcianesi, accorgendosi di quel che si trattava, non preoccupassino, con l'arrendersi da loro medesimi, la grazia de' fiorentini, i quali, conseguito lo intento loro, fussino poi renitenti a fare la confederazione: però fu mandato ad alloggiare in Montepulciano Giovanni Vitelli; e il pontefice vi mandò Iacobo Simonetta auditore di ruota, il quale molti anni poi fu promosso al cardinalato, perché per mezzo suo si adattassino le cose di Montepulciano. Tanto che, finalmente, in un tempo medesimo fu fatta confederazione per venticinque anni tra fiorentini e sanesi; e Montepulciano, interponendosi il Simonetta per la venia e confermazione delle esenzioni e privilegi antichi, ritornò in mano de' fiorentini.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.3

                                                  

                                                 L'esercito franco tedesco contro i veneziani; i veneziani abbandonano diverse terre; fazioni di guerra; i veneziani perdono e ricuperano il Friuli. Difficoltà poste innanzi da Massimiliano riguardo al concilio pisano; continuano le trattative di pace fra il pontefice e il re di Francia.

                                                  

                                                 Erano state per qualche mese piú quiete che il solito le cose tra il re de' romani e i viniziani; perché i tedeschi non abbondanti di gente e bisognosi di danari non riputavano fare poco se conservavano Verona, e l'esercito de viniziani non essendo potente a espugnare quella città stava alloggiato tra Suavi e Lunigo, donde una notte abbruciorno, di qua e di là dallo Adice, grande parte delle ricolte del veronese: benché assaltati nel ritirarsi perdessino trecento fanti. Ma alla fama dello approssimarsi a Verona la Palissa con mille dugento lancie e ottomila fanti si ridusse lo esercito loro verso Vicenza e Lignago, in luogo forte e quasi come in isola per certe acque e per alcune tagliate che avevano fatte: nel quale alloggiamento non stettono fermi molti dí perché essendo la Palissa arrivato con parte delle genti a Verona, e uscito subito, senza aspettarle tutte, insieme co' tedeschi in campagna, si ritirò quasi come fuggendo a Lunigo; e dipoi col medesimo terrore, abbandonata Vicenza e tutte l'altre terre e il Pulesine di Rovigo, preda ora de viniziani ora del duca di Ferrara, si distribuirno in Padova e Trevigi: alla difesa delle quali città vennono da Vinegia, nel modo medesimo che prima avevano fatto a Padova, molti giovani della nobiltà viniziana. Saccheggiò l'esercito franzese e tedesco Lonigo: e si arrendé loro Vicenza, diventata preda miserabile de' piú potenti in campagna. Ma ogni sforzo e ogni acquisto era di piccolissimo momento alla somma delle cose mentre che i viniziani conservavano Padova e Trevigi, perché con l'opportunità di quelle città, subito che gli aiuti franzesi si partivano da' tedeschi, recuperavano senza difficultà le cose perdute: però l'esercito, dopo questi progressi, stette fermo piú dí al Ponte a Barberano aspettando o la venuta o la determinazione di Cesare. Il quale, venuto da Trento e Roveré, intento in uno tempo medesimo a cacciare, secondo il costume suo, le fiere e a mandare fanti all'esercito, prometteva di venire a Montagnana; proponendo di fare ora la impresa di Padova ora quella di Trevigi ora di andare a occupare Roma, e in tutte per la instabilità sua variando e per l'estrema povertà trovando difficoltà: né meno che nelle altre, nell'andata di Roma, perché lo andarvi con tante forze de' franzesi pareva cosa molto aliena dalla sicurtà e dignità sua; e il pericolo che, assentandosi quello esercito, i viniziani non assaltassino Verona lo costringeva a lasciarla guardata con potente presidio; e il re di Francia faceva difficoltà di allontanare per tanto spazio di paese le genti sue dal ducato di Milano, perché pochissima speranza gli restava della concordia co' svizzeri: i quali, oltre al dimostrarsi inclinati a' desideri del pontefice, dicevano apertamente allo oratore del re di Francia essere molestissima a quella nazione la ruina de' viniziani, per la convenienza che hanno insieme le republiche. Risolveronsi finalmente i concetti e discorsi grandi di Cesare, secondo l'antica consuetudine, in effetti non degni del nome suo: perché accresciuti allo esercito trecento uomini d'arme tedeschi, e uditi da altra parte gli oratori de' viniziani, co' quali continuamente trattava, si accostò ai confini del vicentino; e fatto venire la Palissa, prima a Lungara presso a Vicenza e poi a Santa Croce, lo ricercò che andasse a pigliare Castelnuovo, passo di sotto alla Scala verso il Friuli e vicino a venti miglia di Feltro, per dare a lui facilità di scendere da quella parte. Però la Palissa andò a Montebellona distante dieci miglia da Trevigi; donde mandati cinquecento cavalli e dumila fanti ad aprire il passo di Castelnuovo, aperto che lo ebbeno se ne andorono alla Scala. Nel quale tempo i cavalli leggieri de' viniziani, i quali correvano senza ostacolo alcuno per tutto il paese, roppono presso a Morostico circa settecento fanti e molti cavalli franzesi e italiani, i quali per potere passare sicuramente allo esercito andavano da Verona a Suavi per unirsi con trecento lancie franzesi, le quali essendo venute dietro al la Palissa aspettavano in quello luogo il suo comandamento; e benché nel principio, succedendo le cose prospere per i franzesi e tedeschi, fusse preso il conte Guido Rangone condottiere de' viniziani, nondimeno, calando in favore de' viniziani molti villani, restorno vittoriosi; morti circa quattrocento fanti franzesi, e presi Mongirone e Riccimar loro capitani. Ma già continuamente raffreddavano le cose ordinate: perché e il re di Francia, vedendo non corrispondere gli apparati di Cesare alle offerte, si era, discostandosi da Italia, ritornato del Dalfinato, dove era soprastato molti giorni, a Bles; e Cesare, ritiratosi a Trento con deliberazione di non andare piú all'esercito personalmente, in luogo di occupare tutto quello che i viniziani possedevano in terra ferma o veramente Roma con tutto lo stato ecclesiastico, proponeva che i tedeschi entrassino nel Friuli e nel Trevisano, non tanto per vessare i viniziani quanto per costrignere le terre del paese a pagare danari per ricomperarsi dalle prede e da' sacchi; e che i franzesi, perché i suoi non fussino impediti, si facessino innanzi, mettendo in Verona, ove era la pestilenza grande, dugento lancie; perché de' suoi, volendo assaltare il Friuli, non vi potevano rimanere altri che i deputati alla custodia delle fortezze. Acconsentí a tutte queste cose la Palissa e, essendosi unito con lui Obigní capitano delle trecento lancie che erano a Suavi, si fermò in sul fiume della Piava. Lasciorno oltre a questo i tedeschi, per maggiore sicurtà di Verona, dugento cavalli a Suave: i quali, standovi con grandissima negligenza e senza scolte o guardie, furono una notte quasi tutti morti o presi da quattrocento cavalli leggieri e quattrocento fanti de' viniziani.

                                                 Erasi tutto questo anno, nel Friuli in Istria e nelle parti di Triesti e di Fiume, travagliato secondo il solito diversamente, per terra ed eziandio per mare con piccoli legni; essendo quegli infelici paesi ora dall'una parte ora dall'altra depredati. Entrò poi nel Friuli l'esercito tedesco; ed essendosi presentato a Udine, luogo principale della provincia, e dove riseggono gli ufficiali de' viniziani, essendosene quegli fuggiti vilmente, la terra si arrendé subito: e dipoi col medesimo corso della vittoria fece il medesimo tutto il Friuli, pagando ciascuna terra danari secondo la loro possibilità. Restava Gradisca situata in sul fiume Lisonzio, dove era Luigi Mocenigo proveditore del Friuli con trecento cavalli e molti fanti; la quale, battuta dalle artiglierie e difesasi dal primo assalto, si arrendé per l'instanza de' soldati, restando prigione il proveditore. Del Friuli ritornorono i tedeschi a unirsi con la Palissa, alloggiato vicino a cinque miglia di Trevigi; alla quale città s'accostorno unitamente, perché Cesare faceva instanza grande che si tentasse di espugnarla: ma avendola trovata da tutte le parti molto fortificata, e avendo mancamento di guastatori, di munizioni e d'altri provedimenti necessari, perduta interamente la speranza di ottenerne la vittoria, si discostorono. Partí, pochi dí poi, la Palissa per ritornarsene nel ducato di Milano, per comandamento del re; perché continuamente cresceva il timore di nuove confederazioni e di movimenti de' svizzeri. Furnogli sempre alle spalle nel ritirarsi gli stradiotti de' viniziani, sperando di danneggiarlo almeno al transito de' fiumi della Brenta e dell'Adice; nondimeno passò per tutto sicuramente; avendo, innanzi passasse la Brenta, svaligiati dugento cavalli de' viniziani, alloggiati fuora di Padova, e preso Pietro da Longhena loro condottiere. Lasciò la sua partita molto confusi i tedeschi, perché non avendo potuto ottenere che alla guardia di Verona rimanessino trecento altre lancie franzesi, furno necessitati ritirarvisi, lasciate in preda agli inimici tutte le cose acquistate quella state. Però le genti de' viniziani, delle quali per la morte di Lucio Malvezzo era governatore Giampaolo Baglione, ricuperorno subito Vicenza; e dipoi entrate nel Friuli, spianata Cremonsa, ricuperorno, da Gradisca in fuora (la quale combatterono vanamente), tutto il paese; benché, pochi dí poi, certi fanti comandati del contado di Tiruolo espugnorono Cadoro e saccheggiorno Bellona. In questo modo, con effetti leggieri e poco durabili, si terminorno la state presente i movimenti dell'armi; senza utilità ma non senza ignominia del nome di Cesare, e con accrescimento della riputazione de' viniziani, che assaltati già due anni dagli eserciti di Cesare e del re di Francia ritenessino alla fine le medesime forze e il medesimo dominio.

                                                 Le quali cose benché tendessino direttamente contro a Cesare nocevano molto piú al re di Francia: perché, mentre che, o temendo forse troppo le prosperità e l'augumento di Cesare o che consigliandosi con fondamenti falsi e non conoscendo i pericoli già propinqui o che soffocata la prudenza dalla avarizia, non dà a Cesare aiuti tali che potesse sperare di ottenere la vittoria desiderata, gli dette occasione e quasi necessità di inclinare l'orecchie a coloro che mai cessavano di persuaderlo che s'alienasse da lui, conservando in uno tempo medesimo in tale stato i viniziani che e' potessino con maggiori forze unirsi a quegli i quali desideravano di abbassare la sua potenza. Onde già cominciava ad apparire qualche indizio che nella mente di Cesare, specialmente nella causa del concilio, germinassino nuovi pensieri: nella quale pareva raffreddato, massimamente dopo l'intimazione del concilio lateranense; conciossiaché non vi mandasse, secondo le promesse piú volte fatte, alcuni prelati tedeschi in nome della Germania, né procuratori che vi assistessino in suo nome; non lo movendo l'esempio del re di Francia, il quale aveva ordinato che in nome comune della chiesa gallicana vi andassino ventiquattro vescovi, e che tutti gli altri prelati del suo regno o vi andassino personalmente o vi mandassino procuratori. E nondimeno, o per scusare questa dilazione o perché tale fusse veramente il suo desiderio, cominciò in questo tempo a fare instanza che, per maggiore comodità de' prelati della Germania e perché affermava volervi intervenire personalmente, il concilio inditto a Pisa si trasferisse a Mantova o a Verona o a Trento: la quale dimanda, molesta per varie cagioni a tutti gli altri, era solamente grata al cardinale di Santa Croce; il quale, ardente di cupidità di ascendere al pontificato (al qual fine aveva seminato queste discordie), sperava col favore di Cesare, nella benivolenza del quale inverso sé molto confidava, potervi facilmente pervenire. Nondimeno, rimanendo debilitata molto e quasi manca senza l'autorità di Cesare la causa del concilio, mandorno di comune consentimento a lui il cardinale di San Severino, a supplicarlo che facesse muovere i prelati e i procuratori tante volte promessi, e a obligargli la fede che principiato che fusse il concilio a Pisa lo trasferirebbono in quel luogo medesimo che egli stesso determinasse; dimostrandogli che il trasferirlo prima sarebbe molto pregiudiciale alla causa comune, e specialmente perché era di somma importanza il prevenire a quello che era stato intimato dal pontefice. Col cardinale andò a fare la instanza medesima, in nome del re di Francia, Galeazzo suo fratello; il quale, con felicità dissimile alla infelicità di Lodovico Sforza, primo padrone, era stato onorato da lui dello ufficio del grande scudiere. Ma principalmente lo mandò il re per confermare con varie offerte e partiti nuovi l'animo di Cesare, per la instabilità del quale stava in grandissima sospensione e sospetto; con tutto che nel tempo medesimo non fusse senza speranza di conchiudere la pace col pontefice. La quale, trattata a Roma dal cardinale di Nantes e dal cardinale di Strigonia e in Francia dal vescovo scozzese e dal vescovo di Tivoli, era ridotta a termini tali che, concordate quasi tutte le condizioni, il pontefice aveva mandato al vescovo di Tivoli l'autorità di dargli perfezione: benché inserite nel mandato certe limitazioni che davano ombra non mediocre che la volontà sua non fusse tale quale sonavano le parole, sapendosi massime che nel tempo medesimo trattava con molti potentati cose interamente contrarie.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.4

                                                  

                                                 Grave malattia del pontefice e tentativo di giovani della nobiltà romana di infiammare il popolo contro il potere sacerdotale. Bolla pontificia contro la simonia nell'elezione de' papi. Il pontefice indeciso fra la pace e la preparazione della guerra alla Francia. Indecisione e sospetti del re di Francia.

                                                  

                                                 Nella quale dubietà mancò poco che non troncasse tutte le pratiche, e i princípi de' mali che s'apparecchiavano, la morte improvisa del pontefice: il quale, infermatosi il decimosettimo dí di agosto, fu il quarto dí della infermità oppressato talmente da uno potentissimo sfinimento che stette per alquante ore riputato dai circostanti per morto; onde, corsa la fama per tutto avere terminato i suoi giorni, si mossono per venire a Roma molti cardinali assenti, e tra gli altri quegli che aveano convocato il concilio. Né a Roma fu minore sollevazione che soglia essere nella morte de' pontefici: anzi apparirno semi di maggiori tumulti, perché Pompeio Colonna vescovo di Rieti e Antimo Savello, giovani sediziosi della nobiltà romana, chiamato nel Capitolio il popolo di Roma, cercorno di infiammarlo con sediziosissime parole a vendicarsi in libertà: assai essere stata oppressa la generosità romana, assai avere servito quegli spiriti domatori già di tutto il mondo; potersi per avventura, in qualche parte scusare i tempi passati per la riverenza della religione, per il cui nome accompagnato da santissimi costumi e miracoli, non costretti da arme o da violenza alcuna, avere ceduto i maggiori loro allo imperio de' cherici, sottomesso volontariamente il collo al giogo tanto suave della pietà cristiana; ma ora, quale necessità quale virtú quale degnità coprire in parte alcuna l'infamia della servitú? la integrità forse della vita? gli esempli santi de' sacerdoti? i miracoli fatti da loro? e quale generazione essere al mondo piú corrotta piú inquinata e di costumi piú brutti e piú perduti? e nella quale paia solamente miracoloso che Iddio, fonte della giustizia, comporti cosí lungamente tante sceleratezze? sostenersi forse questa tirannide per la virtú dell'armi, per la industria degli uomini o per i pensieri assidui della conservazione della maestà del pontificato? e quale generazione essere piú aliena dagli studi e dalle fatiche militari? piú dedita all'ozio e ai piaceri? e piú negligente alla degnità e a' comodi de' successori? avere in tutto il mondo similitudine due principati, quello de' pontefici romani e quello de' soldani del Cairo, perché né la degnità del soldano né i gradi de' mammalucchi sono ereditari ma passando di gente in gente si concedono a' forestieri: e nondimeno essere piú vituperosa la servitú de' romani che quella de' popoli dello Egitto e della Soría, perché la infamia di coloro ricompera in qualche parte l'essere i mammalucchi uomini bellicosi e feroci, assuefatti alle fatiche e a vita aliena da tutte le delicatezze; ma a chi servire i romani? a persone oziose e ignave, forestieri e spesso ignobilissimi non meno di sangue che di costumi; tempo essere di svegliarsi oramai da sonnolenza sí grave, di ricordarsi che l'essere romano è nome gloriosissimo quando è accompagnato dalla virtú, ma che raddoppia il vituperio e la infamia a chi ha messo in dimenticanza l'onorata gloria de' suoi maggiori; appresentarsi facilissima l'occasione, poi che in sulla morte del pontefice concorreva la discordia tra loro medesimi disunite le volontà de' re grandi, Italia piena d'armi e di tumulti, e divenuta, piú che mai in tempo alcuno, odiosa a tutti i príncipi la tirannide sacerdotale.

                                                 Respirò da quello accidente tanto pericoloso il pontefice: dal quale alquanto sollevato, ma essendo ancora molto maggiore il timore che la speranza della sua vita, assolvé il dí seguente, presenti i cardinali congregati in forma di concistorio, il nipote dall'omicidio commesso del cardinale di Pavia; non per via di giustizia come prima si era trattato, repugnando a questo la brevità del tempo, ma come penitente per grazia e indulgenza apostolica. E nel medesimo concistorio, sollecito che l'elezione del successore canonicamente si facesse, e volendo proibire agli altri d'ascendere a tanto grado per quel mezzo col quale vi era asceso egli, fece publicare una bolla piena di pene orribili contro a quegli i quali procurassino o con danari o con altri premi di essere eletti pontefici; annullando la elezione che si facesse per simonia, e dando l'adito molto facile a qualunque cardinale di impugnarla: la quale costituzione aveva pronunziata insino quando era in Bologna, sdegnato allora contro ad alcuni cardinali i quali procuravano, quasi apertamente, di ottenere promesse da altri cardinali per essere dopo la morte sua assunti al pontificato. Dopo il quale dí seguitò miglioramento molto evidente, procedendo o dalla complessione sua molto robusta o dall'essere riservato da' fati come autore e cagione principale di piú lunghe e maggiori calamità di Italia; perché né alla virtú né a' rimedi de' medici si poteva attribuire la sua salute; a' quali, mangiando nel maggiore ardore della infermità pomi crudi e cose contrarie a' precetti loro, in parte alcuna non ubbidiva.

                                                 Sollevato che fu dal pericolo della morte ritornò alle consuete fatiche e pensieri; continuando di trattare in un tempo medesimo la pace col re di Francia, e col re d'Aragona e col senato viniziano confederazione a offesa de' franzesi: e benché con la volontà molto piú inclinata alla guerra che alla pace, pure talvolta distraendolo molte ragioni ora in questa ora in quella sentenza. Inclinavanlo alla guerra, oltre all'odio inveterato contro al re di Francia e il non potere ottenere nella pace tutte le condizioni desiderava, le persuasioni contrarie del re d'Aragona, insospettito piú che mai che il re di Francia pacificato col pontefice non assaltasse, come prima n'avesse occasione, il regno di Napoli; e perché questi consigli avessino maggiore autorità avea, oltre alla prima armata passata sotto Pietro Navarra d'Affrica in Italia, mandata di nuovo un'altra armata di Spagna, in sulla quale si dicevano essere cinquecento uomini d'arme secento giannettari e tremila fanti; forze che aggiunte agli altri non erano, e per il numero e per il valore degli uomini, di piccola considerazione. E nondimeno il medesimo re, procedendo con le solite arti, dimostrava desiderare piú la guerra contro a' mori, né rimuoverlo da quella utilità o comodo proprio, né altro che la divozione avuta sempre alla sedia apostolica; ma che, non potendo solo sostentare i soldati suoi, gli era necessario l'aiuto del pontefice e del senato viniziano: alle quali cose perché piú facilmente coscendessino, le genti sue, che tutte erano discese nell'isola di Capri vicina a Napoli, dimostravano di apparecchiarsi per passare in Affrica. Onde spaventavano il pontefice le dimande immoderate, infastidivanlo queste arti, e lo insospettiva l'essergli noto che quel re non cessava di dare speranze contrarie al re di Francia. Sapeva che i viniziani non declinerebbono dalla sua volontà; ma sapeva medesimamente che per la guerra gravissima era indebolita la facoltà dello spendere, e che il senato per se stesso era piú tosto desideroso d'attendere per allora a difendere le cose proprie che a prendere di nuovo una guerra la quale non si potrebbe sostentare senza spese grandissime e quasi intollerabili. Sperava che i svizzeri per la inclinazione piú comune della moltitudine si dichiarerebbono contro al re di Francia, ma non n'avendo certezza non pareva doversi per questa speranza incerta sottomettere a tanti pericoli; essendogli noto che mai aveano troncate le pratiche col re di Francia, e che molti de' principali, a quali dalla amicizia franzese risultava utilità grandissima, s'affaticavano quanto potevano acciò che, nella dieta la quale di prossimo doveva congregarsi a..., la confederazione col re si rinnovasse. Dell'animo di Cesare, benché stimolato incessantemente dal re cattolico e naturalmente inimicissimo al nome franzese, aveva minore speranza che timore; sapendo l'offerte grandi che di nuovo gli erano fatte contro a' viniziani e contro a sé, e che il re di Francia aveva possibilità di metterle in atto maggiori di quelle che gli potessino essere fatte da qualunque altro: e quando Cesare si unisse a quel re, si rendeva per l'autorità sua molto formidabile il concilio; e congiunte con buona fede le armi sue colle forze e co' danari del re di Francia, e coll'opportunità degli stati d'amendue, niuna speranza poteva il pontefice avere della vittoria, la quale era molto difficile ottenere contro al re di Francia solo. Sollevava l'animo suo la speranza che il re di Inghilterra avesse a muovere la guerra contro al reame di Francia, indotto da consigli e persuasioni del re cattolico suo suocero e per l'autorità della sedia apostolica, grande allora nell'isola di Inghilterra, e in cui nome avea con ardentissimi prieghi supplicato l'aiuto suo contro al re di Francia, come contro a oppressore e usurpatore della Chiesa. Ma movevano molto piú quel re l'odio naturale de' re e de' popoli di Inghilterra contro al nome de' franzesi, l'età giovenile e la abbondanza grande de' danari lasciatagli dal padre; i quali era fama, nata da autori non leggieri, che ascendessino a quantità quasi inestimabile. Le quali cose accendevano l'animo del giovane, nuovo nel regno, e che nella casa sua non aveva mai veduto altro che prospera fortuna, alla cupidità di rinnovare la gloria de' suoi antecessori; i quali, intitolatisi re di Francia, e avendo in diverse età vessato vittoriosi con gravissime guerre quel reame, non solo avevano lungamente posseduta la Ghienna e la Normandia, ricche e potenti provincie, e preso in una battaglia, fatta appresso a Pottieri, Giovanni re di Francia con due figliuoli e con molti de' principali signori, ma eziandio occupata insieme con la maggiore parte del regno la città di Parigi, metropoli di tutta la Francia; e con tale successo e terrore che è costante opinione che se Enrico quinto loro re non fusse, nel fiore dell'età e nel corso delle vittorie, passato di morte naturale all'altra vita, arebbe conquistato tutto il reame di Francia. La memoria delle quali vittorie rivolgendosi il nuovo re nell'animo aveva volto totalmente l'animo a cose nuove; con tutto che dal padre, quando moriva, gli fusse stato ricordato espressamente che conservasse sopra tutte le cose la pace col re di Francia, con la quale sola potevano i re di Inghilterra regnare sicuramente e felicemente. E che la guerra fatta dagli inghilesi al re di Francia, infestato massimamente nel tempo medesimo da altre parti, fusse di momento grandissimo non era dubbio alcuno; perché e percoteva nelle viscere il regno suo e perché, per la ricordazione delle cose passate, era sommamente temuto da' franzesi il nome inghilese. E nondimeno il pontefice, per la incertitudine della fede barbara e per essere i paesi tanto rimoti, non poteva riposare in questo favore sicuramente i consigli suoi.

                                                 Queste, e con queste condizioni, erano le speranze del pontefice. Da altra parte il re di Francia aborriva la guerra colla Chiesa, desiderava la pace mediante la quale, oltre al rimuoversi l'inimicizia del pontefice, si liberava dalle dimande importune e dalla necessità di servire a Cesare; né faceva difficoltà nella annullazione del concilio pisano, introdotto solamente da lui per piegare con questo timore l'animo del pontefice alla pace, pure che si perdonasse a' cardinali e agli altri che v'avevano o consentito o aderito. Ma in contrario lo teneva sospeso la dimanda della restituzione di Bologna, essendo quella città per il sito suo opportunissima a molestarlo; perché dubitava che la pace non fusse accettata dal pontefice sinceramente né con animo disposto, se l'occasioni gli ritornassino, a osservarla, ma per liberarsi dal pericolo del concilio e dell'armi. Sperava pure avere a confermare l'animo di Cesare con la grandezza dell'offerte, e perché insino a ora non come alienato ma come confederato trattava seco delle occorrenze comuni; confortandolo trall'altre cose a non consentire che Bologna, città di tanta importanza, ritornasse nella potestà del pontefice. Del re d'Aragona e del re di Inghilterra non diffidava interamente; non ostante il procedere già quasi manifesto dell'uno e i romori che si spargevano della mente dell'altro, e con tutto che gli imbasciadori loro congiunti insieme l'avessino, prima con modeste parole e sotto specie di amichevole officio e dipoi con parole piú efficaci, confortato che operasse che i cardinali e i prelati del suo regno concorressino al concilio lateranense, e che permettesse che la Chiesa fusse reintegrata della città sua di Bologna: perché da altra parte, simulando lo inghilese di volere perseverare nella confederazione che aveva seco, e facendogli fede del medesimo molti de' suoi, credeva non avesse a tentare d'offenderlo; e l'arti e le simulazioni dell'Aragonese erano tali che il re, prestando minore fede a' fatti che alle parole, colle quali affermava che mai piglierebbe l'armi contro a lui, si lasciava in qualche parte persuadere che quel re non sarebbe cosí congiunto con l'armi manifeste agli inimici suoi come era congiunto co' consigli occulti. Nelle quali vane opinioni si ingannava tanto, che essendogli data speranza, da coloro che appresso a' svizzeri seguitavano le parti sue, di potersi riconciliare quella nazione se consentiva alla dimanda di augumentare le pensioni, pertinacemente di nuovo lo dinegò, allegando non volere essere taglieggiato; anzi, usando i rimedi aspri ove erano necessari i benigni, vietò che non potessino trarre vettovaglie del ducato di Milano: delle quali patendo, per la sterilità del paese, grandissima incomodità, sperava s'avessino a piegare a rinnovare con le condizioni antiche la confederazione.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.5

                                                  

                                                 I procuratori de' cardinali dissidenti celebrano gli atti per l'apertura del concilio pisano, e il pontefice lancia l'interdetto contro Firenze e Pisa. Dissensioni in Firenze; simpatie di molti pel cardinale de' Medici. I fiorentini appellano dall'interdetto. Il concilio di Pisa e la questione di Bologna ostacoli alla pace. Confederazione fra il pontefice, il re d'Aragona e il senato veneziano e sue condizioni.

                                                  

                                                 Sopravenne in questo mezzo il primo dí di settembre, dí determinato a dare principio al concilio pisano; nel quale dí i procuratori de' cardinali venuti a Pisa celebrorono in nome loro gli atti appartenenti ad aprirlo. Per il che il pontefice, sdegnato maravigliosamente co' fiorentini che avessino consentito che nel dominio loro si cominciasse il conciliabolo (il quale con questo nome sempre chiamava), dichiarò essere sottoposte allo interdetto ecclesiastico le città di Firenze e di Pisa, per vigore della bolla del concilio intimato da lui; nella quale si conteneva che qualunque favorisse il conciliabolo pisano fusse scomunicato e interdetto, e sottoposto a tutte le pene ordinate severamente dalle leggi contro agli scismatici ed eretici. E minacciando di assaltargli con l'armi, elesse il cardinale de' Medici legato di Perugia, e pochi dí poi, essendo morto il cardinale Regino legato di Bologna, lo trasferí a quella legazione; acciò che, essendo con tale autorità vicino ai confini loro lo emulo di quello stato, entrassino tra se medesimi in sospetto e in confusione: dandogli speranza, che tal cosa potesse facilmente succedere, le condizioni nelle quali era allora quella città.

                                                 Perché, oltre all'essere in alcuni il desiderio del ritorno della famiglia de' Medici, regnavano tra gli altri cittadini di maggiore momento le discordie e le divisioni, antica infermità di quella città, causate in questo tempo dalla grandezza e autorità del gonfaloniere; la quale alcuni per ambizione ed emulazione non potevano tollerare, altri erano malcontenti che egli, attribuendosi nella deliberazione delle cose forse piú che non si conveniva al suo grado, non lasciasse quella parte agli altri che meritavano le loro condizioni: dolendosi che il governo della città, ordinato nei due estremi, cioè nel capo publico e nel consiglio popolare, mancasse, secondo la retta instituzione delle republiche, di uno senato debitamente ordinato, per il quale, oltre a essere come temperamento tra l'uno e l'altro estremo, i cittadini principali e meglio qualificati degli altri ottenessino nella republica grado piú onorato; e che il gonfaloniere, eletto principalmente per ordinare questo, o per ambizione o per sospetto vano facesse il contrario. Il quale desiderio, se bene ragionevole non però di tanta importanza che dovesse voltare gli animi loro alle divisioni, perché eziandio senza questo ottenevano onesto luogo né, alla fine, senza loro si disponevano le cose publiche, fu origine e cagione principale de' mali gravissimi di quella città. Da questi fondamenti essendo nata la divisione tra i cittadini, e parendo agli emuli del gonfaloniere che egli e il cardinale di Volterra suo fratello avessino dependenza dal re di Francia e confidassino in quella amicizia, si opponevano quanto potevano a quelle deliberazioni che si avevano a fare in favore di quel re, desiderosi che il pontefice prevalesse. Da questo era ancora nato che il nome della famiglia de' Medici cominciava a essere manco esoso nella città; perché quegli ancora, emuli del gonfaloniere, che non desideravano il ritorno loro, cittadini di grande autorità, non concorrevano piú a perseguitargli, non a impedire (come altre volte si era fatto) la conversazione degli altri cittadini con loro, anzi dimostrando, per battere il gonfaloniere, di non essere alieni dalla amicizia loro facevano quasi ombra agli altri di desiderare la loro grandezza: dalla qual cosa nasceva che non solo quegli che veramente erano amici loro, che non erano di molto momento, entravano in speranza di cose nuove, ma ancora molti giovani nobili, stimolati o dalle troppe spese o da sdegni particolari o da cupidità di soprafare gli altri, appetivano la mutazione dello stato per mezzo del ritorno loro. E aveva con grande astuzia nutrito e augumentato piú anni questa disposizione il cardinale de' Medici; perché dopo la morte di Piero suo fratello, il cui nome era temuto e odiato, simulando di non si volere intromettere delle cose di Firenze né di aspirare alla grandezza antica de' suoi, aveva sempre con grandissime carezze ricevuto tutti i fiorentini che andavano a Roma e affaticatosi prontamente nelle faccende di tutti e, non meno degli altri, di quegli che si erano scoperti contro al fratello; trasferendo di tutto la colpa in lui, come se l'odio e l'offese fussino terminate con la sua morte: nel quale modo di procedere essendo continuato piú anni, e accompagnato dalla fama che aveva nella corte di Roma di essere, per natura, liberale ossequioso e benigno a ciascuno, era diventato in Firenze grato a molti. E però Giulio, desideroso di alterare quel governo, non imprudentemente lo propose a quella legazione.

                                                 Appellorono i fiorentini dallo interdetto, non nominando, per offendere meno, nella appellazione il concilio pisano ma solamente il sacro concilio della Chiesa universale; e come se per l'appellazione fusse sospeso l'effetto dello interdetto furono, per comandamento del supremo magistrato, astretti i sacerdoti di quattro chiese principali a celebrare publicamente nelle loro chiese gli offici divini: per il che si scopriva piú la divisione de' cittadini, perché, essendo rimesso nello arbitrio di ciascuno o osservare o sprezzare lo interdetto, regolava quasi ciascuno le cose spirituali secondo il giudicio o la passione che aveva nelle cose publiche e temporali.

                                                 Credette [il re di Francia] che il principiare del concilio facilitasse la concordia col pontefice, e perciò con instanza grande fu sollecitato da lui; ingannato in questo come in molte altre cose, perché e rendé il pontefice piú duro e ingelosí gli animi degli altri príncipi, ingelositi che alla fine non si creasse un pontefice ad arbitrio suo: dando, oltre a ciò, somma giustificazione; perché pareva gli movesse non gli odii e passioni particolari ma la causa dell'unione della Chiesa e l'onore della religione. Onde di nuovo feciono instanza gli imbasciadori de' re d'Aragona e d'Inghilterra, offerendogli la pace col pontefice, in caso si restituisse Bologna alla Chiesa e che i cardinali convenissino al concilio lateranense; a' quali offerivano che il papa perdonerebbe. Ma ritenendolo da consentire il rispetto di Bologna, rispose: che non difendeva una città contumace e rebelle della Chiesa, sotto il cui dominio e ubbidienza si reggeva come per moltissimi anni aveva fatto innanzi al pontificato di Giulio; il quale non doverrebbe ricercare piú della autorità con la quale l'aveano tenuta i suoi antecessori: medesimamente, il concilio pisano essere stato introdotto con onestissimo e santissimo proposito di riformare i disordini notori e intollerabili che erano nella Chiesa; alla quale, senza pericolo di scisma o di divisione, facilmente si restituirebbe l'antico splendore se il pontefice, come era giusto e conveniente, convenisse a quel concilio. Soggiugnendo, che la inquietudine sua e l'animo acceso alle guerre e agli scandoli aveva costretto lui a obligarsi alla protezione di Bologna; e però, per l'onore suo, non volere mancare altrimenti di difenderla che mancherebbe al difendere la città di Parigi.

                                                 Dunque il pontefice, rimossi tutti i pensieri dalla pace, per gli odii e appetiti antichi, per la cupidità di Bologna, per lo sdegno e timore del concilio e finalmente per sospetto, se differisse piú a deliberare, di essere abbandonato da tutti, perché già i soldati spagnuoli, dimostrando d'avere a passare in Affrica, cominciavano a Capri a imbarcarsi, deliberò di fare la confederazione trattata col re cattolico e col senato viniziano: la quale fu il quinto dí di ottobre publicata solennemente, presente il pontefice e tutti i cardinali, nella chiesa di Santa Maria del popolo. Contenne che si confederavano per conservare principalmente l'unione della Chiesa, e a estirpazione, per difenderla dallo scisma imminente, del conciliabolo pisano, e per la recuperazione della città di Bologna appartenente immediatamente alla sedia apostolica e di tutte l'altre terre e luoghi che mediatamente o immediatamente se gli appartenessino, sotto il qual senso si comprendeva Ferrara; e che contro a quegli che ad alcuna di queste cose si opponessino o che di impedirle tentassino (significavano queste parole il re di Francia), a cacciargli totalmente di Italia, con potente esercito si procedesse. Nel quale il pontefice tenesse [quattrocento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e semila fanti], tenessevi il senato viniziano [ottocento uomini d'arme mille cavalli leggieri e ottomila fanti], e il re d'Aragona mille dugento uomini d'arme mille cavalli leggieri e diecimila fanti spagnuoli; per sostentazione de' quali pagasse il pontefice, durante la guerra, ciascuno mese, ventimila ducati, e altrettanti ne pagasse il senato viniziano; numerando di presente lo stipendio per due mesi, intra i quali dovessino essere venuti in Romagna o dove convenissino i confederati. Armasse il re d'Aragona dodici galee sottili, quattordici n'armassino i viniziani; i quali nel tempo medesimo movessino la guerra nella Lombardia al re di Francia. Fusse capitano generale dell'esercito don Ramondo di Cardona, di patria catelano e allora viceré del reame di Napoli. Che acquistandosi terra alcuna in Lombardia che fusse stata de' viniziani, se n'osservasse la dichiarazione del pontefice; il quale incontinente, per scrittura fatta separatamente, dichiarò si restituissino a' viniziani. A Cesare fu riservata facoltà di entrare nella confederazione, e medesimamente al re di Inghilterra; a quello con incerta speranza d'averlo finalmente a separare dal re di Francia, a questo con espresso consentimento del cardinale eboracense, intervenuto continuamente a' trattamenti della lega. La quale come fu contratta, morí Ieronimo Donato oratore veneto, per la prudenza e desterità sua molto grato al pontefice, e perciò stato molto utile alla patria nella sua legazione.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.6

                                                  

                                                 Diversità di giudizi intorno alla politica del pontefice. Atti del pontefice contro a' cardinali dissidenti; sdegno suo contro Firenze e il Soderini. Orazione del Soderini perché si usino le entrate dei beni delle chiese se il pontefice muoverà guerra. Ragioni per cui si delibera di non assalire i fiorentini.

                                                  

                                                 Destò questa confederazione, fatta dal pontefice sotto nome di liberare Italia da' barbari, diverse interpretazioni negli animi degli uomini, secondo la diversità delle passioni e degli ingegni. Perché molti, presi dalla magnificenza e giocondità del nome, esaltavano con somme laudi insino al cielo cosí alto proposito, chiamandola professione veramente degna della maestà pontificale; né potere la grandezza dell'animo di Giulio avere assunto impresa piú generosa, né meno piena di prudenza che di magnanimità, avendo con la industria sua commosso l'armi de' barbari contro a' barbari; onde spargendosi contro a' franzesi piú il sangue degli stranieri che degli italiani, non solamente si perdonerebbe al sangue nostro, ma cacciata una delle parti sarebbe molto facile cacciare con l'armi italiane l'altra già indebolita ed enervata. Altri, considerando forse piú intrinsecamente la sostanza delle cose né si lasciando abbagliare gli occhi dallo splendore del nome, temevano che le guerre che si cominciavano con intenzione di liberare Italia da' barbari nocerebbono molto piú agli spiriti vitali di questo corpo che non aveano nociuto le cominciate con manifesta professione e certissima intenzione di soggiogarla; ed essere cosa piú temeraria che prudente lo sperare che l'armi italiane, prive di virtú, di disciplina, di riputazione, di capitani di autorità, né conformi le volontà de' príncipi suoi, fussino sufficienti a cacciare di Italia il vincitore; al quale quando mancassino tutti gli altri rimedi non mancherebbe mai la facoltà di riunirsi co' vinti a ruina comune di tutti gli italiani: ed essere molto piú da temere che questi nuovi movimenti dessino occasione di depredare Italia a nuove nazioni che da sperare che, per l'unione del pontefice e de' viniziani, s'avessino a domare i franzesi e gli spagnuoli. Avere da desiderare Italia che la discordia e consigli malsani de' nostri príncipi non avessino aperta la via d'entrarvi all'armi forestiere; ma che, poi che per la sua infelicità due de' membri piú nobili erano stati occupati dal re di Francia e dal re di Spagna, doversi riputare minore calamità che amendue vi rimanessino, insino a tanto che la pietà divina o la benignità della fortuna conducessino piú fondate occasioni (perché dal fare contrapeso l'un re all'altro si difendeva la libertà di quegli che ancora non servivano) che il venire tra loro medesimi alle armi; per le quali, mentre durava la guerra, si lacererebbono, con depredazioni con incendi con sangue e con accidenti miserabili, le parti ancora intere, e finalmente quel di loro che rimanesse vincitore l'affliggerebbe tutta con piú acerba e piú atroce servitú.

                                                 Ma il pontefice, il quale sentiva altrimenti, divenuti per la nuova confederazione gli spiriti suoi maggiori e piú ardenti, subito che passò il termine prefisso nel monitorio fatto prima a' cardinali autori del concilio, convocato con solennità grande il concistorio publico, sedendo nell'abito pontificale nella sala detta de' re, dichiarò i cardinali di Santa Croce, di San Malò, di Cosenza e quel [di] Baiosa essere caduti dalla degnità del cardinalato, e incorsi in tutte le pene alle quali sono sottoposti gli eretici e gli scismatici. Publicò, oltre a questo, uno monitorio sotto la forma medesima al cardinale di San Severino, il quale insino a quel dí, non avea molestato; e procedendo col medesimo ardore a' pensieri delle armi sollecitava continuamente la venuta degli spagnuoli, avendo nell'animo che innanzi a ogni altra cosa si movesse la guerra contro a' fiorentini, per indurre a' voti de' confederati quella republica, rimettendo al governo la famiglia de' Medici, né meno per saziare l'odio smisurato conceputo contro a Piero Soderini gonfaloniere, come se dalla autorità sua fusse proceduto che i fiorentini non si fussino mai voluti separare dal re di Francia e che dipoi avessino consentito che in Pisa si celebrasse il concilio. Della quale deliberazione penetrando molti indizi a Firenze, e facendosi per potere sostenere la guerra diverse preparazioni, fu trall'altre cose proposto essere molto conveniente che alla guerra mossa ingiustamente dalla Chiesa si resistesse colle entrate de' beni delle chiese, e perciò si astringessino gli ecclesiastici a pagare quantità grandissima di danari; ma con condizione che, deponendosi in luogo sicuro, non si spendessino se non in caso fusse mossa la guerra, e che cessato il timore che la dovesse essere mossa si restituissino a chi gli avesse pagati: alla qual cosa contradicevano molti cittadini, alcuni temendo di non incorrere nelle censure e nelle pene imposte dalle leggi canoniche contro a' violatori della libertà ecclesiastica, ma la maggiore parte di loro per impugnare le cose proposte dal gonfaloniere, dalla autorità del quale era manifesto procedere principalmente questo consiglio. Ma essendo, per la diligenza del gonfaloniere e per la inclinazione di molti altri, deliberata già ne' consigli piú stretti la nuova legge ordinata sopra questo, né mancando altro che l'approvazione del consiglio maggiore, il quale era convocato per questo effetto, il gonfaloniere parlò per la legge in questa sentenza:

                                                 - Niuno è che possa, prestantissimi cittadini, giustamente dubitare quale sia stata sempre contro alla vostra libertà la mente del pontefice, non solo per quel che ne apparisce di presente, d'averci tanto precipitosamente sottoposti allo interdetto, senza udire molte nostre verissime giustificazioni e la speranza che se gli dava di operare di maniera che dopo pochi dí si removesse il concilio da Pisa, ma molto piú per il discorso delle azioni continuate da lui in tutto il tempo del suo pontificato. Delle quali raccontando brevemente una parte (perché ridurle tutte alla memoria sarebbe cosa molto lunga) chi è che non sappia che nella guerra contro a' pisani non si potette ottenere da lui, benché molte volte ne lo supplicassimo, favore alcuno né palese né occulto? con tutto che e la giustizia della causa lo meritasse, e che lo spegnere quel fuoco, che non molti anni prima era stato materia di gravissime perturbazioni, appartenesse e alla sicurtà dello stato della Chiesa e alla quiete di tutta Italia; anzi, come insino allora si sospettò, e fu dopo la vittoria nostra piú certo sempre, quante volte ricorrevano a lui uomini de' pisani gli udiva benignamente e gli nutriva nella pertinacia loro con varie speranze: inclinazione in lui non nuova ma cominciata insino nel cardinalato; perché, come è noto a ciascuno di voi, levato che fu da Pisa il campo de' franzesi, procurò quanto potette appresso al re di Francia e il cardinale di Roano perché, esclusi noi, ricevessino in protezione i pisani. Pontefice, non concedette mai alla republica nostra alcuna di quelle grazie delle quali è solita a essere spesso liberale la sedia apostolica; perché in tante difficoltà e bisogni nostri non consentí mai che una volta sola ci aiutassimo delle entrate degli ecclesiastici (come piú volte aveva consentito Alessandro sesto, benché inimico tanto grande di questa republica) ma, dimostrando nelle cose minori l'animo medesimo che aveva nelle maggiori, ci negò ancora il trarre dal clero i danari per sostentare lo studio publico, benché fusse piccola quantità e continuata con la licenza di tanti pontefici, e che si convertiva in causa pietosa della dottrina e delle lettere. Quel che per Bartolomeo d'Alviano fu trattato col cardinale Ascanio in Roma non fu trattato senza consentimento del pontefice, come allora ne apparirono molti indizi, e tosto ne sarebbono appariti effetti manifesti se gli altri di maggiore potenza che vi intervenivano non si fussino ritirati per la morte improvisa del cardinale: ma benché, cessati i fondamenti primi non volle mai consentire a' giusti prieghi nostri di proibire all'Alviano che non adunasse o intrattenesse soldati nel territorio di Roma, ma proibí bene a' Colonnesi e a' Savelli, per mezzo de' quali aremmo con piccola spesa divertiti i nostri pericoli, che non assaltassino le terre di quegli che si preparavano per offenderci. Nelle cose di Siena, difendendo sempre Pandolfo Petrucci contro a noi, ci astrinse con minaccie a prolungare la tregua, né si interpose poi per altro, perché noi recuperassimo Montepulciano (per la difesa del quale avea mandato gente a Siena), se non per paura che l'esercito del re di Francia non fusse da noi chiamato in Toscana. Da noi, pel contrario, non gli era mai stata fatta offesa alcuna, ma proceduti sempre con la divozione conveniente verso la Chiesa, gratificato lui particolarmente in tutte le dimande che sono state in potestà nostra, concedutegli, senza alcuna obligazione anzi contro alla propria utilità, le genti d'arme alla impresa di Bologna; ma niuno officio niuno ossequio è bastato a placare la mente sua. Della quale sono molti altri segni, ma il piú potente quello, che per non parere traportato dallo sdegno e perché so essere nella memoria di ciascuno voglio tacitamente passare, d'avere prestato orecchie (voglio che le parole siano moderate) a quegli che gli offersono la morte mia; non per odio contro a me, dal quale mai avea ricevuta ingiuria alcuna, e che quando era cardinale m'avea sempre onoratamente raccolto, ma per il desiderio ardente che ha di privare voi della vostra libertà: perché avendo sempre cercato che questa republica aderisse alle sue immoderate e ingiuste volontà, fusse partecipe delle sue spese e de' suoi pericoli, né sperando dalla moderazione e maturità de' consigli vostri potere nascere imprudenti e precipitose deliberazioni, ha diritto il fine suo a procurare di introdurre in questa città una tirannide che dependa da lui, che non si consigli e governi secondo le vostre utilità ma secondo l'impeto delle sue cupidità; con le quali, tirato da fini smisurati, non pensa ad altro che a seminare guerre di guerre e a nutrire continuamente il fuoco nella cristianità. E chi è quello che possa dubitare che ora che seco si dimostrano congiunte sí potenti armi, che ora che signoreggia la Romagna, che gli ubbidiscono i sanesi (donde ha lo adito a penetrare insino nelle viscere nostre), che e' non abbi intenzione di assaltarci? che e' non sia per ingegnarsi apertamente di ottenere colle forze quel che già ha tentato occultamente colle insidie, e che con tanto ardore ha bramato sí lungamente? e tanto piú quanto piú fussimo mal preparati a difenderci. Ma quando niuna altra cosa il dimostrasse, non dimostra egli i pensieri suoi abbastanza d'avere diputato nuovamente legato di Bologna il cardinale de' Medici, con intenzione di proporlo all'esercito? cardinale non mai onorato o beneficato da lui, e nel quale non dimostrò mai alcuna confidenza. Che significa questo, altro che, dando autorità, accostando a' vostri confini anzi mettendo quasi in sul collo vostro, con tanta degnità con riputazione e con armi, quel che aspira a essere vostro tiranno, dare animo a' cittadini (se alcuni ne sono tanto pravi) che amino piú la tirannide che la libertà, e sollevare i sudditi vostri a questo nome? Per le quali cose questi miei onorevoli colleghi, e molti altri buoni e savi cittadini, hanno giudicato essere necessario che per difendere questa libertà si faccino i medesimi provedimenti che s'arebbono a fare se la guerra fusse certa; e se bene sia verisimile che il re di Francia, almeno per l'interesse proprio, ci aiuterà potentemente, non dobbiamo per questa speranza omettere i rimedi che sono in nostra potestà, né dimenticarci che facilmente molti impedimenti potrebbono sopravenire che ci priverebbono in qualche parte degli aiuti suoi. Non crediamo che alcuno nieghi che questo sia salutifero e necessario consiglio, e chi pure lo negasse potrebbe essere che altro lo movesse che 'l zelo del bene comune. Ma sono bene alcuni che allegano che, essendo noi incerti se il pontefice ha nell'animo di muoverci la guerra, è inutile deliberazione, offendendo l'autorità sua e gravando i beni ecclesiastici, dargli giusta cagione di sdegnarsi e provocarlo a farci quasi necessariamente la guerra: come se, per tanti e cosí evidenti segni e argomenti, non si comprendesse manifestamente quale sia la mente sua; o come se appartenesse a prudenti governatori delle republiche tardare a prepararsi dopo il principio dell'assalto, volere prima ricevere dall'inimico il colpo mortale che vestirsi dell'armi necessarie a difendersi. Altri dicono che, per non aggiugnere all'ira del pontefice l'ira divina, si debbe provedere alla salute nostra con altro modo, perché non è in noi quella necessità senza la quale è sempre proibito, con pene gravissime, dalle leggi canoniche, a' secolari, imporre gravezze a' beni o alle persone ecclesiastiche. È stata considerata questa ragione similmente da noi e dagli altri che hanno consigliato che si faccia questa legge: ma non bastando, come voi sapete, l'entrate publiche alle spese che occorreranno, ed essendo state sí lungamente e sí gravemente affaticate le borse vostre, ed essendo manifesto che nella guerra aranno a ogn'ora a essere di nuovo affaticate, chi è quello che non vegga essere molto conveniente e necessario che le spese che si faranno per difenderci dalla guerra mossa dalle persone ecclesiastiche si sostenghino in qualche parte co' danari delle persone ecclesiastiche? cosa molte altre volte usata nella nostra città e molto piú da tutti gli altri príncipi e republiche, ma non già mai, né qui né altrove, con maggiore moderazione e circospezione; poiché non s'hanno a spendere in altro uso, anzi s'hanno a depositare in luogo sicuro, per restituirgli, se il timore nostro sarà stato vano, a' religiosi medesimi. Se adunque il pontefice non ci moverà la guerra non spenderemo i danari degli ecclesiastici, né quanto allo effetto aremo imposto loro gravezza alcuna; se ce la moverà, chi si potrà lamentare che con tutti i modi a noi possibili ci difendiamo da una guerra tanto ingiusta? Che cagione gli dà questa republica, che per necessità non per volontà, come a lui è notissimo, ha tollerato che a Pisa si chiami il concilio, per la quale si possa dire che l'abbiamo provocato o irritato? se già non si dice provocare o irritare chi non porge il collo o il petto aperto allo assaltatore. Benché, non lo provoca o irrita chi si prepara a difendersi, chi si mette in ordine per resistere alla sua ingiusta violenza; ma lo provocheremmo o irriteremmo se non ci provedessimo, perché, per la speranza della facilità della impresa, diventerebbe maggiore lo impeto e l'ardore che ha di distruggere da' fondamenti la vostra libertà. Né vi ritenga il timore di offendere il nome divino; perché il pericolo è sí grave e sí evidente, e sono tali i bisogni e le necessità nostre (né si può in pregiudicio vostro trattare cosa di maggiore peso), che è permesso non solo l'aiutarsi con quella parte di queste entrate che non si converte in usi pii, anzi sarebbe lecito mettere mano alle cose sacre: perché la difesa è, secondo la legge della natura, comune a tutti gli uomini e approvata dal sommo Iddio e dal consentimento di tutte le nazioni; nata insieme col mondo e duratura quanto il mondo, e alla quale non possono derogare né le leggi civili né le canoniche fondate in su la volontà degli uomini, e le quali, scritte in sulle carte, non possono derogare a una legge non fatta dagli uomini ma dalla stessa natura, e scritta scolpita e infissa ne' petti e negli animi di tutta la generazione umana. Né si ha aspettare che noi siamo ridotti a estrema necessità, perché condotti in tale stato, e circondati e quasi oppressi dagli inimici, tardi ricorreremmo a' rimedi, tardi sarebbono gli antidoti, incarnato che fusse nel corpo nostro il veleno. Ma oltre a questo, come si può negare che ne' privati non sia gravissima necessità? quando le gravezze che si pongono ne costringono una grandissima parte a estremare di quelle spese senza le quali non possono vivere se non con grandissima incomodità, e con diminuire assai delle cose necessarie al grado loro. Questa è la necessità considerata dalle leggi, le quali non vogliono che si aspetti che i vostri cittadini siano ridotti al pericolo della fame e in termine che non possino sostentare piú né sé né le sue famiglie: e da altra parte, con questa imposizione, non si dà agli ecclesiastici alcuna incomodità, anzi si disagiano di quella parte delle entrate la quale o conserverebbeno inutilmente nella cassa o consumerebbeno in spese superflue, o forse molti di loro (siami perdonata questa parola) spenderebbeno in piaceri non convenienti e non onesti. È conclusione comune di tutti i savi che a Dio piaccino sommamente le libertà delle città, perché in quelle piú che in altra specie di governi si conserva il bene comune, amministrasi piú senza distinzione la giustizia, accendonsi piú gli animi de' cittadini all'opere virtuose e onorate, e si ha piú rispetto e osservanza alla religione. E voi credete che gli abbia a dispiacere che per difendere cosa sí preziosa, per la quale chi sparge il proprio sangue è laudato sommamente, vi vagliate d'una piccola parte di frutti e di entrate di cose temporali? le quali benché dedicate alle chiese sono però pervenute tutte in quelle dalle elemosine dalle donazioni e da' lasci de' nostri maggiori; e le quali si spenderanno non meno in conservazione e per salute delle chiese, sottoposte nelle guerre non altrimenti che le cose secolari alla crudeltà e avarizia de' soldati, e che non saranno piú riguardate in una guerra fatta dal pontefice che sarebbeno in una guerra fatta da qualunque empio tiranno o da' turchi. Aiutate, mentre che voi potete, cittadini, la vostra patria e la vostra libertà; e vi persuadete non potere fare cosa alcuna piú grata e piú accetta al sommo Iddio, e che a rimuovere la guerra dalle case dalle possessioni da i tempii, e da i monasteri vostri non è migliore rimedio che fare conoscere, a chi pensa di offendervi, che voi siete determinati di non pretermettere cosa alcuna per difendervi. -

                                                 Udito il parlare del gonfaloniere non fu difficoltà alcuna che la legge proposta non fusse approvata dal consiglio maggiore. Dalla qual cosa benché crescesse sopra modo la indignazione del pontefice e si concitasse tanto piú al disporre i confederati a rompere la guerra a' fiorentini, nondimeno rimossono da questa sentenza e lui e quegli che in Italia trattavano per il re d'Aragona le persuasioni di Pandolfo Petrucci; il quale, confortando che si assaltasse Bologna, detestava il muovere la guerra in Toscana: allegando che Bologna, impotente per se medesima a difendersi, sarebbe solamente difesa dalle forze del re di Francia; ma per i fiorentini resisterebbe e la potenza di loro medesimi e, per l'utilità propria non meno che per Bologna, il medesimo re. I fiorentini, se bene inclinati con l'animo al re di Francia, nondimeno prudenti e gelosi della conservazione dello stato loro, non avere in tanti moti a instanza sua offeso alcuno coll'armi, né gli essere stati utili in altro che in accomodarlo, per difesa dello stato di Lombardia, di dugento uomini d'arme, per gli oblighi della capitolazione fatta comunemente col re cattolico e con lui: non potersi fare cosa piú grata né piú utile al re di Francia che necessitare i fiorentini a partirsi dalla neutralità, e fare diventare la causa loro comune con la causa sua; ed essere grande imprudenza, avendo invano il re astrettigli con molti prieghi e promesse che si dichiarino per lui, che gli inimici suoi sieno cagione di fargli conseguire quello che con l'autorità sua non avesse potuto ottenere: comprendersi da ciascuno per molti segni, ma averne egli certissima notizia, che a' fiorentini era molestissimo che il concilio si celebrasse in Pisa, né averlo consentito per altro che per non avere avuto ardire di repugnare alle dimande del re di Francia, fatte subito dopo la rebellione di Bologna e quando non si vedevano armi opposite in Italia; e che era certo concorrere al concilio l'autorità di Cesare, e si credeva che anche vi fusse il consentimento del re cattolico: sapere egli medesimamente che i fiorentini non erano per tollerare che nel dominio loro si fermassino soldati franzesi, ed essere cosa molto perniciosa il minacciargli o l'aspreggiargli, anzi per il contrario essere utilissimo il trattare con mansuetudine e con dimostrazione di ammettere le loro scuse; perché cosí procedendo o si otterrebbe da loro, col tempo o con qualche occasione, quel che ora non si poteva sperare, o almeno, non gli costringendo a fare per timore nuove deliberazioni, si addormenterebbono in modo che ne' tempi pericolosi non nocerebbeno, e ottenendosi la vittoria sarebbe in potestà de' confederati dare quella forma al governo de' fiorentini che piú giudicassino espediente. Diminuiva in questa causa l'autorità di Pandolfo il conoscersi che per l'utilità propria desiderava che nella Toscana non si incominciasse una guerra tanto grave, per la quale o dagli eserciti amici o dagli inimici sarebbono parimenti distrutti i paesi di tutti; ma parveno tanto efficaci le sue ragioni che facilmente si deliberò di non assaltare i fiorentini. Il quale consiglio fece riputare migliore la contenzione che, non molti dí poi, cominciò tra' fiorentini e i cardinali.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.7

                                                  

                                                 I fiorentini vietano l'ingresso in Toscana e in Pisa alle milizie francesi al seguito de' cardinali del concilio. Avversione al concilio del popolo e dei sacerdoti pisani; per un tumulto i cardinali deliberano di trasferire il concilio a Milano. Avversione al concilio anche del popolo milanese. Freddezza di Massimiliano riguardo al concilio e suo contegno ambiguo di fronte alle questioni politiche. Condizioni difficili del re di Francia per la politica degli altri sovrani e del pontefice.

                                                  

                                                 Non erano, come è detto di sopra, intervenuti i cardinali a' primi atti del concilio; perché si erano fermati al Borgo a San Donnino, o per aspettare i prelati che venivano di Francia o quegli che aveva promesso di mandare il re de' romani, o per altre cagioni: onde essendo partiti per diverse vie, si sparse fama che i due spagnuoli, i quali aveano preso il cammino di Bologna, si riconcilierebbono col pontefice; perché continuamente trattavano collo imbasciadore del re d'Aragona che dimorava appresso al pontefice, e perché aveano dimandato e ottenuto da' fiorentini la fede publica di potere sicuramente fermarsi in Firenze. Ma arrivati nel paese di Mugello si voltorno improvisamente verso Lucca per congiugnersi con gli altri, o perché veramente avessino avuto sempre cosí nell'animo o perché nel cardinale di Santa Croce potesse piú finalmente l'antica ambizione che il nuovo timore, o perché, avendo ricevuto in quel luogo l'avviso di essere stati privati, si disperassino di potere piú essere concordi col pontefice. Passavano nel tempo medesimo l'Apennino i tre cardinali franzesi, San Malò, Alibret e Baiosa, per la via di Pontriemoli; e con loro i prelati di Francia: dietro a' quali partivano di Lombardia, per richiesta fatta da loro, trecento lancie franzesi sotto il governo di Odetto di Fois signore di Lautrech deputato da' cardinali custode del concilio, o perché giudicassino pericoloso lo stare in Pisa senza presidio tale o perché il concilio, accompagnato dall'armi del re di Francia, procedesse con maggiore autorità o veramente (come dicevano) per avere possanza di raffrenare qualunque ardisse di contraffare o di non ubbidire a' decreti loro. Ma i fiorentini, come intesono questa deliberazione, la quale insino che le genti cominciorno a muoversi era stata loro celata, deliberorno non ricevere in quella città, tanto importante, tal numero di soldati: considerando la mala disposizione de' pisani, ricordandosi che la ribellione passata era proceduta alla presenza e permettendola il re Carlo, e della inclinazione che al nome pisano avevano avuta i soldati franzesi, e dubitando oltre a questo che per la insolenza militare potesse nascervi qualche accidente pericoloso; ma molto piú temendo che se l'armi del re di Francia venivano a Pisa non ne nascesse (e forse secondo il desiderio occulto del re) che la Toscana diventasse la sedia della guerra. Perciò significorno, nel tempo medesimo: al re, essere difficile l'alloggiarle per la strettezza e sterilità del paese, incomodo non che altro a pascere la moltitudine che conveniva al concilio, né essere necessario, perché Pisa era talmente retta e custodita da loro che i cardinali potevano, senza pericolo o di insulti forestieri o di opposizione di quegli di dentro, sicurissimamente dimorarvi; e al cardinale di San Malò, colla cui volontà si reggevano in queste cose i franzesi, che aveano deliberato di non ammettere in Pisa soldati. Il quale, dimostrando colle parole di consentire, ordinava da altra parte che le genti, separatamente e con minore dimostrazione che si poteva, procedessino innanzi; persuadendosi che approssimate a Pisa vi entrerebbono, o con la violenza o con arti o perché i fiorentini non ardirebbono, con tanta ingiuria del re, di proibirlo. Ma avendo il re risposto apertamente essere contento non vi venissino e da altra parte non lo vietando, i fiorentini mandorno al cardinale di San Malò, con imbasciata pari alla sua superbia, Francesco Vettori, a certificarlo che se i cardinali entravano con l'armi nel dominio loro non solo non gli ammetterebbono in Pisa ma gli perseguiterebbono come inimici: il medesimo, se le genti d'arme passavano l'Apennino verso Toscana, perché presumerebbono non passassino per altro che per entrare poi occultamente o con qualche fraude in Pisa. Dalla quale proposta commosso il cardinale, ordinò che le genti ritornassino di là dallo Apennino; consentendogli i fiorentini che con lui rimanessino, oltre alle persone di Lautrech e di Ciattiglione, cento cinquanta arcieri.

                                                 Convennonsi tutti i cardinali a Lucca, la quale città il pontefice per questa cagione dichiarò incorsa nello interdetto; ove lasciato infermo il Cosentino, che pochi dí poi vidde l'ultimo suo dí, andorno gli altri quattro a Pisa; non ricevuti né con lieti animi de' magistrati né con riverenza o divozione della moltitudine, perché a fiorentini era molestissima la loro venuta, né accetta o di estimazione alcuna appresso a' popoli cristiani la causa del concilio. Perché, con tutto che il titolo di riformare la Chiesa fusse onestissimo e di grandissima utilità, anzi a tutta la cristianità non meno necessario che grato, nondimeno a ciascuno appariva gli autori muoversi da fini ambiziosi e involti nelle cupidità delle cose temporali, e sotto colore del bene universale contendersi degli interessi particolari, e che a qualunque di essi pervenisse il pontificato non arebbono minore bisogno di essere riformati che avessino coloro i quali si trattava di riformare; e che, oltre alla ambizione de' sacerdoti, aveano suscitato e nutrivano il concilio le quistioni de' príncipi e degli stati: queste avere mosso il re di Francia a procurarlo, queste il re de' romani a consentirlo, queste il re d'Aragona a impugnarlo. Dunque, comprendendosi chiaramente che con la causa del concilio era congiunta principalmente la causa dell'armi e degli imperi, aveano i popoli in orrore che sotto pietosi titoli di cose spirituali si procurassino, per mezzo delle guerre e degli scandoli, le cose temporali. Però, non solamente nello entrare in Pisa i cardinali apparí manifestamente l'odio e il dispregio comune ma piú manifestamente negli atti conciliari. Perché avendo convocato il clero a intervenire nella chiesa cattedrale alla prima sessione, niuno religioso volle intervenirvi; e i sacerdoti propri di quella chiesa, volendo essi, secondo il rito de' concili, celebrare la messa per la quale si implora il lume dello Spirito Santo, recusorno di prestare loro i paramenti; e procedendo poi a maggiore audacia, serrate le porte del tempio, si opposono perché non vi entrassino. Delle quali cose essendosi querelati i cardinali a Firenze, fu comandato che non si negassino loro né le chiese né gli instrumenti ordinati a celebrare gli offici divini ma che non si costrignesse il clero a intervenirvi; procedendo queste deliberazioni, quasi repugnanti a se stesse, dalle divisioni de' cittadini: per le quali, ricettando da una parte nelle terre loro il concilio dall'altra lasciandolo vilipendere, si offendeva in un tempo medesimo il pontefice e si dispiaceva al re di Francia. Però i cardinali, giudicando lo stare in Pisa senza armi non essere senza pericolo, e conoscendo diminuirsi, in una città che non ubbidiva a' decreti loro, l'autorità del concilio, inclinavano a partirsene come prima avessino indirizzate le cose. Ma gli costrinse ad accelerare un caso, il quale benché fusse fortuito ebbe perciò il fondamento dalla mala disposizione degli uomini. Perché avendo un soldato franzese fatto a una meretrice certa insolenza nel luogo publico, e avendo i circostanti cominciato a esclamare, concorsono al romore coll'armi molti franzesi, cosí soldati come familiari de' cardinali e degli altri prelati; e vi concorsono da altra parte similmente molti del popolo pisano e de' soldati de' fiorentini: e gridandosi per quegli il nome di Francia, per questi quello di Marzocco (segno della republica fiorentina), cominciò tra loro uno furioso assalto; ma concorrendovi i capitani franzesi e i capitani de' fiorentini fu alla fine sedato il tumulto, essendo già feriti molti di amendue le parti; e tra gli altri Ciattiglione, corso nel principio senza arme per ovviare allo scandolo, e similmente Lautrech concorsovi per la medesima cagione, benché l'uno e l'altro ferito leggiermente. Ma questo accidente empié di tanto spavento i cardinali, congregati per sorte all'ora medesima nella chiesa quivi vicina di San Michele, che fatta il dí seguente la [seconda] sessione, nella quale statuirno che il concilio si trasferisse a Milano, si partirno con grandissima celerità, innanzi al quintodecimo dí della venuta loro: con somma letizia de' fiorentini e de' pisani, ma non meno essendone lieti i prelati che seguitavano il concilio; a' quali era molesto essere venuti in luogo che, per la mala qualità degli edifici e per molte altre incomodità procedute dalla lunga guerra, non era atto alla vita dilicata e copiosa de' sacerdoti e de' franzesi, e molto piú perché, essendo venuti per comandamento del re contro alla propria volontà, desideravano mutazione di luogo e qualunque accidente per difficultare, allungare o dissolvere il concilio.

                                                 Ma a Milano i cardinali, seguitando per tutto il dispregio e l'odio de' popoli, arebbono avute le medesime o maggiori difficoltà: perché il clero milanese, come se in quella città fussino entrati non cardinali della Chiesa romana, soliti a essere onorati e quasi adorati per tutto, ma persone profane ed esecrabili, si astenne subitamente da se stesso dal celebrare gli offici divini; e la moltitudine, quando apparivano in publico, gli maladiceva gli scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi, e sopra gli altri il cardinale di Santa Croce riputato autore di questa cosa, e che era piú negli occhi degli uomini perché nell'ultima sessione pisana l'avevano eletto presidente del concilio. Sentivansi per tutte le strade i mormorii della plebe: solere i concili addurre benedizioni pace concordia; questo addurre maladizioni guerre discordie; solersi congregare gli altri concili per riunire la Chiesa disunita, questo essere congregato per disunirla quando era unita; vulgarsi la contagione di questa peste in tutti che gli ricevevano che gli ubbidivano che gli favorivano che in qualunque modo con essi conversavano, che gli udivano o che gli guardavano; né si potere dalla venuta loro aspettare altro che sangue che fame che pestilenza che, finalmente, perdizione de' corpi e dell'anime. Raffrenò queste voci già quasi tumultuose Gastone di Fois, il quale, pochi mesi innanzi alla partita di Longavilla, era stato preposto dal re al ducato di Milano e all'esercito; perché con gravissimi comandamenti costrinse il clero a riassumere la celebrazione degli uffici, e il popolo a parlare in futuro modestamente.

                                                 Procedevano per queste difficoltà poco felicemente i princípi del concilio. Ma turbava molto piú le speranze de' cardinali, che Cesare, differendo di giorno in giorno, non mandava né prelati né procuratori; con tutto che, oltre a tante promesse fatte prima, avesse affermato al cardinale di San Severino, e continuamente affermasse al re di Francia, volergli mandare: anzi, nel tempo medesimo, o allegando per scusa, o essendone fatto capace da altri, non essere secondo la sua degnità mandare al concilio pisano i prelati degli stati propri se il medesimo non si faceva in nome di tutta la nazione germanica, aveva convocati in Augusta i prelati di Germania per deliberare come nelle cose di quel concilio si dovesse comunemente procedere; affermando però a' franzesi che con questo mezzo gli condurrebbe tutti a mandarvi. Tormentava anche l'animo del re colla varietà del suo procedere: perché, oltre alla freddezza dimostrata nelle cose del concilio, prestava apertamente l'orecchie alla concordia co' viniziani, trattata con molte offerte dal pontefice e dal re di Aragona; da altra parte, lamentandosi del re cattolico che non si fusse vergognato di contravenire sí apertamente alla lega di Cambrai, e che in questa nuova non confederazione ma prodizione l'avesse nominato come accessorio, proponeva a Galeazzo da San Severino d'andare a Roma personalmente come inimico del pontefice, ma somministrandogli il re parte del suo esercito e quantità grandissima di danari: e nondimeno non proponendo queste cose con tale fermezza che e' non fusse dubbio quel che, sodisfatto eziandio di tutte le sue dimande, avesse finalmente a deliberare.

                                                 Dunque, nel petto del re combattevano le consuete sospensioni: che Cesare abbandonato da lui si unirebbe con gli inimici; a sostentarlo, si comperava la sua congiunzione con prezzo smisurato il quale non si sapeva che frutto avesse a partorire, conoscendosi, per l'esperienza del passato, che spesso gli nocevano piú i propri disordini che giovassino le forze, né sapendo il re in se medesimo determinarsi quali gli avessino piú a nuocere in questo tempo, o i successi prosperi o gli avversi di Cesare. Aiutava quanto poteva la sua sospensione il re cattolico; dando speranza, per farlo procedere piú lentamente a' provedimenti della guerra, che l'armi non si moverebbono: simile officio, e per simili cagioni, faceva il re di Inghilterra; il quale aveva risposto all'oratore del re di Francia non essere vero che avesse consentito alla lega fatta a Roma, e che era disposto di conservare la confederazione fatta con lui: e nel tempo medesimo il vescovo di Tivoli proponeva in nome del pontefice la pace, purché il re non favorisse piú il concilio e si rimovesse dalla protezione di Bologna; offerendo d'assicurarlo che il pontefice non tenterebbe poi cose nuove contro a lui. Dispiaceva meno al re la pace, eziandio con inique condizioni, che il sottomettersi a' pericoli della guerra e alle spese che, avendo a resistere agli inimici e a sostentare Cesare, si dimostravano quasi infinite: nondimeno lo moveva lo sdegno di essere quasi sforzato dal re d'Aragona col terrore dell'armi a fare questo; il potersi molto difficilmente assicurare che il papa, ricuperata Bologna e liberato dal timore del concilio, osservasse la pace; e il dubbio che, quando pure si dimostrasse apparecchiato a consentire alle condizioni proposte, il pontefice non se ne ritraesse, come altre volte avea fatto: onde, offesa la sua degnità e la riputazione diminuita, Cesare si riputasse ingiuriato che, lasciato lui nella guerra co' viniziani, avesse voluto conchiudere la pace per sé solo. Però rispose precisamente al vescovo di Tivoli non volere consentire che Bologna stesse sotto la Chiesa se non nel modo che anticamente soleva stare; e nel tempo medesimo, per fare ferma determinazione con Cesare, che era a Brunech terra non molto distante da Trento, mandò a lui con ampie offerte e con celerità grandissima Andrea de Burgo cremonese, oratore cesareo appresso a sé: nel qual tempo alcuni de' suoi sudditi del contado di Tiruolo occuporno Butisten, castello molto forte all'entrata di Valdicaldora.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.8

                                                  

                                                 Disegni del re di Francia dopo l'interruzione delle pratiche di pace. Notizie intorno agli svizzeri. Gli svizzeri entrano nel ducato di Milano. Ne escono, dopo poco, con sorpresa generale. Il re di Francia chiede a' fiorentini che concorrano con aiuti alla guerra. Contrastanti opinioni in Firenze. Il Guicciardini inviato come ambasciatore al re d'Aragona.

                                                  

                                                 Interrotte del tutto le pratiche della pace, furno i primi pensieri del re che, come la Palissa, il quale [avea] lasciati in Verona tremila fanti per mitigare Cesare sdegnato della partita sua, avesse ricondotto il resto delle [genti] nel ducato di Milano, che soldati nuovi fanti e raccolto insieme tutto l'esercito si assaltasse la Romagna; sperando, innanzi che gli spagnuoli vi si fussero approssimati, occuparla o in tutto o in parte, e dipoi o procedere piú oltre secondo l'occasioni o sostenere la guerra nel territorio d'altri insino alla primavera: al qual tempo, passando in Italia personalmente con tutte le forze del suo regno, sperava dovere essere per tutto superiore agli inimici. Le quali cose mentre che disegna, procedendo piú lente le deliberazioni che per avventura non comportavano l'occasioni, e ritraendo il re da molti provedimenti e specialmente da soldare di nuovo fanti l'essere per natura alienissimo dallo spendere, sopravenne sospetto che i svizzeri non si movessino. Della quale nazione perché sparsamente in molti luoghi si è fatta menzione, pare molto a proposito e quasi necessario particolarmente trattarne.

                                                 Sono i svizzeri quegli medesimi che dagli antichi si chiamavano elvezi, generazione che abita nelle montagne piú alte [di Giura, dette di San Claudio, in quelle di Briga e di San Gottardo], uomini per natura feroci, rusticani, e per la sterilità del paese piú tosto pastori che agricultori. Furono già dominati da' duchi di Austria; da' quali ribellatisi, già è grandissimo tempo, si reggono per loro medesimi, non facendo segno alcuno di ricognizione né agli imperadori né ad altri príncipi. Sono divisi in tredici popolazioni: essi le chiamano cantoni; ciascuno di questi si regge con magistrati, leggi e ordini propri. Fanno ogni anno, o piú spesso secondo che accade di bisogno, consulta delle cose universali; congregandosi nel luogo il quale, ora uno ora altro, eleggono i deputati da ciascuno cantone: chiamano, secondo l'uso di Germania, queste congregazioni diete; nelle quali si delibera sopra le guerre le paci le confederazioni, sopra le dimande di chi fa instanza che gli sia conceduto, per decreto publico, soldati o permesso a' volontari di andarvi; e sopra le cose attenenti allo interesse di tutti. Quando per publico decreto concedono soldati, eleggono i cantoni medesimi tra loro uno capitano generale di tutti, al quale con le insegne e in nome publico si dà la bandiera. Ha fatto grande il nome di questa gente, tanto orrida e inculta, l'unione e la gloria dell'armi, con le quali, per la ferocia naturale e per la disciplina dell'ordinanze, non solamente hanno sempre valorosamente difeso il paese loro ma esercitato fuori del paese la milizia con somma laude: la quale sarebbe stata senza comparazione maggiore se l'avessino esercitata per lo imperio proprio e non agli stipendi e per propagare lo imperio di altri, e se piú generosi fini avessino avuto innanzi agli occhi, a' tempi nostri, che lo studio della pecunia; dall'amore della quale corrotti hanno perduta l'occasione di essere formidabili a tutta Italia, perché non uscendo del paese se non come soldati mercenari non hanno riportato frutto publico delle vittorie, assuefattisi, per la cupidità del guadagno, a essere negli eserciti, con taglie ingorde e con nuove dimande, quasi intollerabili, e oltre a questo, nel conversare e nell'ubbidire a chi gli paga, molto fastidiosi e contumaci. In casa, i principali non si astengono da ricevere doni e pensioni da' príncipi per favorire e seguitare nelle consulte le parti loro: per il che, riferendosi le cose publiche all'utilità private e fattisi vendibili e corruttibili, sono tra loro medesimi sottentrate le discordie; donde, cominciandosi a non essere seguitato da tutti quel che nelle diete approvava la maggiore parte dei cantoni, sono ultimatamente, pochi anni innanzi a questo tempo, venuti tra loro medesimi a manifesta guerra, con somma diminuzione dell'autorità che avevano per tutto. Piú basse di queste sono alcune terre e villaggi chiamati vallesi perché abitano nelle valli, inferiori molto di numero, di autorità publica e di virtú, perché a giudicio di tutti non sono feroci come i svizzeri. E un'altra generazione piú bassa di queste due, chiamonsi grigioni, che si reggono per tre cantoni, e però detti signori delle tre leghe: la terra principale del paese si dice Coira; sono spesso confederati de' svizzeri, e con loro insieme vanno alla guerra e si reggono quasi co' medesimi ordini e costumi; anteposti nell'armi a' vallesi ma non eguali a' svizzeri né di numero né di virtú.

                                                 I svizzeri adunque, in questo tempo non degenerati ancora tanto né corrotti come poi sono stati, essendo stimolati dal pontefice, si preparavano per scendere nel ducato di Milano; dissimulando che questo movimento procedesse dalla università de' cantoni, ma dando voce ne fussino autori il cantone di Svit e quello di Friborgo, il primo perché si querelava che uno suo corriere passando per lo stato di Milano era stato ammazzato da' soldati franzesi, questo perché pretendeva avere ricevuto ingiurie particolari. I consigli de' quali e publicamente di tutta la nazione benché prima fussino pervenuti all'orecchie del re non l'aveano però mosso a convenire con loro, come i suoi assiduamente lo confortavano e come gli amici che aveva tra loro gli davano speranza potersi ottenere; ritenendolo la solita difficoltà di non accrescere ventimila franchi (sono questi poco piú o meno di diecimila ducati) alle pensioni antiche, e cosí ricusando per minimo prezzo quella amicizia che poi molte volte con tesoro inestimabile arebbe comperata; persuadendosi che o non si moverebbono o che, movendosi potrebbono poco nuocergli, perché soliti a esercitare la milizia a piede non avevano cavalli, e perché non avevano artiglierie: essere oltre a questo in quella stagione (già era entrato il mese di novembre) i fiumi grossi, mancare a essi i ponti e le navi, le vettovaglie del ducato di Milano ridotte per comandamento di Gastone di Fois ne' luoghi forti, bene custodite le terre vicine, e potersi opporre loro alla pianura le genti d'arme; per i quali impedimenti essere necessario che, movendosi, fussino necessitati in ispazio di pochi dí a ritornarsene. E nondimeno i svizzeri, non gli spaventando queste difficoltà, erano cominciati a scendere a Varese, nel qual luogo continuamente augumentavano; avendo seco sette pezzi d'artiglieria da campagna e molti archibusi portati da' cavalli, e medesimamente non al tutto senza apparecchio di vettovaglie. La venuta de' quali faceva molto piú timorosa che, essendo i soldati franzesi divenuti piú licenziosi che 'l solito, cominciava a essere a' popoli non mediocremente grave lo imperio loro; perché il re, astretto dalla avarizia, non aveva consentito che si facesse provedimento di fanti; né le genti d'arme che allora erano in Italia, secondo il numero vero, mille trecento lancie e dugento gentiluomini, potevano tutte opporsi a' svizzeri, essendone una parte alla guardia di Verona e di Brescia, e avendo Fois mandato di nuovo a Bologna dugento lancie, per la venuta del cardinale de' Medici e di Marcantonio Colonna a Faenza: ove, se bene non avessino fanti pagati, nondimeno per le divisioni della città, e perché in quelli dí il castellano della rocca di Sassiglione, castello della montagna di Bologna, l'aveva spontaneamente dato al legato, era paruto necessario mandarvi questo presidio. Da Varese mandorno i svizzeri per uno trombetto a diffidare il luogotenente regio: il quale avendo seco poca gente d'arme, perché non aveva avuto tempo a raccorle, né piú che dumila fanti, né si risolvendo ancora per non dispiacere al re a soldarne di nuovo, era venuto ad Assaron, terra distante tredici miglia da Milano, non con intenzione di combattere ma di andargli costeggiando per impedire loro le vettovaglie; nella qual cosa solo rimaneva la speranza del ritenergli, non essendo tra Varese e Milano né fiumi difficili a passare né terre atte a essere difese. Da Varese vennono i svizzeri a Galera, essendo già augumentati insino al numero di diecimila; e Gastone, il quale seguitava Gianiacopo da Triulzi, si pose a Lignano distante quattro miglia da Galera: dalle quali cose impauriti i milanesi soldavano fanti a spese proprie per guardia della città, e Teodoro da Triulzi faceva fortificare i bastioni e, come se l'esercito avesse a ritirarsi in Milano, fare le spianate dalla parte di dentro, intorno a' ripari che cingono i borghi, perché i cavalli potessino adoperarsi. Presentossi nondimeno Gastone di Fois, con cui erano cinquecento lancie e dugento gentiluomini del re e con molta artiglieria, innanzi alla terra di Galera; all'apparire de' quali i svizzeri uscirono ordinati in battaglia: nondimeno, non volendo insino non erano maggiore numero combattere in luogo aperto, ritornorno presto dentro. Cresceva intratanto continuamente il numero loro; per il quale deliberati di non ricusare piú di combattere vennono a Busti, nella quale terra erano alloggiate cento lancie, che a fatica salvorno sé, perduti i carriaggi con parte de' cavalli. Alla fine i franzesi, ritirandosi sempre che essi procedevano innanzi, si ridussono ne' borghi di Milano; essendo incerti gli uomini se volessino fermarsi a difendergli, perché altro sonavano le loro parole altro dimostrava il fornire sollecitamente il castello di vettovaglie. Approssimoronsi dipoi i svizzeri a' sobborghi a due miglia; ma vi era già molto allentato il timore, perché continuamente sopravenivano le genti d'arme richiamate a Milano e similmente molti fanti che si soldavano, e d'ora in ora si aspettavano Molard co' fanti guasconi e Iacob co' fanti tedeschi, richiamati l'uno da Verona l'altro da Carpi. E in questo tempo furno intercette lettere de' svizzeri a' loro signori. Significavano essere debole l'opposizione de' franzesi, maravigliavansi non avere ricevuto dal pontefice messo alcuno né sapere quel che facesse l'esercito de' viniziani; e nondimeno, che procedevano secondo che si era destinato.

                                                 Erano già in numero sedicimila e si voltorno verso Moncia, la quale non tentato di occupare ma standosi piú verso il fiume dell'Adda, davano timore a' franzesi di volere tentare di passarlo; però gittavano il ponte a Casciano, per impedire loro il transito con l'opportunità della terra e del ponte. Dove mentre stanno, venne, impetrato prima salvocondotto, uno capitano de' svizzeri a Milano, il quale dimandò lo stipendio di uno mese per tutti i fanti, offerendo di ritornarsene al paese loro; ma partito senza conclusione, per essergli offerta somma molto minore, tornò il seguente dí con dimande piú alte, e ancora che gli fussino fatte offerte maggiori che 'l dí dinanzi, nondimeno, ritornato a suoi, rimandò subito indietro uno trombetto a significare che non voleano piú la concordia: e l'altro dí dipoi, mossi contro all'espettazione di tutti verso Como, se ne tornorno alla patria; lasciando liberi i giudíci degli uomini se fussino scesi per assaltare lo stato di Milano o per passare in altro luogo, e per quale cagione non soprafatti ancora da alcuna evidente difficoltà fussino tornati indietro, o perché volendo ritornarsene non avessino accettato i danari, avendone massime dimandati. Come si sia, è manifesto che mentre si ritiravano sopravenneno due messi del pontefice e de' viniziani, i quali si divulgò che se fussino arrivati prima non si sarebbeno i svizzeri partiti. Né si dubita, che se nel tempo medesimo che entrorono nel ducato di Milano fussino stati gli spagnuoli vicini a Bologna, che le cose de' franzesi, non potendo resistere da tante parti, sarebbono andate senza indugio in manifesta perdizione.

                                                 Il quale pericolo gustando il re per l'esperienza, che prima non l'aveva antiveduto con la ragione, commesse, innanzi sapesse la ritirata loro, a Fois che per concordargli non perdonasse a quantità alcuna di danari; né dubitando piú, quando bene i svizzeri componessino, d'avere a essere assaltato potentemente, comandò a tutte le genti d'arme che aveva in Francia che passassino i monti, eccetto dugento lancie le quali si riservò nella Piccardia; e vi mandò, oltre a questo, nuovo supplemento di fanti guasconi, e a Fois comandò che riempiesse l'esercito di fanti italiani e tedeschi. Ricercò ancora con instanza grande i fiorentini, gli aiuti de' quali erano di momento grande, per l'aversi a fare la guerra ne' luoghi vicini e per l'opportunità di turbare da' confini loro lo stato ecclesiastico e interrompere le vettovaglie e l'altre comodità all'esercito degli inimici, se si accostava a Bologna, che scopertamente e con tutte le forze loro concorressino seco alla guerra; ricercando la necessità delle cose presenti altro che aiuti piccoli o limitati o che si contenessino dentro a' termini delle confederazioni, né potere mai avere maggiore occasione d'obligarsi sé, né fare mai beneficio piú preclaro e del quale si distendesse piú la memoria in perpetuo a' suoi successori: senza che, se bene consideravano, difendendo e aiutando lui difendevano e aiutavano la causa propria, perché potevano essere certi quanto fusse grande l'odio del papa contro a loro, quanta fusse la cupidità del re cattolico di fermare in quella città uno stato dependente interamente da sé.

                                                 Ma a Firenze sentivano diversamente. Molti, acciecati dalla dolcezza del non spendere di presente, non consideravano quel che potesse portare seco il tempo futuro; in altri poteva la memoria che mai dal re né da Carlo suo precessore fusse stata riconosciuta la fede e l'opere di quella republica, e l'avere con prezzo grande venduto loro il non impedire che recuperassino Pisa: col quale esempio non potersi confidare delle promesse e offerte sue, né che per qualunque beneficio gli facessino non si troverebbe in lui gratitudine alcuna; e perciò essere non piccola temerità fare deliberazione di entrare in una guerra, la quale succedendo avversa parteciperebbono piú che per rata parte di tutti i mali, succedendo prospera non arebbono parte alcuna benché minima de' beni. Ma erano di maggiore momento quegli che, o per odio o per ambizione o per desiderio di altra forma di governo, si opponevano al gonfaloniere, magnificando le ragioni già dette e adducendone di nuovo; e specialmente, che stando neutrali non conciterebbono contro a sé l'odio d'alcuna delle parti, né darebbono ad alcuno de' due re giusta cagione di lamentarsi: perché né al re di Francia erano tenuti di altri aiuti che di trecento uomini d'arme per la difesa degli stati propri, de' quali già l'aveano accomodato, né questo potere essere molesto al re d'Aragona, il quale riputerebbe guadagno non piccolo che altrimenti in questa guerra non si intromettessino, anzi essere sempre lodati e tenuti piú cari quegli che osservano la fede, e specialmente perché per questo esempio spererebbe che a lui medesimamente, quando gli sopravenisse bisogno, si osserverebbe quel che per la capitolazione fatta a comune col re di Francia e con lui era stato promesso. Procedendo cosí, se tra' príncipi nascesse pace la città sarebbe nominata e conservata da amendue; se uno ottenesse la vittoria, non si reputando offeso né avendo causa di odio particolare, non sarebbe difficile comperare l'amicizia sua con quelli medesimi danari e forse con minore quantità di quella che arebbono spesa nella guerra, modo col quale, piú che coll'armi, aveano molte volte salvata la libertà i maggiori loro: procedendo altrimenti, sosterrebbono mentre durasse la guerra, per altri e senza necessità, spese gravissime; e ottenendo la parte inimica la vittoria rimarrebbe in manifestissimo pericolo la libertà e la salute della patria. Contrario a questi era il parere del gonfaloniere, giudicando essere piú salutifero alla republica che si prendessino l'armi per il re di Francia: e perciò, prima aveva favorito il concilio e suggerito al pontefice materia di sdegnarsi, acciò che la città, provocata da lui o cominciata a insospettirne, fusse quasi necessitata a fare questa deliberazione; e in questo tempo dimostrava non potere essere se non perniciosissimo consiglio lo stare oziosi ad aspettare l'evento della guerra, la quale si faceva in luoghi vicini e tra príncipi tanto piú potenti di loro. Perché la neutralità nelle guerre degli altri essere cosa laudabile, e per la quale si fuggono molte molestie e spese, quando non sono sí deboli le forze che tu abbia da temere la vittoria di ciascuna delle parti; perché allora ti arreca sicurtà, e bene spesso, la stracchezza loro, facoltà di accrescere il tuo stato. Né essere sicuro fondamento il non avere offeso alcuno, il non avere data giusta cagione di querelarsi; perché rarissime volte, e forse non mai, si raffrena dalla giustizia o dalle discrete considerazioni l'insolenza del vincitore; né reputarsi, per queste ragioni, meno ingiuriati i príncipi grandi quando è negato loro quel che desiderano, anzi sdegnarsi contro a ciascuno che non séguita la volontà loro e che con la fortuna di essi non accompagna la fortuna propria. Credersi stoltamente che il re di Francia non s'abbia a tenere offeso quando si vedrà abbandonato in tanti pericoli, quando vedrà non corrispondere gli effetti alla fede che aveva ne' fiorentini, a quel che indubitatamente si prometteva di loro, a quel che tante volte gli era stato da loro medesimi affermato e predicato. Piú stolto essere credere che, rimanendo vincitori, il pontefice e il re d'Aragona non esercitassino contro a quella republica immoderatamente la vittoria; l'uno per l'odio insaziabile, amendue per la cupidità di fermare un governo che si reggesse ad arbitrio loro, persuadendosi che la città libera arebbe sempre maggiore inclinazione a' franzesi che a loro: e questo non si vedere egli apertamente, avendo il pontefice, con approvazione del re cattolico, destinato legato all'esercito il cardinale de' Medici? Dunque: lo stare neutrale non importare altro che volere diventare preda della vittoria di ciascuno; aderendosi a uno di essi, almeno dalla vittoria sua risultarne la sicurtà e la conservazione loro, premio, poiché le cose erano ridotte in tanti pericoli, di grandissimo momento; e se si facesse la pace dovervi avere migliori condizioni. Ed essere superfluo disputare a quale parte si dovessino piú aderire, perché niuno dubiterebbe doversi seguitare piú tosto l'antica amicizia (e dalla quale se la republica non era stata rimunerata o premiata era almeno stata piú volte difesa e conservata) che amicizie nuove, che sarebbono sempre infedeli sempre sospette. Diceva invano il gonfaloniere queste parole, impedendosi il voto suo sopra tutto per l'opposizione di coloro a' quali era molesto che il re di Francia riconoscesse dalle sue opere l'essergli congiunti i fiorentini. Nelle quali contenzioni, interrompendo l'una parte il parere dell'altra, né si deliberava il dichiararsi né totalmente lo stare neutrali; onde spesso nascevano consigli incerti e deliberazioni repugnanti a se medesime, senza riportarne grazia o merito appresso ad alcuno. Anzi, procedendo con queste incertitudini, mandorono, con dispiacere grande del re di Francia, al re d'Aragona imbasciadore Francesco Guicciardini, quello che scrisse questa istoria, dottore di legge, ancora tanto giovane che per l'età era, secondo le leggi della patria, inabile a esercitare qualunque magistrato; e nondimeno non gli dettono commissioni tali che alleggierissino in parte alcuna la mala volontà de' confederati.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.9

                                                  

                                                 La bastia del Genivolo è presa da' fanti spagnuoli e ben presto ripresa dal duca di Ferrara. L'esercito ispano pontificio sotto Bologna. Discussioni e varietà di pareri nell'esercito. Assalto a Bologna; miracoloso effetto della mina posta alla cappella del Baracane. Entrata dell'esercito francese in Bologna, gli ispano pontifici levano il campo e si ritirano verso Imola.

                                                  

                                                 Ma non molto dipoi che i svizzeri furno ritornati alle case loro cominciorno i soldati spagnuoli e quegli del pontefice a entrare nella Romagna; alla venuta de' quali tutte le terre che teneva il duca di Ferrara di qua dal Po, eccetto la bastia del fossato di Genivolo, si arrenderono alla semplice richiesta di uno trombetto. Ma perché non erano ancora condotte in Romagna tutte le genti e l'artiglierie, le quali il viceré aspettando si era fermato a Imola, parve che, per non consumare quel tempo oziosamente, Pietro Navarra capitano generale de' fanti spagnuoli andasse alla espugnazione della bastia. Il quale avendo cominciato a batterla con tre pezzi di artiglieria, e trovando maggiore difficoltà a espugnarla che non avea creduto, perché era bene munita e valorosamente difesa da cento cinquanta fanti che vi erano dentro, attese a fare fabbricare due ponti di legname, per dare maggiore comodità a' soldati di passare le fosse piene d'acqua; i quali due ponti come furono finiti, il terzo dí che vi si era accostato, che fu l'ultimo dí dell'anno mille cinquecento undici, dette ferocemente lo assalto, in modo che dopo lungo e bravo combattere i fanti saliti in sulle mura colle scale finalmente l'ottenneno, ammazzati quasi tutti i fanti e Vestitello loro capitano. Lasciò Pietro Navarra alla bastia dugento fanti, contradicendo Giovanni Vitelli, il quale affermava essere tanto indebolita da' colpi delle artiglierie che senza nuova riparazione non si poteva piú difendere: ma a fatica era ritornato a unirsi col viceré che il duca di Ferrara, andatovi con nove pezzi grossi d'artiglieria, l'assaltò con tale furore che squarciato quel luogo piccolo in molte parti vi entrò per forza il dí medesimo: ammazzati, parte nel combattere parte per vendicare la morte de' suoi, il capitano con tutti i fanti; ed egli percosso di un sasso in sulla testa, benché per la difesa della celata non gli facesse nocumento.

                                                 Eransi intratanto raccolte a Imola tutte le genti cosí ecclesiastiche come spagnuole, potenti di numero e di virtú di soldati e di valore di capitani; perché per il re d'Aragona vi erano, cosí divulgava la fama, mille uomini d'arme ottocento giannettari e ottomila fanti spagnuoli, e oltre alla persona del viceré molti baroni del reame di Napoli, de' quali il piú chiaro per fama e per perizia d'arme era Fabrizio Colonna, che aveva il titolo di governatore generale; perché Prospero Colonna, sdegnandosi d'avere a stare sottoposto nella guerra a' comandamenti del viceré, aveva ricusato d'andarvi. Del pontefice vi erano ottocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e [otto] mila fanti italiani, sotto Marcantonio Colonna, Giovanni Vitelli, Malatesta Baglione, figliuolo di Giampagolo, Raffaello de' Pazzi e altri condottieri, sottoposti tutti all'ubbidienza del cardinale de' Medici legato; né avevano capitano generale, perché..., duca di Termini, eletto dal pontefice come confidente al re d'Aragona, era, venendo all'esercito, morto a Civita Castellana; e il duca di Urbino, solito a ottenere questo grado, non veniva, o perché cosí fusse piaciuto al pontefice o perché non reputasse essere cosa degna di lui l'ubbidire, massimamente nelle terre della Chiesa, al viceré capitano generale di tutto l'esercito de' confederati. Con queste genti, provedute abbondantemente d'artiglierie condotte quasi tutte del regno di Napoli, si deliberò di porre il campo a Bologna, non perché non si conoscesse impresa molto difficile, per la facilità che avevano i franzesi di soccorrerla, ma perché niuna altra impresa si poteva fare che non avesse maggiori difficoltà e impedimenti: starsi con tanto esercito oziosi arguiva troppo manifesta timidità, e la instanza del pontefice era tale che chiunque avesse messo in considerazione le difficoltà gli arebbe dato cagione di credere e di lamentarsi che già cominciassino ad apparire gli artifici e le fraudi degli spagnuoli. Però il viceré, mosso l'esercito, si fermò tra 'l fiume dell'Idice e Bologna, ove ordinate le cose necessarie all'oppugnazione delle città e dirivati i canali che da' fiumi di Reno e di Savana entrano in Bologna, si accostò poi alle mura, distendendo la maggiore parte dell'esercito tra 'l monte e la strada che va da Bologna in Romagna, perché da quella parte aveva la comodità delle vettovaglie. Tra 'l ponte a Reno posto in sulla strada Romea che va in Lombardia e la porta di San Felice posta in sulla medesima strada andò ad alloggiare Fabrizio Colonna con l'avanguardia, la quale conteneva settecento uomini di arme cinquecento cavalli leggieri e seimila fanti, per potere piú facilmente vietare se i franzesi vi mandassino soccorso; e perché i monti fussino in potestà loro, messono una parte delle genti nel monasterio di San Michele in Bosco, molto vicino alla città ma posto in luogo eminente e che la sopragiudica; e occuporno similmente la chiesa piú alta, che si dice di Santa Maria del Monte.

                                                 In Bologna, oltre al popolo armigero, benché forse piú per consuetudine che per natura, e alcuni cavalli e fanti soldati da' Bentivogli, aveva Fois mandato duemila fanti tedeschi e dugento lancie, sotto Odetto di Fois e Ivo di Allegri chiari capitani, questo per la lunga esperienza della guerra, quello per la nobiltà della famiglia sua e perché si vedevano in lui aperti segni di virtú e di ferocia; e vi erano due altri capitani, Faietta e Vincenzio cognominato il grandiavolo: e nondimeno collocavano piú la speranza del difendersi nel soccorso promesso da Fois che nelle forze proprie, atteso il circuito grande della città, il sito dalla parte del monte molto incomodo, né vi essere altre fortificazioni che quelle che per il pericolo presente erano state fatte tumultuariamente; sospetti molti della nobiltà e del popolo a' Bentivogli, e per essere antica laude de' fanti spagnuoli, confermata nuovamente intorno alla bastia del Genivolo, che nell'oppugnazioni delle terre fussino per la agilità e destrezza loro di gran valore. Ma confermò non poco gli animi loro il procedere lentissimo degli inimici; i quali stettono nove dí oziosi intorno alle mura innanzi tentassino cosa alcuna, eccetto che cominciorono, con due sagri e due colubrine piantate al monasterio di San Michele, a tirare a caso e senza mira certa nella città per offendere gli uomini e le case, ma presto se ne astennono conoscendo per l'esperienza non si offendere con questi colpi gli inimici, né farsi altro effetto che consumare le munizioni inutilmente. Cagione di tanta tardità fu l'avere, il dí che s'accamporono, avuto notizia che Fois venuto al Finale raccoglieva da ogni parte le genti; e pareva verisimile quel che divulgava la fama che, per considerare quanto nocesse alle cose del re e quanta riputazione gli diminuisse il lasciare perdere una città tanto opportuna, avesse a esporsi a ogni pericolo per conservarla: onde veniva quasi necessariamente in discussione non solamente da qual parte si potessino piú facilmente, e con maggiore speranza di espugnarla, piantare l'artiglierie ma ancora come si potesse vietare che non vi entrasse il soccorso de' franzesi. Perciò, fu nella prima consulta deliberato che Fabbrizio Colonna, proveduto prima di vettovaglie, passando dall'altra parte della terra, alloggiasse in sul poggio situato sotto Santa Maria del Monte, dal qual luogo potrebbe facilmente opporsi a quegli che venissino per entrare in Bologna, né essere tanto distante dal resto dell'esercito che, sopravenendogli pericolo alcuno, non potesse a tempo essere soccorso; e che nel tempo medesimo si cominciasse, dalla parte dove erano alloggiati o in luogo poco distante, a battere la terra: allegando gli autori di questo parere, non essere da credere che, dependendo la conservazione di tutto quello che i franzesi tenevano in Italia dalla conservazione dell'esercito, Fois tentasse cosa nell'esecuzione della quale fusse potuto essere costretto a combattere; né medesimamente che avesse in animo, quando bene conoscesse poterlo fare sicuramente, di impiegarsi con tutto l'esercito in Bologna, e cosí privarsi della facoltà di soccorrere, se fusse di bisogno, lo stato di Milano, non sicuro interamente da' movimenti de' svizzeri ma con maggiore sospetto di essere assaltato dall'esercito viniziano; il quale, venuto a' confini del veronese, minacciava d'assaltare Brescia. Ma il dí seguente fu, quasi da tutti i medesimi che l'aveano consentito, riprovato questo; considerando non essere certo che l'esercito franzese non avesse a venire, e se pure venisse non essere potente l'avanguardia sola a resistere, né potersi lodare quella deliberazione sostentata da uno fondamento tale che in potestà degli inimici fusse variarlo o mutarlo. Però fu approvato dal viceré il parere di Pietro Navarra, non comunicato ad altri che a lui; il quale consigliò che, fatta provisione di vettovaglie per cinque dí e lasciata solamente guardia nella chiesa di San Michele, tutto l'esercito passasse alla parte opposita della città, onde potrebbe impedire che l'esercito inimico non vi entrasse; e non essendo la terra riparata da quella parte, perché non aveano mai temuto dovervi essere assaltati, indubitatamente intra cinque dí si piglierebbe. Ma come questa deliberazione fu nota agli altri, niuno fu che apertamente non contradicesse l'andare con l'esercito ad alloggiare in luogo privato interamente delle vettovaglie che si conducevano di Romagna, con le quali sole si sostentava; di maniera che senza dubbio si dissolveva o distruggeva se infra cinque dí non otteneva la vittoria. E quale è quello, diceva Fabrizio Colonna, che se la possa promettere assolutamente in termine tanto stretto? e come si debbe, sotto una speranza fallacissima per sua natura e sottoposta a molti accidenti, mettersi in tanto pericolo? e chi non vede che, mancandoci l'ore misurate e avendo alla fronte Bologna, ove è il popolo grande e molti soldati, alle spalle i franzesi e il paese inimico, non potremo senza la disfazione nostra ritirarci, colle genti affamate disordinate e impaurite? Proponevano alcuni altri che aggiunto all'avanguardia maggiore numero di fanti si fermasse di là da Bologna, quasi alle radici del monte tralle porte di Saragosa e di San Felice, fortificando l'alloggiamento con tagliate e altri ripari; e che la terra si battesse da quella parte dalla quale non solo era debolissima di muraglie e di ripari, ma ancora, piantando qualche pezzo di artiglieria in sul monte, si offendevano per fianco, mentre si dava la battaglia, quegli che dentro difendessino la parte già battuta: il quale consiglio era medesimamente riprovato come non sufficiente a impedire la venuta de' franzesi e come pericoloso, perché se fussino assaltati non poteva l'esercito, con tutto che in potestà sua fussino i monti, condursi al soccorso loro in minore spazio di tre ore. Nelle quali ambiguità essendo piú facile riprovare, e meritamente, i consigli proposti dagli altri che proporre di quegli che meritassino di essere approvati, inclinorno finalmente i capitani che la terra si assaltasse da quella parte dalla quale alloggiava l'esercito; mossi, trall'altre ragioni, dal diminuire già l'opinione che Fois, poiché tanto tardava, avesse a venire innanzi. Perciò, e cominciorno a fare le spianate per accostare alle mura l'artiglierie e fu richiamata l'avanguardia ad alloggiare insieme cogli altri. Ma poco dipoi, essendo venuti molti avvisi che le genti franzesi continuamente moltiplicavano al Finale, e però ritornando il sospetto primo della venuta loro, cominciò di nuovo a pullulare la varietà delle opinioni: perché, consentendo tutti che se Fois s'approssimava si doveva procurare di assaltarlo innanzi entrasse in Bologna, molti ricordavano che l'avere in tal caso a ritirare dalle mura l'artiglierie piantate darebbe molte difficoltà e impedimenti all'esercito; il che, quando le cose erano ridotte a termini tanto stretti, non poteva essere né piú pericoloso né piú pernicioso. Altri ricordavano essere cosa non meno vituperosa che dannosa stare oziosamente tanti dí intorno a quelle mura, confermando in uno tempo medesimo gli animi degli inimici che erano dentro e dando spazio di soccorrerla a quegli che erano fuora: però non essere piú da differire il piantare dell'artiglierie, ma in luogo che si potessino comodamente ritirare; facendo, per andare a opporsi a' franzesi, le spianate tanto larghe che insieme si potesse muovere l'artiglierie e l'esercito. All'opinione di quegli che confortavano il dare principio al combattere la terra aderiva cupidissimamente il legato, infastidito di tante dilazioni né già senza sospetto che questo fusse, per ordinazione del re loro, procedere artificioso degli spagnuoli; dolendosi che se avessino subito, quando si accostorno, cominciato a battere la città, forse che a quell'ora l'arebbono espugnata. Non doversi piú moltiplicare negli errori, non stare come inimici intorno a una città e da altra parte fare segni di non avere ardire d'assaltarla: stimolarlo ogni dí con corrieri e con messi il pontefice; non sapere piú che si rispondere né che si allegare, né potere piú nutrirlo con promesse e speranze vane. Dalle quali parole commosso il viceré si lamentò gravemente che, non essendo egli nutrito nell'armi e negli esercizi della guerra, volesse essere cagione, col tanto sollecitare, di deliberazioni precipitose. Trattarsi in questi consigli dell'interesse di tutto il mondo, né potersi procedere con tanta maturità che non convenisse usarla maggiore. Essere costume de' pontefici e delle republiche pigliare volonterosamente le guerre, ma prese, cominciando presto a rincrescere lo spendere e le molestie, desiderare di finirle troppo presto. Lasciasse deliberare a' capitani, che avevano la medesima intenzione che egli ma avevano di piú l'esperienza della guerra. In ultimo, Pietro Navarra, al quale molto si riferiva il viceré, ricordò che in una deliberazione di tanto momento non dovevano essere in considerazione due o tre giorni piú; e però, che si continuassino i provedimenti necessari e per l'espugnazione di Bologna e per la giornata con gl'inimici, per seguitare quello che consigliasse il procedere de' franzesi.

                                                 Non apparí, per il corso de' due dí, lume alcuno della migliore risoluzione: perché Fois, a cui si erano arrendute Cento, la Pieve e molte castella del bolognese, soggiornava ancora al Finale, attendendo a raccorre le genti; le quali, per essere divise in vari luoghi, né venendo cosí presto i fanti italiani che aveva soldati, non senza tardità si raccoglievano. Però, non apparendo piú cagione alcuna di differire, furno finalmente piantate l'artiglierie contro alla muraglia, distante circa trenta braccia dalla porta detta di Santo Stefano donde si va a Firenze, ove il muro volgendosi verso la porta detta di Castiglione, volta alla montagna, fa uno angolo; e nel medesimo tempo si dava opera per Pietro Navarra a fare una cava sotterranea piú verso la porta di strada Castiglione, a quella parte del muro nel quale era, dalla parte di dentro, fabbricata una piccola cappella detta del Baracane, acciò che, dandosi la battaglia insieme, potessino piú difficilmente resistere essendo divisi che se uniti avessino a difendere uno luogo solo: e oltre a questo, non abbandonando i pensieri dello opporsi a' franzesi, vollono che l'avanguardia ritornasse allo alloggiamento dove era prima. Rovinoronsi in un dí colle artiglierie poco meno di cento braccia di muraglia, e si conquassò talmente la torre della porta che piú non si potendo difendere fu abbandonata: di maniera che da quella parte si poteva comodamente dare la battaglia, ma si aspettava che prima avesse perfezione la mina cominciata; benché per temerità della moltitudine [poco mancò], che il dí medesimo disordinatamente non si combattesse. Perché alcuni fanti spagnuoli, saliti per una scala a uno foro fatto nella torre, scesono di quivi in una casetta congiunta con le mura di dentro, ove non era guardia alcuna; il che veduto dagli altri fanti, quasi tutti tumultuosamente vi si volgevano se i capitani, corsi al romore, non gli avessino ritenuti: ma avendo quegli di dentro, con uno cannone voltato alla casetta, ammazzatane una parte, gli altri fuggirono dal luogo nel quale inconsideratamente erano entrati. E mentre che alla mina si lavora si attendeva per l'esercito a fare ponti di legname e a riempiere le fosse di fascine, per potere, andando quasi a piano, accostare i fanti al muro rotto e tirare in sulla rovina qualche pezzo di artiglierie; acciò che quegli di dentro, quando si dava l'assalto, non potessino fermarsi alla difesa. Le quali preparazioni vedendo i capitani franzesi, e intendendo che già il popolo cominciava a essere soprafatto dal timore, mandorono subito a dimandare soccorso a Fois; il quale il dí medesimo mandò mille fanti, e il dí prossimo cento ottanta lancie; la quale cosa generò credenza ferma negli inimici esso avere deliberato di non venire piú innanzi, perché non pareva verisimile che se altrimenti avesse in animo ne separasse da sé una parte; e tale era veramente la sua intenzione, perché, stimando questi sussidi essere sufficienti a difendere Bologna, non voleva senza necessità tentare la fortuna del combattere. Finita in ultimo la mina e stando l'esercito armato per dare incontinente la battaglia, la quale perché si desse con maggiori forze era stata richiamata l'antiguardia, fece il Navarra dare il fuoco alla mina. La quale con grandissimo impeto e romore gittò talmente in alto la cappella che, per quello spazio che rimase tra 'l terreno e il muro gittato in alto, fu da quegli che erano fuora veduta apertamente la città dentro e i soldati che stavano preparati per difenderla; ma subito scendendo in giú, ritornò il muro intero nel luogo medesimo onde la violenza del fuoco l'aveva sbarbato, e si ricongiunse insieme come se mai non fusse stato mosso: onde non si potendo assaltare da quella parte, i capitani giudicorno non si dovere dare [la battaglia] solamente dall'altra. Attribuirono questo caso i bolognesi a miracolo, riputando impossibile che senza l'aiutorio divino fusse potuto ricongiugnersi cosí appunto ne' medesimi fondamenti; onde fu dipoi ampliata quella cappella, e frequentata con non piccola divozione del popolo.

                                                 Inclinò questo successo Fois, come se non piú fusse da temere di Bologna, a andare verso Brescia, perché aveva notizia che l'esercito viniziano si moveva verso quella città; della quale, per avervi, per il pericolo di Bologna, lasciati i provedimenti deboli e perché dubitava che dentro fussino occulte fraudi, non mediocremente temeva. Ma i prieghi de' capitani che erano in Bologna, ora dimostrando continuare il pericolo maggiore che prima se si partiva, ora dandogli speranza, se vi entrava, di rompere il campo degli inimici, lo alienorno da questo proposito. Però, ancora che nel consiglio avessino contradetto quasi tutti i capitani, mossosi, inclinando già il dí alla notte, dal Finale, la mattina seguente, non essendo piú che due ore di dí, camminando con tutto l'esercito ordinato a combattere, con neve e venti asprissimi, entrò per la porta di San Felice in Bologna; avendo seco [mille trecento] lancie, seimila fanti tedeschi i quali tutti aveva collocati nell'antiguardia, e [otto] mila tra franzesi e italiani. Entrato Fois in Bologna, trattò di assaltare la mattina seguente il campo degli inimici, uscendo fuora i soldati per tre porte e il popolo per la via del monte; i quali arebbe trovati senza pensiero alcuno della venuta sua, della quale è manifesto che i capitani non ebbono, né quel dí né per la maggiore parte del dí prossimo, notizia: ma Ivo di Allegri consigliò che per uno dí ancora riposasse la gente, stracca per la difficoltà del cammino; non pensando, né egli né alcuno altro, potere essere che senza saputa loro fusse entrato, di dí e per la strada romana, uno esercito sí grande in una città alla quale erano accampati. La quale ignoranza continuava medesimamente insino all'altro dí se per sorte non fusse stato preso uno stradiotto greco, uscito insieme con altri cavalli a scaramucciare; il quale, dimandato quel che si facesse in Bologna, rispose che da sé ne riceverebbono piccolo lume, perché vi era venuto il dí dinanzi con l'esercito franzese: sopra le quali parole interrogato con maraviglia grande diligentemente da' capitani, e trovatolo costante nelle risposte, prestandogli fede, deliberorno levare il campo; giudicando che, per essere vessati i soldati dalla asprezza della stagione e per la vicinità della città nella quale era entrato uno tale esercito, fusse pericoloso il soprastarvi. Però la notte seguente, che fu il decimonono dí dal dí che si erano accampati, fatte ritirare tacitamente l'artiglierie, l'esercito a grande ora si mosse verso Imola, camminando per le spianate per le quali era venuto, che mettevano in mezzo la strada maestra e l'artiglierie: e avendo posto nel retroguardo il fiore dell'esercito si discostorno sicuramente, perché non uscirno di Bologna altri che alcuni cavalli de' franzesi; i quali, avendo saccheggiata parte delle munizioni delle vettovaglie, e perciò essendosi cominciati a disordinare, furono, né senza danno, rimessi dentro da Malatesta Baglione, il quale andava nell'ultima parte dell'esercito.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.10

                                                  

                                                 I veneziani prendono Brescia e Bergamo; subita partenza del Fois per affrontare i nemici. Vittoria del Fois alla torre del Magnanino. Presa e saccheggio di Brescia.

                                                  

                                                 Levato il campo, Fois, lasciati alla custodia di Bologna trecento lancie e quattromila fanti, partí subito per andare con grandissima celerità a soccorrere il castello di Brescia; perché la città era, il giorno precedente a quello nel quale entrò in Bologna, pervenuta in potestà de' viniziani. Perché Andrea Gritti, per comandamento del senato, stimolato dal conte Luigi Avogaro gentiluomo bresciano e dagli uomini quasi di tutto il paese, e dalla speranza che dentro si facesse movimento per lui, avendo con trecento uomini d'arme mille trecento cavalli leggieri e tremila fanti passato il fiume dell'Adice ad Alberé, luogo propinquo a Lignago, e guadato dipoi il fiume del Mincio al mulino della Volta tra Goito e Valeggio; e successivamente venuto a Montechiaro, si era fermato la notte a Castagnetolo villa distante cinque miglia da Brescia, donde fece subito correre i cavalli leggieri insino alle porte; e nel tempo medesimo, risonando per tutto il paese il nome di san Marco, il conte Luigi si accostò alla porta con ottocento uomini delle valli Eutropia e Sabia, le quali aveva sollevate, avendo mandato dalla altra parte della città insino alle porte il figliuolo con altri fanti. Ma Andrea Gritti, non ricevendo gli avvisi che aspettava da quelli di dentro né gli essendo fatto alcuno de' segni convenuti, anzi intendendo la città essere per tutto diligentemente custodita, giudicò non doversi procedere piú oltre; nel qual movimento il figliuolo Avogaro, assaltato da quegli di dentro, rimase prigione. Ritirossi il Gritti appresso a Montagnana onde prima era partito, lasciato sufficiente presidio al ponte fatto in sullo Adice. Ma di nuovo chiamato pochi dí poi ripassò l'Adice, con due cannoni e quattro falconi, e si fermò a Castagnetolo; essendosi nel tempo medesimo approssimato a un miglio a Brescia il conte Luigi, con numero grandissimo d'uomini di quelle valli. E con tutto che dalla città non si sentisse cosa alcuna favorevole, il Gritti, invitato dal concorso maggiore che l'altra volta, deliberò tentare la forza: però accostatosi con tutti i paesani si cominciò da tre parti a dare l'assalto; il quale, tentato infelicemente alla porta della Torre, succedette prosperamente alla porta delle Pile ove combatteva l'Avogaro, e alla porta della Garzula, ove i soldati, guidati da Baldassarre di Scipione, entrorno (secondo che alcuni dicono) per la ferrata per la quale il fiume, che ha il medesimo nome, entra nella città; invano resistendo i franzesi. I quali, veduto gli inimici entrare nella città e che in favore loro si movevano i bresciani, i quali prima, proibiti da loro di prendere l'armi, erano stati quieti, si ritirorno, insieme con monsignore di Luda governatore, nella fortezza; perduti i cavalli e i carriaggi: nel qual tumulto quella parte che si dice la cittadella, separata dal resto della città, abitazione di quasi tutti i ghibellini, fu saccheggiata, riservate le case de' guelfi. L'acquisto di Brescia seguitò subito la dedizione di Bergamo, che eccetto le due castella, l'uno posto in mezzo la città l'altro distante un mezzo miglio, si arrendé per opera d'alcuni cittadini; e il medesimo feciono Orcivecchi, Orcinuovi, Pontevico e molte altre terre circostanti: e si sarebbe forse fatto maggiore progresso o almeno confermata meglio la vittoria se a Vinegia, ove fu letizia incredibile, fusse stata tanta sollecitudine a mandare soldati e artiglierie (le quali erano necessarie per l'espugnazione del castello, che non era molto potente a resistere) quanta fu nel creare e mandare i magistrati che avessino a reggere la città recuperata. La quale negligenza fu tanto piú dannosa quanto fu maggiore la diligenza e la celerità di Fois: il quale avendo passato il fiume del Po alla Stellata, dal qual luogo mandò alla guardia di Ferrara cento cinquanta lancie e cinquecento fanti franzesi, passò il Mincio per Pontemulino; avendo, quasi nel tempo medesimo che passava, mandato a dimandare la facoltà del passare al marchese di Mantova, o per non lasciare luogo con la dimanda improvisa a' consigli suoi o perché tanto piú tardasse a andare la notizia della venuta sua alle genti viniziane. Di quivi alloggiò il dí seguente a Nugara in veronese e l'altro dí a Pontepesere e a Treville tre miglia appresso alla Scala, ove avendo avuto notizia che Giampaolo Baglione (il quale aveva fatta la scorta ad alcune genti e artiglierie de' viniziani andate a Brescia) era con [tre]cento uomini d'arme [quattrocento] cavalli leggieri e mille dugento fanti da Castelfranco venuto ad alloggiare alla Isola della Scala, corse subito per assaltarlo con trecento lancie e settecento arcieri, seguitandolo il resto dell'esercito perché non poteva pareggiare tanta prestezza: ma trovato che già era partito un'ora innanzi, si messe a seguitarlo con la medesima celerità.

                                                 Aveva Giampagolo saputo che Bernardino dal Montone, sotto la cui custodia era il ponte fatto ad Alberé, sentito l'approssimarsi de' franzesi l'aveva dissoluto, per timore di non essere rinchiuso da loro e da' tedeschi che erano in Verona; ove Cesare, alleggerito dalla custodia del Friuli perché, da Gradisca in fuora, tutto era ritornato in potestà de' viniziani, aveva poco innanzi mandato tremila fanti i quali prima aveva in quella regione. Però Giampaolo sarebbe andato a Brescia se non gli fusse stato mostrato che poco sotto Verona si poteva guadare il fiume, ove andando per passare scoperse da lungi Fois; e pensando non potesse essere altro che la gente di Verona, perché la prestezza di Fois, incredibile, aveva avanzato la fama, rimessi i suoi in battaglia, l'aspettò con forte animo alla torre del Magnanino, propinqua all'Adice e poco distante dalla torre della Scala. Fu molto feroce da ciascuna delle parti lo incontro delle lancie, e si combatté poi valorosamente con l'altre armi per piú d'una ora; ma peggioravano continuamente le condizioni de' marcheschi perché tuttavia sopravenivano i soldati dell'esercito rimasto indietro, e nondimeno urtati, ritornorno piú volte negli ordini loro: finalmente, non potendo piú resistere al numero maggiore, rotti si messono in fuga; seguitati dagli inimici, già cominciando la notte, insino al fiume; il quale fu da Giampaolo passato a salvamento, ma v'annegorno molti de' suoi. Furno de' viniziani parte morti parte presi circa novanta uomini d'arme, tra' quali rimasono prigioni Guido Rangone e Baldassarre Signorello da Perugia, dissipati tutti i fanti e perduti due falconetti che soli aveano con loro; né quasi sanguinosa la vittoria per i franzesi. Riscontrorno il dí seguente Meleagro da Furlí con alcuni cavalli leggieri de' viniziani, i quali facilmente furno messi in fuga, rimanendo Meleagro prigione; né perdendo una ora sola di tempo, il nono dí poi che erano partiti da Bologna, alloggiò Fois con l'antiguardia nel borgo di Brescia, lontano due balestrate dalla porta di Torre Lunga; il rimanente dell'esercito piú indietro, lungo la strada che conduce a Peschiera. Alloggiato, subitamente, non dando spazio alcuno a se medesimo a respirare, mandò una parte de' fanti ad assaltare il monasterio di San Fridiano, posto a mezzo il monte, sotto il quale era l'alloggiamento suo, guardato da molti villani di Valditrompia; i quali fanti, salito il monte da piú parti, favorendogli ancora una pioggia grande che impedí non si tirassino l'artiglierie piantate nel monasterio, gli roppono e ne ammazzorno una parte. Il dí seguente, avendo mandato un trombetto nella città a dimandare gli fusse data la terra, salve le robe e le persone di tutti eccetto che de' viniziani, ed essendogli stato risposto in presenza di Andrea Gritti ferocemente, girato l'esercito all'altra parte della città per essere propinquo al castello, alloggiò nel borgo della porta che si dice di San Gianni; donde la mattina seguente, quando cominciava ad apparire il dí, eletti di tutto l'esercito piú di quattrocento uomini d'arme armati tutti d'armi bianche e seimila fanti parte guasconi e parte tedeschi, egli con tutti a piede, salendo dalla parte di verso la porta delle Pile, entrò, non si opponendo alcuno, nel primo procinto del castello: dove riposatigli e rinfrescatigli alquanto, gli confortò con brevi parole che scendessino animosamente in quella ricchissima e opulentissima città, ove la gloria e la preda sarebbe senza comparazione molto maggiore che la fatica e il pericolo, avendo a combattere co' soldati viniziani manifestamente inferiori di numero e di virtú, perché della moltitudine del popolo inesperta alla guerra, e che già pensava piú alla fuga che alla battaglia, non era da tenere conto alcuno; anzi si poteva sperare che cominciandosi per la viltà a disordinare sarebbono cagione che tutti gli altri si mettessino in disordine: supplicandogli in ultimo che, avendogli scelti per i piú valorosi di cosí fiorito esercito, non facessino vergogna a se stessi né al giudicio suo; e che considerassino quanto sarebbono infami e disonorati se, facendo professione di entrare per forza nelle città inimiche contro a' soldati contro all'artiglierie contro alle muraglie e contro a' ripari, non ottenessino al presente, avendo l'entrata sí patente né altra opposizione che d'uomini soli. Dette [queste] parole, cominciò, precedendo i fanti agli uomini d'arme, a uscire del castello; all'uscita del quale avendo trovati alcuni fanti che con artiglierie tentorno di impedirgli l'andare innanzi, ma avendogli fatti facilmente ritirare, scese ferocemente per la costa in sulla piazza del palagio del capitano detto il Burletto, nel quale luogo le genti viniziane, ristrette insieme, ferocemente l'aspettavano: ove venuti alle mani, fu per lungo spazio molto feroce e spaventosa la battaglia, combattendo l'una delle parti per la propria salute l'altra non solo per la gloria ma eziandio per la cupidità di saccheggiare una città piena di tante ricchezze, né meno ferocemente i capitani che i soldati privati; tra' quali appariva molto illustre la virtú e la fierezza di Fois. Finalmente furno cacciati dalla piazza i soldati viniziani, avendo fatto maravigliosa difesa. Entrorno dipoi i vincitori divisi in due parti, l'una per la città l'altra per la cittadella; a' quali quasi in su ogni cantone e in su ogni contrada era fatta egregia resistenza da' soldati e dal popolo, ma sempre vittoriosi spuntorno gli inimici per tutto; non mai attendendo a rubare insino non occuporno tutta la terra; cosí aveva, innanzi scendessino, comandato il capitano; anzi se niuno preteriva quest'ordine era subitamente ammazzato da gli altri. Morirono in queste battaglie dalla parte de' franzesi molti fanti né pochi uomini d'arme ma degli inimici circa ottomila uomini, parte del popolo parte de' soldati viniziani, che erano [cinquecento] uomini d'arme [ottocento] cavalli leggieri e [ottomila] fanti; e tra questi Federigo Contareno proveditore degli stradiotti, il quale combattendo in sulla piazza fu morto di uno colpo di scoppietto: tutti gli altri furno presi, eccetto dugento stradiotti i quali fuggirono per un piccolo portello che è alla porta di San Nazzaro, ma con fortuna poco migliore perché, riscontrando in quella parte de' franzesi che era rimasta fuora della terra, furno quasi tutti o morti o presi. I quali entrati poi dentro senza fatica, per la medesima porta, cominciorno essi ancora, godendo le fatiche e i pericoli degli altri, a saccheggiare. Rimasono prigioni Andrea Gritti e Antonio Giustiniano mandato dal senato per podestà di quella città, Giampaolo Manfrone e il figliuolo, il cavaliere della Golpe, Baldassarre di Scipione, uno figliuolo di Antonio de' Pii, il conte Luigi Avogaro e un altro figliuolo, Domenico Busicchio capitano di stradiotti. Fu nel saccheggiare salvato, per comandamento di Fois, l'onestà de' monasteri delle donne, ma la roba e gli uomini rifuggitivi furno preda de' capitani. Fu il conte Luigi in sulla piazza publica decapitato, saziando Fois gli occhi propri del suo supplicio; i due figliuoli, benché allora si differisse il supplicio, patirono non molto poi la pena medesima. Cosí per le mani de' franzesi, da' quali si gloriavano i bresciani essere discesi, cadde in tanto sterminio quella città, non inferiore di nobiltà e di degnità ad alcuna altra di Lombardia, ma di ricchezze, eccettuato Milano, superiore a tutte l'altre; la quale, essendo in preda le cose sacre e le profane, né meno la vita e l'onore delle persone che la roba, stette sette dí continui esposta alla avarizia alla libidine e alla licenza militare. Fu celebrato per queste cose per tutta la cristianità con somma gloria il nome di Fois, che con la ferocia e celerità sua avesse, in tempo di quindici dí, costretto l'esercito ecclesiastico e spagnuolo a partirsi dalle mura di Bologna, rotto alla campagna Giampaolo Baglione con parte delle genti de' viniziani, recuperata Brescia con tanta strage de' soldati e del popolo; di maniera che per universale giudicio si confermava, non avere, già parecchi secoli, veduta Italia nelle opere militari una cosa simigliante.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.11

                                                  

                                                 Per ordine del re, il Fois s'accinge ad affrontare l'esercito de' collegati. Alleanza fra il pontefice e il re d'Inghilterra. Lamentele di Massimiliano riguardo al re di Francia. Timori del re per gli svizzeri. Nessuna speranza del re nella concordia. I fiorentini assolti dalle censure dal pontefice. Ordine del re al Fois di marciare, ove sconfigga i nemici, su Roma con un legato del concilio pisano.

                                                  

                                                 Recuperata Brescia e l'altre terre perdute, delle quali Bergamo, ribellatasi per opera di pochi, aveva, innanzi che Fois entrasse in Brescia, richiamati popolarmente i franzesi, Fois, poiché ebbe dato forma alle cose e riposato e riordinato l'esercito, stracco per sí lunghi e gravi travagli e disordinato parte nel conservare parte nel dispensare la preda fatta, deliberò, per comandamento ricevuto dal re, di andare contro all'esercito de' collegati; il quale partendosi dalle mura di Bologna si era fermato nel bolognese: astringendo il re a questo molti urgentissimi accidenti, i quali lo necessitavano a prendere nuovi consigli per la salute delle cose sue.

                                                 Cominciava già manifestamente ad apparire la guerra del re di Inghilterra: perché se bene quel re l'aveva prima con aperte parole negato e poi con dubbie dissimulato, nondimeno non si potevano piú coprire i fatti molto diversi. Perché da Roma si intendeva essere venuto, con lungo circuito marittimo, essere finalmente arrivato lo instrumento della ratificazione alla lega fatta; sapevasi che in Inghilterra si preparavano genti e navili e in Ispagna navi per passare in Inghilterra, ed essere gli animi di tutti i popoli accesi a muovere la guerra in Francia; e opportunamente era sopravenuta la galeazza del pontefice carica di vini grechi, di formaggi e di sommate, i quali, donati in suo nome al re e a molti signori e prelati, erano ricevuti da tutti con festa maravigliosa; e concorreva tutta la plebe (la quale spesso non meno muovono le cose vane che le gravi) con somma dilettazione a vederla, gloriandosi che mai piú si fusse veduto in quella isola legno alcuno con le bandiere pontificali. Finalmente avendo il vescovo di Moravia, che aveva tanto trattato tra il pontefice e il re di Francia, mosso o dalla coscienza o dal desiderio che aveva del cardinalato, riferito, in uno parlamento convocato di tutta l'isola, molto favorevolmente e con ampia testimonianza della giustizia del pontefice, fu nel parlamento deliberato che si mandassino i prelati in nome del regno al concilio lateranense; e il re, facendone instanza gli imbasciadori del papa, comandò all'oratore del re di Francia che si partisse, perché non era conveniente che appresso a un re e in un reame divotissimo della Chiesa fusse veduto chi rappresentava uno re che tanto apertamente la sedia apostolica perseguitava: e già penetrava il secreto essere occultamente convenuto che il re di Inghilterra molestasse con l'armata marittima la costa di Normandia e di Brettagna, e che mandasse in Spagna ottomila fanti, per muovere, unitamente coll'armi del re d'Aragona, la guerra nel ducato di Ghienna. Il quale sospetto affliggeva maravigliosamente il re di Francia: perché essendo, per la memoria delle antiche guerre, spaventoso a' popoli suoi il nome degli inghilesi, conosceva il pericolo maggiore essendo congiunte con loro l'armi spagnuole; e tanto piú avendo, da dugento lancie in fuora, mandate tutte le genti d'arme in Italia, le quali richiamando, o tutte o parte, rimaneva in manifesto pericolo il ducato tanto amato da lui di Milano. E se bene, per non rimanere tanto sproveduto, accrescesse all'ordinanza vecchia ottocento lancie, nondimeno, che confidenza poteva avere, in tanti pericoli, negli uomini inesperti che di nuovo venivano alla milizia?

                                                 Aggiugnevasi il sospetto, che ogni dí piú cresceva, della alienazione di Cesare; perché era ritornato Andrea di Burgus, stato espedito con tanta espettazione, il quale con tutto che riferisse Cesare essere disposto a perseverare nella confederazione, nondimeno proponeva molto dure condizioni mescolandovi varie querele. Perché dimandava di essere assicurato che gli fusse ricuperato quello che gli apparteneva per i capitoli di Cambrai, affermando non potersi piú fidare delle semplici promesse, per avere, e da principio e poi sempre, conosciuto essere molesto al re che egli acquistasse Padova; e che per consumarlo e tenerlo in continui travagli aveva speso volentieri ogni anno dugentomila ducati, sapendo che a lui premeva piú lo spenderne cinquantamila: avere recusato l'anno passato concedergli la persona del Triulzio, perché era capitano, e per volontà e per scienza militare, da terminare presto la guerra: dimandava che la figliuola seconda del re, minore di due anni, si sposasse al nipote, assegnandogli in dote la Borgogna, e che la figlia gli fusse consegnata di presente; e che nella determinazione sua rimettessino le cause di Ferrara di Bologna e del concilio; contradicendo che l'esercito franzese andasse verso Roma, e protestando non essere per comportare che il re accrescesse in parte alcuna in Italia lo stato suo. Le quali condizioni gravissime, e quasi intollerabili per se stesse, faceva molto piú gravi il conoscere non potere stare sicuro che, concedutegli tante cose, non variasse poi, o secondo l'occasioni o secondo la sua consuetudine. Anzi, la iniquità delle condizioni proposte faceva quasi manifesto argomento che, già deliberato di alienarsi dal re di Francia, cercasse occasione di metterlo a effetto con qualche colore, massime che non solo nelle parole ma eziandio nelle opere si scorgevano molti segni di cattivo animo; perché né col Burgus erano venuti i procuratori tante volte promessi per andare al concilio pisano, anzi la congregazione de' prelati fatta in Augusta avea finalmente risposto, con publico decreto, il concilio pisano essere scismatico e detestabile: benché con questa moderazione essere apparecchiati a mutare sentenza se in contrario fussino dimostrate piú efficaci ragioni. E nondimeno il re, nel tempo che piú gli sarebbe bisognato unire le forze sue, era necessitato tenere a requisizione di Cesare [dugento] lancie e tremila fanti in Verona e mille alla custodia di Lignago.

                                                 Tormentava oltre a questo molto l'animo del re il timore de' svizzeri; perché, con tutto che avesse ottenuto di mandare alle diete loro il baglí d'Amiens al quale aveva dato amplissime commissioni, risoluto con prudente consiglio (se prudenti si possono chiamare quelle deliberazioni che si fanno passata già l'opportunità del giovare) di spendere qualunque quantità di danari per ridurgli alla sua amicizia, nondimeno, prevalendo l'odio ardentissimo della plebe e le persuasioni efficaci del cardinale sedunense alla autorità di quegli che avevano, di dieta in dieta, impedito che non si facesse deliberazione contraria a lui, si sentiva erano inclinati a concedere semila fanti agli stipendi de' confederati, i quali gli dimandavano per potergli opporre agli squadroni ordinati e stabili de' fanti tedeschi.

                                                 Trovavasi inoltre il re privato interamente delle speranze della corcordia; la quale, benché nel fervore dell'armi, non avevano mai omesso di trattare il cardinale di Nantes e il cardinale di Strigonia, prelato potentissimo del reame dell'Ungheria: perché il pontefice aveva ultimatamente risposto, procurassino, se volevano gli udisse piú, che prima fusse annullato il conciliabolo pisano, e che alla Chiesa fussino rendute le città sue, Bologna e Ferrara; né mostrando ne' fatti minore asprezza, aveva di nuovo privato molti de' prelati franzesi intervenuti a quello concilio, e Filippo Decio uno de' piú eccellenti giurisconsulti di quella età, perché aveva scritto e disputato per la giustizia di quella causa, e seguitava i cardinali per indirizzare le cose che s'avevano a spedire giuridicamente.

                                                 Né aveva il re, nelle difficoltà e pericoli che se gli mostravano da tanti luoghi, piede alcuno fermo o certo in parte alcuna di Italia: perché gli stati di Ferrara e di Bologna gli erano stati ed erano di molestia e di spesa, e da' fiorentini, co' quali faceva nuova instanza che in compagnia sua rompessino la guerra in Romagna, non poteva trarre altro che risposte generali; anzi aveva dell'animo loro qualche sospetto, perché in Firenze risedeva continuamente uno oratore del viceré di Napoli, e molto piú per avere mandato l'oratore al re cattolico, e perché non comunicavano piú seco le cose loro come solevano, e molto piú perché avendogli ricercati che prorogassino la lega che finiva fra pochi mesi, senza dimandare danari o altre gravi obligazioni, andavano differendo, per essere liberi a pigliare i partiti che a quel tempo fussino giudicati migliori. La quale disposizione volendo augumentare il pontefice, né dare causa che la troppa asprezza sua gli inducesse a seguitare coll'armi la fortuna del re di Francia, concedette loro, senza che in nome publico la dimandassino, l'assoluzione dalle censure; e mandò nunzio a Firenze con umane commissioni Giovanni Gozzadini bolognese uno de' cherici della camera apostolica, sforzandosi d'alleggerire il sospetto che aveano conceputo di lui.

                                                 Vedendosi adunque il re solo contro a tanti, o dichiaratisegli inimici o che erano per dichiararsi, né conoscendo potere se non molto difficilmente resistere se in uno tempo medesimo concorressino tante molestie, comandò a Fois che con quanta piú celerità potesse andasse contro all'esercito degli inimici, de' quali per essere riputati manco potenti dell'esercito suo si prometteva la vittoria; e che vincendo, assaltasse senza rispetto Roma e il pontefice, il che quando succedesse gli pareva rimanere liberato da tanti pericoli; e che questa impresa, acciò che si diminuisse l'invidia e augumentassinsi le giustificazioni, si facesse in nome del concilio pisano, il quale deputasse un legato che andasse nell'esercito, [e] ricevesse in suo nome le terre che si acquistassino.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.12

                                                  

                                                 Le forze del Fois, suo desiderio di affrontare i nemici, e ritirata di questi. Il re di Francia ordina di affrettare l'azione, per la tregua conclusa fra Massimiliano e i veneziani. Presa e sacco di Russi. L'esercito francese sotto Ravenna. Vano assalto alla città difesa da Marcantonio Colonna.

                                                  

                                                 Mossosi adunque Fois da Brescia, venne al Finale, ove poiché per alcuni dí fu soggiornato per fare massa di vettovaglie le quali si conducevano di Lombardia, e per raccorre tutte le genti che il re aveva in Italia, eccetto quelle che per necessità rimanevano alla guardia delle terre, impedito ancora da' tempi molto piovosi, venne a San Giorgio nel bolognese: nel quale luogo gli sopravennono, mandati di nuovo di Francia, tremila fanti guasconi mille venturieri e mille piccardi, eletti fanti e appresso a franzesi di nome grande: di maniera che in tutto, secondo il numero vero, erano seco cinquemila fanti tedeschi cinquemila guasconi e ottomila parte italiani parte del reame di Francia, e mille secento lancie, computando in questo numero i dugento gentiluomini. A questo esercito si doveva congiugnere il duca di Ferrara, con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e con apparato copioso di ottime artiglierie: perché Fois, impedito a condurre le sue per terra dalla difficoltà delle strade, l'aveva lasciate al Finale. Veniva medesimamente nell'esercito il cardinale di San Severino, diputato legato di Bologna dal concilio, cardinale feroce e piú inclinato all'armi che agli esercizi o pensieri sacerdotali. Ordinate in questo modo le cose si indirizzò contro agli inimici, ardente di desiderio di combattere cosí per i comandamenti del re, che ogni dí piú lo stimolava, come per la ferocia naturale del suo spirito e per la cupidità della gloria, accesa piú per la felicità de' successi passati; non perciò traportato tanto da questo ardore che avesse nell'animo di assaltargli temerariamente, ma appropinquandosi a' loro alloggiamenti tentare se spontaneamente venissino alla battaglia in luogo dove la qualità del sito non facesse inferiori le sue condizioni, o veramente, con impedire le vettovaglie, ridurgli a necessità di combattere. Ma molto differente era la intenzione degli inimici; nell'esercito de' quali, poi che sotto scusa di certa quistione se ne era partita la compagnia del duca di Urbino, essendo, secondo si diceva, mille quattrocento uomini d'arme mille cavalli leggieri e settemila fanti spagnuoli e tremila italiani soldati nuovamente, e riputandosi che i franzesi oltre all'eccedergli di numero avessino piú valorosa cavalleria, non pareva loro sicuro il combattere in luogo pari, almeno insino a tanto non sopravenissino seimila svizzeri, i quali avendo di nuovo consentito i cantoni di concedere, si trattava a Vinegia (dove per questo erano andati il cardinale sedunense e dodici imbasciadori di quella nazione) di soldargli a spese comuni del pontefice e de' viniziani. Aggiugnevasi la volontà del re d'Aragona, il quale per lettere e per uomini propri aveva comandato che, quanto fusse in potestà loro, s'astenessino dal combattere; perché, sperando principalmente in quello di che il re di Francia temeva principalmente, cioè che, differendosi insino a tanto che dal re di Inghilterra e da lui si cominciasse la guerra in Francia, sarebbe quel re necessitato a richiamare o tutte o la maggiore parte delle genti di là da' monti, e conseguentemente si vincerebbe la guerra in Italia senza sangue e senza pericolo: per la quale ragione arebbe, insino da principio, se non l'avessino commosso la instanza e le querele gravi del pontefice, proibito che si tentasse la espugnazione di Bologna. Dunque, il viceré di Napoli e gli altri capitani aveano deliberato di alloggiare sempre propinqui allo esercito franzese, perché non gli rimanesse in preda le città di Romagna e aperto il cammino di andare a Roma, ma porsi continuamente in luoghi sí forti, o per i siti o per avere qualche terra grossa alle spalle, che i franzesi non potessino assaltargli senza grandissimo disavvantaggio; e perciò non tenere conto né fare difficoltà di ritirarsi tante volte quante fusse di bisogno, giudicando, come uomini militari, non doversi attendere alle dimostrazioni e romori ma principalmente a ottenere la vittoria, dietro alla quale séguita la riputazione la gloria e le laudi degli uomini: per la quale deliberazione, il dí che l'esercito franzese alloggiò a Castelguelfo e a Medicina, essi che erano alloggiati appresso a detti luoghi si ritirorono alle mura d'Imola. Passorno il dí seguente i franzesi un miglio e mezzo appresso a Imola, stando gli inimici in ordinanza nel luogo loro; ma non volendo assaltargli con tanto disavvantaggio, passati piú innanzi, alloggiò l'avanguardia a Bubano castello distante da Imola quattro miglia, l'altre parti dell'esercito a Mordano e Bagnara terre vicine l'una all'altra poco piú di uno miglio, eleggendo di alloggiare sotto la strada maestra per la comodità delle vettovaglie; le quali si conducevano dal fiume del Po sicuramente, perché Lugo, Bagnacavallo e le terre circostanti, abbandonate dagli spagnuoli come Fois entrò nel bolognese, erano ritornate alla divozione del duca di Ferrara. Andorno l'altro giorno gli spagnuoli a Castel Bolognese, lasciato nella rocca di Imola presidio sufficiente e nella terra sessanta uomini d'arme sotto Giovanni Sassatello, alloggiando in sulla strada maestra e distendendosi verso il monte; e il dí medesimo i franzesi presono per forza il castello di Solarolo, e si arrenderono loro Cotignola e Granarolo, ove stettono il dí seguente, e gli inimici si fermorno nel luogo detto il Campo alle Mosche. Nelle quali piccole mutazioni e luoghi tanto vicini procedeva l'uno e l'altro esercito in ordinanza, con l'artiglieria innanzi e con la faccia volta agli inimici, come se a ogni ora dovesse cominciare la battaglia; e nondimeno, procedendo amendue con grandissima circospezione e ordine: l'uno per non si lasciare stringere a fare giornata se non in luogo dove il vantaggio del sito ricompensasse il disavvantaggio del numero e delle forze; l'altro per condurre in necessità di combattere gli inimici, ma in modo che in uno tempo medesimo non avessino la repugnanza dell'armi e del sito.

                                                 Ebbe Fois in questo alloggiamento nuove commissioni dal re che accelerasse il fare la giornata, augumentando le medesime cagioni che l'aveano indotto a fare il primo comandamento. Perché avendo i viniziani, benché indeboliti per il caso di Brescia, e astretti prima da' prieghi e poi da' protesti e minaccie del pontefice e del re d'Aragona, recusato pertinacemente la pace con Cesare se non si consentiva che ritenessino Vicenza, si era finalmente fatta tregua tra loro per otto mesi, innanzi al pontefice, con patto che ciascuno ritenesse quello possedeva e che pagassino a Cesare cinquantamila fiorini di Reno: onde non dubitando piú il re della sua alienazione, fu nel tempo medesimo certificato d'avere a ricevere la guerra di là da' monti. Perché Ieronimo Cabaviglia, oratore del re d'Aragona appresso a lui, fatta instanza di parlargli, presente il consiglio, aveva significato avere comandamento dal suo re di partirsi, e confortatolo in nome suo che desistesse dal favorire contro alla Chiesa i tiranni di Bologna, e da turbare per una causa sí ingiusta una pace di tanta importanza e tanto utile alla republica cristiana: offerendo, se per la restituzione di Bologna temeva di ricevere qualche danno, di assicurarlo con tutti i modi i quali esso medesimo desiderasse; e in ultimo soggiugnendo che non poteva mancare, come era debito di ciascuno principe cristiano, alla difesa della Chiesa. Perciò Fois, già certo non essere a proposito l'accostarsi agli inimici, perché, per la comodità che avevano delle terre di Romagna, non si potevano se non con molta difficoltà interrompere loro le vettovaglie, né sforzargli, senza disavvantaggio grande, alla giornata, indotto anche perché ne' luoghi dove era l'esercito suo pativa di vettovaglie, deliberò con consiglio de' suoi capitani di andare a campo a Ravenna; sperando che gli inimici, per non diminuire tanto di riputazione, non volessino lasciare perdere in su gli occhi loro una città tale, e cosí avere occasione di combattere in luogo eguale: e per impedire che l'esercito inimico, presentendo questo, non si accostasse a Ravenna si pose tra Cotignuola e Granarolo, lontano sette miglia da loro; dove stette fermo quattro dí, aspettando da Ferrara dodici cannoni e dodici pezzi minori d'artiglieria. La deliberazione del quale congetturando gli inimici mandorno a Ravenna Marcantonio Colonna, il quale innanzi consentisse d'andarvi bisognò che il legato, il viceré, Fabrizio, Pietro Navarra e tutti gli altri capitani gli obligassino ciascuno la fede sua di andare con tutto l'esercito, se i franzesi vi s'accampavano, a soccorrerlo; e con Marcantonio andorno sessanta uomini d'arme della sua compagnia, Pietro da Castro con cento cavalli leggieri, e Sallazart e Parades con secento fanti spagnuoli; il resto dello esercito si fermò alle mura di Faenza, dalla porta per la quale si va a Ravenna. Ove mentre stavano feciono con gli inimici una grossa scaramuccia: e in questo tempo Fois mandò cento lancie e mille cinquecento fanti a pigliare il castello di Russi, guardato solamente dagli uomini propri; i quali benché da principio, secondo l'uso della moltitudine, dimostrassino audacia, nondimeno, succedendo quasi subito in luogo di quella il timore, cominciorno il dí medesimo a trattare di arrendersi: per i quali ragionamenti i franzesi, vedendo allentata la diligenza del guardare, entrativi impetuosamente messono la terra a sacco; nella quale ammazzorno piú di dugento uomini, gli altri feciono prigioni. Da Russi si accostò Fois a Ravenna, e il dí seguente alloggiò appresso alle mura, tra i due fiumi in mezzo de' quali, è situata quella città.

                                                 Nascono ne' monti Apennini, ove partono la Romagna dalla Toscana, il fiume del Ronco detto dagli antichi Vitis, e il fiume del Montone, celebrato perché, eccettuato il Po, è il primo, de' fiumi che nascono dalla costa sinistra dello Apennino, che entri in mare per proprio corso: questi, mettendo in mezzo la città di Furlí, il Montone dalla mano sinistra quasi congiunto alle mura, il Ronco dalla destra ma distante circa due miglia, si ristringono in sí breve spazio presso a Ravenna che l'uno dall'una parte l'altro dall'altra passano congiunti alle sue mura; sotto le quali mescolate insieme l'acque entrano nel mare, lontano ora tre miglia ma che già, come è fama, bagnava le mura. Occupava lo spazio tra l'uno e l'altro di questi due fiumi l'esercito di Fois, avendo la fronte del campo a porta Adriana quasi contigua alla ripa del Montone. Piantorono la notte prossima l'artiglierie, parte contro alla torre detta Rancona situata tra la porta Adriana e il Ronco, parte di là dal Montone, dove per uno ponte gittato in sul fiume era passata una parte dello esercito: accelerando quanto potevano il battere per prevenire a dare la battaglia innanzi che gli inimici, i quali sapevano già essere mossi, si accostassino; né meno perché erano ridotti in grandissima difficoltà di vettovaglie, atteso che le genti viniziane, che si erano fermate a Ficheruolo, con legni armati impedivano quelle che si conducevano di Lombardia, e avendo affondate certe barche alla bocca del canale che entra in Po dodici miglia appresso a Ravenna e si conduce a due miglia presso a Ravenna, impedivano l'entrarvi quelle che venivano da Ferrara in su legni ferraresi, le quali condurre per terra in su le carra era difficile e pericoloso. Era oltre a questo molto incomodo e con pericolo l'andare a saccomanno, perché erano necessitati discostarsi sette o otto miglia dal campo. Dalle quali cagioni astretto Fois deliberò dare il dí medesimo la battaglia, ancora che conoscesse che era molto difficile l'entrarvi, perché del muro battuto non era rovinata piú che la lunghezza di trenta braccia né per quello si poteva entrare se non con le scale, conciossiaché fusse rimasta l'altezza da terra poco meno di tre braccia: le quali difficoltà per superare con la virtú e con l'ordine, e per accendergli con l'emulazione tra loro medesimi, partí in tre squadroni distinti l'uno dall'altro i fanti tedeschi italiani e franzesi, ed eletti di ciascuna compagnia di gente d'arme dieci de' piú valorosi, impose loro che coperti dalle medesime armi colle quali combattono a cavallo andassino a piede innanzi a' fanti; i quali accostatisi al muro dettono l'assalto molto terribile, difendendosi egregiamente quegli di dentro, con laude grande di Marcantonio Colonna, il quale non perdonando né a fatica né a pericolo soccorreva ora qua ora là secondo che piú era di bisogno. Finalmente i franzesi, perduta la speranza di spuntare gli inimici, e percossi con grave danno per fianco da una colubrina piantata in su uno bastione, avendo combattuto per spazio di tre ore, si ritirorno agli alloggiamenti, perduti circa trecento fanti e alcuni uomini d'arme e feritine quantità non minore, e tra gli altri Ciattiglione e Spinosa capitano dell'artiglierie, i quali percossi dall'artiglierie di dentro pochi dí poi morirono. Fu ancora ferito Federigo da Bozzole ma leggiermente.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.13

                                                  

                                                 L'esercito dei collegati si stanzia a tre miglia da Ravenna; deliberazione del Fois di assaltarlo. Ordine dell'esercito francese e parole del Fois ai soldati. Ordine dell'esercito dei collegati. La battaglia di Ravenna. Le perdite de' due eserciti. Sacco di Ravenna, l'esercito francese dopo la morte del Fois.

                                                  

                                                 Convertironsi dipoi il dí seguente i pensieri dal combattere le mura al combattere con gli inimici; i quali, alla mossa dello esercito franzese, volendo osservare la fede data a Marcantonio, entrati a Furlí, tra i fiumi medesimi e dopo alquante miglia passato il fiume del Ronco, venivano verso Ravenna. Nel quale tempo i cittadini della terra, impauriti per la battaglia data il dí precedente, mandorono senza saputa di Marcantonio uno di loro a trattare di arrendersi. Il quale mentre va innanzi e indietro con le risposte, ecco scoprirsi l'esercito inimico che camminava lungo il fiume. Alla vista del quale si levò subito con grandissimo romore in armi l'esercito franzese, armati tutti entrorno ne' loro squadroni, levoronsi tumultuosamente dalle mura l'artiglierie e levate si voltorno verso gli inimici; consultando intrattanto Fois con gli altri capitani se fusse da passare all'ora medesima il fiume per opporsi che non entrassino in Ravenna: il che o non arebbono deliberato di fare, o almeno era impossibile coll'ordine conveniente e con la prestezza necessaria; dove a loro fu facile l'entrare quel giorno in Ravenna, per il bosco della Pigneta che è tra 'l mare e la città: la qual cosa costrigneva i franzesi a partirsi, per la penuria delle vettovaglie, disonoratamente della Romagna. Ma essi, o non conoscendo l'occasione e temendo di non essere sforzati, mentre camminavano, a combattere in campagna aperta, o giudicando per l'approssimarsi loro essere abbastanza soccorsa Ravenna, perché Fois non ardirebbe piú di darvi la battaglia, si fermorno contro all'espettazione di tutti appresso a tre miglia a Ravenna, dove si dice il Mulinaccio, e fermati attesono, tutto il rimanente di quel dí e la notte seguente, a fare lavorare un fosso, tanto largo e tanto profondo quanto patí la brevità del tempo, innanzi alla fronte del loro alloggiamento. Nel qual tempo si consigliava, non senza diversità di pareri, tra' capitani franzesi. Perché dare di nuovo l'assalto alla città era giudicato di molto pericolo, avendo innanzi a sé poca apertura del muro e alle spalle gli inimici; inutile il soprasedere, senza speranza di fare piú effetto alcuno, anzi impossibile per la carestia delle vettovaglie; e il ritirarsi rendere agli spagnuoli maggiore riputazione di quella che essi col farsi innanzi avevano i dí precedenti guadagnata: pericolosissimo, e contro alle deliberazioni sempre fatte, l'assaltargli nel loro alloggiamento, il quale si pensava avessino fortificato; e tra tutti i pericoli doversi piú fuggire quello dal quale ne potevano succedere maggiori mali, né potersi disordine o male alcuno pareggiare all'essere rotti. Nelle quali difficoltà fu alla fine deliberato, confortando massimamente Fois questa deliberazione come cosa piú gloriosa e piú sicura, andare, come prima apparisse il dí, ad assaltare gli inimici: secondo la quale deliberazione, gittato la notte il ponte in sul Ronco e spianati, per facilitare il passare, gli argini delle ripe da ogni parte, la mattina all'aurora che fu l'undecimo dí d'aprile, dí solennissimo per la memoria della santissima Resurrezione, passorno per il ponte i fanti tedeschi, ma quasi tutti quegli della avanguardia e della battaglia passorno a guazzo il fiume; il retroguardo guidato da Ivo di Allegri, nel quale erano quattrocento lancie, rimase in sulla riva del fiume verso Ravenna, perché secondo il bisogno potesse soccorrere all'esercito e opporsi se i soldati o il popolo uscissino di Ravenna; e alla guardia del ponte, gittato prima in sul Montone, fu lasciato Paris Scoto con mille fanti.

                                                 Preparoronsi con questo ordine i franzesi alla battaglia. L'avanguardia con l'artiglierie innanzi, guidata dal duca di Ferrara, e ove era anche il [generale] di Normandia con settecento lancie e co' fanti tedeschi, fu collocata in sulla riva del fiume che era loro a mano destra, stando i fanti alla sinistra della cavalleria. Allato all'antiguardia, pure per fianco, furno posti i fanti della battaglia, ottomila, parte guasconi parte piccardi; e dipoi, allargandosi pure sempre tanto piú dalla riva del fiume, fu posto l'ultimo squadrone de' fanti italiani guidati da Federico da Bozzole e da... degli Scotti, nel quale non erano piú che cinquemila fanti, perché con tutto che Fois, passando innanzi a Bologna, avesse raccolti quelli che vi erano a guardia, molti si erano fuggiti per la strettezza de' pagamenti; e allato a questo squadrone, tutti gli arcieri e cavalli leggieri che passavano il numero di tremila. Dietro a tutti questi squadroni, i quali non distendendosi per linea retta ma piegandosi facevano quasi forma di mezza luna, dietro a tutti, in sulla riva del fiume erano collocate le secento lancie della battaglia, guidate dal la Palissa e insieme dal cardinale di San Severino legato del concilio, il quale grandissimo di corpo e di vasto animo, coperto dal capo insino a' piedi d'armi lucentissime, faceva molto piú l'ufficio del capitano che di cardinale o di legato. Non si riservò Fois luogo o cura alcuna particolare, ma eletti di tutto l'esercito trenta valorosissimi gentiluomini volle essere libero a provedere e soccorrere per tutto, facendolo manifestamente riconoscere dagli altri lo splendore e la bellezza dell'armi e la sopravesta, e allegrissimo nel volto, con gli occhi pieni di vigore e quasi per la letizia sfavillanti. Come l'esercito fu ordinato, salito in su l'argine del fiume, con facondia (cosí divulgò la fama) piú che militare, parlò accendendo gli animi dello esercito in questo modo:

                                                 - Quello che, soldati miei, noi abbiamo tanto desiderato, di potere nel campo aperto combattere con gli inimici, ecco che, questo dí, la fortuna stataci in tante vittorie benigna madre ci ha largamente conceduto, dandoci l'occasione d'acquistare con infinita gloria la piú magnifica vittoria che mai alla memoria degli uomini acquistasse esercito alcuno: perché non solo Ravenna non solo tutte le terre di Romagna resteranno esposte alla vostra discrezione ma saranno parte minima de' premi del vostro valore; conciossiaché, non rimanendo piú in Italia chi possa opporsi all'armi vostre, scorreremo senza resistenza alcuna insino a Roma; ove le ricchezze smisurate di quella scelerata corte, estratte per tanti secoli dalle viscere de' cristiani, saranno saccheggiate da voi: tanti ornamenti superbissimi tanti argenti tanto oro tante gioie tanti ricchissimi prigioni che tutto il mondo arà invidia alla sorte vostra. Da Roma, colla medesima facilità, correremo insino a Napoli, vendicandoci di tante ingiurie ricevute. La quale felicità io non so immaginarmi cosa alcuna che sia per impedircela, quando io considero la vostra virtú la vostra fortuna l'onorate vittorie che avete avute in pochi dí, quando io riguardo i volti vostri, quando io mi ricordo che pochissimi sono di voi che innanzi agli occhi miei non abbino con qualche egregio fatto data testimonianza del suo valore. Sono gli inimici nostri quegli medesimi spagnuoli che per la giunta nostra si fuggirono vituperosamente di notte da Bologna; sono quegli medesimi che, pochi dí sono, non altrimenti che col fuggirsi alle mura d'Imola e di Faenza o ne' luoghi montuosi e difficili, si salvorono da noi. Non combatté mai questa nazione nel regno di Napoli con gli eserciti nostri in luogo aperto ed eguale ma con vantaggio sempre o di ripari o di fiumi o di fossi, non confidatisi mai nella virtú ma nella fraude e nelle insidie. Benché, questi non sono quegli spagnuoli inveterati nelle guerre napoletane ma gente nuova e inesperta, e che non combatté mai contro ad altre armi che contro agli archi e le freccie e le lancie spuntate de' mori; e nondimeno rotti con tanta infamia, da quella gente debole di corpo timida d'animo disarmata e ignara di tutte l'arti della guerra, l'anno passato, all'Isola delle Gerbe; dove fuggendo questo medesimo Pietro Navarra, capitano appresso a loro di tanta fama, fu esempio memorabile a tutto il mondo che differenza sia a fare battere le mura con l'impeto della polvere e con le cave fatte nascosamente sotto terra a combattere con la vera animosità e fortezza. Stanno ora rinchiusi dietro a uno fosso fatto con grandissima paura questa notte, coperti i fanti dall'argine e confidatisi nelle carrette armate come se la battaglia si avesse a fare con questi instrumenti puerili e non con la virtú dell'animo e con la forza de' petti e delle braccia. Caverannogli, prestatemi fede, di queste loro caverne le nostre artiglierie, condurrannogli alla campagna scoperta e piana: dove apparirà quello che l'impeto franzese la ferocia tedesca e la generosità degli italiani vaglia piú che l'astuzia e gli inganni spagnuoli. Non può cosa alcuna diminuire la gloria nostra se non l'essere noi tanto superiori di numero, e quasi il doppio di loro; e nondimeno, l'usare questo vantaggio, poiché ce lo ha dato la fortuna, non sarà attribuito a viltà nostra ma a imprudenza e temerità loro: i quali non conduce a combattere il cuore o la virtú ma l'autorità di Fabbrizio Colonna, per le promesse fatte inconsideratamente a Marcantonio; anzi la giustizia divina, per castigare con giustissime pene la superbia ed enormi vizi di Giulio falso pontefice, e tante fraudi e tradimenti usati alla bontà del nostro re dal perfido re di Aragona. Ma perché mi distendo io piú in parole? perché con superflui conforti, appresso a soldati di tanta virtú, differisco io tanto la vittoria quanto di tempo si consuma a parlare con voi? Fatevi innanzi valorosamente secondo l'ordine dato, certi che questo dí darà al mio re la signoria a voi le ricchezze di tutta Italia. Io vostro capitano sarò sempre in ogni luogo con voi ed esporrò, come sono solito, la vita mia a ogni pericolo; felicissimo piú che mai fusse alcuno capitano poi che ho a fare, con la vittoria di questo dí, piú gloriosi e piú ricchi i miei soldati che mai, da trecento anni in qua, fussino soldati o esercito alcuno. -

                                                 Da queste parole, risonando l'aria di suoni di trombe e di tamburi e di allegrissimi gridi di tutto l'esercito, cominciorono a muoversi verso lo alloggiamento degli inimici, distante dal luogo dove avevano passato il fiume manco di due miglia: i quali, alloggiati distesi in su la riva del fiume che era loro da mano sinistra, e fatto innanzi a sé uno fosso tanto profondo quanto la brevità del tempo aveva permesso (che girando da mano destra cigneva tutto lo alloggiamento), lasciato aperto per potere uscire co' cavalli a scaramucciare in su la fronte del fosso uno spazio di venti braccia, dentro al quale alloggiamento, come sentirno i franzesi cominciare a passare il fiume, si erano messi in battaglia con questo ordine: l'avanguardia di ottocento uomini d'arme, guidata da Fabrizio Colonna, collocata lungo la riva del fiume, e congiunto a quella a mano destra uno squadrone di seimila fanti: dietro all'avanguardia, pure lungo il fiume, era la battaglia di secento lancie, e allato uno squadrone di quattromila fanti, condotta dal viceré, e con lui il marchese della Palude; e in questa veniva il cardinale de' Medici, privo per natura in gran parte del lume degli occhi, mansueto di costumi e in abito di pace, e nelle dimostrazioni e negli effetti molto dissimile al cardinale di San Severino. Seguitava dietro alla battaglia, pure in su la riva del fiume, il retroguardo di quattrocento uomini d'arme condotto da Carvagial capitano spagnuolo, con lo squadrone allato di quattromila fanti; e i cavalli leggieri, de' quali era capitano generale Fernando Davalo marchese di Pescara, ancora giovanetto ma di rarissima espettazione, erano posti a mano destra alle spalle de' fanti per soccorrere quella parte che inclinasse: l'artiglierie erano poste alla testa delle genti d'arme; e Pietro Navarra, che con cinquecento fanti eletti non si era obligato a luogo alcuno, aveva in sul fosso alla fronte della fanteria collocato trenta carrette che avevano similitudine de' carri falcati degli antichi, cariche di artiglierie minute, con uno spiede lunghissimo sopra esse per sostenere piú facilmente l'assalto de' franzesi. Col quale ordine stavano fermi dentro alla fortezza del fosso, aspettando che l'esercito inimico venisse ad assaltargli: la quale deliberazione come non riuscí utile nella fine apparí similmente molto nociva nel principio. Perché era stato consiglio di Fabrizio Colonna che si percotesse negli inimici quando cominciorno a passare il fiume, giudicando maggiore vantaggio il combattere con una parte sola che quello che dava loro l'avere fatto innanzi a sé uno piccolo fosso; ma contradicendo Pietro Navarra, i cui consigli erano accettati quasi come oracoli dal viceré, fu deliberato, poco prudentemente, lasciargli passare.

                                                 Però, fattisi innanzi i franzesi e già vicini circa dugento braccia al fosso, come veddeno stare fermi gli inimici né volere uscire dello alloggiamento si fermorono, per non dare quello vantaggio che essi cercavano d'avere. Cosí stette immobile l'uno esercito e l'altro per spazio di piú di due ore; tirando in questo tempo da ogni parte infiniti colpi d'artiglierie, dalle quali pativano non poco i fanti de' franzesi per avere il Navarra piantato l'artiglieria in luogo che molto gli offendeva. Ma il duca di Ferrara, tirata dietro all'esercito una parte dell'artiglierie, le condusse con celerità grande alla punta de' franzesi, nel luogo proprio dove erano collocati gli arcieri: la quale punta, per avere l'esercito forma curva, era quasi alle spalle degli inimici: donde cominciò a battergli per fianco ferocemente, e con grandissimo danno, massime della cavalleria, perché i fanti spagnuoli, ritirati dal Navarra in luogo basso accanto all'argine del fiume e gittatisi per suo comandamento distesi in terra, non potevano essere percossi. Gridava con alta voce Fabbrizio, e con spessissime imbasciate importunava il viceré, che senza aspettare di essere consumati da' colpi delle artiglierie si uscisse alla battaglia; ma ripugnava il Navarra, mosso da perversa ambizione, perché presupponendosi dovere per la virtú de' fanti spagnuoli rimanere vittorioso, quando bene fussino periti tutti gli altri, riputava tanto augumentarsi la gloria sua quanto piú cresceva il danno dell'esercito. Ma era già tale il danno che nella gente d'arme e ne' cavalli leggieri faceva l'artiglieria che piú non si poteva sostenere; e si vedevano, con miserabile spettacolo mescolato con gridi orribili, ora cadere per terra morti i soldati e i cavalli ora balzare per aria le teste e le braccia spiccate dal resto del corpo. Però Fabrizio, esclamando: - abbiamo noi tutti vituperosamente a morire per la ostinazione e per la malignità di uno marrano? ha a essere distrutto tutto questo esercito senza che facciamo morire uno solo degli inimici? dove sono le nostre tante vittorie contro a' franzesi? ha l'onore di Spagna e di Italia a perdersi per uno Navarro? - spinse fuora del fosso la sua gente d'arme, senza aspettare o licenza o comandamento del viceré: dietro al quale seguitando tutta la cavalleria, fu costretto Pietro Navarra dare il segno a' suoi fanti; i quali, rizzatisi con ferocia grande, si attaccorono co' fanti tedeschi che già s'erano approssimati a loro. Cosí mescolate tutte le squadre cominciò una grandissima battaglia, e senza dubbio delle maggiori che per molti anni avesse veduto Italia: perché e la giornata del Taro era stata poco altro piú che uno gagliardo scontro di lancie, e i fatti d'arme del regno di Napoli furono piú presto disordini o temerità che battaglie, e nella Ghiaradadda non aveva dell'esercito de' viniziani combattuto altro che la minore parte; ma qui, mescolati tutti nella battaglia, che si faceva in campagna piana senza impedimento di acque o ripari, combattevano due eserciti d'animo ostinato alla vittoria o alla morte, infiammati non solo dal pericolo dalla gloria e dalla speranza ma ancora da odio di nazione contro a nazione. E fu memorabile spettacolo che, nello scontrarsi i fanti tedeschi con gli spagnuoli, messisi innanzi agli squadroni due capitani molto pregiati, Iacopo Empser tedesco e Zamudio spagnuolo, combatterono quasi per provocazione; dove ammazzato lo inimico restò lo spagnuolo vincitore. Non era, per l'ordinario, pari la cavalleria dell'esercito della lega alla cavalleria de' franzesi, e l'avevano il dí conquassata e lacerata in modo l'artiglierie che era diventata molto inferiore: però, poi che ebbe sostentato per alquanto spazio di tempo piú col valore del cuore che colle forze l'impeto degli inimici, e sopravenendo addosso a loro per fianco Ivo d'Allegri col retroguardo e co' mille fanti lasciati al Montone, chiamato dal la Palissa, e preso già da' soldati del duca di Ferrara Fabbrizio Colonna mentre che valorosamente combatteva, non potendo piú resistere voltò le spalle; aiutata anche dall'esempio de' capitani, perché il viceré e Carvagial, non fatta l'ultima esperienza della virtú de' suoi, si messono in fuga conducendone quasi intero il terzo squadrone; e con loro fuggí Antonio De Leva, uomo allora di piccola condizione ma che poi, esercitato per molti anni in tutti i gradi della milizia, diventò chiarissimo capitano. Erano già stati rotti tutti i cavalli leggieri e preso il marchese di Pescara loro capitano, pieno di sangue e di ferite; preso il marchese della Palude, il quale per uno campo pieno di fosse e di pruni aveva condotto alla battaglia con disordine grande il secondo squadrone; coperto il terreno di cavalli e d'uomini morti; e nondimeno la fanteria spagnuola, abbandonata da' cavalli, combatteva con incredibile ferocia; e se bene nel primo scontro co' fanti tedeschi era stata alquanto urtata dall'ordinanza ferma delle picche, accostatasi poi a loro alla lunghezza delle spade, e molti degli spagnuoli coperti dagli scudi entrati co' pugnali tra le gambe de' tedeschi, erano con grandissima uccisione pervenuti già quasi a mezzo lo squadrone. Presso a' quali i fanti guasconi, occupata la via tra il fiume e l'argine, avevano assaltato i fanti italiani; i quali, benché avessino patito molto dall'artiglieria, nondimeno gli rimettevano con somma laude se con una compagnia di cavalli non fusse entrato tra loro Ivo d'Allegri: con maggiore virtú che fortuna, perché essendogli quasi subito ucciso innanzi agli occhi propri Viverroé, suo figliuolo, egli non volendo sopravivere a tanto dolore, gittatosi col cavallo nella turba piú stretta degli inimici, combattendo come si conveniva a fortissimo capitano e avendone già morti di loro, fu ammazzato. Piegavano i fanti italiani non potendo resistere a tanta moltitudine, ma una parte de' fanti spagnuoli, corsa al soccorso loro, gli fermò nella battaglia; e i fanti tedeschi, oppressi dall'altra parte degli spagnuoli, a fatica potevano piú resistere: ma essendo già fuggita tutta la cavalleria, si voltò loro addosso Fois con grande moltitudine di cavalli; per il che gli spagnuoli, piú tosto ritraendosi che scacciati dalla battaglia, non perturbati in parte alcuna gli ordini loro, entrati in su la via che è tra il fiume e l'argine, camminando di passo e con la fronte stretta, e però per la fortezza di quella ributtando i franzesi, cominciorono a discostarsi. Nel qual tempo il Navarra, desideroso piú di morire che di salvarsi e però non si partendo dalla battaglia, rimase prigione. Ma non potendo comportare Fois che quella fanteria spagnuola se ne andasse, quasi come vincitrice, salva nell'ordinanza sua, e conoscendo non essere perfetta la vittoria se questi come gli altri non si rompevano, andò furiosamente ad assaltargli con una squadra di cavalli, percotendo negli ultimi; da' quali attorniato e gittato da cavallo o, come alcuni dicono, essendogli caduto mentre combatteva il cavallo addosso, ferito d'una lancia in uno fianco fu ammazzato: e se, come si crede, è desiderabile il morire a chi è nel colmo della maggiore prosperità, morte certo felicissima, morendo acquistata già sí gloriosa vittoria. Morí di età molto giovane, e con fama singolare per tutto il mondo, avendo in manco di tre mesi, e prima quasi capitano che soldato, con incredibile celerità e ferocia ottenuto tante vittorie. Rimase in terra appresso a lui con venti ferite Lautrech, quasi per morto; che poi, condotto a Ferrara, per la diligente cura de' medici salvò la vita.

                                                 Per la morte di Fois furno lasciati andare senza molestia alcuna i fanti spagnuoli: il rimanente dell'esercito era già dissipato e messo in fuga, presi i carriaggi, prese le bandiere e l'artiglierie, preso il legato del pontefice, il quale dalle mani degli stradiotti venuto in potestà di Federico da Bozzole fu da lui presentato al legato del concilio; presi Fabrizio Colonna Pietro Navarra il marchese della Palude quello di Bitonto il marchese di Pescara e molti altri signori e baroni e onorati gentiluomini spagnuoli e del regno di Napoli. Niuna cosa è piú incerta che il numero de' morti nelle battaglie; nondimeno, nella varietà di molti, si afferma piú comunemente che trall'uno esercito e l'altro morirno almeno diecimila uomini, il terzo de' franzesi i due terzi degli inimici; altri dicono di molti piú, ma senza dubbio quasi tutti i piú valorosi e piú eletti, tra' quali, degli ecclesiastici, Raffaello de' Pazzi condottiere di chiaro nome; e moltissimi feriti. Ma in questa parte fu senza comparazione molto maggiore il danno del vincitore per la morte di Fois, di Ivo d'Allegri e di molti uomini della nobiltà franzese; il capitano Iacob, e piú altri valorosi capitani della fanteria tedesca, alla virtú della quale si riferiva, ma con prezzo grande del sangue loro, in non piccola parte la vittoria; molti capitani, insieme con Molard, de' guasconi e de' piccardi: le quali nazioni perderono, quel dí, appresso a' franzesi tutta la gloria loro. Ma tutto il danno trapassò la morte di Fois, col quale mancò del tutto il nervo e la ferocia di quello esercito. De' vinti che si salvorno nella battaglia fuggí la maggiore parte verso Cesena, onde fuggivano ne' luoghi piú distanti; né il viceré si fermò prima che in Ancona, ove pervenne accompagnato da pochissimi cavalli. Furonne svaligiati e morti molti nella fuga, perché e i paesani correvano per tutto alle strade, e il duca di Urbino, il quale, mandato molti dí prima Baldassarre da Castiglione al re di Francia, e avendo uomini propri appresso a Fois, si credeva che occultamente avesse convenuto contro al zio, non solo suscitò contro a quegli che fuggivano gli uomini del paese ma mandò soldati a fare il medesimo nel territorio di Pesero: sole quelle che fuggirono per le terre de' fiorentini, per comandamento degli ufficiali, e poi della republica, passorno illese.

                                                 Ritornato l'esercito vincitore agli alloggiamenti, i ravennati mandorno subito ad arrendersi: ma, o mentre che convengono o che già convenuto attendono a ordinare vettovaglie per mandarle nel campo, intermessa la diligenza del guardare le mura, i fanti tedeschi e guasconi, entrati per la rottura del muro battuto nella terra, crudelissimamente la saccheggiorno; accendendogli a maggiore crudeltà, oltre all'odio naturale contro al nome italiano, lo sdegno del danno ricevuto nella giornata. Lasciò, il quarto dí poi, Marcantonio Colonna la cittadella nella quale si era rifuggito, salve le persone e la roba; ma promettendo all'incontro insieme con gli altri capitani, di non prendere piú arme né contro al re di Francia né contro al concilio pisano insino alla festività prossima di Maria Maddalena: né molti dí poi, 'l vescovo Vitello preposto con cento cinquanta fanti alla rocca, concedutagli la medesima facoltà, consentí di darla. Seguitorno la fortuna della vittoria le città di Imola di Furlí di Cesena e di Rimini, e tutte le rocche della Romagna, eccetto quelle di Furlí e di Imola: le quali tutte furno ricevute dal legato in nome del concilio pisano. Ma l'esercito franzese, rimasto per la morte di Fois e per tanto danno ricevuto come attonito, dimorava oziosamente quattro miglia appresso a Ravenna; e incerti il legato e la Palissa (ne' quali era pervenuto il governo, perché Alfonso da Esti se ne era già ritornato a Ferrara) quale fusse la volontà del re, aspettavano le sue commissioni, non essendo anche appresso a' soldati di tanta autorità che fusse bastante a fare muovere l'esercito, implicato nel dispensare o mandare in luoghi sicuri le robe saccheggiate, e indeboliti tanto di forze e di animo per la vittoria acquistata con tanto sangue che parevano piú simili a vinti che vincitori; onde tutti i soldati con lamenti e con lacrime chiamavano il nome di Fois; il quale, non impediti né spaventati da cosa alcuna, arebbono seguitato per tutto. Né si dubitava che, tirato dallo impeto della sua ferocia e dalle promesse fattegli, secondo si diceva, dal re, che a lui si acquistasse il reame di Napoli, sarebbe, subito dopo la vittoria, con la consueta celerità corso a Roma, e che il pontefice e gli altri, non avendo alcuna altra speranza di salvarsi, si sarebbeno precipitosamente messi in fuga.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.14

                                                  

                                                 I cardinali premono sul pontefice per indurlo alla pace; per la deliberazione contraria insistono gli ambasciatori del re d'Aragona e de' veneziani; incertezza del pontefice piú propenso alla guerra che alla pace. Fuggevoli speranze di pace. Il pontefice incoraggiato dall'allontanarsi della minaccia francese. Si apre il concilio lateranense.

                                                  

                                                 Pervenne la nuova della rotta a Roma il terzodecimo dí di aprile; portata da Ottaviano Fregoso che corse co' cavalli delle poste da Fossombrone, e sentita con grandissima paura e tumulto da tutta la corte. Però i cardinali, concorsi subitamente al pontefice, lo strignevano con sommi prieghi che, accettando la pace la quale non diffidavano potersi ottenere assai onesta dal re di Francia, si disponesse a liberare oramai la sedia apostolica e la persona sua da tanti pericoli: avere affaticato assai per la esaltazione della Chiesa e per la libertà d'Italia, e acquistato gloria anche della sua santa intenzione; essergli stata, in cosí pietosa impresa, avversa, come si era veduto per tanti segni, la volontà di Dio, alla quale volersi opporre non essere altro che mettere tutta la Chiesa in ultima ruina: appartenere piú a Dio che a lui la cura della sua sposa; però rimettessesene alla volontà sua e, abbracciando la pace secondo il precetto dello evangelio, traesse di tanti affanni la sua vecchiezza, lo stato della Chiesa e tutta la sua corte, che non bramava né gridava altro che pace: essere da credere che già i vincitori si fussino mossi per venire a Roma, co' quali sarebbe congiunto il suo nipote; congiugnerebbonsi medesimamente Ruberto Orsino Pompeio Colonna Antimo Savello Pietro Margano e Renzo Mancino (questi si sapeva che, ricevuti danari dal re di Francia, si preparavano, insino innanzi alla giornata, per molestare Roma): a' quali pericoli che altro rimedio essere che la pace? Da altra parte, gli imbasciadori del re d'Aragona e del senato viniziano facevano in contrario gravissima instanza, sforzandosi persuadergli non essere le cose tanto afflitte né ridotte in tanto esterminio, né cosí dissipato l'esercito che non si potesse in brevissimo tempo né con grave spesa riordinare: sapersi pure, il viceré essersi salvato con la maggiore parte de' cavalli; essersi partita dal fatto d'arme ristretta insieme in ordinanza la fanteria spagnuola, la quale se fusse salva, come era verisimile, ogni altra perdita essere di piccolo momento; né aversi da temere che i franzesi potessino venire verso Roma cosí presto che non avesse tempo a provedersi, perché era necessario che alla morte del capitano fussino accompagnati molti disordini e molti danni, ed essere per tenergli sospesi il sospetto de' svizzeri, i quali non essere piú da dubitare che si dichiarerebbono per la lega e scenderebbono in Lombardia; né si potere sperare di ottenere la pace dal re di Francia se non con condizioni ingiustissime e piene di infamia, e aversi a ricevere anche le leggi dalla superbia di Bernardino Carvagial e dalla insolenza di Federigo da San Severino: però, ogn'altra cosa essere migliore che con tanta indignità e con tanta infamia mettersi, sotto nome di pace, in acerbissima e infedelissima servitú, perché non cesserebbeno mai quegli scismatici di perseguitare la degnità e la vita sua; essere molto minore male, quando pure non si potesse fare altrimenti, abbandonare Roma e ridursi con tutta la corte o nel reame di Napoli o a Vinegia, dove starebbe con la medesima sicurtà e onore e con la medesima grandezza; perché con la perdita di Roma non si perdeva il pontificato, annesso sempre in qualunque luogo alla persona del pontefice: ritenesse pure la solita costanza e magnanimità; perché Dio, scrutatore de' cuori degli uomini, non mancherebbe d'aiutare il santissimo proposito suo né abbandonerebbe la navicella di Pietro, solita a essere vessata dalle onde del mare ma non giammai a sommergersi; e i príncipi cristiani, concitati dal zelo della religione e dal timore della troppa grandezza del re di Francia, piglierebbeno con tutte le forze e con le persone proprie la sua difesa. Le quali cose udiva il pontefice con somma ambiguità e sospensione, e in modo che si potesse facilmente comprendere, combattere in lui da una parte l'odio lo sdegno e la pertinacia insolita a essere vinta o a piegarsi, dall'altra il pericolo e il timore; e si comprendeva anche, per le risposte faceva agl'imbasciadori, non gli essere tanto molesto lo abbandonare Roma quanto il non potere ridursi in luogo alcuno dove non fusse in potestà d'altri: però rispondeva a' cardinali volere la pace, consentendo si ricercassino i fiorentini che se ne interponessino col re di Francia, e nondimeno non ne rispondeva con tale risoluzione né con parole tanto aperte che facessino piena fede della sua intenzione; aveva fatto venire da Civitavecchia il Biascia genovese, capitano delle sue galee, onde si interpetrava che e' pensasse a partirsi da Roma, e poco di poi l'aveva licenziato; ragionava di soldare quegli baroni romani che non erano nella congiura con gli altri, udiva volentieri i conforti de' due imbasciadori ma rispondendo il piú delle volte parole contumeliose e piene di sdegno. Nel qual tempo sopravenne Giulio de' Medici cavaliere di Rodi, che fu poi pontefice, il quale il cardinale Medici, ottenuta licenza dal cardinale Sanseverino, mandava dall'esercito, in nome per raccomandarsegli in tanta calamità ma in fatto per riferirgli lo stato delle cose: da cui avendo inteso pienamente quanto fussino indeboliti i Franzesi, di quanti capitani fussino privati, quanto valorosa gente avessino perduta, quanti fussino quegli che per molti dí erano inutili per le ferite, guasti infiniti cavalli, dissipata parte dello esercito in vari luoghi per il sacco di Ravenna, i capitani sospesi e incerti della volontà del re, né molto concordi tra loro perché la Palissa recusava di comportare la insolenza di San Severino che voleva fare l'officio di legato e di capitano, sentirsi occulti mormorii della venuta de' svizzeri né vedersi segno alcuno che quello esercito fusse per muoversi presto, dalla quale relazione confortato molto il pontefice, introdottolo nel concistorio gli fece riferire a' cardinali le cose medesime. E si aggiunse che il duca d'Urbino, quel che lo movesse, mutato consiglio, gli mandò a offerire dugento uomini d'arme e quattromila fanti. Perseveravano nondimeno i cardinali a stimolarlo alla pace: dalla quale benché con le parole non si dimostrasse alieno, aveva nondimeno nell'[animo di non l']accettare se non per ultimo e disperato rimedio; anzi, quando bene al male presente non si dimostrasse medicina presente, aderiva piú tosto al fuggire di Roma, pure che non rimanesse al tutto disperato che e dall'armi de' príncipi avesse a essere aiutata la causa sua e specialmente che i svizzeri si movessino; i quali, dimostrandosi inclinati a' suoi desideri, aveano molti dí innanzi vietato agli imbasciadori del re di Francia di andare al luogo nel quale, per determinare sopra le dimande del pontefice, convenivano i deputati da tutti i cantoni.

                                                 Lampeggiò in questo stato alcuna speranza della pace. Perché il re di Francia, innanzi si facesse la giornata, commosso da tanti pericoli che gli soprastavano da tante parti e sdegnato dalla varietà di Cesare e dalle dure leggi gli proponeva, e perciò finalmente deliberato di cedere piú tosto in molte cose alla volontà del pontefice, aveva occultamente mandato Fabrizio Carretta fratello del cardinale del Finale a' cardinali di Nantes e di Strigonia, che mai del tutto avevano abbandonati i ragionamenti della concordia, proponendo essere contento che Bologna si rendesse al pontefice, che Alfonso da Esti gli desse Lugo e tutte l'altre terre teneva nella Romagna, obligassesi al censo antico e che piú non si facessino sali nelle sue terre, e che si estinguesse il concilio pisano; non dimandando dal pontefice altro che la pace solamente con lui, che Alfonso da Esti fusse assoluto dalle censure e reintegrato nelle antiche ragioni e privilegi suoi, che a' Bentivogli, i quali stessino in esilio, fussino riservati i beni propri, e restituiti alle degnità i cardinali e prelati che aveano aderito al concilio: le quali condizioni, benché i due cardinali temessino che essendo di poi succeduta la vittoria non fussino piú consentite dal re, né ardirono proporle in altra maniera, né egli, essendo tanto onorate per lui, né volendo ancora manifestare quella occulta deliberazione che aveva nell'animo, potette recusarle; anzi forse giudicò essere piú utile ingegnarsi di fermare con questi ragionamenti l'armi del re, per avere maggiore spazio di tempo a vedere i progressi di coloro ne’ quali si collocavano le reliquie delle speranze sue. Però, facendo del medesimo instanza tutti i cardinali, sottoscrisse, il nono dí dalla giornata, questi capitoli, aggiugnendo a' cardinali la fede di accettargli se il re gli confermava; e al cardinale del Finale, che dimorava in Francia, ma assente, per non offendere il pontefice, dalla corte, e al vescovo di Tivoli, il quale teneva in Avignone il luogo del legato, commesse per lettere si trasferissino al re per trattare queste cose; ma non espedí loro né mandato né possanza di conchiuderle.

                                                 Insino a questo termine procedettono i mali del pontefice, insino a questo dí fu il colmo delle sue calamità e de' suoi pericoli: ma dopo quel dí cominciorno a dimostrarsi continuamente le speranze maggiori, e a volgersi alla grandezza sua, senza alcuno freno, la ruota della fortuna. Dette principio a tanta mutazione la partita subita del la Palissa di Romagna; il quale, richiamato dal generale di Normandia per il romore che cresceva della venuta de' svizzeri, si mosse coll'esercito verso il ducato di Milano, lasciati in Romagna, sotto il legato del concilio, trecento lancie trecento cavalli leggieri e seimila fanti con otto pezzi grossi di artiglieria: e rendeva maggiore il timore che s'aveva de' svizzeri che il medesimo generale, pensando piú a farsi grato al re che a fargli beneficio, aveva, contro a quel che ricercavano le cose presenti, licenziati imprudentemente, subito che fu acquistata la vittoria, i fanti italiani e una parte de' franzesi. La partita del la Palissa assicurò il pontefice da quel timore che piú gli premeva, confermollo nella pertinacia e gli dette facilità di fermare le cose di Roma; per le quali aveva soldati alcuni baroni di Roma con trecento uomini d'arme, e trattava di fare capitano generale Prospero Colonna: perché, indeboliti gli animi di chi tentava cose nuove, Pompeio Colonna che si preparava a Montefortino consentí, interponendosene Prospero, di diporre, per sicurtà del pontefice, in mano di Marcantonio Colonna Montefortino, ritenendosi bruttamente i danari avuti dal re di Francia; onde e Ruberto Orsino, che prima era venuto da Pitigliano nelle terre de' Colonnesi per muovere l'armi, ritenendosi medesimamente i danari avuti dal re, concordò poco poi per mezzo di Giulio Orsino, ricevuto dal pontefice in premio della sua perfidia l'arcivescovado di Reggio nella Calavria. Solo Pietro Margano si vergognò di ritenere i danari pervenuti a lui: con consiglio migliore e piú fortunato, perché, non molto tempo di poi, preso nella guerra dal successore del presente re, arebbe col supplicio debito pagata la pena della fraude.

                                                 Dalle quali cose confermato molto l'animo del pontefice, poi che cessava il timore presente degli inimici forestieri e de' domestici, dette il terzo dí di maggio, con grandissima solennità, principio al concilio nella chiesa di San Giovanni in Laterano, già certo che non solo vi concorrerebbe la maggiore parte di Italia, ma la Spagna l'Inghilterra e l'Ungheria. Al quale principio intervenne egli personalmente in abito pontificale, accompagnato dal collegio de' cardinali e da moltitudine grande di vescovi; ove celebrata, oltre a molte altre preci, secondo il costume antico, la messa dello Spirito santo, ed esortati con una publica orazione i Padri a intendere con tutto il cuore al bene publico e alla degnità della cristiana religione, fu dichiarato, per fare fondamento all'altre cose che in futuro s’aveano a statuire, il concilio congregato essere vero, legittimo e santo concilio, e in quello risedere indubitatamente tutta l'autorità e potestà della Chiesa universale: cerimonie bellissime e santissime, e da penetrare insino nelle viscere de' cuori degli uomini, se tali si credesse che fussino i pensieri e i fini degli autori di queste cose quali suonano le parole.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.15

                                                  

                                                 Il re di Francia sempre piú disposto alla pace col pontefice. Il pontefice continua invece ad ostacolarla. Ossequi al cardinale de' Medici prigione in Milano e legato apostolico. Il re di Francia richiama le milizie nel ducato di Milano e rinnova la confederazione co' fiorentini.

                                                  

                                                 Cosí, dopo la battaglia di Ravenna, procedeva il pontefice. Ma il re di Francia, con tutto che la letizia della vittoria perturbasse alquanto la morte di Fois, amatissimo da lui, comandò subito che il legato e la Palissa conducessino l'esercito quanto piú presto si poteva a Roma: nondimeno, raffreddato il primo ardore, incominciò a ritornare con tutto l'animo al desiderio della pace, parendogli che troppo grave tempesta e da troppe parti sopravenisse alle cose sue. Perché se bene Cesare continuasse nel promettere di volere stare congiunto con lui, affermando la tregua fatta co' viniziani in suo nome essere stata fatta senza suo consentimento e che non la ratificherebbe, nondimeno al re, oltre al timore della sua incostanza e il non essere certo che queste cose non fussino dette simulatamente, pareva avere, per le condizioni dimandava, compagno grave alla guerra e dannoso alla pace; perché credeva che la interposizione sua l'avesse a necessitare a consentire a piú indegne condizioni: e oltre a questo non dubitava piú i svizzeri avere a essere congiunti con gli avversari; e dal re di Inghilterra aspettava la guerra certa, perché quel re aveva mandato uno araldo a intimargli che pretendeva essere finite tutte le confederazioni e convenzioni che erano tra loro, perché in tutte si comprendeva l'eccezione: “pure che e' non facesse guerra né con la Chiesa né col re cattolico suo suocero”. Perciò il re intese con piacere grande essere stati ricercati i fiorentini che si interponessino alla pace, mandò subitamente a Firenze con amplissimo mandato il presidente di Granopoli, perché trattasse di luogo piú propinquo, e acciò che, se cosí fusse espediente, potesse andare a Roma; e dipoi intesa per la sottoscrizione de' capitoli la inclinazione, come pareva, piú pronta del pontefice, si inclinò interamente alla pace: benché temendo che per la partita dell'esercito non ritornasse alla pertinacia consueta, commesse al la Palissa, che già era pervenuto a Parma, che con parte delle genti ritornasse subito in Romagna e che spargesse voci d'avere a procedere piú oltre. Parevagli grave il concedere Bologna, non tanto per la instanza che in nome di Cesare gli era fatta in contrario quanto perché temeva che, eziandio fatta la pace, non rimanesse il medesimo animo del pontefice contro a lui; e però essergli dannoso il privarsi di Bologna, la quale difendeva come bastione e propugnacolo del ducato di Milano: e oltre a questo, essendo venuti il cardinale del Finale e il vescovo di Tivoli senza mandato a conchiudere, come circondato allora il papa da tante angustie e pericoli, pareva conveniente segno che simulatamente avesse consentito. Nondimeno, ultimatamente, deliberò accettare i capitoli predetti, con alcune limitazioni ma non tali che turbassino le cose sostanziali: con la quale risposta andò a Roma il secretario del vescovo di Tivoli, ricercando in nome [del re] che 'l pontefice o mandasse il mandato per conchiudere al vescovo predetto e al cardinale o che chiamasse da Firenze il presidente di Granopoli, il quale aveva l'autorità amplissima di fare il medesimo.

                                                 Ma nel pontefice augumentavano ogni dí le speranze, e per conseguente diminuiva se inclinazione alcuna aveva avuta alla pace. Era arrivato il mandato del re di Inghilterra per il quale, spedito insino di novembre, dava facoltà al cardinale eboracense d'entrare nella lega; tardato tanto a venire per il lungo circuito marittimo, perché prima era stato in Spagna: e Cesare, di nuovo, dopo lunghe dubitazioni, aveva ratificato la tregua fatta co' viniziani, accendendolo sopra tutto a questo le speranze dategli dal re cattolico e dal re di Inghilterra sopra il ducato di Milano e la Borgogna, e mandato Alberto Pio a Vinegia. Confermorno medesimamente non mediocremente la speranza del pontefice le speranze grandissime dategli dal re di Aragona; il quale, avendo avuta la prima notizia della rotta per lettere del re di Francia scritte alla reina (per le quali gli significava, Gastone di Fois suo fratello essere morto con somma gloria in una vittoria avuta contro agli inimici), e dipoi piú partitamente per gli avvisi de' suoi medesimi, i quali per le difficoltà del mare pervenivano tardamente, e parendogli che il reame di Napoli ne rimanesse in grave pericolo, aveva deliberato di mandare in Italia con supplemento di nuove genti il gran capitano: al quale rimedio ricorreva per la scarsità degli altri rimedi, perché, benché estrinsecamente l'onorasse, gli era per le cose passate nel regno napoletano poco accetto, e per la grandezza e autorità sua sospetto. Adunque, quando al pontefice confermato da tante cose pervenne il secretario del vescovo di Tivoli co' capitoli trattati, e dandogli speranze che anche le limitazioni aggiunte dal re per moderare l'infamia dell'abbandonare la protezione di Bologna si ridurrebbono alla sua volontà, deliberato al tutto non gli accettare, ma rispetto alla sottoscrizione sua e alla fede data al collegio simulando il contrario, come contro alla fama della sua veracità usava qualche volta di fare, gli fece leggere nel concistorio, dimandando consiglio da' cardinali. Dopo le quali parole il cardinale arborense spagnuolo e il cardinale eboracense (aveano cosí prima occultamente convenuto con lui), parlando l'uno in nome del re d'Aragona l'altro in nome del re di Inghilterra, confortorno il pontefice a perseverare nella costanza, né abbandonare la causa della Chiesa che con tanta degnità aveva abbracciata, essendo già cessate le necessità che l'aveano mosso a prestare l'orecchie a questi ragionamenti, e vedendosi manifestamente che Dio, che per qualche fine incognito a noi aveva permesso che la navicella sua fusse travagliata dal mare, non voleva che la perisse; né essere conveniente né giusto fare pace per sé particolarmente e, avendo a essere comune, trattarla senza partecipazione degli altri confederati ricordandogli in ultimo che diligentemente considerasse quanto pregiudicio potesse essere alla sedia apostolica e a sé l'alienarsi dagli amici veri e fedeli per aderire agli inimici riconciliati. Da' quali consigli dimostrando il pontefice essere mosso recusò apertamente la concordia, e pochi dí poi, procedendo coll'impeto suo, pronunziò nel concistorio uno monitorio al re di Francia che rilasciasse, sotto le pene ordinate da' sacri canoni, il cardinale de' Medici: benché consentí che si soprasedesse a publicarlo, perché il collegio de' cardinali, pregandolo differisse quanto poteva i rimedi severissimi, s'offerse scrivere al re in nome di tutti, confortandolo e supplicandolo che, come principe cristianissimo, lo liberasse. Era il cardinale de' Medici stato menato a Milano, dove era onestamente custodito; e nondimeno, con tutto che fusse in potestà di altri, riluceva nella persona sua l'autorità della sedia apostolica e la riverenza della religione, e nel tempo medesimo il dispregio del concilio pisano; la causa de' quali abbandonavano, con la divozione e con la fede, non solo gli altri ma coloro ancora che l'aveano accompagnata e favorita con l'armi. Perché avendo il pontefice mandatogli facoltà di assolvere dalle censure i soldati che promettessino di non andare coll'armi piú contro alla Chiesa, e di concedere a tutti i morti, per i quali fusse dimandata, la sepoltura ecclesiastica, era incredibile il concorso e maravigliosa la divozione con la quale queste cose si dimandavano e promettevano; non contradicendo i ministri del re, ma con gravissima indegnazione de' cardinali, che innanzi agli occhi loro, nel luogo proprio ove era la sedia del concilio, i sudditi e i soldati del re, contro all'onore e utilità sua e nelle sue terre, vilipesa totalmente l'autorità del concilio, aderissino alla Chiesa romana, riconoscendo con somma riverenza il cardinale prigione come apostolico legato.

                                                 Per la tregua ratificata da Cesare, ancora che gli agenti suoi che erano in Verona la negassino, revocò il re di Francia parte delle genti che aveva alla guardia di quella città come se piú non vi fussino necessarie, e perché, avendo richiamato di là da' monti per le minaccie del re di Inghilterra i dugento gentiluomini, gli arcieri della sua guardia e dugento altre lancie, conosceva, per il sospetto che augumentava de' svizzeri, avere bisogno di maggiore presidio nel ducato di Milano. E per la medesima cagione aveva astretti i fiorentini a mandargli in Lombardia trecento lancie, come per la difesa degli stati suoi di Italia erano tenuti per i patti della confederazione; la quale perché finiva fra due mesi, gli costrinse, essendo ancora fresca la riputazione della vittoria, a confederarsi di nuovo seco per cinque anni, obligandosi alla difesa dello stato loro con secento lancie, e i fiorentini promettendogli all'incontro quattrocento uomini d'arme per la difesa di tutto quello possedeva in Italia: benché, per fuggire ogni occasione di implicarsi in guerra col papa, eccettuorno dall'obligazione generale della difesa la terra di Cotignuola, come se la Chiesa vi potesse pretendere ragione.

                                                  

                                                 Lib.10, cap.16

                                                  

                                                 Gli svizzeri, accettato il soldo del pontefice, si radunano a Coira. Le forze francesi fortemente diminuite in Italia. I fanti tedeschi per intimazione di Massimiliano abbandonano l'esercito francese. I francesi si ritirano dal ducato di Milano. Il cardinale de' Medici liberato dai paesani di Pieve del Cairo. Le città del ducato costrette a pagare taglie agli svizzeri. Mutamenti politici dopo la ritirata dei francesi.

                                                  

                                                 Ma già sopragiugnevano apertamente alle cose del re gravissimi pericoli; perché i svizzeri aveano finalmente deliberato di concedere seimila fanti agli stipendi del pontefice, che gli aveva dimandati sotto nome di usare l'opera loro contro a Ferrara, non avendo quegli che sostenevano le parti del re di Francia potuto ottenere altro che ritardare la deliberazione insino a quel dí. Contro a' quali con furore grande esclamava nelle diete la moltitudine, accesa di odio maraviglioso contro al nome del re di Francia: non essere bastata a quel re la ingratitudine di avere negato di accrescere piccola quantità alle pensioni di coloro con la virtú e col sangue de' quali aveva acquistata tanta riputazione e tanto stato, che oltre a questo avesse con parole contumeliosissime dispregiata la loro ignobilità, come se al principio non avessino avuta tutti gli uomini una origine e uno nascimento medesimo, e come se alcuno fusse al presente nobile e grande che in qualche tempo i suoi progenitori non fussino stati poveri ignobili e umili; avere cominciato a soldare i fanti lanzchenech per dimostrare di non gli essere necessaria piú nella guerra l'opera loro, persuadendosi che essi, privati del soldo suo, avessino oziosamente a tollerare di essere consumati dalla fame in quelle montagne: però doversi dimostrare a tutto il mondo vani essere stati i suoi pensieri false le persuasioni nociva solamente a lui la ingratitudine, né potere alcuna difficoltà ritenere gli uomini militari che non dimostrassino il suo valore, e che finalmente l'oro e i danari servivano a chi aveva il ferro e l'armi; ed essere necessario fare intendere una volta a tutto 'l mondo quanto imprudentemente discorreva chi alla nazione degli elvezi preponeva i fanti tedeschi. Traportavagli tanto questo ardore che, trattando la causa come propria, si partivano da casa ricevuto solamente uno fiorino di Reno per ciascuno; ove prima non movevano a' soldi del re se a' fanti non erano promesse molte paghe e a' capitani fatti molti doni. Congregavansi a Coira terra principale de' grigioni; i quali, confederati del re di Francia da cui ricevevano ordinariamente pensioni, aveano mandato a scusarsi che per l'antiche leghe che aveano co' cantoni piú alti de' svizzeri non potevano recusare di mandare con loro certo numero di fanti.

                                                 Perturbava molto gli animi de' franzesi questo moto, le forze de' quali erano molto diminuite: perché, poi che il generale di Normandia ebbe cassati i fanti italiani, non aveano oltre a diecimila fanti; ed essendo passate di là da' monti le genti d'arme che aveva richiamate il re, non rimanevano loro in Italia piú che mille trecento lancie, delle quali trecento erano a Parma. E nondimeno il generale di Normandia, facendo piú l'ufficio di tesoriere che d'uomo di guerra, non consentiva si soldassino nuovi fanti senza la commissione del re; ma aveano fatto ritornare a Milano le genti che, per passare sotto la Palissa in Romagna, erano già pervenute al Finale, e ordinato che il cardinale di San Severino facesse il medesimo con quelle che erano in Romagna. Per la partita delle quali, Rimini e Cesena con le loro rocche e insieme Ravenna tornorono senza difficoltà all'ubbidienza del pontefice: né volendo i franzesi sprovedere il ducato di Milano, Bologna, per sostentazione della quale si erano ricevute tante molestie, rimaneva come abbandonata in pericolo.

                                                 Vennono i svizzeri, come furno congregati, da Coira a Trento; avendo conceduto loro Cesare che passassino per il suo stato: il quale, ingegnandosi di coprire al re di Francia quanto poteva quel che già avea deliberato, affermava non poteva per la confederazione che avea con loro vietare il passo. Da Trento vennono nel veronese dove gli aspettava l'esercito de' viniziani, i quali concorrevano insieme col pontefice agli stipendi loro: e con tutto non vi fusse tanta quantità di danari che bastasse a pagargli tutti, perché erano, oltre al numero dimandato, piú di seimila, era tanto ardente l'odio della moltitudine contro al re di Francia che contro alla loro consuetudine tolleravano pazientemente tutte le difficoltà. Dall'altra parte, la Palissa era venuto prima coll'esercito a Pontoglio per impedire il passo, credendo volessino scendere in Italia da quella parte; dipoi, veduto altra essere la loro intenzione, si era fermato a Castiglione dello Striviere, terra vicina a sei miglia a Peschiera: incerti quali fussino i pensieri de' svizzeri, o di andare come si divulgava verso Ferrara o di assaltare il ducato di Milano. La quale incertitudine accelerò forse i mali che sopravennero, perché non si dubita che arebbono seguitato il cammino verso il ferrarese se non gli avesse fatto mutare consiglio una lettera intercetta, per mala sorte de' franzesi, dagli stradiotti de' viniziani; per la quale la Palissa, significando lo stato delle cose al generale di Normandia rimasto a Milano, dimostrava essere molto difficile il resistere loro se si volgessino a quel [cammino]: sopra la quale lettera consultato insieme il cardinale sedunense, che era venuto da Vinegia, e i capitani deliberorono, con ragione che rare volte è fallace, volgersi a quella impresa la quale comprendevano essere piú molesta agli inimici. Però andorono da Verona a Villafranca, dove si unirono con l'esercito viniziano; nel quale sotto il governo di Giampaolo Baglione erano quattrocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e seimila fanti, con molti pezzi di artiglieria atti all'espugnazione delle terre e alla campagna. Fu questo causa che la Palissa, abbandonata Valeggio perché era luogo debole, si ritirò a Gambara con intenzione di fermarsi a Pontevico; non avendo nello esercito piú che sei o settemila fanti, perché gli altri erano distribuiti tra Brescia, Peschiera e Lignago, né piú che mille lancie; perché, se bene fusse stato inclinato a richiamare le trecento che erano a Parma, l'aveva il pericolo manifestissimo di Bologna costretto, dopo grandissima instanza de' Bentivogli, a ordinare che entrassino in quella città, restata quasi senza presidio. Quivi accorgendosi tardi de' pericoli loro e della vanità delle speranze dalle quali erano stati ingannati, e sopratutto lacerando l'avarizia e i cattivi consigli del generale di Normandia, lo costrinsono a consentire che Federigo da Bozzole e certi altri capitani italiani soldassino con piú prestezza potessino seimila fanti, rimedio che non si poteva mettere in atto se non dopo il corso almeno di dieci dí. E indeboliva l'esercito franzese oltre al piccolo numero de' soldati la discordia tra i capitani, perché gli altri quasi si sdegnavano di ubbidire al la Palissa; e la gente d'arme, stracca da tante fatiche e cosí lunghi travagli, desiderava piú presto che si perdesse il ducato di Milano, per ritornarsene in Francia, che difenderlo con tanto disagio e pericolo. Partito la Palissa da Valeggio, vi entrorno le genti de' viniziani e i svizzeri, e passate dipoi il Mincio alloggiorono nel mantovano; ove il marchese, scusandosi per la impotenza sua, concedeva il passo a ciascuno. In queste difficoltà, fu la deliberazione de' capitani, abbandonata del tutto la campagna, attendere alla guardia delle terre piú importanti; sperando, e non senza cagione, che col temporeggiare s'avesse a risolvere tanto numero di svizzeri: perché il pontefice, non manco freddo allo spendere che caldo alla guerra, diffidandosi anche di potere supplire a' pagamenti di numero tanto grande, mandava molto lentamente danari. Però messono in Brescia dumila fanti cento cinquanta lancie e cento uomini d'arme de' fiorentini, in Crema cinquanta lancie e mille fanti, in Bergamo mille fanti e cento uomini d'arme de' fiorentini; il resto dello esercito, nel quale erano settecento lancie dumila fanti franzesi e quattromila tedeschi, si ritirò a Pontevico, sito forte e opportuno a Milano, Cremona, Brescia e Bergamo, dove facilmente speravano potersi sostenere: ma il seguente dí sopravennono lettere e comandamenti di Cesare a' fanti tedeschi che subitamente partissino dagli stipendi del re di Francia; i quali essendo quasi tutti del contado di Tiruolo, né volendo essere contumaci al signore proprio, partirono il dí medesimo. Per la partita de' quali perderono la Palissa e gli altri capitani ogni speranza di potere piú difendere il ducato di Milano: però da Pontevico si ritirorono subito tumultuosamente a Pizzichitone. Per la qual cosa i cremonesi, del tutto abbandonati, si arrenderono all'esercito de' collegati che già s'approssimava, obligandosi a pagare a' svizzeri quarantamila ducati: i quali avendo disputato in cui nome s'avesse a ricevere, sforzandosi i viniziani che fusse loro restituita, fu finalmente ricevuta (ritenendosi perciò la fortezza per i franzesi) in nome della lega, e di Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza; per il quale il pontefice e i svizzeri pretendevano che si acquistasse il ducato di Milano. Era venuta, ne' dí medesimi, [in potestà de' collegati] alienata da' franzesi la città di Bergamo, perché avendo la Palissa richiamate le genti che vi erano per unirle all'esercito, entrativi, subito che quelle furno partite, alcuni fuorusciti, furno causa si ribellasse. Da Pizzichitone passò la Palissa il fiume dell'Adda, nel quale luogo si unirono seco le trecento lancie destinate alla difesa di Bologna, le quali crescendo il pericolo aveva richiamate; e sperava quivi potere vietare agli inimici il passo del fiume se fussino sopravenuti i fanti che si era deliberato di soldare: ma questo pensiero appariva, come gli altri, vano perché mancavano i danari da soldargli, non avendo il generale di Normandia pecunia numerata, né modo (essendo in tanti pericoli perduto interamente il credito) a trovarne, come soleva, obligando l'entrate regie in prestanza. Però, poi che vi fu dimorato quattro dí, subito che li inimici si accostorno al fiume tre miglia sotto Pizzichitone, si ritirò a Santo Angelo per andarsene il dí seguente a Pavia. Per la qual cosa, essendo del tutto disperato il potersi difendere il ducato di Milano e già tutto il paese in grandissima sollevazione e tumulti, si partirno da Milano, per salvarsi nel Piemonte, Gianiacopo da Triulzi, il generale di Normandia, Antonio Maria Palavicino, Galeazzo Visconte e molti altri gentiluomini, e tutti gli officiali e ministri del re. E alquanti dí prima, temendo non meno de' popoli che degli inimici, si erano fuggiti i cardinali; con tutto che, piú feroci ne' decreti che nell'altre opere, avessino quasi nel tempo medesimo, come preambolo alla privazione, sospeso il pontefice da tutta l'amministrazione spirituale e temporale della Chiesa.

                                                 Giovorno questi tumulti alla salute del cardinale de' Medici, riservato dal cielo a grandissima felicità; perché essendo menato in Francia, quando entrava la mattina nella barca al passo del Po che è di contro a Basignano, detto dagli antichi Augusta Bactianorum, levato il romore da certi paesani della villa che si dice la Pieve dal Cairo, de' quali fu capo Rinaldo Zallo, con cui alcuni familiari del cardinale, che vi era alloggiato la notte, si erano convenuti, fu tolto di mano a' soldati franzesi che lo guardavano, che spaventati e timorosi di ogni accidente, sentito il romore, attesono piú a fuggire che a resistere.

                                                 Ma la Palissa entrato in Pavia deliberava di fermarvisi, e perciò ricercava il Triulzio e il generale di Normandia che v'andassino. Al quale mandato il Triulzio gli dimostrò (cosí gli aveano commesso il generale e gli altri principali) la vanità del suo consiglio: non essere possibile fermare tanta ruina essendo l'esercito senza fanti, non comportare la brevità del tempo di soldarne di nuovo, non si potere piú trarne se non di luoghi molto distanti e con somma difficoltà; e quando questi impedimenti non fussino, mancare i danari da pagargli, la riputazione essere perduta per tutto, gli amici pieni di spavento, i popoli pieni di odio per la licenza usata già tanto tempo immoderatamente da' soldati. Dette queste cose, il Triulzio andò, per dare comodità alle genti di passare il Po, a fare gittare il ponte dove il fiume lontano da Valenza verso Asti piú si ristrigne. Ma già l'esercito de' collegati, a cui si era arrenduta, quando i franzesi si ritirorno da Adda, la città di Lodi con la rocca, si era da Santo Angelo accostato a Pavia; dove subito che giunsono cominciorno i capitani de' viniziani a percuotere con l'artiglierie il castello, e una parte de' svizzeri passò colle barche nel fiume che è congiunto alla città. Ma temendo i franzesi non impedissino il passare il ponte di pietra che è in sul fiume del Tesino, per il quale solo potevano salvarsi, si mossono verso il ponte per uscirsi di Pavia; ma innanzi fusse uscito il retroguardo, nel quale per guardia de' cavalli erano stati messi gli ultimi alcuni fanti tedeschi che non si erano partiti insieme cogli altri, i svizzeri uscendo di verso Portanuova e dal castello già abbandonato andorono combattendo con loro per tutta la lunghezza di Pavia e al ponte, resistendo egregiamente sopra tutti gli altri i fanti tedeschi; ma passando al ponte del Gravalone che era di legname, rotte l'assi per il peso de' cavalli, restorono presi o morti tutti quegli de' franzesi e de' tedeschi che non erano ancora passati. Obligossi Pavia a pagare quantità grande di danari; il medesimo aveva già fatto Milano, componendosi in somma molto maggiore, e facevano, da Brescia e Crema in fuora, tutte l'altre città: gridavasi per tutto il paese il nome dello imperio, lo stato si riceveva e governava in nome della santa lega (cosí concordemente la chiamavano), disponendosi la somma delle cose con l'autorità del cardinale sedunense deputato legato dal pontefice; ma i danari e tutte le taglie si pagavano a' svizzeri, loro erano tutte l'utilità tutti i guadagni. Alla fama delle quali cose commossa tutta la nazione, subito che fu finita la dieta chiamata a Zurich per questo effetto, venne a unirsi cogli altri grandissima quantità.

                                                 In tanta mutazione delle cose, le città di Piacenza e di Parma si dettono volontariamente al pontefice, il quale pretendeva appartenersegli come membri dell'esarcato di Ravenna. Occuporno i svizzeri Lucarna e i grigioni la Valvoltolina e Chiavenna, luoghi molto opportuni alle cose loro; e Ianus Fregoso condottiere de' viniziani, andato a Genova con cavalli e fanti ottenuti da loro, fu causa che fuggendosene il governatore franzese quella città si ribellasse, ed egli fu creato doge, la quale degnità aveva già avuta... suo padre. Ritornorno, col medesimo impeto della fortuna, al pontefice tutte le terre e le fortezze della Romagna; e accostandosi a Bologna il duca d'Urbino con le genti ecclesiastiche, i Bentivogli privi d'ogni speranza l'abbandonorno: i quali il pontefice asprissimamente perseguitando, interdisse tutti i luoghi che in futuro gli ricettassino. Né dimostrava minore odio contro alla città, sdegnato che dimenticata di tanti benefici si fusse cosí ingratamente ribellata, che alla sua statua fusse stato insultato con molti obbrobri e schernito con infinite contumelie il suo nome; onde non creò loro di nuovo i magistrati né gli ammesse piú in parte alcuna al governo, estorquendo, per mezzo di ministri aspri, danari assai da molti cittadini come aderenti de' Bentivogli: per le quali cose (o vero o falso che fusse) si divulgò, che se i pensieri suoi non fussino stati interrotti dalla morte, avere avuto nell'animo, demolita quella città, trasferire a Cento gli abitatori.

                                             

                                            Lib.11, cap.1

                                             

                                            Vane trattative, a Roma, fra il pontefice e il duca di Ferrara. Il duca con l'aiuto dei Colonna abbandona Roma. Milizie fiorentine svaligiate da soldati veneziani. Scacco dei francesi alla villa di Paterna. Difficili condizioni del regno di Francia assalito dagli inglesi.

                                             

                                            Rimaneva al pontefice, poi che nelle maggiori sue avversità e pericoli ebbe, con successo non sperato, ottenuta la vittoria degli inimici e ricuperato e ampliato il dominio della Chiesa, l'antica cupidità della città di Ferrara, la quale era stata la prima materia di tanto incendio: contro alla quale benché ardentemente desiderasse di volgere l'armi, nondimeno, o parendogli piú facile la via della concordia che della guerra o sperando piú nelle arti occulte che nell'opere aperte, prestò l'orecchie prima al marchese di Mantua, che lo supplicava a concedere ad Alfonso da Esti che andasse a dimandargli venia a Roma per riceverlo con qualche onesta condizione nella sua grazia, dipoi all'oratore del re d'Aragona, che pregava per lui come per parente del suo re (era Alfonso nato di una figliuola di Ferdinando vecchio re di Napoli), e perché alle cose del re era piú a proposito l'obligarselo con tanto beneficio che permettere che alla grandezza della Chiesa si aggiugnesse anche quello stato. Affaticavansi medesimamente i Colonnesi, divenuti amicissimi di Alfonso, perché, avendo il re di Francia dopo la giornata di Ravenna dimandatogli Fabrizio Colonna suo prigione, aveva, prima negando dipoi interponendo varie scuse, differito tanto a concederlo, che per la mutazione succeduta delle cose, era stato in potestà sua rendergli gratissimamente e senza alcuno peso la libertà. Andò adunque Alfonso a Roma, ottenuto salvocondotto dal pontefice, e per maggiore sicurtà la fede datagli, col consentimento del pontefice, in nome del re d'Aragona dal suo oratore, d'andare e ritornare sicuramente: dove poi che fu pervenuto, avendo il pontefice sospese le censure, ammesso nel concistorio, dimandò umilmente perdonanza; supplicando con la medesima sommissione di essere reintegrato nella sua grazia e della sedia apostolica, e offerendo volere continuamente fare tutte quelle opere che appartenevano a fedelissimo feudatario e vassallo della Chiesa. Udillo assai benignamente il pontefice, e deputò sei cardinali a trattare seco le condizioni della concordia: i quali, poi che piú dí fu disputato, gli aperseno che non intendeva il papa in modo alcuno privare la Chiesa della città di Ferrara poi che legittimamente gli era ricaduta, ma che in ricompenso gli darebbe la città d'Asti, la quale, ricevuta per la partita de' franzesi in potestà della lega, il pontefice, pretendendo appartenersi alla Chiesa tutto il di qua da Po, aveva mandato benché invano il vescovo agrigentino a prenderne il possesso. La qual cosa negando Alfonso costantemente, cominciò, per questa dimanda tanto diversa dalle speranze dategli, né meno per quel che di nuovo era succeduto a Reggio, a temere che il pontefice non lo intrattenesse artificiosamente in Roma per assaltare nel tempo medesimo Ferrara.

                                            Aveva il pontefice invitati i reggiani, i quali in tanta confusione delle cose non mediocremente temevano, che seguitando l'esempio de' parmigiani e de' piacentini si dessino alla Chiesa, e ordinato che, perché fussino piú efficaci i conforti suoi, il duca d'Urbino con le genti venisse nel modonese. Tentava il medesimo per Cesare Vitfrust, andato personalmente in Reggio; e il cardinale da Esti, il quale assente il fratello aveva la cura del suo stato, conoscendo non potere conservare quella città, e giudicando essere meno pernicioso allo stato loro che venisse in potestà di Cesare, il quale non pretendeva a Ferrara e nelle cui cose si poteva sperare maggiore varietà, confortava i reggiani a riconoscere piú presto il nome dello imperio: ma essi, rispondendo volere seguitare l'esempio del duca che era andato al pontefice non a Cesare, introdussono nella terra le genti della Chiesa; le quali con arte occuporno ancora la cittadella, con tutto che Vitfrust vi avesse già messi alcuni de' suoi fanti. Arrendessi similmente al duca d'Urbino la Carfagnana: il quale dipoi, ritornato a Bologna, licenziò tutti i fanti; perché, essendo stato molestissimo a' collegati che il pontefice avesse occupata Parma e Piacenza, fece il cardinale sedunense intendere al duca non essere necessario che, poi che era ottenuta la vittoria contro a' comuni inimici, passasse piú innanzi. Ma dalla durezza del pontefice e dall'occupazione di Reggio insospettito non mediocremente dimandò al papa per mezzo dell'oratore spagnuolo e di Fabrizio Colonna, il quale era stato con lui in Roma continuamente, di ritornarsene a Ferrara: alla quale dimanda egli mostrandosi renitente, e affermando non nuocere il salvocondotto conceduto, per la differenza che aveva con la Chiesa, a' creditori particolari, de' quali molti lo ricercavano che amministrasse loro giustizia, risposono apertamente, l'oratore e Fabrizio, che non si persuadesse che al duca e a loro avesse a essere violata la fede; e la mattina seguente, per prevenire se il papa volesse fare nuove provisioni, Fabrizio montato a cavallo andò verso il portone di San Giovanni in Laterano, seguitandolo non molto da lontano il duca e Marcantonio Colonna. Trovò il portone guardato da molti piú che non era consueto, i quali contradicendogli che non passasse, egli piú potente di loro, aspettato il duca in sulla porta, lo condusse sicuro a Marino; ricompensato, come comunemente si credeva, il beneficio della libertà ricevuta da lui: perché niuno dubitò che il pontefice, se non fusse stato impedito da' Colonnesi, l'arebbe incarcerato. Donde, essendogli impedito il cammino per terra, ritornò non molto poi per mare a Ferrara.

                                            Aveva anche, mentre che queste cose si facevano, procurato con Sedunense il pontefice, acceso come prima dall'odio contro alla libertà de' fiorentini, che le genti che aveano concedute al re di Francia fussino svaligiate; delle quali quelle che sotto Luca Savello erano con l'esercito, in numero di cento vent'uomini d'arme e sessanta cavalli leggieri (perché Francesco Torello con l'altre era rimasto alla custodia di Brescia), avevano, innanzi che i franzesi passassino il fiume del Po, ottenuto il salvocondotto da Sedunense e la fede da Giampaolo Baglione e quasi tutti i condottieri viniziani di potere ritornarsene in Toscana: ma essendo, secondo la norma ricevuta da essi, alloggiati a [Cremona], i soldati viniziani con consentimento di Sedunense gli svaligiorno; il quale, secondo che alcuni affermano, vi mandò, perché piú sicuramente potessino farlo, dumila fanti: atteso che insieme con essi alloggiavano le compagnie de' Triulzi e del grande scudiere, le quali per essere quasi tutte di soldati italiani aveano, medesimo, ottenuto salvocondotto di passare. Svaligiate che furno, mandò subito Sedunense a dimandare a Cristofano Moro e a Polo Cappello proveditori del senato la preda fatta, come appartenente a svizzeri; i quali non la concedendo, e andando un dí poi nel campo de' svizzeri per parlare a Sedunense, furno quasi come prigioni menati a Iacopo Stafflier loro capitano, e da lui condotti al cardinale furno costretti promettere in ricompenso della preda seimila ducati, non parendo conveniente che d'altri fusse il premio della sua perfidia: con la quale cercò anche che Niccolò Capponi oratore fiorentino, il quale ritiratosi a Casal Cervagio avea ottenuto salvocondotto da lui, gli fusse dato prigione dal marchese di Monferrato.

                                            Stimolava in questo mezzo il senato, desideroso di attendere alla recuperazione di Brescia e di Crema, che le sue genti ritornassino; le quali il cardinale intratteneva sotto colore che andassino insieme co' svizzeri nel Piemonte contro al duca di Savoia e il marchese di Saluzzo, che aveano seguitato le parti del re di Francia. Ma essendo dipoi cessata questa cagione, per la moltiplicazione grande del numero de' svizzeri e perché manifestamente si sapeva che i soldati franzesi passavano di là da' monti, non consentiva né dinegava si partissino; il che si dubitava procedesse per instanza fatta da Cesare, acciò che essi non recuperassino quelle terre. Finalmente, essendo i svizzeri in Alessandria, i viniziani partitisi dal Bosco allo improviso passorno senza ostacolo alcuno il Po alla Cava nel Cremonese; dissimulando, come si credette, a requisizione del pontefice, il cardinale, il quale è certo gli arebbe potuti impedire. Passato il Po si divisono, parte contro a Brescia parte contro a Crema custodite per il re di Francia; ma avendo i franzesi che erano in Brescia assaltatigli alla villa di Paterna, perduti piú di trecento uomini, furno costretti a ritirarsi dentro: e i svizzeri rimasti soli nel ducato di Milano e nel Piemonte attendevano a taglieggiare tutto il paese, sicuri interamente de' franzesi. Perché se bene il re di Francia, per la affezione intensa che aveva alla ducea di Milano, malvolentieri si disponesse a lasciare del tutto le cose di Italia abbandonate, nondimeno la necessità lo costrinse a prestare fede al consiglio di coloro che lo confortorono che, differito ad altro tempo questo pensiero, attendesse per quella state a difendere il regno di Francia: conciossiaché il re d'Inghilterra, secondo le convenzioni fatte col re cattolico, aveva mandato per mare seimila fanti inghilesi a Fonterabia, terra del regno di Spagna posta in sul mare Oceano, acciò che congiunti con le genti di quel re assaltassino il ducato di Ghienna, e oltre a questo cominciava a infestare con armata di mare le coste di Normandia e di Brettagna con spavento grande de' popoli; né di ritirare piú Cesare all'amicizia sua restava speranza alcuna, perché per relazione del vescovo di Marsilia, stato a lui suo imbasciadore, intendeva avere l'animo alienissimo da lui; né per altro avergli dato molte speranze e trattate seco tante cose con somma simulazione che per avere occasione di opprimerlo incauto, o almeno percuoterlo con uno colpo quasi mortale, come nella revocazione de' fanti tedeschi si gloriava d'avere fatto.

                                                  

                                            Lib.11, cap.2

                                             

                                            Aspirazioni diverse dei collegati; favori del pontefice agli svizzeri. Avversione procuratasi dai fiorentini con la neutralità. Loro incertezza e timori di fronte ai collegati. I francesi consegnano Legnago al cardinale Gurgense, ed i veneziani occupano Bergamo. Accordi fra i collegati contro Firenze.

                                             

                                            Assicurata adunque per questo anno Italia dall'armi del re di Francia, dalle cui genti ancora si guardavano Brescia Crema e Lignago, il Castelletto e la Lanterna di Genova, il castello di Milano quello di Cremona e alcune altre fortezze di quello stato, apparivano segni di diffidenza e disunione tra' collegati, essendo molto varie le volontà e i fini loro. Desideravano i viniziani ricuperare Brescia e Crema, debite per le capitolazioni, e per l'avere tanto sopportato de' pericoli e delle molestie della guerra; il che medesimamente desiderava per loro il pontefice: Cesare, da altra parte, dalla cui volontà non poteva finalmente separarsi il re d'Aragona, pensava d'attribuirle a sé, e oltre a questo a spogliare i viniziani di tutto quello che gli era stato aggiudicato per la lega di Cambrai. Trattavano Cesare e il medesimo re, ma con occulti consigli, che il ducato di Milano pervenisse in uno de' nipoti comuni. In contrario, s'affaticavano scopertamente il pontefice e i svizzeri perché nel grado paterno fusse restituito, come sempre si era ragionato da principio, Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza; il quale dopo la ruina del padre era dimorato continuamente nella Germania: mosso il pontefice perché Italia non cadesse interamente in servitú tedesca e spagnuola, [i svizzeri] perché per l'utilità propria desideravano che quello stato non fusse dominato da príncipi tanto potenti, ma da chi non potesse reggersi senza gli aiuti loro: la qual cosa dependendo quasi del tutto da' svizzeri, in potestà de' quali era quello stato, e per il terrore delle loro armi, il pontefice per confermargli in questa volontà, e per avere in tutte le cose parato questo freno col quale potesse moderare l'ambizione di Cesare e del re cattolico, usava ogni industria e arte per farsegli benevoli. Perciò, oltre all'esaltare publicamente il valore della nazione elvezia insino alle stelle e magnificare l'opere fatte per la salute della sedia apostolica, aveva per onorargli donate loro le bandiere della Chiesa e intitolatogli, con nome molto glorioso, ausiliatori e difensori della libertà ecclesiastica. Aggiugnevasi agli altri dispareri che, avendo il viceré rimesse in ordine le genti spagnuole che dopo la rotta si erano insieme con lui ritirate tutte nel reame, e movendosi per passare con esse in Lombardia, negavano il pontefice e i viniziani di riassumere il pagamento de' quarantamila ducati il mese intermesso dopo la rotta, allegando che per l'avere l'esercito franzese passato di là da' monti non erano piú sottoposti a quella obligazione, la quale terminava, secondo i capitoli della confederazione, ogni volta che i franzesi fussino cacciati di Italia; e a questo si replicava, in nome del re d'Aragona, non si potere dire cacciato il re di Italia mentre che erano in potestà sua Brescia, Crema e tante fortezze. Querelavasi oltre a questo insieme con Cesare che il pontefice, a sé proprio i premi della vittoria comune attribuendo e quel che ad altri manifestamente apparteneva usurpando, avesse, con ragioni o finte o consumate dalla vecchiezza, occupate Parma e Piacenza, città possedute lunghissimo tempo da quegli che aveano dominato a Milano come feudatari dello imperio. Appariva similmente diversità d'animi nelle cose del duca di Ferrara, ardendo il pontefice della medesima cupidità, e da altra parte desiderando il re d'Aragona di salvarlo, sdegnato ancora che (come si credeva) fusse stato tentato di ritenerlo in Roma contro alla fede data; onde il pontefice soprasedeva dal molestare Ferrara, aspettando per avventura che prima si componessino le cose maggiori: nella determinazione delle quali volendo [Cesare] intervenire, mandava in Italia il vescovo Gurgense, destinato a venirvi insino quando dopo la giornata di Ravenna si trattava la pace tra 'l pontefice e il re di Francia, perché temeva non si facesse tra loro senza avere in considerazione gli interessi suoi; ma succeduta poi la mutazione delle cose continuò nella deliberazione di mandarlo.

                                            Venivano similmente in considerazione le cose de' fiorentini, i quali pieni di sospetto cominciavano a sentire i frutti della neutralità usata improvidamente, e a conoscere non essere sufficiente presidio l'abbondare la giustizia della causa dove era mancata la prudenza. Perché nella presente guerra non aveano offeso i collegati, né prestato al re di Francia aiuto alcuno se non quanto erano tenuti alla difesa del ducato di Milano per la confederazione fatta comunemente col re cattolico e con lui; non aveano permesso fussino molestati nel dominio loro i soldati spagnuoli fuggiti della battaglia di Ravenna (della qual cosa il re d'Aragona proprio aveva rendute grazie all'imbasciadore fiorentino), anzi aveano interamente adempiuto co' fatti le sue dimande: perché, poi che partí il concilio da Pisa, e i ministri suoi in Italia e il re medesimo aveva offerto allo imbasciadore di obligarsi a difendere la loro republica contro a ciascuno, pure che si promettesse non difendere Bologna non muovere l'armi contro alla Chiesa né dare favore al conciliabolo pisano. Ma essi, impediti dalle discordie civili a eleggere la parte migliore, né si accompagnorno col re di Francia, alle cose del quale arebbono giovato sommamente, e la neutralità, di giorno in giorno e con consigli ambigui e interrotti, osservando ma non mai unitamente deliberando né di volerla osservare dichiarando, offesono non mediocremente l'animo del re di Francia il quale da principio si prometteva molto di loro, l'odio del pontefice non mitigorno, e al re d'Aragona lasciorno senza averne alcun ricompenso godere il frutto della loro neutralità, il quale per ottenere arebbe cupidamente convenuto con loro.

                                            Dunque il pontefice, stimolato dall'odio contro al gonfaloniere, dal desiderio antico di tutti i pontefici d'avere autorità in quella republica, faceva instanza perché si tentasse di restituire nella pristina grandezza la famiglia de' Medici: alla qual cosa, benché con lo imbasciadore fiorentino usasse parole diverse da' fatti, inclinava medesimamente, ma non già con tanto ardore, il re d'Aragona, per sospetto che in qualunque movimento non inclinassino per l'autorità del gonfaloniere al favore del re di Francia; anzi si sospettava che, eziandio rimosso il gonfaloniere, la republica governata liberamente avesse, per le dependenze fresche e antiche, la medesima affezione. Ma e la deliberazione di questa cosa si riservava, insieme coll'altre, alla venuta di Gurgense, con cui era deliberato convenissino in Mantova il viceré e i ministri degli altri collegati. Il quale mentre veniva, mandò il pontefice a Firenze Lorenzo Pucci fiorentino, suo datario (quel che poi eletto al cardinalato si chiamò il cardinale di Santi Quattro) a ricercare, insieme con l'oratore che vi teneva il viceré, che si aderissino alla lega, contribuendo alle spese contro a franzesi: questo era il colore della sua venuta, ma veramente lo mandava per esplorare gli animi de' cittadini. Sopra la quale dimanda trattata molti dí non si faceva alcuna conclusione, offerendo i fiorentini di pagare a' confederati certa quantità di danari ma rispondendo dubiamente sopra la dimanda dell'entrare nella lega e dichiararsi contro al re: della quale ambiguità era in parte cagione il credere (come era vero) che queste cose si proponessino artificiosamente, ma molto piú la risposta fatta a Trento dal vescovo Gurgense all'oratore il quale aveano mandato a rincontrarlo; perché, mostrando non tenere conto di quello gli era ricordato (Cesare, per la capitolazione fatta a Vicenza per mano sua, essere tenuto alla loro difesa) affermava, il pontefice avere in animo di molestargli, e che pagando a Cesare quarantamila ducati gli libererebbe da questo pericolo: aggiugneva durare ancora la confederazione tra Cesare e il re di Francia, però gli confortava a non entrare nella lega insino a tanto non vi entrava Cesare. Non sarebbeno stati i fiorentini alieni da ricomperare con danari la loro quiete; ma dubitando che il nome solo di Cesare, ancora che Gurgense affermasse che la volontà sua seguiterebbono gli spagnuoli, non bastasse a rimuovere la mala intenzione degli altri, stavano sospesi, per potere con consiglio piú maturo porgere gli unguenti a chi potesse giovare alla loro infermità. Era forse questo considerato prudentemente; ma procedeva o da imprudenza o dalle medesime contenzioni, o da confidare piú che non si doveva nell'ordinanza de' fanti del suo dominio, il non si provedere di soldati esercitati, i quali sarebbono stati utili a potersi piú agevolmente difendere da uno assalto subito o a facilitare almeno il convenire co' collegati, quando avessino conosciuto essere difficile lo sforzargli.

                                            Le quali cose mentre che si trattavano era già il viceré pervenuto co' soldati spagnuoli nel bolognese; nel quale luogo mancandogli la facoltà di pagare i danari promessi a' fanti, corsono con tanto tumulto allo alloggiamento suo minacciando di ammazzarlo che a fatica ebbe tempo di fuggirsene occultamente andando verso Modona: una parte de' fanti si voltò verso il paese de' fiorentini, gli altri non mutorno alloggiamento ma stando senza legge senza ordine senza imperio; pure dopo tre o quattro dí, quietati, con una parte de' danari promessi, gli animi loro, e ritornati il viceré e tutti i fanti all'esercito, promessono aspettarlo nel luogo medesimo insino a tanto ritornasse da Mantova, ove già era pervenuto, Gurgense. Al quale, quando passava per il veronese, i franzesi che guardavano Lignago, rifiutate molte offerte de' viniziani, aveano data quella terra che da loro non si poteva piú tenere; per comandamento, secondo che si crede, fatto prima da la Palissa cosí a loro come a tutti quegli che guardavano l'altre terre, a fine di nutrire la discordia tra Cesare e i viniziani: benché questo a' soldati succedette infelicemente, perché usciti di Lignago furno, non avuto rispetto al salvocondotto ottenuto da Gurgense, depredati dalle genti viniziane che erano intorno a Brescia, ove quando ritornorno dal Bosco, ricuperato senza fatica Bergamo, si erano fermate ma non combattevano la città, perché (secondo si diceva) era stato proibito loro dal cardinale sedunense.

                                            Nella congregazione di Mantova si determinò che nel ducato di Milano venisse Massimiliano Sforza, desiderato ardentemente da' popoli, concedendolo Cesare e il re d'Aragona, per la volontà costantissima del pontefice e de' svizzeri; e che il tempo e il modo si stabilisse da Gurgense col pontefice: al quale doveva andare per stabilire amicizia tra Cesare e lui e per trattare la concordia co' viniziani, e per mezzo dell'unione comune confermare la sicurtà di Italia dal re di Francia. Trattossi nella medesima dieta d'assaltare i fiorentini, facendone instanza, in nome suo e del cardinale, Giuliano de' Medici, e proponendo facile la mutazione di quello stato per le divisioni de' cittadini, perché molti desideravano il ritorno loro, e per occulto intendimento che (secondo affermava), v'aveano con alcune persone nobili e potenti, e perché i fiorentini, dissipata una parte de' loro uomini d'arme in Lombardia, un'altra parte rinchiusa in Brescia, non aveano forze sufficienti a difendersi contro a uno assalto tanto repentino. Dimostrava il frutto che, oltre a' danari che offeriva, risulterebbe della loro restituzione; perché la potenza di quella città, levata di mano di uno che dependeva interamente dal re di Francia, perverrebbe in mano di persone che, offese e ingiuriate da quegli re, non riconoscerebbono altra dependenza e congiunzione che quella de' collegati: del medesimo in nome del pontefice si affaticava Bernardo da Bibbiena che fu poi cardinale, mandato dal pontefice per questa cagione, ma nutrito insieme co' fratelli insino da puerizia nella casa de' Medici. Era imbasciadore appresso a Gurgense Giovanvettorio Soderini giurisconsulto, fratello del gonfaloniere; al quale né dal viceré né in nome della lega era detta o dimandata cosa alcuna, ma il vescovo Gurgense, dimostrando questi pericoli, persuadeva a convenire con Cesare secondo le dimande fatte prima, e offerendo che Cesare e il re d'Aragona gli riceverebbono in protezione: ma lo imbasciadore, [non] avendo autorità di convenire, non poteva se non significare alla republica e aspettare le risposte; né per lui né per altri si faceva instanza col viceré, né diligenza di interrompere le proposte de' Medici. E nondimeno la cosa in se medesima non mancava di molte difficoltà: perché il viceré non aveva esercito tanto potente che, se non fusse necessitato, dovesse volentieri esperimentare le forze sue; e Gurgense, per impedire che i viniziani non recuperassino Brescia o facessino maggiori progressi, desiderava che gli spagnuoli passassino quanto piú presto si poteva in Lombardia. Però si crede che se i fiorentini, ponendo da parte il negoziare con vantaggi e con risparmio, come ricercavano gli imminenti pericoli, avessino consentito di dare a Cesare i danari dimandati, e aiutato con qualche somma di danari il viceré costituito in somma necessità, arebbono facilmente schifata questa tempesta; e che Gurgense e il viceré arebbono per avventura convenuto piú volentieri con la republica, la quale erano certi che attenderebbe le cose promesse, che co' Medici i quali non potevano dare cosa alcuna se prima non ritornavano coll'armi in Firenze. Ma essendo, o per negligenza o per malignità degli uomini, abbandonata quasi del tutto la causa di quella città, fu deliberato che l'esercito spagnuolo, col quale andassino il cardinale e Giuliano de' Medici, si volgesse verso Firenze; chiamasse il cardinale, il quale il pontefice dichiarava in questa espedizione legato della Toscana, i soldati della Chiesa e quegli che piú gli paressino a proposito delle terre vicine.

                                                  

                                            Lib.11, cap.3

                                             

                                            Milizie spagnuole, condottieri pontifici ed i Medici contro la repubblica fiorentina. Ambasceria dei fiorentini al viceré e richieste di questo. Preparativi di difesa a Firenze e tentativi di accordi col pontefice. Dispareri in Firenze per le richieste del viceré, convocazione del consiglio maggiore e discorso del gonfaloniere; deliberazione del consiglio; il viceré sotto Prato; sua inclinazione agli accordi.

                                             

                                            Espedite le cose della dieta, il viceré tornato nel bolognese mosse subito le genti contro a' fiorentini; a' quali il non avere prima saputo quel che a Mantova si fusse deliberato aveva lasciato brevissimo spazio di tempo a fare i provedimenti necessari. Congiunsesi con lui, già vicino a' confini, il cardinale; il quale, non avendo gli spagnuoli artiglierie da battere le muraglie, aveva fatto muovere da Bologna [due] cannoni; e a lui erano venuti Franciotto Orsino e i Vitelli condottieri della Chiesa ma senza le compagnie loro, perché e a loro e agli altri soldati della Chiesa l'aveva vietato il duca di Urbino: il quale, con tutto che nella corte sua fusse stato nutrito qualche anno Giuliano de' Medici e che sempre avesse fatto professione di desiderare la grandezza loro, aveva negato, quale si fusse la cagione, di accomodargli d'artiglierie e di aiuto alcuno de' soldati e sudditi suoi, e non ostante che il pontefice a lui e a' sudditi delle terre vicine della Chiesa avesse con ampli brevi comandato il contrario.

                                            Al viceré, subito che fu entrato nel dominio fiorentino, venne uno imbasciadore della republica; il quale dimostrando l'osservanza avuta sempre al re d'Aragona, quali fussino state l'azioni loro nella prossima guerra, e quel che il suo re potesse sperare da quella città ricevendola nella sua amicizia, lo pregò che innanzi procedesse piú oltre significasse quello che ricercava da' fiorentini, perché alle dimande convenienti e che fussino secondo le forze loro gli sarebbe liberalmente corrisposto. Rispose: non essere la sua venuta deliberata solamente dal re cattolico ma da tutti i confederati, per la sicurtà comune d'Italia; conciossiaché, mentre che il gonfaloniere stava in quella amministrazione, niuna sicurtà si poteva avere che in qualunque occasione non seguitassino il re di Francia. Perciò, in nome di tutti, dimandare che il gonfaloniere fusse privato del magistrato, e si costituisse forma di governo che non fusse sospetta a' confederati; il che non poteva essere se il cardinale e Giuliano de' Medici non erano restituiti nella patria: le quali cose consentite sarebbono facilmente concordi nell'altre. Però andasse a referire o altrimenti significasse a Firenze la mente sua, ma non volere insino venisse la risposta soprasedere.

                                            A Firenze, intesa la venuta degli spagnuoli e persuadendosi che da altra parte gli avessino ad assaltare le forze del pontefice, era in tutta la città grandissimo spavento, temendosi della divisione de' cittadini e della inclinazione di molti a cose nuove: avevano poche genti d'arme, non fanterie se non o fatte tumultuosamente o raccolte delle loro ordinanze, la maggiore parte delle quali non era esperimentata alla guerra; non alcuno capitano eccellente nella virtú o autorità del quale potessino riposarsi; gli altri condottieri tali, che mai alla memoria degli uomini erano stati di minore espettazione agli stipendi loro. Nondimeno, provedendo sollecitamente quanto in tanta brevità di tempo potevano, raccoglievano le genti d'arme divise in vari luoghi, soldavano fanti ma tali quali si potevano avere, e scegliendo le piú utili bande di tutte l'ordinanze riducevano tutto lo sforzo a Firenze, per sicurtà della città e per provedere di quivi i luoghi dove si voltassino gli inimici. Né mancando di tentare, benché tardi, la via dell'accordo, oltre a quello che continuamente per l'oratore si trattava col viceré, scrisseno al cardinale di Volterra, che era a Gradoli in terra di Roma che trasferitosi al pontefice si ingegnasse, con offerte con prieghi con ogni arte, di placarlo. Il quale indurato (ma co' fatti contrari alle parole) rispondeva questa non essere impresa sua e farsi senza sue genti, ma che per non si provocare contro tutta la lega era stato costretto a consentirla, e comportare che il cardinale de' Medici facesse condurre l'artiglierie di Bologna: non avere potuto ovviare innanzi che la si cominciasse, molto meno poterla rimuovere poiché era già cominciata.

                                            Il viceré intratanto disceso delle montagne a Barberino, terra lontana quindici miglia a Firenze, mandò per uno uomo suo a significare non essere intenzione della lega alterare né il dominio né la libertà della città, pure che, per la sicurtà d'Italia, si rimovesse il gonfaloniere del magistrato; desiderare che i Medici potessino godere la patria, non come capi del governo ma come privati e per vivere sotto le leggi e sotto i magistrati, simili in tutte le cose agli altri cittadini: la quale proposta essendo palese a tutta la città erano varie le opinioni degli uomini, come sono vari i giudíci, le passioni e il timore. Biasimavano alcuni che, per il rispetto di uno solo, si avesse a esporre tutta l'universalità de' cittadini e tutto il dominio a tanto pericolo; atteso che per la deposizione sua dal magistrato non si perdeva o il consiglio popolare o la libertà publica, la quale non sarebbe difficile conservare da' Medici, spogliati di riputazione e di facoltà, quando volessino eccedere il grado privato: doversi considerare in che modo potesse resistere la città all'autorità e alle forze di tanta lega; sola non essere bastante, Italia tutta inimica, perduta interamente la speranza di essere soccorsi da' franzesi; i quali, abbandonata vilmente Italia, avevano che fare a difendere il reame loro, e consci della loro debolezza avevano alle dimande fatte da' fiorentini risposto essere contenti che si facesse accordo con la lega. Altri in contrario dicevano essere cosa ridicola a credere che tanto moto si facesse per odio solamente del gonfaloniere, o perché i Medici potessino stare in Firenze come privati cittadini; altra essere la intenzione de' collegati, i quali, per avere la città unita alle voglie loro e poterne trarre quantità grandissime di danari, non avevano altro fine che collocare i Medici nella tirannide ma palliare la loro intenzione con dimande meno acerbe, le quali contenevano nondimeno l'effetto medesimo. Perché, che significare altro il rimuovere in questo tempo, con le minaccie e con lo spavento delle armi, il gonfaloniere di palagio, che lasciare la gregge smarrita senza pastore? che altro, entrare in Firenze i Medici in tanto tumulto, che alzare uno vessillo il quale seguitassino coloro che non pensavano ad altro che a spegnere il nome la memoria le vestigie del consiglio grande? il quale annullato era annullata la libertà; e come si potrebbe ovviare che i Medici, accompagnati fuora dall'esercito spagnuolo e seguitati dentro dagli ambiziosi e sediziosi, non opprimessino, il dí medesimo che entrassino in Firenze, la libertà? Doversi considerare quel che potessino partorire i princípi delle cose e il cominciare a cedere alle dimande ingiuste e perniciose; né si dovere tanto temere de' pericoli che si dimenticassino della salute della città, e quanto fusse acerbo il vivere in servitú a chi era nato e allevato in libertà. Ricordassinsi con quanta generosità si fussino, per conservare la libertà, opposti a Carlo re di Francia quando era in Firenze con esercito tanto potente; e considerassino quanto era piú facile resistere a sí piccola gente, privata di danari, senza provisione di vettovaglie, con pochi pezzi d'artiglieria, e senza comodità alcuna di potere, se si difendessino dal primo impeto, sostentare la guerra; e la quale, necessitata a dimorare breve tempo in Toscana, e mossa dalle speranze date da' fuorusciti d'avere con un semplice assalto a ottenere la vittoria, come vedesse cominciarsi vigorosamente a resistere inclinerebbe alla concordia con onestissime condizioni. Queste cose si dicevano, ne' circoli e per le piazze, tra' cittadini; ma il gonfaloniere, volendo che dal popolo medesimo si deliberasse la risposta che dal magistrato s'aveva a dare all'uomo mandato dal viceré, convocato il consiglio maggiore, adunati che furno i cittadini, parlò in questa sentenza:

                                            - Se io credessi che la dimanda del viceré non concernesse altro che l'interesse di me solo, arei da me medesimo fatto quella deliberazione che fusse conforme al proposito mio; il quale essendo stato sempre d'essere parato a esporre la vita per beneficio vostro, mi sarebbe molto piú facile a risolvermi di rinunziare, per liberarvi da i danni e da i pericoli della guerra, il magistrato che da voi mi è stato dato: avendo massime, in tanti anni che sono seduto in questo grado, stracco il corpo e l'animo per tante molestie e fatiche. Ma perché in questa dimanda può essere che si tratti piú oltre che dell'interesse mio, è paruto a questi miei onorevoli compagni e a me che senza il consentimento publico non si deliberi quello in che consiste tanto dello interesse di ognuno, e che cosa tanto grave e tanto universale non si consigli con quel numero ordinario di cittadini co' quali sogliono trattarsi l'altre cose ma con voi, che siete il principe di questa città e a' quali solo appartiene sí poderosa deliberazione. Non voglio io confortarvi piú in una parte che in un'altra, vostro sia il consiglio vostro sia il giudicio, quel che delibererete sarà accettato e lodato da me, che vi offerisco non solo il magistrato, che è vostro, ma la persona e la propria vita; e mi attribuirei a singolare felicità se io potessi credere che questo fusse il mezzo della salute vostra. Esaminate quel che possa importare la dimanda del viceré alla vostra libertà, e Dio vi presti grazia di alluminare e di fare risolvere alla migliore parte le menti vostre. Se i Medici avessino disposizione d'abitare in questa città come privati cittadini, pazienti a' giudíci de' magistrati e delle leggi vostre, sarebbe laudabile la loro restituzione, acciò che la patria comune si unisse in un corpo comune; se altra è la mente loro avvertite al pericolo vostro, né vi paia grave sostenere spese e difficoltà per conservare la vostra libertà: la quale quanto sia preziosa conoscereste meglio, ma senza frutto, quando (io ho orrore di dirlo) ne fuste privati. Né sia alcuno che si persuada che il governo de' Medici avesse a essere quel medesimo che era innanzi fussino cacciati, perché è mutata la forma e i fondamenti delle cose: allora, nutriti tra noi quasi a uso di privati cittadini, ricchissimi di facoltà secondo il grado tenevano, né offesi da alcuno, facevano fondamento nella benevolenza de' cittadini, consigliavano co' principali le cose publiche, e si ingegnavano col mantello della civiltà coprire piú presto che scoprire la loro grandezza. Ma ora, abitati tanti anni fuora di Firenze, nutriti ne' costumi stranieri, intelligenti, per questo, poco delle cose civili, ricordevoli dello esilio e delle acerbità usate loro, poverissimi di facoltà e offesi da tante famiglie, consci che la maggiore parte anzi quasi tutta la città aborrisce la tirannide, non si confiderebbono di alcuno cittadino: e sforzati dalla povertà e dal sospetto arrogherebbero tutte le cose a loro medesimi, riducendosi non in su la benivolenza e in su l'amore ma in su la forza e in su l'armi, in modo tale che in brevissimo tempo questa città diventerebbe simile a Bologna quale era al tempo de' Bentivogli, a Siena e a Perugia. Ho voluto dire questo a quegli che predicano il tempo e il governo di Lorenzo de' Medici, nel quale benché fussino dure condizioni e fusse una tirannide (benché piú mansueta di molte altre) sarebbe stato a comparazione di questo una età d'oro. Appartiene ora a voi il deliberare prudentemente e secondo la salute della vostra patria, a me o rinunziare con animo costante e lietissimo a questo magistrato, o francamente, quando voi delibererete altrimenti, attendere alla conservazione e alla difesa della vostra libertà. -

                                            Non era dubbio quel che avesse a deliberare il consiglio, per la inclinazione che aveva quasi tutto il popolo di mantenere il governo popolare: però, con maraviglioso consenso fu deliberato che si consentisse alla ritornata de' Medici come privati ma che si denegasse il rimuovere il gonfaloniere del magistrato; e che quando gli inimici stessino pertinaci in questa sentenza, che con le facoltà e con la vita si attendesse a difendere la libertà e la patria comune. Però, volti tutti i pensieri alla guerra e fatto provedimento di danari, mandavano gente alla terra di Prato, propinqua a dieci miglia a Firenze; la quale si credeva che prima avesse a essere assaltata dal viceré.

                                            Il quale, poiché a Barberino ebbe raccolto l'esercito e l'artiglierie, condotte con difficoltà per l'asprezza dell'Apennino e perché, per mancamento di danari, non aveano il provedimento debito o di guastatori e di instrumenti per condurle, si accostò (come si era creduto) a Prato; dove pervenuto quando cominciava il giorno, batté il dí medesimo, per qualche ora, con falconetti la porta di Mercatale: alla quale, per essere dentro bene riparata, non fece frutto alcuno. Aveano i fiorentini messi in Prato circa dumila fanti, quasi tutti dell'ordinanze loro, gli altri raccolti in fretta d'ogni arte ed esercizi vili, pochissimi in tanto numero esperimentati alla guerra; e con cento uomini d'arme Luca Savello, condottiere vecchio ma che né per l'età né per l'esperienza era pervenuto a grado alcuno di scienza militare; e gli uomini d'arme, quegli medesimi che erano stati poco innanzi svaligiati in Lombardia. Aggiugnevasi che, per la brevità del tempo e per la imperizia di chi aveva avuto a provederlo, vi era piccola quantità di artiglierie, scarsità di munizioni e di tutte le cose necessarie alla difesa. Col viceré erano [dugento] uomini d'arme e [cinque] mila fanti spagnuoli e solamente [due] cannoni, esercito piccolo in quanto al numero e agli altri apparati ma grande in quanto al valore; perché i fanti erano tutti di quegli medesimi che con tanta laude si erano salvati della giornata di Ravenna, i quali come uomini militari, confidandosi molto nella loro virtú, dispregiavano sommamente la imperizia degli avversari: ma essendo venuti senza apparecchiamento di vettovaglie, né trovandone copioso il paese (perché, con tutto che a fatica fusse finita la ricolta, erano state condotte a' luoghi muniti), cominciorno subito a sentirne il mancamento. Dalla qual cosa spaventato il viceré inclinava alla concordia, che continuamente si trattava: che i fiorentini, consentendo che i Medici ritornassino eguali agli altri cittadini, né si parlando piú della deposizione del gonfaloniere, pagassino al viceré perché partisse del dominio fiorentino certa quantità di danari; la quale si pensava non passasse trentamila ducati. Perciò il viceré aveva consentito salvocondotto agli imbasciadori eletti per questa espedizione, e si sarebbe astenuto insino alla venuta loro di assaltare piú Prato se di dentro gli avessino dato qualche comodità di vettovaglie.

                                                  

                                            Lib.11, cap.4

                                             

                                            Presa e sacco di Prato. Deposizione del gonfaloniere in Firenze. Accordi dei fiorentini col viceré. Riforma del governo in Firenze; restaurazione del governo de' Medici. Errori che condussero i fiorentini alla perdita della libertà. Resa del Castelletto di Genova.

                                             

                                            Niuna cosa vola piú che l'occasione, niuna piú pericolosa che il giudicare dell'altrui professioni, niuna piú dannosa che il sospetto immoderato. Desideravano la concordia tutti i principali cittadini, assuefatti dietro agli esempli de' maggiori loro a difendere spesso la libertà dal ferro coll'oro; perciò facevano instanza che gli imbasciadori eletti subitamente andassino, a' quali oltre all'altre cose si commetteva che di Prato si facesse porgere vettovaglia all'esercito spagnuolo, acciò che il viceré quietamente aspettasse se la concordia trattata aveva effetto: ma il gonfaloniere, o persuadendosi, contro alla sua naturale timidità, che gli inimici disperati della vittoria dovessino da se stessi partirsi o temendo de' Medici in qualunque modo ritornassino in Firenze, o conducendolo il fato a essere cagione della ruina propria e delle calamità della sua patria, allungava artificiosamente la spedizione degli imbasciadori, talmente che non andorno il dí nel quale secondo la deliberazione fatta doveano andare. Dunque il viceré, astringendolo la penuria delle vettovaglie, e incerto se piú verrebbono gli imbasciadori, mutato la notte seguente l'alloggiamento dalla porta del Mercatale alla porta che si dice del Serraglio, donde si va verso il monte, cominciò a battere co' due cannoni il muro a quella vicino: eletto questo luogo perché al muro era congiunto un terrato alto, dal quale si poteva facilmente salire alla rottura del muro di sopra che si batteva, la qual facilità dal lato di fuora diventava difficoltà dal lato di dentro, perché la rottura che si faceva sopra il terrato rimaneva di dentro molto alta da terra. Roppesi a' primi colpi uno de' due cannoni, e l'altro, col quale solo continuavano di battere, per lo spesso tirare avea perduto tanto di vigore che alla muraglia pervenivano i colpi molto lenti e di piccolo effetto. Pure, poi che ebbono per spazio di molte ore fatta una apertura di poco piú che di dodici braccia, cominciorno alcuni de' fanti spagnuoli montati in sul terrato a salire alla rottura e da quella in sulla sommità del muro, dove ammazzorno due de' fanti che lo guardavano. Per la morte de' quali cominciando gli altri a ritirarsi, vi salivano già i fanti spagnuoli colle scale; e benché dentro appresso al muro fusse uno squadrone di fanti con gli scoppietti e con le picche, ordinato per non lasciare alcuno degli inimici fermarsi in sul muro e per opprimere se alcuno temerariamente saltasse dentro o in altro modo discendesse, nondimeno, come cominciorno a vedere gli inimici in sulla muraglia, messisi in fuga da loro medesimi abbandonorno la difesa; onde gli spagnuoli, stupiti che in uomini vili e inesperti potesse regnare tanta viltà e sí piccola esperienza, entrati senza opposizione dentro da piú parti, cominciorno a correre per la terra, dove non era piú resistenza ma solamente grida, fuga, violenza, sacco, sangue e uccisioni, gittando i fanti spaventati l'armi in terra e arrendendosi a' vincitori: dall'avarizia libidine e crudeltà de' quali non sarebbe stata salva cosa alcuna se il cardinale de' Medici, messe guardie alla chiesa maggiore, non avesse conservata l'onestà delle donne, le quali quasi tutte vi erano rifuggite. Morirno non combattendo, perché alcuno non combatté, ma o fuggendo o supplicando, piú di duemila uomini; tutti gli altri insieme col commissario fiorentino furno prigioni. Perduto Prato, i pistolesi, non si partendo nell'altre cose dal dominio de' fiorentini, convennono di dare vettovaglia al viceré, ricevendo promessa da lui che non sarebbono molestati.

                                            Ma a Firenze, come si intese il caso succeduto (per il quale gli imbasciadori che andavano al viceré, essendo a mezzo il cammino, ritornorno indietro), fu negli animi degli uomini grandissima alterazione. Il gonfaloniere, pentitosi della vanità del suo consiglio, spaventato e perduta quasi del tutto la riputazione e l'autorità, retto piú presto che rettore e irresoluto, si lasciava portare dalla volontà degli altri, non provedendo a cosa alcuna né per la conservazione di se medesimo né per la salute comune; altri desiderosi della mutazione del governo, preso ardire, biasimavano publicamente le cose presenti: ma la maggiore parte de' cittadini, non assueta all'armi e avendo innanzi agli occhi l'esempio miserabile di Prato, benché amatrice del reggimento popolare, stava per timore esposta a essere preda di chi volesse opprimerla. Dalle quali cose fatti piú audaci Paolo Vettori e Antonio Francesco degli Albizi, giovani nobili, sediziosi e cupidi di cose nuove, i quali già molti mesi si erano occultamente congiurati con alcuni altri in favore de' Medici, e per convenire con loro del modo di rimettergli erano stati secretamente a parlamento in una villa del territorio fiorentino vicina al territorio de' sanesi con Giulio de' Medici, si risolverono di fare esperienza di cavare per forza il gonfaloniere del palazzo publico; e comunicato il consiglio loro con Bartolomeo Valori, giovane di simili condizioni e implicato per il troppo spendere, come era anche Paolo, in molti debiti, la mattina del secondo dí dalla perdita di Prato, che fu l'ultimo dí di agosto, entrati con pochi compagni in palazzo, dove, per il gonfaloniere che si era rimesso ad arbitrio del caso e della fortuna, non era provisione né resistenza alcuna, e andati alla camera sua, lo minacciorono di torgli la vita se non si partiva del palazzo, dandogli in tale caso la fede di salvarlo. Alla qual cosa cedendo egli, ed essendo a questo tumulto sollevata la città, scoprendosi già molti contrari a lui e nessuno in suo favore, fatti per ordine loro congregare subito i magistrati che secondo le leggi avevano sopra i gonfalonieri amplissima autorità, dimandorno che lo privassino legittimamente del magistrato, minacciando che altrimenti lo priverebbeno della vita: per il quale timore avendolo contro alla propria volontà privato, lo menorno salvo alle case di Paolo, donde la notte seguente bene accompagnato fu condotto nel territorio de' sanesi; e di quivi, simulando di andare a Roma con salvocondotto ottenuto dal pontefice, preso occultamente il cammino d'Ancona, passò per mare a Raugia; perché per ordine del cardinale suo fratello era stato avvertito che il pontefice, o per sdegno o per cupidità di spogliarlo de' suoi danari, che era fama essere molti, gli violerebbe la fede. Levato il gonfaloniere del magistrato, la città mandò subito imbasciadori al viceré, col quale per opera del cardinale de' Medici facilmente si compose: perché il cardinale si contentò che degli interessi propri non si esprimesse altro che la restituzione de' suoi, e di tutti quegli che l'avevano seguitato, alla patria, come privati cittadini, con facoltà di ricomperare infra certo tempo i beni alienati dal fisco ma rendendo il prezzo sborsato e i miglioramenti fatti da coloro ne' quali erano stati trasferiti. Ma quanto alle cose comuni, entrorono i fiorentini nella lega; obligoronsi, seguitando quello che i Medici aveano promesso per mercede del ritorno loro a Mantova, a pagare al re de' romani, secondo le dimande di Gurgense, quarantamila ducati; al viceré, per l'esercito, ottantamila, la metà di presente il rimanente fra due mesi, e per sé proprio ventimila; e che ricevuto il primo pagamento partisse subito del dominio fiorentino, rilasciando quel che aveva occupato. Feciono oltre a questo lega col re d'Aragona, con obligazione reciproca di certo numero di gente d'arme a difesa degli stati, e che i fiorentini conducessino agli stipendi loro dugento uomini d'arme de' sudditi di quel re: la qual condotta, benché non si esprimesse, si disegnava per il marchese della Palude, a cui il cardinale aveva promesso o almeno dato speranza di farlo capitano generale delle armi de' fiorentini.

                                            Cacciato il gonfaloniere e rimossi per l'accordo i pericoli della guerra, dettono i cittadini opera a ricorreggere il governo in quelle cose nelle quali si era giudicata inutile la forma; ma con intenzione universale, eccettuatine pochissimi, e questi o giovani o quasi tutti di piccola considerazione, di conservare la libertà e il consiglio popolare. Però determinorno con nuove leggi che il gonfaloniere non si eleggesse piú in perpetuo ma solamente per uno anno, e che al consiglio degli ottanta, che si variava di sei mesi in sei mesi, con l'autorità del quale si deliberavano le cose piú gravi, acciocché sempre vi intervenissino i cittadini di maggiore qualità, fussino aggiunti in perpetuo tutti coloro che insino a quel dí avessino amministrati, o dentro o fuori, i primi onori: dentro, quegli che erano stati o gonfalonieri di giustizia o de' dieci della balía, magistrato in quella republica di grande autorità; fuori, tutti quegli che eletti nel consiglio degli ottanta, erano stati o imbasciadori a príncipi o commissari generali nella guerra; rimanendo fermi in tutte l'altre cose gli ordinamenti del medesimo governo. Le quali cose stabilite, fu eletto per il primo anno gonfaloniere Giovambatista Ridolfi, cittadino nobile e riputato molto prudente, riguardando il popolo (come si fa ne' tempi turbolenti) non tanto a quegli che per l'arti popolari gli erano piú grati quanto a uno che, con l'autorità grande che aveva nella città, massimamente appresso alla nobiltà, e con la virtú propria, potesse fermare lo stato tremante della republica. Ma troppo erano trascorse le cose, troppo potenti inimici avea la publica libertà: nelle viscere del dominio l'esercito sospetto; dentro, i piú audaci della gioventú cupidi d'opprimerla. La medesima era, benché colle parole dimostrasse il contrario, la volontà del cardinale de' Medici: il quale, insino da principio, non arebbe riputato premio degno di tante fatiche la restituzione de' suoi come privati cittadini; considerava al presente di piú che né anche questo sarebbe cosa durabile, perché insieme col nome suo sarebbono in sommo odio di tutti per il sospetto che continuamente stimolerebbe gli altri cittadini che essi non insidiassino alla libertà, e molto piú per lo sdegno che avessino condotto l'esercito spagnuolo contro alla patria, stati cagione del sacco crudelissimo di Prato, e che per il terrore dell'armi la città fusse stata costretta a ricevere cosí indegne e inique condizioni. Stimolavanlo al medesimo coloro che prima erano congiurati seco, e alcuni altri che nella republica bene ordinata non aveano luogo onorato. Ma era necessario il consentimento del viceré; il quale, aspettando il primo pagamento, che per le condizioni della città si espediva difficilmente, soggiornava ancora in Prato, né aveva, quale si fusse la cagione, l'animo inclinato che nella città si facesse nuova alterazione. Nondimeno, dimostrandogli il cardinale, e procurando che il marchese della Palude e Andrea Caraffa conte di Santa Severina, condottieri nell'esercito, [facessino il medesimo], alla città, che avea ricevuta tanta offesa, non potere piú essere se non odiosissimo il nome spagnuolo, e che in qualunque occasione aderirebbe sempre agli inimici del re cattolico, anzi essere pericolo che, come si discostasse l'esercito, non richiamasse il gonfaloniere, il quale sforzata aveva cacciato, movendolo anche il provedersi con tanta difficoltà a' danari promessi, i quali se fussino stati piú pronti arebbe fatto maggiore fondamento nel governo libero, consentí al desiderio del cardinale: il quale, composte le cose con lui, venne subito in Firenze alle case sue; ove, parte con lui parte separatamente, entrorno molti condottieri e soldati italiani, non avendo i magistrati, per la vicinità degli spagnuoli, ardire di proibire che non vi entrassino. Dipoi il dí seguente, essendo congregato nel palagio publico per le cose occorrenti un consiglio di molti cittadini, al quale era presente Giuliano de' Medici, i soldati, assaltata all'improviso la porta e poi salite le scale, occuporono il palagio, depredando gli argenti che vi si conservavano per uso della signoria. La quale, insieme col gonfaloniere, costretta a cedere alla volontà di chi poteva piú coll'armi che non potevano i magistrati colla riverenza e autorità disarmata, convocò subito, cosí proponendo Giuliano de' Medici, in sulla piazza del palagio, col suono della campana grossa, il popolo al parlamento; dove quegli che andorno, essendo circondati dall'armi de' soldati e de' giovani della città che aveano prese l'armi per i Medici, consentirono che a circa cinquanta cittadini, nominati secondo la volontà del cardinale, fusse data sopra le cose publiche la medesima autorità che aveva tutto il popolo (chiamano i fiorentini questa potestà, cosí ampia, balía): per decreto de' quali ridotto il governo a quella forma che soleva essere innanzi all'anno mille quattrocento novantaquattro, e messa una guardia di soldati ferma al palagio, ripigliorono i Medici quella medesima grandezza, ma governandola piú imperiosamente e con arbitrio piú assoluto che soleva avere il padre loro.

                                            In tale modo fu oppressa con l'armi la libertà de' fiorentini, condotta a questo grado principalmente per le discordie de' suoi cittadini: al quale si crede non sarebbe pervenuta se (io passerò la neutralità imprudentemente tenuta, e l'avere il gonfaloniere lasciato pigliare troppo animo agli inimici del governo popolare) non fusse stata, eziandio negli ultimi tempi, negligentemente procurata la causa publica. Perché nel re d'Aragona non era da principio tanto desiderio di sovvertire la libertà quanto di rimuovere la città dall'aderenza del re di Francia e di trarne alcuna quantità di danari per pagare allo esercito; perciò, subito che i franzesi abbandonorno il ducato di Milano, commesse al viceré che, quando o le cose occorrenti lo tirassino ad altra impresa o che per altra cagione conoscesse difficile la restituzione de' Medici, pigliando la deliberazione dalle condizioni de' tempi, convenisse o no con la città, secondo che piú gli paresse opportuno. Questo era stato da principio il comandamento suo; ma di poi sdegnato contro al pontefice per quel che aveva tentato a Roma contro ad Alfonso da Esti, e insospettito per le minaccie che publicamente faceva contro al nome de' barbari, dimostrò apertamente al medesimo imbasciadore fiorentino (che al principio della guerra era andato a lui), e al viceré commesse che non tentasse di alterare il governo, o perché giudicasse essergli piú sicuro conservare il gonfaloniere inimicato dal pontefice, o perché temesse che il cardinale de' Medici, restituito, non avesse maggiore dependenza dal pontefice che da lui: ma non fu nota al viceré questa ultima deliberazione se non il dí dappoi che era stata ridotta la republica in potestà del cardinale. Per il quale discorso apparisce che se i fiorentini avessino, dopo che furno cacciati i franzesi, procurato diligentemente di assicurare mediante la concordia le cose loro, o se si fussino fortificati di armi di soldati esperti, o non si sarebbe il viceré mosso contro a loro, o trovata difficoltà nello opprimergli arebbe facilmente composto con danari. Ma era destinato non lo facessino, ancora che, oltre a quello che si poteva comprendere per i discorsi umani fussino stati ammuniti dal cielo degli imminenti pericoli: perché, non molto innanzi, uno folgore, caduto in sulla porta che da Firenze va a Prato, levò d'uno scudo antico di marmo i gigli a oro, insegna del re di Francia; un altro, caduto in sulla sommità del palagio ed entrato nella camera del gonfaloniere, non avea percosso altro che un bossolo grande d'argento nel quale si raccoglievano i partiti del sommo magistrato, e dipoi sceso nella infima parte percosse di maniera una lapide grande, che a piè della scala sosteneva la macchina dell'edificio, che uscitane illesa pareva fusse stata cavata da' periti con grandissima destrezza e architettura.

                                            In questi tempi medesimi o poco prima, battendo i genovesi il Castelletto di Genova con l'artiglierie che aveva prestate loro il pontefice, il castellano, ricevuti diecimila [ducati] lo dette a' genovesi; non avendo speranza di essere soccorso, perché una armata spedita di Provenza innanzi che il re sapesse la rebellione di quella città per attendere a difenderla, non avendo avuto ardire di porre in terra, era ritornata indietro: ma per il re si teneva ancora la Lanterna; nella quale, ne' dí medesimi, aveano alcuni legni franzesi messe vettovaglie e altri bisogni.

                                             

                                            Lib.11, cap.5

                                             

                                            Cessione, da parte dei francesi, di Brescia al viceré; cessione di Crema ai veneziani. Accoglienza al vescovo Gurgense a Roma. Trattative fra il vescovo e i veneziani e fra il pontefice e gli ambasciatori del re d'Aragona; la questione di Parma e di Piacenza. Confederazione fra Cesare e il pontefice ed esclusione dei veneziani dalla lega. Solenne ingresso in Milano di Massimiliano Sforza. Nuovi e vani sforzi del pontefice per la pace fra Venezia e Massimiliano Cesare.

                                             

                                            Espedite le cose di Firenze e ricevuti i danari promessi, il viceré mosse l'esercito per andare a Brescia; intorno alla quale città, avendo mitigata la volontà de' svizzeri, combatteva l'esercito viniziano, alloggiato alla porta di San Giovanni; e battevano in un tempo la città e, con l'artiglierie piantate in sul monte opposito, la fortezza: speravano medesimamente di essere messi dentro, per mezzo di uno trattato, per la porta delle Pile; il quale venuto a luce restò vano. Ma giunto che fu l'esercito spagnuolo al castello di Gairo vicino a Brescia, Obigní, capitano de' franzesi che vi erano dentro, elesse di darla insieme con la fortezza al viceré, con patto che tutti i soldati che vi erano dentro n'uscissino salvi con le cose loro ma con le bandiere piegate e con l'armi in asta abbassate, e lasciate l'artiglierie; e si crede che Obigní anteponesse il viceré a' viniziani per comandamento avuto prima dal re che piú tosto la desse agli spagnuoli o a Cesare, non per odio contro a essi ma per suggerire materia di contenzione con Cesare e col re d'Aragona. Il medesimo consiglio aveano, innanzi che gli spagnuoli passassino in Lombardia, seguitato i franzesi che guardavano Lignago; i quali, dispregiate molte offerte de' viniziani, l'aveano dato al vescovo Gurgense: a cui, nel tempo medesimo che il viceré entrò in Brescia, si arrendé similmente Peschiera. E dimandava Gurgense la possessione di Brescia, ma al viceré piacque di ritenerla, per allora, per la lega in cui nome l'aveva ricevuta. Diverso successo ebbono le cose di Crema, intorno alla quale era Renzo da Ceri con una parte de' soldati viniziani: perché appropinquandosi quattromila svizzeri mandati da Ottaviano Sforza vescovo di Lodi, governatore di Milano, per acquistarla in nome di Massimiliano Sforza futuro duca, Benedetto Cribrario, corrotto con doni e con la promessa di essere creato gentiluomo di Vinegia, la dette a' viniziani; consentendo monsignore di Duraso preposto alla guardia della rocca, perché non confidava la sua salute alla fede de' svizzeri.

                                            Andò dipoi il vescovo Gurgense a Roma: l'animo del quale desiderando il pontefice estremamente di conciliarsi, sforzando la sua natura, lo fece per tutto il dominio ecclesiastico ricevere con ogni specie d'onore; fatte, per tutto il cammino, a lui e a tutti coloro che lo seguitavano, lautissime spese. Ricevevanlo per tutto le terre con eccessivi anzi inusitati onori, piene le strade di quegli che gli andavano incontro, visitato in molti luoghi da nuove imbascerie di prelati e persone onorate mandate dal pontefice; e arebbe voluto che il collegio de' cardinali fusse andato a riceverlo alla porta di Roma. Ma recusando il collegio, come cosa non solo nuova ma piena di somma indignità, andorono insino in su' Prati, un mezzo miglio fuora della porta, a riceverlo in nome del pontefice il cardinale agenense e quello di Strigonia; da' quali, andando in mezzo come luogotenente di Cesare, fu menato insino alla chiesa di Santa Maria del popolo. Dalla quale, poi che da lui furno partiti i due cardinali, accompagnato da moltitudine innumerabile, si presentò al pontefice, che nella sedia pontificale in abito solenne l'aspettava nel concistorio publico: nel quale aveva, pochi dí innanzi, ricevuti molto onoratamente dodici imbasciadori de' svizzeri, mandati da tutti i cantoni a dargli publicamente l'ubbidienza e a offerire che quella nazione voleva in perpetuo difendere lo stato della Chiesa, e a ringraziarlo che a quella avesse con tanto onore donato la spada il cappello l'elmetto e la bandiera, e il titolo di difensori della libertà ecclesiastica.

                                            Alla venuta di Gurgense si cominciò a trattare lo stabilimento delle cose comuni; di che il fondamento consisteva in rimuovere le differenze e contese particolari, acciò che Italia rimanesse ordinata in modo che, con animo e consiglio unito, si potesse resistere al re di Francia. E in questo era la piú difficile la composizione, tante volte trattata, tra Cesare e il senato viniziano: perché Gurgense consentiva che a' viniziani rimanessino Padova, Trevigi, Brescia, Bergamo, Crema ma che a Cesare restituissino Vicenza, rinunziassino alle ragioni di quelle terre che riteneva Cesare; pagassingli di presente dugentomila fiorini di Reno, e in perpetuo, ciascuno anno per censo, trentamila. Grave era a' viniziani il riconoscersi censuari di quelle terre le quali tanti anni aveano posseduto come proprie; grave il pagamento de' danari, con tutto che il pontefice offerisse prestarne loro una parte; piú grave il restituire Vicenza, allegando che, separando il ritenerla Cesare il corpo del loro stato, gli privava della comodità di passare dal capo e dall'altre membra principali all'altre membra, e perciò rimanere loro incerta e malsicura la possessione di Brescia, Bergamo e Crema. Allegavano oltre a questo, per fare la recusazione piú onesta, avere data la fede a' vicentini, quando ultimamente si arrenderono, di non separargli giammai da loro. Trattavansi altre controversie tra il pontefice e gli imbasciadori del re d'Aragona, proposte una parte piú per ricompenso delle querele degli altri che per speranza d'ottenerle. Perché il pontefice dimandava che quel re, secondo si disponeva nella confederazione, l'aiutasse ad acquistare Ferrara; dimandava lasciasse la protezione di Fabrizio e di Marcantonio Colonna, contro a' quali avea cominciato a procedere con l'armi spirituali, per avere violentata la porta lateranense, e ricettato Alfonso da Esti ribelle suo nelle terre delle quali il dominio diretto apparteneva alla Chiesa; dimandava rinunziasse alle protezioni, che avea accettate nella Toscana, de' fiorentini de' sanesi de' lucchesi e di Piombino, come fatte in diminuzione delle ragioni dello imperio e come sospette a Italia in comune e in particolare alla Chiesa, perché né agli altri potentati era utile che in Italia avesse tante aderenze, e alla Chiesa molto pericoloso che una provincia congiunta col dominio di quella dependesse dalla sua autorità. Alle quali cose replicavano gli spagnuoli: non si recusare di aiutarlo contro a Ferrara, purché, secondo l'obligazioni della medesima lega, pagasse i danari debiti all'esercito per il tempo passato e provedesse per il futuro; non essere cosa laudabile il procedere contro a Fabrizio e Marcantonio Colonna, perché [per] le dependenze che avevano e perché erano capitani di autorità, il perseguitarli sarebbe materia di nuovo incendio; non potere il re cattolico, senza pregiudicio grave dell'onore proprio, abbandonargli, né meritare tale rimunerazione le cose fatte in servigio del pontefice e suo dall'uno e l'altro di loro nella guerra contro al re di Francia. Né nascere da giusto zelo o da sospetto la querela delle protezioni di Toscana, ma perché alla sua cupidità rimanessino in preda Siena, Lucca e Piombino; accennando nondimeno che di queste si riferirebbe il re all'arbitrio di Cesare. Consentivano tutti i confederati unitamente che nel ducato di Milano entrasse Massimiliano Sforza, non consentendo per ciò Cesare di investirnelo, o di dargli nome di duca o alcuno titolo giuridico. Ma insorgeva la querela di Gurgense e degli spagnuoli, dell'occupazione di Parma e di Piacenza, in pregiudicio delle ragioni dello imperio, in troppa grandezza de' pontefici e in troppa debolezza del ducato di Milano; il quale sarebbe stato necessario fare piú potente perché aveva sempre, a essere il primo percosso da' franzesi. Non avere ne' capitoli della lega parlato il pontefice d'altro che di Bologna e di Ferrara; ora, con ragioni delle quali non apparisca alcuna autentica memoria, usurparsi quello che da grandissimo tempo in qua non avesse mai la Chiesa romana posseduto, né che anche si avesse certa notizia che l'avesse mai possedute, eziandio ne' tempi antichissimi; né mostrarsi delle donazioni degli imperadori altro che una semplice carta che poteva essere stata finta ad arbitrio di ciascuno, e nondimeno il pontefice, come in cosa manifesta e notoria, con la occasione de' tumulti di Lombardia, aversi amministrato ragione da se stesso.

                                            Ma tutte queste dispute [non] difficilmente si risolvevano: solamente turbava tutte le cose la differenza tra Cesare e i viniziani. Affaticavasene quanto poteva il pontefice, ora confortandogli ora pregandogli ora minacciandogli; desideroso, come prima, per il bene publico di Italia, della conservazione de' viniziani, e perché sperava potere cogli aiuti loro, senza l'armi spagnuole, espugnare Ferrara. Affaticavansene gli imbasciadori del re d'Aragona, temendo che con pericolo comune non si desse causa a' viniziani di rivolgere l'animo a riunirsi col re di Francia; ma erano necessitati procedere cautamente per non provocare Cesare a fare unione co' franzesi, la quale il loro re aveva con tanta fatica separata, e perché per altre cagioni non voleva partirsi dalla amicizia sua. Affaticavansene gli imbasciadori de' svizzeri perché, obligati a difendere i viniziani convenuti a pagare loro, per questo, ciascuno anno venticinquemila ducati, desideravano non venire in necessità o di non osservare le promesse o di opporsi a Cesare in caso gli assaltasse. Finalmente, non si potendo rimuovere Gurgense dalla dimanda di riavere Vicenza né disporre i viniziani a darla, discordando ancora nelle quantità de' danari, il pontefice, il quale sopratutto desiderava, per estinguere il nome e l'autorità del conciliabolo pisano, che Cesare approvasse il concilio lateranense, protestò agli oratori loro che sarebbe costretto a perseguitare quella republica con l'armi spirituali e temporali; il quale protesto non gli movendo, venne alla confederazione con Cesare solo, perché l'oratore spagnuolo recusò di intervenirvi, o non avendo commissione dal suo re o perché quel re, ancora che avesse in animo di aiutare Cesare, cercasse di potere nutrire con qualche speranza i viniziani.

                                            Narravasi nel proemio della confederazione, che si publicò poi solennemente nella chiesa di Santa Maria del popolo, che avendo i viniziani recusata ostinatamente la pace, e il pontefice, per le necessità della republica cristiana, protestato di abbandonargli, Cesare entrava e accettava la lega fatta l'anno mille cinquecento undici tra il pontefice il re d'Aragona e i viniziani, secondo che allora gli era stata riserbata la facoltà; prometteva aderire al concilio lateranense, annullando il mandato e revocando tutte le procure e atti fatti in favore del conciliabolo pisano; obligavasi non aiutare alcuno suddito o inimico della Chiesa, e specialmente Alfonso da Esti e i Bentivogli occupatori di Ferrara e di Bologna, e di fare partire i fanti tedeschi che erano agli stipendi d'Alfonso e Federigo da Bozzole suo feudatario. Da altra parte il pontefice prometteva aiutare Cesare contro a' viniziani con l'armi temporali e spirituali insino a tanto avesse ricuperato tutto quello che si conteneva nella lega di Cambrai: dichiaravasi, i viniziani essere in tutto esclusi dalla lega e dalla tregua fatta con Cesare, perché aveano contravenuto a l'una e a l'altra in piú modi, ed essere inimici del pontefice, di Cesare e del re cattolico, riservando nondimeno luogo di entrare nella confederazione fra certo tempo e sotto certe condizioni: non potesse il pontefice fare convenzione alcuna con loro senza consentimento di Cesare, o se Cesare non avesse prima ricuperato quel che se gli apparteneva come di sopra: non potessino né il pontefice né Cesare, senza consenso l'uno dell'altro, convenire con alcuno principe cristiano: che durante la guerra contro a' viniziani non molestasse il pontefice Fabrizio e Marcantonio Colonna, riservatogli il procedere contro al vescovo Pompeio e Giulio, e alcuni altri dichiarati rebelli: che per questa capitolazione, se bene si tollerava il possedere Parma, Reggio e Piacenza, non si intendesse pregiudicato alle ragioni dello imperio. Publicata la confederazione, Gurgense nella prossima sessione del concilio lateranense aderí al concilio in nome di Cesare e come luogotenente suo generale in Italia, annullando il mandato, gli atti fatti e le procure; e presente tutto il concilio, testificò non avere mai Cesare assentito al conciliabolo pisano, detestando ciascuno che avesse usato il nome suo.

                                            Partí dipoi Gurgense da Roma per essere presente quando Massimiliano Sforza, venuto per commissione di Cesare a Verona, prendeva la possessione del ducato di Milano; la venuta del quale aspettare si disponevano difficilmente il cardinale sedunense e gli imbasciadori di tutta la nazione svizzera, che erano a Milano, perché volevano che nelle dimostrazioni e nella solennità degli atti che s'aveano a fare apparisse (quel che era negli effetti) i svizzeri essere quegli che aveano cacciato i franzesi di quello stato, quegli per la virtú e opera de' quali lo riceveva Massimiliano. Ottenne nondimeno il viceré, piú con l'arti e con la industria che con l'autorità, che si aspettasse. Il quale, ratificato a Firenze in nome di Cesare la confederazione fatta in Prato, e ricevuta certa somma di danari da' lucchesi accettati nella sua protezione, pervenne a Cremona: nel qual luogo l'aspettavano Massimiliano Sforza e il viceré, [donde] andorno tutti insieme a Milano, per entrare il dí deputato in quella città con le solennità e onori consueti a' nuovi príncipi: nel quale atto benché fusse disputa grande tra 'l cardinale sedunense [e il viceré], chi di loro gli avesse, all'entrare della porta, a consegnare le chiavi in segno della consegnazione del possesso, nondimeno, cedendo finalmente il viceré, il cardinale in nome publico de' svizzeri gli pose in mano le chiavi, ed esercitò quel dí, che fu degli ultimi dí di dicembre, tutti gli atti che dimostravano Massimiliano ricevere la possessione da loro. Il quale fu ricevuto con incredibile allegrezza di tutti i popoli, per il desiderio ardentissimo d'avere uno principe proprio, e perché speravano avesse a essere simile all'avolo o al padre; la memoria dell'uno de' quali per le sue eccellentissime virtú era chiarissima in quello stato, nell'altro il tedio degli imperi forestieri avea convertito l'odio in benivolenza. Le quali feste non ancora finite, si ricuperò, arrendendosi quegli che vi erano dentro, la rocca di Novara.

                                            Non aveva la confederazione fatta in Roma interrotta del tutto la speranza della concordia tra Cesare e i viniziani. Perché il pontefice avea mandato subito a Vinegia Iacopo Staffileo suo nunzio, col quale erano andati tre imbasciadori de' svizzeri, per persuadergli alla concordia; e da altra parte il senato, per conservarsi la benivolenza del pontefice e non dare causa a Cesare di assaltargli con l'armi, aveva commesso agli imbasciadori suoi che aderissino al concilio lateranense e, subito fatta la confederazione, comandato alle genti loro che si ritirassino nel padovano; e però il viceré, non volendo turbare la speranza della pace, avea voltato l'esercito verso Milano: nondimeno perseverando le medesime difficoltà della restituzione di Vicenza e de' pagamenti de' danari erano vane queste fatiche. La qual cosa era cagione che il pontefice non assaltasse il duca di Ferrara: perché in tal caso arebbe sperato bastargli alla vittoria le forze sue e gli aiuti de' viniziani, col nome solo di accostarvi, bisognando, gli spagnuoli; altrimenti si risolveva a differire alla primavera, perché era riputato difficile l'espugnare nel tempo della vernata Ferrara, forte di sito rispetto al fiume, e la quale Alfonso aveva molto fortificata e senza intermissione alcuna fortificava.

                                                  

                                            Lib.11, cap.6

                                             

                                            Inglesi e spagnuoli contro la Francia; occupazione del regno di Navarra da parte del re d'Aragona; minaccie del pontefice contro il re di Francia; gli inglesi abbandonano l'impresa per dissidi col re d'Aragona. Vano tentativo dei francesi di liberare il regno di Navarra. Scoperta della congiura del duca di Calabria per fuggire nell'esercito francese.

                                             

                                            Parrà forse alieno dal mio proposito, stato di non toccare le cose succedute fuora d'Italia, fare menzione di quel che l'anno medesimo si fece in Francia; ma la dependenza di quelle da queste, e perché a' successi dell'una erano congiunti molte volte le deliberazioni e i successi dell'altra, mi sforza a non le passare del tutto tacitamente. Erano, insino al principio di maggio, passati con le navi inghilesi e spagnuole a Fonterabia, ultimo termine del reame di Spagna verso la Francia in sul mare Oceano, seimila fanti inghilesi per assaltare congiuntamente con le forze spagnuole, secondo le convenzioni fatte tra 'l suocero e il genero, il ducato di Ghienna, parte, secondo gli antichi nomi e divisioni, della provincia della Aquitania; contro al quale movimento il re di Francia, non sicuro ancora dalle parti di Piccardia, preparava l'ordinanza nuova di ottocento lancie che avea fatte, e soldava delle parti piú basse della Alamagna non suddite a Cesare molti fanti: e conoscendo quanto importava alla difesa del ducato di Ghienna il reame di Navarra, il quale, dotale di Caterina di Fois, possedeva insieme con lei Giovanni figliuolo d'Alibret, suo marito, aveva chiamato alla corte Alibret suo padre e cercato con diligenza grande di congiugnerselo; alla qual cosa gli aveva dato grandissima opportunità la morte di Gastone di Fois, per causa del quale, pretendente quel regno non appartenere alle femmine ma a sé piú prossimo maschio della famiglia di Fois, aveva il re di Francia perseguitato Giovanni. Da altra parte il re cattolico, il quale aveva voltato gli occhi a quel reame, dimandava al re di Navarra che stesse neutrale tra il re di Francia e lui, consentisse per il regno il passo alle sue genti che dovevano entrare in Francia, e che per sicurtà di osservargli queste promesse gli desse in mano alcune fortezze, promettendo restituirgliene come prima fusse finita la guerra: le quali dimande conoscendo il Navarro dove tendessino, perché era noto l'antico desiderio de' re di Spagna di occupare la Navarra, eleggeva piú tosto di esporsi al pericolo incerto che accettare la perdita certa, sperando non dovergli mancare il soccorso promesso, di cavalli e [di fanti], del re di Francia, alle cose del quale era opportunissimo il ritenere la guerra in Navarra; e nel medesimo tempo, o per dare maggiore spazio di venire alle genti destinate al suo soccorso o per liberarsi se poteva da queste dimande, trattava col re d'Aragona, il quale secondo il costume suo procedeva in queste cose con grande arte. Ma non nocette piú al re di Navarra la industria e sollecitudine del re d'Aragona che la negligenza del re di Francia; il quale, avendo preso animo perché gli inghilesi passati a Fonterabia non aveano, già molti dí, mosso cosa alcuna, e confidandosi che il re di Navarra potesse per alquanto di tempo con le forze proprie difendersi, procedette lentamente a mandargli il soccorso: donde avendovi il re d'Aragona, il quale aveva astutamente nutrito le speranze del Navarro, voltatevi con somma celerità le genti preparate per unirsi con gli inghilesi, il re di Navarra, non essendo preparato, disperato di potere resistere fuggí nella Bierna di là da' monti Pirenei; e il reame di Navarra abbandonato, da alcune fortezze in fuori che si guardavano per il re fuggito, pervenne senza alcuna spesa e senza difficoltà, e piú per la riputazione della vicinità degli inghilesi che per le forze proprie, in potestà del re d'Aragona. Il quale, non potendo affermare di possederlo legittimamente con altro titolo, allegava l'occupazione essere stata giuridicamente fatta per l'autorità della sedia apostolica: perché il pontefice, non saziato de' prosperi successi d'Italia, aveva poco innanzi publicata una bolla contro al re di Francia nella quale, nominandolo non piú cristianissimo ma illustrissimo, sottoponeva lui e qualunque aderisse a lui a tutte le pene degli eretici e scismatici, concedendo a ciascuno facoltà di occupare lecitamente le sostanze gli stati e tutte le cose loro; e con la medesima acerbità, sdegnato che nella città di Lione fussino stati ricettati i cardinali e gli altri prelati fuggiti da Milano, avea sotto gravissime censure comandato che la fiera solita a celebrarsi ogni anno quattro volte, con grandissimo concorso di mercatanti, a Lione, si celebrasse in futuro nella città di Ginevra, donde già il re Luigi undecimo, per beneficio del regno suo, l'aveva rimossa; e all'ultimo sottoposto allo interdetto ecclesiastico tutto il reame di Francia. Ma il re d'Aragona, poiché ebbe acquistato la Navarra, regno, benché piccolo e di piccole entrate, per il sito suo molto opportuno e di sicurtà grande alle cose di Spagna, avea fisso nell'animo di non procedere piú oltre, non riputando a proposito suo la guerra col re di Francia di là da' monti. Perciò, e nel principio della giunta degli inghilesi era stato tardo a preparare le forze sue, e dopo l'acquisto di Navarra, sollecitando gli inghilesi che unisse con loro le genti sue per andare insieme a campo a Baiona, città vicina a Fonterabia e posta quasi in sul mare Oceano, proponeva altre imprese in luoghi distanti dal mare; allegando, Baiona essere talmente fortificata e talmente proveduta di soldati che niuna speranza si poteva avere di ottenerla: alle quali cose contradicendo gli inghilesi, che dispregiavano qualunque acquisto nel ducato di Ghienna senza Baiona, poiché in queste dispute fu consumato molto tempo, infastiditi gli inghilesi e riputandosi delusi, imbarcatisi senza commissione o licenza del suo principe, se ne tornorno in Inghilterra. Donde il re di Francia, rimanendo sicuro da quella parte, né temendo piú degli inghilesi che l'aveano assaltato per mare, perché, alla fine, diventò con l'armate marittime tanto potente che signoreggiava tutto il mare dalla costa di Spagna insino alle coste di Inghilterra, deliberò di tentare di ricuperare la Navarra; dandogli animo a questo, oltre alla partita degli inghilesi, l'avere per i successi avversi di Italia ridotte tutte le sue genti nel regno di Francia.

                                            Aveva il re d'Aragona, nel tempo che agli inghilesi dava speranza di fare la guerra, e per occupare tutto il reame di Navarra, mandato alcune genti a San Giovanni Piè di Porto, ultimo confine del reame di Navarra, e posto alle radici de' monti Pirenei di verso la Francia; e dipoi cominciando ad augumentare le forze de' franzesi ne' luoghi vicini v'aveva mandato con tutto il suo esercito Federico duca d'Alva, capitano generale della guerra: ma divenuto ultimatamente molto superiore l'esercito franzese, nel quale era venuto il delfino, Carlo duca di Borbone e Longavilla, signori principali di tutta la Francia, il duca di Alva, fermatosi in alloggiamento forte tra 'l piano e il monte aveva assai se proibisse che i franzesi non entrassino nella Navarra. I quali, non potendo urtarlo in quel luogo per la fortezza del sito, deliberorno che il re di Navarra con settemila fanti del suo paese, e con lui la Palissa con trecento lancie, movendosi da Salvatierra vicina a San Giovanni Piè di Porto, dove alloggiava tutto l'esercito, passassino per la via di Valdironcales i monti Pirenei, e accostandosi a Pampalona metropoli della Navarra, nella quale i popoli, preso animo dalla vicinità de' franzesi, già facevano per il desiderio del suo re molte sollevazioni, occupassino il passo di Roncisvalle, per il quale solo si conducevano alle genti spagnuole le vettovaglie, delle quali nel luogo dove erano, per la sterilità del paese, non aveano copia alcuna. L'effetto fu che il re di Navarra e la Palissa, occupato prima il passo di... che è in sulla sommità de' monti Pirenei, sforzorno il Borghetto terra posta a piè de' monti Pirenei, difesa da Baldes capitano della guardia del re d'Aragona con molti fanti; e se colla celerità debita fussino andati a occupare il passo di Roncisvalle, bastava la fame sola a espugnare l'esercito spagnuolo, circondato da ogni parte dagli inimici e da paesi oltre a modo difficili. Ma gli prevenne la celerità del duca d'Alva; il quale, lasciati in San Gianni Piè di Porto mille fanti e tutta l'artiglieria, passò a Pampalona per il passo di Roncisvalle, innanzi che essi vi entrassino. Onde frustrati di questa speranza il re di Navarra e la Palissa, a' quali il delfino avea di nuovo mandato [quattrocento] lancie e settemila fanti tedeschi, si accostorno a Pampalona con quattro pezzi d'artiglieria, la quale con difficoltà grande per l'asprezza de' monti aveano condotta; e dipoi dato l'assalto, non l'avendo ottenuta, costretti dalla stagione del tempo, che era del mese di dicembre, e dal mancamento delle vettovaglie per la sterilità del paese, ripassorno i monti Pirenei; in su' quali, per la difficoltà de' passi e impedimenti de' paesani, furno costretti lasciare l'artiglierie: e nel tempo medesimo Lautrech, che con trecento lancie e tremila fanti era entrato nella Biscaia predando e abbruciando tutto il paese, assaltata invano la terra di San Sebastiano, ripassati i monti tornò all'esercito. Il quale, cessato il timore e la speranza da ogni parte, si dissolvé; rimanendo libero e pacifico tutto il regno di Navarra al re d'Aragona.

                                            Nel qual tempo essendo venuto a luce che Ferdinando, che si chiamava duca di Calavria, figliuolo già di Federico re di Napoli, convenuto secretamente col re di Francia, trattava di fuggire nell'esercito franzese, non molto lontano dalla terra di Logrogno nella quale era allora il re, fu mandato da lui nella fortezza di Sciativa, solita a usarsi da' re aragonesi per carcere delle persone chiare o per nobiltà o per virtú; squartato per la medesima cagione Filippo Coppola napoletano, il quale era andato occultamente al re di Francia per queste cose; variando cosí la fortuna lo stato degli uomini che egli fusse squartato in servigio di colui dall'avolo paterno del quale il conte di Sarni suo padre era stato fatto decapitare. E faceva alle cose di Italia qualche momento l'essersi scoperta questa congiura, la quale aveva avuto origine da un frate mandato occultamente a Ferdinando dal duca di Ferrara: perché il re cattolico avendo già inclinazione di sodisfare al pontefice, si accese molto piú per questo sdegno; in modo che comandò al viceré e all'oratore suo appresso al pontefice che, quando a lui paresse, voltassino l'esercito suo contro a Ferrara, non lo ricercando di altri danari che di quegli che fussino necessari a sostentarlo. Queste cose si feciono quello anno in Italia in Francia e in Ispagna.

                                                  

                                            Lib.11, cap.7

                                             

                                            Speranze di accordi del re di Francia e segrete trattative col vescovo Gurgense, coi veneziani e col re d'Aragona. Suoi vani tentativi di accordi con gli svizzeri. Dispareri nel consiglio del re di Francia intorno alla politica da seguirsi rispetto ai veneziani e a Cesare; sforzi del re d'Aragona per conciliare i veneziani e Cesare.

                                             

                                            Seguita l'anno mille cinquecento tredici, non meno pieno di cose memorabili che l'anno precedente. Nel principio del quale, cessando l'armi da ogni parte, perché né i viniziani molestavano altri né alcuno si moveva contro a loro, il viceré andato con tremila fanti a campo alla rocca di Trezzo l'ottenne, con patto che con le cose loro partissino salvi quegli che vi erano dentro. Ma premevano gli animi di tutti i pensieri delle cose future, sapendosi che il re di Francia, essendo liberato dalle armi forestiere il regno suo, e preso animo dall'avere soldato molti fanti tedeschi e accresciuto non poco il numero dell'ordinanza delle lancie, niuna altra cosa piú pensava che alla recuperazione del ducato di Milano: la quale disposizione benché nel re fusse ardentissima, e desiderasse sommamente accelerare la guerra mentre che le castella di Milano e di Cremona si tenevano ancora per lui, nondimeno, considerando quanta difficoltà gli facesse l'opposizione di tanti inimici, né sicuro che la state prossima non l'assaltasse con apparati grandissimi il re d'Inghilterra, deliberava non muovere cosa alcuna se o non separava dall'unione comune qualcuno de' confederati o non si congiugnesse co' viniziani. Delle quali cose che qualcuna potesse succedere se gli erano, insino l'anno precedente, presentate varie speranze. Perché il vescovo Gurgense, quando da Roma andava a Milano, udito benignamente nel cammino uno familiare del cardinale di San Severino, mandatogli in nome della reina di Francia, aveva dipoi mandato secretamente in Francia uno de' suoi, proponendo che il re s'obligasse ad aiutare Cesare contro a' viniziani, contraessesi il matrimonio tra la seconda figliuola del re con Carlo nipote di Cesare, alla quale si desse in dote il ducato di Milano; cedesse il re alla figliuola e al futuro genero le ragioni le quali pretendeva avere al regno di Napoli, e perché la sicurtà di Cesare non fussino le semplici parole e promesse, che di presente venisse in potestà sua la sposa; e che ricuperato che avesse il re il ducato di Milano fussino tenute da Cesare Cremona e la Ghiaradadda. Sperava medesimamente il re potersi congiugnere i viniziani, sdegnati sommamente quando il viceré occupò Brescia e molto piú per le cose convenute poi a Roma tra 'l pontefice e Cesare: perciò, insino allora, aveva fatto venire occultissimamente alla corte Andrea Gritti, il quale, preso a Brescia, dimorava ancora prigione in Francia; e operato che Gianiacopo da Triulzi, in cui molto confidavano i viniziani, mandasse a Vinegia, sotto simulazione d'altre faccende, un suo secretario. Offerivasigli similmente qualche speranza di convenire col re di Aragona; il quale, come era consueto trattare spesso le cose sue per mezzo di persone religiose, aveva occultamente mandato in Francia due frati, acciocché, dimostrando avere zelo del bene publico, cominciassino a trattare con la reina qualcosa attenente alla pace, o universale o particolare, intra i due re: ma di questo era piccola speranza, sapendo il re di Francia che egli si vorrebbe ritenere la Navarra, e a lui essendo molto duro e pieno di somma indignità abbandonare quel re, che per ridursi alla amicizia sua e sotto la speranza de' suoi aiuti era caduto in tanta calamità.

                                            Ma niuna cosa piú premeva al re di Francia che il desiderio di riconciliarsi i svizzeri, conoscendo da questo dependere la vittoria certissima, per l'autorità grandissima che aveva allora quella nazione per il terrore delle loro armi, e perché pareva che avessino cominciato a reggersi non piú come soldati mercenari né come pastori ma vigilando, come in republica bene ordinata e come uomini nutriti nell'amministrazione degli stati, gli andamenti delle cose, né permettendo si facesse movimento alcuno se non secondo l'arbitrio loro. Però concorrevano in Elvezia gli imbasciadori di tutti i príncipi cristiani; il pontefice e quasi tutti i potentati italiani pagavano annue pensioni per essere ricevuti nella loro confederazione, e avere facoltà di soldare per la difesa propria, quando n'avessino di bisogno, soldati di quella nazione: dalle quali cose insuperbiti, e ricordandosi che coll'armi loro avea prima Carlo re di Francia conquassato lo stato felice d'Italia, e che coll'armi loro Luigi suo successore aveva acquistato il ducato di Milano, recuperata Genova e vinti i viniziani, procedevano con ciascuno imperiosamente e insolentemente. E nondimeno al re di Francia, oltre a' conforti di molti particolari della nazione e il persuadersi che gli avessino a muovere l'offerte grandissime di danari, dava speranza che avendo quegli che governavano Milano convenuto cogli oratori de' svizzeri, in nome di Massimiliano Sforza, di dare loro, come prima egli avesse ricevuta la possessione del ducato di Milano e delle fortezze, ducati cento cinquantamila, e per spazio di venticinque anni quarantamila ducati ciascuno anno, ricevendolo essi sotto la sua protezione e obligandosi a concedere de' loro fanti a' suoi stipendi, nondimeno non avevano mai i cantoni ratificato. Perciò, nel principio dell'anno presente, con tutto che prima avesse tentato invano che gli imbasciadori, i quali intendeva mandare a trattare di queste cose, fussino uditi, consentí per poterlo fare di dare loro libere le fortezze di Valdilugana e di Lugarna, per ottenere con questo prezzo la udienza loro. Con tanta indignità cercavano i príncipi grandi l'amicizia di quella nazione. Venne adunque per commissione del re [monsignore] della Tramoglia a Lucerna, nel qual luogo era chiamata la dieta per udirlo; e benché raccolto con lieta fronte conobbe presto essere, in quanto al ducato di Milano, vane le sue fatiche; perché pochi dí innanzi sei de' cantoni avevano ratificato e suggellato i capitoli fatti con Massimiliano Sforza, tre avevano deliberato di ratificare, gli altri tre mostravano di stare ancora ambigui. Però, non parlando piú delle cose di Milano, proponeva che almanco aiutassino il re a recuperare Genova e Asti, che nella capitolazione fatta con Massimiliano non si includevano. Alle quali dimande il Triulzio per dare favore fece instanza di potere andare alla dieta, sotto colore di trattare cose sue particolari; e gli fu concesso il salvocondotto, ma con condizione che non trattasse di cosa alcuna attenente al re di Francia: anzi, come fu giunto a Lucerna, gli fu fatto comandamento che non parlasse né in publico né in privato con la Tramoglia. Finalmente, con consentimento comune, furono ratificati da tutti i cantoni i capitoli fatti col duca di Milano, denegate tutte le dimande del re di Francia, e aggiunto che non se gli concedesse soldare fanti di quella nazione per servirsene né in Italia né fuora d'Italia.

                                            Perciò il re, escluso da' svizzeri, conosceva essere necessario il riconciliarsi o con Cesare o co' viniziani, i quali nel tempo medesimo trattavano ancora [con] Cesare: perché, crescendo negli animi de' collegati il sospetto della riconciliazione loro col re di Francia, consentiva Gurgense che essi ritenessino Vicenza. Ma dando animo al senato quelle medesime ragioni che facevano timore agli inimici, negavano volere piú fare la pace se non si restituiva loro Verona, ricompensando Cesare con maggiore somma di danari: nella qual dimanda trovando difficoltà, inclinati tanto piú all'amicizia franzese, convennono col secretario del Triulzio di confederarsi col re, riferendosi alle prime capitolazioni fatte tra loro, per le quali se gli dovevano Cremona e la Ghiaradadda; ma il secretario espresse nella capitolazione che niente fusse valido se infra certo tempo non si approvava dal re. Nel consiglio del quale erano varie dispute, quale fusse piú da desiderare, o la riconciliazione con Cesare o la confederazione co' viniziani. Questa piú approvavano Rubertet, secretario di grande autorità, il Triulzio e quasi tutti i principali del consiglio, allegando quel che l'esperienza presente aveva, con tanto danno, dimostrato della incostanza di Cesare, l'odio che aveva contro al re e il desiderio di vendicarsi; penetrando massime, da autori non leggieri, essere state in questo tempo qualche volta parole sue, che aveva fissa nell'animo la memoria di diciassette ingiurie ricevute da' franzesi, e che essendogli venuta la facoltà di vendicarle tutte non voleva perderne la occasione; né per altro effetto trattarsi queste cose da lui se non o per avere, per mezzo della riconciliazione fraudolenta, maggiore comodità di nuocere, o almeno per interrompere quel che si sapeva trattarsi co' viniziani o per raffreddare le preparazioni della guerra; né si potere scusare né meritare compassione chi una volta ingannato da uno tornava incautamente a confidarsi di lui. Replicava in contrario il cardinale di San Severino, mosso, come dicevano gli avversari, piú per lo studio delle parti contro al Triulzio che per altre cagioni (perché in Milano aveva sempre, insieme co' fratelli, seguitata la parte ghibellina): niuna cosa potere essere piú utile al re che, col congiugnersi con Cesare, rompere l'unione degli inimici, massime facendosi la congiunzione per mezzo tale che si potesse sperare dovere essere durabile; essendo proprio de' príncipi preporre nelle loro deliberazioni sempre l'utilità alla benivolenza agli odii e all'altre cupidità. E quale cosa potere a Cesare fare beneficio maggiore che l'aiuto presente contro a viniziani? la speranza d'avere a succedere il nipote nel ducato di Milano? Separato Cesare dagli altri, non potere, per l'interesse del nipote e per gli altri rispetti, opporsi alla autorità sua il re cattolico; né cosa alcuna potere piú spaventare il pontefice che questa: e per contrario essere piena di indignità la confederazione co' viniziani, avendo a concedere loro Cremona e la Ghiaradadda, membri tanto propri al ducato di Milano, per la recuperazione de' quali aveva il re concitato tutto il mondo; e nondimeno, se non si divideva la unione degli altri, non bastare a conseguire la vittoria la congiunzione co' viniziani. Prevaleva finalmente questa sentenza per l'autorità della reina desiderosa della grandezza della figliuola; pur che si potesse ottenere che insino alla consumazione del matrimonio si conservasse appresso alla madre, la quale obligasse la fede sua di tenerla in nome di Cesare come sposa destinata al nipote, e di consegnarla al marito come prima l'età fusse abile al matrimonio: ma certificato poi il re, Cesare non essere per convenire con questa limitazione, piú tosto queste cose essere state proposte da lui artificiosamente per dargli causa di procedere piú lentamente negli altri pensieri, rimosso l'animo da questa pratica, rivocò Asparot fratello di Lautrech, partito già dalla corte per andare a Gurgense con questa commissione. Da altra parte, crescendo il timore dell'unione tra il re e i viniziani, il re d'Aragona confortava Cesare alla restituzione di Verona, proponendogli il trasferire, co' danari che arebbe da' viniziani e con l'esercito spagnuolo, la guerra nella Borgogna. Il medesimo sentiva Gurgense, il quale, sperando potere colla presenza muovere Cesare, ritornò in Germania: seguitandolo non solo don Petro Durrea, venuto seco, ma ancora Giovambatista Spinello conte di Carriati, imbasciadore del medesimo re appresso a' viniziani; avendo prima indotto il senato, acciocché nuove difficoltà non interrompessino le speranze che si trattavano, a fare tregua con Cesare per tutto il mese di marzo, data la fede dagli oratori predetti che Cesare restituirebbe Verona, pur che a lui fussino promessi in certi tempi dugento cinquantamila ducati e ciascuno anno ducati cinquantamila.

                                                  

                                            Lib.11, cap.8

                                             

                                            Morte di Giulio II: giudizio dell'autore. Occupazione di Piacenza e di Parma da parte del viceré. Elezione di Leone X; sue promesse di benevolenza verso i cardinali scismatici. Magnifica incoronazione del nuovo pontefice.

                                             

                                            In questa agitazione di cose e in tempi tanto gravi sopravenne la infermità del pontefice, pieno (perché dall'avere ottenuto le cose desiderate non si diminuiscono ma si accrescono sempre i disegni) di maggiori voglie e concetti che forse fusse stato innanzi, per tempo alcuno. Perché aveva deliberato di fare, al principio della primavera, la impresa tanto desiderata di Ferrara; la quale città, essendo abbandonata da tutti gli aiuti, e dovendovi andare oltre alle genti sue l'esercito spagnuolo, si credeva avesse a fare piccola resistenza: aveva comperato secretamente, per prezzo di trentamila ducati da Cesare la città di Siena per il duca d'Urbino; al quale, per conservarsi intera la gloria d'avere pensato schiettamente alla esaltazione della Chiesa, non avea, da Pesero infuora, voluto mai concedere cosa alcuna dello stato ecclesiastico; conveniva prestare a Cesare quarantamila ducati, ricevendone in pegno Modena; minacciava i lucchesi che ne' travagli del duca di Ferrara avessino occupato la Garfagnana, instando la dessino a lui; e sdegnato col cardinale de' Medici per parergli che aderisse piú al re cattolico che a sé, e per conoscere di non potere disporre come si aveva presupposto di quella città, già aveva nuovi disegni e nuove pratiche per alterare lo stato di Firenze: sdegnato col cardinale sedunense, perché di stati e di beni di diverse persone nello stato di Milano aveva attribuito a sé entrata di piú di trentamila ducati l'anno, gli aveva tolto il nome del legato e chiamatolo a Roma: aveva, acciò che le cose del duca di Urbino in Siena, per la intelligenza de' vicini, fussino piú stabili, condotto di nuovo Carlo Baglione, per cacciare Giampaolo di Perugia congiuntissimo di affinità co' figliuoli di Pandolfo Petrucci, successori della grandezza paterna: voleva costituire in Genova nuovo doge Ottaviano Fregoso, rimosso Ianus di quella degnità; consentendo a questo gli altri Fregosi perché, per il grado il quale v'avevano tenuto i suoi maggiori, pareva che piú a lui si appartenesse: pensava assiduamente come potesse o rimuovere di Italia o opprimere con l'aiuto de' svizzeri, i quali soli magnificava e abbracciava, l'esercito spagnuolo, acciò che, occupato il regno napoletano, Italia rimanesse (queste parole uscivano frequentemente della bocca sua) libera da' barbari; e a questo fine aveva impedito che i svizzeri non si confederassino col re cattolico. E nondimeno, come se in potestà sua fusse percuotere in un tempo medesimo tutto il mondo, continuando nel solito ardore contro al re di Francia, con tutto che avesse udito uno messo della reina, concitava il re di Inghilterra alla guerra; al quale aveva ordinato che, per decreto del concilio lateranense, si trasferisse il nome del re cristianissimo; sopra la qual cosa era già scritta una bolla, contenendosi in essa medesimamente la privazione dalla degnità e dal titolo di re di Francia, concedendo quel regno a qualunque lo occupasse. In questi tali e tanti pensieri, e forse ancora in altri piú occulti e maggiori (perché nello animo tanto feroce non era incredibile concetto alcuno quantunque vasto e smisurato), l'oppresse, dopo infermità di molti giorni, la morte. Dalla quale sentendosi prevenire, fatto chiamare il concistorio, al quale per la infermità non poteva intervenire personalmente, fece confermare la bolla publicata prima da lui contro a chi ascendesse al pontificato per simonia, e dichiarare la elezione del successore appartenere al collegio de' cardinali e non al concilio, e che i cardinali scismatici non vi potessino intervenire: a' quali disse che perdonava l'ingiurie fatte a sé, e che pregava Dio che perdonasse loro le ingiurie fatte alla sua Chiesa. Supplicò poi al collegio de' cardinali che, per fare cosa grata a sé, concedessino la città di Pesero in vicariato al duca di Urbino; ricordando che per opera principalmente di quel duca era stata, alla morte di Giovanni Sforza, ricuperata alla Chiesa. In niuna altra cosa dimostrò affetti privati o propri; anzi, supplicando instantemente madonna Felice sua figliuola, e per sua intercessione molti altri, che creasse cardinale [Guido] da Montefalco perché erano nati di una medesima madre, rispose apertamente non essere persona degna di quel grado: e ritenendo in tutte le cose la solita costanza e severità, e il medesimo giudicio e vigore d'animo che aveva innanzi alla infermità, ricevuti divotamente i sacramenti ecclesiastici, finí, la notte innanzi al vigesimo primo dí di febbraio essendo già propinquo il giorno, il corso delle fatiche presenti. Principe d'animo e di costanza inestimabile ma impetuoso e di concetti smisurati, per i quali che non precipitasse lo sostenne piú la riverenza della Chiesa, la discordia de' príncipi e la condizione de' tempi, che la moderazione e la prudenza. Degno certamente di somma gloria se fusse stato principe secolare, o se quella cura e intenzione che ebbe a esaltare con l'arti della guerra la Chiesa nella grandezza temporale avesse avuta a esaltarla con l'arti della pace nelle cose spirituali: e nondimeno, sopra tutti i suoi antecessori, di chiarissima e onoratissima memoria; massimamente appresso a coloro i quali, essendo perduti i veri vocaboli delle cose, e confusa la distinzione del pesarle rettamente, giudicano che sia piú officio de' pontefici aggiugnere, con l'armi e col sangue de' cristiani, imperio alla sedia apostolica che l'affaticarsi, con lo esempio buono della vita e col correggere e medicare i costumi trascorsi, per la salute di quelle anime, per la quale si magnificano che Cristo gli abbia costituiti in terra suoi vicari.

                                            Morto il pontefice, il viceré di Napoli, andato co' soldati spagnuoli verso Piacenza, costrinse quella città a ritornare, come già soleva, sotto l'imperio de' duchi di Milano: l'esempio de' piacentini seguitorno, per il medesimo terrore, i parmigiani. Da altra parte, il duca di Ferrara, ricuperate subito le terre di Romagna, si accostò a Reggio; ma non si movendo dentro cosa alcuna non ebbe ardire di fermarvisi, perché l'esercito spagnuolo si era disteso ad alloggiare tra Piacenza e Reggio. Niuno altro movimento fu nello stato della Chiesa, né sentí Roma o il collegio de' cardinali alcuna di quelle difficoltà che avea sentite nella morte de' due prossimi pontefici: però, finite secondo l'uso l'esequie, entrorono pacificamente nel conclave ventiquattro cardinali; avendo prima conceduto che il figliuolo del marchese di Mantova, che era appresso a Giulio per statico, libero dalla fede data, potesse ritornarsene al padre.

                                            Nel conclave fu la prima cura moderare con capitoli molto stretti l'autorità del futuro pontefice, esercitata, come dicevano, dal morto troppo impotentemente: benché non molto poi (come degli uomini alcuni non hanno ardire di opporsi al principe, altri appetiscono di farselo benevolo) gli annullorno da loro medesimi quasi tutti. Elessono il settimo dí, non discrepando alcuno, in pontefice Giovanni cardinale de' Medici, il quale assunse il nome di Leone decimo, di età d'anni trentasette; cosa, secondo la consuetudine passata, maravigliosa, e della quale fu principale cagione la industria de' cardinali giovani, convenutisi molto prima tacitamente insieme di creare il primo pontefice del numero loro. Sentí di questa elezione quasi tutta la cristianità grandissimo piacere, persuadendosi universalmente gli uomini che avesse a essere rarissimo pontefice, per la chiara memoria del valore paterno e per la fama, che risonava per tutto, della sua liberalità e benignità; stimato casto e di integerrimi costumi; e sperandosi che a esempio del padre avesse a essere amatore de' letterati e di tutti gl'ingegni illustri: la quale espettazione accresceva l'essere stata fatta l'elezione candidamente, senza simonia o sospetto di macula alcuna. E pareva già che Iddio cominciasse ad approvare questo pontificato, perché il quarto dí dalla elezione vennono in sua potestà i cardinali privati di Santa Croce e di San Severino. I quali, intesa la morte di Giulio, andavano per mare a Roma, accompagnati da... Solier imbasciadori del re di Francia; ma intesa nel porto di Livorno, ove erano sorti, essere eletto il cardinale de' Medici in nuovo pontefice, confidatisi nella sua benignità, e specialmente Sanseverino nella amicizia stretta che aveva avuto seco e col fratello, impetrato salvocondotto, dal capitano di Livorno, il quale non si stendeva oltre a' limiti della sua giurisdizione, discesono in terra, e dipoi, non ricercata altra sicurezza, spontaneamente andorno a Pisa: nella quale città raccolti onoratamente, e dipoi condotti a Firenze, erano onestamente custoditi, di maniera che non aveano facoltà di partirsi: cosí desiderando il pontefice. Il quale, mandato il vescovo d'Orvieto, gli confortò con parole molto benigne che, per sicurtà loro e per pace della Chiesa, soprasedessino in Firenze insino a tanto si determinasse in che modo avessino a andare a Roma; e che, essendo stati privati giuridicamente e confermata la privazione nel concilio lateranense, non andassino piú in abito di cardinali, perché facendo segni d'umiliarsi, faciliterebbono a lui il ridurre, secondo che aveva in animo di fare, in porto le cose loro.

                                            Fu la prima azione del nuovo pontificato la incoronazione sua, fatta secondo l'uso degli antecessori nella chiesa di San Giovanni Laterano, con tanta pompa, cosí dalla famiglia e corte sua come da tutti i prelati e da molti signori che vi erano concorsi e dal popolo romano, che ciascuno confessò non avere mai veduto Roma, dopo le inondazioni de' barbari, dí piú magnifico e piú superbo che questo. Nella quale solennità portò il gonfalone della Chiesa Alfonso da Esti; il quale, ottenuta la sospensione dalle censure, era andato a Roma, con speranza grande di comporre, per la mansuetudine del pontefice, le cose sue: portò quello della religione di Rodi Giulio de' Medici, armato, in su uno grosso corsiere; inclinato dalla volontà sua alla professione dell'armi ma tirato da' fati alla vita sacerdotale, nella quale avesse a essere esempio maraviglioso della varietà della fortuna. E fece questo dí piú memorabile e di maggiore ammirazione il considerare che colui che ora pigliava, con sí rara pompa e splendore, le insegne di tanta degnità era stato nel dí medesimo, l'anno dinanzi, fatto miserabilmente prigione. Confermò questa magnificenza appresso al volgo la espettazione che si aveva di lui, promettendosi ciascuno che Roma avesse a essere felice sotto uno pontefice ornato di tanta liberalità e di tanto splendore; perché era certo essere stati spesi da lui in questo dí centomila ducati: ma gli uomini prudenti desiderorno maggiore gravità e moderazione, giudicando né convenire tanta pompa a' pontefici, né essere secondo la condizione de' tempi presenti il dissipare inutilmente i danari accumulati dal precessore.

                                                  

                                            Lib.11, cap.9

                                             

                                            Tregua fra il re di Francia e il re d'Aragona. Preoccupazioni in Italia per la conclusione della tregua. Ragioni che spingono il re di Francia alla nuova impresa d'Italia. Confederazione fra i veneziani e il re di Francia.

                                             

                                            Ma né la mutazione del pontefice né altri accidenti bastavano a stabilire la quiete d'Italia, anzi già apertamente cominciavano a indirizzarsi le cose alla guerra. Perché Cesare, alieno totalmente dalla restituzione di Verona, parendogli rimanere privato della facilità di entrare in Italia, con tutto che fusse stata prolungata la tregua per tutto aprile, disprezzò le condizioni dell'accordo trattato a Milano; e infastidito della instanza che gli facevano gli oratori del re cattolico, disse al conte di Carriati che, per la inclinazione che da lui si dimostrava a' viniziani, conveniva che fusse chiamato piú presto imbasciadore viniziano che spagnuolo: ma augumentò molto piú questa disposizione la tregua la quale tra i re cristianissimo e cattolico fu fatta, per uno anno, solamente per le cose di là da' monti; per la quale al re di Francia, liberato da' sospetti di verso Spagna, si dava facilità grandissima di rinnovare la guerra nel ducato di Milano. Aborriva in ogni, tempo il re cattolico d'avere la guerra di là da' monti co' franzesi, perché non essendo potente di danari, e per questo costretto ad aiutarsi delle forze de' signori e de' popoli di Spagna, o non aveva gli aiuti pronti o bisognava che nel tempo della guerra stesse con loro quasi come in subiezione: ma in questo tempo massimamente era confermato il suo antico consiglio, perché colla quiete si stabiliva meglio il regno nuovamente acquistato di Navarra, ma molto piú perché, essendo dopo la morte della reina Isabella non piú re ma governatore di Castiglia, non aveva tanto fondata ne' tempi turbolenti l'autorità sua; e aveva veduto l'esperienza frescamente nella difesa di Navarra, della quale se bene fusse stato felice il fine non era però che, per la lentezza de' soccorsi, non si fusse ridotto in molti pericoli. A' quali non volendo piú ritornare, contrasse, non sapendo ancora la morte del pontefice, la tregua; con tutto che non fusse publicata innanzi sapesse l'elezione del nuovo. E allegava, per giustificazione di questa inaspettata deliberazione, essergli stata violata la lega dal pontefice e da' viniziani, perché dopo la giornata di Ravenna non avevano mai voluto pagare i quarantamila ducati, come erano tenuti mentre che il re di Francia possedeva cosa alcuna in Italia: egli solo avere pensato al bene comune de' confederati né attribuito a sé i premi della vittoria comune, né possedere in Italia una piccola torre piú di quello che possedeva innanzi alla guerra; ma il papa avere pensato al particolare e fatte sue proprie le cose comuni, occupato Parma, Piacenza e Reggio, né pensato ad altro che a occupare Ferrara; la quale sua cupidità aveva disturbato l'acquistare le fortezze del ducato di Milano e la Lanterna di Genova: avere egli interposta tutta la sua diligenza e autorità per la concordia tra Cesare e i viniziani, ma il pontefice essersi per gli interessi propri precipitato a escludergli dalla lega; nella qualcosa avere fatto imprudentemente gli oratori suoi, che non avendo consentito, perché cosí sapeano essere la mente sua, che e' fusse nominato nel capitolo nel quale si introduceva la confederazione, l'avessino lasciato nominare in quello nel quale si escludevano i viniziani; né avere in questo maneggio corrisposto i viniziani al concetto che si aveva della prudenza loro, avendo tenuto tanto conto di Vicenza che, per non perderla, non avessino voluto liberarsi da' travagli della guerra: essergli impossibile nutrire, senza i pagamenti che gli erano stati promessi, l'esercito che aveva in Italia, e manco essergli possibile sostenere tutta la guerra a' confini de' regni suoi, come conosceva desiderare e procurare tutti gli altri: né dissimulare il pontefice il desiderio già indirizzato di torgli il regno di Napoli. E nondimeno non muoverlo queste ingiurie a pensare di abbandonare la Chiesa e gli altri di Italia, quando trovasse la corrispondenza conveniente, i quali sperava che, commossi da questa tregua col re, sarebbeno piú pronti a convenire seco per la difesa comune. Inserí nello instrumento della tregua il nome di Cesare e del re di Inghilterra, con tutto che con loro non avesse comunicato cosa alcuna; e fu cosa ridicola che ne' medesimi dí che la si bandiva solennemente per tutta Spagna venne uno araldo a significargli, in nome del re d'Inghilterra, gli apparati potentissimi che e' faceva per assaltare la Francia e a sollecitare che egli medesimamente movesse, secondo che aveva promesso, la guerra dalla parte di Spagna.

                                            La tregua fatta in questo modo spaventò sommamente in Italia gli animi di coloro a' quali era molesto lo imperio de' franzesi, tenendosi quasi per certo da tutti che il re di Francia non avesse a tardare a mandare l'esercito di qua da' monti e che, per l'ostinazione di Cesare alla pace, i viniziani avessino a unirsi seco; a' quali resistere pareva molto difficile, perché l'esercito spagnuolo, ancora che dallo stato di Milano afflitto da spese infinite avesse tratto alcuna volta qualche somma di danari, non aveva piú modo a sostentarsi. Del nuovo pontefice non si comprendeva ancora quale fusse la intenzione: perché, benché secretamente desiderasse che la potenza del re di Francia avesse per termine i monti, nondimeno, nuovo nel pontificato, e confuso non meno che gli altri dalla tregua fatta dal re cattolico nel tempo che si credeva avesse applicati i pensieri alla guerra, stava coll'animo molto sospeso; sdegnato ancora che, ricercando con grande instanza che alla Chiesa fussino restituite Parma e Piacenza, il darne speranza era pronto, l'esecuzione procedeva lentamente; desiderando tutti gli altri conservarle al ducato di Milano, e per avventura sperando che il desiderio di recuperarle lo inducesse alla difesa di quello stato. Parevano piú certo e piú potente presidio i svizzeri ma, considerando non potersi né da Massimiliano Sforza né da altri pagare i danari che, secondo le convenzioni, erano necessari al muovergli, si temeva che nel maggiore bisogno ricusassino di scendere nello stato di Milano.

                                            Da altra parte il re di Francia, fatta che ebbe la tregua, deliberò di mandare l'esercito in Italia, dandogli speranza alla vittoria le ragioni dette di sopra; alle quali s'aggiugneva il sapere che i popoli dello stato di Milano, vessati da tante taglie e rapine de' svizzeri e dagli alloggiamenti e pagamenti fatti agli spagnuoli, desideravano ardentemente di ritornare sotto il dominio suo, avendo, per l'acerbità degli altri, conosciuto essere, in comparazione loro, desiderabile lo imperio de' franzesi. Anzi molti gentiluomini particolari di quel ducato, per messi propri, indiritti chi al re chi al Triulzio (il quale il re, acciocché di luogo piú propinquo trattasse co' milanesi, avea mandato a Lione), confortavano a non differire a mandare l'esercito; promettendo, subito che avesse passato i monti, di pigliare scopertamente l'armi per lui. Né mancavano gli stimoli assidui del Triulzio e degli altri fuorusciti che, secondo il costume di chi è fuori della patria, proponevano la impresa dovere essere molto facile, massimamente congiugnendosi seco i viniziani. E lo costrigneva ad accelerare il confidare di prevenire, colla fine di questa, il principio della guerra del re di Inghilterra: la quale non poteva cominciare se non dopo il corso di qualche mese, perché quel regno, essendo già molti anni stato in pace, era sproveduto d'armadure, d'artiglierie e quasi di tutte le cose necessarie alla guerra, non aveva cavalli da combattere perché gli inghilesi non conoscono altra milizia che la pedestre, e quella non essendo esperimentata, era necessitato, perché voleva passare in Francia potentissimo, soldare numero grande di fanti tedeschi: cose che senza lunghezza di tempo non si potevano spedire. Costrigneva similmente il re, ad accelerare, il timore che le fortezze non si perdessino per mancamento di vettovaglie; e specialmente la Lanterna di Genova, la quale pochi dí innanzi non gli era succeduto di rinfrescare per una nave mandata a questo effetto: la quale da Arbinga, insino dove era stata accompagnata da tre navi e da uno galeone, entrata nell'alto mare col vento prospero, per la forza del quale passata per mezzo de' legni genovesi si era accostata al castello, surta in sull'ancore e dato il cavo alla fortezza, già cominciava a scaricare le vettovaglie e le munizioni che avea portate; ma Andrea Doria, quel che poi fu tanto felice e famoso in sul mare, entrato con pericolo grande, con una nave grossa della quale era padrone, tra la Lanterna e la nave franzese, e tagliato il cavo dato alla fortezza e i cavi delle ancore, combattendo egregiamente e nel combattere ferito nel volto, la conquistò.

                                            Deliberato adunque il re non differire il dare cominciamento alla guerra (al qual fine, per essere parato a ogni occasione, avea prima mandato molte lancie ad alloggiare nella Borgogna e nel Dalfinato) ristrinse le cose trattate già molti mesi co' viniziani, ma allentate alquanto dall'una parte e dall'altra, perché e il re aveva tenuto sospeso ora la speranza della pace con Cesare ora il dimandare essi pertinacemente Cremona e la Ghiaradadda, e nel senato erano stati vari pareri. Perché molti di autorità grande nella republica proponevano la concordia con Cesare, dimostrando essere piú utile alleggerirsi al presente da tante spese e liberarsi da' pericoli, per potere piú prontamente abbracciare l'occasioni che si offerissino, che, essendo la republica affaticata e indebolite le sostanze de' privati, implicarsi in nuove guerre in compagnia del re di Francia; della amicizia del quale quanto fusse fedele e sicura avevano sí fresca l'esperienza: nondimeno, parendo alla maggiore parte rare volte potere venire tale occasione di recuperare l'antico stato loro, e che la concordia con Cesare, ritenendosi Verona, non gli liberasse dalle molestie e da' pericoli, si risolverono a fare la confederazione col re di Francia, lasciato da parte il pensiero di Cremona e della Ghiaradadda. La quale per Andrea Gritti, che già sosteneva piú la persona di imbasciadore che di prigione, fu conchiusa nella corte del re: nella quale, presupposta la liberazione di Bartolomeo da Alviano e di Andrea Gritti, si obligorono i viniziani di aiutare, con ottocento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e diecimila fanti, il re di Francia contro a qualunque se gli opponesse, alla recuperazione di Asti di Genova e del ducato di Milano; e il re si obligò ad aiutare loro insino a tanto ricuperassino interamente tutto quello possedevano, innanzi alla lega di Cambrai, in Lombardia e nella marca trivisana; e che al re s'appartenessino Cremona e la Ghiaradadda. La quale confederazione subito che fu stipulata, andorno a Susa Giaiacopo da Triulzi e Bartolomeo d'Alviano, l'uno per andare poi per la via piú sicura a Vinegia, l'altro per unire quivi l'esercito destinato alla guerra, che era mille cinquecento lancie ottocento cavalli leggieri e quindicimila fanti (ottomila tedeschi, gli altri franzesi); tutti sotto il governo di [monsignore] della Tramoglia, deputato dal re, perché le cose procedessino con maggiore riputazione, suo luogotenente.

                                                  

                                            Lib.11, cap.10

                                             

                                            Dubbi del re di Francia per il contegno e gli atti del pontefice. Cauto contegno di questo. Ambiguo contegno del viceré. Prime irrequietudini in Milano per l'avvicinarsi dei francesi. La partenza del viceré dalla Trebbia e suo improvviso ritorno. Suo atteggiamento d'attesa degli avvenimenti.

                                             

                                            Faceva in questo tempo medesimo il re, con sommi prieghi, instanza col pontefice che non gli impedisse la recuperazione del suo ducato, offerendogli non solamente che dopo la vittoria non procederebbe piú oltre ma che sempre farebbe la pace ad arbitrio suo. Le quali cose benché il pontefice udisse benignamente e che, acciò che con maggiore fede fussino ricevute le parole sue, usasse a trattare col re l'opera e il mezzo di Giuliano suo fratello, nondimeno molte cose lo facevano sospetto al re: la memoria delle cose precedenti al pontificato; l'avere il pontefice, subito che fu assunto, mandato a lui Cintio suo familiare con uno breve e con umane commissioni, ma tanto generali che arguivano non avere l'animo inclinato a lui: l'avere il pontefice consentito che Prospero Colonna fusse eletto capitano generale del duca di Milano, il che Giulio, per l'odio contro a' Colonnesi, aveva sempre vietato. Insospettivalo molto piú, che il pontefice aveva significato al re di Inghilterra volere continuare nella confederazione fatta con Cesare col re cattolico e con lui, e alle comunità de' svizzeri aveva scritto quasi dimostrando di esortargli alla difesa d'Italia; né dissimulava volere continuare con loro la confederazione fatta da Giulio, per la quale, ricevendo ogni anno ventimila ducati da lui, si erano obligati alla protezione dello stato ecclesiastico. Era anche segno del suo animo il non avere ricevuto in grazia il duca di Ferrara, ma differita con varie scuse la restituzione di Reggio insino a tanto che a Roma venisse il cardinale suo fratello; il quale, per fuggire le persecuzioni di Giulio e l'instanza del re di Francia che andasse al concilio pisano, se ne era andato ad Agria suo vescovado in Ungheria. Ma piú che di alcuna di queste cose rendeva sospetto il pontefice l'avere, benché piú occultamente gli fusse stato possibile, confortato il senato viniziano a convenire con Cesare, cosa tutta contraria all'intenzione del re; il quale aveva ancora interpetrato in mala parte che 'l papa, dimostrando di muoversi non per altro che per l'officio pontificale, gli aveva scritto uno breve esortatorio a non muovere l'armi, a inclinare a finire la guerra con onesta composizione, cosa che per se stessa il re non arebbe biasimata se, per il medesimo desiderio della pace, avesse confortato il re di Inghilterra a non molestare la Francia.

                                            E certamente non era vano il sospetto del re, perché il pontefice desiderava sommamente che i franzesi non avessino piú sedia in Italia, o perché gli paresse piú utile per la sicurtà comune o per la grandezza della Chiesa o perché gli risedesse nell'animo la memoria delle offese ricevute dalla corona di Francia: alla quale se bene il padre e gli altri suoi maggiori fussino stati deditissimi, e n'avessino in vari accidenti riportato comodità e onore, nondimeno era piú fresco che i suoi fratelli ed egli erano stati cacciati di Firenze per la venuta del re Carlo; e che questo presente re, favorendo il governo popolare, o gli aveva sempre dispregiati o se alcuna volta si era dimostrato inclinato a loro l'aveva fatto per usargli come instrumenti a tirare per questo sospetto i fiorentini a convenzioni utili a sé proprio, dimenticandosi di loro interamente. Aggiugnevasi per avventura lo sdegno di essere stato, dopo la giornata di Ravenna, menato prigione a Milano e che il re aveva comandato fusse condotto in Francia. Ma quantunque, o per queste cagioni o per altre, avesse questa disposizione, il non vedere i fondamenti potenti, come arebbe desiderato, a resistere lo faceva procedere cautamente e dissimulare quanto poteva il concetto suo, udendo sempre cupidamente le dimande e le instanze che gli erano fatte contro al re.

                                            Perché i svizzeri, inclinatissimi a muoversi per difendere il ducato di Milano, offerivano muoversi con numero molto maggiore purché gli fusse porta quantità mediocre di danari; la quale, per la impotenza degli altri, non si poteva sperare se non dal pontefice. Ma del viceré erano incerti i consigli, varie e occulte le parole: perché ora offeriva al pontefice di opporsi a' franzesi, discendendo egli medesimamente apertamente nella causa, mandando a unirsi con lui le sue genti e pagando per tre mesi quantità non piccola di fanti; e perché piú facilmente si credesse, chiamati i suoi soldati del parmigiano e del reggiano, si era fermato con l'esercito in sul fiume della Trebbia, ed essendo ancora alcuni de' suoi soldati alla guardia di Tortona e di Alessandria, i quali mai non avea mossi; ora affermava avere ricevuto comandamento del suo re, nel tempo medesimo che gli significò l'avere fatta la tregua, di ridurre l'esercito nel reame di Napoli. Altrimenti parlava Ieronimo Vich oratore appresso al pontefice, confermandosi in questo con quello che prometteva il suo re: che pigliando il pontefice la difesa di Milano, egli, non avendo rispetto alla tregua fatta, romperebbe la guerra in Francia; il che diceva essergli lecito senza violare la fede data. Perciò molti credettono che quel re, temendo che per la tregua fatta niuno fusse per opporsi al re di Francia, avesse comandato al viceré che, in caso non vedesse gli altri concorrere caldamente alla difesa del ducato di Milano, che cercando di non provocare con ingiurie nuove il re di Francia, riducesse l'esercito a Napoli: per la qual cagione medesima dimostrava al re d'avere l'animo inclinato alla pace, offerendo di indurvi eziandio Cesare e il re di Inghilterra; e per renderlo manco acerbo seco, in caso recuperasse Milano, gli faceva promessa quasi certa che 'l suo esercito non se gli opporrebbe. Perciò il viceré, avendo in animo di partirsi, richiamò i soldati che sotto il marchese di Pescara erano in Alessandria e in Tortona, significando (come fu fama) nel tempo medesimo al Triulzio la sua deliberazione, acciò che il re di Francia ricevesse in grazia la partita. Ma non eseguí subito questo consiglio, perché i svizzeri, ardentissimi alla difesa del ducato di Milano, aveano per publico decreto mandati cinquemila fanti e davano speranza di mandarne numero molto maggiore; anzi dimostrando, il contrario, mandò Prospero Colonna a trattare co' svizzeri in qual luogo si avessino a unire insieme contro a' franzesi, o perché avesse ricevuto avviso a Cesare essere stata molestissima la tregua fatta, o dal suo re nuove commissioni che seguitasse la volontà del pontefice; il quale, combattendo in lui da una parte la piccola speranza dall'altra la propria inclinazione, perseverava ancora nelle medesime perplessità. E nondimeno, essendo i svizzeri venuti nel tortonese, ove Prospero aveva data intenzione che il viceré verrebbe a unirsi, interponendo varie scuse, gli ricercò che venissino a unirsi in sulla Trebbia: dalla quale domanda essi comprendendo la diversità della volontà dalle parole, risposono ferocemente non ricercare questo il viceré per andare a mostrare la fronte agli inimici ma per voltare con sicurtà maggiore le spalle, non importare niente a' svizzeri se aveva timore di combattere co' franzesi, quel medesimo stimare il suo andare il suo stare il suo fuggirsi; essi bastare soli a difendere il ducato di Milano contro a ciascuno.

                                            Ma già tumultuava tutto il paese: il conte di Musocco figliuolo di Giaiacopo era, non si opponendo alcuno, entrato in Asti e poi in Alessandria; i franzesi, partiti da Susa, si facevano innanzi; il duca di Milano, non essendo stato a tempo a entrare in Alessandria, si uní co' svizzeri appresso a Tortona; ove essendo stato significato loro apertamente dal viceré che aveva deliberato di partirsi, se ne andorono a Novara. I milanesi, alla fama della partita del viceré, mandorono imbasciadori a Novara a scusarsi con lui se, non avendo chi gli difendesse, per fuggire gli ultimi mali convenissino co' franzesi; il quale dimostrò di accettare benignamente la loro escusazione, anzi gli commendò che alla salute della patria comune pietosamente pensassino. In sulla quale occasione Sacramoro Visconte, deputato all'assedio del castello, rivoltatosi alla fortuna de' franzesi, vi messe dentro vettovaglie.

                                            Partí adunque il viceré dalla Trebbia con tutto l'esercito, nel quale erano mille dugento uomini d'arme e ottomila fanti, per ritornarsene nel reame, come disperate le cose di Lombardia, e però pensando solamente alla salvazione dell'esercito: ma il dí medesimo, mentre che camminava, ricevute tra Piacenza e Firenzuola lettere da Roma, voltate subitamente le insegne, tornò nel medesimo alloggiamento. La cagione fu che il pontefice, al quale erano state quasi ne' dí medesimi restituite Piacenza e Parma, deliberato di tentare se per mezzo de' svizzeri si potesse difendere il ducato di Milano, dette occultissimamente a Ieronimo Morone, imbasciadore del duca appresso a sé, quarantaduemila ducati per mandare a' svizzeri; ma sotto nome, se pure pervenisse a notizia di altri, che ventimila fussino per conto delle pensioni, ventiduemila per quello che i tre cantoni pretendevano dovere avere dallo antecessore, il quale aveva sempre ricusato di pagargli.

                                            Per la ritornata del viceré in sulla Trebbia e per la fama della venuta di nuovi svizzeri, i milanesi, pentitisi di essersi mossi troppo presto, davano speranza a Massimiliano Sforza di ritornare sotto il dominio suo, ogni volta che i svizzeri e l'esercito spagnuolo si unissino in sulla campagna. Le quali speranze per nutrire, il viceré, appresso al quale era Prospero Colonna, gittava il ponte in sul Po, promettendo continuamente di passare ma non lo mettendo a effetto; perché, pensando principalmente alla salute dell'esercito, deliberava procedere secondo i successi delle cose, parendogli molto pericoloso dovere avere alla fronte i franzesi, alle spalle l'esercito veneto; il quale, occupata già la città di Cremona e gittato il ponte alla Cava in sul Po, gli era vicino.

                                             

                                             

                                            Lib.11, cap.11

                                             

                                            Prime imprese dei veneziani, e dedizioni di città del ducato di Milano ai francesi. Fazioni vittoriose dei tedeschi nel veronese. Genova ridotta alla devozione del re di Francia.

                                             

                                            Era Bartolomeo d'Alviano andato da Susa, per lungo circuito, a Vinegia; dove, avendo ne' loro consigli, poi che della rotta di Ghiaradadda ebbe, senza contradizione, riferita la colpa nel conte di Pitigliano, parlato magnificamente della presente guerra, fu eletto dal senato per capitano generale, con le medesime condizioni con le quali aveva quel grado ottenuto il conte di Pitigliano e, per avventura, il dí medesimo (tanto spesso si ride la fortuna della ignoranza de' mortali) nel quale, quattro anni innanzi, era venuto in potestà degli inimici: onde subito andato all'esercito, che si raccoglieva a San Bonifazio nel veronese, essendo seco Teodoro da Triulzi come luogotenente del re di Francia, si accostò con grandissima celerità, il dí medesimo che l'esercito franzese si mosse da Susa, alle porte di Verona; nella quale città avevano congiurato alcuni per riceverlo dentro. Ma il dí seguente entrorno in Verona, per il fiume dell'Adice, cinquecento fanti tedeschi; ed essendo venuto a luce quel che dentro si trattava, l'Alviano, perduta la speranza di ottenerla, deliberò, contro all'autorità del proveditore veneto, di andare verso il fiume del Po, per impedire gli spagnuoli o, secondo i progressi delle cose, unirsi co' franzesi. Né significò questa deliberazione al senato se non poi che, per uno alloggiamento, si fu discostato da Verona: perché, con tutto che allegasse dependere interamente la somma del tutto da quel che succederebbe del ducato di Milano e, procedendo in quello avversamente a' franzesi le cose, vano essere e non durabile ciò che in altro luogo si tentasse o ottenesse, e però doversi quanto era possibile aiutare quivi la vittoria del re di Francia, nondimeno temeva, né vanamente, che il senato non contradicesse, non tanto per desiderio che prima s'attendesse alla recuperazione di Verona e di Brescia quanto perché alcuni degli altri condottieri dannavano il passare il fiume del Mincio, se prima de' progressi de' franzesi non s'aveva piú particolare notizia; dimostrando, se sopravenisse qualche sinistro, quanto sarebbe difficile il ritirarsi salvi, avendo a passare per il veronese e mantuano, paesi o sudditi o divoti a Cesare. Arrenderonsigli, impaurite da' suoi minacci, Valeggio e la terra di Peschiera: onde, spaventato, il castellano dette la rocca, ricevuta piccolissima quantità di danari per sé e per alcuni fanti tedeschi che vi erano dentro. Entrorno ne' dí medesimi in Brescia, in favore de viniziani, alcuni de' principali della montagna con molti paesani, e nondimeno l'Alviano, benché pregato dagli imbasciadori bresciani che lo trovorno a Gambera, e facendone instanza il proveditore viniziano, non volle consentire di andare a Brescia, per dimorarvi pure un dí solo a fine si recuperasse la fortezza, guardata in nome del viceré: tanto era l'ardore di proseguire senza alcuna intermissione la prima deliberazione. Con la quale celerità venuto alle porte di Cremona, e trovando che nel medesimo tempo vi entrava, pure in favore del re di Francia, Galeazzo Palavicino chiamato da alcuni cremonesi, non volendo comunicare ad altri la gloria d'averla ricuperata, roppe e messe in preda le genti sue; ed entrato dentro svaligiò Cesare Fieramosca, che con trecento cavalli e cinquecento fanti del duca di Milano vi era rimasto a guardia. Né accadeva perdere tempo per la recuperazione della fortezza, perché sempre era stata tenuta per il re di Francia, proveduta poco innanzi di vettovaglie da Renzo da Ceri; il quale nel ritornare a Crema, ove era preposto alla guardia, avendo scontrati a Serzana dugento cavalli d'Alessandro Sforza gli aveva rotti: donde fermatosi alla Cava in sul Po, col ponte ordinato per passare, non proibí che i suoi soldati non molestassino alcuna volta le terre del pontefice. Andò di poi a Pizichitone; avendo già, per la mutazione di Cremona, Sonzino, Lodi e l'altre terre circostanti alzate le bandiere de' franzesi. Ma prima, subito che recuperò Cremona, aveva mandato Renzo da Ceri a Brescia con una parte delle genti, per provedere allo stabilimento di quella città e alla ricuperazione della fortezza; e molto piú per raffrenare i successi prosperi de' tedeschi. Perché, quasi subito che egli si discostò da Verona, Roccandolf, capitano de' fanti tedeschi, e con lui Federigo Gonzaga da Bozzole, usciti di Verona con secento cavalli e duemila fanti, erano andati a San Bonifazio, ove l'Alviano aveva lasciati sotto Sigismondo Caballo e Giovanni Forte trecento cavalli leggieri e secento fanti; i quali, sparsi per il paese senza alcuna disciplina militare, sentita la venuta degli inimici, si erano fuggiti a Cologna; ove i tedeschi seguitandogli, entrati per forza nella terra, fattigli tutti prigioni, la saccheggiorno e abbruciorno: il medesimo feciono poi a Soavi, roppono il ponte fatto da' viniziani in sull'Adice, e arebbono con l'impeto medesimo occupata Vicenza se non vi fusse entrato dentro subitamente numero grandissimo di paesani. I quali progressi faceva di maggiore considerazione l'essersi divulgato che dal contado di Tiruolo venivano a Verona nuovi fanti.

                                            Nel qual tempo medesimo si accostò per mare a Genova l'armata del re di Francia, con nove galee sottili e altri legni; e per terra, col favore de' rivieraschi della loro parte e con altri soldati condotti co' danari del re, Antoniotto e Ieronimo fratelli degli Adorni, mossisi con grandissima occasione, per la discordia nata poco innanzi tra' Fieschi e il doge di Genova, con cui erano stati prima uniti contro agli Adorni: perché, o per quistione nata a caso o per sospetto sopravenuto, Ieronimo, figliuolo di Gianluigi dal Fiesco, uscendo del palagio publico, era stato ammazzato da Lodovico e da Fregosino fratelli del doge. Per la quale ingiuria, Ottobuono e Sinibaldo suoi fratelli, ritiratisi alle loro castella, e poco dipoi convenutisi col re di Francia e cospirando con gli Adorni, si accostorno da altra parte con quattromila fanti a Genova. Non era il doge potente a resistere per se stesso alla parte Gattesca e Adorna congiunte insieme, né per la celerità degli avversari poteva essere a tempo il soccorso che aveva chiesto al viceré; e inclinò del tutto le cose, che mille fanti de' suoi fermatisi in su' monti vicini, non potendo resistere al numero maggiore, furno rotti. Onde il doge, insieme con Fregosino, avendo a fatica avuto tempo di salvare la propria vita, fuggí per mare, lasciato Lodovico, l'altro fratello, alla custodia del Castelletto, e i vincitori entrorno in Genova: dove i fratelli de' Fieschi, traportati dall'impeto della vendetta, feciono ammazzare e dipoi, legato crudelmente alla coda di un cavallo, strascinare per tutta la città Zaccheria fratello del doge, rimasto prigione alla battaglia fatta in su' monti; il quale era insieme cogli altri intervenuto alla morte del fratello. Cosí ridotta Genova alla divozione del re di Francia, fu fatto in nome suo governatore Antoniotto Adorno; e l'armata franzese forní di gente e di vettovaglie la Lanterna, e di poi saccheggiata la Spezie si fermò a Portovenere.

                                             

                                            Lib.11, cap.12

                                             

                                            I francesi, dopo vari assalti alla città, si accampano a due miglia da Novara. Parole di Mottino agli svizzeri per esortarli ad assalire gli alloggiamenti nemici. Vittoria degli svizzeri e copiosi frutti di essa. Vicende della guerra dei veneziani.

                                             

                                            Non rimaneva piú niente al re di Francia, alla recuperazione intera degli stati perduti l'anno dinanzi, che Novara e Como; le quali due città sole si tenevano ancora in nome di Massimiliano Sforza in tutto il ducato di Milano. Ma era, con infamia grande di tutti gli altri, destinata la gloria di questa guerra non a' franzesi non a' fanti tedeschi non all'armi spagnuole, non alle viniziane, ma solamente a' svizzeri: contro a' quali l'esercito franzese, lasciato in Alessandria presidio sufficiente per sostenere le cose di là dal Po, si accostò a Novara; feroce per tanti successi, per la confusione degli inimici rinchiusi dentro alle mura, e per il timore già manifesto degli spagnuoli. Rappresentavasi, oltre a queste cose, alla memoria degli uomini quasi come una immagine e similitudine del passato: questa essere quella medesima Novara nella quale era stato fatto prigione Lodovico Sforza padre del duca presente; essere nel campo franzese quegli medesimi capitani... della Tramoglia e Gianiacopo da Triulzi, e appresso al figliuolo militare alcune delle medesime bandiere e de' medesimi capitani di quegli cantoni che allora il padre venduto aveano. Onde la Tramoglia avea superbamente scritto al re che nel medesimo luogo gli darebbe prigione il figliuolo, nel quale gli aveva dato prigione il padre. Batterno i franzesi impetuosamente con l'artiglierie le mura, ma in luogo donde lo scendere dentro era molto difficile e pericoloso, e dimostrando tanto di non gli temere i svizzeri che mai patirno si chiudesse la porta della città di verso il campo. Gittato in terra spazio sufficiente della muraglia, dettono quegli di fuora molto ferocemente la battaglia, dalla quale si difesono con grandissimo valore quegli di dentro; onde i franzesi, ritornati agli alloggiamenti, inteso che il dí medesimo erano entrati in Novara nuovi svizzeri, e avendo notizia aspettarsi Altosasso, capitano di fama grande, con numero molto maggiore, disperati di poterla piú spugnare, si discostorno il dí seguente due miglia di Novara, sperando oramai di ottenere la vittoria piú per i disordini e mancamento di danari agli inimici che per l'impeto dell'armi. Ma interroppe queste speranze la ferocia e ardentissimo spirito di Mottino uno de' capitani de' svizzeri; il quale, chiamata la moltitudine in sulla piazza di Novara, gli confortò con ferventissime parole che non aspettato il soccorso di Altosasso, il quale doveva venire il prossimo dí, andassino ad assaltare gli inimici a' loro alloggiamenti. Non patissino che la gloria della vittoria, la quale poteva essere propria, fusse comune, anzi diventasse tutta d'altri; imperocché, come le cose seguenti tirano a sé le precedenti, e l'augumento cuopre la parte augumentata, non a essi ma a quegli che sopravenivano si attribuirebbe tutta la laude.

                                            - Quanto la cosa disse Mottino - pare piú difficile e piú pericolosa tanto riuscirà piú facile e piú sicura, perché quanto piú sono gli accidenti improvisi e inaspettati tanto piú spaventano e mettono in terrore gli uomini. Niente meno aspettano i franzesi, al presente, che 'l nostro assalto: alloggiati pure oggi, non possono essere alloggiati se non disordinatamente e senza fortezza alcuna. Solevano gli eserciti franzesi non avere ardire di combattere se non aveano appresso i fanti nostri; hanno, da qualche anno in qua, avuto ardire di combattere senza noi ma non mai contro a noi: quanto spavento, quanto terrore, quando si vedranno furiosamente e improvisamente assaltati da coloro la virtú e ferocia de' quali soleva essere il cuore e la sicurtà loro! Non vi muovino i loro cavalli, le loro artiglierie; perché altra volta abbiamo esperimentato quanto essi medesimi confidino in queste cose contro a noi. Gastone di Fois, tanto feroce capitano, con tante lancie con tanti cannoni, non ci dette egli sempre alla pianura la via quando, senza cavalli senza altre armi che le picche, scendemmo, due anni sono, insino alle porte di Milano? Hanno seco ora i fanti tedeschi, e questo è quello che mi muove, che mi accende: avendo in un tempo medesimo occasione di dimostrare a colui che, con tanta avarizia con tanta ingratitudine, dispregiò le nostre fatiche il nostro sangue, che mai fece, né per sé né per il regno suo, peggiore deliberazione; e dimostrare a coloro che pensorno l'opera loro essere sufficiente a privarci del nostro pane, non essere pari i lanzchenech a' svizzeri, avere la medesima lingua la medesima ordinanza, ma non già la medesima virtú la medesima ferocia. Una sola fatica è, di occupare l'artiglierie, ma l'alleggerirà non essere poste in luogo fortificato, l'assaltarle all'improviso, le tenebre della notte. Assaltandole impetuosamente, è piccolissimo spazio di tempo quello nel quale possono offenderti; e questo, interrotto dal tumulto dal disordine dalla subita confusione. L'altre cose sono somma facilità; non ardiranno i cavalli venire a urtare le nostre picche; molto meno, quella turba vile de' fanti franzesi e guasconi verranno a mescolarsi con noi. Apparirà in questa deliberazione non meno la prudenza nostra che la ferocia. È salita in tanta fama la nostra nazione che non si può piú conservare la gloria del nostro nome se non tentando qualche cosa fuora dell'espettazione e uso comune di tutti gli uomini; e poi che siamo intorno a Novara, il luogo ci ammunisce che non possiamo in altro modo spegnere l'antica infamia, pervenutaci quando con Lodovico Sforza militavamo alla medesima Novara. Andiamo adunque, con l'aiuto del sommo Dio, persecutore degli scismatici degli scomunicati degli inimici del suo nome. Andiamo a una vittoria, se saremo uomini, sicura e facile; della quale quanto pare che sia maggiore il pericolo tanto sarà il nome nostro piú glorioso e maggiore: quanto sono maggiore numero gli inimici che noi, tanto piú ci arricchiranno le spoglie loro. -

                                            Alle parole di Mottino gridò ferocemente tutta la moltitudine, approvando ciascuno col braccio disteso il detto suo; e dipoi egli, promettendo la vittoria certa, comandò che andassino a riposarsi e procurare le persone loro, per mettersi, quando col suono de' tamburi fussino chiamati, negli squadroni. Non fece mai la nazione de' svizzeri né la piú superba né la piú feroce deliberazione: pochi contra molti, senza cavalli e senza artiglierie contro a uno esercito potentissimo di queste cose, non indotti da alcuna necessità, perché Novara era liberata dal pericolo, e aspettavano il dí seguente non piccolo accrescimento di soldati, elessono spontaneamente di tentare piú tosto quella via nella quale la sicurtà fusse minore ma la speranza della gloria maggiore che quella nella quale dalla sicurtà maggiore risultasse gloria minore. Uscirno adunque con impeto grandissimo, dopo la mezza notte, di Novara, il sesto dí di giugno, in numero circa diecimila, distribuitisi con questo ordine: settemila per assaltare l'artiglierie, intorno alle quali alloggiavano i fanti tedeschi; il rimanente per fermarsi, con le picche alte, all'opposito delle genti d'arme. Non erano, per la brevità del tempo e perché non si temeva tanto presto di uno accidente tale, stati fortificati gli alloggiamenti de' franzesi; e al primo tumulto, quando dalle scolte fu significata la venuta degli inimici, il caso improviso e le tenebre della notte dimostravano maggiore confusione e maggiore terrore. Nondimeno, e le genti d'arme sí raccolsono prestamente agli squadroni e i fanti tedeschi, i quali furno seguitati dagli altri fanti, si messono subitamente negli ordini loro. Già con grandissimo strepito percotevano l'artiglierie ne' svizzeri che venivano per assaltarle, facendo tra loro grandissima uccisione, la quale si comprendeva piú tosto per le grida e urla degli uomini che per beneficio degli occhi, l'uso de' quali impediva ancora la notte; e nondimeno con fierezza maravigliosa, non curando la morte presente né spaventati per il caso di quegli che cadevano loro allato, né dissolvendo l'ordinanza, camminavano con passo prestissimo contro all'artiglierie: alle quali pervenuti, si urtorno insieme ferocissimamente, essi e i fanti tedeschi, combattendo con grandissima rabbia l'uno contro all'altro, e molto piú per l'odio che per la cupidità della gloria. Aresti veduto (già incominciava il sole ad apparire) piegare ora questi ora quegli, parere spesso superiori quegli che prima parevano inferiori, di una medesima parte in un tempo medesimo alcuni piegarsi alcuni farsi innanzi, altri difficilmente resistere altri impetuosamente insultare agli inimici: piena da ogni parte ogni cosa di morti, di ferite, di sangue. I capitani fare ora fortissimamente l'ufficio di soldati, percotendo gli inimici difendendo se medesimi e i suoi, ora fare valorosissimamente l'ufficio di capitani, confortando, provedendo, soccorrendo, ordinando, comandando. Da altra parte, quiete e ozio grandissimo dove stavano armati gli uomini d'arme; perché, cedendo al timore ne' soldati l'autorità i conforti i comandamenti i prieghi l'esclamazioni le minaccie del la Tramoglia e del Triulzio, non ebbono mai ardire di investire gli inimici che aveano innanzi a loro, e a' svizzeri bastava tenergli fermi perché non soccorressino i fanti loro. Finalmente, in tanta ferocia in tanto valore delle parti che combattevano, prevalse la virtú de' svizzeri; i quali, occupate vittoriosamente l'artiglierie e voltatele contro agli inimici, con esse e col valore loro gli messono in fuga. Con la fuga de' fanti fu congiunta la fuga delle genti d'arme, delle quali non apparí virtú o laude alcuna. Solo Ruberto della Marcia, sospinto dall'ardore paterno, entrò con uno squadrone di cavalli ne' svizzeri per salvare Floranges e Denesio suoi figliuoli, capitani di fanti tedeschi, che oppressi da molte ferite giacevano in terra; e combattendo con tale ferocia che non che altro pareva cosa maravigliosa a' svizzeri, gli condusse vivi fuori di tanto pericolo. Durò la battaglia circa due ore, con danno gravissimo delle parti. De' svizzeri morirno circa mille cinquecento, tra quali Mottino, autore di cosí glorioso consiglio; percosso, mentre ferocemente combatteva, nella gola da una picca. Degli inimici, numero molto maggiore: dicono alcuni diecimila; ma de' tedeschi fu morta la maggiore parte nel combattere: de' fanti franzesi e guasconi fu morta la maggiore parte nel fuggire. Salvossi quasi tutta la cavalleria, non gli potendo perseguitare i svizzeri, i quali se avessino avuti cavalli gli arebbono facilmente dissipati: con tanto terrore si ritiravano. Rimasono in preda a' vincitori tutti i carriaggi, ventidue pezzi d'artiglieria grossa e tutti i cavalli diputati per uso loro. Ritornorno i vincitori quasi trionfanti, il dí medesimo, in Novara; e con tanta fama per tutto il mondo che molti aveano ardire, considerato la magnanimità del proposito, il dispregio evidentissimo della morte, la fierezza del combattere e la felicità del successo, preporre questo fatto quasi a tutte le cose memorabili che si leggono de' romani e de' greci. Fuggirono i franzesi nel Piemonte; donde, gridando invano il Triulzio, passorno subitamente di là da' monti.

                                            Ottenuta la vittoria, Milano e l'altre terre che si erano aderite a' franzesi mandorno a dimandare perdono, il quale fu conceduto, ma obligandosi a pagare quantità grande di danari; i milanesi dugentomila ducati, gli altri secondo le loro possibilità; e tutti si pagavano a' svizzeri, a' quali della vittoria acquistata colla virtú e col sangue loro si doveva giustamente non meno l'utilità che la gloria. I quali, per ricôrre tutto il frutto che si poteva, entrorono poi nel marchesato di Monferrato e nel Piamonte, incolpati d'avere ricettato l'esercito franzese; dove, parte predando parte componendo i miseri popoli, ma astenendosi da violare la vita e l'onore, feciono grandissimi guadagni. Né furno del tutto gli spagnuoli privati de' premi della vittoria: perché essendo ricorsi al viceré, dopo il fatto d'arme, Ianus prossimamente cacciato di Genova e Ottaviano Fregosi, de' quali ciascuno ambiva di essere doge, il viceré, preposto Ottaviano, per il quale s'affaticava sommamente, per l'antica amicizia, il pontefice, e ricevuta da lui promessa di pagare, come fusse entrato in Genova, [cinquanta] mila ducati, gli concedette tremila fanti sotto il marchese di Pescara; esso col resto dell'esercito andò a Chiesteggio, dimostrando, se fusse necessario, di passare piú innanzi; ma come il marchese e Ottaviano si appropinquorno a Genova, i fratelli Adorni conoscendosi impotenti a resistere se ne partirono: e Ottaviano, entrato dentro, fu creato doge di quella città. La quale nell'anno medesimo vedde preposti al suo governo i franzesi, Ianus Fregoso, gli Adorni e Ottaviano.

                                            Ma Bartolomeo d'Alviano, come ebbe sentita la rotta dell'esercito del re di Francia, temendo di non essere subito seguitato dagli spagnuoli, si ritirò senza dilazione a Pontevico; lasciati, per non perdere tempo, per la strada alcuni pezzi di artiglieria che si conducevano piú tardamente. Da Pontevico, lasciato Renzo da Ceri in Crema e abbandonata Brescia, perché era inutile diminuire l'esercito, nel quale erano rimasti secento uomini d'arme mille cavalli leggieri e cinquemila fanti, procedendo colla medesima celerità, e con tanto timore e disfavore del paese che qualunque piccola gente gli avesse seguitati si sarebbono rotti da loro medesimi, si condusse alla Tomba presso all'Adice, non si essendo mai riposato in luogo alcuno se non quanto lo costrigneva la necessità del ricreare gli uomini e i cavalli. Fermossi alla Tomba, essendo cessata la paura perché niuno lo seguitava, dove dette opera di fare condurre a Padova e a Trevigi quanta piú quantità potette di biade del veronese; e nel tempo medesimo mandò Giampaolo Baglione, con sessanta uomini d'arme e mille dugento fanti, a Lignago. Il quale, ricevuto subito dagli uomini della terra ove non era presidio alcuno, dette la battaglia alla rocca guardata da cento cinquanta fanti tra spagnuoli e tedeschi, battutala prima con l'artiglierie, da quella parte che è volta in verso la piazza. Nel quale assalto non so che potesse piú, o la virtú o la fortuna: perché mentre si combatteva, cominciata per sorte ad ardere la munizione per alcuni instrumenti di fuochi artificiati gittati da quegli di fuora, abbruciò una parte della rocca; nel qual tumulto entrati dentro, parte per il muro rotto parte con le scale, i fanti che davano la battaglia, preso il capitano spagnuolo, ammazzorno o feciono prigioni tutti quegli che vi erano dentro. Preso Lignago, gittò l'Alviano il ponte in sull'Adice; e dipoi, essendogli stata data da alcuni veronesi speranza di tumultuare contro a' tedeschi, andò ad alloggiare alla villa di San Giovanni distante quattro miglia da Verona; donde accostatosi la mattina seguente alla porta che si dice di San Massimo, piantò con grandissimo furore l'artiglierie alla torre della porta e al muro congiunto a quella, attendendo se in questo tempo nascesse dentro qualche tumulto. Rovinate circa quaranta braccia di muraglia oltre alla torre, la quale cadde di maniera che fece uno argine fortissimo alla porta, dette molto ferocemente la battaglia. Ma in Verona erano trecento cavalli e tremila fanti tedeschi sotto Roccandolf, capitano di molto nome, i quali valorosamente si difendevano; dalla rottura del muro al discendere in terra era non piccolo spazio di altezza; né per i veronesi si faceva, secondo le speranze date, movimento: onde l'Alviano, vedendo la difficoltà dell'espugnarla, ritirò i fanti suoi dalle mura, e già aveva cominciato a discostare l'artiglierie. Ma mutata in un momento sentenza (credettesi per imbasciata ricevuta da quegli di dentro), fatti ritornare i fanti alla muraglia, rinnovò con maggiore ferocia che prima l'assalto. Ma erano le medesime che prima le difficoltà dell'ottenerla, la medesima tiepidezza in coloro che l'aveano chiamato; in modo che disperata del tutto la vittoria, ammazzati nel combattere piú di dugento uomini de' suoi, tra' quali Tommaso Fabbro da Ravenna conestabile di fanti, levate con maravigliosa prestezza dalle mura l'artiglierie, ritornò il dí medesimo allo alloggiamento dal quale la mattina si era partito: non lodata in questo dí né per il consiglio né per l'evento, ma celebrata sommamente per tutta Italia, la sua celerità, che in un giorno solo avesse fatto quel che con fatica gli altri capitani in tre o quattro giorni sogliono fare. Dette poi il guasto al contado, tentando se con questo timore poteva costrignere i Veronesi ad accordarsi. Ma già veniva innanzi lo esercito spagnuolo: perché il viceré, intesa che ebbe la perdita di Lignago, né ritardato piú, per il prospero successo, dalle cose di Genova, dubitando che, o per timore del guasto o per la mala disposizione de' cittadini, Verona non aprisse le porte a' viniziani, deliberò soccorrere senza dilazione le cose di Cesare. Però passato alla Stradella il fiume del Po, e arrendutesegli senza difficoltà le città di Bergamo e di Brescia e similmente la terra di Peschiera, si pose a campo alla rocca guardata da dugento cinquanta fanti; la quale, con tutto che secondo l'opinione comune si fusse potuta difendere ancora qualche dí, venne per forza in sua potestà, rimanendo prigione il proveditore viniziano e i fanti che non furno ammazzati nel combattere. Ritirossi l'Alviano, per l'approssimarsi degli spagnuoli, ad Alberé di là dallo Adice; richiamati, per riempiere il piú poteva l'esercito, non solamente alcuni fanti che erano nel Polesine di Rovigo ma quegli ancora che aveva lasciati in Lignago. E poco dipoi, essendosi i fanti tedeschi uniti a San Martino col viceré, e andando, recuperato Lignago, a Montagnana, i viniziani, a' quali in quelle parti non rimaneva piú altro che Padova e Trevigi, intenti a niuna altra cosa che alla conservazione di quelle città, ordinorno che l'esercito si distribuisse in quelle: in Trevigi dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e dumila fanti sotto Giampaolo Baglione, appresso al quale erano Malatesta da Sogliano e il cavaliere della Volpe; in Padova l'Alviano col rimanente dell'esercito. Il quale, attendendo a fortificare, i bastioni fatti ristaurando e a molte opere imperfette perfezione dando, faceva, oltre a questo, acciò che gli inimici non potessino accostarvisi se non con gravissimo pericolo e difficoltà, e con moltitudine grandissima di guastatori, spianare tutte le case e tagliare tutti gli alberi, per tre miglia dintorno a Padova.

                                                  

                                            Lib.11, cap.13

                                             

                                            Atto di sottomissione dei cardinali scismatici. Aiuti del pontefice a Cesare. Apprensioni dei veneziani e loro pronte decisioni.

                                             

                                            Ma mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma, il pontefice si affaticava con somma industria per stirpare la divisione della Chiesa introdotta dal concilio pisano; la qual cosa dependendo totalmente dalla volontà del re di Francia, si ingegnava con molte arti di placare l'animo suo, affermando essere falsa la fama divulgata dello essere stati mandati da lui danari a' svizzeri, e dimostrando non avere altro desiderio che della pace universale e di essere padre comune di tutti i príncipi cristiani. Dolergli sopra modo che la dissensione sua colla Chiesa privasse lui della facoltà di dimostrargli quanto naturalmente fusse inclinato alla amicizia sua, perché per l'onore della sedia apostolica e della persona sua propria era necessitato a procedere separatamente con lui, insino a tanto che, essendo ritornato alla ubbidienza della Chiesa romana, gli fusse lecito riceverlo come re cristianissimo e abbracciarlo come figliuolo primogenito della Chiesa. Desiderava il re, per gli interessi propri, la unione del suo regno colla Chiesa, dimandata instantemente da tutti i popoli e da tutta la corte, e alla quale era molto stimolato dalla reina; e conosceva, oltre a questo, non potere mai sperare congiunzione col pontefice nelle cose temporali se prima non si componevano le differenze spirituali. Però, o prestando fede o fingendo di prestarne alle sue parole, gli mandò imbasciadore per trattare queste cose il vescovo di Marsilia: alla venuta del quale il pontefice fece, per decreto del concilio, restituire la facoltà di purgare la contumacia, per tutto novembre prossimo, a' vescovi franzesi e altri prelati contro a' quali, come scismatici, l'antecessore aveva rigidissimamente proceduto per via di monitorio; e la mattina medesima nella quale cosí si determinò fu letta nel concilio una scrittura, sottoscritta di mano di Bernardino Carvagial e di Federico da San Severino, nella quale, non si nominando cardinali, approvavano tutte le cose fatte nel concilio lateranense, promettevano di aderire a quello e di ubbidire il pontefice, onde in conseguenza confessavano essere stata legittima la privazione loro dal cardinalato; la quale, fatta da Giulio, era stata confermata, esso vivente, dal medesimo concilio. Erasi trattato prima di restituirgli, ma differito per la contradizione degli oratori di Cesare e del re d'Aragona, e de' cardinali sedunense ed eboracense, i quali detestavano come cosa indegna della maestà della sedia apostolica e di pessimo esempio, il concedere venia agli autori di tanto scandolo e di uno delitto tanto pernicioso e pieno di tanta abominazione; ricordando la costanza di Giulio ritenuta contro a loro, né per altro che per il bene publico, insino all'ultimo punto della vita. Ma il pontefice inclinava alla parte piú benigna, giudicando piú facile spegnere in tutto il nome del concilio pisano con la clemenza che col rigore, e per non esacerbare l'animo del re di Francia, il quale instantemente supplicava per loro; né lo riteneva odio particolare, non essendo stata la ingiuria fatta a lui, anzi, innanzi al pontificato, stati congiuntissimi i fratelli ed egli con Federico. Per le quali ragioni, seguitando il proprio giudicio, aveva fatto leggere innanzi a' padri del concilio la scrittura della loro umiliazione, e dipoi statuí il dí alla restituzione; la quale fu fatta con questo ordine: entrorno Bernardino e Federico in Roma occultamente di notte, senza abito e insegne di cardinali; e la mattina seguente, dovendo presentarsi innanzi al pontefice residente nel concistorio, accompagnato da tutti i cardinali, eccettuati il svizzero e l'inghilese che ricusorno di intervenirvi, passorno, prima vestiti da semplici sacerdoti colle berrette nere, per tutti i luoghi publici del palagio di Vaticano, nel quale la notte erano alloggiati; concorrendo moltitudine grandissima a vedergli, e affermando ciascuno dovere [essere], questo vilipendio cosí publico, acerbissimo tormento alla superbia smisurata di Bernardino e alla arroganza non minore di Federico. Ammessi nel concistorio, dimandorno genuflessi, con segni di grandissima umiltà, perdono al pontefice e a cardinali, approvando tutte le cose fatte da Giulio e nominatamente la loro privazione, e la elezione del nuovo pontefice come fatta canonicamente e dannando il conciliabolo pisano come scismatico e detestabile. Della quale loro confessione poiché fu estratta autentica scrittura e sottoscritta di loro mano, levati in piede, feciono riverenza e abbracciorono tutti i cardinali, i quali non si mosseno da sedere: e dopo questo, vestiti in abito di cardinali, furono ricevuti a sedere nello ordine medesimo nel quale sedevano innanzi alla loro privazione: ricuperata con questo atto solamente la degnità del cardinalato, ma non le chiese e l'altre entrate che solevano possedere, perché molto prima, come vacanti, erano in altri state trasferite.

                                            Sodisfece in questo atto, se non in tutto, almeno in parte, il pontefice al re di Francia; ma non gli sodisfaceva nell'altre azioni, perché sollecitamente procurava la concordia tra Cesare e i viniziani, come cosa per gli accidenti seguiti non difficile a ottenere: perché si credeva che Cesare, invitato dalle occasioni di là da' monti, inclinasse, per potere piú speditamente attendere alla recuperazione della Borgogna per il nipote, ad alleggerirsi di questo peso; e molto piú si sperava che lo desiderassino i viniziani, spaventati per la rotta de' franzesi e perché sapevano che il re di Francia, essendo imminenti molti pericoli al regno proprio, non poteva piú l'anno presente pensare alle cose d'Italia. Sentivano appropinquarsi l'esercito spagnuolo e doversi unire con quello le genti che erano in Verona, essi esausti di danari, deboli di soldati, specialmente di fanti, avere soli a resistere senza che apparisse scintilla alcuna di lume propinquo: e nondimeno rispondeva costantissimamente il senato, non volere accettare concordia alcuna senza la restituzione di Vicenza e di Verona. Ricercò in questo tempo Cesare il pontefice che gli concedesse dugento uomini d'arme contro a' viniziani; la quale dimanda, benché gli fusse molestissima, dubitando che il concedergli non fusse molesto al re di Francia, né gli parendo a proposito di Cesare o suo diventare sospetto a' viniziani per una causa di sí piccola importanza, nondimeno, perseverando Cesare ostinatamente, gli mandò il numero dimandato, sotto Troilo Savello, Achille Torello e Muzio Colonna; non volendo, col recusare, fare segno di non volere perseverare nella confederazione contratta col pontefice passato, e parendogli non essere ritenuto da obligo alcuno co' viniziani: i quali, oltre che l'esercito loro, quando l'Alviano era appresso a Cremona, aveva, poco amichevolmente, predato per il parmigiano e piacentino, non aveano mai eletti imbasciadori a prestargli secondo l'uso antico l'ubbidienza, se non da poi che i franzesi, vinti, erano ritornati di là da' monti. Spaventò questa deliberazione i viniziani, non tanto per l'importanza di tale sussidio quanto per timore che da questo principio il pontefice non procedesse piú oltre, riputandolo ancora per segno manifestissimo che mai piú avesse a separarsi dagli inimici; e nondimeno non variorno da' primi consigli, anzi, disposti mostrare quanto potevano il volto alla fortuna, commessono al proveditore di mare che era a Corfú che, raccolti quanti piú legni potesse, assaltasse i luoghi marittimi della Puglia: benché poco di poi, considerando meglio quel che importasse provocare tanto il re d'Aragona, per la potenza sua e perché aveva sempre dimostrato confortare Cesare alla concordia, rivocorno come piú animosa che prudente questa deliberazione.

                                                  

                                            Lib.11, cap.14

                                             

                                            Indecisioni dei tedeschi; fortunata impresa di Renzo da Ceri. Propositi degli Adorni e del duca di Milano di mutare il governo in Genova passata, dopo Novara, sotto l'influenza spagnuola. Fallita impresa di tedeschi e di spagnuoli contro Padova. Fazioni di guerra nei territori di Bergamo e di Crema. Azioni di tedeschi di spagnuoli e di soldati del pontefice contro Venezia.

                                             

                                            Soggiornava il viceré a Montagnana, non determinato ancora quello s'avesse a fare; perché erano alti i concetti de' tedeschi, difficili le imprese, che sole rimanevano a fare, o di Padova o di Trevigi, e le forze molto inferiori alle difficoltà, perché in tutto l'esercito non erano oltre a mille uomini d'arme non molti cavalli leggieri e diecimila fanti tra spagnuoli e tedeschi: la quale deliberazione avendosi finalmente a referire alla volontà del vescovo Gurgense, che fra pochi dí doveva essere all'esercito, s'aspettava la sua venuta. Nel qual tempo essendo in Bergamo un commissario spagnuolo che riscoteva la taglia di venticinquemila ducati, imposta a quella città quando si arrendé al viceré, Renzo da Ceri vi mandò da Crema una parte de' suoi soldati; i quali entrativi di notte con aiuto di alcuni della terra, preso il commissario con quella parte di danari che aveva riscossi, se ne ritornorno a Crema.

                                            Fecesi similmente, in questi medesimi dí, preparazione per turbare di nuovo le cose di Genova; essendo conformi a questo le volontà del duca di Milano e de' svizzeri. A' quali ricorsi Antoniotto e Ieronimo Adorni, avevano ricordato al duca la dipendenza che i padri loro aveano avuta con Lodovico suo padre, che con le spalle degli Adorni aveva recuperato e tenuto molti anni quieto il dominio di Genova, del quale era stato fraudolentemente spogliato da' dogi Fregosi; e avere gli Adorni partecipato della mala fortuna degli Sforzeschi, perché nel tempo medesimo che Lodovico avea perduto il ducato di Milano erano stati gli Adorni cacciati di Genova, però essere conveniente che similmente partecipassino della buona: durare la medesima benivolenza, la medesima fede; né dovere essere imputati se, non uditi in luogo alcuno abbandonati d'ogni speranza, erano, non spontaneamente ma per necessità, ricorsi a quel re dal quale prima erano stati scacciati. Ricordassesi da altra parte dell'odio antico de' Fregosi, quante ingiurie e quanti inganni avessino fatti, al padre Batista, e il cardinale Fregosi, l'uno dopo l'altro dogi di Genova; e considerasse come potevano avere convenienza o confidarsi di Ottaviano Fregoso, il quale oltre all'antico odio ricusava d'avere superiore in quella città. A' svizzeri avevano proposti stimoli di utilità, di sicurtà, di onore: pagare, se per opera loro fussino restituiti alla patria, quantità di danari pari a quella che aveva pagata il Fregoso agli spagnuoli; essersi per la virtú loro conservato il ducato di Milano e a essi appartenerne il patrocinio, perciò dovere considerare quanto fusse contrario alla sicurtà di quello stato che Genova, città vicina e tanto importante, dominasse un doge dependente interamente dal re di Aragona; ed essere stato molto indegno del nome e della gloria loro l'avere permesso che Genova, frutto della vittoria di Novara, fusse ceduta in utilità degli spagnuoli, i quali, mentre che i svizzeri andavano con tanta ferocia a percuotere nelle palle fulminate dalle artiglierie de' franzesi, mentre che, per dire meglio, correvano incontro alla morte, sedevano oziosi in sulla Trebbia, aspettando come da una vedetta, secondo il successo delle cose, o di vituperosamente fuggire o di fraudolentemente rubare i premi della vittoria acquistata coll'altrui sangue. Da queste cagioni accesi, moveva già il duca le genti sue e i svizzeri quattromila fanti; ma le minaccie del viceré contro al duca e l'autorità del pontefice, a cui sommamente erano a cuore le cose di Ottaviano, gli fece desistere.

                                            Era in questo mezzo il viceré andato alla Battaglia, luogo distante da Padova sette miglia; dove Carvagial, cavalcando inavvertentemente con pochi cavalli a speculare il sito del paese, fu preso da Mercurio capitano de' cavalli leggieri de' viniziani. Al qual tempo, venuto il vescovo Gurgense all'esercito, si consultava quello si dovesse fare; e proponeva Gurgense l'andare a campo a Padova, dimostrando sperare tanto nella virtú de' tedeschi e degli spagnuoli contro agli italiani che avessino finalmente a superare tutte le difficoltà. Essere poco meno laboriosa l'espugnazione di Trevigi, ma diversissimo il premio della vittoria; perché l'ottenere solamente Trevigi era alla somma delle cose di piccolo momento, ma per la spugnazione di Padova assicurarsi interamente le terre suddite a Cesare dalle molestie e da' pericoli della guerra, e privarsi di ogni speranza i viniziani d'avere mai piú a ricuperare le cose perdute. In contrario sentivano il viceré e quasi tutti gli altri capitani, giudicando piú tosto impossibile che difficile lo sforzare Padova, per le fortificazioni quasi incredibili, munitissima d'artiglierie e di tutte le cose opportune alla difesa, e proveduta molto abbondantemente di soldati; e nella quale erano venuti, come l'altre volte aveano fatto, molti giovani della nobiltà viniziana. Dicevano la terra essere grandissima di circuito, e per questo, e per la moltitudine de' difensori e per l'altre difficoltà, bisognare circondarla e combatterla con due eserciti; e nondimeno, non che altro, non n'avere un solo sufficiente, non essendo grande il numero de' loro soldati e, di questi, i tedeschi, insoliti a sopportare malvolentieri la tardità de' pagamenti, non troppo pronti: non abbondare di munizioni, e avere carestia di guastatori, cosa molto necessaria a tanto ardua espugnazione. Ma fu finalmente necessario che le ragioni addotte dal viceré e dagli altri cedessino alla volontà del vescovo Gurgense. Per la quale, l'esercito accostandosi a Padova andò ad alloggiare a Bassanello, in sulla riva destra del canale, discosto un miglio e mezzo da Padova; nel qual luogo essendo molto infestato il campo da alcuni cannoni doppi piantati in su uno bastione della terra passato il canale, alloggiorno alquanto piú lontani dalla terra; donde mandati i fanti alla chiesa di Sant'Antonio, a mezzo miglio appresso a Padova, cominciorno, per accostarsi con minore pericolo, a lavorare le trincee appresso alla porta di Sant'Antonio. Ma l'opere erano grandissime, ed estremo in paese, donde tutti gli abitatori erano fuggiti, il mancamento de' guastatori: però il lavorare procedeva lentamente; né senza pericolo, perché i soldati, uscendo spesso fuora, e di dí e di notte, all'improviso, facevano danno a quegli che lavoravano. Aggiugnevasi la penuria della vettovaglia perché, essendo solo una piccola parte della terra circondata dagli inimici, gli stradiotti avendo comodità di uscire dall'altre parti della città, correndo liberamente per tutto il paese, impedivano tutto quello che si conduceva al campo; impedito anche da certe barche armate messe a questo effetto da' viniziani nel fiume dell'Adice, perché gli uomini portati da quelle non cessavano, ora in questo luogo ora in quell'altro, di infestare tutta la campagna. Per le quali difficoltà proposto di nuovo dal viceré lo stato delle cose nel consiglio, ciascuno apertamente giudicò essere minore infamia ricorreggere la deliberazione imprudentemente fatta col levare il campo che, perseverando nell'errore, essere cagione che ne risultasse maggiore danno accompagnato da vergogna maggiore. La quale opinione riferita dal viceré in presenza di molti capitani a Gurgense, che aveva recusato di intervenire nel consiglio, rispose che, per non essere sua professione la disciplina militare, non si vergognava di confessare di non avere giudicio nelle cose della guerra; e che se aveva consigliato l'andare a campo a Padova non era proceduto perché in questa deliberazione avesse creduto a se medesimo, ma avere creduto e seguitato l'autorità del viceré, il quale e per lettere e per messi propri n'aveva confortato piú volte Cesare, e datogli speranza grandissima d'ottenerla. Finalmente, non si rimovendo né per le querele né per le dispute le difficoltà, anzi crescendo a ogn'ora la disperazione dello spugnarla, si levò il campo, poi che diciotto dí era stato alle mura di Padova; ed essendo nel levarsi e poi nel camminare infestato continuamente da' cappelletti, si ritirò a Vicenza, vota allora d'abitatori e preda di chi era superiore alla campagna.

                                            Ottennono in questo mezzo le genti del duca di Milano, in sussidio delle quali il viceré avea mandato Antonio de Leva con mille fanti, Pontevico, a guardia della qual terra erano dugento fanti de' viniziani; i quali, non spaventati né dalle artiglierie né dalle mine e avendo sostenuto valorosamente l'assalto, furno alla fine di uno mese costretti ad arrendersi per mancamento di vettovaglie. E circa questo tempo medesimo Renzo da Ceri, uscito di Crema, roppe Silvio Savello; il quale, mandato dal duca di Milano, andava colla sua compagnia e quattrocento fanti spagnuoli a Bergamo: e poco dipoi, essendo ritornato a Bergamo un commissario spagnuolo a riscuotere danari, Renzo vi mandò trecento cavalli e cinquecento fanti; i quali presono insieme il commissario e la rocca, nella quale si era fuggito co' danari riscossi, essendovi dentro pochissimi difensori. Per la qual cosa si mossono da Milano, per ricuperare Bergamo, sessanta uomini d'arme trecento cavalli leggieri e settecento fanti con dumila uomini del monte di Brianza sotto Silvio Savello e Cesare Fieramosca; i quali avendo scontrati nel cammino cinquecento cavalli leggieri e trecento fanti mandati da Renzo a Bergamo, gli messono in fuga facilmente: per il che gli altri che prima aveano occupato Bergamo l'abbandonorno, lasciata solamente guardia nella rocca posta in sul monte fuora della città, la quale si dice la Cappella.

                                            Soggiornorno alquanti dí il viceré e Gurgense a Vicenza, mandata una parte degli spagnuoli sotto Prospero Colonna a saccheggiare Basciano e Morostico, non per alcuno delitto loro ma perché colle sostanze degli infelici popoli si andasse il piú che si poteva sostentando l'esercito, al quale mancavano i pagamenti; perché Cesare stava sempre oppresso dalle medesime difficoltà, il re d'Aragona solo non poteva sostenere tanto peso, e il ducato di Milano, gravato eccessivamente da' svizzeri, non poteva porgere ad altri cosa alcuna. A Vicenza stava l'esercito con grandissima incomodità, per le molestie continue de' cappelletti, i quali scorrendo dí e notte tutto il paese, impedivano il condurvi le vettovaglie se non accompagnate da grossa scorta; la quale, perché avevano pochissimi cavalli leggieri, era necessario facessino gli uomini d'arme. E però, per fuggire questo tormento, Gurgense se ne andò co' fanti tedeschi a Verona, male sodisfatto del viceré; il quale seguitandolo a minori giornate si fermò ad Alberé in su l'Adice, dove soprastette qualche giorno per dare comodità a' veronesi di fare la semente e la vendemmia: non cessando però le molestie de' cappelletti, i quali in su le porte di Verona tolseno a' tedeschi i buoi che conducevano l'artiglieria. Avea prima pensato il viceré di distribuire l'esercito alle stanze nel bresciano e nel bergamasco, e nel tempo medesimo molestare Crema, che sola tenevano i viniziani di là dal fiume del Mincio; e questo, divulgato, aveva assicurato i paesi circostanti in modo che il padovano era pieno d'abitatori e di robe: per la qual cosa, il viceré che non aveva altra facoltà di nutrire l'esercito che le prede, mutato consiglio e chiamati i fanti tedeschi, andò a Montagnana e a Esti; donde andato alla villa di Bovolenta e fatta grandissima preda di bestiami, abbruciorno i soldati quella villa e molti magnifici palazzi che erano all'intorno. Da Bovolenta, invitandogli la cupidità del predare, e dando loro animo l'essere i fanti de' viniziani distribuiti alla guardia di Padova e di Trevigi, deliberò il viceré, benché contradicendo Prospero Colonna come cosa temeraria e pericolosa, approssimarsi a Vinegia. Però, passato il fiume del Bacchiglione e saccheggiata Pieve di Sacco, popoloso e abbondante castello, e dipoi andati a Mestri e di quivi condotti a Marghera in sull'acque salse, tirorno, acciocché fusse piú chiara la memoria di questa spedizione, con dieci pezzi d'artiglieria grossa verso Vinegia; le palle dei quali pervennono insino al monasterio del tempio [di San] Secondo: e nel tempo medesimo predavano e guastavano tutto il paese, del quale erano fuggiti tutti gli abitatori; facendo iniquissimamente la guerra contro alle mura, perché, non contenti della preda grandissima degli animali e delle cose mobili, abbruciavano con somma crudeltà Mestri, Marghera e Leccia Fucina e tutte le terre e ville del paese, e oltre a quelle tutte le case che aveano piú di ordinaria bellezza o apparenza: nelle quali cose non appariva minore la empietà de' soldati del pontefice e degli altri italiani, anzi tanto maggiore quanto era piú dannabile a loro che a' barbari incrudelire contro alle magnificenze e ornamenti della patria comune.

                                                  

                                            Lib.11, cap.15

                                             

                                            Affrettata e difficile ritirata delle truppe tedesche nel Veneto. Inaspettata rotta dei veneziani sotto Vicenza.

                                             

                                            Ma in Vinegia, vedendo il dí fummare e la notte ardere tutto il paese, per gli incendi delle ville e palagi loro e sentendo dentro alle case e abitazioni proprie i tuoni dell'artiglierie degli inimici, non piantate per altro che per fare piú chiara la sua ignominia, erano concitati gli animi degli uomini a grandissima indegnazione e dolore; parendo a ciascuno acerbissimo oltre a misura che tanto fusse mutata la fortuna che, in cambio di tanta gloria e di tante vittorie ottenute per il passato, in Italia e fuori, per terra e per mare, vedessino al presente uno esercito, piccolo a comparazione dell'antiche forze e potenza loro, insultare sí ferocemente e contumeliosamente al nome di cosí gloriosa republica. Dalle quali indegnità violentata la deliberazione di quel senato, ostinato insino a quel giorno di fuggire, quantunque grandi speranze gli fussino proposte, il fare esperienza della fortuna, acconsentí alle persuasioni efficaci di Bartolomeo d'Alviano che, chiamati tutti i soldati e commossi tutti i villani della pianura e delle montagne, si tentasse di impedire il ritorno agli inimici; la qual cosa l'Alviano dimostrava molto facile, perché essendo temerariamente trascorsi tanto innanzi, e messisi in mezzo tra Vinegia, Trevigi e Padova, non potevano, e massime essendo caricati di tanta preda, ritirarsi senza gravissimo pericolo, per la incomodità delle vettovaglie e per l'impedimento de' fiumi e de' passi difficili. E già gli spagnuoli, sentito il movimento che si faceva, accelerando il camminare erano pervenuti a Cittadella, la quale non avendo potuto occupare perché vi erano entrati molti soldati, alloggiorno di sotto a Cittadella appresso alla Brenta, per passare alla villa Conticella, nel qual luogo si poteva guadare. Ma gli ritenne da tentare di passare l'opposizione dell'Alviano, il quale si era posto dall'altra parte con le genti ordinate negli squadroni e con l'artiglierie distese in su la riva del fiume, provedendo sollecitamente non solo a quel luogo ma a piú altri, donde, se non avessino avuto resistenza, sarebbe stato facile il passare. Ma il viceré, continuando nelle dimostrazioni di volere passare dalla parte di sotto, alla quale l'Alviano avea voltate tutte le forze sue, passò la notte seguente senza ostacolo al passo detto di Nuovacroce, tre miglia sopra a Cittadella, donde si indirizzorno con celerità grande verso Vicenza; ma l'Alviano, volendo opporsi al passo del fiume del Bacchiglione gli prevenne. Unironsi seco appresso a Vicenza dugento cinquanta uomini d'arme e dumila fanti venuti da Trevigi sotto Giampaolo Baglione e Andrea Gritti; ed era il consiglio de' capitani viniziani non combattere a bandiere spiegate in luogo aperto con gli inimici, i quali venivano verso Vicenza, ma guardando i passi forti e i luoghi opportuni impedire loro il camminare, a qualunque parte si volgessino. A questo effetto aveano mandato Giampaolo Manfrone, con quattromila comandati, a Montecchio; a Barberano per impedire la via de' monti, cinquecento cavalli con molti altri paesani; e fatto occupare da' villani tutti i passi che andavano nella Magna, fortificatigli con fosse con tagliate con sassi e con alberi attraversati per le strade. A guardia di Vicenza lasciò l'Alviano, con sufficiente presidio, Teodoro da Triulzi; egli col resto dell'esercito si fermò all'Olmo, luogo vicino a Vicenza a due miglia, in sulla strada che va a Verona: impedito talmente quel passo e un altro vicino, con tagliate e con fossi e con l'artiglierie distese a' luoghi opportuni, che era quasi impossibile il passarlo. Cosí, impedito il cammino destinato verso Verona, era similmente difficile agli spagnuoli che camminavano lungo i monti allargarsi per il paese paludoso e pieno d'acque, difficile pigliare la via del monte, stretta e occupata da molti armati; in modo che, circondati dagli inimici quasi da ogni parte, alla fronte alle spalle e per fianco, e seguitati continuamente da moltitudine grande di cavalli leggieri, non aveano deliberazione se non difficile e molto pericolosa. Alloggiorono, sopravenendo la notte, da poi che alquanto fu scaramucciato, vicini a un mezzo miglio allo alloggiamento de viniziani; ove, consultato la notte i capitani quel che, intra tante difficoltà e pericoli, dovessino fare, elessono per meno pericoloso volgere le insegne verso la Magna, per ritornarsene per la via di Trento a Verona; benché, per la lunghezza del cammino e per la piccola guardia v'aveano lasciata, presupponevano quasi per certo che prima vi entrerebbono i viniziani. Cosí si mossono, in sul fare del dí, verso Bassano, voltando le spalle agli inimici, di che niuna cosa è piú spaventosa e piú perniciosa agli eserciti, e, ancora che camminassino ordinatamente, con tanto piccola speranza di salute che stimavano il perdere tutti i carriaggi e i cavalli meno utili, essere il minore male che potesse loro succedere. Non s'accorse della levata loro, fatta tacitamente senza suono di trombe e di tamburi, cosí presto l'Alviano, perché la nebbia foltissima che era la mattina gli impediva la vista: ma come prima se ne fu accorto, gli seguitò con tutto l'esercito, nel quale si dicevano essere mille uomini d'arme mille stradiotti e semila fanti; infestandogli sempre da ogni parte gli stradiotti e numero infinito di villani, che scendendo dalle montagne gli percotevano con gli archibusi, onde col pericolo augumentava sempre la difficoltà del camminare, maggiore per la moltitudine de' carri e de' carriaggi e per la quantità grande della preda, e perché procedevano per istrade anguste e affossate, le quali non aveano avuta comodità di allargare colle spianate; ma gli conservava ordinati, benché camminassino con passo accelerato, oltre alla virtú de' soldati, la sollecita diligenza de' capitani: e nondimeno, essendo proceduti in tante angustie circa due miglia, pareva a essi stessi difficillimo il continuare molto cosí.

                                            Ma non fu paziente la temerità degli inimici ad aspettare che si maturasse sí bella occasione, condotta già quasi alla sua perfezione. L'Alviano, impotente come sempre a raffrenare se medesimo, assaltò, non tumultuosamente ma con l'esercito ordinato a combattere e con l'artiglierie, il retroguardo degli inimici, guidato da Prospero Colonna. Piú certa fama è che, tardando l'Alviano ad assaltargli,... Loredano uno de' proveditori, con ferventi parole lo morse: perché non dava dentro? perché lasciava andarne salvi gli inimici già rotti? dalle quali parole precipitato il ferocissimo capitano, dette furiosamente il segno della battaglia. Altri affermano essere stato autore del fatto d'arme Prospero Colonna, per consiglio del quale il viceré avere piú tosto [tentato] sperimentare la fortuna incerta del combattere che seguitare per altro modo la speranza piccolissima di salvarsi. E aggiungono che, avendo fatto segno di volere ritornare verso Vicenza, l'Alviano avea fatto fermare ne' borghi di Vicenza Giampaolo Baglione colle genti venute da Trevigi, esso col resto dell'esercito si era fermato a Creazia, due miglia appresso a Vicenza, ove è uno piccolo colle donde comodamente si potevano usare contro agli inimici l'artiglierie; a' piedi di quello una valle capace dell'esercito in ordinanza, alla quale si perveniva per una sola strada stretta appresso a' colli, e quasi circondata da paludi: il quale luogo Prospero conoscendo essere piú incomodo agli inimici, confortò che in quel luogo s'assaltassino. Comunque si sia, Prospero, cominciando virilmente a combattere, e mandato a chiamare il viceré che guidava la battaglia, e movendosi nel tempo medesimo, per comandamento del marchese di Pescara, i fanti spagnuoli da una parte e i tedeschi dall'altra, percossi con grandissimo impeto i soldati de' viniziani, gli messono in fuga quasi subitamente; perché i fanti non sostenendo la ferocia dello assalto, gittate le picche in terra, cominciorno vituperosamente subito a fuggire: essendo i primi esempio agli altri di tanta infamia i fanti romagnuoli, de' quali era colonnello Babone di Naldo da Bersighella. La medesima bruttezza seguitò il resto dell'esercito, niuno quasi combattendo o mostrando il volto agli avversari: smarrita non che altro, per la fuga cosí subita, la virtú dell'Alviano; il quale lasciò senza combattere la vittoria agli inimici, a' quali rimasono l'artiglierie e tutti i carriaggi. Dissiporonsi i fanti in diversi luoghi; degli uomini d'arme fuggí una parte alla montagna, una parte si salvò in Padova e in Trevigi, dove anche rifuggirono l'Alviano e il Gritti. Furno ammazzati Francesco Calzone, Antonio Pio capitano vecchio, insieme con Gostanzo suo figliuolo, Meleagro da Furlí e Luigi da Palma, e poco meno che morto Paolo da Santo Angelo, il quale si salvò pieno di ferite. Presi Giampaolo Baglione e Giulio figliuolo di Giampaolo Manfrone, Malatesta da Sogliano e molti altri capitani e uomini onorati; e con peggiore fortuna il proveditore Loredano, perché combattendosi tra due soldati di qual di loro dovesse essere prigione, uno di essi bestialmente l'ammazzò. Rimasono in tutto, fra morti e presi, circa quattrocento uomini d'arme e quattromila fanti, perché a molti fu impedito il fuggire dalla palude: e fece nella fuga, il danno maggiore che Teodoro da Triulzi, chiuse le porte di Vicenza, acciò che i vinti e i vincitori alla mescolata non vi entrassino, non vi ammesse alcuno; onde molti, mettendosi a passare, annegorno nel fiume vicino, e tra questi Ermes Bentivoglio e Sacramoro Visconte. Questa fu la rotta che ricevettono, il settimo dí d'ottobre, i viniziani appresso a Vicenza; memorabile per l'esempio che dette a' capitani che ne' fatti d'arme non confidassino de' fanti italiani non esperimentati alle battaglie stabili, e perché, quasi in uno istante di tempo, andò la vittoria a coloro che aveano piccolissima speranza di salute: la quale arebbe messo in pericolo o Trevigi o Padova, benché in questa l'Alviano in quello il Gritti si fussino rifuggiti con le reliquie dell'esercito; ma ripugnava, oltre alla fortezza delle terre, la stagione dell'anno già vicina alle pioggie, né potere i capitani disporre ad arbitrio loro i soldati, non pagati, a nuove imprese. E nondimeno i viniziani, afflitti da tanti mali e spaventati da accidente tanto contrario alle speranze loro, non mancavano di provedere quanto potevano a quelle città: nelle quali, oltre agli altri provedimenti, mandorno, come erano consueti ne' pericoli piú gravi, molti della gioventú nobile.

                                                  

                                            Lib.11, cap.16

                                             

                                            Il pontefice arbitro nel compromesso fra i veneziani e Cesare. Continuano le azioni di guerra fra i veneziani e le milizie di Cesare. Nuovi tentativi degli Adorni e dei Fieschi contro Genova; questioni fra fiorentini e lucchesi; resa dei castelli di Milano e di Cremona e tentativo dei genovesi contro la Lanterna tenuta dai francesi.

                                             

                                            Dall'armi, dopo la giornata, si ridussono le cose a' pensieri della concordia, trattata appresso al pontefice; al quale era andato il vescovo Gurgense, sotto nome principalmente di dargli l'ubbidienza in nome di Cesare e dell'arciduca; seguitandolo Francesco Sforza duca di Bari, per fare l'effetto medesimo in nome di Massimiliano Sforza suo fratello. E benché Gurgense rappresentasse come l'altre volte la persona di Cesare in Italia, nondimeno, pretermesso il fasto consueto, era entrato in Roma modestamente né voluto usare per il cammino le insegne del cardinalato, mandategli insino a Poggibonzi dal pontefice. Alla venuta del cardinale Gurgense fu fatto compromesso da lui e [da] gli oratori viniziani, di tutte le differenze tra Cesare e la loro republica, nel pontefice; ma compromesso piú tosto in nome e in dimostrazione che in effetto e in sostanza, perché niuno volle compromettere nell'arbitro sospetto, per l'importanza della cosa, se non ricevuta promessa da lui separatamente e secretamente di non lodare senza suo consentimento. Fatto il compromesso, sospese per uno breve l'offese tralle parti; il che, benché fusse accettato da tutti con lieta fronte, fu dal viceré male osservato, perché venuto tra Montagnana ed Esti, non avendo dopo la vittoria fatto altro che prede e correrie, e mandata una parte de' soldati nel Pulesine di Rovigo, faceva in tutti questi luoghi molti danni, ora scusandosi che erano territorio di Cesare ora dicendo aspettare avviso da Gurgense. Né ebbe il compromesso piú felice il fine che avesse avuto il mezzo e il principio, per le difficoltà che nel trattare le cose si scopersono; perché Cesare non consentiva alla concordia se non ritenendo parte delle terre e per l'altre ricevendo quantità grandissima di danari, e per contrario i viniziani dimandavano tutte le terre e offerivano piccola somma di danari. E si credeva che il re cattolico, benché palesemente dimostrasse di desiderare, come già aveva fatto, questa concordia, ora occultamente la dissuadesse; interpretandosi che, per difficultarla piú, avesse nel tempo medesimo lasciato Brescia in mano di Cesare: la quale il viceré, affermando ritenerla per renderlo piú inclinato alla pace, non gli aveva insino a quel dí voluto consentire. Le cagioni si congetturavano variamente, o perché avendo offeso tanto i viniziani giudicasse non potere avere piú con loro sincera amicizia o perché conoscesse la riputazione e grandezza sua in Italia dependere da mantenere vivo quell'esercito; il quale, per carestia di danari, non poteva nutrire se non opprimendo e taglieggiando i popoli amici, e correndo e predando per il paese degli inimici.

                                            Lasciò adunque imperfetta la cosa il pontefice; e poco dipoi i tedeschi occuporno furtivamente per mezzo di fuorusciti Marano, terra marittima nel Friuli, e poi presono Montefalcone: e benché i viniziani, desiderosi di recuperare Marano, propinquo a sessanta miglia a Vinegia, l'assaltassino per terra e per mare, nondimeno, essendo in ogni luogo simile la loro fortuna, furono da ciascuna delle parti danneggiati. Solamente, in questo tempo, Renzo da Ceri con somma laude sostentava alquanto il nome delle armi loro: il quale, con tutto che in Crema, dove era a guardia, fusse peste e carestia non leggiere, e che, essendo le genti spagnuole e milanesi distribuitesi, per la stagione del tempo, alle stanze per le terre circostanti, si potesse dire quasi assediata, assaltato all'improviso Calcinaia, terra del bergamasco, svaligiò Cesare Fieramosca con quaranta uomini d'arme e dugento cavalli leggieri della compagnia di Prospero Colonna; e pochi dí poi, entrato di notte in Quinzano, prese il luogotenente del conte di Santa Severina e vi svaligiò cinquanta uomini d'arme, e in Trevi dieci uomini d'arme di quegli di Prospero.

                                            L'altre cose di Italia procedevano in questo tempo medesimo quietamente: eccetto che gli Adorni e i Fieschi con tremila uomini del paese, e forse con favore occulto del duca di Milano, presa la Spezie e altri luoghi della riviera di levante, si accostorno alle mura di Genova; ma succedendo le cose infelicemente, si partirno quasi come rotti, perduta parte delle genti che v'aveano menate e alcuni pezzi di artiglierie. Apparirono anche in Toscana princípi di nuovi scandoli: perché i fiorentini cominciorno a molestare i lucchesi, confidandosi che per timore del pontefice ricomprerebbono la pace con la restituzione di Pietrasanta e di Mutrone, e allegando non essere conveniente godessino il beneficio di quella confederazione, la quale, prestando occultamente aiuto a' pisani, aveano violata. Della qual cosa querelandosi i lucchesi col pontefice e col re cattolico, in cui protezione erano, e non vedendo resultarne alcuno rimedio, furno contenti finalmente, per fuggire i maggiori mali, farne compromesso nel pontefice; il quale, avuta similmente autorità da' fiorentini, pronunziò che i lucchesi, i quali prima aveano restituita al duca di Ferrara la Garfagnana, lasciassino quelle terre a' fiorentini, e che tra loro fusse in perpetuo pace e confederazione.

                                            Alla fine di questo anno, le castella di Milano e di Cremona, avendo prima, perché cominciavano a mancare le vettovaglie, patteggiato di arrendersi se infra certo tempo non erano soccorse, vennono in potestà del duca di Milano; il quale in quello di Milano messe a guardia parte fanti italiani parte svizzeri. Né altro si teneva piú per il re di Francia in Italia che la Lanterna di Genova; la quale i genovesi tentorno, nella fine dell'anno medesimo, di gittare in terra colle mine, accostandosi a quella con uno puntone di legname lungo trenta braccia e largo venti, capace di trecento uomini, fasciato tutto, per resistere a' colpi delle artiglierie, di balle di lana: cosa di grande artificio e invenzione, ma che tentata, come fanno spesso simili macchine, non succedette.

                                             

                                            Lib.12, cap.1

                                             

                                            Azione e preparativi del re d'Inghilterra contro la Francia; preparativi di difesa del re di Francia. Spedizione del re d'Inghilterra. Presa di Terroana. Massimiliano Cesare presso l'esercito inglese.

                                             

                                            Succedetteno nell'anno medesimo nelle regioni oltramontane pericolosissime guerre, le quali saranno raccontate da me per la medesima cagione e con la medesima brevità con la quale le toccai nella narrazione dell'anno precedente. Origine di quei movimenti fu la deliberazione del re di Inghilterra d'assaltare, quella state, con grandissime forze per terra e per mare, il reame di Francia: della quale impresa per farsi piú facile la vittoria, avea convenuto con Cesare di dargli cento ventimila ducati, acciò che entrasse nel tempo medesimo nella Borgogna con tremila cavalli e ottomila fanti, parte svizzeri parte tedeschi; promesso ancora a' svizzeri certa quantità di danari perché facessino il medesimo, congiunti con Cesare, il quale consentiva ritenessino in pegno una parte della Borgogna insino a tanto fussino pagati interamente da lui degli stipendi loro. Persuadevasi oltre a questo il re di Inghilterra che il re cattolico suo suocero, aderendo alla confederazione di Cesare e sua, come sempre aveva asserito di volere fare, rompesse nel tempo medesimo la guerra da' suoi confini. Perciò la novella della tregua fatta da quel re col re di Francia, con tutto che l'ardore alla guerra non raffreddasse, fu ricevuta con tanta indegnazione, non solamente da lui ma da tutti i popoli di Inghilterra, che è manifesto che, se la autorità sua non avesse repugnato, sarebbe stato lo imbasciadore spagnuolo impetuosamente dalla moltitudine ammazzato. Aggiugnevasi a queste cose l'opportunità dello stato dell'arciduca, non tanto perché non proibiva che i sudditi ricevessino lo stipendio contro a' franzesi quanto perché prometteva di concedere che del dominio suo si conducessino vettovaglie all'esercito inghilese. Contro a tanti apparati e pericolosissime minaccie non ometteva il re di Francia provedimento alcuno: perché per mare preparava una potente armata per opporla a quella che si ordinava in Inghilterra, e per terra congregava esercito da ogni parte, sforzandosi sopratutto di condurre quanti piú poteva fanti tedeschi. Aveva anche fatto, prima, instanza co' svizzeri che poi che non volevano aiutarlo per le guerre di Italia, gli consentissino almeno fanti per la difesa di Francia: i quali, intenti totalmente alla stabilità del ducato di Milano, rispondevano non volergliene concedere se non tornava all'unità della Chiesa, lasciava il castello di Milano che ancora non era arrenduto, e, facendo cessione delle ragioni di quello stato, promettesse di non molestare piú né Milano né Genova. Aveva similmente il re per insospettire delle cose proprie il re di Inghilterra, chiamato in Francia il duca di Suffolch come competitore a quel regno; per il quale sdegno il re anglo fece decapitare il fratello, custodito insino allora in carcere in Inghilterra, poi che da Filippo re di Castiglia, nella navigazione sua in Spagna, era stato dato al suo padre. Né mancava al re di Francia speranza di pace col re cattolico: perché quel re, come ebbe inteso la lega fatta tra lui e i viniziani, diffidando potersi difendere il ducato di Milano, aveva mandato uno de' suoi secretari in Francia a proporre nuovi partiti; e si credeva che, considerando che la grandezza di Cesare e dello arciduca potessino alterargli il governo di Castiglia, non gli piacesse totalmente la depressione del regno di Francia. Suscitò oltre a questo Iacopo re di Scozia, suo antico collegato, perché rompesse guerra nel regno di Inghilterra; il quale, mosso molto piú dallo interesse proprio, perché le avversità di Francia erano pericolose al regno suo, si preparava con grande prontezza, non avendo dimandato dal re altro che cinquantamila franchi per comperare vettovaglie e munizioni. Nondimeno, a fare queste provisioni era il re di Francia proceduto con tardità; perché aveva volto i pensieri alla impresa di Milano, e per la negligenza solita, e per l'ardire che vanamente aveva preso per la tregua fatta col re cattolico.

                                            Consumoronsi per il re di Inghilterra, in questi apparati, molti mesi: perché essendo i sudditi suoi stati molti anni senza guerra, ed essendo molto variati i modi di guerreggiare, e inutili gli archi e l'armadure che usavano ne' tempi precedenti, era necessitato il re fare grandissima provisione di armi di artiglierie e di munizioni, condurre come soldati esperti molti fanti tedeschi, e per necessità molti cavalli, perché il costume antico degli inghilesi era di combattere a piede. Però, non prima che del mese di luglio passorono gli inghilesi il mare; e stati piú dí in campagna presso a Bologna, andorono a campo a Terroana, terra posta in su' confini di Piccardia, e in quegli popoli che da' latini sono chiamati morini. Passò poco dipoi la persona del re, che aveva in tutto il suo esercito cinquemila cavalli da combattere e piú di quarantamila fanti: con la quale moltitudine postosi intorno luogo piccolo, e circondato, secondo l'antico costume degli inghilesi, l'alloggiamento loro con fossi con carra e con ripari di legname, e munito intorno intorno d'artiglierie, e in modo pareva fussino in una terra murata, attendevano a battere con l'artiglierie la terra da piú parti e a travagliarla con le mine; ma non corrispondendo con la virtú a tanti apparati né alla fama della ferocia loro, non gli davano l'assalto. Erano in Terroana, bene munita di artiglierie, dugento cinquanta lancie e dumila fanti, presidio piccolo ma non senza speranza di soccorso, perché il re di Francia, attendendo a raccorre sollecitamente l'esercito destinato, di dumila cinquecento lancie diecimila fanti tedeschi, guidati dal duca di Ghelleri, e diecimila fanti del regno, era venuto ad Amiens per dare di luogo vicino favore agli assediati: i quali, non temendo di altro che del mancamento delle vettovaglie, perché di queste non era stata proveduta, eccetto che di pane, Terroana a bastanza, molestavano dí e notte con l'artiglierie l'esercito inimico; dalle quali fu ammazzato il gran ciamberlano regio, e levata una gamba a Talboth capitano di Calès. Premeva il re il pericolo di Terroana; ma per avere tardi e con la negligenza franzese cominciato a provedersi, e per la difficoltà di avere i fanti tedeschi, non aveva ancora messo insieme tutto l'esercito: determinato anche in qualunque caso di non venire a giornata con gli inimici, perché se fusse stato vinto sarebbe stato in manifestissimo pericolo tutto il reame di Francia, e perché sperava nella vernata, la quale in quegli paesi freddi era già quasi vicina. Ma come ebbe congregato l'esercito, restando egli ad Amiens, lo mandò a [Vere] propinquo a Terroana, sotto Longavilla altrimenti il marchese del Rotellino, principe del sangue reale e capo de' gentiluomini del re, e la Palissa; con commissione che, fuggendo qualunque occasione di fatto d'arme, attendessino a provedere le terre circostanti, insino ad allora per la medesima negligenza male provedute, e a mettere se potevano soccorso di gente e di vettovaglia in Terroana: cosa in sé difficile, ma diventata piú difficile per la piccola concordia de' capitani; de' quali ciascuno, l'uno per la nobiltà l'altro per la lunga esperienza della milizia, arrogava a sé la somma del governo. Nondimeno, dimandando quegli che erano in Terroana soccorso di genti vi si accostorono, da una parte piú rimossa dagli inghilesi, mille cinquecento lancie; e avendo l'artiglierie di dentro battuto in modo tremila inghilesi, posti a certi passi per impedirgli, che non potettono vietargli, né potendo proibirlo loro il resto dell'esercito per lo impedimento di certe traverse di ripari e di fosse fatte da quegli di dentro, il capitano Frontaglia, condottosi alla porta, messe in Terroana ottanta uomini d'arme senza cavalli, come essi avevano dimandato, e si ritirò salvo con tutto il resto delle genti: e arebbono nel medesimo modo messovi vettovaglie se ne avessino condotte seco. Dalla quale esperienza preso animo i capitani franzesi, si accostorono un altro dí con quantità grande di vettovaglie per mettervele per la via medesima; ma gl'inghilesi presentendolo, e avendo fatto nuova fortificazione da quella parte, non gli lasciorono accostare, e da altra parte mandorono i loro cavalli e quindicimila fanti tedeschi per tagliare loro il ritorno: i quali tornando senza sospetto, e già montati per piú comodità in su piccoli cavalli, come furono assaltati si messono subito in fuga senza resistere; nel qual disordine perderono i franzesi trecento uomini d'arme, co' quali fu preso il marchese del Rotellino, Baiardo, La Foietta e molti altri uomini nominati; ed era stato fatto anche prigione la Palissa ma fortuitamente si salvò. E si crede che se avessino saputo seguitare la vittoria si aprivano quel giorno la strada a pigliare il reame di Francia; perché indietro era restata una grossa banda di lanzchenech che aveva seguitato le genti d'arme, la quale disfatta, era di tanto danno all'esercito franzese che è certo che il re, quando ebbe la prima novella, credendo che questi medesimamente fussino rotti, disperato delle cose sue, e con lamenti e pianti miserabili, già pensava fuggirsene in Brettagna: ma gli inghilesi, come ebbono messo in fuga i cavalli, pensando all'acquisto di Terroana, condusseno le insegne e i prigioni innanzi alle mura. Però, disperati i soldati che erano in Terroana essere soccorsi, né volendo i fanti tedeschi patire senza speranza insino all'ultima estremità delle vettovaglie, convennono, salvi i cavalli e le persone de' soldati, di uscirsi, se fra due dí non erano soccorsi, di Terroana. Né si dubita che l'avere tollerato l'assedio circa cinquanta dí fusse cosa molto salutifera al re di Francia.

                                            Era, pochi dí innanzi, venuto personalmente nello esercito inghilese Massimiliano, riconoscendo quegli luoghi ne' quali, ora dissimile a se medesimo, aveva, giovanetto, rotto con tanta gloria l'esercito di Luigi undecimo re di Francia. Nel quale mentre stette si governava ad arbitrio suo.

                                             

                                                  

                                                 Lib.12, cap.2

                                                  

                                                 Invasione della Borgogna da parte degli svizzeri; accordi con la Tramoglia. Indecisione del re di Francia intorno all'opportunità della ratifica degli accordi.

                                                  

                                                 Ma non travagliavano le cose del re di Francia da questa parte sola, anzi erano con pericolo maggiore molestate da' svizzeri; la plebe de' quali infiammatissima che il re di Francia cedesse alle ragioni le quali pretendeva al ducato di Milano, e però ardente, insino non lo faceva, di odio incredibile contro a lui, aveva fatto abbruciare molte case d'uomini privati di Lucerna, sospetti di favorire immoderatamente le cose del re di Francia; e procedendo continuamente contro agli uomini notati di simile suspizione, aveva fatto giurare a tutti i principali di mettere le pensioni in comune; e dipoi prese l'armi, per publico decreto, erano in numero di ventimila fanti entrati quasi popolarmente nella Borgogna: ricevuta da Cesare, il quale, o secondo le sue variazioni o per sospetto che avesse di loro, recusò, benché l'avesse promesso e al re di Inghilterra e a loro, di andarvi personalmente, artiglieria e mille cavalli. Andorono a campo a Digiuno metropoli della Borgogna, dove era la Tramoglia con mille lancie e seimila fanti; e avendo la plebe, per paura delle fraudi de' capitani che già cominciavano a trattare co' franzesi, tolto l'artiglierie in mano cominciorno a percuotere la terra: della difesa della quale dubitando non poco la Tramoglia, ricorrendo agli ultimi rimedi, accordò subitamente con loro, senza aspettare commissione alcuna dal re, di pagare loro in piú tempi quattrocentomila ducati, lasciare le fortezze di Milano e di Cremona che ancora non erano arrendute, cedere a Massimiliano Sforza le ragioni del ducato di Milano e la contea di Asti; per l'osservanza delle quali cose dette quattro statichi, persone onorate e di piú che mediocre condizione; né i svizzeri si obligorno ad altro che di ritornarsi alle case proprie, onde non erano tenuti a essere in futuro amici del re di Francia, anzi potevano quando voleano ritornare a offendere il suo reame. Ricevuti gli statichi partirno subitamente, allegando, per scusazione d'avere convenuto senza il re di Inghilterra, non avere ricevuti al tempo debito i danari promessi da lui. Fu giudicato questa concordia avere salvato il reame di Francia, perché, preso che avessino Digiuno, era in potestà de' svizzeri correre senza alcuna resistenza insino alle porte di Parigi; ed era verisimile che il re di Inghilterra, passato il fiume della Somma, venisse nella Campagna per unirsi con loro, cosa che non poteva essere impedita da' franzesi, perché non avendo a quel tempo piú di seimila fanti tedeschi, né essendo ancora arrivato il duca di Ghelleri, erano necessitati a stare rinchiusi per le terre: e nondimeno al re fu molestissima, e si lamentò sommamente del la Tramoglia per la quantità de' danari promessi, e molto piú per l'averlo obligato alla cessione delle ragioni, come cosa di troppo pregiudicio e troppo indegna della grandezza e della gloria di quella corona. Però, ancora che il pericolo fusse gravissimo se i svizzeri sdegnati ritornassino di nuovo ad assaltarlo, nondimeno, confidandosi nella propinquità del verno e nel non essere facile che tanto presto si rimettessino insieme, deliberato ancora di correre piú presto gli ultimi pericoli che privarsi delle ragioni di quel ducato, il quale amava eccessivamente, deliberò di non ratificare, ma cominciò a fare proporre loro nuovi partiti; da' quali essi alienissimi minacciavano, se la ratificazione non venisse fra certo termine, tagliare il capo agli statichi.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.3

                                                  

                                                 Nuove vicende della guerra degli inglesi in Francia. Nuove preoccupazioni e pericoli del re di Francia. Conciliazione del re con il papa. Morte della regina di Francia.

                                                  

                                                 Presa Terroana, alla quale lo arciduca pretendeva per antiche ragioni, e il re di Inghilterra diceva essere sua per averla guadagnata con giusta guerra, parve a Cesare e a lui, per spegnere i semi della discordia, di gittare in terra le mura; non ostante che ne' capitoli fatti con quegli di Terroana fusse stato proibito loro. Partí poi Cesare immediate dallo esercito, affermando che gli inghilesi, per la esperienza veduta di loro, erano poco periti della guerra e temerari. Da Terroana andò il re di Inghilterra a campo a Tornai, città fortissima e molto ricca, e affezionatissima per antica inclinazione alla corona di Francia; ma circondata dal paese dello arciduca, e però impossibile a essere soccorsa da' franzesi mentre non erano superiori alla campagna. La quale deliberazione fu molto grata al re di Francia, perché temeva non andassino a percuotere nelle parti piú importanti del suo reame, cosa che lo metteva in molte difficoltà: perché, se bene avesse già congregato esercito potente, trovandosi oltre a cinquecento lancie che aveva messe a guardia di San Quintino, dumila lancie ottocento cavalli leggieri albanesi diecimila fanti tedeschi mille svizzeri ottomila fanti del regno suo, era molto piú potente l'esercito inghilese; nel quale, concorrendovi ogni dí nuovi soldati, era publica fama trovarsi ottantamila combattenti. Però il re, non sperando molto di potere difendere Bologna e il resto del paese posto di là dalla riviera di Somma, dove temeva che gli inghilesi non si volgessino, pensava alla difesa di Abbavilla e Amiens e [del]l'altre terre che sono in sulla Somma, e a resistere che non passassino quella riviera; e cosí andarsi temporeggiando, insino che la stagione fredda sopravenisse o che la diversione del re di Scozia, nella quale molto sperava, facesse qualche effetto: camminando in questo tempo l'esercito suo lungo la Somma, per non lasciare guadagnare il passo agli inimici. Credettesi che della deliberazione degli inghilesi, indegna certamente d'uomini militari e di sí grande esercito, fusse stata cagione o i conforti di Cesare, che sperasse che, pigliandosi, potesse o allora o con tempo pervenire in potestà del nipote, al quale si pretendeva che appartenesse, o perché temessino, andando ad altro luogo, della difficoltà delle vettovaglie, o che l'altre terre alle quali andassino non fussino soccorse dagli inimici. Fece la città di Tornai, non essendo provista di genti forestiere e disperandosi del soccorso, essendo battuta con le artiglierie da piú parti, breve difesa; e si arrendé, salve tutte le robe e persone loro, ma pagando, sotto nome di ricomperarsi dal sacco, centomila ducati. Né si mostrava altrove piú benigna la fortuna de' franzesi; perché il re di Scozia, venuto in sul fiume Tuedo alle mani con l'esercito inghilese, nel quale era in persona Caterina reina d'Inghilterra, fu vinto con grandissima uccisione; perché vi furono ammazzati piú di dodicimila scozzesi, insieme con lui e con uno suo figliuolo naturale, arcivescovo di [Santo Andrea], e molti altri prelati e nobili di quel regno.

                                                 Dopo le quali vittorie, essendo già alla fine del mese di ottobre, il re anglico, lasciata guardia grande in Tornai e licenziati i cavalli e fanti tedeschi, se ne ritornò in Inghilterra, non avendo della guerra fatta con tanti apparati e con spesa inestimabile riportato altro frutto che la città di Tornai, perché Terroana, sfasciata di mura, restava in potere del re di Francia. Mosselo a passare il mare perché, non si potendo piú in quelli freddissimi paesi esercitare la guerra, era inutile il dimorarvi con tanta spesa; e pensava oltre a questo a ordinare il governo del nuovo re di Scozia, pupillo e figliuolo di una sorella sua dove era anco andato il duca di Albania che era del sangue medesimo di quel re. Per la partita del quale il re, ritenuti in Francia i fanti tedeschi, licenziò tutto il resto dello esercito, liberato dalla cura de' pericoli presenti ma non già dal timore di non ritornare l'anno seguente in maggiore difficoltà. Perché il re di Inghilterra, partito di Francia con molte minaccie, affermava volervi ritornare la state prossima; anzi, per non differire piú tanto il muovere la guerra, cominciava già a fare nuove preparazioni. Sapeva essere in Cesare la medesima disposizione di offenderlo; e temeva che il re cattolico, il quale con vari sotterfugi aveva scusato la tregua fatta per non se gli alienare totalmente, non pigliasse l'armi insieme con loro. Anzi n'aveva potenti indizi, perché era stata intercetta una lettera nella quale quel re, scrivendo allo imbasciadore residente appresso a Cesare, dimostrando l'animo molto alieno dalle parole, con le quali sempre dimostrava ardente desiderio di muovere guerra contro agli infedeli e di passare personalmente alla recuperazione di Ierusalem, proponeva che comunemente si attendesse a fare pervenire il ducato di Milano in Ferdinando nipote comune, fratello minore dello arciduca; dimostrando che, fatto questo, il resto d'Italia era necessitato di ricevere le leggi da loro, e che a Cesare sarebbe facile, congiunti massime gli aiuti suoi, pervenire, come dopo la morte della moglie era stato sempre suo desiderio, al pontificato, il quale ottenuto rinunzierebbe allo arciduca la corona imperiale: conchiudendo però che cose sí grandi non si potevano condurre a perfezione se non col tempo e con le occasioni. Era anche manifesto al re di Francia l'animo de' svizzeri, a' quali offeriva grandissime condizioni, non placarsi in parte alcuna verso lui; anzi essersi nuovamente irritati perché gli statichi dati loro dal la Tramoglia, temendo per inosservanza del re di non essere decapitati, si erano occultamente fuggiti in Germania: donde meritamente aveva paura che, o di presente o almanco l'anno prossimo, per la occasione di tanti altri suoi travagli, non assaltassino o la Borgogna o il Dalfinato.

                                                 Queste difficoltà furono in qualche parte cagione di farlo consentire alla concordia delle cose spirituali col pontefice, della quale l'articolo principale era la estirpazione totale del concilio pisano; la quale, trattata molti mesi, aveva varie difficoltà e specialmente per le cose fatte o con l'autorità di quello concilio o contro alla autorità del pontefice, le quali approvare pareva indegnissimo della sedia apostolica, il ritrattarle non era dubbio che partorirebbe gravissima confusione: però erano stati deputati tre cardinali a pensare i modi di provedere a questo disordine; e faceva qualche difficoltà il non parere conveniente concedere al re l'assoluzione dalle censure se non la dimandasse, e da altro canto il re negava volerla dimandare per non notare per scismatici la persona sua e la corona di Francia. Finalmente il re, stracco da questa molestia e tormentato dalla volontà di tutti i popoli del suo regno, i quali ardentemente desideravano il riunirsi con la Chiesa romana, mosso ancora molto dalla instanza della reina, la quale sempre era stata alienissima da queste controversie, deliberò cedere alla volontà del pontefice; neanche senza qualche speranza che, levato via questa differenza, il pontefice avesse, secondo la intenzione che artificiosamente gli aveva data, a non si mostrare alieno dalle cose sue: benché alle querele antiche fusse aggiunta nuova querela, perché il pontefice aveva per uno breve comandato al re di Scozia che non molestasse il re d'Inghilterra. Però, nell'ottava sessione del concilio lateranense, che fu celebrato negli ultimi dí dell'anno, gli agenti del re di Francia, in nome suo e prodotto il suo mandato, rinunziorono al conciliabolo pisano e aderirono al concilio lateranense; con promissione che sei prelati di quegli che erano intervenuti al pisano andrebbeno a Roma a fare il medesimo in nome di tutta la Chiesa gallicana, e che anche verrebbeno altri prelati a disputare sopra la pragmatica, con intenzione di rimettersene alla dichiarazione del concilio: dal quale, nella medesima sessione, ottennono assoluzione pienissima di tutte le cose commesse contro alla Chiesa romana. Queste cose si feciono l'anno mille cinquecento tredici in Italia in Francia e in Inghilterra.

                                                 Nel principio dell'anno seguente, non avendo a fatica gustata la letizia della unione tanto desiderata della Chiesa, morí Anna reina di Francia, reina molto prestante e molto cattolica, con grandissimo dispiacere di tutto il regno e de' popoli suoi della Brettagna.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.4

                                                  

                                                 Consigli del pontefice agli svizzeri di maggior benevolenza verso il re di Francia, ed al re di attenersi agli accordi con loro conchiusi. Difficoltà di conciliazione fra gli svizzeri ed il re. Proroga della tregua fra il re di Francia ed il re d'Aragona.

                                                  

                                                 Ridotto che fu il reame di Francia alla obbedienza della Chiesa, e cosí spento già per tutto il nome e la autorità del concilio pisano, cominciavano alcuni di quegli che avevano temuta la grandezza del re di Francia a commuoversi, e a temere che troppo non si deprimesse la sua potenza; e specialmente il pontefice. Il quale, benché perseverasse nel medesimo desiderio che da lui non fusse recuperato il ducato di Milano, nondimeno, dubitando che il re, spaventato da tanti pericoli e avendo innanzi agli occhi le cose dell'anno passato, non si precipitasse, come continuamente con volontà di Cesare trattava il re cattolico, alla concordia con Cesare (per la quale, contraendo lo sposalizio della figliuola con uno de' nipoti di quei re, gli concedesse in dote il ducato di Milano), cominciò a persuadere i svizzeri che per il troppo odio contro al re di Francia non lo mettessino in necessità di fare deliberazione non manco nociva a loro che a lui; perché sapendo anche essi la mala disposizione che contro a loro avevano Cesare e il re cattolico, l'accordo col quale conseguissino lo stato di Milano non sarebbe manco pericoloso alla libertà e autorità loro che alla libertà della Chiesa e di tutta Italia: doversi persistere nel proposito che il re di Francia non recuperasse il ducato di Milano, ma avvertire ancora che (come spesso interviene nelle azioni umane) per fuggire troppo [uno] de' due estremi non incorressino nell'altro estremo, parimente, e forse piú, dannoso e pericoloso; né per assicurarsi, sopra il bisogno, che quello stato non ritornasse nel re di Francia, essere cagione di farlo cadere in mano d'altri, con tanto maggiore pericolo e pernicie di tutti quanto ci resterebbe manco chi potesse loro resistere che non era stato chi potesse resistere alla grandezza del re di Francia. Dovere la republica de' svizzeri, avendo esaltato insino al cielo il nome suo nell'arti della guerra con tanti egregi fatti e nobilissime vittorie, cercare di farlo non meno illustre con l'arti della pace; antivedendo dallo stato presente i pericoli futuri, rimediandogli con la prudenza e col consiglio, né lasciando precipitare le cose in luogo donde non potessino restituirsi se non con la ferocia e virtú delle armi: perché nella guerra, come a ogni ora testimoniava l'esperienza, molte volte accadeva che il valore degli uomini era soffocato dalla potestà troppo grande della fortuna. Essere migliore consiglio moderare in qualche parte l'accordo di Digiuno, offerendosi massime dal re maggiori pagamenti e promissione di fare tregua per tre anni con lo stato di Milano, pure che non fusse astretto alla cessione delle ragioni; la quale essendo di maggiore momento in dimostrazione che in effetto (perché, quando al re ritornasse l'opportunità di recuperarlo, l'avere ceduto non gli farebbe altro impedimento che volesse egli medesimo), non doversi per questa difficoltà ridurre le cose in tanto pericolo. Da altra parte con efficaci ragioni confortava il re di Francia a volere piú presto, per minore male, ratificare l'accordo fatto a Digiuno che tornare in pericolo di avere, la state prossima, tanti inimici nel suo regno. Essere ufficio di principe savio, per fuggire il male maggiore abbracciare per utile e per buona la elezione del male minore; né si dovere per liberarsi da uno pericolo e uno disordine incorrere in un altro piú importante e di piú infamia: perché, che onore gli sarebbe concedere agli inimici suoi naturali, e che lo avevano perseguitato con tante fraudi, il ducato di Milano con sí manifesta nota di viltà? che riposo che sicurtà, diminuita tanto la sua riputazione, avere accresciuto la potenza di quegli che non pensavano ad altro che ad annichilare il reame di Francia? da' quali conosceva egli medesimo che nessuna promessa nessuna fede nessuno giuramento poteva assicurarlo, come con gravissimo suo danno gli dimostrava l'esperienza del tempo passato. Essere cosa dura il cedere quelle ragioni, ma di minore pericolo e di minore infamia, perché una semplice scrittura non faceva piú potenti i suoi avversari; ed essendo stata fatta questa promessa senza consentimento suo dai suoi ministri, non si potere dire che da principio fusse stata sua deliberazione, ma essere piú scusato a eseguirla quasi come necessitato dalla promessa fatta e da qualche osservanza della fede; e sapersi pure per tutto il mondo da quanto pericolo avesse quello accordo liberato allora il reame di Francia. Lodare che con altri partiti cercasse di indurre i svizzeri alla sua intenzione; ed egli, desideroso che per sicurtà del regno suo seguitasse in qualunque modo la concordia tra lui e loro, non mancare di fare con ogni studio tutti gli offici perché i svizzeri si disponessino alla sua volontà; ma quando pure stessino pertinaci, esortare paternamente lui a piegarsi, e a obbedire a' tempi e alla necessità; e per tutti gli altri rispetti, e per non levare la scusa a lui di discostarsi dalla congiunzione degli inimici.

                                                 Conosceva il re essere vere queste ragioni, benché si lamentasse che il pontefice avesse mescolato tacitamente le minaccie con le persuasioni, e confessava essere necessitato a fare qualche deliberazione che gli diminuisse il numero degli inimici; ma aveva fisso nell'animo sottoporsi piú tosto a tutti i pericoli che cedere le ragioni del ducato di Milano; confortandolo a questo medesimo il suo consiglio e tutta la corte, a quali benché fusse molestissimo che il re facesse piú guerra in Italia, nondimeno, avendo rispetto alla degnità della corona di Francia, era molto piú molesto che e' fusse cosí ignominiosamente sforzato a cederle. Simile pertinacia era nelle diete de' svizzeri; a' quali benché il re offerisse di pagare di presente quattrocentomila ducati, e poi in vari tempi ottocentomila, e che il cardinale sedunense e molti de' principali, considerando il pericolo imminente se il re di Francia si congiugnesse con Cesare e col re cattolico, fussino inclinati ad accettare queste condizioni, nondimeno la moltitudine, inimicissima del nome franzese, e che superba per tante vittorie si confidava di difendere contro a tutti gli altri príncipi uniti insieme il ducato di Milano, e appresso alla quale era già molto diminuita l'autorità di Sedunense, e sospetti gli altri capi per le pensioni solevano ricevere dal re di Francia, insisteva ostinatissimamente nella ratificazione dell'accordo di Digiuno; anzi, concitata da grandissima temerità, trattava di entrare di nuovo in Borgogna: benché, opponendosi a questo Sedunense e gli altri capi, non con manifesta autorità ma con vari artifici e modi indiretti, traportavano di dieta in dieta questa deliberazione.

                                                 Però il re di Francia, non essendo né offeso né assicurato da loro, non cessava di continuare la pratica del parentado col re cattolico; nella quale, come altra volta, era la principale difficoltà se in potestà del padre o del suocero doveva stare [la sposa] insino al tempo abile alla consumazione del matrimonio, perché ritenendola il padre nessuna sicurtà dello effetto pareva avere a Cesare: e il re, insino che gli restava qualche speranza che la fama di questo maneggio, la quale egli studiosamente divulgava, potesse per lo interesse proprio mitigare in beneficio suo gli animi degli altri, nutriva volentieri le difficoltà che vi nascevano. Venne a lui Quintana, secretario del re cattolico, quello che per le medesime cagioni vi era stato l'anno dinanzi; e dipoi passato con suo consentimento a Cesare, ritornò di nuovo al re di Francia. Alla ritornata del quale, perché si potessino con maggiore comodità risolvere le difficoltà della pace, il re e Quintana in nome del re cattolico prorogorono per un altro anno la tregua fatta l'anno passato con le medesime condizioni; alle quali si aggiunse, molto secretamente, che durante la tregua non potesse il re di Francia molestare lo stato di Milano; nel quale articolo non si includeva né Genova né Asti. La quale condizione, tenuta occulta da lui, fu publicata e bandita solennemente dal re cattolico per tutta Spagna; incerti gli uomini quale fusse piú vera, o la negazione dell'uno o l'affermazione dell'altro. Fu nella medesima convenzione riservato tempo di tre mesi a Cesare e al re di Inghilterra d'entrarvi, i quali affermava il Chintana che vi entrerebbono amendue: il che, quanto al re di Inghilterra, si diceva vanamente; ma a Cesare aveva persuaso il re d'Aragona, resoluto sempre a non volere la guerra di verso Spagna, non si potere con migliore via ottenere il maritaggio che si trattava.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.5

                                                  

                                                 I veneziani e Massimiliano Cesare si rimettono di nuovo al pontefice per un compromesso. Nuove fazioni di guerra fra veneziani e tedeschi. Condizioni ed insuccesso del lodo del pontefice. Fortunata azione di Renzo da Ceri a Crema. Vicende di guerra nel Friuli.

                                                  

                                                 Accrebbe questa prorogazione il sospetto al pontefice che tra questi tre príncipi non fusse fatta o in procinto di farsi, in pernicie d'Italia, conclusione di cose maggiori. Ma non perciò partendosi dalle prime deliberazioni, che alla libertà comune fusse molto pernicioso che il ducato di Milano pervenisse in potere di Cesare e del re cattolico ma dannoso anche che e' fusse recuperato dal re di Francia, gli era molto difficile procedere, e bilanciare le cose in modo che i mezzi che giovavano all'una di queste intenzioni non nocessino a l'altra; conciossiaché l'uno de' pericoli nascesse dalla bassezza e dal timore, l'altro dalla grandezza e dalla sicurtà del re di Francia. Però, per liberare quel re dalla necessità di accordarsi con loro, continuava di confortare i svizzeri, a' quali era sospetta la tregua fatta, di comporsi con lui; e per difficultargli in qualunque evento il passare in Italia, si affaticava piú che mai per la concordia tra Cesare e il senato viniziano: il quale, giudicando che il fare tregua stabilisse le cose di Cesare nelle terre che gli restavano, si risolveva con animo costante o di fare pace o di continuare in sulle armi, non si removendo da questa generosità per accidente o infortunio alcuno. Perché, oltre a tanti danni e tanti infelici successi avuti nella guerra, e il disperare che per quello anno il re di Francia mandasse esercito in Italia, avendo ancora contraria o l'ira del cielo o i casi fortuiti che dependono dalla potestà della fortuna, era stato in Vinegia, nel principio dell'anno, uno grandissimo incendio; il quale, cominciato di notte dal ponte del Rialto e aiutato da' venti boreali, non potendo rimediarvi alcuna diligenza o fatica degli uomini, distesosi per lunghissimo spazio, aveva abbruciato la piú frequentata e la piú ricca parte di quella città. Per la interposizione del pontefice allo accordo, si fece di nuovo tra Cesare e loro compromesso in lui, non ristretto a tempo alcuno e con ampia e indeterminata potestà; ma nondimeno con secreta promessa sua, confermata con cedola di propria mano di non pronunziare se non con consentimento di ciascuno: il quale compromesso come fu fatto, comandò per breve suo all'una parte e all'altra che sospendessino l'armi. La quale sospensione fu dagli spagnuoli e tedeschi poco osservata: perché quella parte degli spagnuoli che erano alle stanze nel Pulesine e a Esti predorono tutto il paese circostante; e il viceré mandò gente a Vicenza, per trovarsi in possessione quando si desse il lodo.

                                                 Fece anche in questo tempo il Frangiapane in Friuli molti danni; e stando incauti i viniziani, i tedeschi per trattato tenuto da alcuni fuorusciti presono Marano, terra del Friuli vicina ad Aquileia e posta in sul mare: però i viniziani vi mandorono per terra Baldassarre di Scipione con certo numero di genti, e Ieronimo da Savorniano con molti paesani. I quali essendosi accampati, e strignendo anche con l'armata la terra per mare, vennono in soccorso di quella cinquecento cavalli tedeschi e dumila fanti; per la venuta de' quali, uscendo anche quegli di dentro ad assaltare le genti de' viniziani, gli roppono con non piccola uccisione e tolseno loro l'artiglieria; e fu anche, con alcuni legni, loro tolta una galea e molti altri legni: dopo la qual vittoria preseno per forza Monfalcone. Aggiunsesi alle genti di Marano, pochi dí poi, quattrocento cavalli e mille dugento lanzchenech che erano stati a Vicenza; i quali, congiunti con altri fanti e cavalli venuti nuovamente nel Friuli, correvano tutto il paese: però Malatesta da Sogliano, governatore di quella regione, con seicento cavalli e dugento fanti, e Ieronimo da Savorniano con dumila uomini del paese, che si erano ridotti a Udine, non vedendo potere resistere, passorono di là dal fiume di Liquenza, soccorrendo dove potevano. Ma essendosi divisi i tedeschi, una parte prese Feltro e correva per tutto il paese circostante; ma i viniziani, che avevano occupati tutti i passi, ne assaltorono una parte a Bassano, dove erano improvisti, ed essendo di numero minore gli messeno in fuga, ammazzati trecento fanti, di cinquecento che erano, e presi molti soldati e capitani. L'altra parte de' tedeschi era andata a campo a Osopio, situato in cima d'uno aspro monte; dove, poi che ebbeno battuta la rocca con l'artiglieria e dato piú assalti invano, si ridusseno a speranza di averla per assedio, confidatisi nello essere dentro carestia d'acqua: ma avendo a questa proveduto il beneficio celeste, perché in quegli dí furono spesse e grosse pioggie, ricominciorono di nuovo a dare la battaglia, [ma invano]; tanto che disperatisi e degli assalti e dell'assedio si levorono da campo.

                                                 Erano molestissime al pontefice queste cose, ma gli era molesto molto piú non trovare mezzo di concordia che sodisfacesse all'una parte e all'altra. Perché dalla spessa variazione delle cose, variandosi secondo i progressi di quelle le speranze, era proceduto che quando Cesare aveva consentito di lasciare Vicenza, ritenendosi Verona, i viniziani avevano recusato se non erano reintegrati di Verona; ora che i viniziani, sbattuti da tante percosse, si contentavano d'avere Vicenza sola, Cesare non contento di Verona voleva anche Vicenza. Dalle quali difficoltà stracco il pontefice, e presupponendo che la dichiarazione sua non sarebbe accettata, ma per mostrare che per lui non mancasse, pronunziò la pace tra loro, con questo: che subito da ogni parte si posassino le armi, riservandosi la facoltà di dichiarare infra uno anno le condizioni della pace, nella quale e nella sospensione delle armi fusse compreso il re cattolico: che Cesare deponesse Vicenza in sua mano e quanto egli e gli spagnuoli possedevano nel padovano e nel trevigiano, e i viniziani deponessino Crema; l'altre cose ciascuno insino alla dichiarazione possedesse secondo possedeva. Dovessesi ratificare il lodo infra uno mese da tutti, e ratificandosi pagassino i viniziani allora a Cesare venticinquemila ducati e fra tre mesi prossimi venticinquemila altri, e che non ratificandosi da tutti si intendesse il lodo essere nullo: il quale modo insolito di giudicare fu seguitato da lui per non dispiacere ad alcuna delle parti. E perché non vi era facoltà di chi ratificasse in nome del re cattolico, se bene l'oratore suo faceva fede del suo consenso, riservò tanto tempo a ratificare a ciascuno che potesse venire la facoltà: ma essendo risoluti a non ratificare i viniziani, perché arebbeno desiderato che in uno tempo medesimo si fussino pronunziate le condizioni della pace, restò vano il giudizio.

                                                 Procedevano in questo tempo prosperamente le cose loro nella difesa di Crema, vessata dentro dalla peste e dalla carestia e di fuora dallo assedio degli inimici: perché da una parte era venuto Prospero Colonna a Efenengo con dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti, e da altra parte, a Umbriano, Silvio Savello con la compagnia sua di cavalli e dumila fanti, distante l'uno luogo e l'altro due miglia da Crema: donde usciva spesso gente a scaramucciare con gli inimici. I quali mentre stanno incauti allo alloggiamento di Umbriano, Renzo da Ceri, uscito una notte con parte delle genti che erano dentro, assaltati gli alloggiamenti, gli messe in fuga, ammazzati di loro molti fanti: per il che Prospero si discostò con la sua gente: e pochi dí poi Renzo, avuta l'occasione di potere per la bassezza delle acque guadare il fiume dell'Adda, passato a Castiglione di Lodigiana, svaligiò cinquanta uomini d'arme che vi erano alloggiati; riportando tanta laude di queste sí prospere e industriose fazioni che per consenso universale fusse già numerato tra' principali capitani di tutta Italia.

                                                 Deliberorono dipoi i viniziani di recuperare il Friuli: però vi fu mandato l'Alviano, con dugento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e settecento fanti. Il quale camminando alla volta di Portonon, dove era parte de' tedeschi, i suoi cavalli leggieri che correvano innanzi, scontrato fuora della terra il capitano Rizzano tedesco con dugento uomini d'arme e trecento cavalli leggieri, venuti insieme alle mani, erano ributtati; ma sopravenendo l'Alviano col resto delle genti, si cominciò una aspra battaglia, l'effetto della quale stette dubbio insino che Rizzano, ferito nella faccia, fu preso da Malatesta da Sogliano. Rifuggissi la gente rotta in Portonon, ma dubitando non potersi difendere si fuggirono; e la terra, abbandonata, fu, con morte di molti uomini del paese, messa a sacco. Andò dipoi l'Alviano alla volta di Osopio, assediato dal Frangiapane e da un'altra parte di tedeschi; i quali inteso lo approssimare suo si levorno, ma, avendo alla coda i cavalli leggieri, perderono i carriaggi e l'artiglierie. Per i quali successi essendo ritornato a ubbidienza de viniziani quasi tutto il paese, l'Alviano, poi che ebbe tentato invano Gorizia, se ne ritornò a Padova con le genti; avendo, secondo scrisse egli a Roma, tra presi e morti dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti. Ma per la partita sua i tedeschi, ingrossati di nuovo, preseno Cromonio e Monfalcone e costrinseno i viniziani a levarsi da campo da Marano, dove in uno aguato era stato preso, pochi dí innanzi, e condotto a Vinegia il Frangiapane; ma sentendo la venuta del soccorso, si levorono quasi come rotti: e poco poi, messi in fuga i loro stradiotti, fu preso Giovanni Vitturio loro proveditore, con cento cavalli. E accadevano spesso in Friuli queste variazioni per la vicinità de' tedeschi, i quali non si servivano in quel paese se non di genti comandate; le quali, poi che avevano corso e predato o sentendo la venuta delle genti viniziane, con le quali si congiugnevano molti del paese, si ritiravano presto alle loro case, ritornandovi dipoi secondo l'occasione. Mandoronvi i viniziani gente di nuovo, per il che il viceré ordinò che Alarcone, uno de' capitani spagnuoli che erano alloggiati tra Esti, Montagnana e Cologna, andasse con dugento uomini d'arme cento cavalli leggieri e cinquecento fanti nel Friuli; ma, inteso per il cammino che nel paese era stata fatta tregua per fare la vendemmia, se ne tornò al primo alloggiamento.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.6

                                                  

                                                 Persistenza dell'avversione degli svizzeri al re di Francia e sospetti del re verso il pontefice. Sdegno del re d'Inghilterra contro il re d'Aragona per la convenzione conclusa col re di Francia. Pace fra il re d'Inghilterra e il re di Francia. Convenzione del pontefice con Massimiliano Cesare e col re d'Aragona; altra convenzione col re di Francia.

                                                  

                                                 Cosí procedendo le guerre di Italia lentamente, non si intermettevano le pratiche della pace e degli accordi. Perché il re, non privato al tutto di speranza che i svizzeri consentissino di ricevere ricompenso di danari in cambio della cessione delle ragioni, sollecitava appresso a loro questo effetto con molta instanza; dal quale era la moltitudine tanto aliena che, avendo, quando fuggirono gli statichi, costretto con minaccie il governatore di Ginevra a dare loro prigione il presidente di Granopoli, mandato dal re in quella città per trattare con loro, lo esaminavano con molti tormenti per intendere se alcuno della loro nazione ricevesse piú pensione o avesse intelligenza occulta col re di Francia: non bastando né umanità né giustificazione alcuna a reprimere la loro barbara crudeltà. Né era senza sospetto il re che anche il pontefice, che per la diversità de' fini suoi era costretto navigare con grandissima circospezione fra tanti scogli, non procurasse secretamente che i svizzeri non convenissino seco senza intervento suo, non per incitargli a rompere la guerra, che da questo continuamente gli sconfortava, ma perché o restassino fermi nello accordo di Digiuno, o per paura che con questo principio non si separassino da lui. Però minacciava di precipitarsi all'accordo con gli altri, per non volere restare piú solo alle percosse di tutto il mondo: stracco ancora dalle spese eccessive e dalle insolenze de' soldati; perché avendo condotti in Francia ventimila fanti tedeschi, né potuto avergli tutti se non quando il re d'Inghilterra era a campo a Tornai, aveva, per avergli a tempo se venisse nuovo bisogno, ritenutogli in Francia; i quali facevano infiniti danni per il paese. E si doleva il re che il papa non lo volesse in Italia, e che gli altri príncipi non lo volessino in Francia.

                                                 In queste difficoltà e in tanta perplessità delle cose, cominciò ad aprirgli la via alla sua sicurtà e alla speranza di ritornare nella pristina potenza e riputazione la indegnazione incredibile che ricevette il re di Inghilterra della tregua rinnovata dal suocero, contro a quello che molte volte gli aveva promesso, di non fare piú senza suo consentimento convenzione alcuna col re di Francia; della quale ingiuria lamentandosi publicamente, e affermando essere stato ingannato dal suocero tre volte, si alienava ogni dí piú da' pensieri di rinnovare la guerra contro a franzesi. La quale cosa pervenuta a notizia del pontefice, mosso o dal sospetto che il re di Francia, in caso fusse molestato da lui, non facesse la pace e il parentado (come continuamente minacciava) con gli altri due re, o perché, pensando che a ogni modo avesse a succedere la pace tra loro, desiderasse con lo interporsene acquistare qualche grado col re di Francia, di quello che non era in potestà sua di proibire, cominciò a confortare il cardinale eboracense che persuadesse al suo re che, contento della gloria guadagnata, e avendo in memoria che corrispondenza di fede avesse trovata in Cesare, nel re cattolico e ne' svizzeri, non travagliasse piú con l'armi il reame di Francia. Certo è che, essendo dimostrato al pontefice che come il re di Francia si fusse assicurato della guerra di Inghilterra moverebbe le armi contro al ducato di Milano, rispondeva: conoscere questo pericolo, ma aversi anche a considerare il pericolo che partorirebbe da ogni banda; ed essere, in materie sí gravi, troppo difficile il bilanciare le cose sí perfettamente e trovare consiglio che fusse totalmente netto da questi pericoli: restare in ogni evento allo stato di Milano la difesa de' svizzeri, ed essere necessario, in deliberazioni tanto incerte e tanto difficili, rimetterne una parte all'arbitrio del caso e della fortuna.

                                                 Come si sia, cominciò presto, o per l'autorità del pontefice o per inclinazione propria delle parti, a nascere pratica d'accordo tra il re di Francia e il re di Inghilterra; i ragionamenti della quale, cominciati dal pontefice con Eboracense, furono trasferiti presto in Inghilterra, dove per questa cagione fu mandato dal re di Francia il generale di Normandia, ma sotto colore di trattare della liberazione del marchese di Rotellino: allo arrivare del quale fu publicata sospensione delle armi, per terra solamente, tra l'uno e l'altro re, per tutto il tempo che il generale stesse nell'isola. Accrescevasi, per nuove ingiurie, la inclinazione del re di Inghilterra alla pace: perché Cesare, che gli aveva promesso di non ratificare senza lui la tregua fatta dal re cattolico, mandò a quel re lo instrumento della ratificazione; il quale, per una lettera sua al re di Francia, ratificò in nome di Cesare, ritenendosi lo instrumento per potere usare le simulazioni e arti sue. Cominciata la pratica tra i due re, il pontefice, desideroso di farsi grato a ciascuno di loro, mandò in poste al re di Francia il vescovo di Tricarico a offerire tutta l'autorità e opera sua; il quale passò con suo consentimento in Inghilterra per l'effetto medesimo. Dimostroronsi in questa cosa da principio molte difficoltà, perché il re di Inghilterra dimandava che gli fusse dato Bologna di Piccardia e quantità grande di danari: finalmente, riducendosi la differenza in su le cose di Tornai, perché il re d'Inghilterra instava di ritenerlo e dal canto del re di Francia se ne mostrava qualche difficoltà, mandò quel re il vescovo di Tricarico in poste al re di Francia; al quale, non essendo notificato in che particolare consistesse la difficoltà, fu data commissione che in suo nome lo confortasse che, per rispetto di tanto bene, non insistesse cosí sottilmente nelle cose: sopra che il re di Francia, non volendo avere carico co' popoli suoi, per essere Tornai terra nobile e di fede molto nota verso la corona di Francia, propose la cosa nel consiglio, nel quale intervenneno tutti i principali della corte. Fu unitamente confortato ad abbracciare, eziandio con questa condizione, la pace: nonostante che in questi tempi il re cattolico, cercando con ogni industria di interromperla, proponesse al re di Francia molti partiti, e specialmente di dargli favore allo acquisto dello stato di Milano. Però, come in Inghilterra fu arrivata la risposta che il re era contento delle cose di Tornai, fu, al principio di agosto, conchiusa la pace tra i due re, durante la vita loro e uno anno dopo la morte; con condizione che Tornai restasse al re d'Inghilterra, al quale il re di Francia pagasse secentomila scudi, distribuendo il pagamento in centomila franchi per anno; fussino tenuti alla difesa degli stati l'uno dell'altro, con diecimila fanti se la guerra fusse mossa per terra, con seimila solo se per mare; che il re di Francia fusse obligato a servire il re d'Inghilterra, in ogni suo affare, di mille dugento lancie, e quel re fusse tenuto a servire lui di diecimila fanti, ma in questo caso a spese di chi ne avesse di bisogno. Furono nominati dall'uno e l'altro di loro il re di Scozia, l'arciduca e lo imperio, ma non fu nominato né Cesare né il re cattolico; nominati i svizzeri, ma con patto che qualunque difendesse contro al re di Francia lo stato di Milano o Genova o Asti fusse escluso dalla nominazione. La quale pace, fatta con grandissima prontezza, fu corroborata con parentado; perché il re d'Inghilterra concesse la sorella sua per moglie al re di Francia, con condizione riconoscesse d'avere ricevuto per la sua dote quattrocentomila scudi. Celebrossi subito lo sposalizio in Inghilterra, al quale il re non volle, per l'odio grande che aveva al re cattolico, che l'oratore suo vi intervenisse. Né era appena conchiusa questa pace che alla corte di Francia arrivò lo instrumento della ratificazione fatta da Cesare della tregua, e il mandato suo e del re cattolico per la conclusione del parentado che si trattava tra Ferdinando d'Austria e la figliuola seconda del re, che era ancora in età di quattro anni: la quale pratica, per la conclusione della pace, fu in tutto esclusa; e il re ancora, per sodisfare al re di Inghilterra, volle partisse del regno di Francia il duca di Suffolch, che era capitano generale de' fanti tedeschi condotti da lui; e nondimeno, onorato e carezzato dal re, partí bene contento.

                                                 Nel quale tempo aveva anche il pontefice fatte nuove congiunzioni; perché, pieno di artifici e di simulazioni, voleva da uno canto che il re di Francia non recuperasse lo stato di Milano, da altro intrattenere lui e gli altri príncipi quanto poteva con varie arti. Però, per mezzo del cardinale San Severino, che nella corte di Roma trattava le cose del re di Francia, aveva proposto al re che, poi che i tempi non pativano che tra loro si facesse maggiore e piú palese congiunzione, che almanco si facesse uno principio e uno fondamento in sul quale si potesse sperare aversi a fare altra volta strettissima intelligenza; e aveva mandato la minuta de' capitoli: alla quale pratica il re di Francia, ancorché dimostrasse gli fusse grata, non avendo fatto risposta sí presto, ché tardò quindici dí a risolversi, o per altre occupazioni o perché aspettasse d'altro luogo qualche risposta per governarsi secondo i progressi delle cose, il pontefice fece nuova capitolazione con Cesare e col re cattolico per uno anno, nella quale non si conteneva però altro che la difesa degli stati comuni: avendo prima il re cattolico non vanamente sospettato che egli aspirasse al regno di Napoli per Giuliano suo fratello, sopra che aveva già avuto qualche pratica co' viniziani. Né l'aveva ancora quasi conchiusa che sopravenne la risposta del re di Francia, per la quale approvava tutto quello che aveva proposto il pontefice; aggiugnendovi solamente che, poi che egli si aveva a obligare alla protezione de' fiorentini, di Giuliano suo fratello e di Lorenzo de' Medici suo nipote, il quale il papa aveva preposto alla amministrazione delle cose di Firenze, voleva che anche essi reciprocamente si obligassino alla difesa sua: la quale ricevuta, il pontefice si scusò essersi ristretto con Cesare e col re cattolico, perché, vedendo differirsi tanto a rispondere a una dimanda tanto conveniente, non aveva potuto fare non entrasse in qualche dubitazione; e nondimeno averla fatta per breve tempo, né contenersi in quella cose pregiudiziali a lui né impedirgli la perfezione della pratica cominciata tra loro. Le quali giustificazioni accettate dal re, fermorono insieme la convenzione non per instrumento, per maggiore secreto, ma per cedola sottoscritta di mano di ciascuno di loro.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.7

                                                  

                                                 Pensieri dei príncipi e degli svizzeri intorno alla pace conchiusa dai re di Francia e di Inghilterra. Sollecitazioni del pontefice al re di Francia perché tenti l'impresa del ducato di Milano; resa della Lanterna di Genova. La politica del pontefice e nuove preoccupazioni del re di Francia.

                                                  

                                                 La pace tra il re di Francia e il re d'Inghilterra, fatta con maggiore facilità e prestezza che non era stata l'opinione universale, perché niuno credette mai che tanta inimicizia potesse cosí presto convertirsi in benivolenza e in parentado, non fu forse grata al pontefice che, come gli altri, si era persuaso doverne nascere piú presto tregua che pace o, se pure, pace che avesse a essere con condizioni piú gravi al re di Francia o almanco con obligazione che per qualche tempo non assaltasse lo stato di Milano: ma dispiacque sommamente a Cesare e al re cattolico. Il quale, come non è male alcuno nelle cose umane che non abbia congiunto seco qualche bene, affermava riceverne due sodisfazioni di animo: l'una, che l'arciduca suo nipote, escluso dalla speranza di dare la sorella per moglie al re di Francia e venuto in diffidenza col re d'Inghilterra, sarebbe costretto a procedere in tutte le cose col consiglio e autorità sua; l'altra, che potendo facilmente il re di Francia avere figliuoli era messa in dubbio la successione di Angolem, col quale egli, per essere Angolem desiderosissimo di rimettere il re di Navarra nel suo stato, riteneva grandissimo odio. Soli i svizzeri, benché ritenendo il medesimo odio che per il passato contro al re di Francia, affermavano essersi rallegrati di questa concordia; perché restando, come si credeva, espedito quel re a muovere la guerra contro al ducato di Milano, arebbeno nuova occasione di dimostrare a tutto il mondo la virtú e la fede loro. Né si dubitava per alcuno che il re di Francia, cessato quasi in tutto il timore di essere molestato di là da' monti, non avesse il consueto desiderio di recuperare il ducato di Milano; ma era incerto se avesse in animo di muovere l'armi subito o differire all'anno futuro, perché la facilità appariva presente ma non apparivano segni di preparazione.

                                                 Nella quale incertitudine, il pontefice, ancoraché gli fusse molestissimo che il re recuperasse quello stato, lo confortò, molto efficacemente, che col differire non corrompesse l'occasione presente; dimostrando le cose essere male preparate a resistere, perché l'esercito spagnuolo era diminuito e non pagato, i popoli dello stato di Milano poveri e ridotti in ultima disperazione, e non vi essere chi potesse dare danari per muovere i svizzeri: le quali persuasioni avevano maggiore autorità perché, non molto innanzi che si facesse la pace col re di Inghilterra, dimostrando d'avere desiderio ch'egli recuperasse Genova, gli aveva dato qualche speranza di indurre Ottaviano Fregoso a convenire seco. Non è dubbio che in questa cosa il pontefice non procedeva sinceramente, ma si crede lo movesse o perché vedendo le cose mal proviste e dubitando che il re di Francia non facesse eziandio senza suoi conforti questa espedizione, perché aveva le genti d'arme parate e molti fanti tedeschi, volesse con tale arte preoccupare la sua amicizia, o che, procedendo con maggiore astuzia, sapesse essere vero quello che Cesare e il re cattolico affermavano e il re di Francia negava: che gli fusse proibito muovere, durante la tregua, l'armi contro allo stato di Milano; e però, persuadendosi che il re negherebbe il fare la impresa, gli paresse fargli buono concetto della sua disposizione, e prepararsi scusa se da lui ne fusse ricercato ad altro tempo. E successe la cosa secondo il disegno suo: perché il re, deliberato, o per la cagione predetta o per avere difficoltà di denari o per la propinquità del verno, di non muovere l'armi insino alla primavera, e dimostrando confidare che anche a quello tempo non gli mancherebbe il favore del pontefice, rispondeva allegando varie escusazioni della dilazione, ma tacendo sempre quella, che forse era la principale, della tregua che ancora durava. Aveva nondimeno inclinazione a tentare le cose di Genova o almanco di soccorrere la Lanterna, la quale per ordine suo era stata nell'anno medesimo rinfrescata piú volte di qualche quantità di vettovaglie, da piccoli legni i quali, fingendo di volere entrare nel porto di Genova, vi si erano accostati furtivamente; ma l'estremità del vivere era tale che, non potendo quella fortezza aspettare il soccorso, furono costretti quegli di dentro ad arrendersi a' genovesi; i quali, con dispiacere maraviglioso del re, la disfeceno insino da' fondamenti. Rimosse la perdita della Lanterna il re in tutto da' pensieri di molestare per allora Genova, ma si voltò tutto alle preparazioni di assaltare il ducato di Milano l'anno futuro: e sperava insino a qui, per la intenzione buona che gli dava il pontefice, per la disposizione che aveva dimostrato nelle pratiche col re d'Inghilterra e con i svizzeri, e per lo averlo stimolato a fare la impresa, gli avesse a essere congiunto e favorevole; massime che a lui faceva offerte grandi, e particolarmente prometteva aiutarlo ad acquistare il regno di Napoli o per la Chiesa o per Giuliano suo fratello. Ma nuove cose che sopravennono cominciorono a metterlo in qualche diffidenza di lui.

                                                 Non aveva il pontefice mai voluto comporre le cose del duca di Ferrara, se bene, nel principio della sua promozione, gli avesse dato in Roma grandissima speranza e promesso la restituzione di Reggio al ritorno di Ungheria del cardinale suo fratello; al quale poiché fu ritornato, era andato differendo con varie scuse: confermategli però le medesime promesse non solo con le parole ma con uno breve, e consentendo che egli pigliasse l'entrate di Reggio come di cosa che presto avesse a ritornare sotto il loro dominio. Ma la intenzione sua era molto diversa, e inclinata a occupare Ferrara; stimolato da Alberto da Carpi oratore cesareo, inimico acerbissimo del duca, e da molti altri che gli proponevano ora l'esempio della gloria di Giulio, fatta eterna per avere tanto ampliato il dominio della Chiesa, ora l'occasione di dare uno stato onorevole a Giuliano suo fratello: il quale, avendosi proposto speranze poco moderate, aveva spontaneamente consentito che Lorenzo suo nipote ritenesse in Firenze l'autorità della casa de' Medici. Però entrato in questi pensieri, il pontefice ottenne facilmente da Cesare, bisognoso in ogni tempo di denari, che gli desse in pegno la città di Modena per quarantamila ducati, come poco innanzi alla morte di Giulio si era trattato con lui; disegnando unire quella città con Reggio, Parma e Piacenza e concederle in vicariato o in governo perpetuo a Giuliano, con aggiugnervi Ferrara se gli venisse mai l'occasione di ottenerla. Dette questa compra sospetto non mediocre al re di Francia, parendogli segno di congiunzione grande con Cesare ed essendogli molesto che gli desse denari; benché il pontefice si scusava, Cesare avergliene concessa per denari che prima aveva avuti: e accrebbe il sospetto che, per avere ottenuto il principe de' turchi una vittoria grande contro al Sophí re della Persia, il pontefice, come per cosa pericolosa a' cristiani scrisse lettere a tutti i príncipi, confortandogli a posare l'armi tra loro per attendere a resistere o ad assaltare gl'inimici della fede. Ma quello che quasi in tutto scoperse a lui l'animo suo fu che egli mandò, sotto il medesimo pretesto, Pietro Bembo suo secretario, che fu poi cardinale a Vinegia, per disporgli allo accordo con Cesare: nel quale essendo le medesime difficoltà che per il passato, non l'avevano voluto accettare; anzi manifestorono al re di Francia la cagione della sua venuta. Donde il re, dispiacendogli che in tempo tanto propinquo a muovere l'armi cercasse di privarlo degli aiuti de' suoi confederati, rinnovò le pratiche passate col re cattolico, o perché questo terrore movesse il pontefice avergliene concessa per denari che prima aveva avuti: e accrebbe il sospetto che, per avere ottenuto il principe de' turchi una vittoria grande contro al Sophí re della Persia, il pontefice, come per cosa pericolosa a' cristiani scrisse lettere a tutti i príncipi, confortandogli a posare l'armi tra loro per attendere a resistere o ad assaltare gl'inimici della fede. Ma quello che quasi in tutto scoperse a lui l'animo suo fu che egli mandò, sotto il medesimo pretesto, Pietro Bembo suo secretario, che fu poi cardinale a Vinegia, per disporgli allo accordo con Cesare: nel quale essendo le medesime difficoltà che per il passato, non l'avevano voluto accettare; anzi manifestorono al re di Francia la cagione della sua venuta. Donde il re, dispiacendogli che in tempo tanto propinquo a muovere l'armi cercasse di privarlo degli aiuti de' suoi confederati, rinnovò le pratiche passate col re cattolico, o perché questo terrore movesse il pontefice o, non lo movendo, per conchiuderle: tanto [era] sopra ogni cosa ardente alla recuperazione del ducato di Milano.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.8

                                                  

                                                 Attentato degli spagnuoli contro l'Alviano; nuove fazioni di guerra fra veneziani e spagnuoli nel Veneto. Nuove vicende della lotta a Crema e nel bergamasco. Attività dell'Alviano nel Veneto. Quiete nel Friuli. Tentativi dei Fieschi e degli Adorni in Genova. Dono del re del Portogallo al pontefice.

                                                  

                                                 Ma in questo medesimo non erano stati in Italia altri movimenti che contro a' viniziani. Contro a' quali anche si era tentato di procedere con occultissime insidie: perché, se è vero quello che riferiscono gli scrittori viniziani, alcuni fanti spagnuoli, entrati in Padova simulando di essere fuggiti del campo degli inimici, cercavano di ammazzare l'Alviano per commissione de' capitani loro; i quali speravano che accostandosi subito con l'esercito a Padova, disordinata per la morte di uno tale capitano, averla facilmente a pigliare. Tanto sono dissimili i modi della milizia presente dalla virtú degli antichi! i quali, non che subornassero i percussori, revelavano allo inimico se alcuna sceleratezza si trattava contro a lui, confidandosi di poterlo vincere con la virtú. La quale congiurazione venuta a luce, fu degli scelerati fanti preso dai magistrati il debito supplicio. Alloggiavano le genti spagnuole, diminuite non poco di numero, tra Montagnana, Cologna ed Esti; i quali per sforzare al ritirarsi nel reame di Napoli, i viniziani ordinavano una armata, della quale avevano fatto Andrea Gritti capitano generale: la quale, destinata ad assaltare la Puglia, fu per varie difficoltà alla fine disarmata e messa in silenzio. Vennono poi gli spagnuoli alle Torri appresso a Vicenza stimolati da i tedeschi che erano in Verona di andare insieme con loro a dare il guasto alle biade de' padovani; ma avendogli aspettati in quello alloggiamento invano piú dí, perché erano ridotti a piccolissimo numero e impotenti a adempiere le promesse sotto le quali gli avevano chiamati, lasciato il disegno del guasto e ottenuti da loro mille cinquecento fanti, andorono con settecento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e tremila cinquecento fanti spagnuoli a campo a Cittadella, nella quale terra erano trecento cavalli leggieri. Dove essendo arrivati a due ore di dí, avendo cavalcato espediti tutta la notte, batteronla subito con l'artiglieria; e il dí medesimo la preseno, con tutti quegli cavalli, per forza, al secondo assalto, e si ritornorono al primo alloggiamento propinquo a tre miglia a Vicenza: non si movendo l'Alviano, il quale, avendo avuto dal senato comandamento di non combattere, si era, con settecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e settemila fanti, fermato in alloggiamento forte in sul fiume della Brenta, dal quale co' cavalli leggieri travagliava continuamente gli inimici. Nondimeno poi, per maggiore sicurtà dello esercito, si ritirò a Barziglione quasi in sulle porte di Padova. Ma essendo tutto il paese consumato dalle scorrerie e dalle prede che si facevano dall'uno e dall'altro esercito, gli spagnuoli, mancando loro le vettovaglie, si ritirorono a' primi alloggiamenti da' quali si erano partiti, abbandonata la città di Vicenza e la rocca di Brendala distante da Vicenza sette miglia; né si nutrivano con altri sussidi o pagamenti che con le taglie mettevano a Verona, Brescia, Bergamo e gli altri luoghi circostanti. Ritirati gli spagnuoli, l'Alviano si pose con l'esercito tra la Battaglia e Padova in alloggiamento fortissimo: donde inteso essere in Esti poca e negligente guardia, vi mandò di notte quattrocento cavalli e mille fanti; dove entrati innanzi fussino sentiti e presi ottanta cavalli leggieri del capitano Corvera, il quale si salvò nella rocca, si ritirorono allo esercito. Ma avendo i viniziani mandate nuove genti all'esercito, l'Alviano, accostatosi a Montagnana, presentò la battaglia al viceré; il quale, perché era molto inferiore di forze recusando di combattere, si ritirò nel Polesine di Rovigo: donde l'Alviano, non avendo piú ostacolo alcuno di là dallo Adice, correva ogni dí insino in sulle porte di Verona; il che fu cagione che il viceré, mosso dal pericolo di quella città, lasciati nel Pulesine trecento uomini d'arme e mille fanti, vi entrò con tutto il resto dello esercito.

                                                 Molte maggiori difficoltà erano in Crema, quasi assediata dalle genti del duca di Milano alloggiate nelle terre e ville vicine, perché dentro era la carestia, la peste smisurata, stati i soldati piú mesi senza denari, mancamento di munizioni e di molte provisioni piú volte dimandate. Però Renzo, diffidando potersi piú sostenere, aveva quasi protestato a' viniziani; e nondimeno, mostrandosegli ancora benigna la medesima fortuna, assaltò Silvio Savello che aveva dugento uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, e giuntogli addosso allo improviso lo roppe subito, e Silvio con cinquanta uomini d'arme fuggí in Lodi. Rifornirono dipoi un'altra volta i viniziani Crema di vettovaglie, e il conte Niccolò Scoto vi messe mille cinquecento fanti; dal quale presidio essendo accresciuto le forze e l'animo di Renzo, entrò pochi dí poi nella città di Bergamo, chiamato dagli uomini della terra, e gli spagnuoli si fuggirono nella Cappella; e nel tempo medesimo Mercurio e Malatesta Baglione preseno trecento cavalli che erano alloggiati fuora: ma andando, pochi dí poi, Niccolò Scoto con cinquecento fanti italiani da Bergamo a Crema, incontrato da dugento svizzeri, fu rotto e fatto prigione, e condotto al duca di Milano che lo fece decapitare. La perdita di Bergamo destò il viceré e Prospero Colonna; i quali, con le genti spagnuole e del duca di Milano, andativi a campo con cinquemila fanti, piantorno l'artiglierie alla porta di Santa Caterina: con le quali avendo fatto progresso grande, Renzo che vi era dentro, vedendo non si potere difendere, lasciata la terra a discrezione, accordò di potersene uscire con tutti i soldati con le loro robe, ma senza suono di trombe e con le bandiere basse. Compose il viceré Bergamo in ottantamila ducati.

                                                 Ma opera molto celebrata e piena di grande industria e celerità, mentre che queste cose a Crema e a Bergamo succedevano, fece l'Alviano nella terra di Rovigo. Nella quale essendo alloggiati piú di dugento uomini d'arme spagnuoli, e riputando di esservi sicurissimi perché tra le genti viniziane e loro era in mezzo il fiume dello Adice, l'Alviano gittato il ponte all'improviso appresso alla terra della Anguillara, e passato con gente tutta espedita il fiume con prestezza incredibile e arrivato alla terra, la porta della quale era già stata occupata da cento fanti vestiti da villani, mandati innanzi da lui sotto l'occasione che quel dí medesimo vi si faceva il mercato, entrato dentro gli fece tutti prigioni: per il quale caso gli altri spagnuoli che erano alloggiati nel Pulesine, rifuggitisi alla Badia come luogo piú forte del paese, abbandonato poi tutto il Pulesine ed eziandio Lignago, si salvorono verso Ferrara. Preso Rovigo, andò l'Alviano con l'esercito a Oppiano presso a Lignago, avendovi anche condotto per il fiume l'armata delle barche, e di quivi a villa Cerea presso a Verona; luogo dal quale, se non gli succedesse il pigliare Verona, nella quale erano dumila fanti spagnuoli e mille tedeschi, disegnava di travagliarla tutta la vernata: ma avendo notizia che verso Lignago andavano trecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e seimila fanti degli inimici, temendo non gli impedissino le vettovaglie o lo strignessino a combattere, si levò e gli andò costeggiando, che andavano verso l'Adice; e lo passorno ad Albereto, con difficoltà grande di vettovaglie, per la molestia ricevevano da' cavalli leggieri e dalla armata delle barche. Nel quale luogo avendo inteso che l'esercito spagnuolo, ricuperato Bergamo, ritornava verso Verona, deliberato non l'aspettare, mandò le genti d'arme per terra a Padova; egli con la fanteria carriaggi e artiglierie, per fuggire le pioggie e i fanghi grandi, se ne andò di notte per il fiume dello Adice alla seconda, non senza timore di essere assaltato dagli inimici, i quali furno impediti dall'acque troppo alte: ma egli smontato in terra si condusse, con la consueta celerità, salvo a Padova, ove due dí innanzi erano entrati gli uomini d'arme; dipoi distribuí l'esercito tra Padova e Trevigi. E il viceré e Prospero Colonna, poste le genti alle stanze nel Polesine di Rovigo, andorno a Spruch, per consultare con Cesare delle cose occorrenti.

                                                 Stette questo anno medesimo piú quieto che 'l solito il paese del Friuli, essendo per la cattura del Frangiapane mancato quello instrumento il quale piú che tutti gli altri lo inquietava: e però i viniziani, conoscendo quello che importasse il ritenerlo, avevano recusato di permutarlo con Giampaolo Baglione; il quale, trattandosi prima di permutarlo con Carvagial, aveva avuto licenza dagli spagnuoli di andare a Roma, ma data la fede di ritornare prigione non si concordando la permutazione; la quale mentre che si tratta, succeduta la morte di Carvagial, Giampaolo, affermando per questo accidente rimanere libero, recusò di tornare piú in potestà di chi l'aveva fatto prigione.

                                                 E ne' medesimi dí, che fu circa la fine dell'anno, gli Adorni e i Fieschi, favoriti occultamente, secondo si credeva, dal duca di Milano, entrati di notte per trattato in Genova e venuti alla piazza del palazzo, furono scacciati da Ottaviano Fregoso; il quale co' fanti della sua guardia fattosi loro incontro fuora delle sbarre, combattendo sopra tutti gli altri valorosamente, gli messe in fuga, ricevuta una piccola ferita nella mano. Restorono prigioni Sinibaldo dal Fiesco Ieronimo Adorno e Gian Cammillo da Napoli.

                                                 Pare, oltre alle cose sopradette, degno di memoria che in questo anno medesimo Roma vidde gli elefanti, animale forse non mai piú veduto in Italia dopo i trionfi e i giuochi publici de' romani: perché mandando Emanuel re di Portogallo una onoratissima imbascieria a prestare la ubbidienza al pontefice, mandò insieme a presentargli molti doni, e tra questi due elefanti, portati a lui della India dalle sue navi; la entrata de' quali in Roma fu celebrata con grandissimo concorso.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.9

                                                  

                                                 Sollecitazioni del re di Francia al pontefice per averne l'adesione e l'appoggio; risposta del pontefice al re. Morte del re di Francia: considerazioni dell'autore.

                                                  

                                                 Ma in questi tempi medesimi, il re di Francia, intento con l'animo ad altro che a pompe e spettacoli, sollecitava tutte le altre provisioni della guerra: e desideroso di certificarsi dell'animo del pontefice, ma determinato, qualunque e' fusse, di proseguire la impresa destinata, lo ricercò che volesse dichiararsi in suo favore, riconfermando l'offerte prima fatte e affermando che, escluso dalla sua congiunzione, accetterebbe da Cesare e dal re cattolico le condizioni già recusate. Riducevagli in considerazione la potenza del regno suo, la confederazione e gli aiuti promessigli da' viniziani; essere allora piccole in Italia le forze di Cesare e del re d'Aragona, e l'uno e l'altro di questi re bisognosissimo di danari, e impotenti a pagare i soldati propri non che a fare muovere i svizzeri; i quali, non pagati, non scenderebbono de' monti loro: non desiderare altro tutti i popoli di Milano, poi che avevano provato il giogo acerbo degli altri, che di ritornare sotto lo imperio de' franzesi: né avere cagione il pontefice di provocarlo a usare contro a lui inimichevolmente la vittoria, perché la grandezza de' re di Francia in Italia e la sua propria essere stata in ogni tempo utile alla sedia apostolica, perché contenti sempre delle cose che di ragione se gli appartenevano, non avere mai, come avevano tante esperienze dimostrato, pensato a occupare il resto di Italia: diversa essere la intenzione di Cesare e del re cattolico, che mai avevano pensato se non, o con armi o con parentadi o con insidie, di occupare lo imperio di tutta Italia, e mettere in servitú, non meno che gli altri, la sedia apostolica e i pontefici romani, come sapeva tutto il mondo essere antichissimo desiderio di Cesare: però provedesse in uno tempo medesimo alla sicurtà della Chiesa alla libertà comune d'Italia e alla grandezza della famiglia sua de' Medici; occasione che mai arebbe né in altro tempo né con altra congiunzione che con la sua. Né mancavano al pontefice, in contrario, efficacissime persuasioni di Cesare e del re d'Aragona, perché si unisse con loro alla difesa d'ltalia; dimostrandogli che se, congiunti insieme, avevano potuto cacciare il re di Francia del ducato di Milano, erano molto piú bastanti a difenderlo da lui; ricordassesi dell'offesa fattagli l'anno passato, d'avere, quando l'esercito suo passò in Italia, mandato danari a' svizzeri, e considerasse che, se il re ottenesse la vittoria, vorrebbe in uno tempo e vendicarsi contro a tutti delle ingiurie ricevute e assicurarsi da' pericoli e da' sospetti futuri. Ma piú movevano il pontefice l'autorità e le offerte de' svizzeri; i quali, perseverando nel pristino ardore, offerivano, ricevendo seimila raines il mese, di occupare e difendere con seimila fanti i passi del Monsanese di Monginevra e del Finale e, essendo pagati loro quarantamila raines il mese, di assaltare con ventimila fanti la Borgogna. In queste conflittazioni ambiguo il pontefice in se medesimo, perché donde lo spronava la voglia lo ritraeva il timore, dando a ciascuno risposte e parole generali, differiva di dichiarare quanto poteva la mente sua. Ma instando, già quasi importunamente, il re di Francia, gli rispose finalmente: niuno sapere piú di lui quanto fusse inclinato alle cose sue, perché sapeva quanto caldamente l'avesse confortato a passare in Italia in tempo che si poteva senza pericolo e senza uccisione ottenere la vittoria; le quali persuasioni, per non si essere osservato il segreto tante volte ricordato da lui, erano pervenute a notizia degli altri con detrimento di tutti a due, perché e lui era stato in pericolo di non essere offeso da essi e alla impresa del re erano cresciute le difficoltà, perché gli altri avevano riordinate le cose loro di maniera che non si poteva piú vincere senza gravissimo pericolo e senza effusione di molto sangue, e che essendo nuovamente cresciuta con tanto successo la potenza del principe de' turchi, non era né conforme alla sua natura né conveniente allo officio di uno pontefice favorire o consigliare i príncipi cristiani a fare guerra tra loro medesimi; né potere altro che confortarlo a soprasedere, aspettando qualche facilità e occasione migliore, la quale quando apparisse riconoscerebbe in lui la medesima disposizione alla gloria e grandezza sua che aveva potuto riconoscere a' mesi passati. La quale risposta, benché non esprimesse altrimenti il concetto suo, non solo arebbe privato il re di Francia della speranza d'averlo favorevole ma, se gli fusse pervenuta a notizia, l'arebbe, quasi certificato che il pontefice sarebbe congiunto, e co' consigli e con l'armi, contro a lui. E queste cose si feciono l'anno mille cinquecento quattordici.

                                                 Ma interpose dilazione alla guerra già imminente la morte, solita a troncare spesso nelle maggiori speranze i consigli vani degli uomini: perché il re di Francia, mentre che dando cupidamente opera alla bellezza eccellente e alla età della nuova moglie, giovane di diciotto anni, non si ricorda della età sua e della debilità della complessione, oppresso da febbre e sopravenendogli accidenti di flusso, partí quasi repentinamente della vita presente; avendo fatto memorabile il primo dí dell'anno mille cinquecento quindici con la sua morte. Re giusto e molto amato da' popoli suoi, ma che mai, né innanzi al regno né re, ebbe costante e stabile né l'avversa né la prospera fortuna. Conciossiaché, di piccolo duca d'Orliens pervenuto felicissimamente al reame di Francia per la morte di Carlo piú giovane di lui e di due suoi figliuoli, acquistò con grandissima facilità il ducato di Milano e poi il regno di Napoli, reggendosi per piú anni quasi a suo arbitrio tutta Italia; ricuperò con somma prosperità Genova ribellata, vinse gloriosissimamente i viniziani, intervenendo a queste due vittorie personalmente. Da altra parte, giovane ancora, fu costretto da Luigi undecimo di pigliare per moglie la figliuola, sterile e quasi mostruosa, non acquistata per questo matrimonio né la benivolenza né il patrocinio del suocero; e dopo la morte sua non ammesso, per la grandezza di madama di Borbone, al governo del nuovo re pupillo, e quasi necessitato a rifuggirsi in Brettagna: preso poi nella giornata di Santo Albino, stette incarcerato due anni. Aggiugni a queste cose l'assedio e la fame di Novara, tante rotte avute nel regno di Napoli, la perdita, dello stato di Milano, di Genova e di tutte le terre tolte a' viniziani, e la guerra fattagli da inimici potentissimi nel reame di Francia; nel qual tempo vidde lo imperio suo ridotto in gravissimi pericoli. Nondimeno morí in tempo che pareva gli ritornasse la prosperità della fortuna, avendo difeso il regno suo, fatta la pace e parentado e in grandissima unione col re d'Inghilterra, e in grande speranza di recuperare lo stato di Milano.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.10

                                                  

                                                 Il nuovo re di Francia: sue doti e sue aspirazioni. Accordi con il re d'Inghilterra e con l'arciduca. Accordi coi veneziani. Confederazione fra Massimiliano Cesare, il re d'Aragona, il duca di Milano e gli svizzeri contro il re di Francia ove tenti la conquista del ducato.

                                                  

                                                 A Luigi duodecimo succedette Francesco monsignore di Anguelem, piú prossimo a lui de' maschi del sangue reale e della linea medesima de' duchi di Orliens, preferito nella successione del regno alle figliuole del morto re per la disposizione della legge salica, legge antichissima del reame di Francia; per la quale, mentre che della medesima linea vi sono maschi, si escludono dalla degnità reale le femmine. Delle virtú, della magnanimità, dello ingegno e spirito generoso di costui s'aveva universalmente tanta speranza che ciascuno confessava non essere, già per moltissimi anni, pervenuto alcuno con maggiore espettazione alla corona; perché gli conciliava somma grazia il fiore della età, che era di ventidue anni, la bellezza egregia del corpo, liberalità grandissima, umanità somma con tutti e notizia piena di molte cose; e sopratutto grato alla nobiltà, alla quale dimostrava sommo favore. Assunse, insieme col titolo di re di Francia, il titolo di duca di Milano, come appartenente a sé non solo per le antiche ragioni de' duchi di Orliens ma ancora come compreso nella investitura fatta da Cesare per la lega di Cambrai: avendo a recuperarlo la medesima inclinazione che aveva avuto l'antecessore. Alla qual cosa stimolava non solamente lui ma eziandio tutti i giovani della nobiltà franzese la gloria di Gastone di Fois, e la memoria di tante vittorie ottenute da' prossimi re in Italia; benché, per non invitare innanzi al tempo gli altri a prepararsi per resistergli, la dissimulasse per consiglio de' suoi, attendendo in questo mezzo a trattare, come si fa ne' regni nuovi, amicizia con gli altri príncipi: di molti de' quali concorsono a lui subito imbasciadori, ricevuti tutti con lieta fronte, ma piú che tutti gli altri quegli del re d'Inghilterra; il quale, essendo ancora fresca la ingiuria ricevuta dal re cattolico, desiderava continuare seco l'amicizia cominciata col re Luigi. Venne e nel tempo medesimo onorata imbasceria dello arciduca, della quale fu il principale monsignore di Nassau, e con dimostrazione di grande sommissione come a signore suo soprano, per essere possessore della contea di Fiandra, la quale riconosceva la superiorità della corona di Francia.

                                                 L'una e l'altra legazione ebbe presta e felice espedizione; perché col re d'Inghilterra fu riconfermata la confederazione fatta tra lui e il re morto, co' medesimi capitoli e durante la vita di ciascuno di loro, riservato tempo di tre anni al re di Scozia di entrarvi; e con l'arciduca cessorono molte difficoltà che si giudicava per molti dovessino impedire la concordia. Perché l'arciduca, il quale, finita l'età pupillare, aveva assunto nuovamente il governo degli stati suoi, movevano a questo molte cagioni: la instanza de' popoli di Fiandra desiderosi di non avere guerra col reame di Francia, il desiderio di assicurarsi degli impedimenti che nella morte dell'avolo gli potessino essere dati da' franzesi alla successione del regno di Spagna, e il parergli pericoloso rimanere senza legame di amicizia in mezzo del re dí Francia e del re d'Inghilterra congiunti insieme; e da altra parte nel re era desiderio grande di rimuovere tutte l'occasioni che lo potessino costrignere a reggersi con l'autorità e consiglio dell'avolo paterno o materno. Fu adunque, nella città di Parigi, fatta tra loro pace e confederazione perpetua, riservando facoltà a Cesare e al re cattolico, senza l'autorità de' quali conveniva l'arciduca, di entrarvi fra tre mesi; promesso di fare lo sposalizio, trattato tante volte, tra l'arciduca e Renea figliuola del re Luigi, con dote di seicentomila scudi e del ducato di Berrí perpetuo per lei e per i figliuoli, la quale essendo allora di età tenerissima gli avesse a essere consegnata subito pervenisse alla età di nove anni, ma con patto rinunziasse a tutte le ragioni della eredità paterna e materna, e nominatamente a quelle gli appartenessino in su il ducato di Milano e di Brettagna; obligato a dargli il re aiuto di genti e di navi per andare al regno di Spagna, dopo la morte del re cattolico. Fu nominato a richiesta del re il duca di Ghelleri; e affermano alcuni che, oltre alle cose predette, fu convenuto che in nome dell'uno e dell'altro di loro andassino, fra tre mesi, imbasciadori al re d'Aragona a ricercarlo che facesse giurare a' popoli l'arciduca per principe di quegli reami (è questo il titolo di quello al quale aspetta la successione) restituisse il regno di Navarra e astenessesi da difendere il ducato di Milano. Né si dubita che ciascuno di questi due príncipi pensò piú, nel confederarsi, alla comodità che si dimostrava di presente che alla osservanza del tempo futuro: perché, quale fondamento si poteva fare nello sposalizio che si prometteva, non essendo ancora la sposa pervenuta alla età di [quattro] anni? e come poteva piacere al re di Francia che Renea divenisse moglie dello arciduca, alla quale, essendo la sorella maggiore moglie del re, era parata l'azione sopra il ducato di Brettagna? perché i brettoni, desiderosi d'avere qualche volta uno duca particolare, quando Anna duchessa loro passò al secondo matrimonio, convennono che al secondogenito de' figliuoli e discendenti di lei, pervenendo il primogenito alla corona di Francia, pervenisse quel ducato.

                                                 Trattava medesimamente il re di Francia col prefato re di prorogare la tregua fatta col re morto, ma rimossa la condizione di non molestare durante la tregua il ducato di Milano; sperando dovergli poi essere facile il convenire con Cesare; per la quale cagione teneva sospesi i viniziani che offerivano di rinnovare la lega fatta con l'antecessore, volendo essere libero a obligarsi a Cesare contro a loro. Ma il re cattolico, con tutto che in lui potesse come sempre il desiderio di non avere guerra propinqua a' confini di Spagna, pure considerando quanto sospetto darebbe la prorogazione della tregua a svizzeri, e che questo, non essendo piú né credute le sue parole né uditi i consigli suoi, sarebbe cagione che il pontefice, ambiguo insino a quel dí, si rivolgerebbe alla amicizia franzese, ricusò finalmente di prolungare la tregua se non con le medesime condizioni con le quali l'aveva rinnovata col re passato. Onde il re Francesco, escluso da questa speranza, e meno sperando che Cesare contro alla volontà e consigli di quel re avesse a convenire seco, riconfermò col senato viniziano la lega nella forma medesima che era stata fatta coll'antecessore. Rimanevano il pontefice e i svizzeri. A questi dimandò che ammettessino i suoi imbasciadori; ma essi, perseverando nella medesima durezza, ricusorno concedere il salvocondotto: col pontefice, dalla volontà del quale dipendevano interamente i fiorentini, non procedette per allora piú oltre che a confortarlo a conservarsi libero da qualunque obligazione, acciocché, quando i progressi delle cose lo consigliassino a risolversi, fusse in sua potestà l'eleggere la parte migliore: ricordandogli che mai da niuno piú che da sé arebbe, per sé e per la casa sua, né piú sincera benivolenza né piú intera fede né maggiori condizioni.

                                                 Gittati il re questi fondamenti alle cose sue, cominciò a fare studiosamente provedimenti grandissimi di danari, e ad accrescere insino al numero di quattromila l'ordinanza delle sue lancie; divulgando fare queste cose non perché avesse pensieri di molestare, per questo anno, altri ma per opporsi a' svizzeri, i quali minacciavano, in caso che egli non adempiesse le convenzioni fatte, in nome del re morto, a Digiuno, di assaltare o la Borgogna o il Dalfinato: la quale simulazione aveva appresso a molti fede di verità, per l'esempio de' prossimi re i quali aveano sempre fuggito lo implicarsi in nuove guerre nel primo anno del regno loro. Nondimeno, non si imprimeva il medesimo negli animi di Cesare e del re d'Aragona; a' quali era sospetta la gioventú del re, la facilità che aveva, sopra il consueto degli altri re, di valersi di tutte le forze del regno di Francia, nel quale aveva tanta grazia con tanta estimazione: ed erano note le preparazioni grandi che aveva lasciate il re Luigi, per le quali, poi che era assicurato del re di Inghilterra, non pareva che di nuovo deliberasse la guerra ma piú tosto che continuasse la deliberazione già fatta; perciò, per non essere oppressi allo improviso, facevano instanza di confederarsi col pontefice e co' svizzeri. Ma il pontefice, usando con ciascuna delle parti benigne parole e ingegnandosi di nutrire tutti con varie speranze, differiva per ancora il fare alcuna certa dichiarazione. Ne' svizzeri non solo continuava ma accresceva continuamente l'ardore di prima; essendosi le cagioni cominciate da' dolori publici, per lo augumento delle pensioni negato, per l'avere il re Luigi chiamato agli stipendi suoi i fanti tedeschi, per le parole ingiuriose e piene di dispregio usate contro alla nazione, augumentate da' dolori dispiaceri e cupidità private, per l'invidia che aveva la moltitudine a molti privati, i quali ricevevano doni e pensioni dal re di Francia, e perché quegli che piú ardentemente si erano opposti a' principali di coloro che seguitavano l'amicizia franzese, chiamati allora volgarmente i gallizzanti, saliti per questo col favore della plebe in riputazione e grandezza, temevano si diminuisse la loro autorità se di nuovo la republica si ricongiugnesse co' franzesi: di maniera che, non si consultando e disputando col zelo publico ma con l'ambizione e dissensioni civili, questi, prevalendo di credito a' gallizzanti, ottenevano che si recusassino l'offerte grandissime, anzi smisurate, del re di Francia. In questa disposizione adunque degli animi e delle cose, gli imbasciadori di Cesare del re d'Aragona e del duca di Milano, congregati appresso a' svizzeri, contrassono con loro, in nome de' suoi príncipi, confederazione per la difesa d'ltalia, riservato al pontefice luogo di entrarvi insino alla domenica che si dice letare, della prossima quadragesima: nella quale fu convenuto che, per costrignere il re di Francia a cedere le ragioni del ducato di Milano, i svizzeri, ricevendo ciascuno mese dagli altri confederati trentamila ducati, assaltassino o la Borgogna o il Dalfinato; e che il re cattolico movesse con potente esercito la guerra dalla parte o di Perpignano o di Fonterabia nel reame di Francia, acciò che il re, costretto a difendere il reame proprio, non potesse, se pure avesse nell'animo altrimenti, molestare il ducato di Milano.

                                                  

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.11

                                                  

                                                 Preparativi del re di Francia per la spedizione in Italia. Tentativi e speranze d'avere favorevole il pontefice, e condotta ambigua di questo. Accordi fra il re ed il doge di Genova. Inizio della spedizione in Italia.

                                                  

                                                 Stette occulta insino al mese di giugno la deliberazione del re; ma finalmente, per la grandezza e sollecitudine degli apparecchi, non era piú possibile tanto movimento dissimulare. Perché erano immoderati i provedimenti de' danari, soldava numero grandissimo di fanti tedeschi, faceva condurre molte artiglierie verso Lione, e ultimamente aveva mandato in Ghienna, per soldare ne' confini di Navarra diecimila fanti, Pietro Navarra, condotto nuovamente agli stipendi suoi: perché non avendo il re d'Aragona, sdegnato contro a lui perché in gran parte se gli attribuiva l'infelice successo del fatto d'arme, voluto mai pagare per la sua liberazione la taglia postagli di ventimila ducati, la quale il re morto avea donato al marchese del Rotellino per ricompensarlo in qualche parte della taglia de' centomila ducati pagati in Inghilterra, il nuovo re, deliberando usare l'opera sua, aveva, quando pervenne alla corona, pagato la taglia per lui, e dipoi condottolo agli stipendi suoi; avendo prima il Navarra, per scarico dell'onore suo, mandato al re d'Aragona a scusarsi se abbandonato da lui cedeva alla necessità, e a rinunziare uno stato il quale possedeva per sua donazione nel regno di Napoli.

                                                 Essendo adunque manifesto a ciascuno che la guerra si preparava contro a Milano e che il re deliberava d'andarvi personalmente, cominciò il re a ricercare apertamente il pontefice che si unisse seco; usando a questo, oltre a molte persuasioni e instrumenti, il mezzo di Giuliano suo fratello, il quale nuovamente aveva presa per moglie [Filiberta] sorella di Carlo duca di Savoia e zia materna del re, dotandola co' danari del pontefice in centomila ducati: la qual cosa gli avea data speranza che il pontefice fusse inclinato alla amicizia sua, avendo contratto seco sí stretto parentado; e tanto piú che, avendo prima trattato col re cattolico di congiugnere Giuliano con una parente sua della famiglia di Cardona, pareva che piú per rispetto suo che per altra cagione avesse preposto questo matrimonio a quello. Né dubitava, Giuliano dovere cupidamente favorire questa inclinazione per desiderio di acquistare col mezzo suo qualche stato, col quale potesse sostentare le spese convenienti a tanto matrimonio e per stabilire meglio il governo perpetuo, datogli dal pontefice nuovamente, delle città di Modona, Reggio, Parma e Piacenza; il quale, non sostenuto da favore di príncipi potenti, era di poca speranza che avesse a durare dopo la morte del fratello. Ma era cominciata presto a turbarsi la speranza del re: perché il pontefice aveva conceduto al re d'Aragona le crociate del regno di Spagna per due anni, delle quali si credeva che avesse a trarre piú di uno milione di ducati; e perché udiva con tanta inclinazione Alberto da Carpi e Ieronimo Vich oratori di Cesare e del re cattolico, che erano molto assidui appresso a lui, che parevano partecipi di tutti i consigli suoi. Nutriva questa ambiguità il pontefice, dando parole grate e dimostrando ottima intenzione a quegli che intercedevano per il re, ma senza effetto di alcuna conclusione, come quello nel quale prevaleva a tutti gli altri rispetti il desiderio che il ducato di Milano non fusse piú posseduto da príncipi forestieri. Però il re, desiderando di certificarsi della sua mente, mandò a lui nuovi imbasciadori; tra' quali fu Guglielmo Budeo parigino, uomo nelle lettere umane, cosí greche come latine, di somma e forse unica erudizione tra tutti gli uomini de' tempi nostri. Dopo i quali mandò Antonio Maria Palavicino, uomo grato al pontefice. Ma erano vane queste fatiche, perché già innanzi alla venuta sua aveva occultissimamente, insino del mese di luglio, convenuto cogli altri alla difesa dello stato di Milano: ma volendo che questa deliberazione stesse secretissima insino a tanto che la necessità delle cose lo costrignesse a dichiararsi, e desiderando oltre a questo publicarla con qualche scusa, ora dimandava che il re consentisse che la Chiesa si ritenesse Parma e Piacenza, ora faceva altre petizioni acciò che, essendogli negata qualcuna delle cose dimandate, paresse che la necessità piú che la volontà lo inducesse a unirsi con gli inimici del re, ora, diffidandosi che il re gli negasse cosa alcuna di quelle che non al tutto senza colore d'onestà poteva proporre, faceva risposte varie, ambigue e irresolute.

                                                 Ma erano usate seco da altri delle medesime arti e astuzie. Perché Ottaviano Fregoso doge di Genova, temendo degli apparati potentissimi del re di Francia e avendo da altra parte sospetta la vittoria de' confederati per l'inclinazione del duca di Milano e de' svizzeri agli avversari suoi, si era per mezzo del duca di Borbone convenuto secretissimamente col re di Francia, avendo, e mentre trattava e poi che convenne, affermato sempre costantissimamente il contrario al pontefice; il quale, per essere Ottaviano congiuntissimo di antica benivolenza a lui e a Giuliano suo fratello, e stato favorito da loro nel farsi doge di Genova, gliene prestò tale fede che, avendo il duca di Milano insospettito da questa fama disposto di assaltarlo con quattromila svizzeri, che già erano condotti a Novara, e con gli Adorni e Fieschi, il pontefice fu operatore che non si procedesse piú oltre. Convenne il Fregoso in questa forma: che al re si restituisse il dominio di Genova insieme col Castelletto; Ottaviano, deposto il nome del doge, fusse governatore perpetuo del re, con potestà di concedere gli offici di Genova; avesse dal re la condotta di cento lancie, l'ordine di San Michele, provisione annua durante la sua vita; non rifacesse il re la fortezza di Codifà molto odiosa a' genovesi, e concedesse a quella città tutti i capitoli e privilegi che erano stati annullati e abbruciati dal re Luigi; desse certa quantità di entrate ecclesiastiche a Federico arcivescovo di Salerno fratello di Ottaviano, e a lui, se mai accadesse fusse cacciato di Genova, alcune castella nella Provenza. Le quali cose quando poi furno publicate non fu difficile a Ottaviano, perché ciascuno sapeva che meritamente temeva del duca di Milano e de' svizzeri, giustificare la sua deliberazione. Solamente gli dava qualche nota lo avere negato la verità tante volte al pontefice da cui avea ricevuti tanti benefici, né osservata la promessa fatta di non convenire senza suo consentimento; e nondimeno, in una lunga lettera che dipoi gli scrisse in sua giustificazione, riandate accuratamente tutte le cagioni che lo avevano mosso e tutte le scuse con le quali appresso a lui poteva difendere l'onore e il procedere suo, e il non avere disprezzato la divozione che, come a pontefice e come a suo benefattore, gli aveva, conchiuse che gli sarebbe piú difficile la giustificazione se scrivesse a uomini privati o a principe che misurasse le cose degli stati secondo i rispetti privati, ma che scrivendo a uno principe savio quanto in quella età fusse alcuno altro, e che per la sapienza sua conosceva che e' non poteva salvare lo stato suo in altro modo, era superfluo lo scusarsi con chi conosceva e sapeva quel che fusse lecito, o almanco consueto, a príncipi di fare, non solo quando erano ridotti in caso tale ma eziandio per migliorare o accrescere le condizioni dello stato loro.

                                                 Ma già le cose dalle parole e da' consigli procedevano a' fatti e alle esecuzioni: il re venuto a Lione, accompagnato da tutta la nobiltà di Francia e da' duchi del Loreno e di Ghelleri, moveva verso i monti l'esercito maggiore e piú fiorito che già grandissimo tempo fusse passato di Francia in Italia; sicuro di tutte le perturbazioni di là da' monti, perché il re d'Aragona (il quale, temendo prima che tanti provedimenti non si volgessino contro a sé, aveva armato i suoi confini, e acciò che i popoli fussino piú pronti alla difesa della Navarra l'aveva unita in perpetuo al reame di Castiglia), subito come intese la guerra procedere manifestamente in Italia, licenziò tutte le genti che aveva raccolte, non tenendo piú conto della promessa fatta quell'anno a' confederati di muovere la guerra nella Francia che avesse tenuto delle promesse fatte a' medesimi negli anni precedenti.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.12

                                                  

                                                 Gli svizzeri alla difesa del ducato di Milano. Preoccupazione dei francesi di evitare i passi alpini custoditi dagli svizzeri. Passi alpini da Lione in Italia. Consigli del re d'Inghilterra contrari all'impresa d'Italia. I francesi, passate le Alpi, entrano nel marchesato di Saluzzo. Prospero Colonna prigione dei francesi.

                                                  

                                                 Alla fama della mossa del re di Francia, il viceré di Napoli, il quale, essendo stato per molti mesi quasi in tacita tregua co' viniziani, era venuto nel vicentino per approssimarsi agli inimici, alloggiati in fortissimo alloggiamento agli Olmi appresso a Vicenza, ridusse l'esercito a Verona per andare, secondo diceva, a soccorrere il ducato di Milano; e il pontefice mandava verso Lombardia le genti d'armi sue e de' fiorentini sotto il governo del fratello eletto capitano della Chiesa, per soccorrere medesimamente quello stato, come non molti dí innanzi aveva convenuto cogli altri confederati: con tutto che, insistendo nelle solite simulazioni, desse voce mandarle solamente per la custodia di Piacenza di Parma e di Reggio, e fusse proceduto tanto oltre cogli oratori del re di Francia che il re, persuadendosi al certo la sua concordia, aveva da Lione spedito agli imbasciadori suoi il mandato di conchiudere, consentendo che la Chiesa ritenesse Piacenza e Parma insino a tanto ricevesse da lui ricompenso tale che il pontefice medesimo l'approvasse. Ma erano, per le cagioni che di sotto appariranno, tutti vani questi rimedi: era destinato che col pericolo e col sangue de' svizzeri, solamente, o si difendesse o si perdesse il ducato di Milano. Questi, non ritardati da negligenza alcuna, non dalla piccola quantità de' danari, scendevano sollecitamente nel ducato di Milano; già ne erano venuti piú di ventimila, de' quali diecimila si erano accostati a' monti; perché il consiglio loro era, ponendosi a' passi stretti di quelle vallate che dalle Alpi che dividono Italia dalla Francia sboccano ne' luoghi aperti, impedire il passare innanzi a' franzesi.

                                                 Turbava molto questo consiglio de' svizzeri l'animo del re; il quale prima per la grandezza delle sue forze si prometteva certa la vittoria; perché nell'esercito suo erano dumila cinquecento lancie, ventiduemila fanti tedeschi guidati dal duca di Ghelleri, diecimila guaschi (cosí chiamavano i fanti soldati da Pietro Navarra), ottomila franzesi e tremila guastatori condotti col medesimo stipendio che gli altri fanti. Considerava il re co' suoi capitani essere impossibile, inteso il valore de' svizzeri, rimuovergli da' passi forti e angusti se non con numero molto maggiore; ma questo non si poteva in luoghi tanto stretti adoperare, difficile fare cosa di momento in tempo breve, piú difficile dimorare lungamente nel paese tanto sterile cosí grande esercito, con tutto che continuamente venisse verso i monti copia grandissima di vettovaglie. Nelle quali difficoltà, alcuni, sperando piú nella diversione che nell'urtargli, proponevano che si mandassino per la via di Provenza ottocento lancie, e per mare Pietro Navarra coi diecimila guaschi si unissino insieme a Savona; altri dicevano perdersi, a fare sí lungo circuito, troppo tempo, indebolirsi le forze e accrescersi troppo di riputazione agli inimici, dimostrando di non avere ardire di riscontrarsi con loro. Fu adunque deliberato, non si discostando molto da quel cammino pensare di passare da qualche parte che o non fusse osservata o almeno manco custodita dagli inimici, e che Emat di Pria con [quattrocento] lancie e [cinquemila] fanti andasse per la via di Genova, non per speranza di divertire, ma per infestare Alessandria e le altre terre di qua dal Po.

                                                 Due sono i cammini dell'Alpi per i quali ordinariamente si viene da Lione in Italia: quello del Monsanese, montagna della giurisdizione del duca di Savoia, piú breve e piú diritto, e comunemente piú frequentato; l'altro che da Lione, torcendo a Granopoli, passa per la montagna di Monginevra, giurisdizione del Dalfinato. L'uno e l'altro perviene da Susa, ove comincia ad allargarsi la pianura: ma per quello di Monginevra, benché alquanto piú lungo, perché è piú facile a passare e piú comodo a condurre l'artiglierie, solevano sempre passare gli eserciti franzesi. Alla custodia di questi due passi e di quegli che riuscivano in luoghi vicini, intenti i svizzeri, si erano fermati a Susa; perché i passi piú bassi verso il mare erano tanto stretti e repenti che, essendo molto difficile il passarvi i cavalli di tanto esercito, pareva impossibile che per quegli si conducessino l'artiglierie. Da altra parte il Triulzio, a cui il re avea data questa cura, seguitato da moltitudine grandissima di guastatori, e avendo appresso a sé uomini industriosi ed esperimentati nel condurre l'artiglierie, i quali mandava a vedere i luoghi che gli erano proposti, andava investigando per qual luogo si potesse, senza trovare l'ostacolo de' svizzeri, piú facilmente passare; per il che l'esercito, disteso la maggior parte tra Granopoli e Brianzone, aspettando quel che si deliberasse, procedeva lentamente; costrignendogli anche al medesimo la necessità di aspettare i provedimenti delle vettovaglie.

                                                 Nel qual tempo venne al re, partito già da Lione, uno uomo mandato dal re di Inghilterra, il quale in nome suo efficacemente lo confortò che per non turbare la pace della cristianità non passasse in Italia. Origine di tanta variazione fu che, essendo stato molesto a quel re che 'l re di Francia si fusse congiunto con l'arciduca, parendogli che le cose sue cominciassino a procedere troppo prosperamente, avea da questo principio cominciato a prestare l'orecchie agli imbasciadori del re cattolico, che non cessavano di dimostrargli quanto a lui fusse perniciosa la grandezza del re di Francia, che per l'odio naturale, e per avere esercitato i príncipi della sua milizia contro a lui, non gli poteva essere se non inimicissimo; ma lo moveva piú la emulazione e la invidia alla gloria sua, la quale gli pareva che si accrescesse molto se e' riportasse la vittoria dello stato di Milano. Ricordavasi che egli, ancora che avesse il regno riposato e ricchissimo per la lunga pace, e trovato tanto tesoro accumulato dal padre, non aveva però se non dopo qualche anno avuto ardire di assaltare il re di Francia, solo, e cinto da tanti inimici e affaticato da tanti travagli: ora questo re, alquanto piú giovane che non era egli quando pervenne alla corona, ancora che avesse trovato il regno, affaticato ed esausto per tante guerre, avere ardire, ne' primi mesi del suo regno, andare a una impresa dove aveva opposizione di tanti príncipi: non avere egli, con tanti apparati e con tante occasioni, riportato in Inghilterra altro guadagno che la città di Tornai, con spesa nondimeno intollerabile e infinita; ma il re di Francia, se conseguisse, come si poteva credere, la vittoria, acquistando sí bello ducato, avere a tornare gloriosissimo nel regno suo: apertasi ancora la strada, e forse innanzi che uscisse d'Italia presa l'occasione, di assaltare il regno di Napoli. Co' quali stimoli e punture essendo stato facile risuscitare l'odio antico nel petto suo, né essendo a tempo di potere dargli con l'armi impedimento alcuno, e forse anche cercando di acquistare qualche piú giustificazione, aveva mandato a fargli questa imbasciata. Per la quale il re non ritardando il suo cammino, venne da Lione nel Dalfinato: ove ne' medesimi dí comparsono i lanzchenech detti della banda nera, condotti da Ruberto della Marcia; la quale banda della Germania piú bassa era, per la sua ferocia e per la fede sempre dimostrata, negli eserciti franzesi in grandissima estimazione.

                                                 A questo tempo significò Giaiacopo da Triulzi al re potersi condurre di là da' monti l'artiglierie tra l'Alpi Marittime e le Cozie, scendendo verso il marchese di Saluzzo; ove, benché la difficoltà fusse quasi inestimabile, nondimeno per la copia grandissima degli uomini e degli instrumenti, dovere finalmente succedere: e non essendo da questa parte, né in sulla sommità de' monti né alle bocche delle vallate, custodia alcuna, meglio essere tentare di superare l'asprezza de' monti e i precipizi delle valli, la qual cosa si faceva colla fatica ma non col pericolo degli uomini, che tentare di fare abbandonare i passi a' svizzeri tanto temuti, e ostinati o a vincere o a morire; massime non potendo, se si faceva resistenza, fermarsi molti dí, perché niuna potenza o apparato bastava a condurre per i luoghi tanto aspri e tanto sterili vettovaglia sufficiente a tanta gente: il quale consiglio accettato, l'artiglierie, che si erano fermate in luogo comodo a volgersi a ogni parte, si mossono subito a quel cammino. Aveva il Triulzo significato dovere essere grandissima la difficoltà del passarle, ma con l'esperienza riuscí molto maggiore. Perché prima era necessario salire in su monti altissimi e asprissimi, ne' quali si saliva con grandissima difficoltà perché non vi erano sentieri fatti, né talvolta larghezza capace dell'artiglierie se non quanto di palmo in palmo facilitavano i guastatori; de' quali precedeva copia grandissima, attendendo ora ad allargare la strettezza de' passi ora a spianare le eminenze che impedivano. Dalla sommità de' monti si scendeva, per precipizi molto prerutti e non che altro spaventosissimi a guardargli, nelle valli profondissime del fiume dell'Argentiera; per i quali non potendo sostenerle i cavalli che le tiravono, de' quali vi era numero abbondantissimo, né le spalle de' soldati che l'accompagnavano, i quali in tante difficoltà si mettevano a ogni fatica, era spesso necessario che appiccate a canapi grossissimi fussino, per le troclee, trapassate con le mani de' fanti: né passati i primi monti e le prime valli cessava la fatica, perché a quegli succedevano altri monti e altre vallate, i quali si passavano con le medesime difficoltà. Finalmente, in spazio di cinque dí, l'artiglierie si condussono in luoghi aperti del marchesato di Saluzzo di qua da' monti; passate con tante difficoltà che è certissimo che, se o avessino avuta resistenza alcuna o se i monti fussino stati, come la maggiore parte sogliono essere, coperti dalla neve, sarebbe stata fatica vana; ma dalla opposizione degli uomini gli liberò che, non avendo mai pensato alcuno potersi l'artiglierie condurre per monti tanto aspri, i svizzeri fermatisi a Susa erano intenti a guardare i luoghi per i quali viene chi passa il Monsanese, il Monginevra o per monti propinqui a quegli; e la stagione dell'anno, essendo circa il decimo dí di agosto, aveva rimosso lo impedimento delle nevi già liquefatte.

                                                 Passavano ne' dí medesimi, non senza molta difficoltà, le genti d'arme e le fanterie; alcuni per il medesimo cammino, altri per il passo che si dice della Dragoniera, altri per i gioghi alti della Rocca Perotta e di Cuni, passi piú verso la Provenza. Per la quale via passato la Palissa, ebbe occasione di fare un fatto memorabile. Perché partito da Singlare con quattro squadre di cavalli, e fatta, guidandolo i paesani, una lunghissima cavalcata, sopragiunse improviso a Villafranca, terra distante sette miglia da Saluzzo, e di nome piú chiaro che non ricerca la qualità della terra perché appresso a quella nasce il fiume tanto famoso del Po. Alloggiava in quella con la compagnia sua Prospero Colonna, senza alcuno sospetto per la lunga distanza degli inimici, ne' quali non temeva quella celerità che esso, di natura molto lento, non era solito a usare: e dicono alcuni che il dí medesimo voleva andare a unirsi co' svizzeri. Ma, come si sia, certo è che stava alla mensa desinando, quando sopragiunsono le genti del la Palissa, non sentite, insino furno alla casa medesima, da alcuno; perché gli uomini della terra co' quali la Palissa, intento a tanta preda, si era prima occultamente inteso, aveano tacitamente prese le scolte. Cosí, il quintodecimo dí di agosto, rimase prigione, non come si conveniva all'antica gloria, Prospero Colonna, tanto chiaro capitano e, per l'autorità sua e per il credito che aveva nel ducato di Milano, di momento grande in quella guerra. Fu preso, insieme con Prospero, Pietro Margano romano e una parte della compagnia sua: gli altri al primo romore dispersi in varie parti fuggirono.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.13

                                                  

                                                 Migliore disposizione del pontefice verso il re di Francia dopo il passaggio in Italia. Opposizione di Giulio de' Medici ai propositi di rinuncia del pontefice a città dell'Emilia. Atteggiamento d'attesa del viceré. Inclinazione degli svizzeri a trattare col re di Francia.

                                                  

                                                 Variò la passata de' franzesi e il caso di Prospero Colonna i consigli di ciascuno e lo stato universalmente di tutte le cose, introducendo negli animi del pontefice del viceré di Napoli e de' svizzeri nuove disposizioni. Perché il pontefice, il quale si era costantemente persuaso che il re di Francia non potesse per la opposizione de' svizzeri passare i monti, e che molto confidava nella virtú di Prospero Colonna, perduto grandemente di animo, comandò a Lorenzo suo nipote, capitano generale de' fiorentini (al quale, perché Giuliano suo fratello, sopravenutagli lunga febbre, era rimasto in Firenze, avea data la cura di condurre l'esercito in Lombardia, e che tre dí dopo il caso di Prospero era venuto a Modena), che procedesse lentamente; il quale, pigliata occasione di volere recuperare la rocca di Rubiera, occupata da Guido vecchio Rangone, per la quale cagione gli pagò finalmente dumila ducati, consumò molti dí nel modonese e nel reggiano; e ricorrendo, oltre a questo, il pontefice alle sue arti, spedí occultissimamente Cintio... suo famigliare al re di Francia per escusare le cose succedute insino a quel dí, e cominciare per mezzo del duca di Savoia a trattare di convenire seco, acciò che da questo principio gli fusse piú facile il procedere piú oltre se la difesa del ducato di Milano succedesse infelicemente.

                                                 Ma a consiglio di maggiore precipitazione indussono il pontefice il cardinale Bibbiena e alcuni altri, mossi piú da private passioni che dallo interesse del suo principe: perché, dimostrandogli essere pericolo che, per la fama de' successi prosperi de' franzesi e per gli stimoli e forse aiuti del re, che il duca di Ferrara si movesse per ricuperare Modona e Reggio, e i Bentivogli per ritornare in Bologna, e in tanti altri travagli essere difficile combattere con tanti inimici, anzi migliore e senza dubbio piú prudente consiglio preoccupare col beneficio la benivolenza loro, e conciliarsegli, in qualunque evento delle cose, fedeli amici, gli persuasono che rimettesse i Bentivogli in Bologna e al duca di Ferrara restituisse Modena e Reggio; il che sarebbe senza dilazione stato eseguito se Giulio de' Medici, cardinale e legato di Bologna, il quale il papa, perché in accidenti tanto gravi sostenesse le cose di quelle parti e fusse come moderatore e consigliatore della gioventú di Lorenzo, aveva mandato a Bologna, non fusse stato di contraria sentenza. Il quale, mosso dal dispiacere della infamia che di consiglio pieno di tanta viltà risulterebbe al pontefice, maggiore certamente che non era stata la gloria di Giulio ad acquistare alla Chiesa tanto dominio; mosso ancora dal dolore di fare infame e vituperosa la memoria della sua legazione, alla quale non prima arrivato avesse rimesso Bologna, città principale di tutto lo stato ecclesiastico, in potestà degli antichi tiranni, lasciando in preda tanta nobiltà che in favore della sedia apostolica si era dichiarata apertamente contro a loro, mandato uomini propri al pontefice, lo ridusse con ragioni e con prieghi al consiglio piú onorato e piú sano. Era Giulio, benché nato di natali non legittimi, stato promosso da Lione ne' primi mesi del pontificato al cardinalato, seguitando l'esempio di Alessandro sesto nell'effetto ma non nel modo: perché Alessandro, quando creò cardinale Cesare Borgia suo figliuolo, fece provare per testimoni che deposono la verità, che la madre al tempo della sua procreazione aveva marito, inferendone che, secondo la presunzione delle leggi, s'aveva a giudicare che 'l figliuolo fusse piú presto nato del marito che dell'adultero; ma in Giulio i testimoni preposono la grazia umana alla verità, perché provorono che la madre, della quale, fanciulla e non maritata, era stato generato, innanzi che ammettesse agli abbracciamenti suoi il padre Giuliano, aveva avuto da lui secreto consentimento di essere sua moglie.

                                                 Variorno similmente questi nuovi casi la disposizione del viceré: il quale, non partito ancora da Verona per la difficoltà che aveva a muovere i soldati senza danari e per aspettare nuove genti promesse da Cesare, venuto a Spruch, perché era necessario lasciare sufficientemente custodite Verona e Brescia, cominciò con queste e con altre scuse a procrastinare, aspettando di vedere quel che di poi succedesse nel ducato di Milano.

                                                 Commossono e i svizzeri medesimamente queste cose; i quali, ritiratisi subito dopo la passata de' franzesi a Pinaruolo, benché dipoi, inteso che il re passate l'Alpi univa le genti in Turino, venuti a Civàs l'avessino, perché ricusava dare loro vettovaglie, [presa] e saccheggiata e dipoi, quasi in sugli occhi del re che era a Turino, fatto il medesimo a Vercelli, nondimeno, ridottisi in ultimo a Noara, prendendo dalle avversità animo quegli che non erano tanto alieni dalle cose franzesi, cominciorno apertamente a trattare di convenire col re di Francia. Nel qual tempo quella parte de' franzesi che veniva per la via di Genova, co' quali si erano uniti quattromila fanti pagati per opera di Ottaviano Fregoso da' genovesi, entrati prima nella terra del Castellaccio e poi in Alessandria e in Tortona, nelle quali città non era soldato alcuno, occuporno tutto il paese di qua dal Po.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.14

                                                  

                                                 Il re di Francia apprende d'aver nemico il pontefice; incertezze fra gli svizzeri; resa di Novara. I francesi sotto Milano; contegno della popolazione. Pace, subito turbata, fra il re di Francia e gli svizzeri. Il viceré muove da Verona a Parma e l'Alviano dal Polesine di Rovigo a Cremona. Il re di Francia a Marignano: le posizioni dei diversi eserciti.

                                                  

                                                 Era il re venuto a Vercelli, nel quale luogo intese la prima volta il pontefice essersi dichiarato contro a lui, perché il duca di Savoia gliene significò in suo nome: la qual cosa benché gli fusse sopra modo molestissima, nondimeno, non perturbato il consiglio dallo sdegno, fece, per non lo irritare, con bandi publici comandare, e nell'esercito e alle genti che aveano occupata Alessandria, che niuno ardisse di molestare o di fare insulto alcuno nel dominio della Chiesa. Soprasedette poi piú dí a Vercelli per aspettare l'esito delle cose che si trattavano co' svizzeri, i quali non intermettendo di trattare si dimostravano da altra parte pieni di varietà e di confusione. In Novara, cominciando a tumultuare, presa occasione del non essere ancora venuti i danari a' quali era obligato il re d'Aragona, tolsono violentemente a' commissari del pontefice i danari mandati da lui, e col medesimo furore partirno di Novara con intenzione di ritornarsene alla patria; cosa che molti di loro desideravano, i quali essendo stati in Italia già tre mesi, e carichi di danari e di preda, volevano condurre salvi alle case loro sé e le ricchezze guadagnate. Ma a fatica partiti da Noara, sopravennono i danari della porzione del re d'Aragona; i quali con tutto che nel principio occupassino, nondimeno, considerando pure quanto fussino ignominiose cosí precipitose deliberazioni, ritornati alquanto a se medesimi, restituirono e questi e quegli, per ricevergli ordinatamente da' commissari: ridussonsi di poi a Galera, aspettando ventimila altri che di nuovo si dicevano venire; tremila andorno col cardinale sedunense per fermarsi alla custodia di Pavia. Perciò il re, diminuita per tante variazioni la speranza della concordia, partí da Vercelli per andare verso Milano; lasciati a Vercelli col duca di Savoia il bastardo suo fratello, Lautrech e il generale di Milano a seguitare i ragionamenti principiati co' svizzeri; e lasciata assediata la rocca di Novara, perché alla partita de' svizzeri aveva ottenuta la città: la quale, battuta dalle artiglierie, fra pochi dí si arrendette, con patto che fusse salva la vita e le robe di coloro che la guardavano.

                                                 Passò dipoi il re, al quale si arrendé Pavia, il Tesino; e il dí medesimo Gianiacopo da Triulzi si distese con una parte delle genti a San Cristofano propinquo a Milano e poi insino al borgo della porta Ticinese, sperando che la città, la quale era certo che, malcontenta delle rapine e delle taglie de' svizzeri e degli spagnuoli, desiderava di ritornare sotto il dominio de' franzesi, né aveva dentro soldati, lo ricevesse. Ma era grande nel popolo milanese il timore de' svizzeri, e verde la memoria di quello che avessino patito l'anno passato, quando per la ritirata de' svizzeri a Novara si sollevorono in favore del re di Francia; però risoluti, non ostante che desiderassino la vittoria del re, di aspettare l'esito delle cose, mandorono a pregare il Triulzio che non andasse piú innanzi, e il dí seguente mandorono imbasciadori al re, che era a Bufaloro, a supplicarlo che, contento della disposizione del popolo milanese, divotissimo alla sua corona e che era parato a dargli vettovaglie, si contentasse non facessino piú manifesta dichiarazione; la quale non gli profittava cosa alcuna alla somma della guerra, come non aveva giovato il dichiararsi loro l'anno dinanzi al suo antecessore, e a quella città era stato cagione di grandissimi danni. Andasse e vincesse gli inimici, presupponendo che Milano, acquistata che egli avesse la campagna, fusse prontissimamente per riceverlo. Alla qual cosa il re, che era prima molto sdegnato del non avere accettato il Triulzio, raccoltigli lietamente, rispose essere contento compiacergli delle dimande loro.

                                                 Andò da Bufaloro il re con l'esercito a Biagrassa; dove mentre che stava, il duca di Savoia, avendo uditi venti imbasciadori de' svizzeri mandati a lui a Vercelli, andato poi, seguitandolo il bastardo e gli altri deputati dal re, a Galera, contrasse la pace in nome del re co' svizzeri, con queste condizioni: fusse tra il re di Francia e la nazione de' svizzeri pace perpetua, durante la vita del re e dieci anni dopo la morte; restituissino i svizzeri e i grigioni le valli che avevano occupate appartenenti al ducato di Milano; liberassino quello stato dalla obligazione di pagare ciascuno anno la pensione de' quarantamila ducati; desse il re a Massimiliano Sforza il ducato di Nemors, pensione annua di dodicimila franchi, condotta di cinquanta lancie e moglie del sangue reale; restituisse a' svizzeri la pensione antica di quarantamila franchi; pagasse lo stipendio di tre mesi a tutti i svizzeri che allora erano in Lombardia o nel cammino per venirvi; pagasse a' cantoni, con comodità di tempi, quattrocentomila scudi promessi nello accordo di Digiuno e trecento altri mila per la restituzione delle valli; tenessene continuamente a' soldi suoi quattromila: nominati con consentimento comune il pontefice, in caso restituisse Parma e Piacenza, lo imperadore, il duca di Savoia e il marchese di Monferrato; non fatta menzione alcuna del re cattolico né de' viniziani né di alcuno altro italiano. Ma questa concordia fu quasi in uno dí medesimo conchiusa e perturbata per la venuta de' nuovi svizzeri; i quali, feroci per le vittorie passate e sperando non dovere della guerra acquistare minori ricchezze che quelle delle quali vedevano carichi i compagni, avevano l'animo alienissimo dalla pace, e per difficultarla recusavano di restituire le valli: in modo che, non potendo i primi svizzeri rimuovergli da questo ardore, se ne andorono in numero di trentacinquemila a Moncia per fermarsi ne' borghi di Milano; essendosi partito da loro per la via di Como, la quale strada il re studiosamente aveva lasciata aperta, Alberto Pietra, famoso capitano, con molte insegne. Cosí, non quasi prima fatta che turbata la pace, ritornorno le cose nelle medesime difficoltà e ambiguità; anzi molto maggiori, essendosi nuove forze e nuovi eserciti approssimati al ducato di Milano.

                                                 Perché il viceré finalmente, lasciato alla guardia di Verona Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme sessanta cavalli leggieri e dumila fanti tedeschi, e in Brescia mille dugento lanzchenech, era venuto ad alloggiare in sul Po appresso a Piacenza; avendo settecento uomini d'arme secento cavalli leggieri e semila fanti, e il ponte preparato a passare il fiume. Al quale per non dare giusta causa di querelarsi, Lorenzo de' Medici, che era soggiornato industriosamente molti dí a Parma con lo esercito, nel quale erano settecento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e quattromila fanti, [venne a Piacenza]; avendo prima, a richiesta de' svizzeri, mandati, mentre trattavano, per servirsene a raccorre le vettovaglie, quattrocento cavalli leggieri sotto Muzio Colonna e Lodovico conte di Pitigliano, condottiere l'uno della Chiesa l'altro de' fiorentini: i quali non aveva mandati tanto per desiderio di aiutare la causa comune quanto per non dare occasione a' svizzeri, se pure componevano col re di Francia, di non includere nella pace il pontefice. Da altra parte Bartolomeo d'Alviano, il quale avea data speranza al re di tenere di maniera occupato l'esercito spagnuolo che non arebbe facoltà di nuocergli, subito che intese la partita del viceré da Verona, partendosi del Polesine di Rovigo, passato l'Adice e camminando sempre appresso al Po, con novecento uomini d'arme mille quattrocento cavalli leggieri e nove [mila] fanti e col provedimento conveniente d'artiglierie, era venuto con grandissima celerità alle mura di Cremona: della quale celerità, insolita a' capitani de' tempi nostri, egli gloriandosi, soleva agguagliarla alla celerità di Claudio Nerone quando, per opporsi ad Asdrubale, condusse parte dell'esercito espedito in sul fiume del Metauro.

                                                 Cosí non solo era vario ma confuso e implicato molto lo stato della guerra. Vicini a Milano, da una parte il re di Francia con esercito instruttissimo di ogni cosa, il quale era venuto a Marignano per dare all'Alviano facilità di unirsi seco, alle genti ecclesiastiche e spagnuole difficoltà di unirsi con gli inimici: dall'altra trentacinquemila svizzeri, fanteria piena di ferocia e insino a quel dí, in quanto a franzesi, invitta: il viceré in sul Po presso a Piacenza e in sulla strada propria che va a Lodi, e col ponte preparato a passare per andare a unirsi co' svizzeri; e in Piacenza, per congiugnersi seco al medesimo effetto, Lorenzo de' Medici con le genti del pontefice e de' fiorentini: l'Alviano, capitano sollecito e feroce, con l'esercito viniziano, in cremonese, quasi in sulla riva del Po, per aiutare, o con la unione o divertendo gli ecclesiastici e spagnuoli, il re di Francia. Rimaneva in mezzo di Milano e Piacenza con eguale distanza la città di Lodi, abbandonata da ciascuno ma saccheggiata prima da Renzo da Ceri, entratovi dentro come soldato de' viniziani; il quale, per discordie nate tra lui e l'Alviano, avendo prima con protesti e quasi con minaccie ottenuto licenza dal senato, si era condotto con dugento uomini d'arme e con dugento cavalli leggieri agli stipendi del pontefice; ma non potendo cosí presto seguitarlo i soldati suoi, perché i viniziani proibivano a molti il partirsi di Padova dove erano alloggiati, si era partito da Lodi per empiere il numero della compagnia con la quale era stato condotto. Ma il cardinale sedunense, il quale prima spaventato dalle pratiche che tenevano i suoi col re di Francia e dalla vacillazione della città di Milano, si era fuggito con mille svizzeri a Piacenza e con parte delle genti del duca di Milano, e dipoi andato a Cremona a sollecitare il viceré a farsi innanzi, indirizzatosi al cammino di Milano innanzi che l'esercito franzese gli impedisse quella strada, lasciò alcuni de' suoi, benché non molto numero, a guardia di Lodi; i quali, come intesono la venuta del re di Francia a Marignano, impauriti l'abbandonorono.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.15

                                                  

                                                 Sospetti del viceré riguardo all'esercito pontificio. Vana deliberazione degli spagnuoli e dei pontifici di passare il Po. Parole d'incitamento agli svizzeri del cardinale sedunense. Il primo giorno della battaglia fra svizzeri e francesi. Il secondo giorno ed il sopraggiungere dell'Alviano: importanza ed esito della battaglia; sue conseguenze.

                                                  

                                                 Ma mentre che il viceré dimora in sul fiume del Po, e innanzi che Lorenzo de' Medici giugnesse a Piacenza, fu preso da' suoi Cintio mandato dal pontefice al re di Francia; appresso al quale essendo trovati i brevi e le lettere credenziali, con tutto che per riverenza di chi lo mandava lo lasciasse subito passare, cominciò non mediocremente a dubitare che la speranza che gli era data, che l'esercito ecclesiastico unito seco passerebbe il fiume del Po, non fusse vana; tanto piú che, ne' medesimi dí, si era presentito che Lorenzo de' Medici avea mandato occultamente uno de' suoi al medesimo re. La qual cosa non era aliena dalla verità, perché Lorenzo, o per consiglio proprio o per comandamento del pontefice, avea mandato a scusarsi se contro a lui conduceva l'esercito, [stretto] dalla necessità che avea di ubbidire al papa; ma che in quello che potesse, senza provocarsi la indegnazione del zio e senza maculare l'onore proprio, farebbe ogni opera per sodisfargli, secondo che sempre era stato ed era piú che mai il suo desiderio.

                                                 Ma come Lorenzo fu arrivato a Piacenza, si cominciò il dí medesimo, tra il viceré e lui e gli uomini che intervenivano a' consigli loro, a disputare se fusse da passare unitamente il fiume del Po per congiugnersi co' svizzeri, adducendosi per ciascuno diverse ragioni. Allegavano quegli che confortavano al passare, niuna ragione dissuadere l'entrare in Lodi, dove quando fussino si difficulterebbe all'Alviano di unirsi con lo esercito franzese e a loro si darebbe facoltà di unirsi con i svizzeri, o andando verso Milano a trovargli o essi venendo verso loro: e se pure i franzesi si riducessino, come era fama volevano fare, o fussino già ridotti in sulla strada tra Lodi e Milano, lo avere alle spalle questi eserciti congiunti gli metterebbe in travaglio e pericolo; e anche forse non sarebbe difficile, benché con circuito maggiore, trovare modo di congiugnersi con i svizzeri. Essere questa deliberazione molto utile anzi necessaria alla impresa, e per levare a' svizzeri tutte le occasioni di nuove pratiche di accordo e per accrescere loro forze, delle quali contro a sí grosso esercito avevano di bisogno, e specialmente di cavalli de' quali mancavano; ma ricercarlo, oltre a questo, la fede e l'onore del pontefice e del re cattolico, che per la capitolazione erano obligati soccorrere lo stato di Milano, e che tante volte ne avevano data intenzione a' svizzeri, i quali trovandosi ingannati diventerebbono di amicissimi inimicissimi. Ricercare questo medesimo l'interesse degli stati propri, perché perdendo i svizzeri la giornata o facendo accordo col re di Francia, non restare in Italia forze da proibirgli che e' non corresse per tutto lo stato ecclesiastico insino a Roma e poi a Napoli. Allegavansi in contrario molte ragioni, e quella massime, non essere credibile che il re non avesse a quella ora mandato genti a Lodi; le quali quando vi si trovassino, sarebbe necessario ritirarsi con vergogna e forse non senza pericolo, potendo avere in uno tempo medesimo i franzesi alle spalle e i viniziani o alla fronte o al fianco, né si potendo senza tempo e senza qualche confusione ripassare il ponte. Il quale partito se il pericolo si comprasse con degno prezzo non essere forse da recusare, ma, quando bene entrassino in Lodi abbandonato, che frutto farebbe questo alla impresa? come potersi disegnare, stando tra Milano e Lodi uno esercito sí potente, o di andare a unirsi co' svizzeri o ch'i svizzeri andassino a unirsi con loro? Né essere forse sicuro consiglio rimettere nelle mani di questa gente temeraria e senza ragione tutte le forze del pontefice e del re cattolico, dalle quali dependeva la salute di tutti gli stati loro; perché si sapeva pure che una grande parte aveva fatto la pace col re di Francia, e che tra questi e gli altri che repugnavano erano molte contenzioni. Finalmente fu deliberato che il giorno prossimo tutti due gli eserciti, espediti, senza alcuna bagaglia, passassino il Po, lasciate bene guardate Parma e Piacenza per timore dello esercito viniziano; i cavalli leggieri del quale avevano, in quegli dí, scorso e predato per il paese. La quale [deliberazione], secondo che allora credettono molti, da niuna delle parti fu fatta sinceramente; pensando ciascuno, col simulare di volere passare, trasferire la colpa nell'altro senza mettere se stesso in pericolo: perché il viceré, insospettito per la andata di Cintio e sapendo quanto artificiosamente procedeva nelle sue cose il pontefice, si persuadeva la volontà sua essere che Lorenzo non procedesse piú oltre; e Lorenzo, considerando quanto malvolentieri il viceré metteva quello essercito in potestà della fortuna, faceva di altri quel giudicio medesimo che da altri era fatto di sé. Cominciorno dopo il mezzogiorno a passare per il ponte le genti spagnuole, dopo le quali doveano incontinente passare gli ecclesiastici; ma avendo per il sopravenire della notte differito necessariamente alla mattina seguente, non solamente non passorno ma il viceré ritornò con l'esercito di qua dal fiume, per la relazione di quattrocento cavalli  leggieri i quali, mandati parte dell'uno parte dell'altro esercito per sentire degli andamenti degli inimici, rapportorno che il dí dinanzi erano entrate in Lodi cento lancie de' franzesi: donde ritornati il viceré e Lorenzo agli alloggiamenti primi, l'Alviano andò coll'esercito suo a Lodi.

                                                 Il re, in questo tempo medesimo, andò da Marignano ad alloggiare a San Donato tre miglia appresso a Milano; e i svizzeri si ridussono tutti a Milano; tra i quali, essendo una parte aborrenti dalla guerra gli altri alieni dalla concordia, si facevano spessi consigli e molti tumulti. Finalmente, essendo congregati insieme, il cardinale sedunense, che ardentissimamente confortava il perseverare nella guerra, cominciò con caldissime parole a stimolargli che senza piú differire uscissino fuora il giorno medesimo ad assaltare il re di Francia, non avendo tanto innanzi agli occhi il numero de' cavalli e delle artiglierie degli inimici che perturbasse la memoria della ferocia de' svizzeri e delle vittorie avute contro a' franzesi.

                                                 - Dunque - disse Sedunense - ha la nazione nostra sostenuto tante fatiche, sottopostasi a tanti pericoli, sparso tanto sangue, per lasciare in uno dí solo tanta gloria acquistata, tanto nome, agli inimici stati vinti da noi? Non son questi quegli medesimi franzesi che accompagnati da noi hanno avute tante vittorie? abbandonati da noi sono sempre stati vinti da ciascuno? Non sono questi quegli medesimi franzesi che da piccola gente de' nostri furono l'anno passato rotti, con tanta gloria, a Novara? Non sono eglino quegli che spaventati dalla nostra virtú, confusi dalla loro grandissima viltà, hanno esaltato insino al cielo il nome degli elvezi, chiaro quando eravamo congiunti con loro, ma fatto molto piú chiaro poi che ci separammo da loro? Non avevano quegli che furono a Novara né cavalli né artiglierie, avevano la speranza propinqua del soccorso, e nondimeno, credendo a Mottino, ornamento e splendore degli elvezi, assaltatigli valorosamente a' loro alloggiamenti, andati a urtare le loro artiglierie, gli roppono, ammazzati tanti fanti tedeschi che nella uccisione loro straccorono l'armi e le braccia: e voi credete che ora ardischino di aspettare quarantamila svizzeri, esercito sí valoroso e sí potente che sarebbe bastante a combattere alla campagna con tutto il resto del mondo unito insieme? Fuggiranno, credetemi, alla sola fama della venuta nostra; non avendo avuto ardire di accostarsi a Milano per confidenza della loro virtú ma solo per la speranza delle vostre divisioni. Non gli sosterrà la persona o la presenza del re, perché, per timore di non mettere in pericolo o la vita o lo stato, sarà il primo a cercare di salvare sé e dare esempio agli altri di fare il medesimo. Se con questo esercito, cioè con le forze di tutta Elvezia, non ardirete di assaltargli, con quali forze vi rimarrà egli speranza di potere resistere loro? A che fine siamo noi scesi in Lombardia, a che fine venuti a Milano, se volevamo avere paura dello scontro degli inimici? Dove sarebbeno le magnifiche parole, le feroci minaccie usate tutto questo anno? quando ci vantavamo di volere di nuovo scendere in Borgogna, quando ci rallegravamo dello accordo del re di Inghilterra, della inclinazione del pontefice a collegarsi col re di Francia, riputando a gloria nostra quanti piú fussino uniti contro allo stato di Milano? Meglio era non avere avute questi anni sí onorate vittorie, non avere cacciato i franzesi d'Italia, essersi contenuti ne' termini della nostra antica fama, se poi tutti insieme, ingannando l'espettazione di tutti gli uomini, avevamo a procedere con tanta viltà. Hassi oggi a fare giudicio da tutto il mondo se della vittoria di Novara fu cagione o la nostra virtú o [la] fortuna: se mostreremo timore degli inimici sarà da tutti attribuita o a caso o a temerità, se useremo la medesima audacia, confesserà ciascuno essere stata virtú; e avendo, come senza dubbio aremo, il medesimo successo, saremo non solamente terrore della età presente ma in venerazione ancora de' posteri, dal giudicio e dalle laudi de' quali sarà il nome de' svizzeri anteposto al nome de' romani. Perché di loro non si legge che mai usassino una audacia tale, né che mai conseguissino vittoria alcuna con tanto valore, né che mai senza necessità eleggessino di combattere contro agli inimici con tanto disavvantaggio; e di noi si leggerà la battaglia fatta presso a Novara, dove con poca gente, senza artiglierie senza cavalli, mettemmo in fuga uno esercito poderoso e ordinato di tutte le provisioni e guidato da due famosi capitani, l'uno senza dubbio il primo di tutta Francia l'altro il primo di tutta Italia. Leggerassi la giornata fatta a San Donato, con le medesime difficoltà dalla parte nostra, contro alla persona d'uno re di Francia, contro a tanti fanti tedeschi: i quali quanto piú numero sono tanto piú sazieranno l'odio nostro, tanto maggiore facoltà ci daranno di spegnere in perpetuo la loro milizia, tanto piú si asterranno da volere temerariamente fare concorrenza nell'armi co' svizzeri. Non è certo, anzi per molte difficoltà pare impossibile, che il viceré e le genti della Chiesa si unischino con noi: però, a che proposito aspettargli? Né è necessaria la loro venuta, anzi ci debbe essere grato questo impedimento, perché la gloria sarà tutta nostra, saranno tutte nostre tante spoglie tante ricchezze che sono nello esercito inimico. Non volle Mottino che la gloria si comunicasse, non che a altri, a' nostri medesimi; e noi saremo sí vili, sí disprezzatori della nostra ferocia che, quando bene potessino venire a unirsi, volessimo aspettare di comunicare tanta laude tanto onore co' forestieri? Non ricerca la fama de' svizzeri, non ricerca lo stato delle cose che si usi piú dilazione o si facci piú consigli. Ora è necessario uscire fuora, ora ora è necessario di andare ad assaltare gli inimici. Hanno a consultare i timidi, che pensano non a opporsi a' pericoli ma a fuggirgli, ma a gente feroce e bellicosa come la vostra appartiene presentarsi allo inimico subito che si è avuto vista di lui. Però, con l'aiuto di Dio che con giusto odio perseguita la superbia de' franzesi, pigliate con la consueta animosità le vostre picche, date ne' vostri tamburi; andianne subito senza interporre una ora di tempo, andiamo a straccare l'armi nostre, a saziare il nostro odio col sangue di coloro che per la superbia loro vogliono vessare ognuno ma per la loro viltà restano sempre in preda di ciascuno.-

                                                 Incitati da questo parlare, prese subito furiosamente le loro armi, e come furono fuora della porta Romana messisi co' loro squadroni in ordinanza, ancor che non restasse molto del giorno, si avviano verso l'esercito franzese, con tanta allegrezza e con tanti gridi che chi non avesse saputo altro arebbe tenuto per certo che avessino conseguito qualche grandissima vittoria; i capitani stimolavano i soldati a camminare, i soldati gli ricordavano che a qualunque ora si accostassino allo alloggiamento degli inimici dessino subito il segno della battaglia; volere coprire il campo di corpi morti, volere quel giorno spegnere il nome de' fanti tedeschi, e di quegli massime che, pronosticandosi la morte, portavano per segno le bande nere. Con questa ferocia accostatisi agli alloggiamenti de' franzesi, non restando piú di due ore di quel dí, principiorono il fatto d'arme, assaltando con impeto incredibile le artiglierie e i ripari; col quale impeto, appena erano arrivati che avevano urtato e rotto le prime squadre e guadagnata una parte dell'artiglierie: ma facendosi loro incontro la cavalleria e una grande parte dello esercito, e il re medesimo cinto da uno valoroso squadrone di gentiluomini, essendo alquanto raffrenato tanto furore, si cominciò una ferocissima battaglia; la quale con vari eventi e con gravissimo danno delle genti d'arme franzesi, le quali furono piegate si continuò insino a quattro ore della notte, essendo già restati morti alcuni de' capitani franzesi, e il re medesimo percosso da molti colpi di picche. Quivi, non potendo piú né l'una né l'altra parte tenere per la stracchezza l'armi in mano, spiccatisi senza suono di trombe senza comandamento de' capitani, si messono i svizzeri ad alloggiare nel campo medesimo, non offendendo piú l'uno l'altro ma aspettando, come con tacita tregua, il prossimo sole; ma essendo stato tanto felice il primo assalto de' svizzeri, a' quali il cardinale fece, come furno riposati, condurre vettovaglie da Milano, che per tutta Italia corsono i cavallari a significare i svizzeri avere messo in fuga l'esercito degli inimici.

                                                 Ma non consumò inutilmente il re quel che avanzava della notte; perché, conoscendo la grandezza del pericolo, attese a fare ritirare a' luoghi opportuni e a l'ordine debito l'artiglierie, a fare rimettere in ordinanza le battaglie de' lanzchenech e de' guasconi, e la cavalleria ai suoi squadroni. Sopravenne il dí: al principio del quale i svizzeri, disprezzatori non che dello esercito franzese ma di tutta la milizia d'Italia unita insieme, assaltorono con l'impeto medesimo e molto temerariamente gli inimici; da' quali raccolti valorosamente, ma con piú prudenza e maggiore ordine, erano percossi parte dalle artiglierie parte dal saettume de' guasconi, assaltati ancora da i cavalli, in modo che erano ammazzati da fronte e dai lati. E sopravenne, in sul levare del sole, l'Alviano; il quale, chiamato la notte dal re, messosi subito a cammino co' cavalli leggieri e con una parte piú espedita dello esercito, e giunto quando era piú stretto e piú feroce il combattere e le cose ridotte in maggiore travaglio e pericolo, seguitandolo dietro di mano in mano il resto dello esercito, assaltò con grande impeto i svizzeri alle spalle. I quali, benché continuamente combattessino con grandissima audacia e valore, nondimeno, vedendo sí gagliarda resistenza e sopragiugnere l'esercito viniziano, disperati potere ottenere la vittoria, essendo già stato piú ore sopra la terra il sole, sonorono a raccolta; e postesi in sulle spalle l'artiglierie che aveano condotte seco voltorno gli squadroni, ritenendo continuamente la solita ordinanza e camminando con lento passo verso Milano: e con tanto stupore de' franzesi che, di tutto l'esercito, niuno né de' fanti né de' cavalli ebbe ardire di seguitargli. Solo due compagnie delle loro, rifuggitesi in una villa, vi furono dentro abbruciate da i cavalli leggieri de' viniziani. Il rimanente dello esercito, intero nella sua ordinanza e spirando la medesima ferocia nel volto e negli occhi, ritornò in Milano; lasciati per le fosse, secondo dicono alcuni, quindici pezzi di artiglieria grossa, che avevano tolto loro nel primo scontro, per non avere comodità di condurla.

                                                 Affermava il consentimento comune di tutti gli uomini non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia piú feroce e di spavento maggiore; perché, per l'impeto col quale cominciorono l'assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte, confusi gli ordini di tutto l'esercito e combattendosi alla mescolata senza imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla fortuna; il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute piú dalla virtú propria e dal caso che dall'aiuto de' suoi; da' quali molte volte, per la confusione della battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato. Di maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia non d'uomini ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Né si dubitava che se non fusse stato l'aiuto delle artiglierie era la vittoria de' svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro a' ripari de' franzesi, tolto la piú parte delle artiglierie, avevano sempre acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta dell'Alviano, che sopravenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette animo a i franzesi e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui tutto l'esercito viniziano. Il numero de' morti, se mai fu incerto in battaglia alcuna, come quasi sempre è in tutte, fu in questa incertissimo; variando assai gli uomini nel parlarne, chi per passione chi per errore. Affermorono alcuni essere morti de' svizzeri piú di quattordicimila; altri dicevano di dieci, i piú moderati di ottomila, né mancò chi volesse ristrignergli a tremila; capi tutti ignobili e di nomi oscuri. Ma de' franzesi morirno, nella battaglia della notte, Francesco fratello del duca di Borbone, Imbricort, Sanserro, il principe di Talamonte figliuolo del la Tramoglia, Boisí nipote già del cardinale di Roano, il conte di Sasart, Catelart di Savoia, Busichio e Moia che portava la insegna de' gentiluomini del re; tutte persone chiare per nobiltà e grandezza di stati o per avere gradi onorati nello esercito. E del numero de' morti di loro si parlò, per le medesime cagioni, variamente; affermando alcuni esserne morti seimila, altri che non piú di tremila: tra' quali morirno alcuni capitani de' fanti tedeschi.

                                                 Ritirati che furono i svizzeri in Milano, essendo in grandissima discordia o di convenire col re di Francia o di fermarsi alla difesa di Milano, quegli capitani i quali prima avevano trattata la concordia, cercando cagione meno inonesta di partirsi, dimandorono danari a Massimiliano Sforza, il quale era manifestissimo essere impotente a darne; e dipoi tutti i fanti, confortandogli a questo Rostio capitano generale, si partirono il dí seguente per andarsene per la via di Como al paese loro, data speranza al duca di ritornare presto a soccorrere il castello, nel quale rimanevano mille cinquecento svizzeri e cinquecento fanti italiani. Con questa speranza Massimiliano Sforza, accompagnato da Giovanni da Gonzaga e da Ieronimo Morone e da alcuni altri gentiluomini milanesi, si rinchiuse nel castello, avendo consentito, benché non senza difficoltà, che Francesco duca di Bari suo fratello se ne andasse in Germania; e il cardinale sedunense andò a Cesare per sollecitare il soccorso, data la fede di ritornare innanzi passassino molti dí; e la città di Milano, abbandonata d'ogni presidio, si dette al re di Francia, convenuta di pagargli grandissima quantità di danari: il quale recusò di entrarvi mentre si teneva per gli inimici il castello, come se a re sia indegno entrare in una terra che non sia tutta in potestà sua. Fece il re, nel luogo nel quale aveva acquistato la vittoria, celebrare tre dí solenni messe, la prima per ringraziare Dio della vittoria, l'altra per supplicare per la salute de' morti nella battaglia, la terza per pregarlo che concedesse la pace; e nel luogo medesimo fece a perpetua memoria edificare una cappella. Seguitorno la fortuna della vittoria tutte le terre e le fortezze del ducato di Milano, eccetto il castello di Cremona e quello di Milano: alla espugnazione del quale essendo preposto Pietro Navarra, affermava (non senza ammirazione di tutti, essendo il castello fortissimo, abbondante di tutte le provisioni necessarie a difendersi e a tenersi, e dove erano dentro piú di dumila uomini da guerra) di espugnarlo in minore tempo d'uno mese.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.16

                                                  

                                                 Accordi fra il pontefice ed il re di Francia. I francesi contro il castello di Milano. Accordi fra il re di Francia e Massimiliano Sforza. Massimiliano Sforza in Francia.

                                                  

                                                 Avuta la nuova della vittoria de' franzesi, il viceré, soprastato pochi dí nel medesimo alloggiamento piú per necessità che per volontà, potendo difficilmente per carestia di danari muovere l'esercito, ricevutane finalmente certa quantità, e in prestanza da Lorenzo de' Medici seimila ducati, si ritirò a Pontenuro, con intenzione di andarsene nel reame di Napoli. Perché, se bene il pontefice, inteso i casi successi, aveva nel principio rappresentato agli uomini la costanza del suo antecessore, confortando gli oratori de' confederati a volere mostrare il volto alla fortuna e sforzarsi di tenere in buona disposizione i svizzeri e, variando loro, che in luogo suo si conducessino fanti tedeschi, nondimeno, parendogli le provisioni non potere essere se non tarde a' pericoli suoi e che il primo percosso aveva a essere egli, perché, quando bene la riverenza della Chiesa facesse che il re si astenesse da molestare lo stato ecclesiastico, non credeva bastasse a farlo ritenere da assaltare Parma e Piacenza, come membri attenenti al ducato di Milano, e da molestare lo stato di Firenze, nel quale cessava ogni rispetto, ed era offesa sí stimata dal pontefice quanto se offendesse lo stato della Chiesa. Né era vano il suo timore, perché già il re aveva fatto ordinare il ponte in sul Po presso a Pavia per mandare a pigliare Parma e Piacenza; e prese quelle città, quando il pontefice stesse renitente all'amicizia sua, mandare per la via di Pontriemoli a fare pruova di cacciare i Medici dello stato di Firenze. Ma già, per commissione sua, il duca di Savoia e il vescovo di Tricarico suo nunzio trattavano col re; il quale, sospettoso ancora di nuove unioni contro a sé e inclinato alla reverenza della sedia apostolica per lo spavento che era in tutto il regno di Francia delle persecuzioni avute da Giulio, era molto desideroso dello accordo. Però fu prestamente conchiuso tra loro confederazione a difesa degli stati d'Italia, e particolarmente: che il re pigliasse la protezione della persona del pontefice e dello stato della Chiesa, di Giuliano e di Lorenzo de' Medici e dello stato di Firenze; desse stato in Francia e pensione a Giuliano, pensione a Lorenzo e la condotta di cinquanta lancie; consentisse che il pontefice desse il passo per lo stato della Chiesa al viceré di tornare con l'esercito nel regno di Napoli; fusse tenuto il pontefice levare di Verona e dallo aiuto di Cesare contro a' viniziani le genti sue; restituire al re di Francia le città di Parma e di Piacenza, ricevendo in ricompenso dal re che il ducato di Milano fusse tenuto a levare per uso suo i sali da Cervia, che si calcolava essere cosa molto utile per la Chiesa, e già il pontefice nella confederazione fatta col duca di Milano aveva convenuto seco questo medesimo; che si facesse compromesso nel duca di Savoia se i fiorentini avevano contrafatto alla confederazione che avevano fatto col re Luigi, e che avendo contrafatto avesse a dichiarare la pena, il che il re diceva dimandare piú per onore suo che per altra cagione. E fatta la conclusione, Tricarico andò subito in poste a Roma per persuadere al pontefice la ratificazione; e Lorenzo, acciò che il viceré avesse cagione di partirsi piú presto, ritirò a Parma e Reggio le genti che erano a Piacenza, ed egli andò al re per farsegli grato e persuadergli, secondo gli ammunimenti artificiosi del zio, di volere in ogni evento delle cose dipendere da lui. Non fu senza difficoltà indurre il pontefice alla ratificazione, perché gli era molestissimo il perdere Parma e Piacenza, e arebbe volentieri aspettato di intendere prima quel che deliberassino i svizzeri: i quali, convocata la dieta a Zurich, cantone principale di tutti gli elvezi e inimicissimo a' franzesi, trattavano di soccorrere il castello di Milano, nonostante che avessino abbandonato le valli e le terre di Bellinzone e di Lugarno ma non le fortezze, benché il re pagati seimila scudi al castellano ottenesse quella di Lugarno; ma non abbandonorono già i grigioni Chiavenna. Nondimeno, dimostrandogli Tricarico essere pericolo che il re non assaltasse senza dilazione Parma e Piacenza e mandasse gente in Toscana, e magnificando il danno che i svizzeri avevano ricevuto nella giornata, fu contento ratificare; con modificazione però di non avere egli o suoi agenti a consegnare Parma e Piacenza, ma lasciandole vacue di sue genti e di suoi officiali, permettere che il re se le pigliasse; che il pontefice non fusse tenuto a levare le genti da Verona per non fare questa ingiuria a Cesare, ma bene prometteva da parte di levarle presto con qualche comoda occasione; e che i fiorentini fussino assoluti dalla contrafazione pretensa della lega. Fu anche in questo accordo che il re non pigliasse protezione di alcuno feudatario o suddito dello stato della Chiesa, né solo [non] vietare al pontefice come superiore loro il procedere contro a essi e il gastigargli, ma eziandio obligandosi, quando ne fusse ricercato, a dargli aiuto. Trattossi ancora che il pontefice e il re si abboccassino in qualche luogo comodo insieme, cosa proposta dal re ma desiderata dall'uno e dall'altro di loro: dal re, per stabilire meglio questa amicizia, per assicurare le cose degli amici che aveva in Italia, e perché sperava, con la presenza sua e con offerire stati grossi al fratello del pontefice e al nipote, ottenere di potere con suo consentimento assaltare, come ardentissimamente desiderava, il reame di Napoli; dal pontefice, per intrattenere con questo officio, o con la maniera sua efficacissima a conciliarsi gli animi degli uomini, il re mentre che era in tanta prosperità, nonostante che da molti fusse dannata tale deliberazione come indegna della maestà del pontificato, e come se convenisse che il re, volendo abboccarsi seco, andasse a trovarlo a Roma. Alla quale cosa egli affermava condiscendere per desiderio di indurre il re a non molestare il regno di Napoli durante la vita del re cattolico; la quale, per essere egli, già piú di uno anno, caduto in mala disposizione del corpo, era comune opinione avesse a essere breve.

                                                 Travagliavasi in questo mezzo Pietro Navarra intorno al castello di Milano; e insignoritosi di una casamatta del fosso del castello per fianco verso porta Comasina, e accostatosi con gatti e travate al fosso e alla muraglia della fortezza, attendeva a fare la mina in quel luogo: e levate le difese ne cominciò poi piú altre; e tagliò con gli scarpelli, da uno fianco della fortezza, grande pezzo di muraglia e messela in su i puntelli, per farla cadere nel tempo medesimo che si desse fuoco alle mine. Le quali cose, benché, secondo il giudicio di molti, non bastassino a fargli ottenere il castello se non con molta lunghezza e difficoltà, e già s'avesse certa notizia i svizzeri prepararsi, secondo la determinazione fatta nella dieta di Zurich, per soccorrerlo; nondimeno, essendo nata pratica tra Giovanni da Gonzaga condottiere del duca di Milano, che era in castello, e il duca di Borbone parente suo, e dipoi intervenendo nel trattare col duca di Borbone Ieronimo Morone e due capitani de' svizzeri che erano nel castello, si conchiuse, con grande ammirazione di tutti, il quarto dí di ottobre; con imputazione grandissima di Ieronimo Morone, che o per troppa timidità o per poca fede avesse persuaso a questo accordo il duca con la autorità sua, che appresso a lui era grandissima; il quale carico egli scusava con allegare essere nata diffidenza tra i fanti svizzeri e gli italiani. Contenne la concordia: che Massimiliano Sforza consegnasse subito al re di Francia i castelli di Milano e di Cremona; cedessegli tutte le ragioni che aveva in quello stato; ricevesse dal re certa somma di danari per pagare i debiti suoi, e andasse in Francia, dove il re gli desse ciascuno anno pensione di trentamila ducati o operasse che fusse fatto cardinale con pari entrata; perdonasse il re a Galeazzo Visconte e a certi altri gentiluomini del ducato di Milano, che si erano affaticati molto per Massimiliano; desse a' svizzeri che erano nel castello scudi seimila; confermasse a Giovanni da Gonzaga i beni che per donazione del duca aveva nello stato di Milano, e gli desse certa pensione; confermasse similmente al Morone i beni propri e i donati dal duca e gli uffici che aveva, e lo facesse maestro delle richieste della corte di Francia. Il quale accordo fatto, Massimiliano, altrimenti il moro per il nome paterno, uscito del castello, se ne andò in Francia; dicendo essere uscito della servitú de' svizzeri, degli strazi di Cesare e degli inganni degli spagnuoli: e nondimeno, lodando ciascuno piú la fortuna di averlo presto deposto di tanto grado che di avere prima esaltato uno uomo che, per la incapacità sua e per avere pensieri estravaganti e costumi sordidissimi, era indegno di ogni grandezza.

                                                  

                                                 Lib.12, cap.17

                                                  

                                                 Richieste d'aiuti dei veneziani al re di Francia. Morte dell'Alviano e onori resigli dai soldati; giudizio dell'autore. Successi dei veneziani. Veneziani e francesi contro Brescia; insuccesso dell'impresa.

                                                  

                                                 Ma innanzi alla dedizione del castello di Milano vennono al re quattro imbasciadori, de' principali e piú onorati del senato viniziano, Antonio Grimanno Domenico Trivisano Giorgio Cornero e Andrea Gritti, a congratularsi della vittoria, e a ricercarlo che, come era tenuto per i capitoli della confederazione, gli aiutasse alla recuperazione delle terre loro: cosa che non aveva altro ostacolo che delle forze di Cesare, e di quelle genti che con Marcantonio Colonna erano per il pontefice in Verona; perché il viceré, poi che levato del piacentino ebbe soggiornato alquanto nel modenese, per aspettare se il papa ratificava lo accordo fatto col re di Francia, intesa la ratificazione, se ne era andato per la Romagna a Napoli. Deputò il re prontamente in aiuto loro il bastardo di Savoia e Teodoro da Triulzio con settecento lancie e settemila fanti tedeschi: i quali mentre differiscono a partirsi, o per aspettare quello che succedeva del castello di Milano o perché il re volesse mandare le genti medesime alla espugnazione del castello di Cremona, l'Alviano, al quale i viniziani non avevano consentito che seguitasse il viceré perché desideravano di recuperare, se era possibile senza aiuto d'altri, Brescia e Verona, andò con l'esercito verso Brescia. Ma essendo entrati di nuovo in quella città mille fanti tedeschi, l'Alviano, essendosi molti dí innanzi Bergamo arrenduto a' viniziani, si risolveva a andare prima alla espugnazione di Verona perché era manco fortificata, per maggiore comodità delle vettovaglie e perché, presa Verona, Brescia, restando sola e in sito da potere avere difficilmente soccorso di Germania, era facile a pigliare; ma si tardava a dare principio alla impresa, per timore che il viceré e le genti del pontefice che erano in reggiano e modanese non passassino il Po a Ostia per soccorrere Verona. Del quale sospetto poiché per la partita del viceré si restò sicuro, dava impedimento la infermità dell'Alviano; il quale, ammalato a Ghedi in bresciano, minore di sessanta anni, passò ne' primi dí di ottobre, con grandissimo dispiacere de' viniziani, all'altra vita; ma con molto maggiore dispiacere de' suoi soldati, che non si potendo saziare della memoria sua tennono il corpo suo venticinque dí nello esercito, conducendolo, quando si camminava, con grandissima pompa. E volendo condurlo a Vinegia, non comportò Teodoro Triulzio che per potere passare per veronese si dimandasse, come molti ricordavano, salvocondotto a Marcantonio Colonna; dicendo non essere conveniente che chi vivo non aveva mai avuto paura degli inimici, morto facesse segno di temergli. A Vinegia fu, per decreto publico, seppellito con grandissimo onore nella chiesa di Santo Stefano, dove ancora oggi si vede il suo sepolcro; e la orazione funebre fece Andrea Novagiero gentil uomo viniziano, giovane di molta eloquenza. Capitano, come ciascuno confessava, di grande ardire ed esecutore con somma celerità delle cose deliberate, ma che molte volte, o per sua mala fortuna o, come molti dicevano, per essere di consiglio precipitoso, fu superato dagli inimici: anzi, forse, dove fu principale degli eserciti non ottenne mai vittoria alcuna.

                                                 Per la morte dell'Alviano, il re, ricercato da' viniziani, concedette a governo dello esercito loro il Triulzio; desiderato per la sua perizia e riputazione nella disciplina militare e perché, per la inclinazione comune della fazione guelfa, era sempre stato intratenimento e benivolenza tra lui e quella republica. Il quale mentre che andava allo esercito, le genti de viniziani espugnorono Peschiera; ma innanzi l'espugnassino roppono alcuni cavalli e trecento fanti spagnuoli che andavano per soccorrerla, e di poi ricuperorno Asola e Lunà, abbandonate dal marchese di Mantova.

                                                 Alla venuta del Triulzio si pose, per gli stimoli del senato, il campo a Brescia; avvenga che l'espugnazione senza l'esercito franzese paresse molto difficile, perché la terra era forte e dentro mille fanti tra tedeschi e spagnuoli, stati costretti a partirsi numero grandissimo de' guelfi e imminente già la vernata, e il tempo dimostrarsi molto sottoposto alle pioggie. Né ingannò l'evento della cosa il giudicio del capitano: perché avendo cominciato a battere le mura con le artiglierie, piantate in sul fosso dalla parte onde esce la Garzetta, quegli di dentro che spesso uscivano fuora, spinti una volta mille cinquecento fanti tra tedeschi e spagnuoli ad assaltare la guardia della artiglieria, alla quale erano deputati cento uomini d'arme e seimila fanti, e battendogli anche con la scoppietteria, distesa per questo in su le mura della terra, gli messeno facilmente tutti in fuga, ancora che Giampaolo Manfrone con trenta uomini d'arme sostenesse alquanto lo impeto loro; ammazzorono circa dugento fanti, abbruciorno la polvere e condusseno in Brescia dieci pezzi d'artiglieria. Per il quale disordine parve al Triulzio di allargarsi con lo esercito per aspettare la venuta de' franzesi, e si ritirò a Cuccai lontano dodici miglia da Brescia; attendendo intratanto i viniziani a provedere di nuova artiglieria e munizione. Venuti i franzesi, si ritornò alla espugnazione di quella città, battendo in due diversi luoghi, dalla porta delle Pile verso il castello e dalla porta di San Gianni; alloggiando da una parte l'esercito franzese, nel quale, licenziati i fanti tedeschi, perché recusavano andare contro alle città possedute da Cesare, era venuto Pietro Navarra con [cinquemila] fanti guasconi e franzesi. Dall'altra parte era il Triulzio co' soldati viniziani; sopra il quale rimase quasi tutta la somma delle cose, perché il bastardo di Savoia ammalato era partito dell'esercito. Battuta la muraglia, non si dette l'assalto perché quegli di dentro aveano fatto molti ripari, e con grandissima diligenza e valore provedevano tutto quel che era necessario alla difesa: onde Pietro Navarra, ricorrendo al rimedio consueto, cominciò a dare opera alle mine e insieme a tagliare le mura co' picconi. Nel quale tempo Marcantonio Colonna, uscito di Verona con seicento cavalli e cinquecento fanti, e avendo incontrato in su la campagna Giampaolo Manfrone e Marcantonio Bua, che con quattrocento uomini d'arme e quattrocento cavalli leggieri erano a guardia di Valeggio, gli roppe; nel quale incontro Giulio figliuolo di Giampaolo, mortogli mentre combatteva il cavallo sotto, venne in potestà degli inimici, e il padre fuggí a Goito: occuporno di poi Lignago, ove presono alcuni gentiluomini viniziani. Finalmente, mostrandosi ogni dí piú dura e difficile la oppugnazione, perché le mine ordinate da Pietro Navarra non riuscivano alle speranze date da lui, e intendendosi venire di Germania ottomila fanti, i quali i capitani che erano intorno a Brescia non si confidavano di impedire, furno contenti i viniziani, per ricoprire in qualche parte l'ignominia del ritirarsi, convenire con quegli che erano in Brescia, che se infra trenta dí non fussino soccorsi abbandonerebbono la città, uscendone, cosí permettevano i viniziani, con le bandiere spiegate con l'artiglierie e con tutte le cose loro: la quale promessa, tale era la certezza della venuta del soccorso, sapeva ciascuno dovere essere vana, ma alla gente di Brescia non era inutile il liberarsi in questo mezzo dalle molestie. Messono dipoi i viniziani in Bré, castello de' conti di Lodrone, ottomila fanti: ma come questi sentirno i fanti tedeschi, a' quali si era arrenduto il castello di Amfo, venire innanzi, si ritirorno vilmente all'esercito. Né fu maggiore animo ne' capitani: i quali, temendo in un tempo medesimo non essere assaltati da questi e da quegli che erano in Brescia e da Marcantonio co' soldati che erano a Verona, si ritirorno a Ghedi; ove prima, già certi di questo accidente, aveano mandate l'artiglierie maggiori, e quasi tutti i carriaggi. E i tedeschi, entrati in Verona senza contrasto, proveduta che l'ebbono di vettovaglie e accresciuto il numero de' difensori, se ne ritornorono in Germania.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.18

                                                  

                                                 Incontro del pontefice e del re di Francia a Bologna e questioni trattate. Ritorno del re in Francia; suoi accordi con gli svizzeri. Mutamento di governo in Siena.

                                                  

                                                 Aveano in questo mezzo stabilito il pontefice e il re di convenire insieme a Bologna; avendo il re accettato questo luogo, piú che Firenze, per non si allontanare tanto dal ducato di Milano, trattandosi massimamente del continuo per il duca di Savoia la concordia tra i svizzeri e lui; e perché, secondo diceva, sarebbe necessitato, passando in Toscana, menare seco molti soldati; e perché conveniva all'onore suo non entrare con minore pompa in Firenze che già vi fusse entrato il re Carlo, la quale per ordinare si interporrebbe dilazione di qualche dí, la quale al re era grave, e per altri rispetti; e perché tanto piú sarebbe stato necessitato a ritenere tutto l'esercito, del quale, ancora che la spesa fusse gravissima, non aveva insino a quel dí né intendeva, mentre era in Italia, licenziare parte alcuna. Entrò adunque, l'ottavo dí di dicembre, il pontefice in Bologna; e due dí appresso vi entrò il re, il quale erano andati a ricevere a' confini del reggiano due legati apostolici, il cardinale dal Fiesco e quello de' Medici. Entrò senza gente d'arme né con la corte molto piena; e introdotto, secondo l'uso, nel concistorio publico innanzi al pontefice, egli medesimo, parlando in nome suo il gran cancelliere, offerse la ubbidienza la quale prima non aveva prestata. Stettero dipoi tre dí insieme, alloggiati nel palagio medesimo, facendo l'uno verso l'altro segni grandissimi di benivolenza e di amore. Nel qual tempo, oltre al riconfermare con le parole e con le promesse le già fatte obligazioni, trattorono insieme molte cose del regno di Napoli; il quale non essendo allora il re ordinato ad assaltare, si contentò della speranza datagli molto efficacemente dal pontefice di essergli favorevole a quella impresa, qualunque volta sopravenisse la morte del re d'Aragona, la quale per giudicio comune era propinqua, o veramente fusse finita la confederazione che aveva seco, che durava ancora sedici mesi. Intercedette ancora il re per la restituzione di Modona e di Reggio al duca di Ferrara, e il pontefice promesse di restituirle pagandogli il duca i quarantamila ducati i quali il papa aveva pagati per Modena a Cesare, e oltre a questi certa quantità di danari per spese fatte nell'una e l'altra città. Intercedette ancora il re per Francesco Maria duca di Urbino; il quale, essendo soldato della Chiesa con dugento uomini d'arme e dovendo andare con Giuliano de' Medici all'esercito, quando poi per la infermità sua vi fu proposto Lorenzo, non solamente aveva ricusato di andarvi, allegando che quel che contro alla sua degnità avea consentito alla lunga amicizia tenuta con Giuliano, di andare come semplice condottiere e sottoposto alla autorità di altri nell'esercito della Chiesa, nel quale era stato tante volte capitano generale superiore a tutti, non voleva concedere a Lorenzo; ma oltre a questo, avendo promesso di mandare le genti della sua condotta le rivocò mentre erano nel cammino, perché già secretamente avea convenuto o trattava di convenire col re di Francia, e dopo la vittoria del re non aveva cessato per mezzo d'uomini propri concitarlo quanto potette contro al pontefice. Il quale, ricordevole di queste ingiurie, e già pensando di attribuire alla famiglia propria quel ducato, dinegò al re la sua domanda; dimostrandogli con dolcissime parole quanta difficoltà farebbe alle cose della Chiesa il dare, con esempio cosí pernicioso, ardire a' sudditi di ribellarsi: alle quali ragioni e alla volontà del papa cedette pazientemente il re; con tutto che per l'onore proprio avesse desiderato di salvare chi per essersi aderito a lui era caduto in pericolo, e che al medesimo lo confortassino molti del suo consiglio e della corte, ricordando quanto fusse stata imprudente la deliberazione del re passato d'avere permesso al Valentino opprimere i signori piccoli di Italia, per il che era salito in tanta grandezza che se piú lungamente fusse vivuto il padre Alessandro arebbe senza dubbio nociuto molto alle cose sue. Promesse il pontefice al re dargli facoltà di riscuotere per uno anno la decima parte delle entrate delle chiese del reame di Francia. Convennero ancora che il re avesse la nominazione de' benefici che prima apparteneva a' collegi e a' capitoli delle chiese, cosa molto a proposito di quegli re, avendo facoltà di distribuire ad arbitrio suo tanti ricchissimi benefici; e da altra parte, che le annate delle chiese di Francia si pagassino in futuro al pontefice secondo il vero valore e non secondo le tasse antiche, le quali erano molto minori: e in questo rimase decetto il pontefice; perché avendosi, contro a coloro che occultavano il vero valore, a fare l'esecuzione e deputare i commissari nel regno di Francia, niuno voleva provare niuno eseguire contro agli impetratori, di maniera che ciascuno continuò di spedire secondo le tasse vecchie. Promesse ancora il re di non pigliare in protezione alcuna delle città di Toscana; benché non molto poi, facendo instanza che gli consentisse di accettare la protezione de' lucchesi i quali gli offerivano venticinquemila ducati, e allegando esserne tenuto per le obligazioni dello antecessore, il pontefice, recusando di concedergliene, gli promesse di non dare loro molestia alcuna. Deliberorno oltre a queste cose mandare Egidio generale de' frati di Santo Agostino, ed eccellentissimo nelle predicazioni, a Cesare, in nome del pontefice, per disporlo a consentire a' viniziani, con ricompenso di danari, Brescia e Verona. Le quali cose espedite, ma non per scrittura (eccetto quello che apparteneva alla nominazione de' benefici e al pagamento delle annate secondo il vero valore), il pontefice, in grazia del re e per onorare tanto convento, pronunziò cardinale Adriano di Boisí fratello del gran maestro di Francia, che nelle cose del governo teneva il primo luogo appresso al re. Da questo colloquio partí il re molto contento nell'animo, e con grande speranza della benivolenza del pontefice: il quale dimostrava copiosamente il medesimo ma dentro sentiva altrimenti; perché gli era molesto come prima che 'l ducato di Milano fusse posseduto da lui, molestissimo avere rilasciato Piacenza e Parma, parimente molesto il restituire al duca di Ferrara Modona e Reggio. Benché questo, non molto poi, tornò vano: perché avendo il pontefice in Firenze, ove dopo la partita da Bologna stette circa uno mese, ricevute dal duca le promesse de' danari che s'aveano a pagare subito che fusse entrato in possessione, ed essendo di comune consentimento ordinate le scritture degli instrumenti che tra loro s'aveano a fare, il pontefice, non negando ma interponendo varie scuse e dilazioni, e sempre promettendo, ricusò di dargli perfezione.

                                                 Ritornato il re a Milano licenziò subito l'esercito, riservate alla guardia di quello stato [settecento] lancie e seimila fanti tedeschi e quattromila franzesi, di quella sorte che da loro sono chiamati venturieri; egli con grandissima celerità, ne' primi dí dell'anno mille cinquecento sedici, ritornò in Francia, lasciato luogotenente suo Carlo duca di Borbone: parendogli avere stabilite in Italia le cose sue, per la confederazione contratta col pontefice, e perché in quegli dí medesimi avea convenuto co' svizzeri. I quali, benché il re di Inghilterra [gli] stimolasse a muovere di nuovo l'armi contro al re, rinnovorno seco la confederazione, obligandosi a dare sempre in Italia e fuori, per difesa e per offesa contro a ciascuno, col nome e con le bandiere publiche, a' suoi stipendi qualunque numero di fanti dimandasse; eccettuando solamente dall'offesa il pontefice, l'imperio e Cesare: e da altra parte il re riconfermò loro le pensioni antiche, promesse pagare in certi tempi i quattrocentomila ducati convenuti a Digiuno, e trecentomila se gli restituivano le terre e le valli appartenenti al ducato di Milano. Il che ricusando di fare e di ratificare la concordia i cinque cantoni che le possedevano, cominciò il re a pagare gli altri otto la rata de' denari appartenente a loro; i quali l'accettorno, ma con espressa condizione di non essere tenuti di andare a gli stipendi suoi contro a' fanti de' cinque cantoni.

                                                 Nel principio dell'anno medesimo il vescovo de' Petrucci, antico familiare del pontefice, coll'aiuto suo e de' fiorentini cacciato di Siena Borghese figliuolo di Pandolfo Petrucci cugino suo, in mano del quale era il governo, arrogò a sé medesima autorità: movendosi il pontefice perché quella città, posta tra lo stato della Chiesa e de' fiorentini, fusse governata da uomo confidente di sé; e forse molto piú perché sperasse, quando fusse propizia la opportunità de' tempi, potere con volontà del vescovo medesimo sottoporla o al fratello o al nipote.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.19

                                                  

                                                 Morte del re d'Aragona; giudizio dell'autore. Morte del gran capitano. Aspirazione del re di Francia alla conquista del regno di Napoli e sue speranze. Liberazione di Prospero Colonna dalla prigionia.

                                                  

                                                 Rimasono in Italia accese le cose tra Cesare e i viniziani, desiderosi di ricuperare, coll'aiuto del re di Francia, Brescia e Verona: l'altre cose parevano assai quiete. Ma presto cominciorno ad apparire princípi di nuovi movimenti, che si suscitavano per opera del re di Aragona; il quale, temendo al regno di Napoli per la grandezza del re di Francia, trattava con Cesare e col re di Inghilterra che di nuovo si movessino l'armi contro a lui: il che non solamente non era stato difficile persuadere a Cesare, desideroso sempre di cose nuove, e il quale da se stesso difficilmente poteva conservare le terre tolte a viniziani; ma ancora il re di Inghilterra, potendo meno in lui la memoria dell'avere il suocero violatogli le promesse che la emulazione e l'odio presente contro al re di Francia, vi assentiva. Stimolavalo oltre a questo il desiderio che il re di Scozia pupillo fusse governato per uomini o proposti o dependenti da lui. Le quali cose si sarebbono tentate con maggiore consiglio e con maggiori forze se, mentre si trattavano, non fusse succeduta la morte del re d'Aragona; il quale, afflitto da lunga indisposizione, morí del mese di [gennaio], mentre andava colla corte a Sibilia, in Madrigalegio, villa ignobilissima. Re di eccellentissimo consiglio e virtú, e nel quale, se fusse stato costante nelle promesse, non potresti facilmente riprendere cosa alcuna; perché la tenacità dello spendere, della quale era calunniato, dimostrò facilmente falsa la morte sua, conciossiaché avendo regnato [quarantadue] anni non lasciò danari accumulati. Ma accade quasi sempre, per il giudicio corrotto degli uomini, che ne' re è piú lodata la prodigalità, benché a quella sia annessa la rapacità, che la parsimonia congiunta con la astinenza della roba di altri. Alla virtú rara di questo re si aggiunse la felicità rarissima, perpetua, se tu levi la morte dell'unico figliuolo maschio, per tutta la vita sua: perché i casi delle femmine e del genero furno cagione che insino alla morte si conservasse la grandezza; e la necessità di partirsi, dopo la morte della moglie, di Castiglia fu piú tosto giuoco che percossa della fortuna. Tutte l'altre cose furno felicissime. Di secondogenito del re di Aragona, morto il fratello maggiore, [ottenne quel reame], pervenne, per mezzo del matrimonio contratto con Isabella, al regno di Castiglia; scacciò vittoriosamente gli avversari che competevano al medesimo reame; recuperò poi il regno di Granata, posseduto dagli inimici della nostra fede poco meno di ottocento anni; aggiunse allo imperio suo il regno di Napoli, quello di Navarra, Orano e molti luoghi importanti de' liti di Africa: superiore sempre e quasi domatore di tutti gli inimici suoi. E, ove manifestamente apparí congiunta la fortuna con la industria, coprí quasi tutte le sue cupidità sotto colore di onesto zelo della religione e di santa intenzione al bene comune.

                                                 Morí, circa a uno mese innanzi alla morte sua, il gran capitano, assente dalla corte e male sodisfatto di lui: e nondimeno il re, per la memoria della sua virtú, aveva voluto che da sé e da tutto il regno gli fussino fatti onori insoliti a farsi in Spagna ad alcuno, eccetto che nella morte de' re; con grandissima approbazione di tutti i popoli, a' quali il nome del gran capitano per la sua grandissima liberalità era gratissimo e, per l'opinione della prudenza e che nella scienza militare trapassasse il valore di tutti i capitani de' tempi suoi, era in somma venerazione.

                                                 Accese la morte del re cattolico l'animo del re di Francia alla impresa di Napoli, alla quale pensava mandare subito il duca di Borbone con ottocento lancie e diecimila fanti; persuadendosi, per essere il regno sollevato per la morte del re e male ordinato alla difesa, né potendo l'arciduca essere a tempo a soccorrerlo, averne facilmente a ottenere la vittoria. Né dubitava che il pontefice, per le speranze avute da lui quando furno insieme a Bologna e per la benivolenza contratta seco nello abboccamento, gli avesse a essere favorevole; né meno per lo interesse proprio, come se gli avesse a essere molesta la troppa grandezza dello arciduca, successore di tanti regni del re cattolico e successore futuro di Cesare. Sperava oltre a questo che l'arciduca, conoscendo potergli molto nuocere l'inimicizia sua nello stabilirsi i regni di Spagna e specialmente quello di Aragona (al quale, se alle ragioni fusse stata congiunta la potenza, arebbono aspirato alcuni maschi della medesima famiglia), sarebbe proceduto moderatamente a opporsegli. Perché se bene, vivente il re morto e Isabella sua moglie, era stato nelle congregazioni di tutto il regno interpretato che le costituzioni antiche di quel reame escludenti dalla successione della corona le femmine non pregiudicavano a' maschi nati di quelle, quando nella linea mascolina non si trovavano fratelli zii o nipoti del re morto o chi gli fusse piú prossimo del nato delle femmine o almeno in grado pari, e che per questo fusse stato dichiarato appartenersi a Carlo arciduca, dopo la morte di Ferdinando, la successione, adducendo in esempio che per la morte di Martino re d'Aragona morto senza figliuoli maschi era stato, per sentenza de' giudici deputati a questo da tutto il regno, preferito Ferdinando avolo di questo Ferdinando, benché congiunto per linea femminina, al conte d'Urgelli e agli altri congiunti a Martino per linea mascolina ma in grado piú remoto di Ferdinando: nondimeno era stata insino ad allora tacita querela ne' popoli che in questa interpretazione e dichiarazione avesse piú potuto la potenza di Ferdinando e di Isabella che la giustizia; non parendo a molti debita interpretazione, che esclude le femmine possa essere ammesso chi nasce di quelle, e che nella sentenza data per Ferdinando vecchio avesse piú potuto il timore dell'armi sue che la ragione. Le quali cose essendo note al re, e noto ancora che i popoli della provincia d'Aragona di Valenza e della contea di Catalogna (includendosi tutti questi sotto il regno d'Aragona) arebbeno desiderato un re proprio, sperava che l'arciduca, per non mettere in pericolo tanta successione e tanti stati, non avesse finalmente a essere alieno dal concedergli con qualche condecevole composizione il regno di Napoli. Nel qual tempo, per aiutarsi oltre alle forze co' benefici, volle che Prospero Colonna, il quale consentiva di pagare per la liberazione sua trentacinquemila ducati, fusse liberato pagandone solamente la metà; onde molti credettono che Prospero gli avesse secretamente [promesso] di non prendere arme contro a lui, o forse di essergli favorevole nella guerra napoletana, ma con qualche limitazione o riserbo dell'onore suo.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.20

                                                  

                                                 Si ravviva la lotta fra tedeschi e franco-veneziani. Discesa di Cesare con nuove milizie in Italia; suoi successi; intimazione ai milanesi. I francesi si restringono in Milano. Arrivo degli svizzeri. Timori di Cesare e sua ritirata dal milanese. Ritorno di svizzeri in patria. Sacco di Lodi e di Sant'Angelo. Condotta ambigua del pontefice durante l'impresa di Cesare. Presa di Brescia.

                                                  

                                                 In questi pensieri costituito il re, e già deliberando di non differire il muovere dell'armi, fu necessitato per nuovi accidenti a volgere l'animo alla difesa propria: perché Cesare, ricevuti, secondo le cose cominciate a trattarsi prima col re d'Aragona, centoventimila ducati, si preparava per assaltare, come aveva convenuto con quel re, il ducato di Milano, soccorse che avesse Verona e Brescia. Perché i viniziani, fermato l'esercito, il quale, essendo ritornato il Triulzio a Milano, reggeva Teodoro da Triulzi fatto governatore, sei miglia presso a Brescia, scorrevano cogli stradiotti tutto il paese: i quali, assaltati uno dí da quegli di dentro, e concorrendo da ciascuna delle parti aiuto a' suoi, gli rimessono dopo non piccola zuffa in Brescia, ammazzatine molti di loro e preso il fratello del governatore della città. Pochi dí appresso, Lautrech, principale dell'esercito franzese, e Teodoro da Triulzi, sentito che a Brescia venivano tremila fanti tedeschi per accompagnare i danari che si conducevano per pagare i soldati, mandorno per impedire loro il passare Gianus Fregoso e Giancurrado Orsino, con genti dell'uno e l'altro esercito, alla rocca d'Anfo; le quali n'ammazzorno circa ottocento, gli altri insieme co' danari si rifuggirno a Lodrone. Mandorno di poi i viniziani in Val di Sabia dumila cinquecento fanti per fortificare il castello di Anfo, i quali abbruciorno Lodrone e Astorio.

                                                 Il pericolo che Brescia, cosí stretta e molestata, non si arrendesse costrinse Cesare ad accelerare la sua venuta; il quale, avendo seco cinquemila cavalli, quindicimila svizzeri datigli dai cinque cantoni e diecimila fanti tra spagnuoli e tedeschi, venne per la via di Trento a Verona; onde l'esercito franzese e viniziano, lasciate bene custodite Vicenza e Padova, si ridusse a Peschiera, affermando volere vietare a Cesare il passare del fiume del Mincio: ma non corrispose, come spesso accade, l'esecuzione al consiglio, perché come sentirno gli inimici approssimarsi, non avendo alla campagna quella audacia a eseguire che aveano avuta ne' padiglioni a consigliare, passato Oglio, si ritirorono a Cremona, crescendo la riputazione e lo ardire allo inimico e togliendolo a se stessi. Fermossi Cesare, o per cattivo consiglio o tirato dalla mala fortuna sua, a campo ad Asola, custodita da cento uomini d'arme e quattrocento fanti de' viniziani; ove consumò vanamente piú giorni: il quale indugio si credé certissimamente che gli togliesse la vittoria. Partito da Asola passò il fiume dell'Oglio a Orcinuovi, e gli inimici, lasciati in Cremona trecento lancie e tremila fanti, si ritirorno di là dal fiume dell'Adda con pensiero di impedirgli il passare; per la ritirata de' quali tutto il paese che è tra l'Oglio e il Po e l'Adda si ridusse a divozione di Cesare, eccettuate Cremona e Crema, l'una guardata da' franzesi l'altra da viniziani. Seguitavano Cesare il cardinale sedunense e molti fuorusciti del ducato di Milano e Marcantonio Colonna soldato del pontefice con [dugento] uomini d'arme: per le quali cose cresceva tanto piú il timore de' franzesi, la maggiore parte della speranza de' quali si riduceva se diecimila svizzeri, a' quali era stato numerato lo stipendio di tre mesi, non tardavano piú a venire. Passato l'Oglio, si accostò Cesare al fiume dell'Adda per passarla a Pizzichitone; dove trovando difficoltà venne a Rivolta, stando i franzesi a Casciano di là dal fiume. I quali il dí seguente, non essendo venuti i svizzeri e possendosi l'Adda guadare in piú luoghi, si ritirorono a Milano; non senza infamia di Lautrech, che aveva publicato e scritto al re che impedirebbe a Cesare il passo di quello fiume: al quale, passato senza ostacolo, s'arrendé subito la città di Lodi. Accostatosi a Milano a poche miglia, mandò uno araldo a dimandare la terra, minacciando i milanesi che se fra tre dí non cacciavano lo esercito franzese, farebbe peggio a quella città che non aveva fatto Federigo Barbarossa suo antecessore; il quale, non contento di averla abbruciata e disfatta, vi fece, per memoria della sua ira e della loro rebellione, seminare il sale.

                                                 Ma tra i franzesi, ritirati con grandissimo spavento in Milano, erano stati vari consigli; inclinando alcuni ad abbandonare bruttamente Milano per non si riputare pari a resistere agli inimici né credere che i svizzeri, ancorché già si sapesse essere in cammino, avessino a venire, e perché si intendeva che i cantoni o avevano già comandato o erano in procinto di comandare che i svizzeri si partissino da' servizi dell'uno e dell'altro: e pareva dubitabile che non fusse piú pronta la ubbidienza di quegli che ancora erano in cammino che di quegli che già erano cogli inimici. Altri detestavano la partita come piena di infamia; e avendo migliore speranza della venuta de' svizzeri e del potere difendere Milano, consigliavano il mettersi alla difesa, e che rimosso in tutto il pensiero di combattere e ritenuto in Milano tutti i fanti e ottocento lancie, distribuissino l'altre e quelle de' viniziani e tutti i cavalli leggieri per le terre vicine, per guardarle e per molestare agli inimici le vettovaglie. Nondimeno, si sarebbe eseguito il primo consiglio se non avessino molto dissuaso Andrea Gritti e Andrea Trivisano proveditori de' viniziani; l'autorità de' quali, non potendo ottenere altro, operò questo, che il partirsi si deliberò alquanto piú lentamente, di maniera che, già volendo partirsi, sopravennero novelle certe che il dí seguente sarebbe Alberto Petra con diecimila tra svizzeri e grigioni a Milano. Per il che ripreso animo, ma non però confidando di difendere i borghi, si fermorno nella città, abbruciati pure per consiglio de' proveditori viniziani i borghi: i quali consigliorono cosí o perché giudicassino essere necessario alla difesa di quella terra o perché, con questa occasione, volessino sodisfare all'odio antico che è tra i milanesi e i viniziani. Cacciorono ancora della città, o ritenneno in onesta custodia, molti de' principali della parte ghibellina, come inclinati al nome dello imperio per lo studio della fazione e per essere nello esercito tanti della medesima parte.

                                                 Cesare intratanto si pose con l'esercito a Lambrà, vicino a due miglia a Milano; dove essendo, arrivorno a Milano i svizzeri: i quali, mostrandosi pronti a difendere quella città, recusavano di volere combattere con gli altri svizzeri. La venuta loro rendé gli spiriti a' franzesi, ma molto maggiore terrore dette a Cesare. Il quale, considerando l'odio antico di quella nazione contro alla casa di Austria, e ritornandogli in memoria quello che, per trovarsi i svizzeri in tutti due gli eserciti oppositi, fusse accaduto a Lodovico Sforza, cominciò a temere che a sé non facessino il medesimo; parendogli piú verisimile ingannassino lui, che aveva difficoltà di pagargli, che i franzesi, a' quali non mancherebbono i danari né per pagargli né per corrompergli: e accrescevagli la dubitazione che Iacopo Stafflier, capitano generale de' svizzeri, gli aveva con grande arroganza domandata la paga; la quale, oltre alle altre difficoltà, si differiva perché, venendogli danari di Germania, gli erano stati ritenuti da' fanti spagnuoli che erano in Brescia, per pagarsi de' soldi corsi. Però commosso maravigliosamente dal timore di questo pericolo, levato subito l'esercito, si ritirò verso il fiume dell'Adda: non dubitando alcuno che se tre dí prima si fusse accostato a Milano, il quale tempo dimorò intorno ad Asola, i franzesi molto piú ambigui e incerti della venuta de' svizzeri sarebbono ritornati di là da' monti; anzi non si dubita, che se cosí presto non si partivano, o che i franzesi, non si confidando pienamente de' svizzeri per il rispetto dimostravano a quei che erano con Cesare, arebbono seguitato il primo consiglio, o che i svizzeri medesimi, presa scusa dal comandamento de' suoi superiori che già era espedito, arebbono abbandonato i franzesi.

                                                 Passò Cesare il fiume dell'Adda non lo seguitando i svizzeri; i quali, protestando di partirsi se non erano pagati tra quattro dí, si fermorno a Lodi; dando continuamente Cesare, che si era fermato nel territorio di Bergamo, speranza de' pagamenti, perché diceva aspettare nuovi danari dal re di Inghilterra, e minacciando di ritornare a Milano: cosa che teneva in sospetto grandissimo i franzesi, incerti piú che mai della fede de' svizzeri. Perché, oltre alla tardità usata studiosamente nel venire e l'avere sempre detto non volere combattere contro a' svizzeri dell'esercito inimico, era venuto il comandamento de' cantoni che partissino dagli stipendi de' franzesi; per il quale ne erano già partiti circa duemila e si temeva che gli altri non facessino il medesimo: benché i cantoni, da altra parte, affermavano al re avere occultamente comandato a' suoi fanti il contrario. Finalmente Cesare, il quale, riscossi dalla città di Bergamo sedicimila ducati, era andato sotto speranza di uno trattato verso Crema, ritornato senza fare effetto nel bergamasco, deliberò di andare a Trento. Però, significata a' capitani dell'esercito la sua deliberazione, e affermato muoversi a questo per fare nuovi provedimenti di danari, co' quali e con quegli del re di Inghilterra, che erano in cammino, ritornerebbe subito, gli confortò ad aspettare il suo ritorno: i quali, saccheggiato Lodi ed espugnata senza artiglierie la fortezza e saccheggiata la terra di Santangelo, stretti dal mancamento delle vettovaglie, si erano ridotti nella Ghiaradadda. È fama che Cesare nel medesimo parlamento, perché i cappelletti de' viniziani (sono il medesimo i cappelletti che gli stradiotti), divisi in piú parti e correndo per tutto il paese infestavano dí e notte l'esercito, stracco insieme con gli altri da tante molestie, disse a' suoi che si guardassino da' cappelletti, soggiugnendo (se è vero quel che allora si divulgò) che gli erano sempre, come si diceva di Iddio, in qualunque luogo.

                                                 Fu dopo la partita di Cesare qualche speranza che i svizzeri, co' quali a Romano si uní tutto l'esercito, passassino di nuovo il fiume dell'Adda; perché nel campo era venuto il marchese di Brandiborg, e a Bergamo il cardinale sedunense con trentamila ducati mandati dal re di Inghilterra: per il quale timore il duca di Borbone, da cui erano partiti quasi tutti i svizzeri, e i soldati viniziani erano venuti con l'esercito in sulla riva di là dal fiume. Ma diventorno facilmente vani i pensieri degli inimici, perché i svizzeri, non bastando i danari venuti a pagare gli stipendi già corsi, ritornorno per la valle di Voltolina al paese loro; e per la medesima cagione tremila fanti, parte spagnuoli parte tedeschi, passorono nel campo franzese e viniziano. Il quale, avendo passato il fiume dell'Adda, non aveva cessato di infestare piú dí con varie scorrerie e scaramuccie gli inimici, con accidenti vari, ora ricevendo maggiore danno i franzesi (i quali in una scaramuccia grossa appresso a Bergamo perderono circa dugento uomini d'arme), ora gli inimici, de' quali in uno assalto simile fu preso Cesare Fieramosca: il resto della gente, ricevuto uno ducato per uno, si accostò a Brescia; ma, essendo molto molestati da' cavalli leggieri, Marcantonio Colonna co' fanti tedeschi e con alcuni fanti spagnuoli entrò in Verona, e gli altri tutti si dissolverono.

                                                 Questo fine ebbe il movimento di Cesare, nel quale al re fu molto sospetto il pontefice; perché avendolo ricercato che, secondo gli oblighi della lega fatta tra loro, mandasse cinquecento uomini d'arme alla difesa dello stato di Milano, o almeno gli accostasse a' suoi confini, e gli pagasse tremila svizzeri, secondo allegava avere offerto ad Antonmaria Palavicino, il pontefice, rispondendo freddamente al pagamento de' svizzeri e scusando essere male in ordine le genti sue, prometteva mandare quelle de' fiorentini: le quali con alcuni de' soldati suoi si mossono molto lentamente verso Bologna e verso Reggio. Accrebbe il sospetto, che la venuta di Cesare fusse stata con sua partecipazione, l'avere creato legato a lui, come prima intese essere entrato in Italia, Bernardo da Bibbiena cardinale di Santa Maria in Portico, solito sempre a impugnare appresso al pontefice le cose franzesi; e molto piú l'avere permesso che Marcantonio Colonna seguitasse con le sue genti l'esercito di Cesare. Ma la verità fu [che al pontefice fu] molesta, per l'interesse proprio, la venuta di Cesare con tante forze, temendo che vincitore non tentasse di opprimere, secondo l'antica inclinazione, tutta Italia; ma per timore, e perché questo procedere era conforme alla sua natura, occultando i suoi pensieri, si ingegnava farsi odioso il meno che poteva a ciascuna delle parti. Però non ardí rivocare Marcantonio, non ardí mandare gli aiuti debiti al re, creò il legato a Cesare; e da altra parte, essendo già partito Cesare da Milano, operò che il legato, simulando infermità, si fermasse a Rubiera, per speculare innanzi passasse piú oltre dove inclinavano le cose: e dipoi, per mitigare l'animo del re, volle che Lorenzo suo nipote, continuando la simulazione della dependenza cominciata a Milano, gli facesse donare da' fiorentini i danari da pagare per uno mese tremila svizzeri; i quali danari benché il re accettasse, diceva nondimeno, dimostrando di conoscere le arti del pontefice, che, poiché sempre gli era contrario nella guerra né la confederazione fatta seco gli aveva giovato ne' tempi del pericolo, voleva di nuovo farne un'altra che non l'obligasse se non nella pace e ne' tempi sicuri.

                                                 Dissoluto l'esercito di Cesare, i viniziani, non aspettati i franzesi, si accostorno all'improviso una notte a Brescia con le scale, confidandosi nel piccolo numero de' difensori, perché non vi erano rimasti piú che secento fanti spagnuoli e quattrocento cavalli; ma non essendo le scale lunghe a bastanza, e resistendo valorosamente quegli di dentro, non l'ottennono. Sopravenne poi l'esercito franzese sotto Odetto di Fois, eletto nuovamente successore al duca di Borbone, partito spontaneamente dal governo di Milano. Assaltorno questi eserciti Brescia con l'artiglierie da quattro parti, acciò che gli assediati non potessino resistere in tanti luoghi: i quali si sostentorno mentre ebbono speranza che settemila fanti del contado di Tiruolo, venuti per comandamento di Cesare alla montagna, passassino piú innanzi; ma come questo non succedette, per l'opposizione fatta da' viniziani alla rocca d'Anfo e ad altri passi, essi non volendo aspettare la battaglia che, essendo già in terra spazio grande di muraglia, si doveva dare il dí seguente, convennono i soldati di uscire della terra e della fortezza, con le cose loro solamente, se infra un dí non erano soccorsi.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.21

                                                  

                                                 Monitorio del pontefice contro il duca di Urbino. Occupazione del ducato da parte di Lorenzo de' Medici; resa delle fortezze. Investitura di Lorenzo. Ragioni di sospetti e di malcontento del re di Francia riguardo al pontefice.

                                                  

                                                 In questi tempi medesimi il pontefice, preparandosi di spogliare con l'armi del ducato di Urbino Francesco Maria della Rovere, cominciò a procedere con le censure contro a lui, publicato un munitorio nel quale si narrava che, essendo soldato della Chiesa, denegandogli le genti per le quali avea ricevuto lo stipendio, si era convenuto secretamente cogli inimici: l'omicidio antico del cardinale di Pavia, del quale era stato assoluto per grazia non per giustizia; altri omicidi commessi da lui; l'avere mandato, nel maggiore fervore della guerra tra 'l pontefice Giulio (del quale era nipote, suddito e capitano) [e il re di Francia], Baldassarre da Castiglione per condursi a' soldi del re; l'avere nel tempo medesimo negato il passo ad alcune genti che andavano a unirsi coll'esercito della Chiesa, e perseguitati, nello stato quale possedeva come feudatario della sedia apostolica, i soldati della medesima sedia fuggiti del fatto d'arme di Ravenna. Aveva il pontefice avuto nell'animo di muovergli, piú mesi prima, la guerra, movendolo, oltre alle ingiurie nuove, lo sdegno quando negò di aiutare il fratello e lui a ritornare in Firenze; ma lo riteneva alquanto la vergogna di perseguitare il nipote di colui per opera del quale era salita la Chiesa a tanta grandezza, e molto piú i prieghi di Giuliano suo fratello; il quale, nel tempo dello esilio loro, dimorato molti anni nella corte di Urbino appresso il duca Guido e, morto lui, appresso al duca presente, non poteva tollerare che da loro medesimi fusse privato di quel ducato nel quale era stato sostentato e onorato. Ma morto dopo lunga infermità Giuliano de' Medici in Firenze e diventato vano il movimento di Cesare, il pontefice, stimolato da Lorenzo nipote e da Alfonsina sua madre, cupidi di appropriarsi quello stato, deliberò non tardare piú; allegando per scusa della ingratitudine, la quale da molti era rimproverata, non solamente l'offese ricevute da lui, le pene nelle quali secondo la disposizione della giustizia incorreva uno vassallo contumace al suo signore, uno soldato il quale obligatosi e ricevuti i danari denegava le genti a chi l'aveva pagate, ma molto piú essere pericoloso il tollerare, nelle viscere del suo stato, colui il quale avendo cominciato, senza rispetto della fede e dell'onore, a offenderlo, poteva essere certo che quanto maggiore si dimostrasse l'occasione tanto piú sarebbe pronto a fare per l'avvenire il medesimo.

                                                 Il progresso di questa guerra fu che, come Lorenzo, coll'esercito raccolto de' soldati e de' sudditi della Chiesa e de' fiorentini, toccò i confini di quel ducato, la città di Urbino e l'altre terre di quello stato si dettono volontariamente al pontefice; consentendo il duca, il quale si era ritirato a Pesero, che, poi che non gli poteva difendere, si salvassino. Fece e Pesero il medesimo, come l'esercito inimico si fu accostato: perché, con tutto vi fussino tremila fanti, la città fortificata e il mare aperto, Francesco Maria, lasciato nella rocca Tranquillo da Mondolfo suo confidato e i capitani e i soldati nella terra, se ne andò a Mantova, dove prima avea mandato la moglie e il figliuolo; o non si confidando a soldati la maggiore parte non pagati o, come molti scusando il timore con l'amore affermavano, impaziente di stare assente dalla moglie. Cosí il ducato di Urbino, insieme con Pesero e con Sinigaglia, venne in quattro dí soli alla ubbidienza della Chiesa, eccettuate le fortezze di Sinigaglia e di Pesero, San Leo, e la rocca di Maiuolo. Arrendessi quasi immediate quella di Sinigaglia; e quella di Pesero, benché fortissima, battuta due dí con l'artiglierie, convenne di arrendersi se fra venti dí non era soccorsa, con condizione che in quel mezzo non vi si facesse ripari né alcuna fortificazione: il quale patto male osservato fu cagione che Tranquillo, non avendo avuto soccorso infra il termine convenuto, recusò di consegnarla, e cominciato di nuovo a tirare l'artiglierie assaltò la guardia di fuora. Ma era piú dura la sua condizione, perché, ritornatosene, avuta che fu la terra, Lorenzo a Firenze, i capitani restati nello esercito avevano fatto trincee intorno alla rocca e messo in mare certi navili per vietare non vi entrasse soccorso: però, spirato il termine, si cominciò subito a batterla; ma il dí medesimo i soldati che vi erano dentro, fatto tumulto contro a Tranquillo, lo dettono per salvare sé ai capitani, da' quali in pena della sua contravenzione fu condannato al supplicio delle forche. Arrendessi pochi dí poi la rocca di Maiuolo, luogo necessario ad assediare San Leo, perché è vicina a un miglio e situata allo opposito di quella. Intorno a San Leo furno messi duemila fanti che lo tenessino assediato, perché per il sito suo fortissimo niuna speranza vi era di ottenerlo se non per l'ultima necessità della fame; e nondimeno, tre mesi poi, fu preso furtivamente per invenzione maravigliosa di uno maestro di legname il quale, salito una notte per una lunghissima scala sopra uno dirupato che era riputato il piú difficile di quel monte, e fatta portare via la scala, dimorato in quel luogo tutta la notte, cominciò, subito che apparí il dí, a salire con certi ferramenti, tanto che si condusse insino alla sommità del monte; donde scendendo, e con gli instrumenti di ferro facilitando alcuni de' luoghi piú difficili, la notte seguente, per la medesima scala, se ne ritornò agli alloggiamenti: dove fatto fede potersi salire, ritornò la notte deputata per la medesima scala, seguitandolo cento cinquanta fanti de' piú eletti; co' quali fermatosi in sul dirupato, come fu l'alba del dí, perché era impossibile salire di notte piú alto, cominciorno per quegli luoghi strettissimi a salire uno a uno. Ed erano già montati alla sommità del monte circa trenta di loro con uno tamburino e con sei insegne, e occultatisi in terra aspettavano i compagni che montavano; ma essendo dí alto, una guardia che partiva dal luogo suo gli vidde cosí prostrati in terra, e avendo levato il romore, essi vedutisi scoperti, non aspettati altrimenti i compagni, dettono il cenno come erano convenuti a quegli del campo: i quali, secondo l'ordine dato, assaltorono subito con molte scale il monte da molte parti, per divertire quegli di dentro. I quali, correndo ciascuno a' luoghi ordinati spaventati per vedere già dentro sei insegne che scorrevano il piano del monte e avevano morto qualcuno di loro, si rinchiusono nella fortezza, che è murata nel monte: dove essendo già saliti degli altri dopo i primi, apersono la porta per la quale si entrava in sul monte; per la quale entrati gli altri che ancora non erano saliti, e cosí preso il monte, quegli che erano nella rocca, benché la fusse bene proveduta di ogni cosa, si arrenderono il secondo dí. Acquistato con l'armi quello stato, che insieme con Pesero e Sinigaglia, membri separati dal ducato di Urbino, non era di entrata di piú di venticinquemila ducati, Leone, seguitando il processo cominciato, ne privò per sentenza Francesco Maria, e di poi ne investí nel concistorio Lorenzo suo nipote; aggiugnendo, per maggiore validità, alla bolla espedita sopra questo atto la soscrizione della propria mano di tutti i cardinali. Co' quali non volle concorrere Domenico Grimanno vescovo di Urbino, e molto amico di quel duca: donde temendo lo sdegno del pontefice partí, pochi dí poi, da Roma; né vi ritornò mai se non dopo la sua morte.

                                                 Era stata molesta al re di Francia l'oppressione del duca di Urbino, spogliato per quel che aveva trattato seco: erangli piú moleste molte opere del pontefice. Perché essendosi Prospero Colonna, quando ritornava di Francia, fermato a Busseto terra de' Palavicini, e dipoi per sospetto de' franzesi venuto a Modona, dove medesimamente era rifuggito Ieronimo Morone, insospettito de' franzesi, che contro alle promesse fatte gli aveano comandato che andasse in Francia, trattavano continuamente, mentre che Prospero stette a Modona e poi a Bologna, di occupare per mezzo di alcuni fuorusciti furtivamente qualche luogo importante del ducato di Milano; concorrendo alle medesime pratiche Muzio Colonna, a cui il pontefice, conscio di queste cose, avea consentito alloggiamento per la compagnia sua nel modonese. Aveva inoltre il pontefice confortato il re cattolico (cosí dopo la morte dell'avolo materno si chiamava l'arciduca) che non facesse nuove convenzioni col re di Francia; e appresso a' svizzeri Ennio vescovo di Veroli nunzio apostolico, che poi quasi decrepito fu promosso al cardinalato, oltre a molti altri offici molesti al re confortava i cinque cantoni a seguitare l'amicizia di Cesare. Onde trattandosi nel medesimo tempo tra Cesare, il quale fermatosi tra Trento e Spruch spaventava piú i franzesi con le dimostrazioni che con gli effetti, e il re di Inghilterra e i svizzeri che di nuovo si assaltasse il ducato di Milano, temeva il re di Francia che queste [cose] non si trattassino con volontà del pontefice; del quale appariva anche in altro il malo animo, perché con varie eccezioni interponeva difficoltà nel concedergli la decima de' benefici del regno di Francia promessagli a Bologna. E nondimeno (tanta è la maestà del pontificato) il re si ingegnava di placarlo con molti offici: onde, volendo, dopo la partita di Cesare, molestare, per trarne danari, la Mirandola, Carpi e Coreggio come terre imperiali, se ne astenne per le querele del pontefice, che prima avea ricevuti i signori di quelle terre in protezione; e infestando i mori d'Affrica con molti legni il mare di sotto, gli offerse di mandare, per sicurtà di quelle marine, molti legni che Pietro Navarra armava a Marsilia di consentimento suo, per assaltare, solo per la speranza di predare, con seimila fanti i liti della Barberia. E nondimeno il pontefice, perseverando nella sentenza sua, con tutto che parte negasse parte scusasse queste cose, non consentí mai non che altro alla sua dimanda, fatta con grande instanza, di rimuovere il vescovo verulano del paese de' svizzeri; né mai rimosse Muzio Colonna del modonese, ove fingeva essere alloggiato di propria autorità, se non quando, partito Prospero da Bologna e rimaste vane tutte le cose che si trattavano, non era piú di momento alcuno la stanza sua. Al quale fu infelicissimo il partirsi, perché non molto poi, entrato con le forze de' Colonnesi e con alcuni fanti spagnuoli furtivamente di notte in Fermo, morí in spazio di pochi giorni d'una ferita ricevuta la notte medesima mentre dava opera a saccheggiare quella città.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.12, cap.22

                                                  

                                                 Trattative fra il re di Francia e il re di Spagna. Milizie francesi nel veronese e nel mantovano; rifiuto di fanti tedeschi del Lautrech di assalire Verona. Accordi a Noion fra Francia e Spagna. Francesi e veneziani contro Verona. Il Lautrech si ritira a Villafranca; rinforzi in Verona. Pace fra Cesare e il re di Francia; accordi del re cogli svizzeri. Verona ritorna ai veneziani.

                                                  

                                                 In questo stato delle cose facendo il senato veneto instanza per la ricuperazione di Verona, Lautrech, avendo nell'esercito seimila fanti tedeschi i quali a questa impresa erano convenuti pagare i viniziani, venne in sull'Adice per passare il fiume a Usolingo e accamparsi insieme coll'esercito veneto a Verona; ma dipoi, crescendo la fama della venuta de' svizzeri e per il sospetto della stanza di Prospero Colonna in Modena, cresciuto per essersi fermato nella medesima città il cardinale di Santa Maria in Portico, si ritirò non senza querela de' viniziani a Peschiera, distribuite le genti di qua e di là dal fiume del Mincio: nel quale luogo, con tutto che fussino cessati i sospetti già detti e che di Verona fussino passati agli stipendi veneti piú di dumila fanti tra spagnuoli e tedeschi e continuamente ne passassino, soprastette piú d'un mese, aspettando, secondo diceva, danari di Francia e che i viniziani facessino provedimenti maggiori di danari di artiglierie e munizioni. Ma la cagione piú vera era che aspettava quel che succedesse delle cose che si trattavano tra 'l suo re e il re cattolico. Perché il re di Francia, conoscendo quanto a quell'altro re fusse necessaria la sua amicizia per rimuoversi le difficoltà del passare in Ispagna e dello stabilimento di quegli regni, non contento a quel che prima si era concordato a Parigi, cercava di imporgli piú dure condizioni, e di pacificarsi per mezzo suo con Cesare, il che non si poteva fare senza la restituzione di Verona a' viniziani; e il re di Spagna per consiglio di [monsignore] di Ceures con l'autorità del quale, essendo nell'età di quindici anni, totalmente si reggeva, non recusava di accomodare a' tempi e alle necessità le sue deliberazioni. Però erano congregati a Noion, per la parte del re di Francia, il vescovo di Parigi il gran maestro della sua casa e il presidente del parlamento di Parigi, e per la parte del re cattolico il medesimo di Ceures e il gran cancelliere di Cesare.

                                                 L'esito delle quali cose mentre che Lautrech aspetta, si esercitavano continuamente, come è il costume della milizia del nostro secolo, le armi contro agli infelici paesani: perché e Lautrech, gittato il ponte alla villa di Monzambaino, attendeva a tagliare le biade del contado di Verona e a fare correre per tutto i cavalli leggieri, e avendo mandato una parte delle genti ad alloggiare nel mantovano, distruggeva con gravissimi danni quel paese, dalla quale molestia per liberarsi il marchese di Mantova fu contento di pagargli dodicimila scudi; e i soldati di Verona, correndo ogni dí nel vicentino e nel padovano, saccheggiorono la misera città di Vicenza. Passò pur poi Lautrech, stimolato con gravissime querele da' viniziani, l'Adice per il ponte gittato a Usolingo, e fatta per il paese grandissima preda, perché non si era mai creduto che l'esercito passasse da quella parte, si accostò a Verona per porvi il campo; avendo in questo mezzo, con l'aiuto degli uomini del paese, occupata la Chiusa, per fare piú difficile il passare al soccorso che venisse di Germania. Ma il medesimo dí che si accostò a Verona, i fanti tedeschi, o spontaneamente o subornati da lui tacitamente, ancora che sostentati già tre mesi colle pecunie de' viniziani, protestorno non volere, ove non era l'interesse principale del re di Francia, andare all'espugnazione di una terra posseduta da Cesare. Però Lautrech, ripassato l'Adice, si allontanò uno miglio dalle mura di Verona; e l'esercito veneto, nel quale erano cinquecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e quattromila fanti, non gli parendo stare sicuro di là dal fiume, andò a unirsi con lui.

                                                 Nel qual tempo i deputati de' due re convennero, il quintodecimo dí di agosto, a Noion, in questa sentenza: che tra il re di Francia e il re di Spagna fusse pace perpetua e confederazione, per difensione degli stati loro contro a ciascuno: che il re di Francia desse la figliuola, che era di età di uno anno, in matrimonio al re cattolico, dandogli per dote le ragioni che pretendeva appartenersegli al regno di Napoli, secondo la partigione già fatta da' loro antecessori, ma con patto che insino che la figliuola non fusse di età abile al matrimonio pagasse il re cattolico, per sostentazione delle spese di lei, al re di Francia, ciascuno anno, centomila scudi; la quale se moriva innanzi al matrimonio e al re ne nascesse alcuna altra, quella con le medesime condizioni si desse al re cattolico; e in caso non ve ne fusse alcuna, Renea, quella che era stata promessa nella capitolazione fatta a Parigi; e morendo qualunque di esse nel matrimonio senza figliuoli, ritornasse quella parte del regno di Napoli al re di Francia: che il re cattolico restituisse al re antico il reame di Navarra fra certo tempo, e non lo restituendo fusse lecito al re di Francia aiutargliene recuperare, ma, secondo che poi affermavano gli spagnuoli, se prima quel re gli faceva constare delle sue ragioni: avesse Cesare facoltà di entrare in termine di due mesi nella pace, ma quando bene vi entrasse fusse lecito al re di Francia di aiutare i viniziani alla recuperazione di Verona; la quale città se Cesare metteva in mano del re cattolico, con facoltà di darla infra sei settimane libera al re di Francia che ne potesse disporre ad arbitrio suo, gli avessino a essere pagati da lui centomila scudi, e centomila altri, parte nell'atto della consegnazione, parte fra sei mesi, da' viniziani, e liberato di circa trecentomila avuti dal re Luigi quando erano confederati; e che in tal caso fusse tregua per diciotto mesi tra Cesare e i viniziani, e che a Cesare rimanesse Riva di Trento e Rovereto con tutto quello che allora nel Friuli possedeva, e i viniziani continuassero di tenere le castella che allora tenevano di Cesare insino a tanto che il re di Francia e il re di Spagna terminassero tra loro le differenze de' confini. Nominò l'una parte e l'altra il pontefice.

                                                 Per la concordia fatta a Noion non cessorno i viniziani di stimolare Lautrech che si ponesse il campo a Verona, perché erano incerti se Cesare accetterebbe la pace e perché, per la quantità de' danari che gli arebbono a pagare, desideravano il recuperarla piú presto con l'armi. Da altra parte al re di Francia, per lo stabilimento della pace con Cesare, era piú grata la concordia che la forza; e nondimeno Lautrech, non gli rimanendo piú scusa alcuna, perché i viniziani aveano copiosamente soldati fanti e fatto tutti i provedimenti dimandati da lui, né i lanzchenech ricusavano piú di andarvi insieme con gli altri, consentí alla volontà loro. Però gli eserciti passorono separatamente il fiume dello Adice, l'uno per uno ponte gittato di sopra alla città l'altro per uno ponte gittato di sotto. Dell'artiglierie dell'esercito franzese, posto alla Tomba, una parte si pose alla porta di Santa Lucia l'altra co' fanti tedeschi alla porta di San Massimo per battere poi tutti ove il muro tra la cittadella e la città si viene a congiugnere col muro della terra; acciò che, potendo in uno tempo medesimo entrare nella cittadella e nella città, quegli di dentro avessino necessità di dividersi, per rispetto del muro di mezzo, in due parti. Passò l'esercito viniziano di sotto a Verona in Campo Marzio, e si pose a Santo Michele tra 'l fiume e il canale, per levare quivi le offese e battere alla porta del Vescovo, parte piú debole e manco munita. Levoronsi ne' primi due dí con l'artiglierie l'offese, che erano assai forti e per fianco; ma con maggiore difficoltà si levorono, dal canto de' viniziani, l'offese de' tre bastioni: le quali levate, cominciò ciascuna delle parti a battere la muraglia con diciotto pezzi grossi di artiglieria e quindici pezzi mezzani per batteria, e il terzo dí erano da ciascuno degli eserciti gittate in terra settanta braccia di muraglia e si continuava di battere per farsi molto piú larga la strada; e nondimeno i viniziani, dalla parte de' quali era la muraglia piú debole, ancora che avessino abbattuti quasi tutti i bastioni e ripari, non avevano mai levato interamente le offese di dentro per fianco, perché erano tanto basse, e quasi nel fosso, che l'artiglierie o passavano di sopra o innanzi vi arrivassino battevano in terra. Tagliavasi anche nel tempo medesimo il muro co' picconi; il quale, con tutto che puntellato, anticipò di cadere innanzi al tempo disegnato da' capitani. In Verona erano ottocento cavalli cinquemila fanti tedeschi e [mille cinquecento] spagnuoli sotto il governo di Marcantonio Colonna, non piú soldato del pontefice ma di Cesare; i quali, attendendo a riparare sollecitamente e provedendo e difendendo valorosamente per tutto dove fusse necessario, dimostravano ferocia grande: con somma laude di Marcantonio, il quale, ferito benché leggiermente da uno scoppietto nella spalla, non cessava di rappresentarsi a qualunque ora del dí e della notte, a tutte le fatiche e pericoli. Già l'artiglierie piantate da' franzesi in quattro luoghi dove erano le torri, tralla porta della cittadella e la porta di Santa Lucia, aveano fatta ruina tale che ciascuna delle rotture era capace a ricevere i soldati in ordinanza; né molto minore progresso avevano fatto quelle de' viniziani: e nondimeno Lautrech dimandava nuove artiglierie per fare la batteria maggiore, abbracciando prontamente, benché reclamando invano i viniziani i quali stimolavano si desse la battaglia, qualunque occasione che si offeriva di differire. Perché era accaduto che, venendo per il piano di Verona allo esercito ottocento bariglioni di polvere in sulle carra e molte munizioni, il volere i conduttori de' buoi entrare l'uno innanzi all'altro gli fece in modo accelerare che, per la collisione delle ruote suscitato il fuoco, abbruciò la polvere insieme con le carra e co' buoi che la conducevano. Ma agli assediati si aggiugneva un'altra difficoltà, perché nella città, stata vessata dalla propinquità degli inimici già tanti mesi, cominciavano a mancare le vettovaglie; non ve ne entrando se non piccola quantità e occultamente per la via de' monti. Stando le cose di Verona [in questo termine], sopravennono [nove] mila fanti tedeschi mandati da Cesare per soccorrere quella città; i quali pervenuti alla Chiusa l'ottennero per concordia, e occuporno il castello della Corvara, passo in sul monte propinquo all'Adice verso Trento, stato nella guerra tra Cesare e i viniziani occupato dall'una parte e dall'altra piú volte. Per l'approssimarsi di questi fanti, Lautrech, o temendo o simulando di temere, levato il campo contro alla volontà de' viniziani, si ritirò a Villafranca e con lui una parte delle genti viniziane, l'altre sotto Giampaolo Manfrone si ritirorno al Boseto di là dall'Adice, col ponte preparato: né si dubitando piú che aspettava se Cesare accettava la concordia di Noion, come gli dava speranza uno mandato a lui dal re cattolico, i viniziani, disperati dell'espugnare Verona, mandorno tutte l'artiglierie grosse parte a Padova parte a Brescia. Dunque, non avendo ostacolo, i fanti tedeschi si fermorono alla Tomba dove prima alloggiava l'esercito franzese, donde una parte di loro entrò nella città, l'altra, restata fuora, attendeva a mettervi vettovaglie, le quali messe dentro si partirono; rimasti a guardia di Verona sette in ottomila fanti tedeschi, perché la maggiore parte degli spagnuoli, non potendo convenire co' tedeschi, era sotto il colonnello Maldonato passata nel campo viniziano: soccorso, a giudicio di ognuno, di piccolo momento, perché non condussono seco altri danari che ventimila fiorini di Reno mandati dal re di Inghilterra, e consumorono, mentre vi stettono, tante vettovaglie che pareggiorono quasi la quantità di quelle vi condussono. Ridotte le genti a Villafranca, dove consumavano il veronese e il mantovano, furno necessitati i viniziani, (acciocché i soldati franzesi, i quali il comandamento del re non bastava a ritenere, non se ne andassino alle stanze) a provedere che la città di Brescia donasse loro tutta la vettovaglia necessaria: spesa, ciascuno dí, di piú di mille scudi.

                                                 Finalmente le cose cominciorono a riguardare manifestamente alla pace, perché si intese che Cesare, con tutto che prima avesse instantemente procurato col nipote che non convenisse col re di Francia, anteposta ultimatamente la cupidità de' danari all'odio naturale contro al nome franzese e agli antichi pensieri di dominare Italia, aveva accettata e ratificata la pace; e deliberato di restituire, secondo la forma di quelle convenzioni, Verona. Donde seguitò un'altra cosa in beneficio del re di Francia: che tutti i cantoni de' svizzeri, vedendo deporsi l'armi tra Cesare e lui, si inclinorno a convenire seco, come prima avevano fatto i grigioni; adoperandosi molto in questa cosa Galeazzo Visconte, il quale, essendo esule e in contumacia del re, ottenne da lui per questo la restituzione alla patria e in progresso di tempo molte grazie e onori. La convenzione fu: che il re pagasse a' svizzeri, in termine di tre mesi, trecento cinquantamila ducati, e dipoi in perpetuo annua pensione: fussino obligati i svizzeri concedere, per publico decreto, agli stipendi suoi, qualunque volta gli ricercasse, certo numero di fanti; ma in questo procederono diversamente, perché gli otto cantoni si obligorono a concedergli eziandio quando facesse impresa per offendere gli stati di altri, i cinque cantoni non altrimenti che per difesa degli stati propri: fusse in potestà de' svizzeri di restituire al re di Francia le rocche di Lugano e di Lucerna, passi forti e importanti alla sicurtà del ducato di Milano; ed eleggendo il restituirle, dovesse il re pagare loro trecentomila ducati. Le quali rocche, subito fatta la convenzione, gittorono in terra.

                                                 Queste cose si feciono in Italia l'anno mille cinquecento sedici. Ma ne' primi dí dell'anno seguente, il vescovo di Trento venuto a Verona offerse a Lautrech, col quale parlò tra Villafranca e Verona, di consegnare al re di Francia, infra il termine di sei mesi statuito nella capitolazione, quella città, la quale diceva tenere in nome del re di Spagna: ma rimanendo la differenza se il termine cominciava dal dí della ratificazione di Cesare o dal dí si era riconosciuto Verona tenersi per il re cattolico, si disputò sopra questo alquanti dí; ma il dimandare i fanti di Verona tumultuosamente [denari] costrinse il vescovo di Trento ad accelerare. Però, pigliando il principio del dí che Cesare gli avea fatto il mandato, convenne consegnare Verona il quintodecimo dí di gennaio: nel qual dí, ricevuti da viniziani i primi cinquantamila ducati, e quindicimila che secondo la convenzione doveano pagare a' fanti di Verona, e da Lautrech promessa di fare condurre a Trento l'artiglierie che erano in Verona, consegnò a Lautrech quella città, riceventela in nome del re di Francia; e Lautrech, immediate, in nome del medesimo re, la consegnò al senato veneto, e per lui a Andrea Gritti proveditore; rallegrandosi sommamente la nobiltà e il popolo viniziano che di guerra sí lunga e sí pericolosa avessino, benché dopo infinite spese e travagli, avuto felice fine. Perché, secondo che affermano alcuni scrittori delle cose loro, spesono in tutta la guerra fatta dopo la lega di Cambrai cinque milioni di ducati; de' quali ne estrassono, della vendita degli offici, cinquecentomila. Ma non meno si rallegravano i veronesi e tutte l'altre città e popoli sottoposti alla loro republica; perché speravano, riposandosi per beneficio della pace, aversi a liberare da tante vessazioni e tanti mali, che cosí miserabilmente avevano, ora da una parte ora dall'altra, tanto tempo sopportati.

                                             

                                                 Lib.13, cap.1

                                                  

                                                 Vane speranze di pace e di quiete per l'Italia. Francesco Maria della Rovere assolda milizie straniere per la riconquista del ducato d'Urbino. Timori e sospetti del pontefice. Il pontefice e Lorenzo de' Medici inviano soldati in Romagna. Liete accoglienze delle popolazioni a Francesco Maria entrato nel ducato; riconquista di Urbino. Tentativi contro Fano. Posizione di Pesaro.

                                                  

                                                 Pareva che deposte l'armi tra Cesare e i viniziani, e rimosse dal re di Francia l'occasioni di fare la guerra con Cesare e col re cattolico, avesse Italia, vessata e conquassata da tanti mali, a riposarsi per qualche anno: perché e i svizzeri, potente instrumento a chi desiderasse turbare le cose, parevano ritornati nella amicizia antica col re di Francia, non avendo per questo l'animo alieno dagli altri príncipi; e nella concordia fatta a Noion si dimostrava tale speranza che, per stabilire congiunzione maggiore tra i due re, si trattava che insieme convenissino a Cambrai, dove per ordinare il congresso loro erano andati innanzi Ceures, il gran maestro di Francia e Rubertetto; e in Cesare non si dimostrava minore prontezza, il quale oltre all'avere restituita Verona aveva mandato al re di Francia due imbasciadori a confermare e a giurare la pace fatta. Dunque, non senza giusta cagione si giudicava che la concordia e la pace tra i príncipi tanto potenti avesse a spegnere tutti i semi delle discordie e delle guerre italiane. E nondimeno, o per la infelicità del fato nostro o perché, per essere Italia divisa in tanti príncipi e in tanti stati, fusse quasi impossibile, per le varie volontà e interessi di quegli che l'avevano in mano, che ella non stesse sottoposta a continui travagli, ecco che appena deposte l'armi tra Cesare e i viniziani, anzi non essendo ancora consegnata la città di Verona, si scopersono princípi di nuovi tumulti, causati da Francesco Maria dalla Rovere, il quale aveva sollevato i fanti spagnuoli che avevano militato in Verona e nello esercito franzese e viniziano intorno a quella città, che lo seguitassino alla recuperazione degli stati, de' quali la state medesima era stato cacciato dal pontefice: cosa persuasa con grandissima facilità, perché a soldati forestieri, assuefatti nelle guerre a' sacchi delle terre e alle prede e rapine de' paesi, nessuna cosa era piú molesta che la pace alla quale vedevano disposte tutte le cose d'Italia. Però deliberorno seguitarlo circa cinquemila fanti spagnuoli, de' quali era il principale Maldonato, uomo della medesima nazione ed esercitato in molte guerre; a' quali s'aggiunsono circa ottocento cavalli leggieri sotto Federigo da Bozole, Gaioso spagnuolo, Zuchero borgognone, Andrea Bua e Costantino Boccola albanese, tutti condottieri esercitati e di nome non disprezzabile nelle armi: tra i quali di riputazione molto maggiore, per la nobiltà della casa e per i gradi che insino da tenera età aveva avuti nella milizia, era Federigo da Gonzaga signore di Bozole, stato uno de' piú efficaci instrumenti a persuadere questa unione, mosso non solamente per il desiderio di accrescere con nuove guerre la fama sua nell'esercizio dell'armi e per la amicizia grande che e' teneva con Francesco Maria, ma ancora per l'odio che aveva contro a Lorenzo de' Medici; perché quando in Lorenzo de' Medici fu trasferita, per la infermità di Giuliano suo zio, l'autorità di tutte l'armi della Chiesa e de' fiorentini, gli avea denegato il capitanato generale delle fanterie concedutogli prima da Giuliano. Questo esercito adunque, da essere stimato per la virtú molto piú che per il numero o per gli apparati che avessino di sostentare la guerra (perché non avevano né danari né artiglierie né munizioni né, da cavalli e armi in fuora, alcuna di quelle tante provisioni che sogliono seguitare gli eserciti), si partí per andare nello stato d'Urbino, il dí medesimo che a' viniziani fu consegnata la città di Verona.

                                                 Della quale cosa, come fu sentita dal pontefice, ne ricevé grandissima perturbazione: perché considerava la qualità dello esercito, formidabile per l'odio de' capitani e per la virtú e riputazione de' fanti spagnuoli: sapeva la inclinazione che avevano i popoli di quel ducato a Francesco Maria, per essere stati lungamente sotto il governo mansueto della casa da Montefeltro, l'affezione della quale avevano trasferita in lui, nutrito in quello stato e nato di una sorella del duca Guido. Dava, oltre a questo, molestia grandissima al pontefice l'avere a fare la guerra con uno esercito che, senza potere perdere cosa alcuna, si moveva solamente per desiderio di prede e di rapine; per la dolcezza delle quali temeva che molti soldati, restati per la pace fatta senza guadagni, non si unissino con loro. Ma quello che sopra tutto tormentava l'animo suo era il sospetto che questo movimento non fusse con partecipazione del re di Francia. Perché, oltre al sapere essergli stata molesta la guerra fatta contro a Francesco Maria, era conscio a se medesimo quante cagioni avesse date a quel re di essere malcontento di lui: per non gli avere osservato nella passata di Cesare la confederazione fatta dopo l'acquisto di Milano; per avergli, poi che fu ritornato a Roma, mandata una bolla sopra la collazione de' benefici del regno di Francia e del ducato di Milano di tenore diverso dalla convenzione che n'aveva fatta in Bologna (la quale per la brevità del tempo non era stata sottoscritta), la quale il re sdegnato recusò d'accettare; per le cose trattate occultamente con gli altri príncipi e con i svizzeri contro a lui; per avere poco innanzi, desiderando di impedire direttamente la recuperazione di Verona, permesso che i fanti spagnuoli che da Napoli andavano a soccorrerla passassino separatamente per lo stato della Chiesa, scusandosi non volere dare loro causa di passare uniti perché non era sufficiente a impedirgli; non avere, secondo le promesse fatte a Bologna, concedutagli la decima se non con implicate condizioni; non restituito le terre al duca di Ferrara. Le quali ragioni gli davano giustissima causa di sospettare della volontà del re, ma gli pareva anche vederne certi indizi; perché essendo stata questa sollevazione ordinata intorno a Verona, era impossibile non fusse venuta molti dí innanzi a notizia di Lautrech, e avendolo taciuto si poteva prosumere del consenso suo. A che si aggiugneva che Federigo da Bozole era stato insino a quello dí agli stipendi del re, ma non si sapeva essere vero quello che in escusazione sua affermava Lautrech, che fusse finita la sua condotta. Dubitava ancora il pontefice della volontà de' viniziani, i proveditori de' quali si diceva essersi affaticati in fare questa unione; essendo quello senato, per la memoria delle cose passate, male sodisfatto di lui né contento della grandezza sua, perché succeduto in tanta potenza e riputazione del pontificato disponeva dello stato de' fiorentini ad arbitrio suo. Spaventavanlo queste cose, ma non lo confortava già né gli dava speranza la confidenza o congiunzione che avesse con gli altri príncipi: perché, oltre a essersi nuovamente o pacificati o confederati col re di Francia, non era stato grato ad alcuno il modo del procedere suo con occulti consigli e artifici; ne' quali, se bene fusse stato inclinato alla parte loro, nondimeno, andando renitente allo scoprirsi e lentamente a mettere in effetto le intenzioni o le promesse fatte loro, aveva sodisfatto poco a ciascuno; anzi, temendo spesse volte di tutti, aveva poco innanzi mandato frate Niccolò tedesco, secretario del cardinale de' Medici, al re cattolico per divertirlo dallo abboccamento che si trattava col re di Francia, dubitando che tra essi non si facesse maggiore congiunzione in pregiudicio suo.

                                                 In questa sospensione di animo non cessavano né Lorenzo suo nipote né lui di mandare continuamente gente in Romagna, parte di fanti che si soldavano di nuovo parte di battaglioni dell'ordinanza fiorentina; acciocché uniti con Renzo da Ceri e con Vitello, i quali erano con le loro genti d'arme a Ravenna, facessino resistenza al transito degli inimici. Ma essi, passato Po a Ostia, prevenendo con la celerità loro gli apparati degli altri, erano per la via di Cento e di Butrio, attraversato il contado di Bologna, entrati nelle terre sottoposte al duca di Ferrara. Da' quali luoghi, saccheggiato Granarolo castello del faventino, si accostorono a Faenza per tentare se, per nome di uno giovane de' Manfredi che era in quello esercito, facessino i faventini qualche mutazione; ma non si movendo dentro cosa alcuna passorono piú oltre, senza tentare alcuna altra delle terre di Romagna, nelle quali tutte erano a guardia o genti d'arme o fanterie: e per meglio assicurarsi di Rimini, Renzo e Vitello vi erano andati per mare. Venne e Lorenzo a Cesena per raccorre quivi e a Rimini le sue genti, ma essendo già passati gli inimici; né cessava in questo mezzo di soldare genti in molti luoghi, le quali gli abbondorno sopra la volontà e consiglio suo; perché partendosi da Lautrech, per ritornarsene alle case loro, dumila cinquecento fanti tedeschi e piú di quattromila guasconi, Giovanni da Poppi secretario di Lorenzo, stato per lui piú mesi appresso a Lautrech, o essendosi vanamente lasciato mettere sospetto che questa fanteria, non avendo stipendio da altri, seguiterebbe Francesco Maria o persuadendosi leggiermente che con queste forze si otterrebbe presto la vittoria, gli condusse di propria autorità, usando l'autorità di Lautrech co' capitani; e gli voltò subito verso Bologna: di maniera che al pontefice e a Lorenzo, a' quali, per il sospetto che aveano del re, fu questa cosa molestissima, non rimase luogo di recusargli; temendo che, poi che erano venuti tanto innanzi, non andassino a unirsi cogli inimici.

                                                 Procedeva in questo mezzo Francesco Maria, ed entrato nello stato d'Urbino era ricevuto per tutto con letizia grande de' popoli, non essendo nelle terre soldato alcuno; perché Lorenzo, non avendo avuto tempo a provedere in tanti luoghi, aveva solamente pensato alla difesa della città di Urbino, sedia e capo principale di quel ducato. Perciò per consiglio di Vitello v'avea mandato duemila fanti da Città di Castello, e in luogo di Vitello, che ricusò di andarvi, Iacopo Rossetto da Città di Castello: il quale, consigliando molti che, essendo il popolo sospettissimo, si cacciassero della città tutti coloro che erano abili a portare arme, ricusò di farlo. Voltossi adunque Francesco Maria, non perduto tempo altrove, a Urbino; e se bene la prima volta che si accostò alle mura fusse vano il conato suo, nondimeno la seconda volta che vi si accostò, Iacopo Rossetto convenne di dargli la terra, mosso o da infedeltà, come molti credevono, o da timore, per essere il popolo tutto sollevato; perché delle forze sole degli inimici, che non aveano né artiglierie né apparati da spugnare terre, non avea causa di temere. Uscirno, secondo le convenzioni, i soldati salvi con le robe loro: il vescovo Vitello, che in nome del nuovo duca governava quello stato, e sotto il quale pareva che niuna cosa succedesse mai prosperamente, rimase prigione. Seguitò l'esempio di Urbino, da Santo Leo in fuora, che per il sito munitissimo con piccolo presidio si difendeva, tutto il ducato. La città di Agobbio, che da principio avea chiamato il nome di Francesco Maria, e di poi, pentendosi, ritornata alla ubbidienza di Lorenzo, veduti i successi tanto prosperi, fece il medesimo che l'altre. Rimanevano in potestà di Lorenzo Pesero, Sinigaglia, Gradara e Mondaino, terre separate dal ducato.

                                                 Ricuperato Urbino, voltò Francesco Maria l'animo a insignorirsi di qualche luogo posto in sulla marina; e perché in Pesero e in Sinigaglia erano entrati molti soldati, fatta dimostrazione di andare a Pesero, si mosse verso Fano, piú facile per l'ordinario a espugnare, e della quale città, non essendo mai stata dominata da lui, meno si temeva: ma Renzo da Ceri che era a Pesero, avuta notizia de' suoi pensieri, vi mandò subito Troilo Savello con cento uomini d'arme e con seicento fanti. Accostoronsi gli inimici con cinque pezzi di artiglieria non molto grossa, li quali aveano trovati in Urbino; e avendo anche carestia di polvere non gittorno in terra piú che circa venti braccia di muro, né queste senza difficoltà; pure dettono la battaglia, nella quale perderono circa cento cinquanta uomini. Non spaventati da questo, assaltorno di nuovo il dí seguente, e con tanto valore che l'apertura della muraglia fu quasi abbandonata; ed entravano senza dubbio se non fusse stata la virtú di Fabiano da Gallese luogotenente di Troilo, il quale rimasto alla muraglia con pochi uomini d'arme, facendo maravigliosa difesa, gli sostenne. Arebbono il dí seguente data un'altra battaglia, ma inteso che la notte vi erano entrati per mare da Pesero cinquecento fanti, si levorno e andorno ad alloggiare al castello di Monte Baroccio posto in su uno monte molto alto e di sito munitissimo, donde è facile la scesa verso Fossombrone e Urbino, difficile e asprissima verso Pesero; nel qual luogo stando, poi che non avevano per allora alcuna opportuna occasione, guardavano il ducato di Urbino che rimaneva loro alle spalle. Da altra parte essendo venuti a Rimini, ove era Lorenzo de' Medici, i fanti tedeschi e guasconi, soldato oltre a questo moltissimi fanti italiani e mille cinquecento altri fanti tedeschi, di quegli che erano stati alla difesa di Verona, e raccolta insieme quasi tutta la cavalleria del pontefice e de' fiorentini, Lorenzo, il quale inesperto della guerra si reggeva col consiglio de' capitani, venuto con le genti d'arme a Pesero, mandò ad alloggiare i fanti ne' monti oppositi agli inimici.

                                                 È la città di Pesero situata in sulla bocca d'una vallata che viene di verso Urbino, della quale uscendo il fiume che dagli abitatori è chiamato Porto, perché per la profondità sua entrano in quello luogo le barche, si accosta alla città dalla parte di verso Rimini: la rocca è di verso il mare, e tra il fiume e la città sono molti magazzini; i quali Renzo, per la sicurtà della terra, aveva rovinati. Circondano parte grande della città monti da ogni parte, i quali non si distendono insino al mare ma tra loro e il mare resta qualche spazio di pianura, la quale dalla parte di verso Fano si allarga circa due miglia; e in sulla collina sono due monti rilevati l'uno a rincontro dell'altro: quello che è di verso la marina si chiama Candelara, l'altro di verso Urbino Nugolara; e nella sommità di ciascuno d'essi è uno castello del medesimo nome che ha il monte. Alloggiorno adunque i fanti italiani al castello di Candelara, i tedeschi e guasconi a quello di Nugolara, piú vicino agli inimici. Né si faceva questo con intenzione di combattere, se non con leggiere scaramuccie, con loro ma per impedirgli che non vagassino per il paese liberamente se si determinassero a fare impresa alcuna; perché il consiglio del pontefice era che, ove non gli tirasse la speranza quasi certa della vittoria, non si facesse battaglia giudicata con gli inimici, conoscendo pericoloso il combattere con soldati valorosi e, per essere ineguale il premio della prosperità, facili ad avventurarsi; dannosissimo l'essere vinto il suo esercito, perché si metteva in pericolo manifesto lo stato della Chiesa e de' fiorentini; e sicuro il temporeggiare attendendo a difendersi, potendosi con evidenti ragioni sperare che il mancamento de' danari e delle vettovaglie, in paese tanto sterile, avesse a disordinargli, né meno perché l'esercito suo, per l'esperienza e perché di mese in mese si empieva di soldati piú eletti, diventava migliore, e perché sperava doversi augumentare di dí in dí le cose sue.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.13, cap.2

                                                  

                                                 Lamentele del pontefice coi príncipi e richieste di aiuti. Risposte diverse dei príncipi al pontefice, e nuova convenzione di questo col re di Francia. Patti stabiliti nella convenzione.

                                                  

                                                 Conciossiaché, nel principio di questo movimento, procurando di aiutarsi eziandio con l'autorità pontificale, avesse istantemente dimandato aiuto da tutti i príncipi, querelandosi con gli oratori loro che erano in Roma e, per brevi apostolici e per messi, co' príncipi medesimi. Ma [non] con tutti nel modo medesimo: perché significando a Cesare e al re di Spagna la cospirazione fatta da Francesco Maria dalla Rovere e da' fanti spagnuoli, nel campo del re di Francia e in su gli occhi del suo luogotenente, inserí ne' brevi tali parole che si poteva comprendere avere non piccola dubitazione che queste cose fussino state ordinate con saputa di quel re; ma col re cristianissimo, dimostrando qualche sospetto di Lautrech, non passorno piú oltre le sue querele.

                                                 Fu questa cosa da' príncipi predetti accettata diversamente. Perché Cesare e il nipote intesono molto lietamente che il pontefice riputasse questa ingiuria dal re di Francia; conciossiaché Cesare, alienandosi già, per l'odio antico e per la sua incostanza, dal re di Francia, si era confederato di nuovo col re di Inghilterra, e convenuto col nipote appresso ad Anversa l'aveva confortato a non si abboccare col re di Francia, il che finalmente fu intermesso con consentimento dell'uno e dell'altro re; e nel re di Spagna non bastava a cancellare l'emulazione e il sospetto la confederazione fatta con lui. Però offersono al pontefice prontamente l'opera loro, comandorno a tutti i loro sudditi che si partissino dalla guerra che si faceva contro al pontefice; e il re cattolico mandò il conte di Potenza nel regno di Napoli perché, riordinate le genti d'arme, conducesse quattrocento lancie in aiuto suo, e per maggiore testimonianza della sua volontà, spogliò come inobbediente Francesco Maria del ducato di Sora, il quale comperato dal padre possedeva ne' confini di Terra di Lavoro. Ma al re di Francia furno grati per altra cagione gli affanni del pontefice, come di principe che avesse l'animo alieno da lui: però nel principio, seguitando l'esempio suo, deliberando nutrirlo con vane speranze, rispondeva averne ricevuto molestia grande promettendo di operare che Lautrech darebbe favore alle cose sue; soggiugnendo nondimeno che il pontefice pativa di quel che era stato causato da se medesimo, perché gli spagnuoli non arebbono avuto tanto ardire se non fusse cresciuto il numero loro, per quegli che con licenza sua erano passati da Napoli a Verona. Questa fu da principio la intenzione del re. Ma dipoi, considerando che il pontefice abbandonato da lui precipiterebbe senza alcuno freno alla amicizia del re di Spagna, deliberò di dargli favore; ma traendo nel tempo medesimo qualche frutto delle sue necessità. Però, ricercandolo il pontefice di aiuto, ordinò che da Milano vi andassino trecento lancie; e insieme propose doversi fare nuova confederazione tra loro, perché quella che era stata fatta a Bologna, essendo stata violata dal pontefice in molti modi, non era piú di alcuna considerazione. Aggiugneva alle offerte molte querele: perché ora si lamentava che il pontefice gli desse carico appresso agli altri príncipi; ora che, per fare ingiuria a sé e cosa grata al cardinale sedunense, avesse scomunicato Giorgio Soprasasso, il quale favoriva ne' svizzeri le cose sue. Oltre a questo, la reggente, madre del re e appresso a lui di grande autorità, riprendeva senza rispetto la empietà del pontefice, che non gli bastando l'avere cacciato uno principe dello stato proprio l'avesse poi ancora tenuto sottoposto alle censure, e denegando dare le doti o gli alimenti di quelle alla duchessa vedova e alla duchessa giovane sua moglie, fusse cagione che elle non avessino modo di sostentarsi: le quali parole ritornando agli orecchi del pontefice gli augumentavano il sospetto. Ma costituito in tante difficoltà, e desiderando gli aiuti suoi non per l'effetto ma per la riputazione e per il nome, le trecento lancie, partite sotto... di Sise da Milano, furno fatte dal pontefice, che non poteva dissimulare il sospetto, soprasedere molti dí nel modonese e nel bolognese, e poi da Lorenzo fatte fermare a Rimini: perché essendo quella città lontana agli inimici aveano, stando quivi, minore facoltà di nuocergli. Né si alleggierirono questi sospetti per la confederazione, la quale, quasi in questo tempo medesimo, si conchiuse in Roma; perché il re, innanzi ratificasse, fece nuove difficoltà per le quali la cosa stette sospesa molti dí. Finalmente, cedendo a molte cose il pontefice, il re ratificò.

                                                 Contenne la confederazione obligazione reciproca tra 'l pontefice e il re a difesa degli stati loro con certo numero di gente, e di dodicimila ducati per ciascuno mese: che tra il re di Francia e i fiorentini, co' quali si congiugneva l'autorità di Lorenzo de' Medici con inclusione del ducato di Urbino, fusse la medesima obligazione, ma con minore numero di genti, e di seimila ducati per ciascuno mese: fusse tenuto il re ad aiutare il pontefice quando volesse procedere contro a' sudditi e feudatari della Chiesa. Al re fu conceduta la nominazione de' benefici e la decima, secondo le promesse fatte a Bologna, con patto che si deponessino i danari per spendergli contro a' turchi (concedevasi sotto l'onestà di questo colore la decima) ma con tacita speranza data al re che, fatto il diposito di tutta la quantità, licenziata per un altro breve la condizione apposta, si convertissino liberamente in uso del re. Promesse il pontefice al re, per uno breve separato, di non lo richiedere mai di aiuto contro al duca di Ferrara, anzi essere contento che il re lo ricevesse nella sua protezione. Lunga altercazione fu sopra la restituzione di Reggio, Modona e Rubiera, dimandata con somma instanza dal re secondo le promesse ricevute a Bologna, né dal pontefice dinegata ma riservata ad altro tempo, allegando essergli molto indegno, e quasi confessione di ultima necessità, il restituirle quando era oppressato dalla guerra; e il re facendo instanza ch'elle si restituissino di presente. All'ultimo, dimostrandosi grande, se piú volesse strignerlo, l'alterazione del pontefice, ed essendo al re inimico il re di Inghilterra, sospetti Cesare il re di Spagna e i svizzeri, accettò che il pontefice, per uno breve il quale fusse consegnato a lui, promettesse di restituire al duca di Ferrara Modena, Reggio e Rubiera infra sette mesi prossimi: avendo il pontefice nell'animo, se prima cessavano i suoi pericoli, non fare maggiore stimazione del breve che delle parole dette in Bologna; e al re, poi che senza pericolo di grandissima indegnazione non poteva piú ottenere, parendo pure di qualche momento che le promesse e la fede apparissino per iscrittura.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.3

                                                  

                                                 Scorrerie dell'esercito di Lorenzo nel territorio del ducato. Ambasciatore di Francesco Maria trattenuto prigione da Lorenzo. Efficienza dell'esercito di Lorenzo. Fossombrone e il Vicariato. Prima occasione di buon successo perduta dall'esercito di Lorenzo.

                                                  

                                                 Ma mentre che queste cose si trattavano, essendo augumentato assai l'esercito di Lorenzo, perché oltre a molti, soldati di nuovo da lui, il pontefice aveva soldato a Roma mille fanti spagnuoli e mille tedeschi, pareva fusse già maturo il tempo di tentare di liberarsi da questa guerra; alla qual cosa, per la fortezza dello alloggiamento degli inimici, era unica speranza il costringerli, per la penuria delle vettovaglie, a partirsi: però fu mandato Cammillo Orsino con settecento cavalli leggieri a scorrere il paese che si dice il Vicariato, le vettovaglie del quale per la maggior parte gli sostentavano.

                                                 Nel qual tempo, per uno trombetto venuto a Pesero dell'esercito inimico, fu domandato a Lorenzo salvocondotto per il quale potesse venire a lui il capitano Suares spagnuolo e uno altro, che non si nominava, in sua compagnia; il quale Lorenzo facilmente concedette, credendo fusse uno capitano col quale aveva secreta intelligenza. Ma venne uno altro capitano del medesimo nome, e con lui Orazio da Fermo secretario di Francesco Maria; e dimandata publica udienza, Suares offerse in nome di Francesco Maria che, potendosi decidere le differenze con abbattimento a corpo a corpo o di determinato numero con ciascuno di loro, era più conveniente eleggere uno di questi modi che perseverare in quella via, per la quale si distruggevano empiamente i popoli e in pregiudicio di qualunque ne avesse a essere signore; però Francesco Maria offerire quale più gli piacesse di questi modi. Dopo le quali parole, volendo leggere la scrittura che aveva in mano gli fu proibito. Rispose Lorenzo, con consiglio de' suoi capitani, che volentieri accettava questa proposta purché Francesco Maria lasciasse prima quel che violentemente gli aveva occupato: dopo le quali parole, stimolato da Renzo da Ceri, gli fece amendue incarcerare; perché Renzo affermava meritare punizione per avere fatto uno atto troppo insolente. Ma riprendendosi la violazione della fede dagli altri capitani, liberato Suares, ritenne solamente Orazio; scusando la infamia della fede rotta con false cavillazioni, come se fusse stato necessario nominare espressamente nel salvocondotto Orazio, suddito per origine della Chiesa e secretario dello inimico: ma si faceva per intendere da lui i secreti di Francesco Maria, e specialmente con consiglio o per la autorità di chi avesse mossa la guerra. Sopra le quali cose esaminato con tormenti, si divulgò la confessione sua essere stata tale che avea augumentato il sospetto conceputo del re di Francia.

                                                 Ma il desiderio di Lorenzo, di impedire agli spagnuoli le vettovaglie del Vicariato, avea bisogno di sforzo maggiore, perché dalle correrie de' cavalli leggieri non succedevano se non effetti di piccolo momento; e già l'esercito era tale che poteva arditamente opporsi agli inimici, perché avea raccolti Lorenzo, oltre a mille uomini d'arme e mille cavalli leggieri, quindicimila fanti di varie nazioni, tra i quali erano più di dumila spagnuoli soldati a Roma; fanteria tutta esercitata nell'armi e molto eletta, perché i fanti italiani, non si facendo guerra in altro luogo e perché i capitani aveano avuto comodità di permutare di mano in mano in fanti più utili la piena degli inutili raccolta al primo stipendio tumultuariamente, erano il fiore de' fanti di tutta Italia. Deliberossi adunque di andare ad alloggiare a Sorbolungo, castello del contado di Fano distante cinque miglia da Fossombrone, dal quale alloggiamento le vettovaglie del Vicariato facilmente si impedivano agli inimici.

                                                 È la città di Fossombrone situata in sul fiume del Metro, fiume famoso per la vittoria de' romani contro ad Asdrubale cartaginese; il quale fiume, avendo corso insino a quello luogo per alveo ristretto tra' monti, come ha passato Fossombrone comincia a correre per una vallata più larga; la quale tanto più si dilata quanto più si appropinqua al mare, distante da Fossombrone quindici miglia, nel quale entra il Metro appresso a Fano, ma dalla parte di verso Sinigaglia. Da mano destra, secondo il corso del fiume, è quel paese che si denomina il Vicariato, pieno tutto di colline fertili e di castella, il quale si distende per lungo spazio verso la Marca; e dalla mano sinistra del fiume sono eziandio colline, ma allontanandosi si trovano monti alti e aspri; e lo spazio della pianura che si distende verso Fano è largo più di tre miglia.

                                                 Quando adunque Lorenzo deliberò di andare ad alloggiare a Sorbolungo, dubitando che gli inimici, sentendo muoversi il campo suo non prevenissino, mandò la mattina innanzi giorno a pigliare il castello Giovanni de' Medici Giovambattista da Stabbia e Brunoro da Furlì con quattrocento cavalli leggieri; e ordinato a' fanti che erano a Candelara e Nugolara che attraversando i monti andassino per unirsi con gli altri verso il Metro, egli con tutto il rimanente dell'esercito, lasciato Guido Rangone alla guardia di Pesero con cento cinquanta uomini d'arme, a levata di sole prese il cammino da Pesero verso Fano per il lito della marina, e voltatosi verso Fossombrone, dove comincia la valle, arrivò a mezzodì a uno luogo detto il mulino di Madonna in sul fiume, il quale tutti i cavalli e i fanti italiani guadorono: ma i guasconi e i tedeschi passorno tanto tardamente per il ponte preparato a questo che, non potendo l'esercito condursi il dì medesimo, secondo la deliberazione fatta, a Sorbolungo, fu necessario che alloggiassino a San Giorgio, Orciano e Mondavio, castelli distanti mezzo miglio l'uno dall'altro. Ma non ebbe migliore fortuna quello che era stato commesso a' cavalli leggieri; perché parendo, nel camminare, a Giovanni de' Medici (nel quale in questa sua prima esercitazione della milizia apparivano segni della futura ferocia e virtù) che per errore si pigliasse la via più lunga, abbandonati gli altri i quali disprezzorono il consiglio suo, entrò, più ore innanzi che sopravenisse la notte, in Sorbolungo; gli altri due capitani, dopo lungo circuito, ingannati secondo dicevano dalla guida, ritornorno finalmente all'esercito. Né potette Giovanni de' Medici rimasto con la sua compagnia sola fermarsi la notte in Sorbolungo, perché la mattina medesima Francesco Maria, presentita la mossa degli inimici, immaginando dove andassino, si era con grandissima celerità mosso con tutto l'esercito; il quale non ricevendo impedimento dal transito del fiume, perché lo passorno a Fossombrone dove è il ponte di pietra, pervenne innanzi fusse la notte a Sorbolungo; per la venuta de' quali Giovanni, vedendosi impotente a resistere, si ritirò verso Orciano, seguitandolo i cavalli degli inimici da' quali furno presi molti de' suoi. A Orciano, entrato nell'alloggiamento di Lorenzo, disse a lui, con grandissima indegnazione, o la negligenza o la viltà di Brunoro e di Giovambatista da Stabbia, i quali erano presenti, avergli tolta quel dì la vittoria della guerra. Questa fu la prima ma non già sola occasione di prospero successo che perdesse l'esercito di Lorenzo, perché e di poi ne perdé dell'altre maggiori; e seguitorono continuamente più perniciosi disordini, accompagnandosi con la fortuna avversa i cattivi consigli.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.4

                                                  

                                                 Ritirata dell'esercito di Lorenzo verso Monte Baroccio; scaramuccie coi nemici, che li prevengono nell'occupazione del luogo. Posizione dei due eserciti. Nuovo spostarsi dell'esercito di Lorenzo. Presa di San Gostanzo. L'esercito di Lorenzo sotto Mondolfo; ferita di Lorenzo. Resa del castello.

                                                  

                                                 Le castella di Orciano e Sorbolungo, poste in luogo eminente, sono distanti l'uno dall'altro poco piú di due miglia; nel mezzo sono tutte colline e monticelli, e uno castello chiamato Barti, dove era alloggiata parte della gente di Francesco Maria: nella quale propinquità degli eserciti si attese tutto il dí seguente a scaramucciare. Vari erano i consigli tra i capitani dell'esercito di Lorenzo: perché alcuni, e quegli massime dalla sentenza de' quali non pendeva la deliberazione, confortavano che si andasse ad assaltare gli inimici, parendo forse loro, senza mettere né sé né altri a pericolo, col proporre vanamente consigli arditi acquistare nome di coraggiosi; ma Renzo e Vitello, il parere de' quali era sempre seguitato da Lorenzo, dissuaseno questo consiglio, perché gli inimici erano alloggiati in sito forte, avevano il castello a ridosso dove non poteva andarsi se non per cammino difficile: dannando ancora il soprasedere in quegli luoghi come cosa inutile e da non partorire l'effetto per il quale si erano mossi da Pesero; perché essendo Sorbolungo in potestà di Francesco Maria, era molto difficile impedire le vettovaglie del Vicariato. Con le quali ragioni, avendo dannata ogn'altra deliberazione, ottenevano per necessità che si dovesse ritornare indietro. E perché la ritirata non avesse similitudine di fuga, proponevano non che l'esercito ritornasse agli alloggiamenti di prima ma che si andasse a occupare Montebaroccio e i luoghi da' quali si erano partiti gli inimici, donde si poteva procedere inverso Urbino. Con la quale deliberazione partí lo esercito la mattina seguente al fare del dí, ma si credeva questa essere non ritirata ma fuga. Dalla quale opinione, divulgata per tutto il campo, procedette che due uomini d'arme fuggiti a Francesco Maria gli riferirono gli inimici pieni di spavento levarsi quasi fuggendo. Però parendogli d'avere la vittoria quasi certa, mosse subito l'esercito per il cammino a traverso de' monti, sperando di pervenire a loro come fussino calati nella pianura; i quali credeva dovessino andare per la via piú breve e piú facile: per la quale se andavano, non poteva né l'una parte né l'altra fuggire il combattere. Ma la fortuna volle che per salvare un cannone, rimasto indietro il dí dinanzi perché alla carretta si era rotta una ruota, l'esercito di Lorenzo andasse a ripassare il Metro al medesimo Mulino di Madonna, luogo piú basso piú di quattro miglia che quello al quale lo conduceva la strada piú facile e piú breve. Da cause e da accidenti tanto piccoli si variano nelle guerre eventi di grandissimo momento! Passorono tutti i cavalli e i fanti a guazzo ma con grandissima tardità, e quegli che erano passati si voltavano subito in ordinanza per il piano verso Fossombrone. Era già passata tutta la fanteria; e dovendo passare le genti d'arme e i cavalli leggieri che camminavano nell'ultima parte del campo, cominciorono i cavalli leggieri degli inimici, che erano molti ed eletti, a scaramucciare con loro: nella quale scaramuccia fu preso Gostantino, figliuolo, anzi non manco nipote che figliuolo, di Giampaolo Baglione, perché era nato di lui e d'una sorella sua. Però Giampaolo, il quale venuto non molti dí prima all'esercito conduceva l'avanguardia, attendendo a fare ogni sforzo per recuperarlo, tardò tanto che di avanguardia diventò retroguardo, succedendo nel primo luogo Lorenzo che menava la battaglia, e nel luogo della battaglia Troilo Savello che menava il retroguardo; perché Renzo e Vitello andavano innanzi co' fanti. Ma come Francesco Maria e i suoi capitani veddono che gli inimici, secondo che avevano passato il fiume, si voltavano verso Fossombrone, si accorsono non essersi mossi per fuggire ma per occupare il Monte Baroccio: però cessando la cupidità prima del combattere, fondata in sul terrore immaginato degli inimici, lasciate le bagaglie, corseno subito con somma celerità, senza ordine alcuno e con le bandiere in su le spalle, per occupare uno passo forte del fiume chiamato le Tavernelle, dove la natura ha fatto uno fossato dirupato che piglia tutto il traverso d'uno piano insino al monte, né si può passare se non a uno passo che è fatto per la strada; al quale se gli inimici, che secondo passavano si voltavano a quella parte, fussino prevenuti, si riducevano in manifestissimo pericolo. E benché Lodovico figliuolo di Liverotto da Fermo il quale il dí medesimo era con mille fanti venuto nell'esercito di Lorenzo, e uno sergente spagnuolo, pratichi del paese, ne avvertissino Lorenzo e i suoi capitani, non feciono frutto alcuno; perché con tutto che i fanti tedeschi e guasconi si dimostrassino prontissimi a combattere, il medesimo si gridasse per tutto il campo, e apparisse Lorenzo non ne essere alieno, nondimeno Renzo da Ceri e Vitello consigliorno non essere bene farsi incontro agli inimici ma doversi ritirare a uno colle vicino, donde senza sottoporsi ad alcuno pericolo farebbono loro, nel passare il fiume, co' cavalli espediti, danno gravissimo. Cosí, lasciato quel passo forte, Renzo si voltò verso il monte, e gli spagnuoli, come ebbono occupato quel passo, salutati con gli archibusi i tedeschi a' quali erano piú propinqui, significorno con allegrissimo grido di conoscere di essere di manifesto pericolo ridotti alla salute quasi certa. Cosí, o per imprudenza o per viltà (se già la malignità non vi ebbe parte), perdé Lorenzo quello dí, a giudicio di tutti, l'occasione della vittoria. Alloggiò la notte l'esercito suo a uno castello vicino detto Saltara; ma l'esercito di Francesco Maria, continuando con grandissima celerità il cammino insino a non piccola parte della notte, si condusse all'alloggiamento di Montebaroccio, prevenendo duemila fanti mandativi da Lorenzo per occuparlo: il quale andò, il dí seguente, ad alloggiare due miglia piú alto da Saltara verso il monte, luogo volto verso Montebaroccio, ma piú basso e dalla parte del mare. Stettono in questi luoghi amendue gli eserciti, vicini circa a uno miglio; ma con incomodità maggiore quello di Lorenzo, il quale pativa spesso di vettovaglie: perché, portandosi da Pesero a Fano per mare, bisognava, quando i venti contrari impedivano la navicazione, condurle per terra, e a questo davano molti impedimenti i cavalli leggieri di Francesco Maria; i quali avvertiti da' paesani di ogni andamento, benché minimo, degli inimici correvano continuamente per tutto.

                                                 Nel qual tempo mandò Francesco Maria uno trombetto a mostrare a' fanti guasconi certe lettere trovate nelle scritture de' secretari di Lorenzo, le quali, il dí che e' si partí dal castello di Saltara, erano state insieme con una parte de' suoi carriaggi tolte da' cavalli degli inimici; per le quali lettere si comprendeva che il pontefice, infastidito delle disoneste taglie de' guasconi, a' quali era stato necessario accrescere ciascuno mese immoderatissimamente i pagamenti, desiderava si facesse ogni opera per indurgli a tornarsene di là da' monti: per le quali lettere era pericolo che il dí medesimo non facessino qualche tumulto se Carbone guascone loro capitano e Lorenzo de' Medici, ingegnandosi di persuadere essere lettere finte e inganni degli inimici, non gli avessino raffrenati. Nondimeno il sospetto di questa cosa, la difficoltà delle vettovaglie, e lo essere alloggiati in luogo dove senza comparazione si mostrava maggiore il pericolo di perdere che la speranza di acquistare, fece deliberare di levarsi (ancorché non paresse senza vergogna il discostarsi tanto spesso dagli inimici) ed entrare nel Vicariato da quella parte che è piú vicina al mare, e procedere insino al fine verso Fossombrone: deliberazione approvata da tutto il campo, ma non senza infamia grande di Renzo e di Vitello; perché le voci di tutti i soldati risonavano che se da principio avessino deliberato questo medesimo arebbeno messo gli inimici in grande difficoltà di vettovaglie. Anzi Lorenzo medesimo gli riprendeva piú che gli altri; lamentandosi che, o per allungare per utilità propria la guerra o per impedire a lui il farsi famoso nell'armi, forse temendo dalla grandezza sua effetti simili a quegli i quali aveva contro alle case loro prodotta la grandezza del duca Valentino avessino condotto in tante difficoltà e in tanti pericoli uno esercito sí potente e tanto superiore di numero e di forze agli inimici.

                                                 Andò adunque l'esercito a campo a San Gostanzo, castello del Vicariato; gli uomini del quale benché cercassino, battendosi già le mura con l'artiglierie, di arrendersi, nondimeno, conoscendosi la facilità dello sforzarlo e desiderando di mitigare gli animi gonfiati de' guasconi, ritirati tutti gli altri soldati dalla muraglia, fu lasciata la facoltà di assaltarlo a' guasconi soli, acciò che soli lo saccheggiassino. Preso San Gostanzo, andò il dí medesimo il campo a Mondolfo distante due miglia, castello piú forte e migliore del Vicariato, situato in su una collina in luogo eminente, cinto da fossi e di muraglia da non disprezzare, alla quale il sito del luogo fa terrapieno, e dove erano a guardia dugento fanti spagnuoli. Piantoronsi la notte medesima l'artiglierie dalla parte di verso mezzodí, ma o per negligenza o per inconsiderazione di Renzo da Ceri, il quale ebbe questa cura, furono piantate in luogo scoperto e senza ripari; in modo che, innanzi che il sole fusse stato una ora sopra la terra, furono dall'artiglierie di dentro ammazzati otto bombardieri e molti guastatori, e ferito Antonio Santa Croce capitano della artiglieria. Per il che commosso molto di animo Lorenzo, ancora che sconfortato da tutti i capitani, che quello che poteva commettere ad altri non volesse eseguire da se stesso con tanto pericolo, andò in persona a fare fare i ripari; dove essendosi affaticato insino a mezzodí, avendo proveduto opportunamente, si tirò indietro per andare a riposarsi sotto certi alberi, parendogli essere coperto dalla sommità del monte: ma nello andare, mancando l'altezza del colle, scoperse la rocca per fianco situata dalla parte di ponente, né prima l'ebbe scoperta che vidde dare fuoco a uno archibuso; il colpo del quale per schifare gittandosi in terra bocconi, innanzi che arrivasse a terra, il colpo, che altrimenti gli arebbe dato nel corpo, gli percosse nella sommità del capo, toccando l'osso e riuscendo lungo la cotenna verso la nuca. Ferito Lorenzo, i capitani accorgendosi che, ancora che fusse battuto il muro, restava troppa altezza del terrapieno, cominciorono a fare una mina, con la quale entrati sotto uno torrione che era contiguo al muro battuto gli dettono il quinto dí il fuoco; il quale avendo con grande impeto gittato in terra a mezzodí il torrione e uno pezzo grande della muraglia congiunta a quello, si cominciò subito a dare la battaglia, ma con poco ordine e quasi a caso, la quale non partorí altro frutto che quello che sogliono comunemente partorire gli assalti male ordinati: nondimeno, essendo venuta la notte, i soldati non sperando soccorso, perché Francesco Maria, o per non perdere quello sito o per altra cagione, non si era partito dallo alloggiamento di Montebaroccio, si arrenderono salvo l'avere e le persone, lasciando in preda bruttamente gli uomini della terra.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.5

                                                  

                                                 Il cardinale di Santa Maria in Portico legato pontificio all'esercito; tumulti per questioni fra soldati tedeschi e italiani; conseguente sospensione delle operazioni. Defezione di soldati spagnuoli dall'esercito pontificio. Strage di soldati tedeschi. Defezione di guasconi e di tedeschi dall'esercito pontificio. Consiglio dei capi dell'esercito di rimettere i Bentivoglio in Bologna e sdegno del pontefice per tale proposta.

                                                  

                                                 Per la ferita di Lorenzo, costituito in gravissimo pericolo della vita, il pontefice mandò legato allo esercito il cardinale di Santa Maria in Portico; il quale, congiunta già la fortuna a' pessimi governi, cominciò con infelici auspici a esercitare quella legazione. Perché il dí seguente che e' fu arrivato allo esercito, essendo nata a caso una quistione tra uno fante italiano e uno tedesco, e correndovi i piú vicini e ciascuno chiamando il nome della sua nazione, si ampliò il tumulto per tutto il campo, in modo che, non si sapendo che origine avesse o che cagione, tutti i fanti per armarsi si ritiravano tumultuosamente agli alloggiamenti de' suoi; ma quegli che nel ritirarsi si riscontravano in fanti di altre lingue erano molte volte ammazzati da loro: e, quel che fu cagione di maggiore disordine, essendo i fanti italiani andati in ordinanza verso il luogo nel quale era cominciata la quistione, furono da' fanti guasconi saccheggiati gli alloggiamenti loro. Concorsono i capitani principali dello esercito, i quali allora erano nel consiglio, per porre rimedio a tanto disordine; ma vedendo il tumulto grande e pericoloso, ciascuno abbandonando i pensieri delle cose comuni per lo interesse particolare si ritirò a' suoi alloggiamenti; e messe subito in ordine le loro genti d'arme, non pensando se non a salvare quelle, si discostorono con esse dal campo circa uno miglio. Solo il legato Bibbiena, con la costanza e prontezza che apparteneva all'officio e all'onore suo, non abbandonò la causa comune, riducendosi molte volte, per il furore della moltitudine concitata, in pericolo non piccolo della vita; per opera del quale, non senza molte difficoltà e interponendosene molti de' capitani de' fanti, cessò finalmente il tumulto; nel quale erano stati, in diversi luoghi del campo, morti piú di cento fanti tedeschi, piú di venti italiani e qualche fante spagnuolo. Questo accidente fu cagione che, dubitandosi che se l'esercito stava insieme i fanti esacerbati per le offese ricevute non combattessino per ogni piccolo caso l'uno contro all'altro, si deliberasse non procedere per allora a impresa alcuna ma tenere separato l'esercito. Però furono alloggiate nella città di Pesero le genti d'arme della Chiesa e de' fiorentini e i fanti italiani; perché le lancie franzesi, non essendo ancora risolute le difficoltà tra il pontefice e il re, non si erano mai mosse da Rimini. Alloggiorono i fanti guasconi nel piano, presso a mezzo miglio di quella città; gli altri fanti furono distribuiti in su il monte della Imperiale, monte sopra Pesero dalla parte di verso Rimini, in su il quale è uno palazzo fabricato dagli antichi Malatesti. E furono alloggiati con questo ordine: gli spagnuoli in su la sommità del monte, i tedeschi piú a basso secondo che il monte scende, e i corsi alle radici del monte.

                                                 Cosí stettono ventitré dí, non si facendo in quel mezzo altro che scaramuccie di cavalli leggieri; perché Francesco Maria, non potendo sperare di rompere alla campagna sí grosso esercito né tentare, per la vicinità loro, l'espugnazione di alcuna terra, attendendo a conservare quello che aveva acquistato, si stava fermo. Ma il vigesimo quarto dí, partito di notte da Montebaroccio, arrivò all'alba del dí in su la sommità del monte negli alloggiamenti degli spagnuoli; co' quali, o con tutti o con parte di loro, si credette, per quello che dimostrò il progresso della cosa, che avesse avuta secreta intelligenza. Venuto quivi, subito i suoi spagnuoli gridorno agli altri che se volevano salvarsi gli seguitassino, alla quale voce la maggiore parte, messosi ciascuno in sul capo uno ramuscello di fronde verdi come aveano loro, gli seguitò: soli i capitani con circa ottocento fanti si ritirorono a Pesero. Cosí uniti andorono agli alloggiamenti de' tedeschi, i quali non facevano da quella parte custodia alcuna, per la sicurtà che dava loro la vicinità de' fanti spagnuoli; trovatigli cosí incauti n'ammazzorno e ferirno piú di secento, gli altri fuggendo negli alloggiamenti de' corsi si discostorono insieme verso Pesero: i guasconi, sentito il tumulto, messisi in ordinanza, non volleno mai muoversi del luogo loro. Uccisi i tedeschi e tirata a sé la maggiore parte de' fanti spagnuoli, Francesco Maria fermò l'esercito tra Urbino e Pesero; pieno di speranza che con lui s'avessino a unire i guasconi e quegli fanti tedeschi i quali, levati nel tempo medesimo del campo di Lautrech, erano sempre andati, alloggiati e proceduti insieme.

                                                 Era tra' guasconi Ambra, emulo del capitano Carbone; il quale, giovane di sangue piú nobile e parente di Lautrech, aveva appresso a loro autorità maggiore. Costui aveva trattato occultamente, molti giorni, di passare con quei fanti a Francesco Maria; e gli dava occasione che, non contenti di avere accresciuti immoderatamente gli stipendi, dimandavano di nuovo insolentemente condizioni molto maggiori: alle quali repugnando i ministri del pontefice, si interponevano per concordargli Carbone e il capitano delle lancie franzesi, venuto da Rimini a Pesero per questa cagione. Ma cinque o sei dí da poi che era succeduto il caso degli spagnuoli e tedeschi al monte della Imperiale, Francesco Maria con tutto l'esercito si scoperse vicino a loro. Una parte de' quali insieme con Ambra, messasi in battaglia, con sei sagri e seguitata da' tedeschi, si uní con lui; ingegnandosi invano Carbone con prieghi e con parole ardenti di ritenergli: col quale rimasono sette capitani con mille trecento fanti; gli altri tutti, insieme co' tedeschi, l'abbandonorno. E come nelle cose della guerra si aggiungono sempre a' disordini nuovi disordini, i fanti italiani, vedendo la necessità che s'avea di loro, la mattina seguente tumultuorno: i quali per quietare bisognò, ne' pagamenti, concedere dimande immoderate; non essendo né piú vergogna né minore avarizia ne' capitani che ne' fanti. Ed era certo cosa maravigliosa che nello esercito di Francesco Maria, nel quale a' soldati non si davano mai i danari, fusse tanta concordia ubbidienza e unione; non dependendo tanto questo, come con somma laude si dice di Annibale cartaginese, dalla virtú o autorità del capitano quanto dallo ardore e ostinazione de' soldati: e per contrario, che nello esercito della Chiesa, ove a' tempi debiti non mancavano eccessivi pagamenti, fussino tante confusioni e disordini, e tanto desiderio ne' fanti di passare agli inimici. Donde apparisce che non tanto i danari quanto altre cagioni mantengono spesso la concordia e l'ubbidienza negli eserciti.

                                                 Spaventati da tanti accidenti, il legato e gli altri che intervenivano nel consiglio, esaminato lungamente quello che per rimedio delle cose afflitte fusse da fare, né essendo piú prudenti o abbondanti di modi abili a provedere dopo i disordini seguiti che fussino stati a provedere che non seguissino, movendogli ancora gli interessi e le cupidità particolari, conchiuseno essere da confortare il pontefice che restituisse i Bentivogli in Bologna innanzi che essi, preso animo dalla declinazione delle cose o incitati da altri, facessino qualche movimento: al quale come si potrebbe resistere, mostrarlo le difficoltà che avevano di sostenere la guerra in uno luogo solo. Però avendo, per dare maggiore autorità a tale consiglio o per piú giustificazione, in ogni evento, di tutti, fatto distendere in iscrittura il parere comune e sottoscrittolo di mano del legato e dell'arcivescovo Orsino (l'uno de' quali era congiunto d'antica amicizia a' Bentivogli, l'altro di parentado) e da tutti i capitani, mandorono, per il conte Ruberto Boschetto gentiluomo modonese, al papa questa scrittura. La quale non solo fu disprezzata da lui, ma si lamentò con parole molto acerbe che i ministri suoi, e quegli che da lui avevano ricevuti tanti benefici o potevano sperare a ogn'ora di riceverne, gli proponessino, con tanto piccola fede e amore, consigli non manco perniciosi che i mali i quali gli facevano gli inimici; risentendosene principalmente contro all'arcivescovo Orsino, per essere forse stato principale stimolatore degli altri a questo consiglio: il quale sdegno si crede che forse fusse cagione di torgli la dignità del cardinalato, la quale gli era promessa da tutti nella prima promozione.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.6

                                                  

                                                 Francesco Maria si volge verso Perugia. Esecuzione di capi di milizie spagnuole colpevoli di accordi coi nemici. Provvedimenti dei pontifici per far fallire l'impresa del duca di Urbino. Accordi di Giampaolo Baglioni con Francesco Maria. I progressi dei nemici costringono Francesco Maria a ritornare nel ducato.

                                                  

                                                 Ma Francesco Maria, essendo tanto accresciute le forze sue e diminuite quelle degli avversari, alzò l'animo a maggiori pensieri, stimolato ancora dalla necessità; perché i fanti venuti seco erano stati tre mesi quasi senza danari, a questi venuti nuovamente niuna facoltà avea di darne; ed essendo il ducato di Urbino esausto e quasi tutto spogliato, non solo non vi avevano i soldati facoltà di predare ma con difficoltà vi erano vettovaglie bastanti a nutrirgli. Ma nella elezione della impresa gli bisognò seguitare la volontà di altri. Perché esso, per lo stabilimento del suo stato, desiderava, innanzi tentasse altra cosa, assaltare di nuovo Fano o qualcun'altra delle terre poste in sul mare; ma per l'inclinazione de' soldati cupidi delle prede e delle rapine deliberò voltarsi piú presto in Toscana, dove, per essere pieno il paese, che era senza sospetto, ed esservi piccoli provedimenti, speravano potere fare grandissimi guadagni. Incitavalo oltre a questo la speranza di potere, per mezzo di Carlo Baglione e di Borghese Petrucci, fare mutazione in Perugia e in Siena, donde sarebbono augumentate assai le cose sue, e le molestie e i pericoli del pontefice e del nipote. Perciò, il dí seguente a quello nel quale ebbe raccolti i guasconi, mosse l'esercito verso Perugia, ma come fu nel piano di Agobbio, deliberò manifestare il sospetto suo, anzi scienza quasi certa, che avea, della perfidia del colonnello Maldonato e di alcuni altri congiunti nella medesima causa con lui.

                                                 Era la cosa nata e venuta a luce in questo modo. Quando l'esercito passò per la Romagna, Suares, uno de' capitani spagnuoli, rimasto indietro sotto finzione di essere ammalato, si era lasciato studiosamente fare prigione; e menato a Cesena a Lorenzo, gli disse, per parte di Maldonato e di due altri capitani spagnuoli, la causa di congiugnersi con Francesco Maria non essere stata per altro che per avere occasione di fare qualche servizio notabile al pontefice e a lui, poiché non era stato in potestà di essi ovviare che questo movimento si facesse; promettendogli in nome loro che, subito che avessino opportunità di farlo, lo metterebbono a esecuzione. Le quali cose non essendo note a Francesco Maria, cominciò a sospettare per alcune parole dette incautamente da Renzo da Ceri a uno tamburino degli spagnuoli; perché, come motteggiando, lo dimandò: - Quando vorranno quegli spagnuoli darci prigione il vostro duca? - La quale voce, entrata piú altamente nel petto di Francesco Maria, gli avea data cagione di osservare diligentemente se nello esercito fusse fraude alcuna. Ma finalmente, per le scritture intercette ne' carriaggi di Lorenzo, comprese, Maldonato essere autore di qualche insidia. La quale cosa avendo dissimulata insino a quello dí, né gli parendo doverla piú dissimulare, chiamati a parlamento tutti i fanti spagnuoli, egli stando in luogo rilevato in mezzo di tutti, cominciò a ringraziargli con efficacissime parole delle opere che con tanta prontezza avevano fatto per lui, confessando non essere, o ne' tempi moderni o nelle istorie antiche, memoria di principe o di capitano alcuno che avesse tante obligazioni a gente di guerra quante conosceva egli d'avere con loro: conciossiaché, non avendo denari né modo di promettere loro remunerazione, essendo, quando bene avesse recuperato tutto il suo stato, piccolo signore, non fatto mai loro alcuno beneficio, non essendo della medesima nazione né avendo mai militato ne' campi loro, si fussino sí prontamente disposti a seguitarlo contro a uno principe di tanta grandezza e riputazione; né tirati dalla speranza della preda, perché sapevano essere condotti in uno paese povero e sterile. Delle quali operazioni non avendo facoltà di rendere loro grazie se non con la sincerità della volontà e dell'animo, essersi sommamente rallegrato che avessino acquistato, non solo per tutta Italia ma per tutte le provincie di Europa, maravigliosa fama, alzando insino al cielo ciascuno la loro egregia fede e virtú, che pochissimi di numero, senza danari senza artiglierie senza alcuna delle provisioni necessarie alla guerra, avessino tante volte fatto voltare le spalle a uno esercito abbondantissimo di danari e di tutte l'altre cose, nel quale militavano tante bellicose nazioni, e contro alla potenza di uno pontefice grandissimo e dello stato de' fiorentini, a' quali era congiunta l'autorità e il nome de' re di Francia e di Spagna: disprezzati, per mantenere la fede e la fama degli uomini militari, i comandamenti de' propri signori. Le quali cose come per la gloria del nome loro gli davano incredibile piacere, cosí per contrario avergli dato e dargli molestia incredibile tutte le cose che potessino oscurare tanto splendore. Malvolentieri e con inestimabile dolore indursi a manifestare cose che gli costrignessino a offendere alcuno di quegli a ciascuno de' quali aveva prima fatta deliberazione di essere, mentre gli durava la vita, schiavo particolarmente; nondimeno, perché per il tacere suo il disordine cominciato non diventasse maggiore, e perché la malignità di alcuni non spegnesse tanta gloria acquistata da quello esercito, ed essendo anche conveniente che in lui potesse piú l'onore di tutti che il rispetto di pochi, manifestare loro essere in quello esercito quattro persone che tradivano la gloria e la salute di tutti. Della sua non fare menzione né lamentarsi, perché, travagliato da tanti casi e stato perseguitato senza sua colpa sí acerbamente dalla fortuna, essere qualche volta manco desideroso della vita che della morte; ma non patire le obligazioni che aveva con loro, non l'amore smisurato che meritamente gli portava che non facesse loro palese che il colonnello Maldonato (quello in cui doveva essere maggiore cura della salute e gloria di tutti), il capitano Suares (quello che per ordire tanta tristizia, simulando di essere infermato, si era fatto in Romagna pigliare dagli inimici), e due altri capitani, avevano con scelerati consigli promesso tradirgli a Lorenzo de' Medici: i quali consigli erano stati interrotti dalla vigilanza sua, per la quale rendendosi sicuro, non avere prima voluto manifestare tanto peccato; ma non gli parendo di tenere piú sottoposto sé e tutti gli altri a sí grave pericolo, avere aperto loro quello che molto innanzi era stato saputo da lui. Apparire queste cose per lettere autentiche trovate nelle scritture che furono intercette di Lorenzo, apparire per molti indizi e congetture; le quali tutte volere proporre loro, acciò che fussino giudici di tanto delitto, e udito le cose proposte, quello che in defensione loro dicessino questi accusati, potessino risolversi a quella deliberazione che paresse loro piú conforme alla giustizia, e alla gloria e utilità dello esercito. Finito che ebbe di parlare fece leggere le lettere ed esporre gli indizi. Le quali cose udite da tutti con grandissima attenzione, non fu dubbio che per giudicio comune non fussino, senza udirgli altrimenti, Maldonato, Suares e gli altri due capitani, condannati alla morte; la quale subito, fattigli passare in mezzo delle file delle picche, fu messa a esecuzione: e purgato, secondo dicevano, con questo supplizio tutta la malignità che era nell'esercito, seguitorono il cammino verso Perugia.

                                                 Nella quale era già entrato Giampaolo Baglione, partitosi da Pesero subito che ebbe inteso il disegno loro, e si preparava per difendersi, avendo armati gli amici e messi dentro molti del contado e de' luoghi vicini; e gli aveva mandato il legato in aiuto Cammillo Orsino suo genero condottiere de' fiorentini, con gli uomini d'arme della condotta sua e con dugento cinquanta cavalli leggieri: con le quali forze si credeva che avesse a sostenere l'impeto degli inimici, massime essendosi fatto molti provedimenti per interrompere i progressi loro. Perché a Città di Castello era andato Vitello con la compagnia sua delle genti d'arme e Sise con le lancie franzesi, le quali, perché tra 'l pontefice e il re era stabilita la confederazione, non erano piú sospette; e Lorenzo de' Medici, che guarito della sua ferita era nuovamente venuto da Ancona a Pesero, erane andato in poste a Firenze per fare di là le provisioni che fussino necessarie alla conservazione di quello dominio e delle città vicine; e si era deliberato che il legato col resto dello esercito, per necessitare Francesco Maria ad abbandonare la impresa di Toscana, entrasse nel ducato di Urbino, alla guardia del quale non erano restati altri che gli uomini delle terre.

                                                 Accostossi Francesco Maria a Perugia, non senza speranza di qualche intelligenza. Dove cavalcando Giampaolo per la città, fu assaltato in mezzo della strada da uno della terra; il quale, non gli essendo riuscito il ferirlo, fu subito ammazzato dal concorso di quegli che accompagnavano Giampaolo: il quale, in questo tumulto, fece ammazzare alcuni altri di quegli che gli erano sospetti; e liberato dalle insidie, pareva liberato da ogni pericolo, perché gli inimici, stati già intorno a Perugia piú dí, non avevano facoltà di sforzarli. E nondimeno Giampaolo, quando manco il pontefice aspettava questo, allegando in giustificazione sua che il popolo di Perugia, al quale non era in potestà sua di resistere, non voleva piú tollerare i danni che si facevano nel paese, convenne con quello esercito di pagare diecimila ducati, concedere vettovaglia per quattro dí, non pigliare arme contro a Francesco Maria in quella guerra, e che essi si uscissino subito del perugino: cosa molto molesta e ricevuta in sinistra parte dal pontefice, perché confermò la opinione insino da principio della guerra conceputa di lui, quando molto lentamente andò allo esercito con gli aiuti promessi, che per essergli sospetta la potenza di Lorenzo desiderasse che Francesco Maria si conservasse il ducato di Urbino; aggiugnendosi l'essergli stato molesto che, mentre stette nel campo appresso a Lorenzo, fusse stata molto maggiore l'autorità di Renzo e di Vitello che la sua. La memoria delle quali cose fu nel tempo seguente, per avventura, cagione in gran parte delle sue calamità.

                                                 Convenuto Francesco Maria co' perugini, si voltò verso Città di Castello; dove avendo fatto qualche scorreria, con intenzione di entrare dalla parte del Borgo a San Sepolcro nel dominio fiorentino, il pericolo dello stato proprio lo indusse ad altra deliberazione. Perché il legato Bibbiena, avendo di nuovo soldato molti fanti italiani, seguitando la deliberazione fatta a Pesero, [si] era col resto dell'esercito accostato a Fossombrone: la quale città, battuta dalle artiglierie, fu il terzo dí espugnata e saccheggiata. Andò dipoi a campo alla Pergola, dove il secondo dí si uní coll'esercito il conte di Potenza, con quattrocento lancie spagnuole mandate dal re di Spagna in aiuto del pontefice. Non era nella Pergola soldato alcuno, ma solamente uno capitano spagnuolo e molti uomini del paese, i quali impauriti cominciorono a trattare di arrendersi; ma mentre che si trattava essendo stato ferito nel volto il capitano che stava in sul muro, voltatisi i soldati, senza ordine alcuno e senza comandamento de' capitani, alla muraglia, preseno per forza la terra. Dalla Pergola si disegnava di andare a campo a Cagli; ma essendo venuto avviso che Francesco Maria, intesa la perdita di Fossombrone, ritornava con celerità grande in quello stato, deliberorono di ritirarsi. Però la notte medesima che il legato ebbe questa notizia si levorono dalla Pergola, e venuti a Montelione e già cominciato a farvi lo alloggiamento per stare quivi la notte, avuti avvisi nuovi che la prestezza degli inimici riusciva maggiore di quello che si erano persuasi, e che mandava innanzi mille cavalli con un fante in groppa per uno, acciò che, costrignendogli a camminare piú lentamente, avesse tempo l'esercito a sopragiugnergli, andorono sette miglia piú innanzi, a uno luogo detto il Bosco; donde partiti la mattina seguente innanzi al giorno, si ridussono la sera a Fano; avendo già quasi alla coda i cavalli degli inimici, venuti con tanta prestezza che se solamente quattro ore fusse stata piú tarda la ritirata non sarebbe stato senza difficoltà il fuggire la necessità del combattere.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.7

                                                  

                                                 Congiura del cardinale Alfonso Petrucci contro il pontefice. Esami e pene dei congiurati. Nomine numerose di nuovi cardinali, di cui alcuni appartenenti a famiglie nobili romane.

                                                  

                                                 Ma non procedevano in questo tempo piú felicemente le cose del pontefice nelle altre azioni che ne' travagli della guerra: alla vita del quale insidiava Alfonso cardinale di Siena, sdegnato che il pontefice, dimenticatosi delle fatiche e de' pericoli sostenuti già per Pandolfo Petrucci suo padre perché i fratelli e lui fussino restituiti nello stato di Firenze, e delle opere fatte da sé, insieme con gli altri cardinali giovani nel conclave, perché e' fusse assunto al pontificato, avesse in ricompensazione di tanti benefici fatto cacciare di Siena Borghese suo fratello e lui; donde privato eziandio delle facoltà paterne non poteva sostenere splendidamente, come soleva, la degnità del cardinalato. Però ardendo di odio, e quasi ridotto in disperazione, aveva avuto pensieri giovenili di offenderlo egli proprio violentemente con l'armi; ma ritenendolo il pericolo e la difficoltà della cosa piú che lo esempio o lo scandolo comune in tutta la cristianità, se uno cardinale avesse di sua mano ammazzato uno pontefice, aveva voltato tutti i pensieri suoi a torgli la vita col veleno, per mezzo di Batista da Vercelli, famoso chirurgico e molto intrinseco suo. Del quale consiglio, se tal nome merita cosí scelerato furore, questo aveva a essere l'ordine: sforzarsi, col celebrare, poiché altra occasione non ne aveva, con somme laudi la sua perizia, che il pontefice, il quale per una fistola antica che aveva sotto le natiche usava continuamente l'opera di medici di quella professione, pigliandone buono concetto lo chiamasse alla cura sua. Ma la impazienza di Alfonso difficultò molto la speranza di questa cosa. La quale mentre che si tratta con lunghezza, Alfonso non sapendo contenersi di lamentarsi molto palesemente della ingratitudine del pontefice, diventando ogni dí piú esoso, e venuto in sospetto che non macchinasse qualche cosa contro allo stato, fu finalmente quasi costretto di partirsi, per sicurtà di se stesso, da Roma. Ma vi lasciò Antonio Nino suo secretario; tra il quale e lui essendo continuo commercio di lettere, comprese il pontefice, per alcune che furono intercette, trattarsi contro alla vita sua. Però, sotto colore di volere provedere alle cose di Alfonso, lo chiamò a Roma, concedutogli salvocondotto, e data, per la bocca propria, fede di non lo violare allo oratore del re di Spagna. Sotto la quale sicurtà, ancora che conscio di tanta cosa, andato imprudentemente innanzi al pontefice, furono, egli e Bandinello cardinale de' Sauli genovese, fautore anche esso della assunzione di Lione al pontificato ma intrinseco tanto di Alfonso che si pensava fusse conscio d'ogni cosa, ritenuti nella camera medesima del papa, donde furono menati prigioni in Castello Santo Agnolo; e subitamente ordinato che Batista da Vercelli, il quale allora medicava in Firenze, fusse incarcerato e incontinente mandato a Roma. Sforzossi con ardentissime querele e pretesti di fare liberare Alfonso l'oratore del re di Spagna, allegando la fede data a lui come a oratore di quel re non essere altro che la fede data al re proprio. Ma il pontefice rispondeva che in uno salvocondotto, quantunque amplissimo e pieno di clausule forti e speciali, non si intende mai assicurato il delitto contro alla vita del principe se non vi è nominatamente specificato: avere la medesima prerogativa la causa del veleno, aborrito tanto dalle leggi divine e umane e da tutti i sentimenti degli uomini che aveva bisogno di particolare e individua espressione.

                                                 Prepose il pontefice all'esamina loro Mario Perusco romano, procuratore fiscale, dal quale rigorosamente esaminati confessorono il delitto macchinato da Alfonso con saputa di Bandinello; la quale confessione fu confermata da Batista cerusico e da Pocointesta da Bagnacavallo, il quale sotto Pandolfo suo padre e sotto Borghese suo fratello era stato lungamente capitano della guardia che stava alla piazza di Siena; i quali due furono publicamente squartati. Ma dopo questa confessione fu, nel prossimo concistorio, ritenuto e condotto nel castello Raffaello da Riario cardinale di San Giorgio, camarlingo della sedia apostolica; il quale per le ricchezze, per la magnificenza della sua corte e per il tempo lungo che era stato in quella dignità, era senza dubbio principale cardinale del collegio: il quale confessò non gli essere stata comunicata questa macchinazione, ma il cardinale di Siena, lamentandosi e minacciando il pontefice, avergli detto piú volte parole per le quali aveva potuto comprendere avere in animo, se ne avesse occasione, di offenderlo nella persona. Querelossi dipoi il pontefice, in uno altro concistorio, nel quale i cardinali, non assuefatti a essere violati, erano tutti smarriti di animo e spaventati, che cosí crudelmente e sceleratamente fusse stato insidiato alla vita sua da quegli i quali, costituiti in tanta degnità e membri principali della sedia apostolica, erano sopra tutti gli altri obligati a difenderla; lamentandosi efficacemente del suo infortunio, e che non gli fusse giovato l'essere stato e l'essere continuamente benefico e grato con ognuno, eziandio insino a grado che da molti ne fusse biasimato: soggiugnendo che in questo peccato erano ancora degli altri cardinali, i quali se innanzi che fusse licenziato il concistorio confessassino spontaneamente il loro delitto, essere parato a usare la clemenza e a perdonare loro, ma che finito il concistorio si userebbe contro a chi fusse congiunto a tanta sceleratezza la severità e la giustizia. Per le quali parole Adriano cardinale di Corneto e Francesco Soderino cardinale di Volterra, inginocchiati innanzi alla sedia del pontefice, dissono, il cardinale di Siena avere con loro usate delle medesime parole che aveva usate col cardinale di San Giorgio.

                                                 Finiti e publicati nel concistorio gli esamini, furono Alfonso e Bandinello, per sentenza data nel concistorio publico, privati della degnità del cardinalato, degradati e dati alla corte secolare. Alfonso, la notte prossima, fu occultamente nella carcere strangolato; la pena di Bandinello permutata, per grazia del pontefice, dalla morte a perpetua carcere: il quale, non molto poi, non solo lo liberò dalla carcere ma, pagati certi danari, lo restituí alla degnità del cardinalato; benché con lui avesse piú giusta causa di sdegno perché, beneficato sempre da lui e veduto molto benignamente, non si era alienato per altro che per la amicizia grande che aveva con Alfonso, e per sdegno che il cardinale de' Medici gli fusse stato anteposto nella petizione di certi benefici. E nondimeno non mancorono interpretatori, forse maligni, che innanzi fusse liberato dalla carcere gli fusse stato dato, per commissione del pontefice, veleno, di quella specie che non ammazzando subitamente consuma in progresso di tempo la vita di chi lo riceve. Col cardinale di San Giorgio, per essere il delitto minore, ancora che le leggi fatte e interpretate da' príncipi per sicurtà de' loro stati voglino che nel crimine della maestà lesa sia sottoposto all'ultimo supplicio non solo chi macchina ma chi sa chi accenna contro allo stato, e molto piú quando si tratta contro alla vita del principe, procedette il pontefice piú mansuetamente; avendo rispetto alla sua età e autorità, e alla congiunzione grande che innanzi al pontificato era lungamente stata tra loro. Però, se bene fusse, per ritenere l'autorità della severità, nella sentenza medesima privato del cardinalato, fu quasi incontinente, obligandosi egli a pagare quantità grandissima di danari, restituito per grazia eccetto che alla voce attiva e passiva; alla quale fu, innanzi passasse uno anno, reintegrato. A Adriano e Volterra non fu dato molestia alcuna, eccetto che tacitamente pagorno certa quantità di danari: ma non si confidando, né l'uno né l'altro, di stare in Roma sicuramente né con la conveniente dignità, Volterra con licenza del pontefice se ne andò a Fondi, dove sotto l'ombra di Prospero Colonna stette insino alla morte del pontefice; e Adriano, partitosi occultamente quello che si avvenisse di lui non fu mai piú che si sapesse né trovato né veduto in luogo alcuno.

                                                 Costrinse l'acerbità di questo caso il pontefice a pensare alla creazione di nuovi cardinali, conoscendo quasi tutto il collegio, per il supplizio di questi e per altre cagioni, avere l'animo alienissimo da lui: alla quale procedé tanto immoderatamente che pronunziò, in una mattina medesima, in concistorio, consentendo il collegio per timore e non per volontà, trentuno cardinali; nella abbondanza del quale numero ebbe facoltà di sodisfare a molti fini e di eleggere di ogni qualità di uomini. Perché promosse due figliuoli di sorelle sue, e alcuni di quegli che, stati e nel ponteficato e prima a' servizi suoi, e grati al cardinale de' Medici e a lui per diverse cagioni, non erano per altro rispetto capaci di tanta degnità; sodisfece nella creazione di molti a príncipi grandi, creandogli a istanza loro; molti ne creò per danari, trovandosi esausto e in grandissima necessità: furonvene alcuni chiari per opinione di dottrina, e tre generali, è questo tra loro il supremo grado, delle religioni di Santo Agostino di Santo Domenico e di Santo Francesco; e, quello che fu rarissimo in una medesima promozione, due della famiglia de' Triulzi, movendolo nell'uno l'essere suo cameriere e il desiderio di sodisfare a Gianiacopo, nell'altro la fama della dottrina aiutata da qualche somma di danari. Ma quello che dette maggiore ammirazione fu la creazione di Franciotto Orsino e di Pompeio Colonna e di cinque altri romani delle famiglie principali che seguitavano o questa o quella fazione: con consiglio contrario alle deliberazioni dell'antecessore, ma riputato imprudente e che riuscí poco felice per i suoi. Perché, essendo sempre la grandezza de' baroni di Roma depressione e inquietudine de' pontefici, Giulio, essendo mancati i cardinali antichi di quelle famiglie, le quali Alessandro sesto per spogliarle degli stati propri aveva acerbamente perseguitate, non aveva mai voluto rimettere in alcuna di loro quella degnità; Lione tanto immoderatamente fece il contrario: non potendo però dirsi che fusse stato tirato da' meriti delle persone; perché Franciotto fu promosso dalla professione della milizia alla degnità del cardinalato, e a Pompeio doveva nuocere la memoria che, con tutto fusse vescovo, avea, per occasione della infermità [di Giulio], cercato di fare tumultuare il popolo romano contro allo imperio de' sacerdoti, e dipoi si era ribellato apertamente con l'armi dal medesimo pontefice, dal quale era stato per questo privato della degnità episcopale.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.8

                                                  

                                                 Francesco Maria nella Marca. Offerte d'aiuto del re di Francia al pontefice; sospetti reciproci e sospetti anche del re di Spagna. Battaglia ai borghi di Rimini; Francesco Maria passa in Toscana; difficoltà di Francesco Maria e del pontefice. Concordia fra il pontefice e Francesco Maria. Considerazioni dell'autore sulla guerra e sul modo con cui è stata condotta. Il re di Spagna prende possesso dei suoi stati; i veneziani riconfermano la lega difensiva col re di Francia.

                                                  

                                                 Ma in questo tempo Francesco Maria, poiché per la ritirata, anzi piú presto fuga, degli inimici non aveva avuto facoltà di combattere, avendo l'esercito molto potente, perché alla fama del non avere resistenza nella campagna concorrevano continuamente nuovi soldati, tirati dalla speranza delle prede, entrò nella Marca; dove Fabriano e molte altre terre si composono con lui, ricomperando con danari il pericolo del sacco e delle rapine de' loro contadi. Saccheggionne alcune altre, tra le quali Iesi, mentre trattava di comporsi; e dipoi accostatosi ad Ancona, alla difesa della quale città il legato aveva mandato gente, vi stette fermo intorno piú dí, con detrimento grande, per la perdita del tempo, delle cose sue, non combattendo ma trattando di accordarsi con gli anconitani: i quali finalmente, per non perdere le ricolte già mature, gli pagorono ottomila ducati, non deviando in altro dalla ubbidienza solita della Chiesa. Assaltò dipoi la città di Osimo poco felicemente. Messe finalmente il campo alla terra di Corinaldo, dove erano dugento fanti forestieri; da' quali e dagli uomini della terra fu difesa sí francamente che, statovi intorno ventidue dí, alla fine, disperato di pigliarla, si levò: con grande diminuzione del terrore di quello esercito, che non avesse espugnato terra alcuna di quelle che avevano recusato di comporsi; il che non procedeva né dalla imperizia de' capitani né dalla ignavia de' soldati, ma perché non avevano artiglierie se non piccolissima quantità, e piccoli pezzi e quasi senza munizione. E nondimeno era stato necessario, alle terre le quali non avevano voluto cedergli, dimostrare da se stesse la sua costanza e il suo valore: perché i capitani dell'esercito ecclesiastico, de' quali era principale il conte di Potenza, se bene avessino mandato gente a predare insino in su le mura di Urbino, e Sise, ritornato da Città di Castello in Romagna, fusse dipoi entrato nel Montefeltro e preso per forza Secchiano e alcune altre piccole terre, si erano ridotti ad alloggiare cinque miglia presso a Pesero, deliberati di non soccorrere luogo alcuno né di muoversi se non quanto gli facesse muovere la necessità del ritirarsi; perché essendo, quando erano tanto superiori di forze, succedute cosí infelicemente le cose, trovandosi ora tanto manco potenti di fanterie, non arebbeno non che altro ardito di sostenere la fama dello approssimarsi degli inimici.

                                                 Nella quale deliberazione, fatta secondo la mente del pontefice, gli confermava la speranza della venuta di seimila svizzeri, i quali il papa, seguitando il consiglio del re di Francia, avea mandato a soldare: perché quel re, dopo la confederazione fatta, desiderava la vittoria del pontefice, e nel tempo medesimo aveva di lui il medesimo sospetto che prima. Conservavanlo nel sospetto le relazioni fattegli da Galeazzo Visconte e da Marcantonio Colonna; l'uno de' quali restituito dall'esilio nella patria, l'altro per non gli parere che da Cesare fussino riconosciute l'opere sue, condotti con onorate condizioni agli stipendi del re, aveano riferito il papa essersi molto affaticato con Cesare e co' svizzeri contro a lui: e molto piú moveva il re, che il pontefice aveva occultamente fatta nuova confederazione con Cesare col re di Spagna e col re di Inghilterra; la quale benché gli fusse stato lecito di fare, perché era stata fatta solamente a difesa, turbava pure non poco l'animo suo. Facevagli desiderare che si liberasse dalla guerra il timore che se il pontefice non vedeva pronti gli aiuti suoi non facesse co' príncipi già detti maggiore congiunzione; e oltre a questo gli cominciava a essere molesta e sospetta la prosperità di quello esercito, il nervo del quale erano fanti spagnuoli e tedeschi. Però, oltre ad avere consigliato il pontefice di armarsi di fanti svizzeri, gli aveva offerto di mandare di nuovo trecento lancie sotto Tommaso di Fois monsignore dello Scudo fratello di Odetto; allegando che, oltre alla riputazione e valore della persona, gli sarebbe utile a fare partire da Francesco Maria i fanti guasconi, co' quali questi fratelli di Fois, nati di sangue nobilissimo in Guascogna, aveano grande autorità. Aveva il pontefice accettata questa offerta ma con l'animo molto sospeso, perché dubitava come prima della volontà del re, della quale gli aveva accresciuto il sospetto la fuga de' fanti guasconi, temendo che occultamente non fusse proceduta per opera di Lautrech. E certamente, chi osservò in questo tempo i progressi de' príncipi potette apertamente conoscere che niuno intrattenimento niuno beneficio niuna congiunzione è bastante a rimuovere de' petti loro la diffidenza che hanno l'uno dell'altro; perché non solamente era il sospetto reciproco tra il re di Francia e il pontefice, ma il re di Spagna, intendendo trattarsi della andata de' svizzeri e di Tommaso di Fois, non era senza timore che il pontefice e il re congiunti insieme pensassino di spogliarlo del regno di Napoli: le quali cose si crede che giovassino alle cose del pontefice, perché ciascuno di loro, per non gli dare causa o giustificazione di alienarsi da sé, cercava di confermarlo e di assicurarsene co' benefici e con gli aiuti.

                                                 Ma Francesco Maria, partito da Corinaldo, ritornò nello stato d'Urbino, per fare spalle a' popoli suoi che facessino le ricolte: donde, desiderando assai, come sempre aveva desiderato, l'acquisto di Pesero, nella quale città era il conte di Potenza con le sue genti, vi si accostò con l'esercito; e per impedirgli le vettovaglie messe in mare alcuni navili. Ma all'opposito si preparorno a Rimini sedici legni tra barche brigantini e schirazzi; i quali come furno armati, andando a Pesero per sicurtà di certe barche che vi conducevano vettovaglie, si riscontrorno con quegli di Francesco Maria, co' quali venuti alle mani, messo in fondo il navilio principale presono tutti gli altri: per il che egli, disperato di pigliare Pesero, si partí. Facevasi in questo mezzo lo Scudo innanzi con le trecento lancie; ma tardavano i svizzeri, perché i cantoni recusavano di concedergli se prima non erano pagati da lui del residuo delle pensioni vecchie: dalla quale disposizione non si potendo rimuovergli, e il pontefice impotente per le gravissime spese a sodisfargli, i ministri del pontefice, dopo avere consumato in questa instanza molti dí, soldorno, senza decreto publico, duemila fanti particolari di quella nazione e quattromila altri tra tedeschi e grigioni. I quali essendo finalmente venuti e alloggiati a Rimini ne' borghi (i quali, divisi dal fiume dal resto della città, sono circondati di mura), Francesco Maria, entrato di notte sotto le pile del ponte egregio di marmo che unisce i borghi colla città, non potette passare il fiume, ingrossato per il ricrescimento del mare. Fu la battaglia grande tralle sue genti e i fanti alloggiati ne' borghi, nella quale fu ammazzato Gaspari, capitano della guardia del papa che gli aveva condotti; ma fu maggiore il danno degli inimici: ammazzati Balastichino e Vinea capitani spagnuoli, ferito Federico da Bozzole e Francesco Maria di uno scoppietto nella corazza. Voltò dipoi l'esercito verso Toscana, menato piú dalla necessità che dalla speranza, perché nello stato tanto consumato non si poteva sí grande esercito sostentare. In Toscana dimorato qualche dí, tralla Pieve di Santo Stefano, il Borgo a Sansepolcro e Anghiari, terre de' fiorentini, e occupato Montedoglio, luogo debole e poco importante, dette una lunghissima battaglia ad Anghiari, terra piú forte per la fede e virtú degli uomini che per la fortezza della muraglia o per altra munizione; la quale non avendo ottenuta, si ridusse sotto l'Apennino, tra il Borgo e Città di Castello, dove fatti venire quattro pezzi d'artiglieria da Mercatello, alloggiò meno di un mezzo miglio presso al Borgo, in sulla strada per la quale si va a Urbino, incerto di quel che avesse a fare: perché, essendo gli inimici passati dietro a lui in Toscana, [erano] entrati nel Borgo molti de' soldati italiani, in Città di Castello si era fermato Vitello con un'altra parte, in Anghiari, nella Pieve a Santo Stefano e nelle altre terre convicine erano entrati i fanti tedeschi i corsi i grigioni e i svizzeri. Venne similmente, benché piú tardi, Lorenzo de' Medici da Firenze al Borgo; ove stette intorno Francesco Maria oziosamente molti dí: ne' quali luoghi cominciando ad avere incomodità grande di vettovaglie, né si vedendo presente speranza alcuna di potere fare effetto buono, anzi diventato l'esercito suo (il quale era necessario si sostentasse di prede e di rapine) non manco formidabile agli amici che agli inimici, cominciava egli medesimo a non conoscere fine lieto alle cose sue; e i fanti che l'avevano seguitato, non avendo pagamento, non speranza di potere piú molto predare per non avere artiglierie e munizioni di qualità da sforzare le terre, sopportando carestia di vettovaglie, vedendo gli inimici accresciuti di forze e di riputazione, poiché si era scoperto loro tanto favore de' príncipi, cominciavano a infastidirsi della lunghezza della guerra, non sperando piú poterne avere, né col combattere presto né con la lunghezza del tempo, felice successo. E al pontefice, da altra parte, accadeva il medesimo: esausto di danari, poco potente per se stesso a fare le provisioni necessarie nel campo suo, e dubbio, come mai, della fede de' re e specialmente del re di Francia, il quale tardamente provedeva al sussidio de' danari dovutogli per la capitolazione, e perché lo Scudo, fermatosi secondo la volontà del papa in Romagna, aveva recusato di mandare parte delle sue genti in Toscana, allegando non le volere dividere.

                                                 Però, e prima che gli eserciti passassino l'Apennino, e molto piú ridotte le cose in questo stato, erano stati vari ragionamenti d'accordo tra il legato e Francesco Maria insieme co' suoi capitani, interponendosene lo Scudo e don Ugo di Moncada viceré di Sicilia, mandato dal re cattolico per questo effetto; ma niente era succeduto insino a quel dí, per la durezza delle condizioni proposte da Francesco Maria. Finalmente i fanti spagnuoli, indotti dalle difficoltà che si dimostravano e dalla instanza di don Ugo, il quale trasferitosi a loro e aggiugnendo le minaccie alla autorità avea dimostrato questa essere precisamente la volontà del re di Spagna, inclinorno alla concordia: la quale, prestando il consentimento benché malvolentieri Francesco Maria, e intervenendovi per il pontefice il vescovo d'Avellino mandato dal legato, si conveniva in questo modo, consentendo ancora i fanti guasconi per la interposizione dello Scudo: che il pontefice pagasse a' fanti spagnuoli quarantacinque mila ducati, dovuti secondo dicevano per lo stipendio di [quattro] mesi, a' guasconi e a' tedeschi uniti con loro ducati [sessanta] mila, partissino tutti, fra otto dí, dallo stato della Chiesa, de' fiorentini e di Urbino: che Francesco Maria, abbandonato nel termine medesimo tutto quello possedeva, fusse lasciato passare sicuramente a Mantova; potessevi condurre l'artiglierie, tutte le robe sue, e nominatamente quella famosa libreria che con tanta spesa e diligenza era stata fatta da Federigo suo avolo materno, capitano di eserciti chiarissimo di tutti ne' tempi suoi ma chiaro ancora, intra molte altre egregie virtú, per il patrocinio delle lettere: assolvesselo il pontefice dalle censure, e perdonasse a tutti i sudditi dello stato d'Urbino e a qualunque gli fusse stato contrario in questa guerra. La sostanza delle quali cose mentre che piú prolissamente si riduce nella scrittura, voleva Francesco Maria vi si inserissino certe parole per le quali si inferiva, gli spagnuoli essere quegli che promettevano lasciare al pontefice lo stato di Urbino; la qual cosa essi ricusando, come contraria all'onore loro, vennono insieme a contenzione; onde Francesco Maria, insospettito che non lo vendessino al pontefice, se ne andò all'improviso nel pivieri di Sestina, con parte de' cavalli leggieri co' fanti italiani guasconi e tedeschi e con quattro pezzi di artiglieria. Gli spagnuoli, data perfezione alla concordia e ricevuti i danari promessi andorno nel regno di Napoli, essendo quando partirno poco piú o meno di secento cavalli e quattromila fanti; feciono il medesimo gli altri fanti, ricevuto il premio della loro perfidia; agli italiani soli non fu né data né promessa cosa alcuna. Perciò e Francesco Maria, della salute del quale parve che lo Scudo tenesse cura particolare, poiché si vedde abbandonato da tutti, aderendo alla concordia trattata prima, se ne andò per la Romagna e per il bolognese a Mantova, accompagnato da Federico da Bozzole e cento cavalli e secento fanti.

                                                 In questa maniera si terminò la guerra dello stato di Urbino, continuata otto mesi, con gravissima spesa e ignominia de' vincitori. Perché dalla parte del pontefice furono spesi ottocentomila ducati, la maggiore parte de' quali, per la potenza che aveva in quella città, furno pagati dalla republica fiorentina; e i capitani appresso a' quali era la somma delle cose furono da tutti imputati di grandissima viltà, governo molto disordinato, e da alcuni di maligna intenzione: perché nel principio della guerra, essendo molto potenti le forze di Lorenzo e deboli quelle degli inimici, non seppeno mai, né con aperto valore né con industria o providenza, usare occasione alcuna. A' quali princípi, succeduta, per la perduta loro riputazione, la confusione e la disubbidienza dello esercito, si aggiunse nel progresso della guerra il mancamento in campo di molte provisioni; e in ultimo, avendo la fortuna voluto pigliare piacere de' loro errori, moltiplicorono per opera di quella tanti disordini che si condusse la guerra in luogo che il pontefice, scopertesegli insidie alla vita, travagliato nel dominio della Chiesa, temendo qualche volta e non poco dello stato di Firenze, necessitato a ricercare con prieghi e con nuove obligazioni gli aiuti di ciascuno, non potette anche liberarsi da tanti affanni se non pagando col suo proprio quelle genti dello esercito inimico o che erano state origine della guerra o che condotte a' soldi suoi, dopo avergli fatto molte estorsioni, si erano bruttamente rivoltate contro a lui.

                                                 In questo anno medesimo, e quasi alla fine, il re di Spagna andò, con felice navigazione, a pigliare la possessione de' regni suoi; avendo ottenuto dal re di Francia (tra l'uno e l'altro de' quali, palliando la disposizione intrinseca, erano dimostrazioni molto amichevoli) che gli prorogasse per sei mesi il pagamento de' primi centomila ducati che era tenuto a dargli per l'ultimo accordo fatto tra loro: e i viniziani riconfermorono per due anni la lega difensiva, che avevano col re di Francia, col quale stando congiuntissimi tenevano poco conto dell'amicizia di tutti gli altri; in tanto che ancora non avevano mai mandato a dare l'ubbidienza al pontefice. Il quale fu molto imputato che avesse mandato legato a Vinegia Altobello vescovo di Pola, come cosa indegna della sua maestà.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.9

                                                  

                                                 Il 1518 anno di quiete e di pace per l'Italia: trattative fra i príncipi per una spedizione contro i turchi. Delitti domestici e progressi di Selim; i mammalucchi. Potenza di Selim. Appello del pontefice ai príncipi cristiani, e disegni per la spedizione; pubblicazione in concistorio d'una tregua di cinque anni fra i príncipi cristiani. Scarso entusiasmo dei príncipi per l'impresa; morte di Selim.

                                                  

                                                 Séguita l'anno mille cinquecento diciotto, nel quale Italia (cosa non accaduta già molti anni) non sentí movimento alcuno, benché minimo, di guerra. Anzi appariva la medesima disposizione in tutti i príncipi cristiani; tra' quali, essendone autore il pontefice, si trattava, ma piú presto con ragionamenti apparenti che con consigli sostanziali, la espedizione universale di tutta la cristianità contro a Selim principe de' turchi: il quale aveva l'anno precedente ampliata tanto la sua grandezza che, considerando la sua potenza e non meno la cupidità del dominare, la virtú e la ferocia, si poteva meritamente dubitare che, non prevenendo i cristiani di assaltarlo, avesse, innanzi passasse molto tempo, a voltare le armi vittoriose contro a loro.

                                                 Perché Selim, avendo innanzi compreso che Baiset suo padre, già molto vecchio, pensava di stabilire la successione dello imperio in Acomath suo primogenito, ribellatosi da lui, lo costrinse con l'armi, e con l'avere corrotto i soldati pretoriani, a rinunziargli la signoria; e si credette anche universalmente che, per assicurarsi totalmente di lui, lo facesse morire sceleratamente di veleno. Vincitore dipoi in uno fatto d'arme contro al fratello, lo privò apertamente della vita; il medesimo fece a Corcú fratello minore di tutti: né contento d'avere fatto ammazzare, secondo il costume degli ottomanni, i nipoti e qualunque viveva di quella stirpe, si credé, tanto fu di ingegno acerbo e implacabile, che qualche volta pensasse di privare della vita Solimanno suo unico figliolo. Da questi princípi continuando di guerra in guerra, vinti gli aduliti popoli montani e feroci, trapassato in Persia contro al sofí, e venuto con lui a giornata lo ruppe, occupò la città di Tauris, sedia di quello imperio, con la maggiore parte della Persia: la quale fu costretto ad abbandonare, non per virtú degli inimici (che diffidandosi di potere sostenere l'esercito suo si erano ritirati a' luoghi montuosi e salvatichi), ma perché, essendo stato quello anno sterilissimo, gli mancavano le vettovaglie. Da questa espedizione poiché ritornato in Costantinopoli, e puniti molti soldati autori di sedizione, ebbe restaurato per qualche mese l'esercito, simulando di volere ritornare a debellare la Persia, voltò le armi contro al soldano re della Soria e dello Egitto, principe non solo di antichissima riverenza e degnità appresso a quella religione ma potentissimo, per la amplitudine del dominio per le entrate grandi e per la milizia de' mammalucchi, dalle armi de' quali era stato posseduto quello imperio con grandissima riputazione [trecento] anni. Perché essendo retto da soldani, i quali non per successione ma per elezione ascendevano al supremo grado, e dove non erano esaltati se non uomini di manifesta virtú, e provetti per tutti i gradi militari, al governo delle provincie e degli eserciti, e constando il nervo delle armi loro non di soldati mercenari e forestieri ma di uomini eletti, i quali, rapiti da fanciulli delle provincie vicine, e nutriti per molti anni con parcità di vitto, tolleranza delle fatiche e con esercitarsi continuamente nelle armi nel cavalcare e in tutte le esercitazioni appartenenti alla disciplina militare, erano ascritti nello ordine de' mammalucchi (succedendo di mano in mano in quello ordine non i figliuoli de' mammalucchi morti ma altri, che presi da fanciulli per schiavi vi pervenivano con la medesima disciplina e con le medesime arti che erano di mano in mano pervenuti gli antecessori) questi, in numero non piú di sedici o diciottomila, tenevano soggiogati con acerbissimo imperio tutti i popoli dello Egitto e della Soria, spogliati di tutte l'armi e proibiti di non cavalcare cavalli. Ed essendo uomini di tanta virtú e ferocia e che facevano la guerra per sé propri, perché del numero loro e da loro si eleggevano i soldani, loro gli onori le utilità e l'amministrazione di tutto quello opulentissimo e ricchissimo imperio, non solo avevano domate molte nazioni vicine, battuti gli arabi, ma, fatte molte guerre co' turchi, erano rimasti molte volte vittoriosi ma rare volte o non mai vinti da loro. Contro a questi adunque mossosi con l'esercito suo Salim e rottogli in piú battaglie in campagna, nelle quali fu ammazzato il soldano, e dipoi preso in una battaglia l'altro soldano suo successore, il quale fece morire publicamente con ignominioso supplicio, e fatta uccisione grandissima anzi quasi spento il nome de' mammalucchi, debellato il Cairo, città popolosissima nella quale risedevano i soldani, occupò in brevissimo tempo tutta la Soria e tutto lo Egitto; in modo che, avendo cosí presto accresciuto tanto lo imperio, duplicate quasi le entrate, levatosi lo ostacolo di emuli tanto potenti e di tanta riputazione, era non senza cagione formidabile a' cristiani. E accresceva meritamente il timore l'essere congiunta a tanta potenza e valore una ardente cupidità di dominare e di fare gloriosissimo a' posteri con le vittorie il suo nome; per la quale, leggendo spesso, come era la fama, le cose fatte da Alessandro magno e da Giulio Cesare, si cruciava nello animo mirabilmente che le cose fatte da sé non fussino in parte alcuna comparabili a tante vittorie e trionfi loro. E riordinando continuamente i suoi eserciti e la sua milizia, fabricando di nuovo numero grandissimo di legni e facendo molte provisioni necessarie alla guerra, si temeva pensasse di assaltare, quando fusse preparato, chi diceva Rodi, propugnacolo de' cristiani nelle parti dell'Oriente, chi diceva il regno d'Ungheria, già per la ferocia degli abitatori temuto da' turchi ma in questo tempo indebolito per essere in mano d'uno re pupillo, governato da' prelati e da' baroni del regno discordanti tra loro medesimi. Altri affermavano essere i suoi pensieri volti tutti a Italia; come se ad assaltarla gli desse audacia la discordia de' príncipi e il sapere quanto fusse lacerata da lunghe guerre, e lo incitasse la memoria di Maumeth suo avolo che, con potenza molto minore e con piccola armata mandata nel regno di Napoli, aveva con assalto improviso espugnata la città d'Otranto, e apertasi, se non gli fusse sopravenuta la morte, una porta e stabilita una sedia da vessare continuamente gli italiani.

                                                 Però il pontefice insieme con tutta la corte romana spaventato da tanto successo, e dimostrando, per provedere a sí grave pericolo, volere prima ricorrere agli aiuti divini, fece celebrare per Roma devotissime supplicazioni, alle quali andò egli co' piedi nudi; e dipoi voltatosi a pensare e a trattare degli aiuti umani scrisse brevi a tutti i príncipi cristiani, ammonendogli di tanto pericolo e confortandogli che, deposte le discordie e contenzioni, volessino prontamente attendere alla difesa della religione e della salute comune, la quale stava continuamente sottoposta a gravissimi pericoli se con gli animi e con le forze unite di tutti non si trasferisse la guerra nello imperio del turco e assaltassesi lo inimico nella casa propria. Sopra la quale cosa essendo stati esaminati molti pareri d'uomini militari e di persone perite de' paesi, della disposizione delle provincie e delle forze e armi di quello imperio, si risolveva essere necessario che, fatta grossissima provisione di danari con la contribuzione volontaria de' príncipi e con imposizione universale a tutti i popoli cristiani, Cesare accompagnato dalla cavalleria degli ungheri e de' polloni, nazioni bellicose ed esercitate in continue guerre contro a' turchi, e con uno esercito, quale si convenisse a tanta impresa, di cavalli e di fanti tedeschi, navigasse per il Danubio nella Bossina (dicevasi anticamente Misia) per andare di quivi in Tracia e accostarsi a Costantinopoli sedia dello imperio degli ottomanni; che il re di Francia, con tutte le forze del regno suo, de' viniziani e degli altri d'Italia, accompagnato dal peditato de' svizzeri, passasse dal porto di Brindisi in Albania, passaggio facile e brevissimo, per assaltare la Grecia piena di abitatori cristiani, e per questo e per la acerbità dello imperio de' turchi dispostissima a ribellarsi; che i re di Spagna di Portogallo e d'Inghilterra, congiunte l'armate loro a Cartagenia e ne' porti vicini, si dirizzassino con dugento navi piene di fanti spagnuoli e d'altri soldati allo stretto di Galipoli, per assaltare, espugnati che fussino i Dardanuli (altrimenti le castella poste in su la bocca dello stretto), Gostantinopoli: al quale cammino navigasse medesimamente il pontefice, movendosi da Ancona, con cento navi rostrate. Co' quali apparati essendo coperta la terra e il mare, e assaltato da tante parti lo stato de' turchi, i quali fanno principalmente il fondamento di difendersi alla campagna, pareva, aggiunto massimamente l'aiutorio divino, potersi sperare di guerra tanto pietosa felicissimo fine. Queste cose per trattare, o almanco per non potere essere imputato di mancare allo officio pontificale, Lione, tentati prima gli animi de' príncipi, publicò in concistorio tregue universali per cinque anni tra tutti i potentati cristiani, sotto pena di gravissime censure a chi contravenisse; e perché fussino accettate, e trattate le cose appartenenti a tanta impresa, le quali anche consultava continuamente con gli oratori de' príncipi, destinò legati il cardinale di Santo Sisto a Cesare, quello di Santa Maria in Portico al re di Francia, il cardinale Egidio al re di Spagna e Lorenzo cardinale Campeggio al re d'Inghilterra; cardinali tutti di autorità, o per esperienza di faccende o per opinione di dottrina o per essere intrinsechi al pontefice. Le quali cose benché cominciate con grande espettazione, e ancora che la tregua universale fusse stata accettata da tutti, e che tutti contro a' turchi, con ostentazione e magnificenza di parole, si dimostrassino, se gli altri concorrevano, di essere pronti con tutte le forze loro a causa tanto giusta, nondimeno, essendo reputato da tutti il pericolo incerto e molto lontano, e appartenente piú agli stati dell'uno che dell'altro, ed essendo molto difficile e che ricercava tempo lungo l'introdurre uno ardore e una unione tanto universale, prevalevano i privati interessi e comodità: in modo che queste pratiche non solo non si condusseno a speranza alcuna ma non si trattorono se non leggiermente e quasi per cerimonia: essendo anche naturale degli uomini che le cose che ne' princípi si rappresentano molto spaventose si vadino di giorno in giorno in modo diminuendo e cancellando che, non sopravenendo nuovi accidenti che rinfreschino il terrore, se ne rendino in progresso di non molto tempo gli uomini quasi sicuri. La quale negligenza alle cose publiche, e affezione immoderata alle particolari, confermò piú la morte che succedette, non molto poi, di Salim: il quale, avendo per lunga infermità sospesi gli apparati della guerra, consumato finalmente da quella, passò all'altra vita, lasciato tanto imperio a Solimanno suo figliuolo; giovane di età ma riputato di ingegno piú mansueto e di animo, benché gli effetti dimostrorono poi altrimenti, non acceso alla guerra.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.10

                                                  

                                                 Manifestazioni di cordialità fra il pontefice e il re di Francia. Proroga della tregua dei veneziani con Cesare. Lega e parentado fra i re di Francia e d'Inghilterra. Conferma della pace fra i re di Francia e di Spagna. Morte di Gianiacopo da Triulzi; giudizio dell'autore.

                                                  

                                                 Nel quale tempo tra il pontefice e il re di Francia si dimostrava grandissima congiunzione. Perché il re dette per moglie a Lorenzo suo nipote la damigella di Bologna, nata di sangue molto nobile, e con entrata di scudi diecimila, parte donatagli dal re parte appartenentegli del patrimonio suo; ed essendo nato al re uno figliuolo maschio, richiese il pontefice che lo facesse tenere al battesimo in nome suo. Per la quale cagione Lorenzo, che si ordinava per andare a sposare la nuova moglie, accelerando l'andata, si condusse in poste; dove fu molto carezzato e onorato dal re; al quale egli dimostrando di darsi tutto, e promettendo di seguitare in ogni caso la sua fortuna, acquistò molto della sua grazia. Portò al re uno breve del pontefice per il quale gli concedeva che, insino a tanto che i danari riscossi della decima e della crociata non si avessino a spendere contro a' turchi, potesse spendergli ad arbitrio suo, promettendo restituirgli ogni volta che allo effetto per che era stata posta ne fusse di bisogno; convertendone però in uso di Lorenzo scudi cinquantamila: e il re, che insino a quel dí aveva dissimulato il non eseguire il pontefice la promessa, fattagli per breve, della restituzione di Modena e di Reggio, ancora che fusse passato il termine de' sette mesi, conoscendo non potere fare al pontefice cosa piú molesta che fargli instanza di questa restituzione, e tenendo, come spesso accade, piú conto de' maggiori che de' minori, rimesse in mano di Lorenzo il breve della promessa.

                                                 Prorogorono anche, quasi nel tempo medesimo, i viniziani per mezzo del re di Francia, la tregua loro con Cesare per cinque anni, con condizione gli pagassino, ciascuno de' cinque anni, scudi ventimila; e nella quale era espresso che ciascuno anno pagassino a' fuorusciti delle terre loro, i quali avevano seguitato Cesare, il quarto delle entrate de' beni che prima possedevano; tassando pagassino per questa causa ducati cinquemila. E si sarebbe Cesare indotto per avventura, se gli avessino dato maggiore somma di danari, a fare la pace; ma al re era piú grata la tregua perché i viniziani, non assicurati del tutto, avessino maggiore cagione di tenere cara la sua amicizia, e perché a Cesare non fusse data facoltà di fare co' danari che avesse da loro qualche innovazione.

                                                 E dirizzandosi le cose da ogni banda a concordia, si composono anche le differenze tra il re di Francia e d'Inghilterra, confermandole, acciocché la convenzione fusse piú stabile, con nuovo parentado; perché il re d'Inghilterra promesse dare la figliuola sua unica (alla quale, non avendo altri figliuoli, si sperava doversi appartenere la successione del regno) al delfino figliuolo primogenito del re di Francia, con ducati quattrocentomila di dota; l'uno e l'altra di età sí tenera che infiniti accidenti potevano nascere innanzi che, per l'abilità della età, si potesse stabilire il matrimonio. Fu fatta lega difensiva tra loro, nominandovi per contraenti principali Cesare e il re di Spagna in caso ratificassino infra certo tempo: e il re d'Inghilterra si obligò a restituire Tornai, la guardia del quale gli era di spesa molto grave, ricevendo da lui di presente per le spese fatte ducati dugento sessantamila; trecentomila ne confessasse d'avere ricevuti per la dota della nuora, e pagandone trecentomila altri in tempo di dodici anni; promettendo eziando di rendergli indietro Tornai se la pace e il parentado non seguitasse. Per la quale lega e parentado essendo andati da l'una parte a l'altra imbasciadori a ricevere le ratificazioni e i giuramenti, furono espediti questi atti nell'una e nell'altra corte con grandissima solennità e cerimonia, e stabilito che i due re si abboccassino insieme tra Calès e Bologna, né molto poi fatta la restituzione di Tornai.

                                                 Nel medesimo tempo, essendo morta la figliuola del re di Francia destinata a essere sposa del re di Spagna, fu riconfermata tra loro la pace e prima capitolazione, con la promessa del matrimonio della seconda figliuola; celebrando l'uno e l'altro principe questa congiunzione con grandissime dimostrazioni estrinseche di benivolenza: il re di Spagna, che aveva già fattogli pagare in Lione i centomila ducati, portò publicamente l'ordine di San Michele il dí della sua festività; e il re di Francia, il dí dedicato a santo Andrea, portò publicamente l'ordine del tosone.

                                                 Cosí stando quiete le cose d'Italia e d'oltre a' monti, solo Gianiacopo da Triulzi travagliava, non gli giovando né la età ridotta quasi a ultima vecchiezza né la virtú esperimentata tante volte in servigio della casa di Francia. Perché, dandone forse cagione in qualche parte l'ambizione e la inquietudine sua, essendo combattuto da' sottili umori degli emoli suoi e perseguitato in molte cose da Lautrech, era stato fatto sospetto al re che egli e la casa sua, per l'interesse della fazione guelfa e per antichi intrattenimenti, fusse troppo accetto a' viniziani, delle genti de' quali era governatore Teodoro da Triulzi, e che avevano nuovamente soldato Renato della medesima famiglia: però il re, essendo dopo la morte di Francesco Bernardino Visconte rimasto capo della fazione ghibellina Galeazzo Visconte, per opporlo al Triulzio con maggiore autorità gli aveva dato l'ordine di San Michele, costituito pensione, ed egli e Lautrech in ogni occasione gli davano riputazione; le quali cose non passando senza depressione del Triulzio, male paziente a dissimulare e che si lamentava frequentemente, diventava ogni dí piú esoso e piú sospetto. Ma dette occasione a Lautrech e agli altri, che lo calunniavano appresso al re, l'essersi fatto borghese de' svizzeri, come se e' volesse per mezzo loro avere patrocinio contro al re e forse aspirasse a maggiori pensieri: delle quali calunnie essendo, cosí vecchio come era, andato in Francia a giustificarsi, non solo Lautrech, come egli fu partito, per ordinazione avuta dal re, ritenne a Vigevano con onesta custodia la moglie e il nipote nato del conte di Musocco suo unico figliuolo già morto, ma eziandio dal re non fu raccolto né con benignità né con l'onore solito; anzi riprendendolo di essersi fatto svizzero, gli disse che da punirlo, secondo sarebbe stato conveniente, non lo riteneva altro che la fama divulgata per tutto, ma sopra la verità, de' meriti suoi verso la corona di Francia. Fu necessitato ritrattare quello che aveva fatto; e pochi dí poi, seguitando la corte, ammalato a Ciartres, passò all'altro secolo. Uomo a giudizio di tutti (come avevano confermato molte esperienze) di valore grande nella disciplina militare, e sottoposto per tutta la vita alla incostanza della fortuna, che ora lo abbracciava con prosperi successi ora lo esagitava con avversi; e a chi meritatamente si convenisse quello che, per ordine suo, fu inscritto nel suo sepolcro: riposarsi in quello sepolcro Gianiacopo da Triulzi, che innanzi non si era mai riposato.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.11

                                                  

                                                 Desiderio di Cesare che venga designato un suo nipote a re dei romani; sue preferenze per Ferdinando, e preferenze dei suoi consiglieri per Carlo. Azione del re di Francia contraria all'incoronazione imperiale di Cesare. Morte di Cesare; giudizio dell'autore.

                                                  

                                                 In questo anno medesimo Cesare, desideroso di stabilire la successione dello imperio romano, dopo la morte, in uno de' nipoti, trattava con gli elettori di farne eleggere uno in re de' romani; la quale degnità chi ha conseguito succede immediatamente senza altra elezione o confermazione, morto lo imperadore, allo imperio: e perché a questa elezione non si può pervenire insino a tanto che chi è stato eletto allo imperio non ha ottenuto la corona imperiale, faceva instanza col pontefice che con esempio nuovo lo facesse, per mano di alcuni cardinali deputati legati apostolici a questo atto, incoronare in Germania. E benché Cesare avesse prima desiderato che questa degnità fusse conferita a Ferdinando suo nipote, parendogli conveniente che, poiché al fratello maggiore erano concorsi tanti stati e tanta grandezza, egli si sostentasse con questo grado, e giudicando, che per mantenere piú illustre la casa sua e per tutti i casi sinistri che nella persona del maggiore potessino succedere, essere meglio avervi due persone grandi che una sola; nondimeno, stimolato in contrario da molti de' suoi e dal cardinale sedunense, e da tutti quegli i quali temevano e odiavano la potenza de' franzesi, rifiutato il primo consiglio, voltò l'animo a fare opera che a questa degnità fusse assunto il re di Spagna: dimostrandogli questi tali essere molto piú utile alla esaltazione della casa di Austria accumulare tutta la potenza in uno solo che, dividendola in piú parti, fargli manco potenti a conseguitare i disegni loro. Essere tanti e tali i fondamenti della grandezza di Carlo che, aggiugnendosegli la degnità imperiale, si potesse sperare che avesse a ridurre Italia tutta e grande parte della cristianità in una monarchia; cosa non solo appartenente alla grandezza de' suoi discendenti ma ancora alla quiete de' sudditi e, per rispetto delle cose degli infedeli, a beneficio di tutta la republica cristiana. Ed essere ufficio e debito suo pensare allo augumento e alla esaltazione della degnità imperiale, stata tanti anni nella persona sua e nella famiglia di Austria; la quale, insino a quello dí, stata per la impotenza sua e de' suoi antecessori maggiore in titolo e in nome che in sostanza e in effetti, non si poteva sperare aversi a sollevare né ritornare al pristino splendore se non trasferendosi nella persona di Carlo e congiugnendosi alla sua potenza: la quale occasione, portatagli dall'ordine della natura e della fortuna, non essere ufficio suo di impedire anzi di augumentare. Vedersi per gli esempli degli antichi imperadori, Giulio Cesare, Augusto e molti de' suoi successori, che mancando di figliuoli e di persone della medesima stirpe, gelosi che non [si] spegnesse o diminuisse la degnità riseduta nella persona loro, avere cercato successori, remoti di congiunzione o non attenenti eziandio in parte alcuna per mezzo delle adozioni; ed essere fresco l'esempio del re cattolico, che amando come figliuolo Ferdinando, allevato continuamente appresso a lui, né avendo non che altro mai veduto Carlo, anzi provatolo nella sua ultima età poco ubbidiente a' precetti suoi, nondimeno, non avuta compassione della povertà di quello che amava come figliuolo, non gli aveva fatto parte alcuna di tanti stati suoi, né di quegli eziandio che per essere acquistati da lui proprio era in facoltà sua di disporre, anzi avere lasciato tutto a quello che quasi non conosceva se non per strano. Ricordarsi Cesare il medesimo re averlo sempre confortato ad acquistare a Ferdinando stati nuovi ma a lasciare la degnità imperiale a Carlo; ed essersi veduto che per fare maggiore la grandezza del successore aveva, forse con consiglio dannato da molti e per avventura ingiusto ma non mosso da altra cagione che da questo, spogliato del regno d'Aragona il casato suo proprio tanto nobile e tanto illustre, e consentito, contro al desiderio comune della maggiore parte degli uomini, che il nome della casa sua si spegnesse e si annichilasse.

                                                 A questa instanza di Cesare si opponeva con ogni arte e industria il re di Francia, essendogli molestissimo che a tanti regni e stati del re di Spagna si aggiugnesse ancora l'autorità imperiale, che ripigliando vigore da tanta potenza diventerebbe formidabile a ciascuno: però cercando di disturbarla occultamente appresso agli elettori, faceva instanza col pontefice che non consentisse di mandare, con esempio nuovo, a Cesare la corona; e a' viniziani aveva mandato imbasciadori perché si unissino seco a fare opposizione: ammonendo e il pontefice e loro del pericolo porterebbono di tanta grandezza. Nondimeno, e già gli elettori erano in grande parte tirati nella sentenza di Cesare, e già quasi assicurati de' danari che per questa elezione si promettevano loro dal re di Spagna, il quale avea mandato per questo dugentomila ducati nella Alamagna, non potendo anche con onestà, né forse senza pericolo di scandolo, avuto rispetto agli esempli passati, denegare questa petizione; né si credeva che il pontefice, ancora che gli fusse molestissimo, recusasse di concedere che per mano di legati apostolici Cesare ricevesse in Germania in suo nome la corona dello imperio, con ciò sia che lo andare a incoronarsi a Roma, se bene con maggiore autorità della sedia apostolica, fusse per ogn'altro rispetto piú presto cerimonia che sostanzialità.

                                                 Con questi pensieri e con queste azioni si consumò l'anno mille cinquecento diciotto, non essendo ancora fatta la deliberazione dagli elettori; la quale, per nuovo accidente, diventò piú dubbia e piú difficile: per la morte di Cesare, succeduta ne' primi dí dell'anno mille cinquecento diciannove. Morí a Linz, terra posta ne' confini dell'Austria, intento come sempre alle caccie delle fiere; e con la medesima fortuna con la quale era vivuto quasi sempre; e la quale, statagli benignissima in offerirgli grandissime occasioni, non so se gli fusse parimente avversa in non gliene lasciare conseguire, o se pure quello che insino alla casa propria gli era portato dalla fortuna ne lo privasse la incostanza sua, e i concetti male moderati e differenti spesso dai giudíci degli altri uomini, congiunti ancora con smisurata prodigalità e dissipazione di danari; le quali cose gli interroppono tutti i successi e l'occasioni. Principe, altrimenti, peritissimo della guerra, diligente secreto laboriosissimo, clemente benigno e pieno di molte egregie doti e ornamenti.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.12

                                                  

                                                 Aspirazione del re di Francia e del re di Spagna all'impero. Speranze dell'uno e dell'altro sovrano. Preoccupazioni e prudenza del pontefice. Allestimento di armate da parte dei due re e simulazione d'amicizia. Morte di Lorenzo de' Medici; il ducato d'Urbino passa alla sedia apostolica.

                                                  

                                                 Morto Massimiliano, cominciorno ad aspirare allo imperio apertamente il re di Francia e il re di Spagna: la quale controversia, benché fusse di cosa sí importante e tra príncipi di tanta grandezza, nondimeno fu esercitata tra loro modestamente, non procedendo né a contumelie di parole né a minaccie d'armi ma ingegnandosi ciascuno, con l'autorità e mezzi suoi, tirare a sé gli animi degli elettori. Anzi il re di Francia, molto laudabilmente, parlando sopra questa elezione con gli imbasciadori del re di Spagna, disse essere commendabile che ciascuno di loro cercasse onestamente di ornarsi dello splendore di tanta degnità, la quale in diversi tempi era stata nelle case delle persone e degli antecessori loro; ma non per questo doverselo l'uno di loro ripigliare dall'altro per ingiuria, né diminuirsi per questo la benivolenza e congiunzione, anzi dovere seguitare lo esempio che qualche volta si vede di due giovani amanti che, benché amino una dama medesima e si sforzi ciascuno di loro, con ogni arte e industria possibile, di ottenerla, non per questo vengono tra loro a contenzione.

                                                 Pareva al re di Spagna appartenersegli lo imperio debitamente per essere continuato molti anni nella casa di Austria, né essere stato costume degli elettori privarne i discendenti del morto senza evidente cagione della inabilità loro. Non era alcuno in Germania di tanta autorità e potenza che avesse a competere seco in questa elezione, né gli pareva giusto o verisimile che gli elettori avessino a trasferire in uno principe forestiero tanta degnità continuata già molti secoli nella nazione germanica; e quando alcuno, corrotto con danari o per altra cagione, fusse di intenzione diversa, sperava e di spaventargli con le armi preparate in tempo opportuno e che gli altri elettori se gli opporrebbono, e almanco che tutti gli altri príncipi e l'altre terre franche di Germania non tollererebbono tanta infamia e ignominia di tutti, e massime trattandosi di trasferirla nella persona d'uno re di Francia, con accrescere la potenza d'uno re inimico alla loro nazione e donde si poteva tenere per certo che quella degnità non ritornerebbe mai in Germania. Stimava facile ottenere la perfezione di quello che era già stato trattato collo avolo, essendo già convenuto de' premi e de' donativi con ciascuno degli elettori. Da altra parte non era minore né la cupidità né la speranza del re di Francia, fondata principalmente in sulla credenza dello acquistare con grandissima somma di danari i voti degli elettori; de' quali alcuni, congiunti seco per antica amicizia e intrattenimento, mostrandogli la facilità della cosa, lo incitavano a farne impresa: la quale speranza (come sono pronti gli uomini a persuadersi quello che desiderano) nutriva con ragioni piú presto apparenti che vere. Perché sapeva che ordinariamente a' príncipi di Germania era molesto che gl'imperadori fussino molto potenti, per il sospetto che non volessino in tutto o in qualche parte riconoscere le giurisdizioni e autorità imperiali occupate da molti; e però si persuadeva che in modo alcuno non fussino per consentire alla elezione del re di Spagna, sottomettendosi da se medesimi a uno imperadore piú potente che dalla memoria degli antichi in qua fusse stato imperadore alcuno, cosa che non pareva al tutto simile in lui, perché non avendo stati né aderenze antiche in Germania non potevano avere tanto sospetta la sua grandezza: per la quale ragione, comune similmente alle terre franche, stimava non solo contrapesarsi ma opprimersi il rispetto della gloria della nazione, come sogliono comunemente potere piú negli uomini senza comparazione gli stimoli dello interesse proprio che il rispetto del beneficio comune. Eragli noto essere molestissimo a molte case illustri in Germania, che pretendevano essere capaci di quella degnità, che lo imperio fusse continuato tanti anni in una casa medesima, e che quello che oggi a l'una domani a l'altra dovevano dare per elezione fusse cominciato, quasi per successione, a perpetuarsi in una stirpe medesima; e potersi chiamare successione quella elezione che non ardiva discostarsi da' piú prossimi della stirpe degli imperadori: cosí da Alberto d'Austria essere passato lo imperio in Federigo suo fratello, da Federigo in Massimiliano suo figliuolo, e ora trattarsi di trasferirlo da Massimiliano nella persona di Carlo suo nipote. I quali umori e indegnazioni de' príncipi di Germania gli davano speranza che le discordie ed emulazioni tra loro medesimi potessino aiutare la causa sua, accadendo spesso nelle contenzioni che chi vede escluso sé, o chi è favorito da sé, si precipiti, posposti tutti i rispetti, piú presto a qualunque terzo che cedere a chi è stato opposito alla sua intenzione. Sperò oltre a questo il re di Francia nel favore del pontefice, cosí per la congiunzione e benivolenza che gli pareva avere contratta seco come perché non credeva che a lui potesse piacere che Carlo, principe di tanta potenza e che, contiguo col regno di Napoli allo stato della Chiesa, aveva per l'aderenza de' baroni ghibellini aperto il passo insino alle porte di Roma, conseguisse anche la corona dello imperio; non considerando che questa ragione, verissima contro a Carlo, militava ancora contro a lui: perché e al pontefice e a ciascuno altro non aveva a essere manco formidoloso lo imperio congiunto in lui che in Carlo; con ciò sia che se l'uno di loro possedeva forse piú regni e piú stati, l'altro non era da stimare manco, perché non aveva sparsa e divulsa in vari luoghi la sua potenza ma il regno tutto raccolto e unito insieme, con ubbidienza maravigliosa de' popoli suoi e pieno di grandissime ricchezze. Nondimeno, non conoscendo in sé quello che facilmente considerava in altri, ricorse al pontefice supplicandolo volesse dargli favore, perché di sé e de' regni suoi si potrebbe valere come di proprio figliuolo.

                                                 Premeva grandissimamente il pontefice la causa di questa elezione, essendogli molestissimo, per la sicurtà della sedia apostolica e del resto di Italia, qualunque de' due re fusse assunto allo imperio; né essendo tale l'autorità sua appresso agli elettori che sperasse con quella potere giovare molto, giudicò essere necessario adoperare in cosa di tanto momento la prudenza e le arti. Persuadevasi che il re di Francia, ingannato da qualcuno degli elettori, non avesse parte alcuna in questa elezione; né avere, benché in uomini venali, a potere tanto le corruttele che avessino sí disonestamente a trasferire lo imperio dalla nazione germanica nel re di Francia. Parevagli che al re di Spagna, per essere della medesima nazione, per le pratiche cominciate da Massimiliano e per molti altri rispetti, fusse molto facile conseguire lo intento suo, se non se gli faceva opposizione molto potente; la quale giudicava non potere farsi in altro modo se non che il re di Francia si disponesse a voltare in uno degli elettori quelli medesimi favori e danari che usava per eleggere sé. Parevagli impossibile indurre il re a questo mentre che era nel fervore delle speranze vane; però sperava che quanto piú ardentemente e con piú speranza si ingolfasse in questa pratica tanto piú facilmente, quando cominciasse ad accorgersi riuscirgli vani i pensieri suoi, trovandosi già scoperto e irritato, e in su la gara, aversi a precipitare a favorire la elezione d'uno terzo con non minore ardore che avesse favorito quella di se medesimo; e potere in questo tempo, acquistata che avesse fede col re di essergli favorevole e d'avere desiderato quel medesimo che lui, essere udita l'autorità e il consiglio suo; e potere similmente accadere, favorendosi gagliardamente ne' princípi le cose del re di Francia, che l'altro re, veduto difficultarsi il desiderio suo e dubitando che il re avversario non vi avesse qualche parte, si precipitasse medesimamente a uno terzo. Però non solo dimostrò al re di Francia di avere sommo desiderio che in lui pervenisse lo imperio, ma lo confortò con molte ragioni a procedere vivamente in questa impresa, promettendogli amplissimamente di favorirlo con tutta la autorità del pontificato. Né parendogli potere fare maggiore impressione, che questa fusse la sua intenzione, che usare in questa azione uno instrumento il quale il re di Francia giudicasse dependere piú da sé che da altri, destinò subitamente nunzio suo in Germania Ruberto Orsino arcivescovo di Reggio, persona confidente al re: con commissione che, e da per sé e insieme con gli agenti che vi erano per il re, favorisse quanto poteva appresso agli elettori la sua intenzione: avvertendolo perciò a procedere o con maggiore o con minore moderazione secondo che in Germania trovasse la disposizione degli elettori e lo stato delle cose. Le quali azioni, discorse dal pontefice prudentemente e coperte con somma simulazione, arebbono avuto bisogno che nel re di Francia e ne' ministri suoi che erano in Germania fusse stata maggiore prudenza, e ne' ministri del pontefice maggiore gravità e maggiore fede.

                                                 Ma mentre che queste cose si trattano con le pratiche e non con le armi, il re di Francia ordinò che Pietro Navarra uscisse in mare con una armata di venti galee e di altri legni e con quattromila fanti pagati, sotto nome di reprimere le fuste de' mori (le quali avendo già molti anni scorso senza ostacolo i nostri mari scorrevano in questo anno medesimo piú che mai) e di assaltare, se cosí paresse al pontefice, i mori di Africa; ma principalmente perché il pontefice, scopertosi totalmente per lui nella causa dello imperio, non avesse causa di temere delle forze del re cattolico; il quale, piú per timore che aveva di essere offeso che per desiderio che avesse di offendere altri, preparava sollecitamente una armata per mandarla alla custodia del reame di Napoli. E nondimeno, in queste diffidenze e sospetti, continuandosi tra l'uno e l'altro re nella simulazione di amicizia, si convennono in nome loro a Mompolieri il gran maestro di Francia e monsignore di Ceures, in ciascuno de' quali consisteva quasi tutto il consiglio e l'animo del suo re, per trattare sopra lo stabilimento del matrimonio della seconda figliuola del re di Francia col re di Spagna; e molto piú per risolvere le cose del reame di Navarra, la restituzione del quale all'antico re, promessa nella concordia fatta a Noion, benché molto sollecitata dal re di Francia, era stata insino a quel dí differita dal re di Spagna con varie escusazioni: ma la morte del gran maestro, succeduta innanzi parlassino insieme, interroppe la speranza di questa andata.

                                                 Morí in questo tempo Lorenzo de' Medici, oppressato da infermità quasi continua da poi che, consumato con infelici auspici il matrimonio, era ritornato di Francia; perché, e pochissimi dí innanzi alla morte sua la moglie, avendo partorito, gli aveva morendo preparata la strada. Per la morte di Lorenzo, il pontefice, desideroso di tenere congiunta, mentre viveva, la potenza de' fiorentini a quella della Chiesa, disprezzati i consigli di alcuni che lo consigliavano che, non restando piú, eccetto lui, alcuno de' discendenti legittimi per linea mascolina di Cosimo de' Medici fondatore di quella grandezza, restituisse alla sua patria la libertà, propose il cardinale de' Medici alla amministrazione di quello stato; o per desiderio di perpetuare il nome della sua casa o per odio, causato per l'esilio, contro al nome della republica. E pensando che il ducato di Urbino si potesse difficilmente, per l'amore de' popoli all'antico duca, tenere sotto nome della figliuola restata unica di Lorenzo compresa nella investitura paterna, lo restituí insieme con Pesero e Sinigaglia alla sedia apostolica: né parendogli che questo bastasse a raffrenare l'ardore de' popoli, fece gittare in terra le mura della città di Urbino e degli altri luoghi principali del ducato, eccetto di Agobbio, alla quale città, per non essere, per la emulazione che aveva con la città di Urbino, tanto inclinata con l'animo a Francesco Maria, voltò favore e riputazione, costituendola come capo di quello ducato. Il quale per indebolire tanto piú, dette a' fiorentini, in pagamento de' danari spesi per lui nella guerra d'Urbino, de' quali gli aveva fatti prima creditori in camera apostolica, la fortezza di Santo Leo con tutto il Montefeltro e il pivieri di Sestina, che soleva essere territorio di Cesena: contentandosi poco i fiorentini di questa sodisfazione ma non potendo opporsi alla sua volontà.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.13

                                                  

                                                 Sforzi del re di Francia per guadagnarsi il favore degli elettori dell'impero, e inclinazione dei popoli di Germania contraria a un sovrano straniero. Ancora dell'atteggiamento del pontefice. Elezione a imperatore del re di Spagna. Impressione per l'elezione di Carlo; ragioni di dissensi col re di Francia.

                                                  

                                                 Restava la controversia dello imperio, con grandissima sospensione di tutta la cristianità, proseguita da l'uno e l'altro re con maggiore caldezza che mai: nella quale il re di Francia si ingannava ogni dí piú, indotto dalle promesse grandi del marchese di Brandiborg, uno degli elettori; il quale, avendo ricevuto da lui offerte grandissime di danari, e forse qualche somma di presente, si era non solo obligato, con occulte capitolazioni, a dargli il voto suo ma promesso che l'arcivescovo di Magunza suo fratello, uno de' tre prelati elettori, farebbe il medesimo. Promettevasi eziandio il re molto di un'altra parte degli elettori, e sperava, in caso che i voti fussino pari, nel voto del re di Boemia; per il voto del quale, discordando i sei elettori (che tre ne sono prelati, tre príncipi) si decide la controversia: però mandò allo ammiraglio, il quale era andato prima per queste cose in Germania, quantità grandissima di danari per dare agli elettori. E intendendo che molte delle terre franche insieme col duca di Vertimbergh, minacciando chi volesse trasferire lo imperio in forestieri, congregavano molte genti, faceva provisione di altri danari per opporsi con le armi a chi volesse impedire che gli elettori non lo eleggessino. Ma era grande la inclinazione de' popoli di Germania perché la degnità imperiale non si rimovesse di quella nazione, anzi, insino a' svizzeri, mossi dallo amore della patria comune germanica, avevano supplicato il pontefice che non favorisse a questa elezione alcuno che non fusse di lingua tedesca. Il quale, perseverando nondimeno nel favorire il re di Francia, aveva, sotto pretesto della bolla delle tregue quinquennali, publicata l'anno precedente, ammonito per brevi il duca di Vertimbergh e molte delle terre franche che desistessino dall'armi; sperando pure che, dimostrandosi cosí ardente per lui, il re avesse a udire con maggiore fede i consigli suoi, co' quali alla fine si sforzò di persuadergli che, deposta la speranza d'avere a essere eletto lui, procurasse con quella instanza medesima la elezione di qualunque altro de' príncipi di Germania: consiglio dato senza alcuno frutto, perché l'ammiraglio e Ruberto Orsino, ingannati dalle promesse di quegli che per trarre danari di mano de' franzesi davano certissime intenzioni, e occupati dalla passione, l'uno per essere di ingegno franzese e ministro del re, l'altro di natura leggiero e desideroso di acquistare la grazia sua, lo confermavano con avvisi vani, ogni dí piú, nella speranza di ottenere. Con le quali pratiche essendosi condotti, secondo l'uso antico a Franchefort, terra della Germania inferiore, quegli a' quali, non per piú antica consuetudine o fondata ragione ma per concessione di Gregorio [quinto] pontefice romano di nazione tedesco, appartiene la facoltà di eleggere lo imperadore romano, mentre che stanno in varie dispute per venire, al tempo debito, secondo gli ordini loro, alla elezione, uno esercito messo in campagna per ordine del re di Spagna, il quale fu piú pronto a spendere i danari in raccorre gente che a dargli agli elettori, avvicinatosi a Francofort sotto nome di proibire chi procurasse di violentare la elezione, accrebbe l'animo agli elettori che favorivano la causa sua, tirò nella sentenza degli altri quegli che erano dubbi, e spaventò il brandiburgense, inclinato al re di Francia, talmente che disperato che a questo concorressino gli altri elettori, e volendo fuggire l'odio e la infamia appresso di tutta la nazione, non ebbe ardire di scoprire la sua intenzione: in modo che, venendosi allo atto della elezione, fu eletto, il dí vigesimo ottavo di giugno, imperadore Carlo d'Austria re di Spagna da' voti concordi di quattro elettori, l'arcivescovo di Magunza e quello di Cologna, dal conte palatino e dal duca di Sassonia. Ma l'arcivescovo di Treveri elesse il marchese di Brandiborg, il quale concorse anche egli alla elezione di se stesso. Né si dubita che se, per la egualità de' voti, la elezione fusse pervenuta alla gratificazione del settimo elettore, che sarebbe succeduto il medesimo; perché Lodovico re di Boemia, il quale era anche re di Ungheria, aveva promesso a Carlo il voto suo.

                                                 Depresse questa elezione molto l'animo del re di Francia e di quegli che in Italia dependevano da lui, e per contrario inanimí molto chi aveva speranze o pensieri contrari, vedendo congiunta tanta potenza in uno principe solo, giovane, e al quale si sentiva per molti vaticini essere promesso grandissimo imperio e stupenda felicità; e se bene non fusse copioso di danari quanto era il re di Francia, nondimeno era tenuto di grandissima importanza il potere empiere gli eserciti suoi di fanteria tedesca e spagnuola, fanteria di molta estimazione e valore: cosa che per il contrario accadeva al re di Francia, perché non avendo nel regno suo fanti da opporre a questi non poteva implicarsi in guerre potenti, se non cavando, con grandissima spesa e qualche volta con grandissima difficoltà, fanteria di paesi forestieri; la quale cosa lo necessitava a intrattenere con grande spesa e diligenza i svizzeri, tollerare da loro molte ingiurie, e nondimeno non essere mai totalmente sicuro né della loro costanza né della loro fede. Né si dubitava che tra' due príncipi, giovani, e tra' quali erano molte cause di emulazione e di contenzione, avesse finalmente a nascere gravissima guerra. Perché nel re dí Francia risedeva il desiderio di recuperare il regno di Napoli, pretendendo avervi giusto titolo: eragli a cuore la reintegrazione del re don Giovanni al regno di Navarra, della quale comprendeva oramai essergli state date vane speranze: molesto era a Cesare il pagamento de' centomila ducati promessi nello accordo di Noion; e gli pareva che il re, sprezzato l'accordo prima fatto a Parigi, usando immoderatamente la occasione dello essere egli necessitato a passare in Spagna, l'avesse quasi per forza costretto a fare concordia nuova: era sempre fresca tra loro la causa del duca di Ghelleri, la quale sola, per averne il re di Francia la protezione, e lo stato di Fiandra riputarlo inimicissimo, poteva essere bastante a eccitargli all'armi. Ma sopratutto generava nell'animo del nuovo Cesare stimoli ardentissimi il ducato di Borgogna, il quale occupato da Luigi undecimo per l'occasione della morte di Carlo duca di Borgogna, avolo materno del padre di Cesare, aveva sempre tormentato l'animo de' successori. Né mancavano stimoli o cause di controversie per cagione del ducato di Milano, del quale non avendo il presente re, dopo la morte di Luigi duodecimo, ottenuta né dimandata la investitura, e pretendendosi molte eccezioni alle ragioni che gli nascevano della investitura fatta allo antecessore e di invalidità e di perdita di ragioni, era bastante questo a suscitare guerra tra loro. Nondimeno, né i tempi né l'opportunità consentivano che per allora facessino movimento: perché, oltre che a Cesare era necessario ripassare prima in Germania, per pigliare in Aquisgrana, secondo l'uso degli altri eletti, la corona dello imperio, si aggiugneva che, essendo ciascuno di loro di tanta potenza, la difficoltà dello offendersi l'uno l'altro gli riteneva dallo assaltarsi se prima non intendevano perfettamente la mente e la disposizione degli altri príncipi, e specialmente (se si avesse a fare guerra in Italia) quella del pontefice. La quale, recondita dalle simulazioni e arti sue, non era nota ad alcuno e forse talvolta non resoluta in se medesimo: benché, piú presto per non avere occasione di negargliene senza offendere gravemente l'animo suo che per libera volontà, avesse dispensato Carlo ad accettare la elezione fattagli dello imperio, contro al tenore della investitura del regno di Napoli; nella quale, fatta secondo la forma delle antiche investiture, gli era proibito espressamente.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.14

                                                  

                                                 Aspirazione del pontefice all'acquisto di Ferrara. Il vescovo di Ventimiglia muove con milizie con il disegno occulto di dar l'assalto alla città. Ragione del fallimento dell'impresa. Scioglimento dell'esercito.

                                                  

                                                 Conservavasi adunque Italia in pace per queste cagioni: benché nella fine di questo medesimo anno il pontefice tentasse di occupare la città di Ferrara, non con armi manifeste ma con insidie. Perché se bene si fusse creduto che, per la morte di Lorenzo suo nipote, mancando già alla casa sua piú presto uomini che stati, avesse levato il pensiero dalla occupazione di Ferrara alla quale prima avea sempre aspirato, nondimeno, o stimolato dall'odio conceputo contro a quel duca o dalla cupidità di pareggiare o almanco approssimarsi quanto piú poteva alla gloria di Giulio, non aveva, per la morte del fratello e del nipote, rimesso parte alcuna di questo ardore: donde che facilmente si può comprendere che l'ambizione de' sacerdoti non ha maggiore fomento che da se stessa. Né comportando la qualità de' tempi, e il sito e la fortezza di quella città, la quale Alfonso con grandissima diligenza aveva renduta munitissima, che si pensasse a espugnarla con aperta forza, avendo lui massime quantità quasi infinita di bellissime artiglierie e munizioni, e avendo, con limitare tutte le spese, aggiugnere nuovi dazi e gabelle, fare vive in qualunque modo l'entrate sue e, esercitandosi con la industria, rappresentare in molte cose piú il mercatante che il principe, accumulato, secondo si credeva, grandissima quantità di danari, non restava al pontefice, se non si mutavano le condizioni de' tempi, altra speranza di ottenerla che con occulte insidie e trattati. De' quali avendone per il passato tentato con Niccolò da Esti e con molti altri vanamente, ed essendosi Alfonso, per non avere notizia che attendesse piú a queste pratiche, quasi assicurato non della sua volontà ma delle insidie, parve al pontefice (per partiti che gli furono proposti e per essere Alfonso, oppresso da lunga infermità, ridotto in termine che quasi si disperava la sua salute, e il cardinale suo fratello, per non stare con poca grazia nella corte di Roma, trovandosi in Ungheria) tempo opportuno di tentare di eseguire qualche disegno che gli era proposto da alcuni fuorusciti di Ferrara, e per mezzo loro da Alessandro Fregoso vescovo di Ventimiglia, abitante allora a Bologna perché, aspirando a essere doge come era stato il cardinale suo padre, era sospetto a Ottaviano Fregoso; il quale, stato poco felice ne' trattati che aveva fatto per sé per rientrare nella propria patria, prometteva piú prospero successo in quegli che faceva per altri nelle patrie forestiere.

                                                 Sotto colore adunque di volere entrare con l'armi in Genova, il vescovo, ricevuti occultamente dal pontefice diecimila ducati, soldò, parte del paese di Roma parte nella Lunigiana, duemila fanti. Al romore della quale adunazione essendosi, per sospetto di sé, armato per terra e per mare Ottaviano Fregoso, egli, come se per essere scoperti i suoi disegni restasse escluso di speranza di potere per allora voltare lo stato di Genova, fatto intendere a Federigo da Bozzole (con l'aiuto di chi si manteneva in grande parte la Concordia contro al conte Giovanfrancesco della Mirandola) poterlo servire di quelle genti insino non fusse finita la paga loro la quale durava presso a uno mese, passato l'Apennino scese in quello di Coreggio, pigliando lentamente il cammino della Concordia. Ed era il fondamento di questo trattato il passare il fiume del Po; al quale effetto certi ministri di Alberto da Carpi, conscio di questa pratica, avevano noleggiato, sotto nome di mercatanti di grani, molte barche che erano nella bocca del fiume della Secchia (cosí chiamano i circonvicini quel luogo dove l'acque della Secchia entrano nel Po), con le quali passando Po, disegnava il vescovo accostarsi prestamente a Ferrara: dove egli stato pochi mesi innanzi aveva speculato uno luogo della terra in sul Po dove erano in terra piú di quaranta braccia di muro, luogo aperto e molto facile a entrarvi. Il quale muro essendo caduto non molto prima non si era restaurato cosí presto, perché la vicinità del fiume e lo starsi senza timore avevano nutrito la negligenza di chi soleva sollecitamente provedere a questi disordini.

                                                 Ma come fu sentito per il paese circostante il Ventimiglia con queste genti avere passato l'Apennino, il marchese di Mantova, non per alcuno sospetto particolare ma per consuetudine antica di difficultare alle genti forestiere i passi de' fiumi, ritirò a Mantova tutte le barche che erano in bocca di Secchia; in modo che il Ventimiglia, non potendo servirsi delle barche noleggiate né avendo comodità di provederne cosí presto dell'altre, massime perché i governatori vicini della Chiesa non erano avvertiti di questa pratica, né avevano commissione, quando bene l'avessino saputa, di intromettersene, mentre che cerca di qualche rimedio, egli e i ministri di Alberto soggiornò con le genti verso Coreggio e ne' luoghi vicini: dove avendo parlato con molti incautamente, e con alcuni scoperto tutti i particolari del suo disegno, il marchese di Mantova, avvertitone, notificò per uno uomo suo la cosa al duca di Ferrara. Il quale era tanto alieno da questo sospetto che con difficoltà si indusse a prestargli fede; pure, movendolo piú che altro quello riscontro del muro rotto, cominciò a prepararsi di gente; né mostrando avere sospetto del pontefice, benché sentisse in sé altramente, fattogli intendere le insidie che gli erano ordinate dal vescovo Ventimiglia, lo supplicò che e' commettessi ai governatori vicini che, occorrendogli di bisogno, gli porgessino aiuto: la quale cosa fu dal pontefice con favorevoli brevi eseguita prontamente, ma data però nel tempo medesimo occultamente altra commissione.

                                                 La fama che a Ferrara si cominciasse a fare provisione, aggiunta alla difficoltà di passare Po, tolse al vescovo ogni speranza: però condottosi con le genti presso alla Concordia, mentre che con quegli che vi erano dentro, insospettiti già di lui, tratta di volere offendere la Mirandola, presentatosi allo improvviso una notte alle mura della Concordia, gli fece dare la battaglia, ma per dare cagione agli uomini di credere che non per andare a Ferrara ma per occupare la Concordia fusse venuto in quegli luoghi. Fu vano questo assalto: dopo il quale i fanti con sua licenza si dissolverono; lasciata opinione in molti e in Alfonso medesimo che se non gli era interrotto la facoltà di passare Po, arebbe ottenuta, per il muro rotto, Ferrara, dove non era gente alcuna, non sospetto, il duca ammalato gravemente, e il popolo in modo male sodisfatto di lui che pochissimi, in uno tumulto quasi improviso, arebbono prese l'armi o oppostisi al pericolo.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.13, cap.15

                                                  

                                                 Primo diffondersi delle idee luterane; occasione offerta dalla corte pontificia e scandalo della vendita delle indulgenze in Germania. Come Lutero passò a negare i princípi della Chiesa. Misure prese dal pontefice contro Lutero; perché poco giovarono.

                                                  

                                                 Séguita l'anno mille cinquecento venti: nel quale, continuandosi per le medesime cagioni per le quali era stata conservata l'anno precedente la pace di Italia, cominciorono molto ad ampliarsi dottrine nate di nuovo, prima contro all'autorità della Chiesa romana dipoi contro alla autorità della cristiana religione. Il quale pestifero veleno ebbe origine nella Alamagna, nella provincia di Sassonia, per le predicazioni di Martino Lutero, frate professo dell'ordine di Santo Augustino, suscitatore per la maggiore parte, ne' princípi suoi, degli antichi errori de' boemi; i quali, reprobati per il concilio universale della Chiesa celebrato a Costanza, e abbruciati con l'autorità di quello Giovanni Hus e Ieronimo da Praga, due de' capi principali di questa eresia, erano stati lungamente ristretti ne' confini di Boemia. Ma a suscitargli nuovamente in Germania aveva dato occasione l'autorità della sedia apostolica, usata troppo licenziosamente da Lione; il quale, seguitando, nelle grazie che sopra le cose spirituali e beneficiali concede la corte, il consiglio di Lorenzo de' Pucci cardinale di Santi Quattro, aveva sparso per tutto il mondo, senza distinzione di tempi e di luoghi, indulgenze amplissime, non solo per potere giovare con esse a quegli che ancora sono nella vita presente ma con facoltà di potere oltre a questo liberare l'anime de' defunti dalle pene del purgatorio: le quali cose non avendo in sé né verisimilitudine né autorità alcuna, perché era notorio che si concedevano solamente per estorquere danari dagli uomini che abbondano piú di semplicità che di prudenza, ed essendo esercitate impudentemente da' commissari deputati a questa esazione, la piú parte de' quali comperava dalla corte la facoltà di esercitarle, avevano concitato in molti luoghi indegnazione e scandolo assai; e specialmente nella Germania, dove molti de' ministri erano veduti vendere per poco prezzo, o giuocarsi in su le taverne, la facoltà del liberare le anime de' morti dal purgatorio. E accrebbe [l'indegnazione] che il pontefice, il quale per la facilità della natura sua esercitava in molte cose con poca maestà l'officio pontificale, donò a Maddalena sua sorella lo emolumento e l'esazione delle indulgenze di molte parti di Germania, la quale, avendo fatto deputare commissario il vescovo Arcimboldo, ministro degno di questa commissione, che l'esercitava con grande avarizia ed estorsione, e sapendosi per tutta la Germania che i danari che se ne cavavano non andavano al pontefice o alla camera apostolica (donde pure sarebbe forse stato possibile che qualche parte se ne fusse spesa in usi buoni), ma era destinata a sodisfare all'avarizia d'una donna, aveva fatto detestabile non solo la esazione e i ministri di quella ma il nome ancora e l'autorità di chi tanto inconsultamente le concedeva. La quale occasione avendo presa il Lutero, e avendo cominciato a disprezzare queste concessioni e a tassare in queste l'autorità del pontefice, moltiplicandogli in causa favorevole agli orecchi de' popoli numero grande di uditori, cominciò ogni dí piú scopertamente a negare l'autorità del pontefice.

                                                 Da questi princípi forse onesti o almanco, per la giusta occasione che gli era data, in qualche parte scusabili, traportandolo l'ambizione e l'aura popolare, e il favore del duca di Sassonia, non solo fu troppo immoderato contro alla potestà de' pontefici e autorità della Chiesa romana; ma trascorrendo ancora negli errori de' boemi, cominciò in progresso di tempo a levare le immagini delle chiese, a spogliare i luoghi ecclesiastichi de' beni, permettere a' monachi e alle monache professe il matrimonio, convalidando questa opinione non solo con l'autorità e con gli argomenti ma eziandio con l'esempio di se medesimo; negare la potestà del papa distendersi fuora dello episcopato di Roma, e ogn'altro episcopo avere nella diocesi sua quella medesima autorità che aveva il papa nella romana; disprezzare tutte le cose determinate ne' concili, tutte le cose scritte da quegli che si chiamano i dottori della Chiesa, tutte le leggi canoniche e i decreti de' pontefici, riducendosi solo al Testamento Vecchio al libro degli Evangeli agli Atti degli apostoli e a tutto quello che si comprende sotto il nome del Testamento Nuovo e alle epistole di san Paolo, ma dando a tutte queste nuovi e sospetti sensi e inaudite interpretazioni. Né stette in questi termini la insania di costui e de' seguaci suoi, ma seguitata si può dire da quasi tutta la Germania, trascorrendo ogni dí in piú detestabili e perniciosi errori, penetrò a ferire i sagramenti della Chiesa, disprezzare i digiuni le penitenze e le confessioni; scorrendo poi alcuni de' suoi settatori, ma diventati già in qualche parte discrepanti dalla autorità sua, a fare pestifere e diaboliche invenzioni sopra la eucarestia. Le quali cose, avendo tutte per fondamento la reprobazione della autorità de' concili e de' sacri dottori, hanno dato adito a ogni nuova e perversa invenzione o interpretazione; e ampliatosi in molti luoghi, eziandio fuora della Germania, per contenere dottrina di sorte che, liberando gli uomini da molti precetti, trovati per la salute universale dai concili universali della Chiesa dai decreti de' pontefici dalla autorità de' canoni e dalle sane interpretazioni de' sacri dottori, gli riducono a modo di vita quasi libero e arbitrario.

                                                 Sforzavasi ne' princípi suoi di spegnere questa pestifera dottrina il pontefice, non usando per ciò i rimedi e le medicine convenienti a sanare tanta infermità. Perché citò a Roma Martino Luther sospeselo dallo officio del predicare, e dipoi per la inobbedienza sua lo sottopose alle censure ecclesiastiche; ma non si astenne da molte cose di pessimo esempio, e che dannate ragionevolmente da lui erano molestissime a tutti: donde il procedergli contro con l'armi ecclesiastiche non diminuí appresso a' popoli, anzi augumentò la riputazione di Martino, come se le persecuzioni nascessino piú dalla innocenza della sua vita e dalla sanità della dottrina che da altra cagione. Mandò il pontefice molti religiosi a predicare in Germania contro a lui, scrisse molti brevi a príncipi e a prelati; ma non giovando né questo né molti altri modi usati per reprimerlo (per la inclinazione de' popoli, e per il favore grande che nelle terre sue aveva dal duca di Sassonia), cominciava a parere in corte di Roma, ogni dí piú, questa causa piú grave, e a crescere la dubitazione che alla grandezza de' pontefici alla utilità della corte romana e alla unità della religione cristiana non ne nascesse grandissimo detrimento. Per questo si facevano quello anno a Roma spessi concistori, spesse consulte di cardinali e teologi deputati nella camera del pontefice, per trovare i rimedi a questo male che continuamente cresceva: e ancora che non mancasse chi riducesse in memoria che la persecuzione fattagli insino a quello dí, poi che non era accompagnata col correggere in loro medesimi le cose dannabili, gli aveva cresciuto la riputazione e la benivolenza de' popoli, e che minore male sarebbe stato dissimulare di non sentire questa insania, che forse per se medesima si dissolverebbe, che soffiando nel fuoco accenderlo e farlo maggiore; nondimeno, come è natura degli uomini di procedere volentieri a' rimedi caldi, non solo furono accresciute le persecuzioni contro a lui e contro agli altri suoi settatori, chiamati volgarmente i luterani, ma ancora deliberato uno monitorio gravissimo contro al duca di Sassonia, dal quale esacerbato diventò fautore piú veemente della causa sua. La quale, in spazio di piú anni, andò in modo moltiplicando che sia stato molto pericoloso che da questa contagione non resti infetta quasi tutta la cristianità. Né ha tanto raffrenato il corso suo cosa alcuna quanto lo essersi conosciuto, i settatori di questa dottrina non essere manco infesti alla potestà de' príncipi temporali che alla autorità de' pontefici romani; il che ha fatto che molti príncipi hanno, per lo interesse proprio, con vigilanza e con severità proibito che ne' regni suoi non entri questa contagione: e per contrario, nessuna cosa ha sostenuto tanto la pertinacia di questi errori (i quali qualche volta, per la troppa trasgressione de' capi di queste eresie e per la varietà ed eziandio contrarietà dell'opinioni tra loro medesimi, sono stati vicini a confondersi e a cadere) quanto la licenziosa libertà che nel modo del vivere ne hanno acquistato i popoli, e l'avarizia de' potenti per non restare spogliati de' beni che hanno occupati delle chiese.

                                                  

                                                 Lib.13, cap.16

                                                  

                                                 Giampaolo Baglioni invitato a Roma dal pontefice, incarcerato e giustiziato. Nuove insidie del pontefice contro il duca di Ferrara. Incoronazione di Cesare in Aquisgrana; sue ragioni di preoccupazione. Minaccie di fanti spagnoli alle terre della Chiesa.

                                                  

                                                 Non accadde questo anno in Italia cosa degna di memoria: salvo che, essendo in Perugia Giampaolo e Gentile della medesima famiglia de' Baglioni, o perché nascesse tra loro contenzione o perché Giampaolo, non gli bastando avere piú parte e piú autorità nel governo, volesse arrogarsi il tutto, cacciò Gentile di Perugia: il che essendo molesto al pontefice, lo fece citare che personalmente comparisse a Roma. Il quale, temendo a andarvi, mandò Malatesta suo figliuolo a giustificarsi, e a offerire a essere presto a obbidire a tutti i suoi comandamenti: ma instando pure il pontefice della venuta sua, poiché fu stato molti dí perplesso, si risolvé a andare, confidatosi parte nella antica servitú che in ogni tempo aveva avuto con la sua casa, parte persuaso da Cammillo Orsino suo genero e da altri amici suoi; i quali, usando l'autorità loro e valendosi di mezzi potenti appresso al pontefice, o ottennono fede espressa da lui (benché non per scrittura) o almanco furono dal pontefice usate tali parole con somma astuzia e fatte tali dimostrazioni che quegli che si confidavano potere ritrarre da lui la mente sua gli dettono animo a comparire, dandosi a intendere che egli potesse farlo sicuramente. Ma arrivato a Roma, trovò che il pontefice, sotto specie di sue ricreazioni come altre volte era solito di fare, era andato pochi dí innanzi in Castello Santo Angelo. Dove andando la mattina seguente Giampaolo per presentarsegli fu, innanzi arrivasse al cospetto suo, incarcerato dal castellano, e dipoi per giudici diputati esaminato rigorosamente confessò molti gravissimi delitti, sí per cose attenenti alla conservazione della tirannide come per piaceri nefandi e altri suoi interessi particolari; per i quali, poi che fu stato in carcere piú di due mesi, fu decapitato secondo l'ordine della giustizia: movendosi, secondo si credette, il pontefice a questo per avere, nella guerra d'Urbino, compreso per molti segni Giampaolo essere d'animo alieno da lui, avere tenuto pratiche con Francesco Maria, né potere in qualunque accidente gli sopravenisse fare fondamento fermo in lui, e conseguentemente, mentre che egli era in quello stato, nelle cose di Perugia. Le quali per riordinare a suo proposito, essendosi i figliuoli di Giampaolo fuggiti come ebbono nuove della sua retenzione, dette quella legazione a Silvio cardinale di Cortona, antico servidore e allievo suo; restituí Gentile in Perugia, al quale donò i beni che erano stati posseduti da Giampaolo, e appoggiandosi a uno subietto molto debole voltò la riputazione e grandezza a lui.

                                                 Continuò medesimamente questo anno il pontefice (attribuendo piú al caso o alla poca prudenza che ad altro l'occasione perduta del vescovo di Ventimiglia) di tentare nuove insidie contro al duca di Ferrara, per mezzo di Uberto da Gambara protonotario apostolico, con Ridolfel tedesco, capitano di alcuni fanti tedeschi che Alfonso teneva alla sua guardia; il quale gli aveva promesso dargli a suo piacere la entrata della porta di Castello Tialto. Dove potendo pervenire le genti che si mandassino da Bologna e da Modena, senza avere a passare il Po se non per il ponte di legname che è innanzi a quella porta, fu dato ordine a Guido Rangone e al governatore di Modena che, raccolte certe genti sotto altri colori, andassino allo improviso a occupare quella porta, per difenderla tanto che giugnessino gli aiuti da Modena e da Bologna; dove era posto ordine che la gente si movesse quasi popolarmente. Ma già statuito il dí dello assaltarla, si scoperse che Ridolfel, a chi per ordine del pontefice erano stati dati da Uberto da Gambara circa dumila ducati, aveva da principio comunicato ogni cosa con Alfonso; il quale, poi che ebbe scoperto assai della mente del pontefice e de' suoi disegni, non volendo che la cosa procedesse piú innanzi, tenne modo che la fraude di Ridolfel si publicasse.

                                                 In questo anno medesimo passò Cesare, per mare, di Spagna in Fiandra; avendo nel passare, non per necessità come aveva fatto il padre, ma volontariamente, toccato in Inghilterra, per parlare con quel re col quale restò in buona concordia. Di Fiandra andato in Germania ricevé, del mese d'ottobre, in Aquisgrana, città nobile per l'antica residenza e per il sepolcro di Carlo Magno, con grandissimo concorso, la prima corona, quella medesima, secondo che è la fama, con la quale fu incoronato Carlo Magno; datagli, secondo il costume antico, con l'autorità de' príncipi di Germania. Ma questa sua felicità era turbata dagli accidenti nati di nuovo in Spagna. Perché a' popoli di quei regni era stata molesta la promozione sua allo imperio, perché conoscevano che, con grandissima incomodità e detrimento di tutti, sarebbe per varie cagioni necessitato a stare non piccola parte del tempo fuora di Spagna; ma molto piú gli aveva mossi l'odio grande che avevano conceputo contro alla avarizia di quegli che lo governavano, massime contro a Ceures, il quale dimostratosi insaziabile aveva per tutte le vie accumulato somma grandissima di danari; il medesimo, avevano fatto gli altri fiamminghi, vendendo per prezzo a' forestieri gli uffici soliti darsi agli spagnuoli, e facendo venali tutte le grazie privilegi ed espedizioni che si dimandavano alla corte: in modo che, concitati tutti i popoli contro al nome de' fiamminghi, avevano, alla partita di Cesare, tumultuato quegli di Vagliadulit; e appena uscito di Spagna, sollevati tutti, non, secondo dicevano, contro al re ma contro a' cattivi governatori, e comunicati insieme i consigli, non prestando piú ubbidienza agli offiziali regi, avevano fatta congregazione della maggiore parte de' popoli: i quali, data forma al governo, si reggevano in nome della santa giunta (cosí chiamavano il consiglio universale de' popoli). Contro a' quali essendosi levati in arme i capitani e ministri regi, ridotte le cose in manifesta guerra, erano tanto moltiplicati i disordini che Cesare piccolissima autorità vi riteneva: donde in Italia e fuora cresceva la speranza di coloro che arebbono desiderato diminuire tanta grandezza. Aveva nondimeno l'armata sua acquistato contro a' mori l'isola delle Gerbe, e in Germania era stata repressa in qualche parte la riputazione del re di Francia. Perché dando egli, per notrire discordie in quella provincia, favore al duca di Vertimberg discordante con la lega di Svevia, quegli popoli risentitisi potentemente lo cacciorono del suo stato e acquistato che lo ebbono lo venderono a Cesare, desideroso di abbassare i seguaci del re di Francia, obligandosi alla difesa contro a qualunque lo molestasse. Per il che quello duca, trovandosi distrutto sotto la speranza degli aiuti franzesi, fu necessitato ricorrere alla clemenza di Cesare, e da lui accettare quelle leggi, che gli furono date: non rimesso però per questo nella possessione del suo ducato.

                                                 Nella fine di questo anno medesimo, circa tremila fanti spagnuoli stati piú mesi in Sicilia, non volendo ritornare in Spagna secondo il comandamento avuto da Cesare, disprezzata l'autorità de' capitani, passorono a Reggio di Calavria; e procedendo con fare per tutto gravissimi danni verso lo stato della Chiesa, messono in grave terrore il pontefice (nell'animo del quale era fissa la memoria degli accidenti di Urbino) che, o sollevati da altri príncipi o accompagnandosi con il duca Francesco Maria, co' figliuoli di Giampaolo Baglione e con gli altri inimici della Chiesa, non suscitassino qualche incendio: massime recusando le offerte fatte dal viceré di Napoli e da lui di soldarne una parte, e agli altri fare donativo di danari. Dalle quali offerte preso maggiore animo, si movevano verso il fiume del Tronto, non per il paese stretto del Capitanato ma per il cammino largo di Puglia; e aggiugnendosi continuamente altri fanti e qualche cavallo, diventavano sempre piú formidabili. Nondimeno, si risolvé piú facilmente e piú presto che gli uomini non credevano questo movimento; perché passato il Tronto per entrare nella Marca anconitana, nella quale il pontefice aveva mandate molte genti, e andati a campo a Ripatransona, avendovi dato uno assalto gagliardo, perduti molti di loro, furno costretti a ritirarsi: per il che, diminuiti molto di animo e di riputazione, accettorono cupidamente da' ministri di Cesare condizioni molto minori di quelle le quali prima avevano disprezzate.

                                             

                                                 Lib.14, cap.1

                                                  

                                                 L'anno 1521 porta nuove guerre, per la gelosia di due potentissimi re, all'Italia, stata per tre anni in pace. Il pontefice assolda seimila svizzeri, senza che alcuno sappia per quale impresa. Segreti accordi del pontefice col re di Francia. Il regno di Navarra conquistato all'antico re. I successi dei francesi determinano la concordia in Ispagna. Confederazione di Cesare e del pontefice contro il re di Francia. Ragioni di Cesare sul ducato di Milano.

                                                  

                                                 Sedato nel principio dell'anno mille cinquecento ventuno questo piccolo movimento, temuto piú per la memoria fresca de' fanti spagnuoli che assaltorono lo stato d'Urbino che perché apparissino cagioni probabili di timore, cominciorono, pochi mesi poi, a perturbarsi le cose d'Italia, con guerre molto piú lunghe maggiori e piú pericolose che le passate; stimolando l'ambizione di due potentissimi re, pieni tra loro di emulazione di odio e di sospetto, a esercitare tutta la sua potenza e tutti gli sdegni in Italia: la quale, stata circa tre anni in pace, benché dubbia e piena di sospizione, pareva che avesse il cielo il fato proprio e la fortuna o invidiosi della sua quiete o timidi che, riposandosi piú lungamente, non ritornasse nella antica felicità. Principio a nuovi movimenti dettono quegli i quali, obligati piú che gli altri a procurare la conservazione della pace, piú spesso che gli altri la perturbano, e accendono con tutta la industria e autorità loro il fuoco; il quale, quando altro rimedio non bastasse, doverebbono col proprio sangue procurare di spegnere. Perché, se bene tra Cesare e il re di Francia crescessino continuamente le male inclinazioni, nondimeno né avevano cagioni molto urgenti alla guerra presente né eccedevano tanto l'uno l'altro di potenza in Italia né di alcuna opportunità che, senza compagnia di qualcun altro de' príncipi italiani, fussino bastanti a offendersi. Perché il re di Francia, avendo congiunti seco i viniziani alla difesa dello stato di Milano, ed essendo i svizzeri non pronti piú a fare le guerre in nome proprio ma disposti solamente a servire come soldati chi gli pagasse, non aveva cagione di temere movimento alcuno di Cesare, né per via del reame di Napoli né per via di Germania; né da altra parte aveva facilità di offendere Cesare nel reame di Napoli, non concorrendo seco a quella impresa il pontefice; il quale ciascuno di loro, con varie offerte e arti, si cercava di conciliare: in modo che si credeva che se il pontefice, perseverando a stare di mezzo tra tutti due, stesse vigilante e sollecito a temperare, con l'autorità pontificale e con la fede che gli darebbe la neutralità, gli sdegni, e reprimere l'origine de' consigli inquieti, si avesse a conservare la pace. Né si vedeva cagione che lo necessitasse a desiderare o a suscitare la guerra, perché e prima aveva tentato l'armi infelicemente e, amendue questi príncipi tanto grandi, aveva da temere parimente della vittoria di ciascuno di loro; conoscendosi chiaramente che quello che rimanesse superiore non arebbe né ostacolo né freno a sottoporsi tutta Italia. Possedeva tranquillamente e con grandissima ubbidienza lo stato amplissimo della Chiesa, e Roma e tutta la corte era collocata in sommo fiore e felicità, piena autorità sopra lo stato di Firenze, stato potente in quegli tempi e molto ricco; ed egli per natura dedito all'ozio e a' piaceri, e ora per la troppa licenza e grandezza alieno sopramodo dalle faccende, immerso a udire tutto dí musiche facezie e buffoni, inclinato ancora troppo piú che l'onesto a' piaceri che si godevano con grande infamia, pareva dovesse essere totalmente alieno dalle guerre. Aggiugnevasi che, avendo l'animo pieno di tanta magnificenza e splendore che sarebbe stato maraviglioso se per lunghissima successione fusse disceso di re grandissimi, né avendo nello spendere o nel donare misura o distinzione, non solo aveva in breve tempo dissipato con inestimabile prodigalità il tesoro accumulato da Giulio, ma avendo, delle espedizioni della corte e di molte sorte di offici nuovi, escogitati per fare danari, tratto quantità infinita di pecunia, aveva speso tanto eccessivamente che era necessitato continuamente a pensare modi nuovi da sostenere le profuse spese sue; nelle quali non solamente perseverava ma piú presto augumentava. Non aveva stimoli di fare grandi alcuni de' suoi; e se bene lo tormentasse il desiderio di recuperare Parma e Piacenza e di acquistare Ferrara, nondimeno non parevano cagioni bastanti a indurlo a rivolgere sottosopra lo stato quieto del mondo, ma piú presto a temporeggiare e ad aspettare l'opportunità e le occasioni. Ma è vero quello che si dice: non hanno gli uomini maggiore inimico che la troppa prosperità, perché gli fa impotenti di se medesimi, licenziosi e arditi al male e cupidi di turbare il bene proprio con cose nuove. Lione, costituito in tale stato, o riputandosi a grande infamia lo avere perduto Parma e Piacenza, acquistate con tanta gloria da Giulio, o non potendo contenere lo appetito ardente allo acquisto di Ferrara o parendogli, se moriva senza avere fatto qualche cosa grande, lasciare infame la memoria del suo pontificato, o dubitando, come diceva egli, che i due re, esclusi ciascuno dalla speranza di averlo congiunto seco e per questo poco abili a offendersi insieme, condiscendessino finalmente tra loro a qualche congiunzione che fusse a depressione della Chiesa e di tutto il resto d'Italia, o sperando, come io udi' poi dire al cardinale de' Medici conscio di tutti i suoi secreti, cacciati i franzesi di Genova e del ducato di Milano, potere poi facilmente cacciare Cesare del reame napoletano, vendicandosi quella gloria della libertà d'Italia alla quale prima aveva manifestamente aspirato l'antecessore (cosa che non potendo succedere a Leone con le proprie forze, sperava, mitigato prima in qualche parte l'animo del re di Francia con eleggere qualche cardinale desiderato da lui e col dimostrarsi pronto a concedergli delle altre grazie, indurlo a dargli aiuto contro a Cesare, come se fusse per pigliare in luogo di ristoro il sollazzo che a Cesare accadesse il medesimo che era accaduto a lui); qualunque lo movesse di queste cagioni, o una o piú o tutte insieme, voltò tutti i pensieri alla guerra e a unirsi con uno di questi due príncipi, e, congiunto con lui, muovere in Italia l'armi contra a l'altro. A' quali pensieri per trovarsi preparato, né potere intratanto essere oppresso da alcuno, mentre trattava con ciascuno ma piú strettamente col re di Francia, mandò in Elvezia Antonio Pucci vescovo di Pistoia (il quale ottenne poi in altro tempo da lui la degnità del cardinalato) a soldare e condurre nello stato della Chiesa seimila svizzeri; i quali essendogli senza difficoltà conceduti da' cantoni, per la confederazione che dopo la guerra di Urbino aveva rinnovata con loro, ottenuto il passo per lo stato di Milano, gli condusse nel dominio della Chiesa, intrattenendogli piú mesi in Romagna e nelle Marche. Essendo incerto ciascuno a che proposito, non essendo movimento alcuno in Italia, sostenesse oziosamente tanta spesa, egli affermava avergli chiamati per potere vivere sicuramente, sapendo che ogni dí erano da i ribelli della Chiesa macchinate cose nuove: la quale cagione non parendo verisimile, cadevano ne' discorsi degli uomini vari concetti: chi, che egli si fusse armato per timore che egli avesse del re di Francia, chi per qualche disegno di occupare Ferrara, chi che avesse inclinazione di cacciare Cesare del reame di Napoli. Ma tra lui e il re si trattava secretamente di assaltare con l'armi congiunte insieme il regno napoletano, con condizione che Gaeta e tutto quello che si contiene tra il fiume del Garigliano e i confini dello stato ecclesiastico si acquistasse per la Chiesa, il resto del regno fusse del secondogenito del re di Francia; il quale, per essere di età minore, avesse a essere insino che e' fusse di età maggiore governato insieme col reame da uno legato apostolico, che risedesse a Napoli. Conteneva oltre a questo, la capitolazione che il re dovesse aiutarlo contro a' sudditi e i feudatari della sedia apostolica, condizione appartenente allo stabilimento delle cose possedute dalla Chiesa ma non meno alla cupidità che aveva il pontefice di acquistare Ferrara.

                                                 Nel quale tempo, molto opportunamente a questi disegni, il re di Francia, invitato dalla occasione de' tumulti di Spagna e confortatone (secondo che poi querelandosi affermava) dal pontefice, mandò uno esercito sotto Asparoth fratello di Lautrech in Navarra, per recuperare quel regno al re antico; e nel tempo medesimo [operò che] Ruberto della Marcia e il duca di Ghelleri cominciassino a molestare i confini della Fiandra. Le discordie di Spagna feceno facile ad Asparoth acquistare il regno di Navarra, destituto da ogni aiuto e nel quale non era spenta la memoria del primo re: ma avendo con le artiglierie espugnata la rocca di Pampalona, entrato ne' confini del regno di Castiglia, occupò Fonterabia e corse insino a Logrogno; donde, come spesso avviene nelle cose umane, giovò a Cesare quel che gli uomini avevano creduto dovergli nuocere. Perché le cose di Spagna, travagliate insino a quel dí con vari progressi, erano ridotte in grandissime turbolenze: essendo da una parte congiunti i popolari e plebei, dall'altra avendo prese l'armi in beneficio di Cesare molti signori, i quali per lo interesse degli stati temevano la licenza popolare: la quale proceduta a manifesta ribellione, desiderosa di avere capo di autorità, aveva tratto della rocca di Sciativa il duca di Calavria; il quale, ricusando di pigliare l'armi contro a Cesare, non volle discostarsi dalla carcere. Ma l'essere assaltato il regno proprio di Castiglia dal re di Francia commosse in modo gli animi de' popoli, i quali senza dispiacere avevano tollerata la perdita del regno di Navarra, benché diventato per la unione fatta dal re cattolico membro de' regni loro, che, parte per questa cagione parte per qualche prospero successo che aveva avuto l'esercito cesareo, tutto il reame di Spagna, deposte piú facilmente le contenzioni tra loro medesimi, ritornò all'obbedienza del suo re.

                                                 Alla prosperità del re di Francia, per la vittoria cosí facile del reame di Navarra, si aggiunse, se avesse saputo usare la occasione, maggiore successo; perché i svizzeri, appresso a' quali erano gli imbasciadori suoi e di Cesare, sforzandosi ciascuno di essi di congiugnersi con loro, rifiutata, contro la opinione di molti e contro la intenzione che avevano data, l'amicizia di Cesare, abbracciorono la congiunzione col re di Francia, obligandosi a concedere agli stipendi suoi quanti fanti volesse, a qualunque impresa, e di non ne concedere ad alcuno altro per usargli a offesa di quello re.

                                                 Restava la esecuzione della capitolazione fatta a Roma tra il pontefice e lui: della quale essendogli ricercata la ratificazione, cominciò a stare sospeso, essendogli messo sospetto da molti che, atteso la duplicità del pontefice e l'odio che, assunto al pontificato, gli aveva continuamente dimostrato, era da dubitare di qualche fraude. Non essere verisimile che il pontefice desiderasse che in lui o ne' figliuoli pervenisse il reame di Napoli, perché avendo quello regno e il ducato di Milano temerebbe troppo la sua potenza: per certo, tanta benivolenza scopertasi cosí di subito non essere senza misterio. Avvertisse bene alle cose sue dagli inganni, e che credendo acquistare il regno di Napoli non perdesse lo stato di Milano; perché mandando lo esercito a Napoli, sarebbe in potestà del pontefice che aveva seimila svizzeri, intendendosi co' capitani di Cesare, disfarlo, e disfatto quello, che difesa rimanere a Milano? Né essere da maravigliarsi che il pontefice, avendo tentato che con le forze gli fusse tolto quel ducato, disperato di poterlo ottenere altrimenti, cercasse privarnelo con gli inganni. Queste ragioni commossono il re in modo che, stando dubbio del ratificare e forse aspettando risposta di altre pratiche, non avvisava a Roma cosa alcuna, lasciando sospesi il pontefice e gli imbasciadori suoi. Ma il pontefice, o perché veramente, governandosi con le simulazioni consuete, avesse l'animo alieno dal re o perché, come vidde passati tutti i termini del rispondere, sospettasse di quel che era, e temesse che il re non scoprisse a Cesare le sue pratiche e che tra loro per questo potesse nascere congiunzione in pregiudicio suo, concitato ancora dal desiderio ardente che aveva di ricuperare Parma e Piacenza e di fare qualche cosa memorabile, sdegnato oltre a questo dalla insolenza di Lautrech e del vescovo di Tarba suo ministro, i quali non ammettendo nello stato di Milano alcuno comandamento o provisioni ecclesiastiche le dispregiavano con superbissime e insolentissime parole, deliberò di congiugnersi, contro al re di Francia, con Cesare. Il quale, irritato dalla guerra di Navarra, stimolato da molti fuorusciti di Milano, commosso ancora da alcuni del consiglio suo desiderosi di abbassare la grandezza di Ceures, che aveva sempre dissuaso il separarsi dal re di Francia, si risolvé a confederarsi col pontefice contro al re; alla qual cosa si crede lo facesse accelerare la speranza di potere facilmente, con l'autorità del pontefice e con la sua, indebolire la lega fatta co' svizzeri, innanzi che con doni e con gratificarsegli la consolidasse. Indusse anche a maggiore confidenza l'animo del pontefice che Cesare, avendo udito nella dieta di Vuormazia Martino Luther, chiamato da lui sotto salvocondotto, e fatto esaminare le cose sue da molti teologi, i quali avevano referito essere dottrina erronea e perniciosa alla religione cristiana, gli dette per gratificare al pontefice il bando imperiale. La qual cosa spaventò tanto Martino che, se le parole ingiuriose e piene di minacci che gli disse il cardinale di San Sisto legato apostolico non lo avessino condotto a ultima disperazione, si crede sarebbe stato facile, dandogli qualche degnità o qualche modo onesto di vivere, farlo partire dagli errori suoi. Ma quello che si sia di questo, fu fatta tra il pontefice e Cesare, senza saputa di Ceures il quale insino a quel tempo aveva avuto in lui somma autorità, e il quale opportunamente morí quasi ne' medesimi dí, confederazione a difesa comune, eziandio della casa de' Medici e de' fiorentini: con aggiunta [di] rompere la guerra nello stato di Milano, in quegli tempi e modi che insieme convenissino: il quale acquistandosi, restasse alla Chiesa Parma e Piacenza, che le tenesse con quelle ragioni con le quali le aveva tenute innanzi, e che, atteso che Francesco Sforza, che era esule a Trento, pretendeva ragione nello stato di Milano per la investitura paterna e per la rinunzia del fratello, che acquistandosi fusse messo alla possessione, obligati i collegati a mantenervelo e difendervelo; che il ducato di Milano non consumasse altri sali che quegli di Cervia: permesso al papa non solo di procedere contro a' sudditi e feudatari suoi, ma obligato eziandio Cesare, acquistato che fusse lo stato di Milano, ad aiutarlo contro a loro; e nominatamente allo acquisto di Ferrara. Fu accresciuto il censo del reame di Napoli; promessa al cardinale de' Medici una pensione di diecimila ducati in su l'arcivescovado di Tolleto vacato nuovamente, e uno stato nel reame di Napoli di entrata di diecimila ducati per Alessandro figliuolo naturale di Lorenzo già duca d'Urbino.

                                                 Per declarazione delle quali cose pare necessario brevemente raccontare quali Cesare pretendeva che fussino in questo tempo le ragioni dello imperio sopra il ducato di Milano. Affermavasi per la parte di Cesare che a quello stato non erano di momento alcuno le ragioni antiche de' duchi di Orliens, per non essere stato confermato con l'autorità imperiale il patto della successione di madama Valentina; e che al presente apparteneva immediatamente allo imperio, perché la investitura fatta a Lodovico Sforza per sé e per i figliuoli era stata revocata dall'avolo, con amplitudine di tante clausule che la revocazione aveva avuto giuridicamente effetto, in pregiudicio massime de' figliuoli, i quali non l'avendo mai posseduto avevano ragione in speranza e non in atto; e perciò essere stata valida la investitura fatta al re Luigi, per sé e per Claudia sua figliuola, in caso si maritasse a Carlo, e con patto che non seguendo il matrimonio senza colpa di Carlo fusse nulla, e che Milano per la via retta passasse a Carlo; il quale ne fu, in caso tale, presente il padre Filippo, investito. Da questo inferirsi che di niuno valore era stata la seconda investitura fatta al medesimo re Luigi per sé, per la medesima Claudia e per Anguelem, in pregiudicio di Carlo pupillo, e costituito sotto la tutela di Massimiliano. Nella quale non potendo fare fondamento alcuno il re presente, meno poteva allegare appartenersigli quel ducato per nuove ragioni: perché da Cesare non aveva mai né ottenuta né dimandata la investitura; ed essere manifesto non gli potere giovare la cessione fatta da Massimiliano Sforza quando gli dette il castello di Milano, perché il feudo alienato di propria autorità ricade incontinente al signore soprano, e perché Massimiliano, benché ammesso di consentimento di Cesare, morto in quello stato non n'avendo mai ricevuta la investitura, non poteva trasferire in altri quelle ragioni che a sé non appartenevano.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.2

                                                  

                                                 Progetti e tentativi contro Genova e contro il ducato di Milano da parte degli spagnuoli, del pontefice, dello Sforza e dei fuorusciti. Le milizie francesi sotto Reggio; incidenti coi fuorusciti raccolti a Reggio: abboccamento dello Scudo col Guicciardini. Scoppio di polvere e rovina di mura del castello di Milano.

                                                  

                                                 Fatta adunque, ma occultissimamente, la confederazione tra il pontefice e Cesare contro al re di Francia, fu consiglio comune procedere, innanzi che manifestamente si movessino l'armi, o con insidie o con assalto improviso, in un tempo medesimo, per mezzo de' fuorusciti, contro al ducato di Milano e contro a Genova. Deliberossi adunque che le galee di Cesare, che erano a Napoli, e quelle del pontefice si presentassino all'improviso nel porto di Genova, armate di duemila fanti spagnuoli, e conducendo seco Ieronimo Adorno; per l'autorità e séguito del quale, movendosi similmente nel tempo medesimo, per opera sua, gli uomini delle riviere partigiani degli Adorni, speravano che quella città tumultuasse. Da altra parte era stato trattato, per Francesco Sforza e per Ieronimo Morone che era a Trento appresso a lui, con molti de' principali de' fuorusciti, che in Parma in Piacenza e in Cremona fussino assaltate allo improviso le genti franzesi che vi erano alloggiate, e il medesimo si facesse in Milano; e che Manfredi Palavicino e il Matto di Brinzi, capo di parte in quelle montagne, conducendo fanti tedeschi per il lago di Como, assaltassino quella città, dove affermavano avere secreta intelligenza; e che succedendo queste cose o alcuna delle piú importanti, i fuorusciti di Milano, che erano molti gentiluomini (i quali si avevano occultamente a trasferire a Reggio, dove il dí destinato doveva essere Ieronimo Morone), si movessino per entrare nello stato; facendo con piú prestezza si poteva tremila fanti: al quale effetto il pontefice mandò a Francesco Guicciardini, governatore già molti anni di Modena e di Reggio, diecimila ducati, con commissione che gli desse al Morone per fare secretamente fanti che fussino preparati al successo di queste cose; alle quali il Guicciardino prestasse favore ma occultamente, e in maniera tale che dalle azioni de' ministri non potesse il re di Francia o querelarsi o fare sinistra interpretazione del pontefice. Ma non fu felice l'evento d'alcuna di queste cose. L'armata andata a Genova, di sette galee sottili quattro brigantini e alcune navi, si presentò invano al porto, perché il doge Fregoso, presentendo la loro venuta, aveva opportunamente proveduta la terra; però non sentendo muoversi cosa alcuna si ritirorno nella riviera di levante. E in Lombardia, essendo quel che si trattava, e il dovere venire Ieronimo Morone a Reggio, in bocca di molti fuorusciti, Federico da Bozzole, pervenutogli all'orecchie, andò a Milano a notificarlo allo Scudo, il quale teneva a Milano il luogo del fratello che poco innanzi era andato in Francia; il quale, raccolte le genti d'arme alloggiate in vari luoghi e dato ordine a Federico che dalle sue castella menasse mille fanti, andò subito con quattrocento lancie a Parma, certificandosi mentre andava, a ogn'ora piú, della verità di quel che Federico gli avea riferito; perché i fuorusciti, non seguitando l'ordine dato dello adunarsi secretamente, erano palesemente andati a Reggio, facendo in tutti i luoghi circostanti richieste d'uomini e dimostrazioni manifeste d'avere senza indugio a tentare cose nuove: nel quale modo di procedere continuò Ieronimo Morone venuto dopo loro, mosso per avventura perché quanto piú scopertamente si procedeva tanto piú si genererebbe inimicizia tra il pontefice e il re.

                                                 Appariva già manifestamente a tutti la vanità di queste macchinazioni; e nondimeno lo Scudo, giunto a Parma, deliberò la mattina seguente, dí solenne per la natività di san Giovanni Batista, appresentarsi alle porte di Reggio; sperando potere avere occasione di prendere tutti o parte de' fuorusciti, o mentre che essi sentendo la sua venuta fuggissino della terra o perché, non vi essendo soldati forestieri, il governatore, uomo di professione aliena dalla guerra, e gli altri, spaventati, gliene dessino, o forse nella trepidazione della città sperando avere qualche occasione di entrarvi dentro. Presentí qualche cosa il governatore di questo: e benché, non essendo ancora noto l'assalto di Genova, non gli paresse verisimile che lo Scudo senza comandamento del suo re, dando quasi principio alla guerra, entrasse con l'armi nel dominio del pontefice, nondimeno, considerando quali spesso siano gl'impeti de' franzesi, per non essere del tutto sproveduto, mandò subito a chiamare Guido Rangone che era nel modenese, che la notte medesima venisse a Reggio; ordinò che de' fanti soldati dal Morone venisse, la notte medesima, quella parte che era in alloggiamenti piú vicini; che il popolo della terra, quale sapeva essere alieno da' franzesi, al suono della campana si riducesse alla guardia delle porte, consegnata a ciascuno la cura sua. Venne lo Scudo la mattina seguente con quattrocento lancie, dietro alle quali, ma lontano per qualche miglio, veniva Federigo da Bozzole con mille fanti; e avendo, come fu vicino alla terra, mandato Buonavalle uno de' suoi capitani al governatore a dimandare di volere parlare con lui, si convennono che lo Scudo si accostasse a una portella che entra nel rivellino della porta che va a Parma e che nel luogo medesimo venisse il governatore, sicuro ciascuno di loro sotto la fede l'uno dell'altro. Cosí venuto innanzi lo Scudo, e smontato a piede, si accostò con parecchi gentiluomini a quella porta, donde uscito il governatore cominciorono a parlare insieme; lamentandosi l'uno che nelle terre della Chiesa, contro a' capitoli della confederazione, si desse ricetto e fomento a' fuorusciti, adunati per turbare lo stato del re; l'altro che egli, con esercito armato, fusse entrato allo improviso nel dominio della Chiesa. Nel quale stato avendo alcuni del popolo, contro all'ordine dato, aperto una delle porte per introdurre uno carro carico di farina, Buonavalle che era di contro a quella porta, perché le genti dello Scudo sparsesi intorno alle mura ne circondavano una parte, si spinse innanzi con alcuni uomini d'arme, per entrare dentro; ma essendone cacciato e serrata la porta con grande strepito, il romore, venuto nel luogo dove lo Scudo e il governatore parlavano, fu cagione che quegli della terra e alcuni de' fuorusciti, de' quali erano piene le mura del rivellino, scaricati gli scoppi contro a quegli che erano vicini allo Scudo, ferirno gravemente Alessandro da Triulzio, della quale ferita morí fra due giorni, indegno certamente di questa calamità perché avea dissuaso il venire a Reggio; gli altri fuggirono: né salvò lo Scudo altra cosa che il rispetto che ebbe, chi voleva tirare a lui, di non percuotere il governatore. Ma essendo egli pieno di spavento, e lamentandosi essergli mancato della fede, né sapendo risolversi o a stare fermo o a fuggire, il governatore, presolo per la mano e confortandolo che sopra la fede sua lo seguitasse, lo introdusse nel rivellino; non l'accompagnando altri de' suoi che La Motta gentiluomo franzese: e fu cosa maravigliosa che tutte le genti d'arme, come intesono lo Scudo essere entrato dentro, andata tra loro la voce che era stato fatto prigione, si messono in fuga, con tanto timore che molti di loro gittorno le lancie per le strade, pochissimi furono quegli che aspettassino lo Scudo. Il quale, dopo lungo parlamento ed essere stato certificato che il disordine era nato da' suoi, fu licenziato dal governatore; il quale, rispetto alla fede data e alle commissioni avute dal pontefice di non fare dimostrazione alcuna contro al re, non volle ritenerlo. Della quale ritenzione non sarebbe seguito lo effetto, che allora per molti si credette, della rebellione dello stato di Milano: perché le genti d'arme, se bene messe in fuga, non essendo seguitate da alcuno perché in Reggio erano pochissimi cavalli, e avendo riscontrato a' confini del reggiano Federico da Bozzole che veniva innanzi con mille fanti, si fermorono e riordinorono; e il terrore cominciato a Parma e a Milano, per essere stati i primi avvisi che lo Scudo era prigione e le genti d'arme rotte, non sarebbe andato innanzi come si fusse inteso le genti d'arme essere salve: non essendo massime, in luoghi vicini, esercito né forze da potere fare movimento alcuno, e restandovi molti altri capitani di genti d'arme. Ritirossi lo Scudo, raccolti i cavalli e i fanti, a Covriago, villa del reggiano vicina a sei miglia di Reggio, donde tra pochi dí si ritirò di là da Lenza in parmigiano; avendo mandato a Roma La Motta, a giustificare col pontefice le cagioni dello essere andato a Reggio e a fare instanza che, secondo i capitoli che erano tra il re e lui, cacciasse i rebelli del re fuora dello stato della Chiesa.

                                                 Ma ne' dí medesimi, uno caso che accadette a Milano spaventò molto l'animo de' franzesi, come se con segni manifesti fussino ammuniti dal cielo delle future calamità. Perché il dí solenne per la memoria della morte del principe degli apostoli, tramontato già il sole nel cielo sereno, cadde per l'aria da alto a guisa di uno fuoco innanzi alla porta del castello, ove erano stati condotti molti barili di polvere d'artiglieria, tratti del castello per mandargli a certe fortezze; per il che, levatosi subitamente con grande strepito grande incendio, ruinò insino da' fondamenti una torre di marmo bellissima fabbricata sopra la porta, nella sommità della quale stava l'orologio, né solamente la torre ma le mura e le camere del castello e altri edifici contigui alla torre; tremando nel tempo medesimo, per il tuono smisurato e per la ruina tanto grande, tutti gli edifici e tutta la città di Milano: e i sassi e pietre grandissime dalle ruine volavano con impeto incredibile spaventosamente in qua e in là per l'aere, ora percotendo nel balzare molte persone ora ricoprendole con le ruine, dalle quali era ricoperta, con tanti sassi che pareva cosa stupendissima, la piazza del castello; de' quali alcuni di smisurata grandezza volorono lontani per ispazio piú di cinquecento passi. Ed era l'ora propria che gli uomini, cercando di ricrearsi dal caldo, andavano passeggiando per la piazza; però furno ammazzati piú di cento cinquanta fanti del castello e il castellano della rocchetta e quello del castello, e gli altri tanto attoniti e privi di animo e di consiglio: e ruinato tanto spazio di muro che al popolo, se si fusse mosso, sarebbe stato molto facile l'occupare quella notte il castello.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.3

                                                  

                                                 Lamentele del pontefice per i fatti di Reggio ed aperti suoi accordi con Cesare. Fallito tentativo contro Como. Preparativi e piani di guerra contro il ducato di Milano. Preparativi di difesa del re di Francia.

                                                  

                                                 Ma il pontefice, come gli fu nota la venuta dello Scudo alle porte di Reggio, pigliandola per occasione di giustificare le sue azioni, se ne lamentò gravissimamente nel concistorio de' cardinali; e tacendo la confederazione già prima fatta secretamente con Cesare, e l'ordine dato che le galee dell'uno e dell'altro assaltassino Genova, dimostrò che lo avere voluto lo Scudo occupare Reggio significava la mala disposizione che aveva il re di Francia contro allo stato della sedia apostolica, e però essere, per difesa di quella, necessitato a congiugnersi con Cesare, del quale non si era mai veduto se non offici degni di principe cristiano, e in tutte l'altre opere sue, e nello avere ultimamente preso a Vuormazia sí ardentemente il patrocinio della religione. Cosí, simulando contrarre di nuovo, con don Gian Manuelle oratore di Cesare, la confederazione che prima era contratta, chiamorno subito a Roma Prospero Colonna, al quale era stabilito di commettere il governo della impresa, per consultare seco con che modo e con che forze si avesse a muovere l'armi apertamente, poiché erano state infelici le insidie e gli assalti improvisi.

                                                 Imperocché, né era stato piú fortunato il trattato di Como. Perché essendo Manfredi Palavicino e il Matto di Brinzi, con ottocento fanti tra italiani e tedeschi, accostatisi di notte alle mura di Como, sotto speranza che Antonio Rusco, cittadino di quella città, rompesse tanto muro vicino alla casa ove abitava che avessino facoltà di entrare nella terra, dove, perché vi erano pochi franzesi, non credevano trovare resistenza, ma avendo aspettato per grande spazio di tempo invano, il governatore della terra, adunati tutti i franzesi e alquanti comaschi che teneva per piú fedeli, ma con numero molto minore che non erano quegli di fuora, assaltatigli allo improviso, gli messe in fuga con tanta facilità che si credette per molti che avesse con danari e con promesse corrotto il capitano de' tedeschi. Affondorno nel lago tre barche, presonne sette e molti degli inimici, tra' quali Manfredi e il Matto che fuggivano per la via de' monti; e liberati tutti i fanti tedeschi, gli altri furono condotti a Milano, dove Manfredi e il Matto furono squartati publicamente: avendo prima confessato, Bartolommeo Ferrero milanese, uomo di non piccola autorità, essere conscio delle pratiche del Morone. Il quale, incarcerato insieme col figliuolo, fu condannato al medesimo supplicio, per non avere rivelato che il Morone l'aveva con occulte imbasciate stimolato a trattare cose nuove contro al re.

                                                 Nel qual tempo il pontefice, conoscendo di quanta opportunità fusse lo stato di Mantova alle guerre di Lombardia, condusse per capitano generale della Chiesa Federico marchese di Mantova, con dugento uomini d'arme e dugento cavalli leggieri; il quale, innanzi si conducesse, rinunziò all'ordine di San Michele, nel quale era stato assunto dal re di Francia, e gli rimandò il collare e il segno che dona il re a chi si assume in tale ordine. Ma a Roma, con consiglio di Prospero Colonna, fu deliberato dal pontefice e dallo oratore cesareo l'ordine e il modo di procedere nella guerra: che quanto piú presto si potesse si assaltasse dai confini della Chiesa lo stato di Milano con le genti d'arme del pontefice e de' fiorentini, le quali, computato la condotta del marchese di Mantova, ascendevano al numero vero seicento uomini d'arme; a' quali si aggiugnessino tutte le genti d'arme di Cesare che erano nel reame di Napoli, in numero quasi pari a quelle di sopra, perché si destinava che il retroguardo rimanesse alla custodia di quello reame: che si soldassino seimila fanti italiani; venissino allo esercito, che aveva a unirsi tra il modenese e il reggiano, i dumila fanti spagnuoli che con lo Adorno si trovavano nella riviera di Genova; dumila altri ne menasse del regno di Napoli il marchese di Pescara, e si conducessino a spese comuni del pontefice e di Cesare quattromila fanti tedeschi e dumila grigioni: aggiugnessinsi dumila svizzeri, i quali erano volontariamente rimasti a' soldi del pontefice: perché gli altri, infastiditi dal lungo ozio e perché si approssimava il tempo delle ricolte, erano, prima che lo Scudo venisse a Reggio, ritornati alle case loro, avendo invano procurato di ritenergli il pontefice poiché in essi aveva spesi inutilmente cento e cinquantamila ducati. Deliberossi, oltre a questi provedimenti, che con l'autorità del pontefice e di Cesare si facesse instanza appresso a' cantoni de' svizzeri che concedessino seimila fanti (tanti erano obligati concederne per le convenzioni che avea con loro il pontefice), e che al re di Francia recusassino di concederne, allegando il pontefice la confederazione sua con loro essere anteriore di tempo a quella che aveano contratta col re di Francia; e che ottenendosi queste dimande si assaltasse, dalla parte di verso Como, il ducato di Milano, nel quale si sperava avesse facilmente a nascere sollevazione, per la moltitudine grande de' fuorusciti d'onoratissime famiglie, e perché la benivolenza che i popoli solevano avere al nome del re Luigi era convertita in odio non mediocre. Conciossiaché, essendo state le genti d'arme, che ordinariamente stavano a guardia di quello stato, male pagate per i disordini del re, che era stato, parte per necessità parte per volontà, aggravato da soperchie spese, erano vivute con molta licenza; né i governatori regi, presa audacia dalla negligenza del re, amministravano quella giustizia che era solita ad amministrarsi nel tempo del re morto: il quale, affezionatissimo al ducato di Milano, aveva sempre tenuto cura particolare degli interessi suoi. Premevagli, oltre a questo, che nelle case proprie erano costretti, secondo l'uso di Francia, alloggiare continuamente gli ufficiali e i soldati franzesi; il che se bene non fusse con loro spesa, nondimeno, essendo cosa perpetua, era di somma incomodità e molestia: e avvenga che questo peso medesimo sostenessino al tempo del re passato, il quale, scusando con l'esempio della città di Parigi, non aveva mai voluto concederne grazia a' milanesi, nondimeno, accompagnato da' mali già detti, pareva al presente piú grave. E si aggiugneva la natura de' popoli desiderosi di cose nuove, e la inclinazione sí ardente, che hanno gli uomini, a liberarsi dalle molestie presenti che non considerano quel che succederà per l'avvenire.

                                                 La fama della guerra deliberata dal pontefice e da Cesare, con apparecchi tanto potenti, pervenuta agli orecchi del re di Francia lo costrinse a pensare di difendere, con non manco potenti provisioni, il ducato di Milano; delle quali la prima espedizione fu che Lautrech, andato per faccende particolari alla corte, ritornasse subito a Milano. Il quale, se bene, dubitando della varietà e della negligenza del re e di quegli che governavano, recusasse di partirsi se prima non gli erano numerati trecentomila ducati, i quali affermava bastargli a difendere quello stato, nondimeno, vinto dalla instanza grande del re e della madre, e ingannato dalla fede datagli da loro e da' ministri preposti alla amministrazione delle pecunie che non prima arriverebbe a Milano che i danari dimandati, ritornò con grandissima celerità, preparando sollecitamente le cose necessarie alla difesa; per la quale aveva insieme col re deliberato che alle genti d'arme regie che allora erano in Lombardia si unissino gli aiuti di seicento uomini d'arme e di seimila fanti a' quali erano tenuti i viniziani, che prontamente gli offerivano, e già facevano cavalcare le genti d'arme nel veronese e nel bresciano; soldare diecimila svizzeri, tenendo per certo che per virtú della nuova confederazione non sarebbono negati; e fare passare di Francia in Italia seimila venturieri, e aggiugnere qualche numero di fanti italiani. Co' quali sussidi speravano o potere senza molto pericolo tentare la fortuna di una giornata o, quando non avessino forze bastanti a questo, almeno, provedendo sufficientemente le terre e temporeggiando in sulle difese, straccare gli inimici; de' quali l'uno, per la sua naturale prodigalità e per le spese fatte nella guerra di Urbino, era esausto di danari, all'altro i regni suoi non ne somministravano copia tale che si credesse potere lungamente nutrire una guerra di tanto peso. Pensavano, oltre a questo, che Alfonso da Esti, disperando dello stato proprio se il pontefice otteneva la vittoria, o si movesse per ricuperare le cose perdute o almeno, stando armato, tenesse il pontefice in sospetto tale che e' fusse necessitato a lasciare molti soldati alla guardia delle terre vicine a' suoi confini. Questi erano i consigli e i preparamenti da ciascuna delle parti: non omettendo per ciò il re fatica o industria alcuna, ma vanamente, per mitigare l'animo del pontefice.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.4

                                                  

                                                 Le milizie pontificie e spagnuole vicino a Parma; Francesco Guicciardini commissario generale dell'esercito pontificio. Arrivo delle milizie tedesche. Diversità di pareri fra i comandanti. Lentezza nell'azione ripresa dal commissario, deliberazione di porre il campo a Parma.

                                                  

                                                 Era in questo tempo Prospero Colonna a Bologna: donde, non aspettate le genti che doveano venire del reame di Napoli né i fanti tedeschi, raccolti gli altri soldati e lasciate sufficientemente guardate, per sospetto del duca di Ferrara, Modona, Reggio, Bologna, Ravenna e Imola, venne ad alloggiare in sul fiume della Lenza vicino a Parma a cinque miglia; pieno di speranza che i franzesi non avessino a ottenere fanti da' svizzeri e che, per questo e per la malivolenza de' popoli, avessino a pensare piú di abbandonare che a difendere il ducato di Milano. Ma la cosa succedette altrimenti; perché i cantoni, con tutto che in contrario facessino instanza grandissima il cardinale sedunense e gli oratori del pontefice e di Cesare, deliberorno concedere al re i fanti secondo erano tenuti per l'ultime convenzioni, i quali mentre si preparavano era venuto a Milano Giorgio Soprasasso con [quattro]mila fanti vallesi: onde Lautrech, volendo difendere Parma, vi avea mandato lo Scudo suo fratello con quattrocento lancie e cinquemila fanti italiani de' quali era capitano Federico da Bozzole. Sentivasi oltre a questo che i viniziani raccoglievano le loro genti a Pontevico per mandarle in aiuto del re di Francia, e che il duca di Ferrara soldava fanti. Perciò Prospero, conoscendo essere necessarie maggiori forze, stette sette dí in quello alloggiamento; nel quale tempo si congiunsono con l'esercito [quattro]cento lancie spagnuole guidate da Antonio de Leva, che venivano del reame di Napoli, e il marchese di Mantova con parte delle sue genti: non si alterando perciò, per la venuta del marchese capitano generale di tutte le genti della Chiesa, l'autorità di Prospero Colonna, nella persona del quale, per volontà del pontefice e di Cesare, risedeva, benché senza alcuno titolo, il governo di tutto l'esercito; anzi la potestà suprema di comandare a tutte le genti della Chiesa, e al marchese di Mantova nominatamente, era in Francesco Guicciardini che aveva il nome di commissario generale dello esercito ma, sopra il consueto de' commissari, con grandissima autorità. Condusse di poi Prospero l'esercito a San Lazzero, un miglio appresso a Parma, in sulla strada che va a Reggio, con deliberazione di non procedere piú oltre insino a tanto non venisse il marchese di Pescara, il quale si aspettava del regno con [tre]cento lancie e duemila fanti spagnuoli, e insino non venivano i fanti tedeschi: nel qual tempo non si faceva a' parmigiani altra molestia che ingegnarsi, col divertire l'acque e rompere i mulini, che avessino difficoltà di macinare.

                                                 Ma l'espettazione degli uomini era volta alla venuta de' tedeschi, contro a' quali per impedire che non passassino mandavano i viniziani nel veronese, a instanza de' franzesi, parte delle loro genti: perché, venuti a [Spruch], dimandavano volere ricevere lo stipendio del primo mese a Trento, e di essere, alle radici della montagna di Monte Baldo, onde dicevano volere passare, incontrati da qualche numero di cavalli, per potere con la compagnia loro passare innanzi piú sicuramente. Però Prospero aveva mandato a Mantova dugento cavalli leggieri, perché congiunti con dumila fanti comandati del territorio mantovano e con l'artiglierie del marchese, il quale, in tutte le cose, per gratificare al pontefice e a Cesare, procedeva come in causa propria, non come soldato, si facessino innanzi. Piú difficile era il pagargli a Trento, perché numerandosi [i danari] eziandio per la parte di Cesare, dal pontefice, non si potevano mandare per il paese de' viniziani se non con grave pericolo. Intesa poi l'opposizione de' viniziani, dimandorno i tedeschi maggiori aiuti, variando eziandio nel tempo del passare la montagna e nel cammino: e perciò fu ordinato che il marchese di Pescara, che era arrivato nel modonese, si voltasse nel mantovano; al quale furno mandati dal campo cento uomini d'arme e trecento fanti spagnuoli. Ultimatamente i tedeschi, impazienti di aspettare il tempo che aveano significato, feceno di nuovo intendere volere anticipare cinque dí; affermando che aspetterebbono alle radici di Monte Baldo i cavalli un dí solamente e, non venendo, ritornerebbeno indietro. Al qual tempo non potendo esservi il marchese di Pescara, fu necessario che dal campo vi andassino con grandissima celerità Guido Rangone e Luigi da Gonzaga: provedimenti tutti fatti superfluamente, perché, come Prospero aveva sempre affermato, non potevano i viniziani impedire il passaggio a seimila fanti, quanti tra tedeschi e grigioni erano questi, l'ordinanza de' quali arebbe sostenuti i loro cavalli, né i fanti italiani arebbono avuto ardire di opporsegli. Per la quale ragione, e perché il senato, aborrente dalle occasioni di ridurre la guerra nello stato proprio, aveano voluto sodisfare a' franzesi piú con le dimostrazioni che con gli effetti, le genti de' viniziani, il dí innanzi che i tedeschi dovessino passare, si ritirorno verso Verona; donde i tedeschi, senza alcuno ostacolo, passorno a Valeggio e il dí seguente nel mantovano.

                                                 Ma arrivato che fu il marchese di Pescara nel campo, l'esercito, stato a San Lazzero tredici dí, andò il dí seguente ad alloggiare a San Martino, ... miglia appresso a Parma dalla parte di verso il Po; col quale il dí medesimo si congiunsono i fanti tedeschi e i grigioni. Cosí essendo ridotte insieme tutte le forze destinate, si cominciò a consultare quello che fusse da fare: proponendo una parte del consiglio si attendesse all'espugnazione di Parma, per essere la prima terra della frontiera, e la quale non era sicuro lasciarsi alle spalle, né per lo esercito che andasse innanzi, rispetto alla incomodità delle vettovaglie e del fare condurre i danari e l'altre provisioni che fussino necessarie, né per le terre che restavano da Parma verso Bologna. Non essere i fanti che vi erano dentro, raccolti la maggiore parte quasi tumultuariamente, di molto valore; e di quegli, per la difficoltà de' pagamenti e perché in Parma si pativa di macinato, fuggirsene ogni dí qualcuno in campo; il circuito della terra essere grande; avere il popolo male disposto, il quale benché fusse sbattuto piglierebbe animo dal sentire lo esercito alle mura; in modo che, battendosi la città da piú parti, potriano difficilmente resistere i franzesi agli inimici di fuora e guardarsi in uno tempo medesimo da quegli di dentro. Altri allegavano la città essere bene fortificata, avere difensori a sufficienza, i fanti che erano fuggiti essere tutti inutili e vili, esservi rimasti i fanti piú utili ed esperti alla guerra, tante lancie franzesi, disposti tutti a difendersi valorosamente; perché non altrimenti vi si sarebbe rinchiuso lo Scudo, Federico da Bozzole e tanti altri capitani. Sapersi, per essere mutati in breve spazio di tempo i modi della milizia e l'arti del difendere, quanto fusse divenuta difficile la espugnazione delle terre; e doversi diligentemente avvertire che, se la prima impresa che si tentasse non si ottenesse, in che grado resterebbe la reputazione di quello esercito. Presupporsi per ciascuno essere necessario piantare intorno a Parma le artiglierie in due luoghi diversi, ma dove essere in campo l'artiglierie e gli altri provedimenti a sufficienza? né si potere condurne se non dopo spazio di qualche dí; il quale indugio, oltre che se ne erano consumati pure troppi, dare tempo che con Lautrech, che di dí in dí s'aspettava a Cremona, si unissino le genti de' viniziani, maggiore numero di svizzeri, perché già ne era venuta una parte, e i fanti venturieri che si aspettavano di Francia; i quali tutti si sentiva che già s'appropinquavano. Che sarebbe se, impegnato l'esercito intorno a Parma, egli si accostasse in qualche luogo vicino, donde non si lasciando sforzare a combattere travagliasse le scorte del saccomanno e le vettovaglie che giornalmente si conducevano da Reggio? le quali già dalle genti che erano in Parma ricevevano continua molestia. Essere migliore consiglio, fatta provisione di vettovaglie per qualche dí, lasciatasi indietro Parma, andare allo improviso a Piacenza; nella quale città, di circuito molto maggiore, erano a guardia pochi soldati né vi erano ripari o artiglierie, e la disposizione del popolo la medesima che quella di Parma, ma piú abile a risentirsi non essendo stati battuti come loro ed essendovi dentro sí poca gente; né essere da dubitare, accostandosi, di non la pigliare subito. E affermava Prospero, inclinato molto a questa sentenza, sapere uno luogo donde era impossibile gli fusse proibito lo entrare: che era quello medesimo per il quale altra volta vi era, contro a' viniziani che l'aveano dopo la morte di Filippo Maria Visconte occupata, entrato vittoriosamente Francesco Sforza capitano allora del popolo milanese. In Piacenza essere abbondanza grandissima di vettovaglie, e il luogo essere tanto opportuno ad assaltare Milano che sarebbono necessitati i franzesi ritirare là quasi tutte le forze loro; e cosí non rimarrebbono in pericolo le città vicine a Parma: anzi si prometteva Prospero che, passando il Po solamente co' cavalli leggieri e conducendosi con celerità a Milano, quella città, udito il nome suo, avere a tumultuare. Ed era questa, insino innanzi partisse da Bologna, stata sentenza di Prospero; per la quale, pensando non dovere fermarsi a espugnazione di alcuna terra, non aveva voluto provedimento abbondante di artiglierie e di munizioni.

                                                 In questa varietà di pareri fu determinato, ma molto secretamente, per quegli che aveano autorità di deliberare che, come prima fussino preparate pane e farine bastanti a nutrire l'esercito almeno per quattro dí, si movessino con grandissima celerità verso Piacenza cinquecento uomini d'arme una parte de' cavalli leggieri i fanti spagnuoli e mille cinquecento fanti italiani, e che dietro a questi si movesse il rimanente dell'esercito, il quale, dovendo condurre l'artiglierie le vettovaglie e tanti impedimenti, non poteva procedere se non lentamente; e si teneva per certo che, come i primi vi arrivassino, la città chiamerebbe il nome della Chiesa; e quando pure non succedesse, che essi sarebbono causa non vi entrasse soccorso: in modo che, come giugnesse il resto dello esercito, otterrebbono la città indubitatamente. Ma accadde che, il dí precedente a quello che si doveva muovere lo esercito, alcuni cavalli de' franzesi, passato il Po, corsono insino a Busseto, donde la fama portò avere passato il Po tutto l'esercito franzese; la qual cosa perché interrompeva la deliberazione già fatta, si ritardò la partita delle genti insino a tanto se ne avesse la verità: la quale a investigare fu mandato Giovanni de' Medici, capitano de' cavalli leggieri del pontefice, con quattrocento cavalli. Ma quel che principalmente turbò questa deliberazione fu l'ambizione tra Prospero e il marchese di Pescara, eziandio innanzi a questo tempo poco concordi; perché il marchese, tirato ad alti pensieri, detraeva volentieri con le parole e co' fatti alla grandezza di Prospero. Ma in questo caso, aspirando ciascuno di loro alla gloria propria, Prospero proponeva volere menare la prima parte dello esercito, e il marchese da altra parte allegava non essere conveniente che senza sé andassino a espedizione alcuna i fanti spagnuoli de' quali era capitano generale. Per la quale emulazione tra' capitani, dannosa come spesso accade alle cose de' príncipi, ancora che si fusse, non molte ore poi, avuta notizia quella parte de' franzesi essere ritornata di là dal Po e che Lautrech non si moveva, non si seguitò la prima deliberazione; anzi, per la varietà de' pareri e per la tardità naturale di Prospero, procedevano le cose in maggiore lunghezza se il commissario apostolico non gli avesse con efficaci parole stimolati, dimostrando quanto fusse, e giustamente, molestissimo al pontefice il procedere sí lentamente, né potersi piú con alcuna scusa difendere appresso a lui tante dilazioni sostenute insino a quel dí, con l'espettazione della venuta prima degli spagnuoli poi de' tedeschi. Le quali parole a fatica dette, si deliberò, piú presto tumultuosamente che con maturo consiglio, che si ponesse il campo a Parma; affermando quegli medesimi che il dí precedente avevano affermato il contrario doversene sperare la vittoria, massime continuando pure a uscire di Parma molti fanti per mancamento di danari e di pane. Ma bisognò soprasedere ancora alcuni dí, per fare venire da Bologna due altri cannoni e provedere molte cose necessarie a chi assalta le terre con l'artiglierie, le quali, come è detto di sopra, Prospero avea prima recusate. La quale o negligenza o mutazione di consiglio portò grandissimo detrimento, perché tanto maggiore tempo ebbe Lautrech a raccorre le genti che aspettava di Francia da' viniziani e da' svizzeri. Tanto è ufficio de' savi capitani, pensando quanto spesso nelle guerre sia necessario variare le deliberazioni secondo la varietà degli accidenti, accomodare da principio, quanto si può, i provedimenti a tutti i casi e a tutti i consigli.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.5

                                                  

                                                 Assedio di Parma; opere di preparazione per l'assalto. Gli assedianti occupano il Codiponte abbandonato dai francesi. Il Lautrech con le sue milizie a sette miglia da Parma. Imprese fortunate del duca di Ferrara nel modenese e milizie mandate contro di lui. Dubbi dei comandanti dell'esercito ispano-pontificio; discussione del commissario generale con loro. Si leva il campo da Parma.

                                                  

                                                 Nel quale tempo, dimorando oziosamente l'esercito, non si faceva intorno a Parma altro che leggerissime battaglie. Finalmente il [terzodecimo] dí poi che erano alloggiati a San Martino, l'esercito, passato la notte di là dal fiume della Parma, alloggiò in sulla strada romana, ne' borghi della porta che va a Piacenza, che si dice di Santa Croce; i quali, il dí davanti, lo Scudo, presentendo la loro venuta, avea fatti abbruciare. Divide la città di Parma, non con tali acque che non si possa, eccetto che ne' tempi molto piovosi, guadare, uno fiume del medesimo nome: la minore parte della quale, abitata da persone piú ignobili e che è circa la terza parte del tutto, detta dagli abitatori il Codiponte, rimane verso Piacenza. Elessono questo luogo i capitani per impedire piú facilmente che in Parma non entrasse soccorso, e molto piú perché la muraglia da quella parte era debole e situata in modo che non poteva percuotere per fianco. Aveva riferito il marchese, il quale il dí precedente era andato con alcuni capitani a speculare il luogo, che il dí medesimo si darebbe principio a battere la muraglia; ma essendo stato necessario, per levare le difese, battere prima, dal mezzo in su, una torre che era in sulla porta, di muro saldo e molto massiccia, si consumò tutto il dí intorno a questo, ove si roppe una colubrina grossa. Piantoronsi la notte seguente l'artiglierie alla muraglia, dalla mano sinistra della porta, secondo che si entra; ed era stato disegnato fare il medesimo dalla mano destra, mettendo con le batterie la porta in mezzo: perché, non si potendo, perché non erano stati condotti piú che sei cannoni e due colubrine grosse, piantare l'artiglierie in due luoghi separati, pareva che dal necessitare quegli di dentro a distendersi alla difesa per lungo spazio ne risultasse quasi il medesimo effetto. Ma questo non fu mandato a esecuzione, perché da quella parte era, a capo del fosso che circonda le mura, uno argine sí alto che se prima non si spianava o non si apriva (cosa da non si potere fare in tempo sí breve) impediva che l'artiglierie potessino percuotere la muraglia. Non resisteva il muro, per essere vecchio e molto debole, alla artiglieria, la quale avendo già fatte due rotture di muro assai patenti, si ragionava tra i capitani dare il dí medesimo, benché non con ferma risoluzione, la battaglia. Ma avendo il marchese, che insieme co' fanti spagnuoli aveva tutta la cura della batteria, mandato certi fanti ad affacciarsi alla rottura per vedere, se si poteva, come stessino dentro i ripari, quegli, come furono in sul muro rotto, cominciorono con alta voce a gridare che l'esercito si accostasse per entrare dentro, donde i fanti spagnuoli e italiani corsono tumultuosamente senza ordine alcuno alla muraglia; alla quale appresentatisi e già cominciando a volere salire in sul muro rotto, i capitani, corsi al romore, considerando che uno assalto, anzi tumulto, debole e disordinato non poteva partorire frutto alcuno, gli feciono ritirare: il quale accidente o raffreddò il pensiero o dette scusa di non dare, il dí, ordinatamente la battaglia. Seguitossi il dí seguente a battere il muro rimasto intero in mezzo delle due rotture, e uno fianco fatto in su la torre della porta dal lato di dentro. Ma divulgandosi per l'esercito che per i ripari grandi fatti da' franzesi sarebbe molto difficile con semplice assalto di espugnarla, mandorono i capitani due fanti di ciascheduna lingua ad affacciarsi alla rottura del muro; i quali, o occupati da troppo timore o da poca diligenza, o forse (come alcuni dubitorono) subornati da altri, riferirono restare dal muro battuto alla terra altezza di piú di cinque braccia, essere fatto dentro uno fosso profondo, e tali gli altri ripari che i capitani, diffidandosi di poterla espugnare altrimenti, determinorono che si facessino mine allato al muro rotto, che si tagliasse il muro contiguo con gli scarpelli e co' picconi, per riempiere con quelle rovine il fosso che si diceva essere fatto di dentro e fare piú facile l'entrata: le quali opere come fussino condotte alla perfezione, che, aggiunti all'artiglieria che era nello esercito due cannoni i quali venivano da Mantova, si facesse un'altra batteria, ove il muro, distesosi per linea retta per lungo spazio, dalla parte destra della porta, volgendosi, fa angolo; al quale cantone, gittandosi in terra il muro, si potevano percuotere per fianco quegli che difendessino dal lato di dentro. Cosí, dalla parte dalla quale era stato battuto, si cominciò a lavorare una trincea e pochi dí poi un'altra, per gittare con le mine in terra il muro: ma andavano adagio le opere, sí perché, per avere avuto Prospero pensieri diversi, non erano ancora in campo tutte le provisioni necessarie a questi lavori, sí perché il terreno dove si cavava riusciva difficile e duro.

                                                 Alle quali opere mentre che si attende con intenzione di non assaltare la terra innanzi che l'opere fussino finite, Lautrech, il quale era tardato tanto a muoversi per la tardità delle genti che venivano all'esercito, avendone già insieme la maggiore parte, venne cinque miglia piú innanzi, pure lungo il fiume, avendo seco cinquecento lancie, circa settemila svizzeri, quattromila fanti che il dí medesimo avea condotto monsignore di San Valerio di Francia e, sotto Teodoro da Triulzi governatore de' viniziani e Andrea Gritti proveditore, quattrocento uomini d'arme e quattromila fanti; e seguitavano questo esercito il duca di Urbino e Marcantonio Colonna, questo come soldato del re ma senza titolo e senza compagnia, l'altro dietro alle speranze comuni de' fuorusciti. Aspettava ancora seimila svizzeri concedutigli da' cantoni, che erano in cammino, ma secondo l'uso loro procedevano lentamente e con molte difficoltà; i quali come fussino uniti seco non arebbe, per soccorrere Parma, ricusato di tentare la fortuna della battaglia: però, sollecitandogli e aspettandogli, soggiornava per il cammino, non si discostando dalle ripe del Po. Ma dubitando che in questo mezzo il fratello non convenisse con gli inimici, avea mandato a scusare la tardità, proceduta per aspettare maggiore numero di svizzeri, i quali erano già propinqui, e perché quegli che erano seco aveano fatto difficoltà di passare il Po; nondimeno, che al piú lungo il quinto dí di settembre verrebbe in luogo vicino a Parma, e ne farebbe segno con piú tiri di artiglieria; e il dí seguente si accosterebbe piú presso agli inimici per combattergli, mandando qualche cavallo a scaramucciare, acciò che anche egli avesse facoltà di uscire a unirsi con loro: alla quale cosa lo Scudo lo sollecitava, affermando non potersi tenere piú che due o tre dí in quella parte della terra, e poi, di là dal fiume, due altri dí; perché la terra era grande e debole, né gli restare piú di dumila fanti perché moltissimi ne erano partiti, né potere le genti d'arme, non essendo piú che trecento lancie, le quali portavano il peso di tutte le fatiche, resistere se fussino assaltate da piú parti. Venne di poi, il dí che aveva promesso di accostarsi agli inimici, a Zibello, castello vicino a Parma meno di venti miglia, onde mandò quattrocento cavalli a correre insino in su gli alloggiamenti degli inimici: l'opere de' quali essendo condotte insino alla muraglia, e dipoi voltate al luogo nel quale si avea a dare il fuoco, il conte Guido Rangone co' fanti italiani, de' quali era capitano generale, cominciò a piantare l'artiglierie dall'altra parte della muraglia. Ma i franzesi, sentito lo strepito che si faceva nel maneggiarle, abbandonato due ore innanzi dí il Codiponte, si ritirorno ordinatamente e senza tumulto insieme con le loro artiglierie di là dal fiume. La qual cosa conosciuta in sul fare del dí la mattina da quegli di fuora, entrorno dentro, parte per le aperture del muro parte per le scale; ricevuti da' parmigiani, desiderosissimi di ritornare sotto il dominio ecclesiastico, con somma letizia: la quale presto si convertí in amaro pianto perché non altrimenti che di inimici furno saccheggiate le case loro. Né si dubitò che, se qualche dí prima si fussino piantate l'artiglierie nel luogo medesimo, arebbono i franzesi, nel modo medesimo, abbandonato il Codiponte. Dettesi poi opera ad aprire e rompere le porte, le quali erano atterrate, per le quali condotta l'artiglieria alla sponda del fiume si cominciò a battere il muro che fa sponda dall'altra parte; ma essendo già sí tarda l'ora del dí che si conosceva non potersi, insino al prossimo dí, fare cosa di momento. Ma il dí medesimo Lautrech venne ad alloggiare in sul fiume del Taro, vicino a Parma a sette miglia; interpetrando alcuni che fusse venuto per combattere, altri persuadendosi per comporre col fratello (se piú non si poteva sostenere) che uscendo una notte di Parma con tutte le genti fusse raccolto da lui, o veramente perché, volendo convenire cogli inimici, ottenesse che con tutti i soldati potesse, salvo e senza alcuna obligazione, uscire di Parma: e già alcuni dí prima Federico da Bozzole, il quale andando intorno a' ripari era stato ferito di uno scoppietto nella spalla, aveva per mezzo del marchese cominciato a trattare; ma non era ancora il ragionamento proceduto tanto oltre che si potesse fare congettura certa della volontà dello Scudo. La verità è, secondo le notizie che si ebbono poi, che Lautrech non aveva animo di combattere se non venivano i svizzeri; perché, con tutto che fusse alquanto superiore di numero e di bontà di gente d'arme e piú potente d'artiglierie, prevaleva di fanti l'esercito contrario: nel quale, calcolando i numeri veri, erano novemila tra tedeschi e spagnuoli duemila svizzeri e piú di quattromila italiani.

                                                 Ma consideri ciascuno da quanto piccoli accidenti dependino le cose di grandissimo momento nelle guerre. Accadde appunto che, la notte seguente al dí che l'esercito entrò nel Codiponte, sopravennono avvisi da Modena e da Bologna che Alfonso da Esti, uscito di Ferrara con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti, tra' quali ne erano mille tra corsi e italiani mandatigli da Lautrech, e con dodici pezzi di artiglierie, aveva preso allo improviso il castello del Finale e quello di San Felice, e si temeva non si facesse piú innanzi; il che turbò assai gli animi de' capitani, ancora che molto prima, sapendosi la instanza che gli era fatta dai franzesi, si fusse temuto di questo movimento, e nondimeno non si fusse fatta a Modena tale provisione che bastasse in tale caso alla sicurtà di quella città: perché Prospero, avendo sempre difeso pertinacemente la contraria opinione, non aveva consentito che dello esercito si mandasse gente a Modena, o perché prestasse fede al duca amicissimo suo, col quale, eziandio per ordine del pontefice, si era interposto a trattare qualche accordo, o perché malvolontieri diminuisse il campo di gente, in tempo che si dubitava dell'approssimarsi degli inimici, essendo massime di natura di volere fare le cose sue sicuramente e però desiderando sempre avere forze superchie, o perché, se aveva altri fini occulti, non gli dispiacesse questa occasione. Ma la notte, avuto la nuova, congregati subito i capitani, fu deliberato che immediate vi andasse il conte Guido Rangone con dugento cavalli leggieri e ottocento fanti; i quali, aggiunti a settecento fanti che vi erano prima, parevano presidio piú che sufficiente contro alle forze di Alfonso. Ma ordinata questa espedizione, essendo ancora piú ore innanzi dí, ed essendo venuto poco prima avviso che la sera dinanzi Lautrech era alloggiato in sul Taro (ma mescolato la verità con la falsità, perché era stato riferito che il dí medesimo si erano uniti seco i svizzeri), né avendosi notizia che quegli che allora erano nello esercito, sforzati da lui con molti prieghi, non gli avevano promesso se non di venire insino in sul Taro, l'essere per altro congregati insieme i capitani, né avendo, per non essere ancora il dí, o occasione o necessità di implicarsi separatamente in altre faccende, dette occasione che tra loro si cominciò, quasi oziosamente e non per via di consiglio, a discorrere in che stato sarebbono le cose per l'approssimarsi di Lautrech. Nel quale ragionamento pareva che le parole di Prospero del marchese di Pescara e di Vitello accennassino in questa sentenza: che difficilmente si piglierebbe Parma se dall'altra parte della città non si facesse anche una batteria, perché battuta la sponda dalla parte donde si era cominciato a battere il dí precedente restava non piccola salita dal letto del fiume alla riva, né quella potersi tentare senza grave pericolo perché l'artiglierie e gli scoppietti, distribuiti in su tre ponti che ha quel fiume e negli edifici circostanti, offenderebbono per fianco chi assaltasse. Discorrevano che la vicinità di Lautrech, mettendosi in qualche alloggiamento propinquo di verso il Po, quando bene avesse l'animo alieno da tentare la fortuna, sarebbe causa che senza pericolo grande non si darebbe la battaglia; e doversi considerare che, per il sacco della parte presa di Parma, molti de' fanti con la preda si erano partiti, un'altra parte essere piú intenta a salvare le cose rubate che a combattere; né potersi soprasedere quivi senza molte difficoltà e incomodità, e anche senza pericolo, perché sarebbe necessario mandare ogni dí fuora grossissime scorte, non solo per sicurtà de' saccomanni ma eziandio de' danari e delle vettovaglie che giornalmente venivano, con circuito lunghissimo, intorno alle mura di Parma; le quali quando fussino fuora, potrebbe accadere che il resto del campo avesse in uno tempo medesimo a combattere con la gente franzese che era di fuora e con quegli che erano di dentro. Discorrevano anche che se il duca di Ferrara ingrossasse di gente sarebbe necessario levare di campo maggiori forze per la sicurtà di Modena e di Reggio, e che, eziandio correndo per il paese con le genti che aveva, potrebbe disturbare le vettovaglie; il che quando facesse sarebbe necessario levare il campo, ma forse che, riducendosi le cose tanto allo stretto, non si potrebbe fare senza pericolo: le quali ragioni, che mostravano inclinazione a levarsi, non si parlavano però in modo che alcuno scoprisse questo essere il suo consiglio. Finalmente, poiché fu parlato cosí per lungo spazio, il marchese di Pescara, parendogli avere già compresa la mente degli altri, disse: - Io veggo che in tutti noi è il medesimo parere, ma ciascuno, pensando solamente a sé proprio, tace, aspettando che un altro se ne faccia autore: pure in me non potrà questo rispetto. A me pare che noi stiamo intorno a Parma con pericolo e senza speranza di fare frutto, e però, che per minore male debbiamo partircene. - Soggiunse Prospero: - Il marchese ha detto quello che, se egli non anticipava, avevo in animo di dire io -. Confermò Vitello il medesimo. Ma Antonio de Leva, approvando che quivi piú non si dimorasse, proponeva doversi considerare se fusse meglio andare ad assaltare Lautrech. Ma a questo si replicava che senza disavvantaggio grande non si potrebbe costrignere gli inimici a combattere: dimorarvi essere impossibile, perché le difficoltà che si consideravano nello stare intorno a Parma diventerebbeno molto maggiori; e potere facilmente essere che i duemila svizzeri non gli volessino seguitare, perché, oltre all'avere ricevuto, molti dí prima, comandamento da' cantoni che si partissino dagli stipendi del pontefice, non pareva verisimile si disponessino a combattere contro a uno esercito nel quale militavano tanti fanti della medesima nazione; né si poteva negare che, per il sacco fatto il dí precedente, non fusse piú difficile il muovere la fanteria disordinata. Però, disprezzato questo consiglio, pareva che le sentenze di tutti i capitani concorressino a levarsi. Ma ristrettisi insieme Prospero e il Pescara, parlato che ebbono lungamente, dimandorono il commissario quello che credeva che dicesse il pontefice se si levavano, e dicendo il commissario al marchese: - Come non possiamo noi pigliare oggi Parma, secondo che iersera mi affermavate? - rispose il marchese con voci spagnuole: - Né oggi né domani né dopo domani. - Allora il commissario replicò non essere dubbio che il levarsi darebbe al pontefice grandissima turbazione, perché lo priverebbe totalmente della speranza della vittoria; ma il punto di questa deliberazione consistere nella verità o nella falsità de' presuppositi fatti da loro: perché, se il soprasedere fusse con pericolo e senza speranza, non essere dubbio che sarebbe imprudenza non si levare, ma quando fusse altrimenti sarebbe il partirsi grandissimo disordine; però considerassino maturamente lo stato dello esercito e la importanza delle cose, contrapesando quale fusse maggiore, o il pericolo o la speranza. Alle quali parole replicando Prospero e il marchese, che tutte le ragioni della guerra consigliavano a ritirarsi, non avendo il commissario ardire di opporsi a capitani di tanta autorità, si deliberò che il dí medesimo il campo si levasse, e che incontinente si ordinasse di fare discostare l'artiglierie dalla muraglia. La quale cosa, come fu publicata per il campo, era come troppo timida biasimata da tutti quegli che non erano intervenuti nel consiglio, in modo che il commissario e il Morone congiunti insieme si sforzorono di rimuovere Prospero da questa deliberazione. Il quale, non si mostrando alieno da consultarla di nuovo, anzi dicendo, con parole molto laudabili, e tanto piú quanto sono maggiori e piú savi quegli che le dicono, essere di natura che non si vergognava di mutare consiglio quando gli fussino dimostrate migliori ragioni, fece di nuovo chiamare quegli medesimi che si erano trovati a deliberare; ma il marchese di Pescara, occupato a ritirare le artiglierie e aborrente da mutare la prima conclusione, recusò di venirvi: in modo che, restando la cosa piú presto confusa che risoluta, si andò dietro a eseguire quel che prima era stato determinato. Cosí il dí medesimo, che fu il duodecimo poi che vi erano venuti a campo, ritornorno allo alloggiamento di San Lazzero; non senza pericolo di grandissimo disordine nel levarsi, perché i fanti tedeschi, dimandando circa i pagamenti condizioni sí inoneste che non si potevano concedere, ricusavano di seguitare l'esercito, e cassati i capitani vecchi che contradicevano aveano creato per capitano uno di loro, autore di questa sedizione; e si temeva non convenissino co' franzesi. Pure finalmente, essendo già partito l'esercito, e disperando ciascuno che avessino a mutare volontà, lo seguitorno. Nella quale confusione, essendo per la levata tanto subita e per il tumulto de' tedeschi ripieno l'esercito di terrore, non è dubbio che se fusse sopravenuto Lautrech gli metteva facilissimamente in fuga.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.6

                                                  

                                                 Rammarico del pontefice e meraviglia generale per la decisione presa dai comandanti dell'esercito ispano-pontificio; posizione degli eserciti nemici. Sfortuna dell'esercito di Cesare in Fiandra. Nuovi piani di guerra degli ispano-pontifici. Cattiva fortuna e temerità dei fuorusciti milanesi. Vano tentativo di Giovanni de' Medici contro il ponte di barche sul Po. L'esercito pronto a passare al di là del fiume. Gli svizzeri lasciati nelle terre della Chiesa e contro il duca di Ferrara.

                                                  

                                                 Afflisse questa deliberazione maravigliosamente il pontefice, che aspettava che i suoi fussino entrati in Parma; parendogli di essere caduto, contro a ogni ragione, della speranza della vittoria, e trovandosi entrato in profondissimo pelago e sottoposto a peso gravissimo, perché, dalle genti d'arme e fanti spagnuoli in fuora, generalmente tutta la spesa della guerra si sopportava da lui; e, quel che era peggio, dubitando della fede de' capitani cesarei. Nella quale dubitazione concorrevano ancora molti, i quali si persuadevano che il ritirare il campo da Parma non fusse stato timore ma artificio, come quegli che avessino sospetto che il pontefice, recuperata che avesse Parma e Piacenza, non gli appartenendo piú altro dello stato di Milano, raffreddasse i pensieri della guerra, né volesse per gli interessi degli altri sostenere piú tanta spesa e tanto travaglio: di che faceva fede il conoscersi quanto lentamente fussino proceduti a porre il campo a Parma; lo averlo posto in luogo impertinente, poiché presa la minore parte della terra si aveva con le medesime difficoltà a cercare di pigliare l'altra; vedere con quanta dilazione e lentezza avevano governato la oppugnazione, come se industriosamente dessino tempo alla venuta del soccorso de' franzesi; e che ultimamente, essendo già in possessione di parte della terra, al nome solo dello approssimarsi Lautrech ancora che con esercito inferiore, l'avessino vituperosamente abbandonata. Alcuni altri dubitavano che, senza coscienza di Prospero, potesse essere stato artificio del marchese di Pescara, detrattore quanto poteva e invidioso della gloria sua. Nondimeno, fu forse piú sana opinione di quegli che credettono che si fusse proceduto sinceramente; né avergli mosso altro che il timore dello essersi approssimato Lautrech, ingannati in grande parte perché i primi avvisi significorono le forze sue essere molto maggiori. Certo è che piú che gli altri se ne maravigliorno i capitani de' franzesi, ridotti in piccola speranza che Parma si difendesse; perché i svizzeri, regolandosi piú secondo la loro natura che secondo la necessità di quegli che gli pagavano, procedevano innanzi con grandissima tardità. Perciò molti di loro, non attribuendo la partita degli inimici a timore, interpretavano piú presto che Prospero come peritissimo capitano, sapendo in quanto disordine mette gli eserciti il sacco delle città e reputando molto difficile il proibire che i soldati non saccheggiassino Parma, giudicasse molto pericoloso, avendo gli inimici tanto vicini, il pigliarla. Quello che si sia, Lautrech, proveduta Parma di nuove genti, fermatosi a Fontanella, mandò tre dí poi una parte dello esercito a pigliare Roccabianca, castello del parmigiano vicino al Po; il quale poiché fu battuto con l'artiglierie, Orlando Palavicino signore del luogo, disperato di avere soccorso, arrendé la terra e la fortezza con facoltà di uscirsene. Distese poi l'esercito tra San Secondo e il Taro, per governarsi secondo i progressi degli inimici; avendo preso molto animo, parte per la difesa di Parma parte per essere i nuovi svizzeri arrivati a Cremona: la giunta de' quali, ancora che Lautrech gli avesse fatto fermare a Cremona, fu cagione che lo esercito inimico, non gli parendo stare sicuro a San Lazzero, si ritirò in su il fiume di Lenza dalla parte di verso Reggio, con intenzione di allontanarsi ancora piú se i franzesi si facessino innanzi. Anzi arebbono i capitani, senza aspettargli altrimenti, fatto maggiore ritirata se le querele del pontefice e degli agenti di Cesare, e la infamia che sentivano avere per tutto lo esercito, non gli avesse ritenuti. Stettono in questo modo molti dí gli eserciti, facendo nondimeno Lautrech molto spesso correre i suoi cavalli e quegli che erano in Parma, per la via della montagna, insino a Reggio, con non piccolo impedimento delle vettovaglie le quali da Reggio si conducevano agli inimici, e con piccola laude di Prospero, lentissimo per natura a fare correre i cavalli leggieri e a tutti i movimenti benché piccoli.

                                                 Simile fortuna aveano le cose di Cesare di là da' monti: perché, essendo dalla parte di Fiandra entrato nello stato del re di Francia con potente esercito, e posto il campo a Masera con speranza grande di ottenerla, trovando la espugnazione piú difficile e venendo il soccorso potente del re di Francia, si ritirò, con gravissimo pericolo che le genti sue non fussino rotte.

                                                 Ma in Italia non erano, per i successi infelici, allentati i pensieri della guerra; perché gli inimici de' franzesi, non pensando piú alla espugnazione di Parma né di altre terre, deliberavano di entrare piú dentro, nel ducato di Milano; aggiugnendo all'esercito tanti fanti italiani che in tutto fussino seimila, i quali continuamente si soldavano. Alla quale deliberazione gli faceva procedere piú audacemente la speranza che agli stipendi del pontefice scendessino di nuovo dodicimila svizzeri: i quali se bene, da principio, il cardinale sedunense, che nelle diete procurava apertamente contro a' franzesi, ed Ennio vescovo di Veroli nunzio apostolico e gli oratori di Cesare avessino recusati, perché non si concedevano se non per difesa dello stato della Chiesa e con espresso comandamento che non andassino a offendere lo stato del re di Francia, nondimeno, poiché altrimenti non gli potevano impetrare, gli aveano finalmente accettati eziandio con questa condizione; sperando, discesi che fussino in Italia, potere, mediante la loro avarizia e instabilità e le corruttele e l'arti che si userebbono co' capitani, indurgli a seguitare l'esercito contro al ducato di Milano. Né in questa deliberazione dell'andare innanzi era di molta dubitazione a quale parte s'avessino a dirizzare, perché nel continuare la guerra di qua dal fiume del Po apparivano manifestamente grandissime difficoltà: disperata era l'espugnazione di Parma; lasciandosi a dietro quella città bisognava andare a combattere con gli inimici, cosa evidentemente perniciosa perché erano alloggiati in luoghi forti e agli alloggiamenti disposta opportunamente copia grandissima di artiglierie; dimorare tra Parma e loro o procedere piú innanzi senza combattere non si poteva, perché stando tra le terre possedute da loro e l'esercito sarebbono in pochissimi dí mancate le vettovaglie, non si potendo né averne del paese inimico né condurne da lontano. Queste difficoltà si fuggivano trasferendo la guerra di là dal Po: perché in quel paese, abbondante per sua natura e che non avea sentiti i danni della guerra, confidavano trovare vettovaglie copiosamente, e non dovere avere ostacolo alcuno insino al fiume della Adda, perché lasciando Cremona a mano sinistra e accostandosi all'Oglio non vi erano terre da resistere; e persuadendosi che il senato viniziano non volesse sottoporre le genti sue, per gli interessi d'altri, alla fortuna di una battaglia, credevano che i franzesi non ardirebbono opporsi se non al transito dell'Adda. Anzi era speranza di molti che, approssimandosi l'esercito a' confini de' viniziani, essi per sicurtà delle cose proprie richiamerebbono la maggiore parte degli aiuti dati al re. E oltre a tutte queste cose, quel che si stimava molto, il passare di là dal Po era opportunissimo a unirsi co' svizzeri.

                                                 Ma mentre che si preparano molte cose necessarie a questa nuova deliberazione, di artiglierie di munizioni di guastatori di ponti e di vettovaglie, mentre che in Toscana e in Romagna si soldano i fanti italiani, il conte Guido Rangone, per comandamento del pontefice, con una parte de' fanti che erano già soldati e con le genti che erano appresso a sé, si mosse contro alla montagna di Modena: la quale montagna, né mentre che Modena era stata sotto Cesare né poi quando era stata dominata dalla Chiesa, aveva riconosciuto altro signore che il duca di Ferrara. Ma intesa questa mossa dagli uomini del paese, e che nel tempo medesimo si moveano molti fanti comandati di Toscana, senza aspettare di essere assaltati, chiamorno il nome della Chiesa. Nel tempo medesimo fuggí da Milano Bonifazio vescovo d'Alessandria, figliuolo già di Francesco Bernardino Visconte, perché vennono a luce alcune cose trattava contro a' franzesi. Venne medesimamente a luce un trattato tenuto in Cremona per Niccolò Varolo, uno de' principali fuorusciti di quella città; per il quale di alcuni cremonesi che ne erano consci fu preso il debito supplicio. Né so quale in questo tempo [fusse] maggiore, o la mala fortuna o la temerità e imprudenza de' fuorusciti del ducato di Milano, de' quali numero grandissimo seguitava l'esercito; perché non solamente tutte le cose tentate da loro riuscivano infelicemente ma, intenti a predare tutto il paese, difficultavano il venire delle vettovaglie: non ricompensando questi mali (io eccettuo sempre il Morone) con alcuna diligenza o intelligenza di spie. Anzi, avendo molto prima Prospero mandatigli verso Piacenza, poi che ebbono fatti danni grandissimi agli amici e agli inimici, venuti tra loro medesimi a quistione nel dividere la preda, fu da Estor Visconte e alcuni altri ammazzato Piero Scotto piacentino, uno de' principali.

                                                 Tentò Prospero, in questo tempo medesimo, di abbruciare le barche del ponte de' franzesi ridotte con poca guardia appresso a Cremona, per avere tanto maggiore spazio a procedere piú innanzi, mentre che Lautrech raccoglieva le barche necessarie a rifare il ponte; ma la lunghezza del cammino fu cagione che Giovanni de' Medici, mandato a questa fazione con dugento cavalli leggieri e trecento fanti spagnuoli, non vi potette giugnere se non passata la notte: onde i nocchieri, sentito il romore levato da' paesani, ritirorno le barche in mezzo al Po, sicuri di non essere offesi dagli inimici fermatisi in sulla riva.

                                                 Finalmente, preparate tutte le cose necessarie a passare il Po, l'esercito andò a Bresselle, ove era gittato il ponte fatto con le barche; nel qual luogo si dice il letto del fiume essere piú largo che in alcuno altro. Ma innanzi passasse, essendo a' pensieri di offendere altri congiunta la necessità di pensare a difendere sé proprio, fu mandato alla cura delle terre della Chiesa che rimanevano indietro Vitello Vitelli, con cento cinquanta uomini d'arme e altrettanti cavalli leggieri e con dumila fanti dell'ordinanze de' fiorentini: dove similmente andò il vescovo di Pistoia coi duemila svizzeri, perché non pareva sicuro menargli contro a' franzesi co' quali militavano tanti fanti della nazione medesima, conceduti per decreto e con le bandiere publiche; e tanto piú non avendo certezza quel che fussino per deliberare i nuovi svizzeri, de' quali, congregati a Coira, s'aspettava a ogn'ora la certezza che fussino mossi. Al vescovo e [a] Vitello fu commesso non solamente il difendere Modena e l'altre terre della Chiesa, se alcuno si movesse contro a quelle, ma d'assaltare il duca di Ferrara: il quale, attribuendo a sé la gloria d'avere liberata Parma, occupato il Finale e San Felice non procedeva piú oltre. Perché il pontefice, augumentato per questo insulto l'odio, procedeva, con le censure e monitori ecclesiastici contro a lui, alla privazione del ducato di Ferrara.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.7

                                                  

                                                 I pontifici e gli spagnuoli a Casalmaggiore. Il cardinale de' Medici legato presso l'esercito. L'esercito sull'Oglio. Questioni fra fanti italiani e spagnuoli; fazione fra Giovanni de' Medici e gli stradiotti. Spostamenti degli eserciti nemici. Rotta delle genti del duca di Ferrara al Finale.

                                                  

                                                 Passò l'esercito, il primo dí d'ottobre, di là dal Po e andò ad alloggiare a Casalmaggiore, avendo consumato nel passare non solamente tutto il dí ma non piccola parte della notte seguente, per la moltitudine inestimabile della turba inutile e degli impedimenti; rimanendo ingannato in questo non mediocremente il giudicio de' capitani, che si erano persuasi dovere essere passati tutti a mezzo 'l dí: donde, per la stracchezza degli ultimi e per le tenebre della notte, si fermorno la notte, disperse tra 'l Po e Casalmaggiore, una parte delle artiglierie molte munizioni e moltissimi soldati, esposte preda agli assalti di qualunque piccolo numero degli inimici. Anzi non si dubita che se Lautrech, il quale, raccolti tutti i svizzeri, venne ad alloggiare a Colornio il dí medesimo che gli avversari alloggiorno a Bresselle, fusse, quel dí che essi passorno, passato per il suo ponte a Casalmaggiore distante tre miglia da Colornio, o veramente avesse a mezzodí assaltata quella parte dell'esercito che ancora non era passata (sono Bresselle e Colornio distanti sei miglia), arebbe avuta qualche preclara occasione. Ma nelle guerre si perdono infinite occasioni perché a' capitani non sono sempre noti i disordini e le difficoltà degli inimici.

                                                 A Casalmaggiore pervenne, la notte medesima, il cardinale de' Medici, mandato dal pontefice legato dell'esercito. Perché il pontefice, ancora che occultissimamente avesse già cominciato a prestare l'orecchie allo imbasciadore del re di Francia, temendo che i successi avversi e l'essere rimasto sopra lui quasi tutto il peso della guerra non dessino causa a Cesare o a' ministri di dubitare che egli, per uscire di tante difficoltà e pericoli, non volgesse l'animo a nuovi pensieri, giudicò niuna cosa potergli tanto assicurare, e per conseguente indurgli a procedere piú ardentemente alla guerra. La persona del quale, perché era il piú prossimo di sangue al pontefice e perché, con tutto che dimorasse quasi continuamente in Firenze, niuna cosa grave del pontificato si spediva senza sua partecipazione, portava seco quasi quella medesima autorità che arebbe portata seco la persona propria del pontefice. Giovava questo medesimo a sostenere la riputazione declinata della impresa, e a provedere che con maggiore unione si deliberassino, per la presenza d'uomo di tanta grandezza, le cose da' capitani: perché ogni dí appariva piú manifestamente la discordia tra Prospero Colonna e il marchese di Pescara; augumentata, oltre a altre cagioni, perché il marchese, levato che fu il campo a Parma, volendo trasferire in altri la infamia di quella deliberazione, aveva significato a Roma essere stato cosí deliberato senza consiglio o saputa sua.

                                                 Da Casalmaggiore, dopo il riposo di un dí, si mosse l'esercito per il cremonese per accostarsi al fiume dell'Oglio; al quale pervenne in quattro alloggiamenti; non essendo in questo mezzo accaduta cosa alcuna di momento, eccetto che, mentre alloggiavano alla villa che si dice la Corte de' Frati, fu fatta grandissima quistione tra fanti spagnuoli e italiani, nella quale gli spagnuoli, piú col sapere usare l'opportunità dell'occasione che delle forze, ammazzorno molti di loro, pure per l'autorità e diligenza de' capitani si sopí presto la cosa; e il dí dinanzi Giovanni de' Medici, correndo verso gli inimici, i quali erano passati il Po piú alto verso Cremona, il dí medesimo che gli altri erano stati fermi a Casalmaggiore, roppe gli stradiotti de' viniziani guidati da Mercurio, co' quali erano alcuni cavalli de' franzesi; de' quali fu fatto prigione don Luigi Gaetano figliuolo di..., che ancora riteneva il nome di duca di Traietto, benché lo stato fusse posseduto da Prospero Colonna.

                                                 Ma nell'alloggiare l'esercito in sul fiume dell'Oglio, la fortuna, risguardando con lieto occhio le cose del pontefice e di Cesare, interroppe il consiglio infelice de' capitani; i quali aveano deliberato che dalla Corte de' Frati andasse l'esercito ad alloggiare alla terra di Bordellano, distante otto miglia, pure in sul fiume medesimo: ma non essendo stato possibile che, per essere la strada difficile, vi si conducessino l'artiglierie, fu necessario fermarsi alla terra di Rebecca, a mezzo il cammino; la quale da Pontevico, terra de' viniziani, divide solamente il fiume dell'Oglio. Nel quale luogo, mentre che si alloggiava, pervenne notizia che Lautrech, seguitato dalle genti de' viniziani, lasciati i carriaggi a Cremona, era venuto il dí medesimo a San Martino, distante cinque miglia; deliberato, se gli inimici procedevano innanzi, di riscontrargli il dí seguente in sulla campagna. Turbò questa cosa maravigliosamente la mente del cardinale de' Medici e de' capitani; perché avendo il senato viniziano, quando uní le genti sue a Lautrech, significata questa deliberazione con parole tali che pareva muoversi non per desiderio della vittoria del re di Francia ma per non avere causa giusta di non osservare la confederazione, si erano e prima persuasi, e la venuta del cardinale avea confermata questa opinione, che Andrea Gritti avesse occulto comandamento di non permettere che quelle genti combattessino: il quale presupposito apparendo falso, era necessario partirsi da' primi consigli; perché niuno negava essere superiore di forze l'esercito degli inimici, nel quale, oltre alla cavalleria molto potente e settemila fanti tra franzesi e italiani, erano diecimila svizzeri, ma nell'esercito del pontefice e di Cesare era tanto diminuito il numero de' tedeschi, e in qualche parte degli spagnuoli, che a fatica ascendevano al numero di settemila, e de' seimila italiani, perché erano la maggiore parte stati condotti di nuovo, si considerava piú il numero che la virtú. Deliberorno adunque Prospero e gli altri aspettare in quel luogo la venuta de' svizzeri; i quali, perché erano già mossi e perché il cardinale sedunense che gli menava avvisava che non si fermerebbono in luogo alcuno, si sperava non dovessino tardare piú che tre o quattro dí. Perciò, la mattina seguente, i capitani, considerato diligentemente il sito del luogo, ridussono a migliore forma l'alloggiamento fatto quasi tumultuariamente la sera dinanzi; non gli movendo il pericolo di potere essere aspramente offesi con l'artiglierie dalla terra opposita di Pontevico, perché il cardinale de' Medici, seguitando le prime impressioni, avea per cosa certa che i viniziani, non obligati al re di Francia ad altro che a concedere le genti per la difesa del ducato di Milano, non consentirebbono mai che dalle terre loro fusse data molestia all'esercito della Chiesa e di Cesare. Alla deliberazione di aspettare i svizzeri a Rebecca si opponeva manifestamente la difficoltà delle vettovaglie, perché quelle che si conducevano con l'esercito non potevano bastare molti dí e, per il terrore de' danni che si faceano specialmente da' fuorusciti milanesi e la fuga che era per tutto il paese, ne veniva piccolissima quantità, e questa ogni ora diminuiva. Perciò il commissario Guicciardino aveva ricordato che, non potendo per il mancamento delle vettovaglie sostenersi in quel luogo, e potendo accadere per molte cagioni che la venuta de' svizzeri procrastinasse, essere forse piú utile, non soggiornando quivi, ritirarsi cinque o sei miglia piú indietro in sul fiume medesimo, a' confini del mantovano; ove, avendo alle spalle il paese amico, non mancherebbono le vettovaglie: e questo, che al presente si poteva fare sicuramente, potrebbe essere che approssimandosi gli inimici non si potrebbe fare senza gravissimo pericolo. Non sarebbe dispiaciuto intrinsecamente questo consiglio a' capitani, ma la infamia tanto recente della ritirata da Parma riteneva ciascuno da parlare liberamente; movendogli similmente la speranza che i svizzeri non dovessero ritardare a venire, i quali potevano scendere in cinque o sei dí da Coira nel territorio di Bergamo, onde insino all'esercito era brevissimo transito. Cosí fermato di aspettargli a Rebecca, si distribuiva misuratamente per tutte le bandiere del campo la munizione delle farine condotta con l'esercito; le quali, perché col campo non erano forni portatili, e le case, nelle quali erano i forni, occupate dagli alloggiamenti de' soldati, ciascuno assava da se stesso in sulle brace la parte che gli toccava: la quale incomodità, aggiunta al distribuirsi scarsamente le farine, fu cagione che molti de' fanti italiani, con tutto che vi abbondasse il vino e il carnaggio, se ne fuggivano occultamente. Ma il terzo dí, Lautrech, il quale si era fermato a Bordellano, passata una parte dell'artiglierie a mezzodí di là da Oglio le mandò a Pontevico; consentendo, benché simulando il contrario, il proveditore viniziano: onde il medesimo dí, benché già appresso alla notte, cominciorno a tirare negli alloggiamenti degli inimici. I capitani de' quali conoscendo il pericolo manifestissimo, ancora che si fussino potuti trasferire in luogo ove alcune colline gli coprivano, nondimeno spaventati dalla carestia delle vettovaglie e augumentando il timore della tardità de' svizzeri, mosso, la mattina seguente innanzi all'aurora, tacitamente l'esercito senza suono di trombe e di tamburi, e messi i carriaggi innanzi alle genti, procedendo molto ordinatamente e apparecchiati a combattere e a camminare, andorno ad alloggiare a Gabbioneta, terra distante cinque miglia a' confini del mantovano; confessando tutti essersi salvati da gravissimo pericolo, parte per beneficio della fortuna parte per l'imprudenza degli inimici: perché certo è che, se il dí destinato a andare a Bordellano non si fussino fermati a Rebecca, rimaneva loro niuna o piccolissima speranza di salute; perché le medesime necessità o maggiori gli costrignevano a ritirarsi, e la ritirata, essendo piú lunga e con gli inimici piú vicini, aveva evidentissimo pericolo. Similmente è certo che Lautrech conseguitava indubitatamente la vittoria se il dí medesimo che mandò l'artiglierie a Pontevico fusse, come molti lo consigliorno e tra gli altri i capitani de' svizzeri, andato ad alloggiare appresso agli inimici; a' quali, per la propinquità sua, non rimaneva facoltà di partirsi sicuramente, non potendo massime, per lo impedimento che arebbono ricevuto dalle artiglierie di Pontevico, mettersi ordinatamente in battaglia né dimorare in quel luogo, per la fame, piú che tre o quattro dí. Ma mentre che, secondo la sua natura, dispregia il consiglio di tutti gli altri, accennando prima il pericolo che appresentandolo, dette loro causa di prevenire con la subita partita le sue minaccie. Dunque, non senza ragione i capitani de' svizzeri, speculato il sito del luogo (perché Lautrech, mossosi per accostarsi agli inimici, trovandogli partiti, andò ad alloggiare a Rebecca), gli dissono che meritavano d'avere la paga che si dà a' soldati vincitori della battaglia, perché per loro non era stato che e' non avesse conseguita la vittoria. A Gabbioneta, fortificato eccellentemente l'alloggiamento, soprastettono molti dí; ma parendo che continuamente si allungasse la venuta de' svizzeri e temendo della vicinità dell'esercito franzese, il quale, molto piú potente, faceva dimostrazione di volergli assaltare, passato l'Oglio, andorono ad alloggiare a Ostiano castello di Lodovico da Bozzole, con intenzione di non si muovere di quivi insino alla venuta de' svizzeri. La quale deliberazione fatta con prudenza fu anche accompagnata dalla fortuna, perché l'esercito arebbe ricevuto non piccolo detrimento nello alloggiamento di Gabbioneta, posto in sito molto basso, dalle pioggie immoderate le quali immediate sopravennono.

                                                 Ma mentre che cosí oziosamente sopraseggono, l'uno esercito a Ostiano l'altro a Rebecca, il vescovo di Pistoia e Vitello, uniti insieme i svizzeri e i fanti italiani, assaltorono le genti del duca di Ferrara le quali erano alloggiate al Finale; e benché fussino in luogo forte per natura, e per arte molto fortificato, nondimeno i svizzeri, andando ferocissimamente incontro al pericolo, le roppono e messono in fuga, ammazzandone molti (tra' quali fu morto combattendo il cavaliere Cavriana): con tanto timore del duca di Ferrara, che era al Bondino, che abbandonato subito quel castello fuggí a Ferrara; ritirando con la medesima celerità, perché gli inimici non lo seguitassino, le barche in sulle quali aveva gittato il ponte nel luogo medesimo.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.8

                                                  

                                                 Discesa degli svizzeri: loro riluttanza ad assaltare il ducato di Milano: concordato con l'esercito ispano-pontificio. Partenza degli svizzeri dall'esercito francese e causa che l'ha determinata. Il Lautrec spera di far resistenza ai nemici sull'Adda. Prime milizie mandate da Prospero Colonna a passare il fiume. Gli ispano-pontifici passano l'Adda; il Lautrec si ritira a Milano.

                                                  

                                                 Erano intanto i svizzeri scesi nel territorio di Bergamo, e nondimeno, pieni di dispareri e di difficoltà, ritardavano il venire piú innanzi, avendo espressamente recusato il volgersi ad assaltare il ducato di Milano, come il cardinale sedunense e gli agenti del pontefice e di Cesare facevano instanza: facevano anche difficoltà di andare a unirsi con l'esercito che gli aspettava a Ostiano, come preparato di procedere alla offesa del re di Francia, offerendo di andare in qualunque luogo paresse al pontefice nello stato della Chiesa, per la difensione del quale avevano accettato lo stipendio; e nondimeno consentendo, come spesso interpretano le cose barbaramente, di andare ad assaltare Parma e Piacenza, come città appartenenti manifestamente alla Chiesa o almeno come di ragione non certa del re di Francia. Dimandavano ancora che innanzi che si movessino fussino mandati a loro dall'esercito trecento cavalli leggieri, con l'aiuto de' quali potessino raccorre le vettovaglie per il paese donde passavano. Finalmente, pervenuti i cavalli, i quali all'improviso passorono con celerità grande per il territorio de' viniziani, si mossono per andare in luogo vicino all'esercito, dove piú comodamente si potesse consultare e risolvere quello avessino a fare; e in cammino cacciorono alcune genti de' franzesi e de' viniziani le quali, per proibire loro il passare piú innanzi, si erano fermate a Pontoglio o vero al lago Eupilo. Cominciossi, come furno approssimati all'esercito, a fare instanza per disporgli a unirsi contro a' franzesi; per la qual cosa andavano innanzi e indietro molti messi e imbasciate: e vi andò in nome del cardinale de' Medici l'arcivescovo di Capua. Finalmente, quegli del cantone di Zurich, i quali sí come hanno maggiore autorità fanno professione di governarsi con maggiore gravità, negorno costantemente; gli altri, dopo molte sospensioni, né ricusorono espressamente né accettorono la dimanda fatta, non negando di volere seguitare l'esercito ma non dichiarando se dietro alle sue vestigie fussino per entrare nel ducato di Milano: in modo che, per consiglio di Sedunense e de' capitani, la volontà de' quali era stata guadagnata con molte promesse, si deliberò di procedere innanzi, sperando che, poi che non recusavano di seguitare, avessino facilmente a essere condotti in qualunque luogo andasse lo esercito. Cosí, voltati i zuricani, i quali erano quattromila, verso Reggio, l'esercito, poi che tra Gabbioneta e Ostiano fu dimorato circa uno mese, si congiunse a Gambara cogli altri svizzeri: procedendo in mezzo di quello due legati, Sedunense e Medici, con le croci d'argento, circondate (tanto oggi si abusa la riverenza della religione), tra tante armi e artiglierie, da bestemmiatori, omicidiali e rubatori.

                                                 Andorono in tre alloggiamenti, per le terre de' viniziani, a Orcivecchio loro castello, scusandosi col senato questo essere un transito necessario e non farsi per desiderio di offendergli; cosí come essi si erano scusati essere stato sforzato Andrea Gritti loro proveditore di consentire a Lautrech che mandasse l'artiglierie a Pontevico. A Orcivecchio arrivorono corrieri mandati da' signori delle leghe a comandare a' svizzeri che partissino dello esercito; simile comandamento feciono per altri corrieri a quegli che erano nel campo franzese, allegando essere cosa indegna del nome loro che in due eserciti inimici fussino colle bandiere publiche i fanti suoi. Ma di questi comandamenti gli effetti furno diversi: perché i corrieri, fatti industriosamente ritenere nel cammino, non pervennero a quegli che erano con Sedunense; ma i svizzeri de' franzesi partirno quasi tutti improvisamente, mossi (come si credé) non tanto dai comandamenti ricevuti né dalla lunghezza della milizia, della quale sogliono sopra tutti gli altri essere impazienti, quanto perché a Lautrech, non gli essendo mandati danari di Francia né bastando quegli che acerbamente riscoteva del ducato di Milano, era mancata la facoltà di pagargli. Nel qual luogo debbe meritamente considerarsi quanto possa la malignità e la imprudenza de' ministri appresso a' príncipi che o per negligenza non vacano alle faccende o per incapacità non discernono da se stessi i consigli buoni da' cattivi: perché essendo stati ordinati trecentomila ducati per mandargli a Lautrech, secondo la promessa che gli era stata fatta, la reggente madre del re, desiderosa tanto che non crescesse la sua grandezza che si dimenticasse dell'utilità del proprio figliuolo, procurò che i generali, senza saputa del re, convertissino questa somma di danari in altri bisogni. Donde Lautrech, confuso d'animo e pieno di grandissima molestia, poiché per la partita de' svizzeri il successo delle cose, il quale prima si prometteva felice, era diventato molto dubbio, lasciata guardata Cremona e Pizzichitone, si ridusse col resto dell'esercito a Cassano; sperando di proibire agli inimici il transito dell'Adda, cosí per l'altre difficoltà che hanno gli eserciti a passare i fiumi quando in sulla ripa opposita è chi resista, come perché in quel luogo è tanto piú rilevata la ripa verso Milano che maggiore è l'offesa che con l'artiglierie si fa agli inimici che quella che si riceve. Da altra parte i legati apostolici e i capitani, partiti da Orcivecchi e passato di nuovo il fiume dell'Oglio, erano in tre alloggiamenti venuti a Rivolta; non sentendo piú la incomodità delle vettovaglie, perché le terre della Ghiaradadda abbandonate da' franzesi ne somministravano abbondantemente. Quivi intenti gli eserciti l'uno a guadagnare, l'altro a proibire il transito del fiume, Prospero e gli altri capitani preparavano di gittare il ponte tra Rivolta e Cassano; cosa molto dubbia e difficile per la opposizione degli inimici: dove avendo consumato due o tre dí in varie disputazioni e consigli, finalmente Prospero, non conferiti al marchese di Pescara i suoi pensieri acciò che non partecipasse della gloria di questa cosa e, perché non gli pervenisse a notizia, rifiutata l'opera de' fanti spagnuoli, tolte occultamente del fiume Brembo due barchette, mandò di notte con grandissimo silenzio alcune compagnie di fanti italiani a passare il fiume dirimpetto alla terra di Vauri.

                                                 È Vauri terra aperta e senza mura, posta in su la riva dell'Adda, distante cinque miglia da Casciano, ove è l'opportunità di passare il fiume; e ha nel mezzo un piccolo ridotto di mura rilevato, a uso di rocchetta. Guardava questo luogo con pochi cavalli Ugo conte de' Peppoli, luogotenente della compagnia delle lancie che aveva in condotta dal re di Francia Ottaviano Fregoso: il quale, sentito lo strepito, fattosi incontro in sulla riva, fu facilmente sforzato a dare luogo per la violenza degli scoppietti; ma si credé che arebbe fatto facilmente resistenza se a' cavalli che aveva seco fusse stato aggiunto qualche numero di scoppiettieri, come esso affermava avere dimandati a Lautrech. Raccoglievansi i fanti, secondo che passavano, in uno rilevato con un poco di forte che è nella terra sopradetta, aspettando venisse il soccorso ordinato da Prospero; il quale, subito che ebbe avviso del principio felice, si voltò quasi tutti i fanti dello esercito alloggiati in diverse castella della Ghiaradadda, con ordine che quegli che prima arrivassino, e poi gli altri successivamente, passassino subito il fiume in sulle medesime barchette, e in su due altre di quelle che seguitavano l'esercito, per gittare il ponte in su' fiumi: le quali la notte medesima erano state tirate per terra in sulla riva medesima. Andò ed egli e gli altri capitani, col cardinale de' Medici, incontinente al medesimo cammino, lasciato ordine a Rivolta che se i franzesi si discostavano si gittasse subito il ponte. Ma a Vauri fu per alquante ore incerto il successo della cosa. Perché se Lautrech, come prima ebbe notizia gli inimici essere passati, v'avesse voltata subito una parte dell'esercito, non è dubbio che gli opprimeva; ma poiché per piú ore fu stato sospeso di quello dovesse fare, mandò lo Scudo con [quattro]cento lancie e co' fanti franzesi e, dietro, alcuni pezzi d'artiglieria: i quali, camminando con celerità, cominciorno vigorosamente a combattere il luogo dove si erano ritirati gli inimici, nel tempo medesimo che in su l'altra riva compariva la gente che veniva al soccorso; per la speranza del quale si difendevano costantemente, ancora che lo Scudo, smontato a piede con tutti gli uomini d'arme, combattesse ferocemente nello stretto delle vie: né si dubita che se a tempo fussino arrivate l'artiglierie gli arebbono espugnati. Ma già dall'altra ripa sollecitavano continuamente di passare, secondo che comportava la capacità delle barche, Tegane capitano de' grigioni e due bandiere di fanti spagnuoli, mosse da' conforti del cardinale de' Medici e de' capitani. Ma senza conforto di alcuno, stimolato dalla propria magnanimità e sete grandissima della gloria, passò Giovanni de' Medici, portato da uno cavallo turco, per la profondità dell'acqua notando insino all'altra ripa; dando nel tempo medesimo terrore agli inimici e conforto agli amici. Finalmente lo Scudo, ancora che nello istante medesimo arrivassino le artiglierie, disperato della vittoria, perduta una bandiera, si ritirò a Cassano: donde Lautrech ridusse tutto l'esercito a Milano. Dove arrivato, o per non perdere l'occasione di saziare l'odio prima conceputo o per mettere con l'acerbità di questo spettacolo terrore negli animi degli uomini, fece decapitare publicamente Cristofano Palavicino: spettacolo miserabile, per la nobiltà della casa e per la grandezza della persona e per la età, e per averlo messo in carcere molti mesi innanzi alla guerra.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.9

                                                  

                                                 Gloria derivata a Prospero Colonna dal successo ottenuto. L'esercito ispano-pontificio alloggia a Marignano; di qui marcia verso Milano. Entrata in Milano; anche le altre città del ducato passano agli ispano-pontifici. Sdegno degli svizzeri perché i loro fanti hanno combattuto contro i francesi.

                                                  

                                                 Esaltò insino al cielo la passata dell'Adda il nome di Prospero, il quale prima, per la ritirata di Parma e per la lentezza del suo procedere, era infame a Roma e in tutto l'esercito; ma cancellandosi spesso per l'ultime cose la memoria delle prime, si celebravano popolarmente le laudi sue, che senza sangue e senza pericolo, ma totalmente con consiglio e con industria degna di peritissimo capitano, avesse furato agli inimici il passo di quel fiume; il quale Lautrech si prometteva tanto di proibirgli che, oltre a quello che ne diceva publicamente, avesse scritto al re che assolutamente lo impedirebbe. E nondimeno non mancavano di quegli che, con ragioni o vere o apparenti, si sforzassino di estenuare la gloria di questo fatto, allegando non avere avuta virtú o industria rara né la invenzione né l'esecuzione, perché la natura da se stessa insegna a ciascuno che truova opposizione a' fiumi o passi stretti di cercare di passare o di sopra o da basso, dove non sia chi impedisca; il passo di Vauri essere stato propinquo, opportunissimo e passo per l'ordinario frequentato, e Lautrech essere stato tanto negligente a farlo guardare che la negligenza sua non avea lasciato luogo alla industria; perché, in quale altra cosa potersi commendare la providenza di Prospero che nell'avere provedute occultamente le barche, e governata la cosa col silenzio necessario? Altri, forse troppo diligenti giudici delle cose, e piú pronti a riprendere gli errori dubbi che a laudare l'opere certe, non contenti di diminuire la fama della sua industria, riprendevano che in lui non fusse stata né la providenza né l'ordine conveniente; perché non avendo mandato comandamento alle genti destinate al soccorso, le quali erano alloggiate in Trevi, Caravaggio e in vari luoghi, che si movessino, se non quando ebbe notizia che i fanti mandati innanzi aveano occupato Vauri, tardorono per necessità insino a mezzo dí, i primi, ad arrivare in sulla ripa del fiume, piú di quattordici ore poi che i primi fanti erano passati: di maniera che non si dubita che se Lautrech avesse, quando n'ebbe notizia, fatto quel che fece dopo molte ore, e arebbe recuperato Vauri e rotto i fanti che erano passati, perché a soccorrergli pervenivano tardi i provedimenti ordinati. Ma non oscurorno queste interpretazioni la gloria di Prospero, perché è considerato comunemente dagli uomini l'evento delle cose; per il quale, ora con laude ora con infamia, secondo che è o felice o avverso, si attribuisce sempre a consiglio quel che spesso è proceduto dalla fortuna.

                                                 Partito Lautrech dalla ripa dell'Adda, niuno dubbio era che gli inimici, i quali il dí seguente gittorno il ponte tra Rivolta e Casciano, dovessino quanto piú presto si poteva accostarsi a Milano: nondimeno Prospero, il cui consiglio, biasimato comunemente dal volgo, fu approvato da' periti dell'arte militare, volle che il primo dí, per piú lungo circuito, si andasse ad alloggiare a Marignano, terra parimente propinqua a Milano e Pavia; perché non si potendo, per i tempi già freddi e molto piovosi, soggiornare in campagna, gli parve piú opportuno l'accostarsi a Milano da quella parte dalla quale, se come si credeva riuscisse difficile l'entrarvi, potesse subito voltarsi a Pavia, ove Lautrech, per ridurre tutte le forze a Milano, non avea lasciato alcuno presidio, per collocare in quella città, abbondante e molto opportuna, la sedia della guerra. Da altra parte Lautrech, il quale, ridotto a poco numero di fanti, era stato da principio inclinato a guardare solamente la città di Milano, considerando poi che se abbandonava i borghi dava comodità agli inimici di alloggiamento, e cosí facoltà di potere attendere oziosamente alla espugnazione, deliberò di guardare anche i borghi: consiglio certamente valoroso e prudente se fusse stato accompagnato dalla debita vigilanza, e per il quale, per gli accidenti inopinati che dopo pochissimi dí succederono, arebbono le cose sortito fine molto diverso da quello che ebbono. Ma l'esercito degli inimici, del quale la maggiore parte era alloggiata a Marignano e i svizzeri piú innanzi alla Badia di Chiaravalle, stato fermo tre dí per aspettare l'artiglierie, che per la difficoltà delle strade non si erano potute condurre, si indirizzò il decimonono dí di novembre a Milano, con intenzione, che se il dí medesimo non si entrava, di andarsene il dí seguente a Pavia; dove già, per occuparla, era stata mandata una parte de' cavalli leggieri. E accadde quella mattina cosa notabile: che essendosi fermati in uno prato appresso a Chiaravalle i legati e i principali dello esercito, per dare luogo a' svizzeri di camminare, sopragiunse uno vecchio, di presenza e di abito plebeo, il quale, affermando essere mandato dagli uomini della parrocchia di San Siro di Milano, sollecitava con grandissima esclamazione che si andasse innanzi, perché, per ordine dato, non solo gli uomini di quella parrocchia ma tutto il popolo di Milano, subito che si accostasse l'esercito, al suono delle campane di tutte le parrocchie, piglierebbe l'armi contro a' franzesi: cosa che parve poi maravigliosa perché, per qualunque diligenza che si facesse poi di ritrovarlo, non fu mai possibile sapere né chi fusse né da chi fusse stato mandato.

                                                 Camminò adunque l'esercito in ordinanza verso porta Romana, fermate l'artiglierie grosse al capo di una via che si voltava a Pavia; nella prima fronte del quale essendo il marchese di Pescara co' fanti spagnuoli, si accostò, appropinquandosi già la notte, al fosso tra porta Romana e porta Ticinese, e presentati gli scoppiettieri contro a un bastione fatto nel luogo che si dice Vicentino appresso alla porta detta Lodovico, piú per tentare che per speranza di ottenere, i fanti viniziani che n'aveano la custodia, non sostenuta non che altro la presenza degli inimici, voltate con inestimabile viltà le spalle, si messono in fuga; il medesimo feciono i svizzeri che alloggiavano appresso a loro: in modo che i fanti spagnuoli, passato senza difficoltà il fosso e il riparo, entrorno nel borgo. Nell'entrare de' quali fu preso, ricevuta nel prenderlo una leggiera ferita, Teodoro da Triulzi, che disarmato in su una muletta correva al rumore; il quale pagò poi al marchese di Pescara ventimila ducati per la sua liberazione. Salvossi con fatica grande Andrea Gritti, e unitisi fuggendo co' franzesi, tutti insieme con lungo circuito si ritirorono nella città: nella quale non avendo fatta provisione di difendersi, e avendo pochissimi fanti e l'animo del popolo inclinato alla rebellione, feciono alto intorno al castello. Da altra parte il marchese di Pescara, seguitando sollecitamente la prosperità della fortuna, accostatosi a porta Romana (ritengono le porte della città e quelle de' borghi il nome medesimo) fu da' principali della fazione ghibellina che aveano occupata la porta messo dentro; e poco dipoi entrorono nel medesimo modo, per la porta Ticinese, il cardinale de' Medici, il marchese di Mantova, Prospero e una parte dello esercito: ignorando quasi i vincitori in quale modo o per quale disordine si fusse con tanta facilità acquistata tanta vittoria. Ma la cagione principale procedette dalla negligenza de' franzesi; perché, per quello si potette comprendere poi, non aveva Lautrech avuto notizia che quel giorno l'esercito fusse mosso, anzi si credé che l'essere per le grandissime pioggie le strade molto rotte gli desse sicurtà che quel dí gli inimici non fussino per muovere l'artiglierie, senza le quali non pensava si mettessino ad assaltare i ripari: però, nel tempo medesimo che essi entrorono dentro, cavalcava con altri capitani disarmato oziosamente per Milano; e lo Scudo, stracco dalle vigilie della notte precedente, dormiva nel proprio alloggiamento. E nondimeno si credé che, poi che ebbe fuggendo raccolte le genti in sulla piazza del castello, arebbe avuta non piccola occasione di offendere gli inimici; de' quali una parte era alloggiata molto disordinatamente in Milano, un'altra restata ne' borghi col medesimo disordine, e un'altra parte alloggiata confusa e sparsa di fuora: ma impedito, dal timore e dallo errore delle tenebre, di discernere in sí breve tempo lo stato degli inimici, se ne andò la notte medesima con l'esercito a Como; dove lasciati cinquanta uomini d'arme e seicento fanti, preso il cammino per la Pieve di Inzino e passata Adda a Lecco, si ridusse in quel di Bergamo, restando il castello di Milano bene guardato e proveduto.

                                                 Seguitorono l'esempio di Milano Lodi e Pavia; e nel tempo medesimo il vescovo di Pistoia e Vitello, che, lasciata a dietro Parma, erano andati alla volta di Piacenza, furono accettati spontaneamente da quella città; e la medesima inclinazione seguitò la città di Cremona: dove, venuta nuova non solo della mutazione di Milano ma eziandio che le genti franzesi erano state rotte, il popolo levato in armi cominciò a chiamare il nome dello imperio e del duca di Milano. La quale cosa intesa da Lautrech, che già era arrivato in bergamasco, mandò lo Scudo con parte delle genti a ricuperarla: il quale, essendo ributtato dal popolo, Lautrech, ancora che, per la facilità che vi era di soccorrerla da tanti svizzeri che erano in Piacenza, avesse piccola speranza di prospero successo, vi si indirizzò con tutte le genti; avendo, per parergli essere impotente a sostenere tante cose, ordinato che Federigo da Bozzole abbandonasse Parma. E gli succedette la cosa felicemente, perché il vescovo di Pistoia, se bene avesse commissione dal cardinale de' Medici, subito che intese la rebellione di Cremona, di mandarvi, per stabilire quello acquisto, parte de' svizzeri, nondimeno, non volendo dividergli né implicargli in altre faccende, per la cupidità che aveva di andare con essi alla impresa che si destinava di Genova, ritardò tanto che Lautrech, tenendosi per lui il castello né vi essendo altra difensione che quella del popolo (il quale subito gli mandò imbasciadori a dimandare venia del delitto), la ricuperò facilmente; dalla quale cosa ripreso animo, espedí subito a Federigo da Bozzole che non abbandonasse Parma. Ma Federigo, già partitosene, aveva con tutte le genti passato il Po; e Vitello, il quale con le sue genti andava a Piacenza, essendo, quando Federigo partí, vicino a Parma, chiamato con grandissimo consenso del popolo vi era entrato dentro; e a Milano, attendendosi ad acquistare il resto dello stato, con disegno di ridursi a spesa piú temperata, fu mandato nel tempo medesimo il marchese di Pescara, con le genti spagnuole e co' tedeschi e grigioni, a campo a Como. La quale città poiché ebbe cominciato a battere con l'artiglierie, quegli che vi erano dentro non sperando soccorso si accordorono, con condizione che e le genti franzesi e gli uomini della terra con le loro robe fussino salvi; e nondimeno, quando i franzesi volevano partirsi, gli spagnuoli entrati dentro la saccheggiorono con infamia grande del marchese; il quale, non molto poi, imputato da Giovanni Cabaneo, capo di quella gente, di fede rotta, fu chiamato a duello.

                                                 Mandorono da Milano nel tempo medesimo il vescovo di Veroli a' svizzeri per fermare gli animi loro; ma essi, come fu pervenuto a Bellinzone, lo messono in custodia perché, malcontenti che i fanti loro fussino proceduti contro al re di Francia, si lamentavano non solo del cardinale sedunense e del pontefice e di tutti i ministri suoi ma, tra gli altri, particolarmente di Veroli, che essendo, quando furono levati i fanti, nunzio del pontefice appresso a loro, si fusse affaticato per indurgli a contravenire alla eccezione contro la quale erano stati conceduti.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.10

                                                  

                                                 Morte di Leone decimo; giudizio dell'autore. Terre e fortezze rimaste in possesso dei francesi; Tornai presa da Cesare; conseguenze della morte del pontefice nel ducato di Milano; progressi del duca di Ferrara. I francesi e i veneziani contro Parma; l'opera del commissario Francesco Guicciardini. Sue parole di fiducia e di rimprovero. Vani assalti dell'esercito nemico a Parma.

                                                  

                                                 Erano le cose della guerra ridotte in questi termini, e con speranza grande del pontefice e di Cesare di stabilire la vittoria; perché il re di Francia non poteva se non con lunghezza di tempo mandare nuove genti in Italia, e la potenza di quegli i quali contro a lui avevano acquistato Milano, con la maggiore parte di quello ducato, pareva bastante non solo a conservarlo, ma ad acquistare quello che ancora restava in mano degli inimici: anzi, già il senato viniziano, spaventato di tanto successo e temendo che la guerra cominciata contro ad altri non si trasferisse nella casa propria, dava speranza al pontefice di fare partire del suo dominio le genti franzesi. Ma da accidente inopinato ebbono subitamente origine inopinati pensieri. Morí di morte inaspettata, il primo dí di dicembre, il pontefice Leone: il quale, avendo avuto alla villa della Magliana, dove spesso si riduceva per sua ricreazione, la nuova dello acquisto di Milano e ricevutone incredibile piacere, soprapreso la notte medesima da piccola febbre e fattosi il dí seguente portare a Roma, ancora che da' medici fusse riputato di piccolo momento il principio della sua infermità, morí fra pochissimi dí: non senza sospetto grande di veleno, datogli, secondo si dubitava, da Bernabò Malaspina suo cameriere deputato a dargli da bere. Il quale se bene fusse incarcerato per questa suspicione, non fu ricercata piú oltre la cosa, perché il cardinale de' Medici, come fu giunto a Roma, lo fece liberare, per non avere occasione di contrarre maggiore inimicizia col re di Francia, per opera di chi si mormorava, ma con autore e congetture incerte, Bernabò avergli dato il veleno. Morí, se tu risguardi l'opinione degli uomini, in grandissima gloria e felicità, non solo per essere liberato per la vittoria di Milano da pericoli e spese inestimabili, per le quali, esaustissimo di danari, era costretto provederne in qualunque modo, ma perché, pochi dí innanzi alla sua morte, aveva inteso l'acquisto di Piacenza e, il dí medesimo che morí, inteso quello di Parma: cosa tanto desiderata da lui che certo è, quando deliberò di pigliare la guerra contro a' franzesi, aveva detto al cardinale de' Medici che ne lo dissuadeva, muoverlo principalmente il desiderio di recuperare alla Chiesa quelle due città, la quale grazia quando conseguisse non gli sarebbe molesta la morte. Principe nel quale erano degne di laude e di vituperio molte cose, e che ingannò assai la espettazione che quando fu assunto al pontificato si aveva di lui, conciossiaché e' riuscisse di maggiore prudenza ma di molto minore bontà di quello che era giudicato da tutti.

                                                 Per la morte del pontefice indebolirono molto le cose di Cesare in Lombardia. Perché non era da dubitare che il re di Francia, ripreso animo per essergli mancato quello inimico co' danari del quale si era cominciata e sostenuta tutta la guerra, non mandasse esercito nuovo in Italia; e che i viniziani per le medesime cagioni non continuassino nella confederazione con lui: donde si interrompevano i disegni fatti di assaltare Cremona e Genova; e i ministri di Cesare, i quali avevano con difficoltà pagato insino a quel dí le genti spagnuole, erano necessitati a diminuire non senza pericolo le forze, possedendosi in nome del re di Francia Cremona e Genova, Alessandria, il castello di Milano, le fortezze di Novara e di Trezzo, Pizzichitone, Domussola, Arona e tutto il Lago Maggiore. Era anche ritornata alla sua divozione la rocca di Pontriemoli; la quale, occupata da Palavicino, fu recuperata da Sinibaldo dal Fiesco e dal conte di Noceto. Né passorono anche felicemente le cose del re di Francia di là da' monti; perché Cesare, mosse le armi contro a lui, prese la città di Tornai e poco dipoi la fortezza, nella quale era molta artiglieria e munizione.

                                                 Per la morte del pontefice si introdussono nuovi governi nuovi consigli e nuovi ordini nel ducato di Milano. I cardinali sedunense e Medici andorono subito a Roma, per ritrovarsi alla elezione del nuovo pontefice. Riservoronsi i cesarei mille cinquecento fanti svizzeri, tutti gli altri e i fanti tedeschi licenziati si partirono. Ritornoronsi le genti de' fiorentini verso Toscana; di quelle della Chiesa ne menò Guido Rangone una parte a Modena, un'altra parte rimase col marchese di Mantova nello stato di Milano, piú per deliberazione propria che per consentimento del collegio de' cardinali, il quale, diviso in se medesimo, non poteva fare determinazione di cosa alcuna: in modo che, querelandosi Lautrech con loro che i soldati della Chiesa stessino fermi nel ducato di Milano in pregiudicio del re di Francia (il quale, per le opere de' suoi predecessori tanto pietose verso la Chiesa, otteneva il titolo di protettore e di figliuolo primogenito di quella), non furono concordi a fare altra risposta o deliberazione se non che se ne rimettevano alla determinazione del pontefice futuro. De' svizzeri che erano a Piacenza n'andorono una parte col vescovo di Pistoia a Modena, per difesa di quella terra e di Reggio contro al duca di Ferrara: il quale, uscito dopo la morte di Lione in campagna, con cento uomini d'arme dumila fanti e trecento cavalli leggieri, e ricuperato per volontà degli uomini il Bondino e il Finale e la montagna di Modena e la Garfagnana e, con piccola difficoltà, Lugo, Bagnacavallo e l'altre terre di Romagna, era andato a campo a Cento.

                                                 A Piacenza restorono i svizzeri del cantone di Zurigo; da' quali, per non si volere separare, non si potette impetrare che mille di loro andassino alla guardia di Parma: la quale città essendo restata quasi sprovista, dette animo a Lautrech, che con seicento lancie e dumila cinquecento fanti era in Cremona, di tentare di ripigliarla; stimolandolo massime a questo Federigo da Bozzole, il quale per avere notizia particolare di quelle cose aveva credito grande in questa materia. Però fu disegnato che Buonavalle con trecento lancie, e Federigo e Marcantonio Colonna, l'uno con fanti soldati da' franzesi l'altro con fanti de' viniziani, in numero in tutto cinquemila, assaltassino allo improvviso quella città; dove erano settecento fanti italiani e cinquanta uomini d'arme del marchese di Mantova, il popolo bene disposto alla divozione della Chiesa ma male armato, e invilito per la memoria de' franzesi e delle acerbità usate da Federigo, e quella parte della città che era stata battuta dal campo della Chiesa, con le mura ancora per terra senza esservi stata fatta restaurazione alcuna. Aggiugnevasi la vacazione della sedia apostolica, per la quale gli animi de' popoli sogliono vacillare e i governatori attendere piú alla propria salute che alla difesa delle terre, non sapendo per chi aversi a mettere in pericolo. Con questi fondamenti adunque, mandate di notte le fanterie de' franzesi giú per il fiume del Po insino a Torricella, dove si unirono con loro le genti d'arme venute da Cremona per terra, ed essendo state condotte da Cremona molte barche, passorono la notte il Po a Torricella propinqua a Parma a dodici miglia; con ordine che Marcantonio Colonna, con le fanterie viniziane le quali erano alloggiate in su Oglio, le seguitasse: il che avendo presentito la notte medesima Francesco Guicciardini, il quale era andato da Milano per commissione del cardinale de' Medici alla custodia di Parma, convocato la notte il popolo e confortatolo alla difensione di loro medesimi, e distribuite in loro mille picche, che due dí innanzi, sospettando de' casi che potessino accadere, aveva fatto condurre da Reggio, attendeva sollecitamente a fare le provisioni necessarie per difendersi. Conoscendo molte difficoltà, per i pochi soldati che vi erano, non bastanti a sostenerla senza l'aiuto del popolo, nel quale, ne' casi inopinati e pericolosi, non si può per la natura della moltitudine fare saldo fondamento, e considerando non potere proibirsi agli inimici l'entrata nel Codiponte, ritirò i soldati e tutti quegli della terra nell'altra parte della città; ma non senza grandissima difficoltà: perché, persuadendosi molti del popolo vanamente che la si potesse difendere, e parendo duro agli abitatori di quella parte abbandonare le case proprie, non si poteva, né con ragioni né con autorità, disporgli se non quando si approssimorono gli inimici; i quali, per avere i parmigiani tardato troppo a volersi ritirare, mancò poco che insieme alla mescolata con loro non entrassino nell'altra parte della terra: dove erano molte difficoltà, e principalmente il mancamento de' danari, in tempo molto importuno, perché era appunto il dí del pagare i fanti, i quali protestavano, se fra uno dí non erano pagati, di uscirsi della terra. Entrò il primo dí Federigo da Bozzole con tremila fanti e alcuni cavalli leggieri nel Codiponte abbandonato, sopragiunse il dí seguente Buonavalle con le lancie franzesi, e Marcantonio Colonna con dumila fanti de' viniziani; non con altre artiglierie che con due sagri, perché le strade pessime che sono di quella stagione ne' luoghi bassi e pieni di acque vicini al Po facevano impossibile, o almanco molto difficile, il condurre l'artiglierie grosse da battere la muraglia; e questo non senza perdita di tempo contraria alle speranze loro fondate in su la celerità, perché tardando molto dubitavano, benché vanamente, che a Parma non fusse mandato soccorso o da Modena o da Piacenza. Nondimeno era entrato nel popolo opinione, per avvisi avuti da' contadini fuggiti del paese, venire artiglierie grosse: donde impauriti maravigliosamente, e molto piú perché, avendo Federigo preso nel contado alcuni cittadini e fattigli destramente, da certi rebelli parmigiani che erano seco, empiere di opinione che con Marcantonio e co' franzesi veniva gente molto grossa e con artiglierie, gli aveva lasciati andare in Parma; dove, avendo riferito cose assai sopra al vero delle forze degli inimici, empierono il popolo tutto di tanto spavento che non solo nella moltitudine per tutte le contrade, ma nel consiglio loro e in quegli magistrati che avevano la cura delle cose della comunità, si cominciò apertamente a pregare il governatore che, per liberare sé e i soldati suoi dal pericolo di restare prigione e la città dal pericolo di essere saccheggiata, consentisse che si accordassino: a che resistendo il governatore con le ragioni e co' prieghi, e consumandosi il tempo in dispute, si accrebbe nuova difficoltà, perché essendo il tempo di dare la paga, i fanti, sollevati, facendo segno di volere uscirsi della città, tumultuavano. Ottenne nondimeno il commissario, con molte persuasioni, dalla città che provedessino a una parte de' danari, i quali avendo prima promessi si erano raffreddati, dimostrando che questo farebbe, in ogni partito che e' pigliassino, giustificazione non piccola per ogni tempo co' pontefici futuri: co' quali danari quietò, il meglio si potette, il tumulto. Donde e nel popolo si augumentava il timore, e i soldati, vedendo che per essere pochi restavano a discrezione loro e intendendo vacillare gli animi di tutta la città, ridotti in gravissimo sospetto di non essere in uno tempo medesimo assaltati di dentro e di fuora, arebbono desiderato piú presto che di accordo si arrendesse la terra, capitolando la salvazione loro, che stare in questo pericolo.

                                                 Nel quale stato delle cose ridotte a non piccola strettezza fu molto necessaria la costanza del governatore; il quale, ora assicurando i soldati dal pericolo comune a lui con loro ora confortando i principali della terra congregati tutti in consiglio e disputando con loro, dimostrava essere vano il timore, per avere egli certezza che gli inimici non conducevano artiglierie grosse, senza le quali essere ridicolo il temere che con le scale avessino a entrare per forza nella terra; la gioventú della quale congiunta co' soldati era bastante a resistere a impeto molto maggiore. Avere mandato a Modena, dove erano i svizzeri, Vitello e Guido Rangone con le genti loro, a dimandare soccorso; né dubitare che al piú lungo per tutto il dí seguente lo arebbono tale che gli inimici sarebbono costretti a partirsi: perché il rispetto dello onore loro, e il timore che perdendosi Parma non seguitasse maggiore disordine, gli costrigneva, avendo tanta gente quanta avevano, a farsi innanzi. Avere mandato per il medesimo effetto a Piacenza, donde essergli data grandissima speranza per le medesime cagioni. Dovere considerare, che essendo morto il pontefice dal quale era stato onorato ed esaltato, non gli restare obligazione o stimolo alcuno per il quale, se le cose fussino in quello grado che essi si immaginavano, avesse a sottoporsi volontariamente a sí manifesto pericolo; perché non potevano, come sempre aveva dimostrato la esperienza, i ministri del pontefice morto aspettare dal futuro pontefice grado o remunerazione alcuna, anzi potere facilmente accadere che il nuovo pontefice fusse inimico di Firenze patria sua: però, né per rispetti publici né per rispetti privati avere cagione di desiderare la grandezza della Chiesa, ma potere bene nascere molti casi per i quali gli sarebbe gratissima la bassezza. Non avere egli in Parma moglie figliuoli o facoltà alcuna, che avesse a dubitare che, avendo a ritornare sotto il dominio de' franzesi, avessino a restare sottoposti alla libidine insolenza e rapine loro: però, non toccando a lui né sperare utilità se Parma si difendesse né temere, se la si arrendesse, de' mali che avevano provati sotto il giogo acerbo de' franzesi, e avendo, se la si perdeva per forza, sottoposta la persona a medesimi pericoli che l'avevano sottoposta gli altri, potevano essere certi che lo stare suo costante non procedeva da altro che da conoscere manifestamente, quegli di fuora, non avendo artiglierie grosse, come era certo non avevano, non essere bastanti a sforzarla; di che se dubitasse, non contradirebbe, per il desiderio che, come tutti gli altri uomini, aveva della salute propria, allo accordo, massime che essendo la sedia vacante, egli non si trovando in Parma con tanta gente che potesse opporsi alla volontà del popolo, non gli potrebbe di questa loro deliberazione resultare imputazione o carico alcuno. Colle quali ragioni, parte parlando separatamente con molti di loro, parte disputando con tutti insieme, parte togliendo loro tempo con lo andare intorno alla muraglia e fare altre provisioni, gli aveva intratenuti tutta la notte; perché aveva compreso che, benché desiderassino ardentemente di accordarsi non per altra cagione che per timore estremo che avevano di non essere sforzati e saccheggiati, nondimeno gli raffrenava il conoscere che, accordandosi senza il consentimento suo, non potevano fuggire nota di essere ribelli. Ma essendo apparita l'alba del dí, dí dedicato a san Tommaso apostolo, e già cominciatosi a conoscere, per le palle che tiravano i due sagri stati piantati quella notte, che non vi era artiglieria da battere la muraglia, credette il governatore, ritornando in consiglio, trovare variati e assicurati gli animi di tutti; ma trovò totalmente contraria disposizione, e il timore tanto piú augumentato quanto per essere già il principio del dí pareva loro approssimarsi piú al pericolo: in modo che, non udendo piú le ragioni, cominciavano, non solo con apertissima instanza ma eziandio con protesti e quasi con tacite minaccie, a strignerlo che consentisse allo accordo. A' quali avendo risposto risolutamente che, poi che non era in potestà sua proibire loro questi ragionamenti e questi pensieri, come farebbe se avesse in Parma maggiori forze, non gli restava altra sodisfazione della ingiuria che trattavano di fare alla sedia apostolica e a sé, ministro di quella, che vedere che se si risolvevano ad accordarsi non potevano fuggire la infamia di essere rebelli e mancatori di fede al loro signore; esprobrando con caldissime parole il giuramento della fedeltà che, pochi dí innanzi, avevano nella chiesa maggiore prestato solennemente in sua mano alla sedia apostolica; e che, quando bene vedesse innanzi agli occhi la morte manifestissima da loro, tenessino per certo che da lui mai arebbono altra conclusione se non quando, per sopravenire nuove genti o artiglierie grosse nel campo degli inimici o per altro accidente, conoscesse essere maggiore il pericolo del perdersi che la speranza del difendersi. Dopo le quali parole essendosi uscito del consiglio, parte perché le restassino negli orecchi e ne' petti loro con maggiore autorità, parte per dare ordine a molte cose che erano necessarie se gli inimici volessino dare, come si credeva, quel dí la battaglia, stettono sospesi e quasi attoniti per lungo spazio. Finalmente, prevalendo il timore a tutti gli altri rispetti, e risoluti in ogni caso di mandare fuora a praticare d'arrendersi, mandorono alcuni del numero loro a protestare al commissario che, se egli perseverava nella ostinazione di non consentire che si salvassino, erano disposti farlo per loro medesimi, per fuggire il pericolo evidentissimo del sacco. Ma in quel tempo medesimo che volevano esporre la imbasciata cominciorono a sentirsi i gridi di quegli che erano a guardia delle porte e delle mura, e le campane della torre piú alta della città che davano segno che gli inimici, usciti di Codiponte in ordinanza, si accostavano alle mura per dare lo assalto; donde il commissario, rivoltosi a coloro che ancora non avevano parlato, disse: - Quando bene volessimo tutti, non siamo piú a tempo ad accordarci; bisogna o difenderci onorevolmente o andare vituperosamente a sacco o restare prigioni; se non volete fare come Ravenna e Capua, saccheggiate quando con gli inimici alle mura si trattavano gli accordi. Io insino a qui ho fatto quello che poteva fare uno uomo solo, e condottivi per beneficio vostro in grado che è necessario o vincere o morire; se ora bastassi solo a difendere la città non mancherei di difenderla, ma non si può senza l'aiuto vostro: però, non siate manco gagliardi e manco caldi a difendere, come potete fare facilmente, la vita e la roba vostra e l'onore delle vostre moglie e figliuoli, che siate stati importuni a volere, senza necessità, mettervi sotto la servitú de' franzesi, che, come sapete, tutti sono capitalissimi inimici vostri.

                                                 Dopo le quali parole avendo voltato il cavallo in altra parte, restando ciascuno confuso per il timore, e per parere loro non essere piú a tempo a tentare altri rimedi, si lasciorono da parte i ragionamenti dello accordarsi, e fu necessario attendere alla difesa: perché una parte degli inimici, avendo quantità grandissima di scale, raccolta il dí dinanzi del paese, si erano accostati a uno bastione che, dalla parte di verso il Po, aveva fatto fare Federigo, quando, partito il campo degli ecclesiastici, rimase alla custodia di Parma; e lo combattevano virilmente; e nel tempo medesimo un'altra parte dava l'assalto molto feroce alla porta che va a Reggio, e medesimamente si combatteva in due altri luoghi: con tanta piú difficoltà del difendersi, quegli di dentro, quanto gli inimici erano piú freschi e stimolati con le parole da' capitani, massime da Federigo; e gli uomini della terra pieni di spavento non si accostavano, da pochissimi in fuora, alla muraglia, anzi la piú parte rinchiusi per le case, come se aspettassino di punto in punto l'estremo caso della città. Durorono questi assalti, rinfrescati piú volte, per spazio di quattro ore; diminuendosi sempre il pericolo di quegli di dentro, non solo per la stracchezza degli inimici, che battuti e feriti da piú bande diminuivano di animo, ma eziandio perché vedendo quegli della terra succedere la difesa felicemente, preso ardire, concorrevano di mano in mano prontamente alla muraglia, non mancando il commissario di fare sollecitamente per tutto le necessarie provisioni: talmente che, innanzi cessasse la battaglia, non solo era concorso tutto il popolo e i religiosi ancora a combattere alla muraglia, ma eziandio moltissime donne attendendo a portare vino e altri rinfrescamenti agli uomini suoi. In modo che quegli di fuora, disperati della vittoria, e ritiratisi con perdita e ferite di molti di loro nel Codiponte, la mattina seguente si levorono; e stati uno dí o due vicini a Parma se ne ritornorono di là dal Po; asserendo Federigo, nessuna cosa in questa espedizione, della quale era stato autore, averlo ingannato se non il non avere creduto che uno governatore, non uomo di guerra e venuto nuovamente in quella città, avesse, essendo morto il pontefice, voluto piú presto, senza alcuna speranza di profitto, esporsi al pericolo che cercare di salvarsi, potendo farlo senza suo disonore o infamia alcuna.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.11

                                                  

                                                 Conseguenze della fallita impresa contro Parma; il duca di Urbino riconquista lo stato. Le milizie del duca e dei Baglioni sotto Perugia. Scorrerie delle milizie nemiche nel ducato di Milano. Il conclave per l'elezione del nuovo pontefice rimandato per la prigionia del cardinale d'Ivrea.

                                                  

                                                 Nocé assai la difesa di Parma alle cose de' franzesi, perché dette maggiore animo al popolo di Milano e agli altri popoli di quello stato a difendersi che non avevano prima, e massime sapendosi esservi stati dentro pochi soldati e non avere avuto soccorso, perché né da Piacenza si mosse alcuno né i svizzeri che erano a Modena, né Guido Rangone né Vitello non vollono mandare gente al soccorso di Parma: Guido allegando che, benché il duca di Ferrara, non avendo potuto spugnare Cento difeso da' bolognesi, si fusse alla venuta de' svizzeri ritirato al Finale, nondimeno essere pericolo che spogliandosi Modona di presidio non venisse ad assaltarla; e il vescovo di Pistoia, vacillando e stando implicato e irrisoluto tra le richieste instantissime che gli faceva il Guicciardino e le persuasioni di Vitello (il quale per lo interesse proprio lo stimolava che co' svizzeri passasse in Romagna per impedire il passo al duca di Urbino), tardò tanto a risolversi che non fece né l'una cosa né l'altra; perché Parma da se medesima si difese e al duca non fu fatto impedimento alcuno in Romagna, perché, in ultimo, i svizzeri non essendo pagati non vollono muoversi. Il quale e insieme Malatesta e Orazio fratelli de' Baglioni andavano, quello per ricuperare gli stati perduti questi per ritornare in Perugia; avendo raccolto a Ferrara dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e tremila fanti i quali, parte per amicizia parte per speranza della preda, volontariamente gli seguitavano: perché né da' franzesi né da' viniziani potettono impetrare altro favore che permettere, a qualunque fusse soldato loro, di seguitargli; e i viniziani concederno a Malatesta e Orazio di partirsi dagli stipendi loro. Andati adunque da Ferrara a Lugo per il Po né trovando per lo stato della Chiesa ostacolo alcuno, come furno vicini al ducato di Urbino, il duca chiamato da' popoli ricuperò, eccetto quello che possedevano i fiorentini, incontinente ogni cosa, e voltatosi dipoi a Pesero ricuperò la terra con la medesima facilità, e in spazio di pochi giorni la rocca: e seguitando la prosperità della fortuna, cacciato da Camerino Giovanmaria da Varano antico signore, che per illustrarsi aveva conseguito da Lione il titolo di duca, vi messe dentro Gismondo, giovanetto della medesima famiglia che pretendeva di avere a quello stato migliore ragione: ritenendosi nondimeno la fortezza per il duca, il quale era rifuggito alla Aquila. Espedite queste cose, si voltò con Malatesta e Orazio Baglioni a Perugia; della quale aveano presa la difesa i fiorentini, non tanto per consiglio proprio quanto per volontà del cardinale de' Medici, mosso o dall'odio e inimicizia che aveva col duca d'Urbino e co' Baglioni o per parergli che la vicinità loro potesse mettere in pericolo l'autorità che aveva in Firenze o perché, aspirando al pontificato, volesse guadagnare la riputazione di essere lui solo difensore, nella vacazione della sedia, dello stato della Chiesa. Perché il collegio de' cardinali era al tutto senza cura di difendere, o in Lombardia o in Toscana o altrove, parte alcuna del dominio ecclesiastico; parte perché i cardinali erano distratti in diverse fazioni e immerso ciascuno di loro ne' pensieri di ascendere al pontificato, parte perché nello erario pontificale o in Castello Santo Agnolo non si trovava somma alcuna di danari lasciata da Lione: il quale, per la sua prodigalità, non solo aveva consumato i danari di Giulio e incredibile quantità tratti di offici creati nuovamente, con diminuzione di quarantamila ducati di entrata annua della Chiesa, [ma] aveva lasciato debito grande e impegnate tutte le gioie e cose preziose del tesoro pontificale: in modo che argutamente fu detto da qualcuno che gli altri pontificati finivano alla morte de' pontefici, ma quello di Lione essere per continuarsi piú anni poi. Mandò solamente il collegio a Perugia l'arcivescovo Orsino, perché trattasse di concordare insieme i Baglioni; ma essendo la persona sospetta a Gentile, per il parentado che aveva co' figliuoli di Giampaolo, e proponendosi condizioni poco sicure per lui, si trattò invano: in modo che, penultimo dí dell'anno, il duca di Urbino, Malatesta e Orazio Baglioni e Cammillo Orsino, il quale seguitato da alcuni volontari si era di nuovo unito con loro, andorono ad alloggiare al Ponte a San Ianni; donde, distesisi quivi alla Bastia e luoghi vicini, infestavano dí e notte la città di Perugia; ove, oltre a cinquecento fanti condotti da Gentile, vi aveano messi i fiorentini (a' quali l'essersi il duca voltato a Pesero dette spazio di provederla), dumila fanti, cento cavalli leggieri sotto Guido Vaina e centoventi uomini d'arme e cento cavalli leggieri sotto Vitello.

                                                 Nel quale tempo, nello stato di Milano si stava con sommo ozio; non si facendo da alcuna delle parti altro che prede e correrie: le quali per fare ancora ne' luoghi tenuti dalla Chiesa avevano i franzesi, restati in Cremona con dumila fanti, gittato il ponte in sul Po, per il quale passando spesso nel piacentino e nel parmigiano molestavano tutto il paese. E benché Prospero, stimolato dagli altri capitani, publicasse di volere andare a pigliare Trezzo, e già avesse inviato l'artiglierie, nondimeno non lo messe a effetto, allegando non essere a proposito che l'esercito fusse impegnato in luogo alcuno, per potere soccorrere lo stato della Chiesa se i franzesi avessino cominciato a farvi progresso alcuno; cosa nella quale pareva che avesse i pensieri diversi dalle parole, perché significatagli l'andata del campo a Parma, non fatto segno alcuno di volerla soccorrere, disse essere necessario aspettare l'evento. Anzi, essendo rimasta Piacenza abbandonata di ogni presidio, perché i svizzeri zuricani per comandamento de' loro signori se ne partirono subitamente, Prospero fece grandissima diligenza perché il marchese di Mantova con le sue genti non si partisse da Milano; il quale, fermatosi in Piacenza, sostenne con somma laude, co' fanti del suo dominio e col prestare qualche volta danari, quella città.

                                                 Né si provedeva a tanti pericoli per la elezione del nuovo pontefice; la quale, con tanto pregiudicio dello stato ecclesiastico, si era differita per dare tempo ai cardinali assenti di andare al conclave, e ultimamente perché il cardinale di Ivrea, andando da Turino a Roma, era stato, per ordine di Prospero Colonna, ritenuto nello stato di Milano, perché come favorevole a' franzesi non si trovasse al conclave: per il che il collegio fece decreto che tanti dí si tardasse a entrare nel conclave quanti dí fusse stato o fusse per essere impedito il cardinale di Ivrea a passare innanzi. Però, essendo stato liberato, si serrò il conclave il vigesimo settimo dí di dicembre, nel quale intervennono trentanove cardinali: tanto aveva moltiplicato il numero la promozione immoderata fatta da Lione, alla creazione del quale non erano stati presenti piú che ventiquattro cardinali.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.12

                                                  

                                                 Mutamento politico in Perugia. Difficoltà nella nomina del pontefice ed ambizione del cardinale de' Medici. Elezione di Adriano sesto. Il duca d'Urbino e i Baglioni marciano verso Siena. Apprensioni e provvedimenti dei fiorentini; il fallimento dell'impresa. Tacita tregua d'armi in Umbria in Toscana e nel ducato di Milano.

                                                  

                                                 Fu il primo fatto dell'anno mille cinquecento ventidue la mutazione dello stato di Perugia, succeduta, come fu giudicio comune, non meno per la viltà de' difensori che per la virtú degli assaltatori. I quali, accresciuti di numero di volontari insino alla somma di dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, ed entrati nel borgo di San Piero abbandonato da quegli di dentro, dettono, il quarto dí dell'anno nuovo, la battaglia con grandissima quantità di scale, dalla porta di San Piero da porta Sogli e da porta Brogni e da piú altre parti; avendo prima piantati, per levare le difese, in piú luoghi, sette pezzi di artiglieria da campagna commodati loro dal duca di Ferrara. La quale battaglia, cominciata all'alba del dí e rinfrescata piú volte, si può dire che continuasse quasi tutto il giorno; e ancora che da due o tre luoghi entrassino nella terra, difesa solamente da' soldati perché il popolo non si moveva, furono sempre rimessi fuora con la morte di molti di loro: onde Gentile e il commissario fiorentino, cresciuti di animo, speravano d'avere non meno felicemente a difendersi gli altri dí. Ma la timidità di Vitello fu cagione che le cose avessino esito molto diverso. Perché temendo che il popolo piú inclinato a' figliuoli di Giampagolo che a Gentile non si movesse in favore loro, né parendogli piccola importanza che avessino preso l'alloggiamento ne' borghi tra le due porte di San Piero, ma sopratutto mosso dal sospetto d'avere, se le cose succedessino sinistramente, in pericolo la vita propria, per l'odio che sapeva portargli il duca di Urbino e i figliuoli di Giampagolo, significò agli altri capitani, la notte, di volersi partire; allegando il soprasedere suo non fare utilità alcuna, perché essendo stato il dí precedente, quando si dava la battaglia, ferito da uno scoppio nel dito minore del piede destro, era tanto soprafatto dal dolore che la necessità l'aveva costretto a fermarsi nel letto; e benché Gentile e gli altri si sforzassino di rimuoverlo con molti prieghi da questa intenzione, dimostrandogli quanto invilirebbe i soldati e il popolo della città la sua partita, deliberorono, poiché stava pertinace, di seguitarlo. Cosí la notte medesima andorono a Città di Castello, e Perugia ricevette dentro i fratelli Baglioni; con ammirazione incredibile di tutti quegli che avendo avuta notizia, per lettere scritte la notte medesima, del felice successo avuto il giorno precedente contro agli inimici, intesono, poche ore poi, Vitello e gli altri averla vilmente abbandonata.

                                                 Non era a questo tempo espedita la elezione del nuovo pontefice, differita per la discordia grande de' cardinali, causata principalmente perché il cardinale de' Medici, aspirando al pontificato, e potente per la riputazione della grandezza sua e per le entrate e per la gloria guadagnata nello acquisto di Milano, aveva uniti a sé i voti di quindici altri cardinali, mossi o per interessi propri o per la amicizia che avevano seco o per la memoria de' benefici ricevuti da Lione, e alcuni per speranza che quando fusse disperato di conseguire per sé il pontificato diventerebbe fautore di quegli che fussino stati pronti a favorirlo. Ma a questo suo desiderio repugnavano molte cose: il parere a molti cosa perniciosa che a uno pontefice morto succedesse uno pontefice della medesima famiglia, come esempio di cominciare a dare il pontificato per successione: opponevansi tutti i cardinali vecchi, i quali pretendevano per sé propri a tanta degnità, né potevano tollerare che e' fusse eletto uno minore di cinquanta anni: contrari tutti quegli che seguitavano la parte franzese; alcuni di quegli che seguitavano la parte imperiale, perché il cardinale Colonna, ancora che da principio avesse dimostrato di volergli essere favorevole, aveva dipoi molto scopertamente dimostratogli opposizione; inimici accerrimi quegli cardinali che erano stati malcontenti di Lione. E nondimeno, in queste difficoltà, lo sosteneva una speranza efficacissima, perché essendo piú che la terza parte del collegio quegli che gli aderivano, non si poteva, mentre stavano uniti, fare senza consentimento loro l'elezione; donde sperava che per la lunghezza del tempo s'avessino o a straccare o a disunirsi gli avversari, tra' quali erano molti inabili per l'età a tollerare lungo disagio; e perché concordi tra loro in non creare lui erano discordi in creare altri, pensando ciascuno a eleggere o sé o amici suoi, e ostinatissimi molti di loro a non cedere l'uno all'altro. Ma mollificò alquanto la mutazione dello stato di Perugia la pertinacia del cardinale de' Medici, per la instanza del cardinale de' Petrucci, uno de' cardinali che gli aderivano; il quale, capo dello stato di Siena, temendo che per l'assenza sua le cose di quella città, alla quale si intendeva volere voltarsi il duca di Urbino con quelle genti, non facessino mutazione, sollecitava che si eleggesse il nuovo pontefice: per la instanza del quale, ed eziandio per lo interesse del pericolo nel quale mutandosi il governo di Siena incorrerebbe quello di Firenze, mosso il cardinale de' Medici, cominciò a inclinarsi al medesimo; ma non risoluto totalmente a chi volesse eleggere. Mentre che, secondo l'uso, una mattina in conclave si fa lo scrutinio, essendo proposto Adriano cardinale di Tortosa, di nazione fiammingo ma che, stato in puerizia di Cesare maestro suo e per opera sua promosso da Lione al cardinalato, rappresentava in Spagna l'autorità sua, fu proposto, senza che alcuno avesse inclinazione di eleggerlo ma per consumare invano quella mattina. Ma cominciandosegli a scoprire qualche voto, il cardinale di San Sisto, quasi con perpetua orazione, amplificò le virtú e la dottrina sua; donde, cominciando alcuni cardinali a cedergli, seguitorono di mano in mano gli altri, piú presto con impeto che con deliberazione: in modo che, co' voti concordi di tutti, fu creato quella mattina sommo pontefice; non sapendo quegli medesimi che l'avevano eletto rendere ragione per che causa, in tanti travagli e pericoli dello stato della Chiesa, avessino eletto uno pontefice barbaro e assente per sí lungo spazio di paese, e al quale non conciliavano favore né meriti precedenti né conversazione avuta con alcuni altri cardinali, da' quali appena era conosciuto il suo nome, e che mai non aveva veduto Italia, e senza pensiero o speranza di vederla. Della quale estravaganza, non potendo con ragione alcuna escusarsi, trasferivano la colpa nello Spirito Santo, solito, secondo dicevano, a ispirare nella elezione de' pontefici i cuori de' cardinali: come se lo Spirito Santo, amatore precipuamente de' cuori e degli animi mondissimi, non si sdegnasse di entrare negli animi pieni di ambizione e di incredibile cupidità, e sottoposti quasi tutti a delicatissimi, per non dire inonestissimi, piaceri. Ebbe la novella della elezione a Vittoria, città di biscaia; la quale avuta, non mutando il nome che prima aveva, si fece denominare Adriano sesto.

                                                 Mutato lo stato di Perugia, poiché, con detrimento non piccolo degli altri disegni, ebbono tardato le genti a muoversi qualche dí, partirono, per raccorre danari dagli amici di Perugia e di Todi (dove Cammillo Orsino aveva rimesso i fuorusciti), il duca d'Urbino e gli altri, lasciato Malatesta in Perugia; camminando con celerità grande verso Siena, avendo con loro [Lattanzio] Petruccio, che da Lione era stato privato del vescovado di Soana, perché Borghese e Fabio figliuoli di Pandolfo Petrucci erano stati proibiti da' ministri imperiali partire da Napoli. In Siena quegli che reggevano non aveano altra speranza che nel soccorso de' fiorentini, per la intelligenza che avevano col cardinale de' Medici: a instanza del quale, quegli che aderendo a lui governavano in sua assenza lo stato di Firenze, come intesono la partita del duca da Perugia, mandorono subito a Siena Guido Vaina con cento cavalli leggieri, e danari per aggiugnere qualche numero di fanti a quegli che erano stati soldati da' sanesi. Ma il principale fondamento era nelle forze disegnate molti dí innanzi: perché, come intesono la prima mossa del duca di Urbino e de' Baglioni, temendo alle cose di Toscana, avevano trattato di soldare i svizzeri del cantone di Berna; i quali, in numero poco piú di mille, si erano fermati col vescovo di Pistoia in Bologna, disprezzati i comandamenti fatti da' loro signori che ritornassino in Elvezia: la quale pratica, benché per molte difficoltà fatte dal vescovo di Pistoia, desideroso di presentare questa gente al futuro pontefice, fusse andata in lungo piú che non sarebbe stato di bisogno, nondimeno si era pure finalmente con gravisima spesa conchiusa; soldando eziandio quattrocento fanti tedeschi unitisi co' svizzeri in Bologna. Avevano anche chiamato di Lombardia Giovanni de' Medici, non dubitando con questo presidio, pure che arrivasse al tempo debito, di assicurare le cose di Siena; le quali erano ridotte in gravissimo pericolo per essere la maggiore parte del popolo inimica al governo presente, e per l'odio antico co' fiorentini tutti malvolentieri comportavano che le genti loro entrassino in Siena: e accresceva il pericolo l'assenza del cardinale Petruccio, in luogo del quale se bene Francesco suo nipote facesse ogni opera possibile per sostenere le cose, nondimeno non era della medesima autorità che il cardinale. Però, non repugnando i principali, intenti a fuggire o a prolungare in qualunque modo il pericolo presente, avevano già mandato imbasciadori al duca di Urbino, subito che entrò nel territorio di Siena: il quale, benché da principio avesse dimandato la mutazione dello stato e trentamila ducati, aveva dipoi mitigato le dimande, in modo che non mediocremente si dubitava che, o per consentimento di quegli che reggevano o per movimento del popolo contro alla volontà loro, non si facesse tra il duca e i sanesi composizione. Pure, entrando continuamente in Siena gente de' fiorentini e risonando la fama dello essere già vicino Giovanni de' Medici e i svizzeri, quegli che erano alieni dall'accordo impedivano con maggiore animo si conchiudesse; in modo che il duca, accostatosi alle mura di Siena, non avendo nell'esercito suo piú di settemila uomini ma di gente collettizia, poiché vi fu dimorato uno giorno, raffreddandosi le speranze dello accordo e già vicini a una giornata i svizzeri, si levò dalle mura di Siena per ritirarsi nel suo stato.

                                                 Soccorsa Siena, le medesime genti si voltorno verso Perugia; pigliando i fiorentini occasione a quel che prontamente desideravano dall'esserne stati ricercati dal collegio de' cardinali, sotto nome del quale si governava, per l'assenza del pontefice, lo stato della Chiesa: però procedeva nell'esercito personalmente il cardinale di Cortona, legato, insino a tempo di Lione, della città di Perugia. Ma nel collegio non era, dopo la creazione del pontefice, maggiore unione o stabilità che fusse stata nel conclave, anzi erano le variazioni piú apparenti, perché avevano statuito che ciascuno mese si governassino le cose per tre cardinali sotto nome di priori: l'ufficio de' quali era congregare gli altri e dare espedizione alle cose determinate. Tre adunque di questi, entrati nuovamente e oppositi al cardinale de' Medici, il quale eletto il pontefice era subito ritornato a Firenze, cominciorono a esclamare e protestare che le genti de' fiorentini non molestassino le terre della Chiesa: le quali, avendo già saccheggiato la terra di Passignano che aveva ricusato alloggiarle, e di poi alloggiate all'Olmo vicino a tre miglia di Perugia, con speranza quasi certa di ottenere, arebbono disprezzati questi comandamenti se non avessino presto conosciuta la vanità di queste speranze; perché i Baglioni avevano chiamati molti soldati in Perugia, ed era molto maggiore col popolo l'autorità loro che quella di Gentile che seguitava l'esercito. Però, disperando della vittoria e avendo tentata invano la composizione, si partirno del perugino sotto colore di non volere opporsi alla volontà del collegio, ed entrorno nel Montefeltro, che tutto, eccetto San Leo e la rocca di Maiuolo, era ritornato alla obbedienza del duca di Urbino; il quale avendo facilmente ricuperato, si posorono l'armi, come per tacita convenzione, da quella parte, perché il duca non era potente a continuare la guerra co' fiorentini né essi aveano cagione, né per comodo proprio né per sodisfare ad altri, di molestarlo: perché il collegio, nel quale potevano piú gli avversari del cardinale de' Medici, avea nel tempo medesimo convenuto con lui, per insino a tanto venisse in Italia il pontefice e piú oltre a suo beneplacito, ritenesse lo stato ricuperato, non molestasse né i fiorentini né i sanesi, né andasse agli stipendi né altrimenti in aiuto di principe alcuno.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.13

                                                  

                                                 Perdita di Alessandria e di Asti da parte dei francesi. Svizzeri al soldo del re di Francia in marcia per il ducato di Milano. Fanti tedeschi soldati da Cesare e dai milanesi. Prediche di frate Andrea Barbato contro i francesi. Provvedimenti di guerra di Prospero Colonna a Milano. Movimenti dei franco-veneziani; Giovanni de' Medici passato ai francesi. Tenacia dei milanesi nel sopportare le strettezze a cui son costretti dai provvedimenti del Lautrech.

                                                  

                                                 Erano insino a ora procedute quietamente le cose di Lombardia, mancando all'una delle parti le genti all'altra i danari, e però non volendo i soldati imperiali, non pagati, partirsi da' loro alloggiamenti. Solamente fu mandato alla espugnazione di Alessandria, con la compagnia sua e con altri soldati e sudditi del ducato di Milano, Giovanni da Sassatello; il quale nel principio della guerra, avendo permutato il bene certo con le speranze incerte, partito dal soldo de' viniziani si era condotto col duca di Milano, esule ancora del suo stato: dove essendosi accostato, la temerità de' guelfi alessandrini, da' quali era difesa la terra piú che da' soldati franzesi, fece facile quel che da tutti si riputava difficile; perché non potendo sostenere gli inimici co' quali erano usciti a scaramucciare, dettono loro occasione di entrare alla mescolata nella città, la quale andò in preda de' vincitori. E con la medesima facilità furono, pochi dí poi, cacciate di Asti alcune genti de' franzesi, entratevi per introduzione di alcuni de' guelfi della terra.

                                                 Ma già a questa breve e sospetta quiete apparivano approssimarsi princípi di grandissimi travagli: perché, se bene nelle diete de' svizzeri fusse stata sopra le dimande del re di Francia grandissima contenzione, stando ostinati contro a lui i cantoni di Zurich e di Svith, quello di Lucerna disposto totalmente per lui, gli altri divisi intra se medesimi, e perturbando le cose publiche l'avarizia de' privati, de' quali molti dimandavano al re chi pensione chi crediti antichi, avevano finalmente concedutogli i fanti dimandati per la recuperazione del ducato di Milano; i quali in numero di piú di diecimila calavano già in Lombardia condotti dal bastardo di Savoia e da Galeazzo da San Severino (questo grande scudiere, quello gran maestro di Francia), per le montagne di San Bernardo e di San Gotardo.

                                                 Contro a questo movimento, Cesare, il quale aveva ricevuto in prestanza non piccola somma di danari dal re di Inghilterra, alienatosi dall'amicizia franzese, avea mandato a Trento Ieronimo Adorno a soldare seimila fanti tedeschi, per condurgli insieme con la persona di Francesco Sforza a Milano; la venuta del quale era in quel tempo stimata di molto momento, per tenere piú fermo Milano e l'altre terre dello stato che sommamente lo desideravano, e per facilitare l'esazione de' danari con l'autorità e grazia sua, de' quali vi era estrema carestia. Nel qual tempo medesimo, essendo incognito a Milano il provedimento fatto da Cesare, aveano i milanesi mandato danari a Trento per soldare quattromila fanti: i quali essendo già preparati quando l'Adorno vi pervenne, egli, mentre che gli altri seimila si soldavano, si mosse subito con questi verso Milano, per scendere per Valle Voltolina a Como; ma negandogli i grigioni il passare, passò all'improviso e con tanta celerità nel territorio di Bergamo, e di quivi nella Ghiaradadda, che i rettori de' viniziani che erano in Bergamo non furono a tempo a impedirlo; e condottigli a Milano, ritornò con la medesima celerità a Trento, per menare Francesco Sforza e gli altri fanti a Milano. Nella quale città si attendeva, oltre all'altre provisioni, con grande studio ad accrescere l'odio del popolo, che era grandissimo, contro a' franzesi, acciò che e' fussino piú pronti alla difesa e a soccorrere co' danari propri le publiche necessità; cosa molto aiutata, con lettere finte con imbasciate false e con molte arti e invenzioni, dalla diligenza e astuzia del Morone. Ma giovorono anche, piú che non si potrebbe credere, le predicazioni di Andrea Barbato frate dell'ordine di Santo Agostino; il quale, predicando con grandissimo concorso del popolo, gli confortava efficacissimamente alla propria difesa e a conservare la patria loro libera dal giogo de' barbari inimicissimi di quella città, poiché da Dio era stato conceduto loro facoltà di liberarsene. Allegava lo esempio di Parma, piccola e debole città a comparazione di Milano; ricordava gli esempli de' loro maggiori, il nome de' quali era stato glorioso in tutta Italia; quello che gli uomini erano debitori alla conservazione della patria, per la quale se i gentili, che non aspettavano altro premio che della gloria, si mettevano volontariamente alla morte, che dovevano fare i cristiani, a' quali morendo in sí santa opera era oltre alla gloria del mondo proposta per premio vita immortale nel regno celeste? Considerassino che eccidio porterebbe a quella città la vittoria de' franzesi, i quali se prima, senza alcuna cagione, erano stati tanto acerbi e molesti loro, che sarebbono ora che si reputavano sí gravemente offesi e ingiuriati? Non potere saziare la crudeltà e l'odio immenso alcuni supplíci del popolo milanese, non empiere l'avarizia tutte le facoltà di quella città, non avere a stare mai contenti se non spegnessino in tutto il nome e la memoria de' milanesi, se con orribile esempio non avanzassino la fiera immanità di Federigo Barbarossa. Donde, tanto immoderatamente era augumentato l'odio de' milanesi, tanto lo spavento della vittoria de' franzesi, che già fusse necessario attendere piú a temperargli che a provocargli.

                                                 Attendeva in questo mezzo Prospero con grandissima diligenza a riordinare e instaurare i bastioni e i ripari de' fossi, con intenzione di fermarsi in Milano; nella quale città, quando bene non fussino venuti i seimila tedeschi, sperava potersi sostenere per qualche mese: e pensando alla difensione dell'altre terre, aveva mandato in Novara Filippo Torniello, in Alessandria Monsignorino Visconte, l'uno con dumila l'altro con mille cinquecento fanti italiani, i quali per non essere pagati si sostentavano colle sostanze de' popoli; a Pavia Antonio da Leva con dumila fanti tedeschi e mille italiani; e con lui rimanevano in Milano settecento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e dodicimila fanti. Restava il pericolo imminente che i franzesi non entrassino per il castello in Milano. Al quale pericolo per provedere, e per privargli con un fatto medesimo della facoltà di mettere nel castello vettovaglie o altre provisioni, fece, con invenzione celebrata sommamente e quasi a' giudici degli uomini maravigliosa, lavorare fuora del castello, tra le porte che vanno a Vercelli e a Como, due trincee, alzando a ciascuna, della terra che si cavava da' quelle, uno argine; la lunghezza de' quali, distanti l'uno dall'altro circa venti passi, si distendeva circa un miglio, tanto quanto era il traverso del giardino dietro al castello tra le due strade predette; e a ciascuna delle teste delle trincee uno cavaliere molto alto e munito, per potere, con l'artiglierie che si piantassino sopra quegli, danneggiare gli inimici se si accostassino da quella parte: le quali trincee e ripari, difese da fanti alloggiati in mezzo di quelle, impedivano in uno tempo medesimo che nel castello non potesse entrare soccorso alcuno e che niuno degli assediati potesse uscirne. La quale invenzione dovere essere non meno felice che ingegnosa dimostrò nel principio, con lieto augurio, la fortuna, concedendo che senza danno alcuno si potesse mettere in esecuzione; perché essendo caduta in terra una neve grandissima, Prospero, usando il beneficio del cielo, fece innanzi dí lavorare di neve due argini, alla similitudine de' quali voleva si facessino i ripari, da' quali rimanevano sicuri i lavoranti di non potere essere offesi dall'artiglierie che erano nel castello: le quali opere che si conducessino a perfezione dette comodità maggiore lo impedimento che dall'essere le montagne coperte di copia grandissima di neve riceveano i svizzeri a passarle.

                                                 Nel quale tempo Lautrech, avendo con alcune genti mandate di là da Po fatto svaligiare in Firenzuola la compagnia de' cavalli leggieri di Luigi da Gonzaga, trovata negligentemente a dormire, riordinava le genti sue; e quelle de' viniziani, sotto Andrea Gritti e Teodoro da Triulzi, si raccoglievano intorno a Cremona: le quali, finalmente unite co' svizzeri, passorono il fiume dell'Adda il primo dí di marzo; essendo capo dello esercito Lautrech, all'autorità del quale non era derogato per la venuta del gran maestro e del grande scudiere. Venne a questo esercito nel tempo medesimo Giovanni de' Medici; il quale, benché condotto a soldi di Francesco Sforza si fusse mosso per andare a Milano, ove era aspettato con sommo desiderio per la espettazione grande che si aveva della sua ferocia, nondimeno, stimolato dagli stipendi maggiori e piú certi del re di Francia e allegando, per colore della sua cupidità, il non gli essere stati mandati i danari promessi da Milano, del parmigiano, ove avea saccheggiato la terra di Busseto perché ricusava di alloggiarlo, passò nel campo de' franzesi; il quale alloggiò due miglia appresso al castello tralle medesime vie Vercellina e Comasina. Messonsi, il terzo giorno che erano venuti, in ordinanza, facendo sembiante di volere dare la battaglia al riparo; il che non posono a effetto, o perché cosí fusse da principio la mente di Lautrech o perché, considerato il numero de' soldati che erano dentro, la disposizione del popolo e la prontezza che appariva de' difensori, se ne rimovesse, per la difficoltà manifesta della cosa: ma il dí medesimo, i sassi di una casa battuta dall'artiglieria di dentro ammazzorono Marcantonio Colonna, capitano di grandissima espettazione, e Cammillo Triulzio figliuolo naturale di Gianiacopo, che presso a quella casa passeggiavano insieme, ordinando di fare lavorare un cavaliere per potere tirare con l'artiglierie tra i due ripari degli inimici. Ma Lautrech, non confidando di spugnare Milano, pensava potere con la lunghezza del tempo pervenire alla vittoria; perché, per la moltitudine de' suoi cavalli e con tanti fuorusciti che lo seguitavano, facendo correre per la maggiore parte del paese, dava impedimento assai che non vi entrassino vettovaglie, avea fatto rompere tutti i mulini, e derivato l'acque de' canali da' quali quella città riceve grandissime comodità. Sperava similmente che a' soldati di dentro avessino a mancare gli stipendi; i quali si sostenevano co' danari pagati da' milanesi, perché da Cesare e del reame di Napoli e di altro luogo ne era mandata piccolissima quantità. Ma era maraviglioso l'odio del popolo milanese contro a' franzesi, maraviglioso il desiderio del nuovo duca: per le quali cose, tollerando pazientemente qualunque incomodità, non solo non mutavano volontà per tante molestie ma messa in arme la gioventú ed eletti per ciascuna parrocchia capitani, concorrendo prontissimamente dí e notte le guardie a' luoghi remoti dall'esercito, alleggerivano molto le fatiche de' soldati. Nel qual tempo essendo, per la ruina delle mulina, mancata la farina, providdono presto con le mulina a secco a questa incomodità.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.14

                                                  

                                                 Il duca di Milano da Trento a Pavia; posizioni degli eserciti nemici e fazioni di guerra; il duca a Milano; calorose accoglienze della popolazione. Il Lautrech sotto Pavia; quindi a Monza; malcontento e proteste degli svizzeri. Assalti sfortunati delle milizie francesi alla Bicocca. Conseguenze della sconfitta. Nuovi insuccessi dei francesi nel ducato di Milano. Caduta di Genova nelle mani degli imperiali.

                                                  

                                                 Cosí ridotta la guerra da speranza di presta espugnazione a cure e fatiche di lungo assedio, il duca di Milano, la partita del quale per mancamento di danari si era differita molti dí, e si sarebbe differita piú lungamente se il cardinale de' Medici non l'avesse sovvenuto di novemila ducati, partito finalmente da Trento co' seimila fanti tedeschi, e occupata, per aprirsi il passo, la rocca di Croara sottoposta a' viniziani, passò senza ostacolo per il veronese; donde per il mantovano, passato Po a Casalmaggiore, giunse a Piacenza e, seguitandolo di quivi il marchese di Mantova con trecento uomini d'arme della Chiesa, si fermò a Pavia, stando intento alla occasione di passare a Milano; ove estremamente era desiderata la venuta sua, perché, diminuendo ogni dí piú la facoltà del fare danari per sostentare le genti, si giudicava necessario unirsi il piú presto che si potesse, co' tedeschi, per uscire in campagna e cercare di terminare la guerra. Ma era difficile il passare, perché Lautrech, come intese essere arrivati a Piacenza, era andato ad alloggiare a Casino, cinque miglia lontano da Milano in su la strada di Pavia; avendo messo i viniziani a Binasco in su la medesima strada, e l'uno e l'altro esercito in alloggiamento bene riparato e fortificato. Dove poi che furono dimorati qualche dí, avendo in questo tempo preso Santo Angelo e San Colombano, Lautrech, inteso che lo Scudo suo fratello, tornato con danari di Francia, dove era andato a dimostrare al re lo stato delle cose, soldati fanti a Genova, era arrivato nello stato di Milano, mandò a unirsi con lui Federigo da Bozzole con quattrocento lancie e settemila fanti tra svizzeri e italiani. Per la venuta de' quali, il marchese di Mantova, uscito di Pavia, andò a Gambalò per opporsi loro; ma o, avendo essi mostrato per il sospetto, come diceva egli, di ritirarsi verso il Tesino, non giudicando piú necessaria la stanza sua a Gambalò o, come piú presto credo, temendo di loro per essere piú grossi di quello gli era stato referito, se ne ritornò in Pavia: ma loro, venuti a Gambalò e uniti con lo Scudo, se ne andorono a Novara; e prese l'artiglierie della rocca che si teneva per loro, avendola battuta, la presono per forza al terzo assalto, con la morte della piú parte de' fanti che vi erano dentro, e restato prigione Filippo Torniello. Per il quale caso il marchese di Mantova, il quale, sollecitato da lettere e spessi messi del Torniello che andasse a soccorrerlo, era uscito di nuovo di Pavia, subito che n'ebbe notizia, cavate le sue genti di Vigevano, lasciata solamente guardata la rocca, ritornò a Pavia. Nocé, in caso piú importante, l'unirsi con lo Scudo e l'acquisto di Novara a' franzesi, perché facilitò l'andata di Francesco Sforza co' fanti tedeschi a Milano. Il quale convenutosi con Prospero, partito occultamente una notte di Pavia, alla guardia della quale restorno [dumila] fanti col marchese di Mantova, (il quale, negando d'allontanarsi tanto dallo stato della Chiesa, recusò di procedere piú oltre), e camminando per altra strada che per la diritta, fu raccolto a Sesto da Prospero; il quale, uscitogli incontro con una parte delle genti, lo condusse a Milano: dove è incredibile a dire con quanta letizia fusse ricevuto dal popolo milanese, rappresentandosi innanzi agli occhi degli uomini la memoria della felicità con la quale era stato quel popolo sotto il padre e gli altri duchi Sforzeschi, e desiderando sommamente d'avere uno principe proprio come piú amatore de' popoli suoi, come piú costretto ad avere rispetto e fare estimazione de' sudditi né disprezzargli per la grandezza immoderata.

                                                 La partita del duca da Pavia dette speranza a Lautrech di potere espugnare quella città; però, raccolto subitamente l'esercito, vi andò a campo; e da altra parte Prospero, conoscendo il pericolo manifesto, vi mandò con somma celerità mille fanti còrsi e alcuni fanti spagnuoli: i quali giunti allo improviso in su gli alloggiamenti dello esercito franzese, passati per quello, parte combattendo parte camminando, e ammazzatine molti, si ridussono salvi in Pavia; dove oltre all'altre incomodità era carestia grande di polvere di artiglierie. Batteva intanto Lautrech le mura di Pavia da due parti, cioè al borgo di Santa Maria in Pertica verso il Tesino e a Borgoratto; e avendo gittato in terra trenta braccia di muro, dicono alcuni che a' dieci dí dette l'assalto invano, altri che non lo tentò, veduto quegli di dentro bene ripararsi e disposti a difendersi. Aggiugnevansegli molte difficoltà: l'essere già cominciati a mancare i danari i quali il gran maestro aveva condotti di Francia; carestia non piccola di vettovaglie, causata dalle pioggie grandissime per le quali era molto difficile il venirne all'esercito per terra né manco difficile il venirne su per il Tesino, perché le barche urtate dall'acque del fiume troppo grosse non potevano andare innanzi contro all'impeto del suo corso. Nel quale tempo Prospero, uscito con tutto lo esercito di Milano per accostarsi a Pavia, impedito dalle pioggie medesime, si era fermato a Binasco che è a mezzo il cammino tra Milano e Pavia; donde poi essendosi spinto alla Certosa che è nel barco a cinque miglia di Pavia, monasterio forse piú bello che alcuno altro che sia in Italia, Lautrech non sperando piú di pigliare Pavia, si ritirò col campo a Landriano, non molestato nel levarsi dagli inimici se non con leggiere scaramuccie. Da Landriano andò a Moncia, per ricevere piú facilmente i danari che gli erano mandati di Francia; i quali si erano fermati ad Arona, perché Anchise Visconte, mandato da Milano a questo effetto a Busto presso ad Arona, impediva non venissino piú innanzi. Questa difficoltà ridusse in ultimo disordine le cose de' franzesi. Perché i svizzeri, i pagamenti de' quali erano ritardati già molti dí, impazienti secondo il costume loro, mandorono i loro capitani a Lautrech a querelarsi gravemente che, essendo stata quella nazione prodiga in ogni tempo del sangue proprio per la esaltazione della corona di Francia, fusse contro a ogni giustizia mancato loro de' debiti pagamenti e dimostrato, con questa ingratitudine e avarizia, a tutto il mondo quanto poco fusse stimato la virtú e la fede loro: essere deliberati, avendo aspettato tanti dí invano, non aspettare piú termine alcuno, né fidarsi di quelle promesse che replicate tante volte gli erano mancate; però volere ritornarsene assolutamente alle case loro, ma fatto prima manifesto a tutto il mondo che non gli induceva a questo il timore dello essere usciti in campagna gli inimici né il desiderio di fuggire i pericoli a' quali sono sottoposti gli uomini militari, disprezzati sempre mai, come per tante esperienze si era veduto, da' svizzeri. Notificargli che erano pronti a combattere il dí seguente, con intenzione di partirsi poi l'altro dí: menassegli a trovare gli inimici, usasse l'occasione della prontezza loro mettendogli nella prima fronte di tutto l'esercito; sperare che, avendo vinto con forze molto minori nel proprio alloggiamento lo esercito franzese intorno a Novara, vincerebbono anche nel loro alloggiamento gli spagnuoli, i quali se bene di astuzie di fraudi e di insidie avanzavano i franzesi, non gli reputavano già superiori dove si combattesse con la ferocia del cuore e con la virtú dell'armi. Sforzossi Lautrech, considerando con quanto pericolo si andasse ad assaltare li inimici nelle fortezze loro, di temperare questo furore, dimostrando non per difetto del re ma per i pericoli del cammino procedere la tardità de' danari, i quali nondimeno arriverebbono fra pochissimi dí; ma non potendo convincergli o fermargli, né con l'autorità né co' prieghi né con le promesse né con le ragioni, deliberò piú presto, avendo massime a essere il primo pericolo loro, con disavvantaggio grande tentare la fortuna della giornata che, ricusando di farla, perdere totalmente la guerra, come era manifesto che si perdeva poiché, non consentendo di combattere, i svizzeri avevano determinato di partirsi.

                                                 Alloggiava l'esercito degli inimici alla Bicocca, villa propinqua tre miglia poco piú o meno a Milano ove risiede un casamento assai spazioso, circondato di giardini non piccoli che hanno per termine fosse profonde; i campi che sono attorno sono pieni di fonti e di rivi, condotti, secondo l'uso di Lombardia, a innaffiare i prati. Verso il quale luogo camminando da Moncia Lautrech con l'esercito, e pensando che gli inimici avendo l'alloggiamento tanto forte starebbono fermi alla difesa di quello, aveva ordinato l'assalto in questo modo: che i svizzeri con l'artiglierie andassino ad assaltare la fronte dell'alloggiamento e le artiglierie degli inimici, nel quale luogo erano a guardia i fanti tedeschi guidati da Giorgio Frondsperg; che dalla mano sinistra lo Scudo, con trecento lancie e con uno squadrone di fanti franzesi e italiani, camminasse per la via che andava a Milano, verso il ponte per il quale si poteva entrare nello alloggiamento degli inimici: egli tolse l'assunto di ingegnarsi di entrare con uno squadrone di cavalli nello alloggiamento degli inimici, piú con artificio che con aperta forza, perché per ingannargli comandò che ciascuno de' suoi mettesse in su la sopravesta la croce rossa, segnale dello esercito imperiale, in cambio della croce bianca segnale dello esercito franzese. Da altra parte Prospero Colonna, tenendo, per la fortezza del sito, per certa la vittoria, e perciò deliberato di aspettare (cosí diceva) gli inimici al fossone, fatto, come intese la venuta loro, armare l'esercito e distribuito ciascuno a' luoghi suoi, mandò subito a Francesco Sforza che con la moltitudine armata del popolo venisse senza indugio all'esercito; il quale, raccolti al suono della campana quattrocento cavalli e seimila fanti, fu da lui come giunse collocato alla guardia del ponte. Ma i svizzeri, come si furno accostati all'alloggiamento, con tutto che per l'altezza delle fosse, piú eminente che essi non aveano creduto, non potessino, come era la prima speranza, assaltare l'artiglierie, non diminuita per questo l'audacia, assaltorno il fosso sforzandosi con ferocia grande di salirvi; e nel tempo medesimo lo Scudo andato verso il ponte, trovandovi fuora della opinione sua guardia sí grande, fu costretto di ritirarsi. Scoperse anche prestamente Prospero l'arte di Lautrech; e perciò, fatto comandamento a' suoi che si mettessino in su la testa fasci di spighe e di erbe, fece inutili le insidie sue: donde restando tutto il pondo della battaglia a' svizzeri, che per la iniquità del sito e per la virtú de' difensori si affaticavano senza fare frutto alcuno, ricevendo grandissimo danno non solo da quegli che combattevano alla fronte ma da molti archibusieri spagnuoli, i quali occultatisi tra le biade già presso che mature fieramente per fianco gli percotevano, furno finalmente, poi che con molta uccisione ebbono pagata la mercede della loro temerità, necessitati a ritirarsi, e uniti co' franzesi ritornorno tutti insieme, con gli squadroni ordinati e con l'artiglierie, a Moncia, non ricevendo nel ritirarsi danno alcuno. Importunavano, il marchese di Pescara e gli altri capitani, Prospero che, poi che gli inimici aveano voltate le spalle, desse il segno di seguitargli; ma egli, credendo quel che era, che si ritirassino ordinatamente e non fuggendo, e certificatone tanto piú per la relazione di alcuni che per comandamento suo salirno in su certi alberi alti, rispose sempre non volere rimettere alla potestà della fortuna la vittoria già certamente acquistata né cancellare con la temerità sua la memoria della temerità d'altri. - Il dí di domani - disse - chiaramente vi mostrerà quel che si sia fatto questo giorno, perché gli inimici, sentendo piú le ferite raffreddate, perduti d'animo passeranno i monti: cosí senza pericolo conseguiteremo quel che oggi tenteremmo ottenere con pericolo. - Morirno de' svizzeri intorno al fosso circa tremila, di quegli che per essere piú valorosi e feroci si messono piú prontamente al pericolo, e ventidue capitani; degli inimici morirno pochissimi, né persona alcuna di qualità eccetto Giovanni di Cardona conte di Culisano, percosso di uno scoppietto nell'elmetto. Il dí seguente Lautrech, perduta interamente la speranza della vittoria, si levò da Moncia per passare il fiume dell'Adda appresso a Trezzo: donde i svizzeri, preso il cammino per il territorio di Bergamo, ritornorno alle loro montagne; diminuiti di numero ma molto piú di audacia, perché è certo che il danno ricevuto alla Bicocca gli afflisse di maniera che per piú anni poi non dimostrorno il solito vigore. Partirono insieme con loro il grande scudiere e il gran maestro e molti de' capitani franzesi, Lautrech con le genti d'arme andò a Cremona per ordinare la difesa di quella terra; ove lasciato il fratello passò pochi dí poi i monti, riportando al re di Francia non vittorie o trionfi ma giustificazione di sé proprio e querele di altri, per la perdita di uno stato tale, perduto parte per colpa sua parte per negligenza e imprudenti consigli di quegli che erano appresso al re, parte, se è lecito a dire il vero, per la malignità della fortuna.

                                                 Ordinò ancora Lautrech, innanzi partisse da Cremona, che nella città di Lodi, la quale in tutta la guerra si era tenuta per il re, entrassino con sei compagnie di gente e con presidio sufficiente di fanti Buonavalle e Federigo da Bozzole, perché i capitani cesarei erano stati impediti a voltarvi subito l'armi da uno tumulto nato da' fanti tedeschi che insieme con Francesco Sforza erano venuti da Trento, i quali dimandavano che per premio della vittoria fusse donato loro lo stipendio di un mese; cosa che i capitani dicevano essere dimandata indebitamente, perché era differente il difendersi da chi assalta a vincere gli assaltatori, né potersi dire essere stati rotti o vinti gli inimici i quali si erano ritirati non fuggendo ma cogli squadroni ordinati e salve l'artiglierie e impedimenti; ma potendo piú la insolenza de' tedeschi che la ragione o l'autorità de' capitani, furno alla fine costretti di consentire, promettendo di pagargli fra certo tempo. Ma essendosi in questa cosa consumati piú dí, accadde che il dí medesimo che le lancie franzesi erano entrate nella città, dietro alle quali venivano i fanti, veniva dall'altra parte l'esercito imperiale, e innanzi a tutti il marchese di Pescara colla fanteria spagnuola, non avendo per ancora i franzesi distribuite tra loro le guardie, anzi pieni tuttavia di confusione e di tumulto, come accade quando entrano ad alloggiare le genti d'arme in una terra; la quale occasione usando il marchese, con grandissima celerità assaltò uno borgo della città cinto di muraglia, nel quale, difeso leggiermente, entrato con piccola fatica, tutti i franzesi che erano nella città, spaventati da questo caso e perché ancora non erano entrati i fanti loro, si messono tumultuosamente in fuga verso il ponte che avevano gittato in su Adda; e gli spagnuoli, entrati nel tempo medesimo nella città per le mura e per i ripari, gli seguitorono insino al fiume, presi nella fuga molti soldati e, da Federico e Buonavalle infuori, quasi tutti i capitani: e col medesimo impeto saccheggiorno quella infelice città. Da Lodi andato il marchese a Pizzichitone l'ottenne a patti, e poco dipoi Prospero passò con tutto l'esercito il fiume dell'Adda per andare a campo a Cremona. Alla quale città come fu accostato, lo Scudo inclinò l'animo alla concordia: perché non avendo altra speranza di sostentarsi che la venuta dell'ammiraglio, il quale il re, desideroso di conservare quel che per lui si teneva ancora in quello stato, mandava in Italia con quattrocento lancie e diecimila fanti, assai provedeva alle cose sue se, senza mettersi in pericolo, poteva oziosamente aspettare quel che partoriva la sua venuta; e Prospero, da altra parte, desiderava spedirsi presto delle cose di Cremona per potere, innanzi che 'l soccorso degli inimici in Italia pervenisse, tentare di rimettere i fratelli Adorni in Genova. Convennono adunque che lo Scudo si partisse fra quaranta dí, con tutti i soldati, di Cremona, avendo facoltà di uscirne con le bandiere spiegate e con l'artiglierie, se infra 'l detto tempo, il quale terminava il vigesimo sesto dí di giugno, non veniva soccorso tale che passasse per forza il fiume del Po o pigliasse una delle città dello stato di Milano nella quale fusse presidio; procurasse similmente che fusse abbandonato tutto quello che in nome del re si teneva nel ducato di Milano eccettuate da questa promessa le fortezze di Milano di Cremona e di Novara: per l'osservanza delle quali cose prestasse [quattro] statichi: restituissinsi nel caso predetto i prigioni da ciascuna delle parti, e a' franzesi fusse conceduto il passare con l'artiglierie e robe loro sicuramente in Francia. Fatta la concordia e ricevuti gli staggi, l'esercito cesareo si mosse subito verso Genova; alla quale si accostò da due lati: il marchese di Pescara co' fanti spagnuoli e italiani dalla parte del Codifaro, Prospero con le genti d'arme e co' fanti tedeschi alloggiò dalla parte opposita di Bisagna.

                                                 Reggevasi la città di Genova sotto il governo del doge Ottaviano Fregoso, principe certamente di eccellentissima virtú, e per la giustizia sua e altre parti notabili amato tanto in quella città quanto può essere amato uno principe nelle terre piene di fazioni e nelle quali non è ancora del tutto spenta nelle menti degli uomini la memoria della antica libertà. Aveva soldati [dumila] fanti italiani, ne' quali soli si collocava la speranza del difendersi, perché il popolo della terra, diviso nelle sue parti, con tutto che avesse intorno uno esercito tanto potente e mescolato di lingue tanto varie, risguardava oziosamente il progresso della cosa, con quegli occhi medesimi che era solito per il passato a riguardare gli altri travagli loro: ne' quali, senza pericolo o danno di coloro che non prendevano l'armi, traportandosi l'autorità publica di una famiglia in un'altra, non si vedeva altra mutazione che nel palagio ducale altri abitatori, altri capitani e soldati alla custodia della piazza. Accostato che fu l'esercito alla terra, cominciò subito il doge a trattare di concordia, mandato a' capitani Benedetto di Vivaldo genovese; ma si raffreddò alquanto la pratica per la venuta di Pietro Navarra, il quale, mandato dal re di Francia con due galee sottili al presidio di Genova, entrò nel tempo medesimo nel porto. Nondimeno, avendo cominciato il Davalo a percuotere con l'artiglierie la muraglia, si ritornò con maggiore efficacia a' ragionamento del convenire; e già rimasti in concordia non appariva piú alcuna difficoltà, quando i fanti spagnuoli, che avevano quel dí battuto una torre presso alla porta, essendo negligenti quegli di dentro alla guardia, forse per la speranza dello accordo, la occuporno, e parte per quella, parte per il muro rovinato, cominciorno senza indugio a entrare nella città: per il che, concorrendovi tutta quella parte dell'esercito, il marchese, messi i soldati in ordinanza e mandato a significare a Prospero il successo, dato il segno entrò nella città; nella quale, attendendo tutti i soldati e i cittadini chi a fuggire chi a rinchiudersi nelle case, non si faceva alcuna resistenza. L'arcivescovo di Salerno e il capitano della guardia con molti cittadini e soldati, saliti in su le navi, si allargorno nel mare; il doge, il quale per la infermità non si poteva muovere, fatto chiudere il palazzo mandò a costituirsi in potestà del marchese di Pescara, appresso al quale morí non molti mesi poi. Fu preso Pietro Navarra, tutte le sostanze della città andorno in preda de' vincitori; molte famiglie ricche obligandosi, chi a questa compagnia di soldati chi a quella, di pagare quantità grande di danari, e assicurandole o con pegni o con cedole di mercatanti, ricomperorno che le case loro non fussino saccheggiate. Salvossi nel medesimo modo il catino, tanto famoso, che con grandissima riverenza si conserva nella chiesa cattedrale. La preda fu inestimabile, di argenti di gioie di danari e di ricchissima supellettile, essendo quella città, per la frequentazione della mercatura, piena di infinite ricchezze. In questo fu manco acerba tanta calamità, che per i prieghi de' fratelli Adorni, perché la città non avea fatto segno alcuno di inimicizia, e perché si poteva dire che già fusse convenuta, i capitani proveddero che niuno genovese fusse fatto prigione e che non fusse violata alcuna donna. Fu eletto doge di Genova Antoniotto Adorno; il quale, partito che fu l'esercito, con l'artiglierie prestategli da' fiorentini accampatosi al Castelletto, prese il terzo dí la cittadella e la chiesa di San Francesco, e il dí seguente il Castelletto, datogli con certe condizioni dal castellano. La mutazione di Genova privò interamente il re di Francia di speranza di potere soccorrere le cose di Lombardia: perciò l'esercito mandato di nuovo da lui, il quale era pervenuto nello astigiano, ritornò di là da' monti; e lo Scudo, benché soprasedesse oltre al termine convenuto qualche dí, per alcune difficoltà che nacquono sopra le fortezze di Trezzo di Lecco e di Domodossola, resolute che furno queste, passò con le genti in Francia; osservatagli non solamente la fede, ma per tutto onde passò onoratamente ricevuto e trattato.

                                                  

                                                 Lib.14, cap.15

                                                  

                                                 Fallito tentativo del Bentivoglio contro Bologna. Vani tentativi di mutamenti di governo in Siena ed in Firenze. Pericoloso accidente in Lucca. Sigismondo Malatesta occupa Rimini.

                                                  

                                                 Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano in Lombardia, per i travagli di quella parte e per l'assenza del pontefice, non era stata del tutto quieta Bologna; ma molto meno quieta la Toscana. Perché a Bologna Annibale Bentivoglio e con lui Annibale Rangone, raccolti nascostamente circa quattromila uomini, si accostorno una mattina in sull'aurora, con tre pezzi di artiglieria, dalla parte de' monti, e non sentendo farsi per quegli di dentro strepito alcuno, molti passorono il fosso e appoggiorono le scale alle mura: ma quegli di dentro, che il dí davanti avevano presentita la loro venuta, levato quando parve tempo il romore, e cominciato a dare fuoco all'artiglierie e uscendo molti di fuora ad assaltargli, si messono subitamente in fuga, lasciate l'artiglierie; e nel fuggire fu ferito dalla parte di dietro Annibale Rangone. Credettesi quasi per certo che questa cosa fusse stata tentata con saputa del cardinale de' Medici; il quale, temendo che il pontefice, o per proprio consiglio o per suggestione di altri, non cercasse, come fusse venuto in Italia, di diminuire la sua grandezza, avesse desiderato che, perturbato da tanta iattura dello stato ecclesiastico non solamente avesse necessità di dare opera ad altro che a perseguitarlo ma fusse costretto a ricorrere a' consigli e aiuti suoi.

                                                 Ma molto piú lunghi e maggiori erano stati i travagli e pericoli di Toscana. Perché, appena assicurato dal duca d'Urbino lo stato di Siena e posate le cose di Perugia e di Montefeltro, era stato dato nuovo ordine, per suggestione del cardinale di Volterra, dal re di Francia che Renzo da Ceri, il quale si riposava ozioso in terra di Roma, tentasse di mutare lo stato di Firenze, rimettendo in quella città i fratelli e nipoti del cardinale di Volterra, dichiarato con tutti i suoi amico e confederato del re: i danari necessari alla quale impresa, perché il re allora era costituito in somma necessità, si doveano numerare dal cardinale, ricevendo promessa dal re che gli avessino a essere restituiti a certo tempo. Le quali cose, mentre che Renzo si prepara per muoversi, pervenute a notizia del cardinale de' Medici, lo costrinsono, per timore che medesimamente il duca di Urbino non si movesse, a convenire che, senza pregiudicio delle ragioni che i fiorentini e il duca pretendevano nelle terre del Montefeltro, il duca fusse capitano generale di quella republica per uno anno fermo, e un altro di beneplacito, cominciando la sua condotta al principio del prossimo settembre. Condusse per la medesima cagione Orazio Baglione agli stipendi de' fiorentini, ma con condizione che la condotta sua non cominciasse prima che del mese di giugno, perché insino a quel tempo era obligato a' viniziani. La quale convenzione benché si facesse eziandio in nome di Malatesta suo fratello nondimeno non si ratificava da lui, perché avendo ricevuti prima danari per congiugnersi, con dumila fanti e cento cavalli leggieri, con Renzo da Ceri, né voleva mancare apertamente all'onore proprio né da altra parte provocarsi con cagioni nuove l'inimicizia del cardinale e de' fiorentini: però, fingendo di essere infermato, mandò a Renzo, che era venuto a Castel della Pieve, duemila fanti cento cavalli leggieri e quattro falconetti, scusandosi che per la infermità non poteva andare personalmente; e al cardinale dava speranza di non prendere piú dagli inimici nuovi danari, di ratificare, finito il tempo per il quale era pagato, la condotta fatta, e in quel mezzo procedere con maggiore moderazione potesse in quelle cose le quali non poteva, per i danari ricevuti, ricusare di fare. Entrò dipoi Renzo con cinquecento cavalli e settemila fanti nel territorio di Siena, seguitandolo i medesimi fuorusciti i quali avevano seguitato il duca di Urbino, per tentare la mutazione di quel governo: la quale se gli fusse succeduta, non si dubitava che, avendo per questo la facoltà di entrare per quella via nelle viscere del dominio fiorentino, gli sarebbe delle cose di Firenze succeduto il medesimo. Ma da altra parte i fiorentini, prevedendo questo pericolo e desiderando che gli inimici non si approssimassino a Siena, avevano mandato nel sanese tutte le genti loro sotto Guido Rangone, eletto per questo tumulto governatore generale dell'esercito; lo intento del quale era sforzarsi di fare perdere tempo agli inimici, a' quali si sapeva che se non avessino qualche prospero successo mancherebbono presto i danari, e nel tempo medesimo procurare quanto poteva di impedire loro le vettovaglie: però, governandosi secondo i progressi degli inimici, attendeva a mettere guardia ora in queste ora in quelle terre piú vicine del dominio sanese e fiorentino. Nella quale mutazione de' soldati da luogo a luogo accadde che andando la compagnia de' cavalli de' Vitelli da Torrita ad Asinalunga, riscontrandosi in trecento cavalli degli inimici, fu rotta, preso Ieronimo Peppolo luogotenente di Vitello con venticinque uomini d'arme e due insegne. Fu il primo movimento di Renzo contro alla città di Chiusi, città piú nobile per la memoria della sua antichità e de' fatti egregi di Porsena suo re che per le condizioni presenti; la quale terra non ottenuta, perché non avendo altre artiglierie che quattro falconetti era molto difficile lo spugnare terre difese da soldati, entrò piú innanzi tra Torrita e Asinalunga per appropinquarsi a Siena: ma non avendo nel mezzo delle terre inimiche comodità di vettovaglie, assaltò, per acquistarne per forza, il castello di Torrita guardato da cento uomini d'arme del conte Guido Rangone e da centocinquanta fanti; onde levatosi senza effetto, seguitando il suo cammino, andò a Montelifré e di quivi al Bagno a Rapolano lontano da Siena dodici miglia, nella qual città aveano i fiorentini messo insino da principio il conte di Pitigliano. Ma il conte Guido, interrompendo con la diligenza e con la celerità tutti i suoi disegni, entrò il medesimo dí in Siena con dugento cavalli leggieri, lasciato indietro l'esercito che continuamente lo seguitava. Però la vicinità del soccorso, l'essere in questa espedizione diminuita molto, e co' suoi medesimi e appresso agli inimici, la riputazione di Renzo, il sapersi essere ridotto in necessità grande di vettovaglie, toglievano l'animo a quelli che in Siena arebbono desiderato mutazione; e nondimeno si appresentò a mezzo miglio alle mura, dove poiché non si faceva sollevazione si levò in capo di uno dí: nel quale dí, ma dopo la sua levata, entrorono in Siena le genti de' fiorentini; e benché si mettessino a seguitarlo, disperate di potere giugnerlo perché aveva preso molto vantaggio, si fermorono, lasciando seguitarlo da' cavalli leggieri e da certo numero di fanti che prima erano in Siena, da' quali ricevette poco danno, ma camminando con celerità, e forse non meno per la fame che per il timore, lasciò l'artiglierie per la strada, le quali con grande infamia sua pervennono in potestà degli inimici. Fermossi, per riordinare le genti molto diminuite, ad Acquapendente, sicuro, perché sapeva le genti de' fiorentini avere rispetto a entrare nel dominio della Chiesa; ma essendogli mancati denari, e già disprezzandolo i cardinali Volterra, di Monte e di Como, co' quali per ordine del re di Francia si trattavano le cose sue, corse con quelle poche genti che gli erano restate a predare nella Maremma di Siena, dove dette invano la battaglia a Orbatello. Però i fiorentini, che avevano spinto l'esercito loro al ponte a Centina, che è il confine dello stato de' sanesi e quello della Chiesa, vedendo Renzo non dissolvere totalmente le genti, minacciavano di assaltare le terre sue; però il collegio de' cardinali, a' quali era molesto che questo incendio si appiccasse nello stato ecclesiastico, si interpose alla concordia, che fu parimenti grata a ciascuno: a' fiorentini per levarsi dalla spesa che si faceva senza frutto, a Renzo perché si trovava con piccola provisione e senza speranza di mettere insieme maggiori forze; declinando massimamente in Lombardia le cose de' franzesi. Né contenne l'accordo altro che promessa di non si offendere tra i fiorentini e sanesi da una parte e Renzo dall'altra, per la quale fu dato in Roma sicurtà di cinquantamila ducati per l'osservanza; e che delle prede fatte si stesse alla dichiarazione del pontefice quando fusse in Italia.

                                                 Era succeduto in Lucca, questa vernata medesima, pericoloso accidente. Perché Vincenzo di Poggio di famiglia nobile e Lorenzo Totti, sotto colore di discordie particolari ma incitati forse piú presto da ambizione e da povertà, prese le armi ammazzorono nel palagio publico il gonfaloniere di quella città, e di poi scorrendo per la terra ammazzorono alcuni altri cittadini loro avversari; con tanto timore universale che nessuno ardiva opporsi loro: nondimeno, cessato il primo impeto, cominciando quegli che avevano spaventati gli altri a temere, per la grandezza del delitto commesso, di se medesimi, e interponendosi molti cittadini, si uscirono con certe condizioni della città; della quale come furono usciti furono perseguitati da' lucchesi rigidissimamente per tutto.

                                                 Quietate come è detto le cose di Lombardia e di Toscana, ma essendo, per l'assenza del pontefice e per le discordie e ambizioni de' cardinali, negletta totalmente dal collegio la cura dello stato della Chiesa, Sigismondo figliuolo di Pandolfo Malatesta, antico signore di Rimini, occupò quasi solo, con debole intelligenza che aveva in Rimini, quella città: e benché, per instanza fattagli dal collegio, il cardinale de' Medici andasse a Bologna come legato di quella città, per ricuperare Rimini e riordinare l'altre cose molto turbate di Romagna, avuta promessa dal collegio che il marchese di Mantova capitano della Chiesa andrebbe in aiuto suo; nondimeno non si messe a effetto cosa alcuna, per mancamento di danari, e perché i cardinali che gli avversavano impedivano ogni deliberazione per la quale fusse per accrescersi la sua riputazione.

                                             

                                                 Lib.15, cap.1

                                                  

                                                 Timori che il re di Francia ritenti l'impresa del ducato di Milano; gli spagnuoli impongono contribuzioni agli stati italiani. Adriano VI a Roma. Cesare mira ad accordi coi veneziani; intimazione di tregua con Cesare del re d'Inghilterra al re di Francia. Cedola di privilegi di stato di Cesare ai fiorentini. Provvedimenti di Cesare contro i colpevoli della tentata sedizione in Ispagna. Caduta di Rodi in potere di Solimano. Rimini restituita al pontefice; assoluzione dalle censure del duca d'Urbino. Rinvestitura di Ferrara al duca d'Este. Resa del castello di Milano.

                                                  

                                                 La vittoria nuova contro a' franzesi, benché avesse quietato le cose di Lombardia, non aveva per ciò diminuito il sospetto che il re di Francia, essendo pacifico e intero il regno suo ed essendo ritornati salvi i capitani e le genti d'arme che aveva mandate in Italia, non avesse, innanzi passasse molto tempo, ad assaltare di nuovo il ducato di Milano; massime che erano, come prima, parati i svizzeri a andare agli stipendi suoi e il senato viniziano perseverava seco nella antica confederazione: per la considerazione del quale pericolo i capitani cesarei erano costretti a nutrire e a pagare l'esercito; cosa molto difficile, perché né da Cesare né del regno napolitano ricevevano danari, e lo stato di Milano era in modo esausto che non poteva per sé solo sostenere né tanti alloggiamenti né tante spese. Però, reclamando invano i popoli e il collegio de' cardinali, avevano mandato la maggiore parte delle genti ad alloggiare nello stato ecclesiastico; e passando per Roma don Carlo de Lanoi, destinato nuovamente, per la morte di don Ramondo di Cardona, viceré di Napoli, determinò, insieme con don Giovanni Manuel, che per tre mesi prossimi pagassino, ciascuno mese, lo stato di Milano ventimila ducati, i fiorentini quindicimila, genovesi ottomila, Siena cinquemila, Lucca quattromila: della quale tassa benché ciascuno esclamasse, nondimeno, per il timore che si aveva di quello esercito, fu necessario che fusse accettata da ciascuno; allegando essi essere cosa necessaria, perché dalla conservazione di quello dependeva la difesa d'Italia. Dopo il quale tempo fu rinnovata l'imposizione, ma di quantità molto minore.

                                                 Nel quale stato delle cose, Italia oppressa da continui mali e spaventata dal timore de' futuri maggiori, aspettava con desiderio la venuta del pontefice, come instrumento opportuno per l'autorità pontificale a comporre molte discordie e provedere a molti disordini. Il quale, supplicandolo Cesare (che passato ne' medesimi dí per mare in Spagna, e parlato in cammino col re di Inghilterra) lo aspettasse a Barzalona, dove voleva andare personalmente a riconoscerlo e adorarlo per pontefice, ricusò di aspettarlo: o dubitando per la distanza di Cesare, che ancora era nelle estreme parti della Spagna, non perdere tanto tempo che avesse poi a navigare per stagione sinistra, o per sospetto che Cesare non cercasse di fargli differire la passata sua in Italia o, come molti dissono, per non accrescere tanto l'opinione avuta di lui insino dal principio, che avesse a essere troppo dedito a Cesare, che gli difficultasse il trattare la pace universale de' cristiani, come avea deliberato di volere fare. Passò adunque per mare a Roma, dove entrò il vicesimo nono dí di agosto con concorso grandissimo del popolo e di tutta la corte; da' quali benché eccessivamente fusse desiderata la sua venuta (perché Roma senza la presenza de' pontefici è piú tosto simile a una solitudine che una città), nondimeno questo spettacolo commosse gli animi di tutti, considerando avere uno pontefice di nazione barbaro, inesperto al tutto delle cose d'Italia e della corte, né almeno di quelle nazioni le quali già per lunga conversazione erano familiari a Italia: la mestizia de' quali pensieri accrebbe che, alla venuta sua, la peste cominciata in Roma, il che era interpretato pessimo augurio del suo pontificato, fece per tutto l'autunno gravissimo danno. Fu la prima deliberazione di questo pontefice attendere alla recuperazione di Rimini, e comporre le controversie che il duca di Ferrara aveva avute co' due suoi prossimi antecessori: perciò mandò in Romagna mille cinquecento fanti spagnuoli, i quali per potere sicuramente passare il mare aveva condotti seco.

                                                 Alle quali cose mentre che attende, parendo [a] Cesare che allo stabilimento delle cose d'Italia importasse molto la separazione de' viniziani dal re di Francia, e sperando che quello senato, diminuita la speranza delle cose franzesi, avesse l'animo inclinato alla quiete né volesse per gli interessi di altri portare pericolo che la guerra si trasferisse nel suo dominio, comunicati i consigli col re di Inghilterra, il quale avendo prima prestato occultamente contro al re di Francia danari a Cesare, deposte poi le dissimulazioni, discendeva già apertamente nella causa, mandorono imbasciadori a Vinegia a ricercargli che si confederassino alla difesa d'Italia con Cesare; i quali furono, per Cesare Ieronimo Adorno, per il re di Inghilterra Riccardo Pacceo: e vi si aspettavano imbasciadori di Ferdinando fratello di Cesare, arciduca d'Austria; lo intervento del quale, per essere tra i viniziani e lui molte differenze, era necessario in qualunque accordo si facesse con loro. Mandò anche il re di Inghilterra uno araldo a protestare la guerra al re di Francia in caso non facesse tregua generale per tre anni con Cesare per tutte le parti del mondo nella quale fussino inclusi la Chiesa il ducato di Milano e i fiorentini; lamentandosi ancora che avesse cessato di pagargli i cinquantamila ducati i quali era obligato a pagargli ciascuno anno. Negò il re di volere fare la tregua, e apertamente rispose non essere conveniente pagare danari a chi aiutava con danari gli inimici suoi; donde augumentandosi tra loro gli sdegni si licenziorono gli imbasciadori da ciascuna delle parti.

                                                 Partí questo anno d'Italia don Giovanni Manuel, stato oratore cesareo a Roma con grandissima autorità. Il quale, alla partita, fece una cedola di sua mano a' fiorentini, nella quale cedola narrato che Cesare, per una cedola scritta di settembre l'anno mille cinquecento venti, promesse al pontefice Leone di riconfermare e di nuovo concedere a' fiorentini i privilegi dello stato, della autorità e delle terre possedevano, tra sei mesi dopo la prima dieta fatta dopo la incoronazione che si celebra in Aquisgrana, perché prima gli aveva promessi tra quattro mesi dalla sua elezione; e dicendo non potere espedirgli allora per giuste cause: le quali cose narrate, don Giovanni promesse in nome di Cesare. La quale cedola Cesare ratificò di marzo l'anno mille cinquecento ventitré, e ne fece l'espedizione per bolla in forma amplissima.

                                                 Passò Cesare, come è detto di sopra, questo anno in Spagna, dove arrivato, procedé severamente contro a molti che erano stati autori della sedizione, gli altri tutti assolvé e libero da tutte le pene: e per congiugnere con la giustizia e con la clemenza gli esempli della remunerazione, considerato che Ferdinando duca di Calavria, recusando di essere capitano della moltitudine concitata, non si era voluto partire della rocca di Sciativa, lo chiamò con grande onore alla corte, dandogli non molto poi per moglie Germana stata moglie del re cattolico, ricca ma sterile, acciò che in lui, ultima pregenie de' discendenti di Alfonso vecchio re di Aragona, si estinguesse quella famiglia; perché due suoi fratelli di età minore erano prima morti, l'uno in Francia l'altro in Italia.

                                                 Ma quello che fece infelice questo medesimo anno, con infamia grandissima de' príncipi cristiani, fu che, nella fine di esso, Solimanno ottomanno prese l'isola di Rodi, costituita sotto il dominio de' cavalieri di Rodi, prima chiamati cavalieri Ierosolimitani; i quali, risedendo in quel luogo poiché erano stati cacciati di Ierusalem, benché in mezzo tra il turco e il soldano príncipi di tanta potenza, l'avevano con grandissima gloria del suo ordine lunghissimo tempo conservata, e stati come uno propugnacolo, in quegli mari, della cristiana religione: benché avessino qualche nota che, trascorrendo tutto il dí a predare i legni degli infedeli, fussino qualche volta licenziosi eziandio contro a' legni de' cristiani. Stette intorno a questa isola molti mesi grandissimo esercito e il turco in persona, non perdendo mai uno minimo punto di tempo di tormentargli, ora col dare battaglie atrocissime ora col fare mine e trincee ora col fare cavalieri grandissimi di terra e di legname che soprafacessino le mura della terra: per le quali opere, tirate innanzi con grandissima uccisione de' suoi, era anche diminuito notabilmente il numero di quegli di dentro; tanto che stracchi dalle continue fatiche e mancando loro la polvere per l'artiglierie, non potendo piú resistere a tante molestie, gittato in terra dall'artiglierie grande parte delle mura e le mine passate in molti luoghi della terra, nella quale loro, per essere espugnati i primi luoghi, si andavano continuamente ristrignendo, finalmente, ridotti all'ultime necessità, capitolorono col turco che il gran maestro gli lasciasse la terra, che egli con tutti i cavalieri e rodiani potessino uscirne salvi con facoltà di portare seco quanta piú roba potevano e, per avere qualche sicurtà, che il turco facesse partire l'armata di quegli mari e discostasse da Rodi cinque miglia lo esercito di terra. Per virtú della quale capitolazione restò Rodi a' turchi, e i cristiani, essendo osservata loro la fede, passorono in Sicilia e poi in Italia; avendo trovato in Sicilia una armata di certe navi che si ordinava (ma tardi per colpa del pontefice) per mettere in Rodi, come avessino il vento prospero, rinfrescamento di vettovaglie e di munizioni: e partiti furono di Rodi, Solimanno, in maggiore dispregio della cristiana religione, fece l'entrata sua in quella città il giorno della natività del Figliuolo di Dio; nel quale dí, celebrato con infiniti canti e musiche nelle chiese de' cristiani, egli fece convertire tutte le chiese di Rodi, dedicate al culto di Cristo, in moschee; che secondo l'uso loro, esterminati tutti i riti de' cristiani, furono dedicate al culto di Maometto. Questo fine ignominioso al nome cristiano, questo frutto delle discordie de' nostri príncipi, ebbe l'anno mille cinquecento ventidue, tollerabile se almanco l'esempio del danno passato avesse dato documento per il tempo futuro. Ma continuandosi le discordie tra i príncipi, non furono minori i travagli dell'anno mille cinquecento ventitré.

                                                 Nel principio del quale, i Malatesti, conoscendosi impotenti a resistere alle forze del pontefice, per interposizione del duca d'Urbino furono contenti lasciare Rimini e la fortezza; avuta intenzione, benché incerta, di avere qualche sostentamento per la vita di Pandolfo: il che non ebbe effetto alcuno. Andò dipoi il duca di Urbino al pontefice, appresso al quale e nella maggiore parte della corte facendogli favore la memoria gloriosa di Giulio pontefice, ottenne l'assoluzione dalle censure, e d'essere rinvestito del ducato d'Urbino ma con la clausula, senza pregiudizio delle ragioni; per non pregiudicare alla applicazione che era stata fatta a' fiorentini del Montefeltro, i quali dicevano avere prestato a Lione, per difesa di quello ducato, ducati trecento cinquantamila e averne spesi dopo la morte sua in diversi luoghi, per la conservazione dello stato della Chiesa, piú di settantamila. Ricevé ancora in grazia il pontefice il duca di Ferrara, rinvestendolo non solamente di Ferrara e di tutto quello che innanzi alla guerra mossa da Lione contro a' franzesi possedeva appartenente alla Chiesa, ma lasciandogli eziandio, con grave nota sua o de' ministri che usavano male la sua imperizia, le castella di San Felice e del Finale; quali, acquistate da lui quando roppe la guerra a Lione e dipoi riperdute innanzi alla sua morte, aveva di nuovo riprese per l'occasione della vacazione della Chiesa. Obligossi il duca di Ferrara ad aiutare con certo numero di gente la Chiesa quando occorresse per la difesa del suo stato, e si astrinse con gravissime pene, sottomettendosi ancora al ricadere della investitura e alla privazione di tutte le sue ragioni, in caso che in futuro offendesse piú la sedia apostolica. Dettegli ancora il pontefice non piccola intenzione di restituirgli Modena e Reggio: benché da questo, essendogli dipoi dimostrata la importanza della cosa e, per lo esempio degli antecessori suoi, la infamia che ne perverrebbe al suo nome, si alienò con l'animo ogni dí piú.

                                                 Nel quale tempo il castello di Milano, stretto da carestia di ogni cosa eccetto che di pane, e pieno di infermità, convenne di arrendersi, salve le robe e le persone, se per tutto il dí quartodecimo di aprile non era soccorso: al quale tempo, osservata la convenzione, apparí essere morta la piú parte degli uomini che vi erano dentro. Consentí Cesare, con laude non piccola appresso agli italiani, che fusse consegnato in potestà del duca Francesco Sforza: né si teneva piú altro per i franzesi in Italia che il castello di Cremona, provisto ancora delle cose necessarie abbondantemente. E nondimeno questi successi non sollevavano la infelicità de' popoli di quello ducato, aggravato eccessivamente dallo esercito cesareo per non ricevere i pagamenti: il quale essendo andato ad alloggiare in Asti e nello astigiano, avendo tumultuato per la medesima cagione, predò tutto il paese insino a Vigevano; in modo che i milanesi, per fuggire il danno e il pericolo del paese, furono costretti promettere loro le paghe di certi tempi, che importavano circa ducati centomila. E nondimeno non si mitigava, per questa acerbità, in parte alcuna, l'odio di quello popolo contro a' franzesi; tenendogli fermi parte il timore per la memoria delle offese fatte loro parte la speranza che, se mai cessasse il pericolo che il re di

                                                 Francia di nuovo non assaltasse quello stato, cesserebbono tanti pesi, perché non sarebbe necessario che Cesare tenesse piú soldati in quel ducato.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.15, cap.2

                                                  

                                                 Trattative di pace fra i veneziani e Cesare; promesse del re di Francia ai veneziani per mantenerli legati a sé. Varietà di pareri nel senato veneziano; discorso di Andrea Gritti in favore del mantenimento della confederazione col re di Francia; discorso di Giorgio Cornaro a favore della confederazione con Cesare. Deliberazione dei veneziani e patti con Cesare, con l'arciduca Ferdinando e con Francesco Sforza.

                                                  

                                                 Trattavasi in questo tempo medesimo continuamente la concordia tra Cesare e i viniziani; la quale, per molte difficoltà che nascevano e per varie dilazioni interposte da loro, teneva sospesi di quello che avesse a seguirne gli animi di ciascuno. Accrebbe la dilazione, e forse anche le difficoltà di questa pratica, la morte di Ieronimo Adorno il quale, persona di grande spirito ed esperienza benché giovane, la trattava con molta autorità e con destrezza singolare: in luogo del quale vi fu mandato da Milano, in nome di Cesare, Marino Caracciolo protonotario apostolico, il quale molti anni poi fu da Paolo terzo pontefice promosso alla degnità del cardinalato. Trattoronsi queste cose in Vinegia molti mesi, perché da altra parte il re di Francia faceva assiduamente, per gli imbasciadori suoi, diligenza grandissima in contrario, promettendo, ora con lettere ora con uomini propri, di passare presto con potentissimo esercito in Italia: perché tra' senatori erano varietà grandi di pareri e assidue disputazioni. Perché molti consigliavano che non si abbandonasse la confederazione del re di Francia, confidandosi che presto avesse a mandare l'esercito in Italia; la quale speranza il re sforzandosi con somma diligenza di nutrire aveva, oltre a molti altri, mandato di nuovo Renzo da Ceri a Vinegia, a promettere questo medesimo e a dimostrare che già le cose erano preparate: altri, considerando per l'esperienza delle cose passate le negligenti esecuzioni di quel re, non confidavano che avesse a passare, e questa opinione si accresceva per le lettere di Giovanni Baduero oratore loro in Francia, il quale, prestando fede a quello che gli era referito dal duca di Borbone (il quale, già congiunto occultissimamente contro al re, desiderava che i viniziani si unissino con Cesare), affermava che 'l re di Francia per quello anno non passerebbe né manderebbe esercito in Italia. Spaventava altri la mala fortuna del re di Francia la prospera di Cesare, il considerare che in Italia seguitavano Cesare il duca di Milano, i genovesi e i fiorentini con la Toscana tutta, e si credeva che avesse a fare il medesimo il pontefice; e che fuora d'Italia erano congiunti seco l'arciduca suo fratello, vicino allo stato de' viniziani, e il re d'Inghilterra, il quale continuamente faceva la guerra in Piccardia. Nella quale varietà di pareri, non meno tra i principali del senato che tra gli altri, non si potendo, per la maturità delle cose e per la instanza grandissima degli imbasciadori di Cesare, differire piú il farne deliberazione, convocato finalmente per determinarsi il consiglio de' pregati, Andrea Gritti, uomo, per importantissime amministrazioni e fatti molto egregi, di somma autorità in quella repubblica e di nome molto chiaro per tutta Italia e appresso ai príncipi esterni, parlò, secondo si dice, in questa sentenza:

                                                 - Ancora che io conosca essere pericolo, prestantissimi senatori, che se io consiglierò che noi non ci partiamo dalla confederazione del re di Francia alcuni non interpretino che in me possa piú il rispetto della lunga conversazione che io ho avuta co' franzesi che quello della utilità della republica, non mi asterrò per questo da esprimere liberamente il parere mio, come è propriamente ufficio de' buoni cittadini; anzi è inutile, e cittadino e senatore, quello il quale per qualunque cagione si ritrae da persuadere agli altri quello che in se medesimo sente essere il beneficio della republica: benché io mi persuada che appresso agli uomini prudenti non arà luogo questa interpretazione, perché considereranno non solo quali siano stati in ogni tempo i costumi e le azioni mie ma che io non ho trattato, col re di Francia né cogli uomini suoi, se non come uomo vostro e per vostra commissione e comandamento; e mi giustificherà oltre a questo, se io non mi inganno, la probabilità delle ragioni le quali mi fanno condiscendere in questa sentenza. Noi trattiamo se si debba fare nuova confederazione con Cesare, contraria alla fede data da noi agli oblighi della confederazione che abbiamo col re di Francia; cosa che, a giudicio mio, non vuole dire altro che stabilire in modo la potenza di Cesare, già terribile a ciascuno, che non ci essendo mai piú rimedio di moderarla o di abbassarla cresca continuamente in nostro manifestissimo pregiudicio. Non abbiamo cagione alcuna che possa giustificare questa deliberazione, perché il re ha sempre osservato la nostra confederazione; e se gli effetti non sono stati cosí pronti a rinnovare la guerra in Italia si conosce chiaramente che, poiché a questo lo stimolavano i propri interessi, non è proceduto da altro che dagli impedimenti che ha avuti e ha nel regno di Francia; i quali hanno potuto prolungare i disegni suoi ma non potranno già annichilargli, perché la volontà è sí ardente alla recuperazione dello stato di Milano, la potenza è sí grande che sostenuti che arà questi primi impeti degli inimici, i quali sosterrà facilmente, niuna cosa lo ritarderà che di nuovo non mandi forze grandissime di qua da' monti. Vedemmo dell'una cosa e dell'altra piú volte lo esempio del re Luigi; il quale, essendo assaltata la Francia con armi molto piú potenti che non sono queste che al presente la molestano, congiuratogli contro quasi tutto il mondo, con la grandezza delle sue forze, con la fortezza de' luoghi che sono in su i confini, con la fede de' popoli, facilmente si difese; e quando era nell'opinione di tutti gli uomini che per la stracchezza della guerra gli fusse necessario il riposo di qualche tempo, mosse subito in Italia potenti eserciti. Non fece questo medesimo ne' primi anni del regno suo il presente re? quando ciascuno credeva che, per essere nuovo re, per avere trovata esausta la corona per le spese infinite dello antecessore, fusse necessitato differire la guerra a uno altro anno. Non ci debbe adunque spaventare questa tardità; né sarebbe sufficiente scusa delle nostre variazioni, perché il confederato, ritardato non dalla volontà ma dagli impedimenti sopravenuti, non dà giusta causa di querelarsi al compagno né onesto colore di partirsi dalla collegazione. Questa deliberazione ricerca da noi il rispetto della onestà il rispetto della degnità del senato viniziano, ma non la ricerca meno il rispetto della utilità anzi della salute nostra. Perché chi è che non conosca di quanto profitto ci sia e da quanti pericoli ci liberi se il re di Francia recupera lo stato di Milano, e quanto riposo partorisca per molti anni alle cose nostre? Ammuniscecene l'esempio delle cose succedute pochi anni innanzi; perché l'averlo recuperato questo re fu cagione che noi, che prima con grandissime spese e pericoli difendevamo Padova e Trevigi, recuperassimo Brescia e Verona; fu cagione che, mentre ch'egli tenne pacifico quel ducato, noi possedessimo con grandissima pace e sicurtà tutto lo imperio nostro: esempli che ci hanno a muovere molto piú che la memoria antica della lega di Cambrai, perché i re di Francia compresono per esperienza quel che non avevano compreso per le ragioni: quanto detrimento ricevessino dello essersi partiti dalla nostra congiunzione; cosa che senza comparazione conosceranno meglio nel tempo presente, nel quale ha questo re per emulo uno imperadore, principe di tanti regni e di tanta grandezza, la cui potenza lo necessita a desiderare e avere carissima la nostra confederazione. Ma per contrario, chi è quello che non vegga, che non conosca, in quanto pericolo resterebbono le cose nostre escluso che fusse totalmente il re di Francia dalle imprese d'Italia? Perché chi può proibire a Cesare che non appropri a sé o al fratello il ducato di Milano? del quale insino a ora non ha mai conceduta la investitura a Francesco Sforza; e se, come è chiarissimo, arà potestà di farlo, chi è quello che possa assicurare della volontà? chi è quello che possa promettere che, essendo il ducato di Milano una scala di salire allo imperio di tutta Italia, che abbi a potere piú in Cesare il rispetto della giustizia e dell'onestà che l'ambizione e la cupidità propria e naturale di tutti i príncipi grandi? Assicureracci forse la moderazione e la temperanza de' ministri che ha in Italia? che sono quasi tutti spagnuoli, gente infedele rapacissima insaziabile sopra tutte l'altre? Se adunque Cesare o Ferdinando suo fratello si attribuiscono Milano, in che grado rimane lo stato nostro, circondato da loro dalla parte d'Italia e di Germania? che rimedio possiamo sperare a' nostri pericoli essendo in mano sua il reame di Napoli, il pontefice e gli altri stati di Italia dependenti da lui, e ciascuno sí esausto e attrito di forze che da loro non possiamo sperare favore alcuno? Ma se il re di Francia possedesse il ducato di Milano, restando le cose bilanciate tra due tali príncipi, chi avesse da temere della potenza dell'uno sarebbe riguardato e lasciato stare per la potenza dell'altro; anzi, il timore solamente della sua venuta assicura tutti gli altri, perché costrigne gli imperiali a non si muovere, a non si impegnare a impresa alcuna. Però a me pareva piú presto ridicola che spaventosa la vanità de' minacci loro che se non ci confederiamo con Cesare ci volteranno contro l'esercito; come se il muovere la guerra contro al senato viniziano sia impresa facile e da sperarne presto la vittoria, e come se questo fusse il rimedio di fare che il re di Francia non passasse, e non piú presto cagione del contrario: perché, chi dubita che provocati da loro proporremmo per necessità condizioni tali al re che, quando bene ne avesse l'animo alieno, lo inducessino a passare? Non accadde egli questo medesimo a tempo del re Luigi? che le ingiurie e i tradimenti fattici da loro ci indussono a stimolare in modo quel re (quando io di suo prigione diventai vostro imbasciadore), che al tempo che piú temeva di essere assaltato potentissimamente in Francia mandò l'esercito suo, benché con mala fortuna, in Italia. Non crediate che se gli imperiali pensassino che la via di tirarci alla amicizia loro o di assicurarsi della venuta del re di Francia fusse lo assaltarci, che avessino differito insino a questo dí a dargli principio. Forse che non hanno i capitani loro cupidità di arricchirsi delle prede e de' guadagni delle guerre? forse che non hanno avuto necessità, per sgravare il paese degli amici e sgravandolo avere facoltà di trarne danari, di nutrire l'esercito ne' paesi d'altri? ma hanno conosciuto che per la potenza nostra è troppo difficile lo sforzarci; che per loro non fa, temendo ogni dí della guerra del re di Francia, implicarsi in una altra guerra, né dare cagione a uno stato potente di forze e di danari di stimolare con la grandezza delle offerte i franzesi a passare. Mentre che staranno in questi sospetti e in queste ambiguità non occuperanno per sé il ducato di Milano, non tratteranno se non con minaccie vane di offenderci; se noi gli assicureremo da questo timore sarà in potestà loro di fare l'uno e l'altro: e se lo faranno, come è verisimile, di chi altri potremo noi piú lamentarci che di noi medesimi e della nostra troppa timidità e del desiderio immoderato della pace? La quale è desiderabile e santa, quando assicura da' sospetti, quando non augumenta il pericolo, quando induce gli uomini a potersi riposare e alleggierirsi dalle spese; ma quando partorisse gli effetti contrari è, sotto nome insidioso di pace, perniciosa guerra; è, sotto nome di medicina salutifera, pestifero veleno. Se adunque il fare noi confederazione con Cesare esclude il re di Francia dalle imprese d'Italia, dà a lui facoltà di occupare ad arbitrio suo il ducato di Milano, occupato quello pensare a deprimere noi, ne séguita che noi comperiamo, con grandissima infamia del nome nostro con maculare la fede di questa republica, la grandezza di un principe il quale non ha manco distesa l'ambizione che la potenza e che pretende, egli e il fratello, che tutto quello che noi possediamo in terra ferma appartenga a loro; e che escludiamo da Italia uno principe che con la grandezza assicuri la libertà di tutti gli altri e che sarebbe necessitato a essere congiuntissimo con noi. Chi propone queste ragioni, tanto evidenti e tanto palpabili, non può già essere imputato che lo muova l'affezione piú che la verità, piú gli interessi propri che l'amore della republica. Della salute della quale non abbiamo da dubitare, se Dio alle vostre deliberazioni concederà tanto di felicità quanto ha conceduto di sapienza a questo eccellentissimo senato. -

                                                 Ma in contrario Giorgio Cornaro, cittadino di pari autorità e di nome celebrato di prudenza quanto alcuno altro di quel senato, si oppose con orazione tale a questo consiglio: - Grande certamente, prestantissimi senatori, e molto difficile è la presente deliberazione; nondimeno, quando io considero quale sia ne' tempi nostri l'ambizione e la infedeltà de' príncipi e quanto la natura loro sia difforme dalla natura delle republiche, le quali, non si governando con l'appetito di uno solo ma col consentimento di molti, procedono con piú moderazione e maggiori rispetti, né si partono mai sfacciatamente, come spesso fanno essi, da quel che ha qualche apparenza di giusto e di onesto, io non posso se non risolvermi che a noi sia perniciosissimo che il ducato di Milano sia di uno principe piú potente che noi, perché una tale vicinità ci necessita a stare in continui sospetti e tormenti e, ancora che siamo nella pace, quasi sempre ne' pensieri della guerra, non ostante qualunque confederazione o convenzione che abbiamo insieme. Di questo si leggono nelle istorie antiche infiniti esempli, nelle nostre qualcuno: ma quale maggiore e piú illustre che quello che, con acerba memoria, è scolpito nel cuore di tutti noi? Introdusse questo senato Luigi re di Francia nel ducato di Milano, alla quale infelice deliberazione molti di noi furno presenti; conservogli sempre intera la fede delle capitolazioni, quantunque con premi grandi e con varie occasioni fussimo invitati a discostarsi da lui dagli spagnuoli e da' tedeschi, quantunque fussimo certi che per lui si trattavano spesso molte cose contro a noi. Non piegò né il beneficio ricevuto né la fede data né tanti perpetui offici nostri l'animo suo, pieno di tanta cupidità di offenderci che finalmente, reconciliatosi per questa cagione con gli antichi e acerbissimi inimici suoi, contrasse contro a noi la collegazione perniciosissima di Cambrai. Però, per fuggire i pericoli che dalla insidiosa e fraudolenta vicinità de' príncipi grandi ci sarebbono del continuo imminenti, siamo necessitati (se io non mi inganno) dirizzare tutte le nostre deliberazioni a questo fine: che il ducato di Milano non sia né del re di Francia né dello imperadore, ma sia di Francesco Sforza o di qualunque altro che non abbia regni e imperi maggiori; donde depende nel tempo presente la sicurtà nostra, donde nel futuro può dependere, se si variassino le condizioni de' tempi presenti, grande augumento ed esaltazione del nostro stato. Noi consultiamo se è o da continuare l'amicizia col re di Francia o da confederarci con Cesare: l'una di queste due deliberazioni esclude totalmente dal ducato di Milano Francesco Sforza e dà adito di entrarvi al re di Francia, principe tanto piú potente di noi; l'altra deliberazione tende a confermare e assicurare Francesco Sforza in quello ducato, il quale Cesare propone di includere come principale nella nostra confederazione, promette la conservazione sua al re di Inghilterra: però quando tentasse di spogliarlo di quello stato non solo offenderebbe noi e gli altri d'Italia, a' quali darebbe causa di volgere di nuovo l'animo a' franzesi, ma offenderebbe il re d'Inghilterra, al quale gli conviene, come ognuno sa, avere grandissimi rispetti; provocherebbesi contro tutti i popoli del ducato di Milano inclinatissimi a Francesco Sforza. Cosí, sottoponendosi a molte difficoltà e pericoli, e a grandissima infamia, contraverrebbe alla fede sua, la quale non si è insino a ora veduto segno alcuno che mai abbia disprezzata, cosa che non possiamo già dire noi de' franzesi; anzi, avendo restituito, dopo la morte del pontefice Leone, Francesco Sforza in quello stato, consegnatogli le fortezze secondo che successivamente si sono acquistate, e ultimamente, contro alla opinione di molti, il castello di Milano, non si può dire che non abbia fatto segni contrari. Perché adunque non dobbiamo fare piú presto quella deliberazione nella quale è speranza grande di conseguire lo intento nostro che quella che manifestamente tende a fine contrario a' nostri bisogni? A questo si oppone che di maggiore pericolo sarebbe a questa republica che il ducato di Milano fusse in potestà di Cesare che se fusse in potestà del re di Francia; perché quel re, per la grandezza di Cesare e per la emulazione che ha con lui, arebbe quasi necessità di perseverare nella nostra congiunzione, ma in Cesare tutto il contrario, per la potenza sua e per le ragioni che contro allo stato nostro pretendono egli e il fratello. Credo che chi cosí sente di Cesare non si inganni, per la natura e consuetudine de' príncipi tanto grandi; volesse Dio non si ingannasse chi non sente il medesimo del re di Francia! Militavano nel suo antecessore molte delle medesime ragioni, e nondimeno potette piú la cupidità, l'ambizione, che l'onestà, che l'utilità propria. Senza che, non sono perpetue quelle cagioni che l'arebbono a conservare unito con noi, ma variabili, secondo la natura delle cose umane, di momento in momento: perché e Cesare è uomo mortale come gli altri uomini; è, secondo l'esempio di molti príncipi stati maggiori di lui, sottoposto a infiniti accidenti di fortuna. E quanto tempo è che, concitatagli contro tutta la Spagna, pareva piú presto degno di commiserazione che di invidia? E almeno non è tanta differenza dall'uno pericolo all'altro quanto è differenza da una deliberazione che ci escluda certo dal fine nostro a una che piú verisimilmente vi ci conduca. Dipoi queste ragioni risguardano il tempo futuro e lontano; ma se consideriamo lo stato presente delle cose, non è dubbio che il rifiutare la confederazione di Cesare ci mette per ora in maggiori molestie e pericoli; perché separandoci noi dal re di Francia è credibile riserberà il fare la guerra a migliori tempi e occasioni, ma stando noi congiunti con lui potrebbe pure essere che di presente la facesse, cosa che di necessità ci porterà molestie e spese. Ma in quale caso è piú pericoloso per noi l'esito della guerra? Congiugnendoci con Cesare si può quasi tenere per certo che la vittoria sarà da questa parte, cosa che non si può tanto sperare se saremo congiunti col re di Francia; e confederandoci con Cesare non ci sarebbe tanto pericolosa la vittoria del re come sarebbe per il contrario, perché in caso tale tutte l'armi de' vincitori si volterebbono contro a noi, e Cesare non solo arebbe minore freno e minori ostacoli ma quasi necessità di occupare il ducato di Milano. A quel che si dice del vincolo della confederazione è facile la risposta: perché promettemmo al re di Francia di aiutarlo a difendere gli stati che possedeva in Italia, non a recuperargli poi che gli avesse perduti. Non dice questo la scrittura delle nostre capitolazioni, né ci militano le medesime ragioni. Adempiemmo le obligazioni nostre quando, alla perdita di Milano, causata per il mancamento delle loro provisioni, ricevetteno piú danno le nostre genti d'arme che le franzesi; adempiemmole quando, tornando Lautrech co' svizzeri alla guerra, gli mandammo i nostri aiuti; abbiamle trapassate quando, pasciuti da lui con vane speranze e promesse, abbiamo aspettato tanti mesi l'esercito suo. Se la volontà lo ritiene, perché cerchiamo noi di sopportare la pena delle sue colpe? se la necessità, non basta egli questa ragione, quando bene fussimo obbligati, a giustificarci? Non so di che siamo piú oltre debitori al re di Francia poiché prima siamo stati abbandonati noi: non so a che piú oltre sia tenuto uno confederato per l'altro, né che possino giovare a lui i nostri pericoli. Non affermo che i capitani di Cesare pensino a muoverci al presente la guerra, ma né ardirei affermare il contrario, considerato la necessità che hanno del nutrire lo esercito nello stato degli altri, la speranza che potrebbono avere di tirarci per questa via alla loro congiunzione, massime se il re di Francia non passerà: di che chi dubita non ne dubita, a giudizio mio, senza ragione, per la loro negligenza, per essere esausti di danari, per la guerra che hanno di là da' monti con due tali príncipi; né può essere ripreso chi di questo presta fede al vostro imbasciadore perché gli imbasciadori sono l'occhio e l'orecchio degli stati. Replico insomma il medesimo, che con sommo studio debbiamo cercare che di Francesco Sforza sia il ducato di Milano: donde ne nasce, in conseguenza, che sia piú utile quella deliberazione che ci può condurre a questo effetto che quella che totalmente ce ne esclude. -

                                                 L'autorità di due tali uomini e la efficacia delle ragioni aveva renduto piú presto piú perplessi che piú resoluti gli animi de' senatori, donde il senato allungava quanto piú poteva il determinarsi, inducendolo a questo la natura loro, la gravità della cosa, il desiderio di vedere piú innanzi de' progressi del re di Francia; e ne erano anche causa molte difficoltà che nascevano di necessità nella concordia con l'arciduca. Accresceva la sospensione degli animi loro che il re di Francia, preparandosi sollecitamente alla guerra, avea mandato il vescovo di Baiosa a pregargli che differissino tutto il mese prossimo a deliberare, affermando che innanzi alla fine del termine passerebbe con maggiore esercito che mai avesse veduto in Italia l'età presente. Nella quale ambiguità mentre che stanno, essendo morto Antonio Grimanno doge di quella città, fu eletto in suo luogo Andrea Gritti, che piú presto nocé alle cose franzesi che altrimenti: perché egli, collocato in quel grado, lasciata meramente la deliberazione al senato, non volle mai piú né con parole né con opere dimostrarsi inclinato in parte alcuna. Finalmente, mandando il re al senato continuamente uomini nuovi con offerte grandissime, e intendendosi che per le medesime cagioni venivano Anna di Memoransi, che fu poi gran conestabile di Francia, e Federico da Bozzole, gli oratori cesareo e inghilesi, a' quali la dilazione era sospettissima, protestorono al senato che dopo tre dí prossimi si partirebbono, lasciando imperfette tutte le cose. Perciò il senato necessitato a determinarsi, e togliendo fede alle promesse del re di Francia l'essere stati tanti mesi nutriti con vane speranze, e molto piú quel che in contrario affermava lo imbasciadore residente appresso a lui, deliberò d'abbracciare l'amicizia di Cesare, col quale convenne con queste condizioni: che tra Cesare, Ferdinando arciduca d'Austria, Francesco Sforza duca di Milano da una parte e il senato viniziano dall'altra fusse perpetua pace e confederazione: dovesse il senato mandare, quando fusse il bisogno, alla difesa del ducato di Milano secento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti; il medesimo per la difesa del regno di Napoli, ma questo in caso fusse molestato da' cristiani, perché i viniziani recusavano obligarvisi generalmente per non irritare contro a sé l'armi de' turchi: la medesima obligazione avesse Cesare, per la difesa contro a qualunque, di tutte le cose che i viniziani possedevano in Italia: pagassino all'arciduca in otto anni, per conto di antiche differenze e concordia fatta a Vuormazia, dugentomila ducati. Le quali cose come furno convenute, il senato, avendo già rimosso dagli stipendi suoi Teodoro da Triulzi, elesse governatore generale della sua milizia, con le condizioni medesime, Francesco Maria duca di Urbino.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.3

                                                  

                                                 Tentativi del pontefice di unire in concordia i príncipi cristiani contro i turchi. Come il cardinale di Volterra cade in disgrazia del pontefice. Confederazione di príncipi di cui fa parte il pontefice. Attentato contro Francesco Sforza. Moto nella fortezza di Valenza. Defezione del connestabile di Borbone. Spedizione del Bonnivet in Italia; occupazione delle terre alla destra del Ticino. Sorpresa di Prospero Colonna: sue prime deliberazioni. I francesi vicino a Milano. Morte di papa Adriano.

                                                  

                                                 Fu giudicio quasi comune degli uomini per tutta Italia che il re di Francia, vedendo dovergli essere contrari quegli aiuti i quali primi gli doveano essere propizi, avesse a desistere d'assaltare per quello anno il ducato di Milano; nondimeno, intendendosi che non solamente continuava di prepararsi ma che già cominciava a muoversi l'esercito, quegli che temevano della vittoria sua feciono insieme per resistergli nuova confederazione, inducendo il pontefice a esserne capo e principale. Aveva il pontefice, desideroso della pace comune, ricercato, quando venne in Italia, Cesare il re di Francia e il re di Inghilterra che, atteso i successi prosperi de' turchi, deponessino l'armi tanto perniciose alla republica cristiana, e che ciascuno spedisse a Roma agli oratori suoi sopra queste cose pienissima autorità; la qual cosa da tutti fu nell'apparenza eseguita prontamente, ma cominciato poi a trattarsi le cose particolarmente fu conosciuto presto che erano fatiche vane, perché nel fare la pace si trovavano infinite difficoltà: la tregua per tempo breve non piaceva a Cesare, senza che pareva quasi di niuna utilità; e il re di Francia la rifiutava per tempo lungo. Onde il pontefice, o ridestandosi in lui l'antica benivolenza verso Cesare o parendogli che i pensieri del re di Francia fussino alieni dalla concordia, cominciò piú che il solito a inclinare l'orecchie a coloro che lo confortavano a non permettere che da quel re fusse di nuovo posseduto il ducato di Milano. Da queste cagioni preso animo il cardinale de' Medici, il quale prima, temendo le persecuzioni degli emuli suoi e specialmente del cardinale di Volterra a cui pareva che il pontefice credesse molto, dimorava a Firenze, venne a Roma, ricevuto con grandissimo onore quasi da tutta la corte: ove, congiuntamente col duca di Sessa imbasciadore di Cesare e con gli oratori del re di Inghilterra, favoriva questa medesima causa appresso al pontefice.

                                                 Nel qual tempo la mala fortuna del cardinale di Volterra, che quasi sempre perturbava la prudenza l'astuzia e gli artifici suoi, partorí a lui danno e pericolo, e al cardinale de' Medici facoltà di acquistare maggiore grazia e autorità appresso al pontefice, inclinato prima molto al volterrano, perché con la sua sagacità e con parole non meno nervose che ornate gli avea impresso nell'animo di essere molto desideroso della pace universale della cristianità. Conciossiaché, essendo stato, per opera del duca di Sessa, ritenuto a Castelnuovo appresso a Roma Francesco Imperiale, sbandito di Sicilia che andava in Francia, gli furno trovate lettere scritte dal cardinale predetto al vescovo di Santes suo nipote, per le quali confortava il re di Francia ad assaltare con armata marittima l'isola di Sicilia, perché volgendosi l'armi di Cesare a difenderla gli sarebbe piú facile a ricuperare il ducato di Milano: della qual cosa maravigliandosi molto il pontefice e riputandosi ingannato dalle sue simulazioni, incitandolo ancora ardentemente il duca di Sessa e il cardinale de' Medici, chiamatolo a sé lo fece custodire in Castel Sant'Angelo; e dipoi deputò giudici a esaminarlo come reo d'avere violato la maestà pontificale, concitando il re di Francia ad assaltare coll'armi la Sicilia feudo della sedia apostolica. Nella quale cognizione benché si procedesse lentamente, e finiti gli esamini gli fusse data facoltà di difendersi per avvocati e procuratori, non si procedé però con la medesima moderazione alla roba; perché, il dí stesso che il cardinale fu ritenuto, il pontefice occupò tutte le ricchezze che erano nella sua casa. Venne ancora a luce, per la incarcerazione del medesimo Imperiale, un trattato che per il re di Francia si teneva in Sicilia; per il quale furno squartati il conte di Camerata il maestro portulano e il tesoriere di quella isola.

                                                 Per le quali cose il pontefice commosso tanto piú contro al re di Francia, e cominciando quotidianamente a consultare col cardinale de' Medici, finalmente, risonando ogni dí piú la fama della venuta de' franzesi, deliberando di opporsi loro, narrò nel collegio de' cardinali, fatta prima la solita prefazione de' pericoli imminenti dal principe de' turchi, il re di Francia solo essere cagione che dalla cristianità non si rimovesse tanto pericolo, perché pertinacemente ricusava di consentire alla tregua che si trattava; e che appartenendo a lui, come a vicario di Cristo e successore del principe degli apostoli, provedere quanto per lui si poteva alla conservazione della pace, il zelo della salute comune lo costrigneva a unirsi con coloro che s'affaticavano acciò che Italia non si turbasse, perché dalla quiete o dalla turbazione di quella nasceva la quiete o la turbazione di tutto il mondo. In conformità del quale ragionamento, ed essendo per tale effetto venuto il viceré di Napoli a Roma, fu stipulata, il terzo dí d'agosto, lega e confederazione tra il pontefice, Cesare, il re d'Inghilterra, l'arciduca d'Austria, il duca di Milano, il cardinale de' Medici e lo stato di Firenze congiunti insieme, e i genovesi, per la difesa d'Italia, da durare durante la vita de' confederati e uno anno dopo la morte di qualunque di loro; riservato luogo a ciascuno di entrarvi, pure che fusse accettato dal pontefice, Cesare, il re d'Inghilterra e lo arciduca, e desse cauzione di usare nelle querele sue la via della ragione e non dell'armi. Congregassesi per opporsi contro a chi volesse assaltare in Italia alcuno de' collegati, uno esercito, nel quale il pontefice mandasse dugento uomini d'arme, Cesare ottocento, i fiorentini dugento, il duca di Milano dugento e dugento cavalli leggieri; provedessino il pontefice, Cesare e il duca di Milano l'artiglierie e le munizioni con tutte le spese appartenenti: che, per soldare i fanti necessari all'esercito e per fare l'altre spese che bisognano nelle guerre, pagasse il papa ciascuno mese ducati ventimila, altrettanti il duca di Milano e la medesima somma i fiorentini, pagassene Cesare trentamila, tra Genova Siena e Lucca diecimila, restando però i genovesi obligati all'armata e all'altre spese necessarie per la difesa loro; alla quale contribuzione fussino tutti obligati per tre mesi, e per quello tempo piú che dichiarassino il pontefice, Cesare e il re d'Inghilterra: fusse in facoltà del pontefice e di Cesare dichiarare chi avesse a essere capitano generale di tutta la guerra; il quale si trattava che fusse il viceré di Napoli, sforzandosene massime il cardinale de' Medici, l'autorità del quale appresso a' cesarei era grandissima, per l'odio che aveva contro a Prospero Colonna. A questa confederazione fu congiunto per modo indiretto il marchese di Mantova, perché il pontefice e i fiorentini lo condussono per loro capitano generale a spese comuni.

                                                 Ma non raffreddorno già, né la lega fatta da' viniziani con Cesare né l'unione di tanti príncipi fatta con tanti provedimenti, l'ardore del re di Francia; il quale, venuto a Lione, si preparava per passare con grandissimo esercito personalmente in Italia: ove già, per la fama della venuta sua, cominciavano ad apparire nuovi tumulti. Lionello fratello di Alberto Pio ricuperò furtivamente la terra di Carpi, custodita negligentemente da Giovanni Coscia prepostovi da Prospero Colonna; a cui Cesare, spogliatone Alberto come rebelle dello imperio, l'aveva donata. Ma maggiore accidente fu per succedere nel ducato di Milano, perché cavalcando in su una muletta Francesco Sforza da Moncia a Milano, ed essendosi, come facevano per l'ordinario, allontanati da lui i cavalli della sua guardia perché il principe fusse meno noiato dalla polvere, la quale per i tempi estivi si solleva grandissima da' cavalli nelle pianure di Lombardia, Bonifazio Visconte, giovane noto piú per la nobiltà della famiglia che per ricchezze onori o altre condizioni, mosso per lo sdegno conceputo perché pochi mesi innanzi era stato ammazzato per opera di Ieronimo Morone, non senza volontà, (cosí si credeva) del duca, Monsignorino Visconte in Milano; essendo propinquo a lui in su uno cavallo turco, come furono pervenuti a uno quadrivio, mosso con impeto il cavallo, l'assaltò con uno pugnale per percuoterlo in sulla testa; ma movendosi per paura la muletta né stando anche fermo per la ferocia sua il cavallo, e Bonifazio per essere di maggiore statura e per l'altezza del cavallo sopraffacendolo molto, il colpo destinato alla testa lo percosse in sulla spalla. Trasse dipoi la spada fuora per dargli un altro colpo. Ma la ferita fu piccolissima e di taglio; ed essendo già concorsi molti si messe in fuga, seguitato dai cavalli della guardia, ma avanzandogli per la velocità del suo cavallo si salvò nel Piemonte. Cosa, se allo ardire e alla industria fusse stata corrispondente la fortuna, certamente accaduta rarissime volte e forse non mai, che uno uomo solo avesse, a mezzodí, in sulla strada publica, ammazzato uno principe sí grande, accompagnato da tante armi e da tanti soldati, in mezzo dello stato suo, e si fusse fuggito a salvamento. Ritirossi il duca cosí ferito a Moncia, non potendo credere che in Milano non fusse congiurazione: dove Prospero e il Morone, per il medesimo sospetto, avevano subito fatto ritenere il vescovo di Alessandria fratello di Monsignorino, il quale, messosi volontariamente in mano di Prospero sotto la fede sua, ed essendo esaminato, fu poi mandato prigione nella fortezza di Cremona; essendo vari i giudizi degli uomini se e' fusse stato conscio o no di questa cosa. Succedette, quasi ne' medesimi dí, che Galeazzo da Birago seguitato da altri fuorusciti dello stato di Milano, con l'aiuto di alcuni soldati franzesi che già erano nel paese del Piemonte, fu dal castellano della fortezza di Valenza, di nazione savoino, introdotto nella terra: il che inteso da Antonio de Leva, il quale con una parte de' cavalli leggieri e de' fanti spagnuoli era in Asti, vi andò subito a campo; ed essendo la terra debole, la quale gli inimici non avevano avuto tempo a riparare, piantate le artiglierie, la espugnò il secondo dí, e dipoi battuta la fortezza ebbe il medesimo successo: restando nell'una e l'altra espugnazione morti circa quattrocento uomini e molti prigioni, tra' quali Galeazzo capo di questo moto.

                                                 Passava del continuo i monti l'esercito franzese, dietro al quale avea destinato passare il re; ma turbò il suo consiglio la congiurazione che venne a luce del duca di Borbone. Il quale, per la nobiltà del sangue regio per la grandezza dello stato e per la degnità dell'ufficio del gran conestabile e per la fama molto prospera del suo valore essendo il maggiore e piú stimato signore di tutto il regno di Francia, non era già, piú anni innanzi, in grazia del re, e però non promosso a quegli gradi né introdotto a quegli segreti che meritava tanta grandezza; ma si era aggiunto che la madre del re, suscitate certe ragioni antiche, gli dimandava nel parlamento di Parigi il suo stato: donde egli, poiché vedde non essere posto dal re a questa cosa alcuno rimedio, pieno di indegnazione, si era, per mezzo di Beuren gran cameriere e molto confidato di Cesare, confederato pochi mesi innanzi occultissimamente con Cesare e col re d'Inghilterra; con patto che, per stabilire le cose con vincolo piú fedele, Cesare gli congiugnesse Elionora sua sorella, rimasta per la morte di Emanuello re di Portogallo senza marito. La esecuzione de' consigli loro era fondata in sull'avere destinato il re Francesco di andare personalmente alla guerra, nella quale deliberazione perché perseverasse gli avea il re di Inghilterra artificiosamente data speranza di non molestare la Francia per quello anno. Doveva Borbone, subito che il re avesse passati i monti, entrare nella Borgogna con dodicimila fanti, che occultissimamente co' danari di Cesare e del re di Inghilterra si preparavano; né dubitava, per l'occasione della assenza del re e per la grazia universale che aveva per tutto il reame di Francia, dovere fare grandissimi progressi. Di quello che s'acquistava avea a ritenere per sé la Provenza, permutando il titolo di conte in titolo di re di Provenza; la quale contea appartenersegli per ragioni dependenti dagli Angioini pretendeva: l'altre cose tutte doveano pervenire nel re di Inghilterra. Però, per escusarsi dal seguitare in Italia il re, fermatosi a Molins terra principale del ducato di Borbone, fingeva di essere ammalato. Donde passando il re, quando andava a Lione, al quale era già pervenuto qualche leggiero indizio di questo trattato, non dissimulò seco di essere stato procurato da altri di mettergli questo sospetto, ma potere in lui sopra ogn'altra cosa l'opinione tante volte esperimentata della sua virtú e della sua fede; donde il duca, ringraziandolo efficacissimamente che con tanta libertà e sincerità di animo avesse parlato seco, e ringraziando Dio che gli avesse conceduto uno tale re, la gravità del quale non avessino forza di sollevare le accusazioni e le calunnie false, gli aveva promesso che, come prima fusse libero (il che per la leggierezza della infermità sperava dovere essere fra pochissimi dí), andrebbe a Lione per accompagnarlo dovunque andasse. Ma come il re fu venuto a Lione, inteso che a' confini della Borgogna si accumulavano fanti tedeschi, e aggiunto a questo sospetto agli indizi avuti prima e allo essersi intercette certe lettere che davano lume piú chiaro, fece incarcerare San Valerí, Boisí fratello della Palissa, il maestro delle poste, il vescovo d'Autun, consci della congiurazione, e mandò subito il gran maestro con cinquecento cavalli e quattromila fanti a Molins a prendere Borbone; ma tardi, perché egli, già insospettito e dubitando non fussino guardati i passi, era in abito incognito passato occultissimamente nella Francia Contea. Per il qual caso tanto importante deliberò il re non proseguire l'andata sua; e nondimeno, ritenute appresso a sé parte delle genti preparate alla nuova guerra, mandò in Italia [monsignore] di Bonivet ammiraglio di Francia, con mille ottocento lancie seimila svizzeri dumila grigioni dumila vallesi seimila fanti tedeschi dodicimila franzesi e tremila italiani: col quale esercito passato i monti, e accostatosi a' confini dello stato di Milano, fece dimostrazione di volere dirizzarsi a Novara. Per il che quella città, non munita né di soldati né di ripari a sufficienza, si arrendé con licenza del duca di Milano, ritenendosi per lui la fortezza; il medesimo, e per la medesima cagione, fece Vigevano: donde tutta la regione che è di là dal fiume del Tesino pervenne in potestà de' franzesi.

                                                 Non aveva creduto Prospero Colonna, già implicato in lunga infermità, che il re di Francia, essendosi confederati contro a lui i viniziani e dipoi venuta a luce la congiurazione del duca di Borbone, perseverasse nella deliberazione di assaltare per quello anno il ducato di Milano; perciò non avea con la diligenza e celerità conveniente raccolti i soldati alloggiati in vari luoghi, né fatto i provedimenti necessari a tanto movimento. Ora, approssimandosi gli inimici, chiamava con sollecitudine genti, intento tutto a proibire il passo del Tesino; il che, non si riducendo alla memoria quel che al fiume dell'Adda era succeduto a lui contro a Lautrech, si prometteva con tanta confidenza. Di riordinare i bastioni e i ripari de' borghi di Milano, de' quali la maggiore parte non essendo stati attesi erano quasi per terra, [non] poneva alcuna sollecitudine. Congregava l'esercito in sul fiume, tra Biagrassa, Bufaloro e Turbico, sito comodo a quello effetto e opportuno ancora a Pavia e a Milano. Ma i franzesi che erano venuti a Vigevano, avendo trovato l'acque del fiume piú basse che non era stata l'opinione di Prospero, cominciorono a passare, parte a guazzo parte per barche, quattro miglia lontano dal campo imperiale; gittato anche uno ponte per l'artiglierie, in luogo dove non trovorono né guardia né ostacolo alcuno. Però Prospero, mutati per questo inopinato accidente necessariamente tutti i consigli della guerra, mandò subito Antonio da Leva con cento uomini d'arme e tremila fanti alla guardia di Pavia; egli col resto dello esercito si ritirò in Milano, dove fatto consiglio co' capitani, tutti vennono concordemente in questa sentenza: non essere possibile, se i franzesi si accostavano senza indugio, difendere Milano, perché i bastioni e ripari de' borghi, strascurati dopo l'ultima guerra, erano la maggiore parte caduti per terra, e la troppa confidenza che aveva avuto Prospero di difendere il passo del Tesino era stata cagione che non si fusse data opera a rassettargli; né era possibile condurgli, se non in ispazio di tre dí, in grado da potergli difendere; doversi fare deliberazione aspettante all'uno caso e all'altro; fare lavorare con somma sollecitudine a' ripari, e nondimeno stare preparati a partirsi (se i franzesi venissino il primo il secondo o il terzo dí) per ritirarsi in Como, se i franzesi venivano per la via di Pavia; se per il cammino di Como, andare a Pavia. Ma il fato avverso a franzesi, ottenebrando come altre volte aveva fatto lo intelletto loro, non permesse che usassino cosí fortunata occasione. Perché, o per negligenza o per raccorre tutto l'esercito, del quale non piccola parte era rimasta indietro, soprastettono tre dí in su il fiume del Tesino; donde dipoi, unitisi tutti insieme tra Milano, Pavia e Binasco, vennono (credo) a Santo Cristoforo a uno miglio presso a Milano, tra porta Ticinese e porta Romana e avendo fatte le spianate, e passata l'artiglieria nella vanguardia, feciono dimostrazione di volere combattere la terra; e nondimeno, non tentato altro, fermorono in quel luogo l'alloggiamento; dal quale levatisi pochi dí poi alloggiorono alla badia di Chiaravalle, donde guastorono le mulina e tolseno l'acqua a Milano, pensando piú ad assediarlo che ad assaltarlo: perché, oltre alla moltitudine abbondantissima d'armi (nella quale si dicevano essere mille cavalli utili) e con la consueta disposizione contro al nome del re di Francia, erano allora in Milano circa ottocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri quattromila fanti spagnuoli seimila cinquecento tedeschi e tremila italiani.

                                                 In questo stato delle cose passò all'altra vita, il quartodecimo dí di settembre, il pontefice Adriano, non senza incomodo de' collegati, al favore de' quali mancava oltre alla autorità pontificale la contribuzione pecuniaria alla quale, per i capitoli della confederazione, era tenuto. Morí, lasciato di sé, o per la brevità del tempo che regnò o per essere inesperto delle cose, piccolo concetto; e con piacere inestimabile di tutta la corte, desiderosa vedere uno italiano, o almanco nutrito in Italia, in quella sedia.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.15, cap.4

                                                  

                                                 Disordini e fazioni di guerra nel modenese e nel reggiano. Il presidio di Modena rafforzato con fanti spagnuoli contro il duca di Ferrara. Pronti provvedimenti del commissario Guicciardini per difendere la città. Reggio e Rubiera occupate dal duca di Ferrara.

                                                  

                                                 Per la morte del pontefice cominciorno a perturbarsi le terre della Chiesa; nelle quali, innanzi alla infermità sua, erano cominciate a dimostrarsi piccole faville di futuro incendio, atto ad ampliarsi vivente lui se, parte per caso parte per altrui diligenza, non vi fusse stato ovviato. Perché avendo il collegio de' cardinali, innanzi che il pontefice passasse in Italia, commessa ad Alberto Pio la custodia di Reggio e di Rubiera, si tenevano ancora da lui le fortezze di quegli luoghi; avendo, con vari colori e diverse scuse e per l'occasione della poca esperienza di Adriano, schernito molti mesi la instanza fatta da lui che gliene restituisse. Però era stato trattato che, subito che apparisse il principio della guerra, Renzo da Ceri, seguitato da alcuni cavalli e molti fanti, si fermasse in Rubiera, per correre con la opportunità di quel luogo la strada romana tra Modena e Reggio, a effetto di impedire i danari e gli spacci che da Roma, Napoli e Firenze andavano a Milano; e procedere secondo l'occasione a maggiori imprese. Ma avendo Francesco Guicciardini, governatore di quelle città, presentito a buona ora questo disegno, e dimostrato al pontefice a che fini tendessino le mansuete parole e prieghi di Alberto e il pericolo in che incorrerebbe tutto lo stato ecclesiastico da quella parte, aveva tanto operato che il pontefice, sdegnato e con minaccie e dimostrazioni di volere usare la forza, aveva costretto Alberto a restituirgliene; il quale, non essendo ancora le cose franzesi tanto innanzi, non aveva avuto ardire di opporsegli. Ma avendo dipoi i Pii recuperato la terra di Carpi, Prospero, desideroso di racquistarla, fu autore che in nome della lega si conducesse Guido Rangone con cento uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille fanti, e che si ordinasse che mille fanti spagnuoli, che il duca di Sessa aveva soldati a Roma perché andassino a unirsi con gli altri a Milano, si fermassino per la medesima cagione a Modena. Le quali cose mentre si preparavano, Renzo da Ceri, a cui per la sua autorità e per la speranza del predare concorrevano molti cavalli e fanti, cominciò a correre la strada e a perturbare tutto il paese. Assaltò anche, già morto il pontefice, una notte all'improviso con dumila fanti la terra di Rubiera; ma difendendola gli uomini francamente, ed essendo molto difficile il pigliarla d'assalto, non l'ottenne: ove fu preso Tristano Corso, uno de' capitani de' suoi fanti.

                                                 Le quali forze, raccolte per diverse cagioni in questi luoghi, dettono occasione a cose maggiori. Perché, morto il pontefice, il duca di Ferrara, stracco dalle speranze che gli erano state date della restituzione di quelle terre, e considerando per la assoluzione ottenuta da Adriano essere manco difficile ottenere la venia delle cose tolte che la restituzione delle perdute, e persuadendosi quel medesimo che comunemente si credeva per tutti, che per le discordie de' cardinali, cresciute continuamente dopo la morte di Lione, avesse molto a differirsi la elezione del pontefice futuro, deliberò di attendere alla recuperazione di Modona e di Reggio: alla qual cosa, oltre all'altre opportunità, lo invitava la comodità di unire a sé Renzo da Ceri, che già avea congregati dugento cavalli e piú di dumila fanti. Però il duca, soldati tremila fanti e mandati a Renzo tremila ducati, si mosse verso Modena, nella qual città non era altro presidio che il conte Guido Rangone colle genti con le quali era stato condotto dalla lega; e benché nel popolo fusse esoso il dominio della casa da Esti, nondimeno, essendo le mura deboli e fabbricate senza fianchi al modo antico, ripiene le fosse, né fattavi già molto tempo alcuna riparazione, pareva bisognasse maggiore presidio. Però per il governatore e per il conte, che deposte alcune dissensioni state tra loro procedevano unitamente, si faceva estrema diligenza perché, secondo la deliberazione fatta prima, entrassino in Modona i fanti spagnuoli; i quali arrivati già in Toscana camminavano lentamente, facendo varie e ambigue risposte circa al volere fermarsi in Modena o andare innanzi: pure, con molti prieghi, furono contenti finalmente di entrarvi. La qual cosa intesa dal duca di Ferrara, che con dugento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e tremila fanti era venuto al Finale, lo ritenne quasi dal procedere piú oltre; pure, non essendo la cosa intera, e sperando potergli almeno coll'unione di Renzo da Ceri succedere [di] ottenere Reggio, non disperando ancora, che per la difficoltà de' pagamenti avesse a nascere ne' fanti degli inimici qualche disordine, deliberò di andare innanzi. Né erano queste speranze concepute leggiermente, perché non facendo il collegio de' cardinali, a cui il governatore avea con celerità significato i pericoli imminenti, provedimento alcuno, anzi, non che altro, non rispondendo a' messi e alle lettere ricevute, non vi era facoltà di potere co' danari publici pagare i soldati; e per sorte era venuto al dí che gli spagnuoli doveano ricevere lo stipendio del secondo mese, e quando pure si pagassino tutti niuna vi era speranza di soldarne maggiore numero; dividendo questi tra Modona e Reggio, niuna delle due città rimaneva sicura; né erano in Reggio soldati, e la disposizione del popolo diversa da quella de' modonesi. Nelle quali difficoltà avendo il governatore e il conte Guido deliberato di conservare Modena principalmente, come terra piú importante per la vicinità di Bologna, piú congiunta collo stato della Chiesa e ove piú facilmente potevano condursi i soccorsi e i provedimenti, mandarono a Reggio cinquecento fanti sotto Vincenzio Maiato bolognese, soldato del conte Guido; al quale commessono che non si potendo difendere la terra si ritirasse nella cittadella: la quale perché speravano che si difendesse almeno per qualche dí, mandò il governatore danari a Giovambatista Smeraldo da Parma castellano, perché chiamasse trecento fanti e pregò, benché invano, la comunità di Reggio che, trattandosi non meno della sicurtà loro che dello stato della Chiesa, prestassino alcuna quantità di danari per soldarne altri fanti. Al pericolo di Modona non potendo per mancamento di danari provedere altrimenti, il governatore, convocati molti cittadini espose loro le cose essere ridotte in grado che, non si pagando i fanti spagnuoli né avendo danari per provedere a molte altre spese, era necessario lasciare cadere la terra nelle mani del duca di Ferrara; la quale se vi fusse la provisione de' danari si difenderebbe, né essere altro modo di provedervi se essi medesimi non soccorrevano al bisogno presente, perché si rendeva certo che a quello che occorresse per l'avvenire o il nuovo pontefice o il collegio de' cardinali provederebbe. Non essere in quella congregazione alcuno che non avesse provato il dominio del duca di Ferrara e quello della Chiesa; però, quale de' due fusse piú amabile o piú acerbo essere superfluo il dimostrarlo, con gli argomenti o col discorso delle ragioni, a coloro a' quali l'aveva insegnato in memoria. Pregargli solamente che non gli movesse quella piccola quantità di danari che si dimandava loro in prestanza, perché questo, e quanto allo interesse publico e quanto all'utilità de' privati, era cosa di piccolissima considerazione a comparazione dello interesse di avere uno signore che piú loro sodisfacesse. Le quali parole ricevute volentieri negli animi di quegli che avevano la medesima inclinazione, providdono, con distribuzione fatta, tra loro medesimi il medesimo dí, a cinquemila ducati: co' quali avendo pagati gli spagnuoli e fatto altri provedimenti, niuno timore aveano dell'armi del duca di Ferrara.

                                                 Il quale, non presumendo delle forze proprie piú che si convenisse, lasciata Modona a mano sinistra ed essendosi unito seco nel camino Renzo da Ceri, si accostò a Reggio; la quale città subitamente l'accettò, e il dí seguente il castellano, aspettati pochi colpi d'artiglieria, gli dette la cittadella, allegando per sua giustificazione che Vincenzio Maiato chiamato da lui aveva ricusato di entrarvi, e che i danari mandatigli dal governatore gli erano stati tolti appresso a Parma, ove avea mandato per soldare i fanti. Dal duca, come prima ebbe ottenuto Reggio, si partí Renzo da Ceri, chiamato dall'ammiraglio di Francia; onde rimasto con pochi fanti, poi che per alcuni dí fu dimorato in sul fiume della Secchia, pose il campo alla terra di Rubiera: alla custodia della quale era stato diputato, dal conte Guido, il Vecchio da Coniano con dugento fanti. Né avea il duca se non piccola speranza di ottenerla, perché il castello è piccolo e molto munito per la larghezza e profondità delle fosse, e perché alle mura che lo circondano si unisce per tutto uno terrato grande; e nondimeno, avendo il dí seguente cominciato a battere con l'artiglierie il muro contiguo alla porta, il capitano de' fanti, o secretamente convenuto o spaventato, perché già gli uomini del castello cominciavano a sollevarsi, gittatosi dalle mura si appresentò innanzi al duca, ponendo in arbitrio suo la terra e se stesso: il quale entrato subito nella terra, accostate l'artiglierie alla rocca, spaventò in modo il castellano, che si diceva Tito Tagliaferro da Parma, che, benché la rocca fusse forte e sufficientemente proveduta d'uomini, d'artiglierie e di tutte le cose necessarie, non aspettato pure un colpo d'artiglieria, la dette innanzi alla notte. La quale ricevuta, il duca fermò l'esercito, sperando che per la vacazione lunga della sedia s'avessino a dissolvere i fanti che erano in Modona, e nutrendosi nel tempo medesimo, come di sotto si dirà, di speranza d'altre cose.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.15, cap.5

                                                  

                                                 I francesi occupano Lodi; vani tentativi contro Cremona. Fatti di guerra in Lombardia; fazioni sfavorevoli ai francesi. Accordi fra Prospero Colonna ed il duca di Ferrara per la cessione di Modena venuti a conoscenza del commissario Guicciardini. Monza ricuperata dagli imperiali; disposizione delle forze avversarie. Vano tentativo di tregua; ritirata dei francesi.

                                                  

                                                 In questo mezzo, Bonivetto disperato di potere per forza prendere Milano, alloggiato a San Cristoforo tralle porte Ticinese e Romana, luogo circondato da acque e da fossi, occupata Moncia avea mandato monsignore di Baiardo e con lui Federico da Bozzole con trecento lancie e ottomila fanti a prendere Lodi; ove, con cinquecento cavalli e cinquecento fanti della condotta che avea dalla Chiesa e da' fiorentini, era venuto il marchese di Mantova: il quale temendo di se medesimo si ritirò a Pontevico, e la città abbandonata ricevette dentro i franzesi. Preso Lodi, Federigo, gittato il ponte in su Adda, passò con le genti medesime nel cremonese per soccorrere il castello; il quale stretto dalla fame, non sapendo quegli che vi erano dentro che in Italia fusse passato l'esercito del re, si era, in quegli medesimi dí che l'ammiraglio si appropinquò a Milano, convenuto di arrendersi se per tutto il dí vigesimo sesto di settembre non fussino soccorsi. Accostossi Federico al castello, e poi che l'ebbe rinfrescato di vettovaglie e d'altri bisogni deliberò di assaltare la terra, confidandosi nell'avervi Prospero Colonna lasciato piccolo presidio: benché il marchese di Mantova v'avesse, per questo timore, mandato cento uomini d'arme cento cavalli leggieri e quattrocento fanti. Battuto che ebbe Federigo coll'artiglierie le mura, dette la battaglia invano, e dipoi fatta con l'artiglierie maggiore ruina dette un'altra battaglia ma col successo medesimo; onde si ridusse a San Martino, aspettando Renzo da Ceri che con dugento cavalli e duemila fanti veniva del reggiano: il quale come fu venuto, ritornati alle mura le batterono per molte ore con grande progresso, ma impediti da grandissime pioggie e conoscendo potere difficilmente ottenere la vittoria non tentorno piú oltre. Nel qual dí Mercurio, co' cavalli leggieri de viniziani, le genti de' quali si univano a Pontevico, passato l'Oglio corse insino a' loro alloggiamenti. Tentate queste cose invano, e avendo nell'esercito strettezza di vettovaglie, e risolvendosi i fanti condotti da Renzo perché non aveano ricevuti altri danari che quegli che avea dati a Renzo il duca di Ferrara, partitisi da Cremona, andorno a campo a Sonzino, ma con evento non dissimile. Saccheggiorno dipoi la terra di Caravaggio, ove dimororno alcuni dí: dalla quale dimora nasceva o scusa o impedimento al senato viniziano di non mandare a Milano gli aiuti a' quali erano tenuti; perché scusata la lentezza del raccorre le genti per la credenza stata comune a' capitani di Cesare che, per la separazione loro dal re di Francia, i franzesi quell'anno non passerebbono, affermava di mandargli come prima quegli che erano nel cremonese avessino ripassato il fiume dell'Adda.

                                                 In questo stato delle cose, diffidando ciascuna delle parti di porre con celerità fine alla guerra, niuno tentava di mettere in pericolo la somma delle cose. L'ammiraglio, non pensando all'espugnazione di Milano, avea collocata la speranza o che gl'inimici s'avessino a dissolvere per mancamento di danari o che fussino costretti, per carestia di vettovaglie, abbandonare Milano; ove con tutto fusse copia di frumento, nondimeno, in tanto popolosa città, la moltitudine di coloro che se n'aveano a nutrire era quasi innumerabile; e avendo egli levate l'acque e impediti i mulini, vi era difficoltà grande di macinare. Per questa cagione richiamate le genti dalla Ghiaradadda le fece fermare tra Moncia e Milano, acciò che i milanesi, i quali erano privati delle vettovaglie che solevano concorrere per le strade di Lodi e di Pavia, rimanessino privati eziandio di quelle che solevano ricevere dal monte di Brianza. Ma non bastavano queste cose a fare l'effetto desiderato dallo ammiraglio. Da altra parte, per consiglio di Prospero Colonna, con tutto che avesse oppresso il corpo da grave infermità né meno affaticato l'animo, non potendo tollerare, per la cupidità di conservarsi il primo luogo, la venuta del viceré di Napoli, si faceva diligenza per interrompere le vettovaglie agli inimici, le quali venivano dalla parte di là dal fiume del Tesino, perché la fortezza del sito nel quale alloggiavano non lasciava speranza alcuna di cacciargli con l'armi. Perciò procurò Prospero che in Pavia entrasse il marchese di Mantova. Per la venuta del quale, i franzesi temendo del ponte loro gittorno un altro ponte a Torligo, distante da Pavia venticinque miglia. Sollecitava oltre a questo Vitello, che con la compagnia delle genti d'arme che avea da' fiorentini (i quali nel principio della guerra l'aveano mandato a Genova) e con tremila fanti pagati da' genovesi avea occupato, eccetto Alessandria, tutto il paese di là dal Po, passasse il fiume, per turbare le vettovaglie che della Lomellina a' franzesi si conducevano. Ma questo non consentí il doge di Genova, temendo alle cose proprie per la propinquità dell'Arcivescovo Fregoso, il quale era in Alessandria. E perché i viniziani, le genti de' quali aveano passato l'Oglio, ricusavano per il pericolo di Bergamo passare Adda, mentre che quella parte de' franzesi che era partita da Caravaggio dimorava appresso a Moncia, Prospero ottenne che a Trezzo mandassino quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti per impedire le vettovaglie con le quali si sostentavano.

                                                 Alle quali cose mentre che da ciascuna delle parti si attende non si faceva altre azioni di guerra che battaglie leggiere, prede e scorrerie; nelle quali quasi sempre rimanevano inferiori i franzesi, e talvolta con danno memorabile. Conciossiacosaché essendo uscito, per fare scorta alle vettovaglie che venivano a Milano da Trezzo, Giovanni de' Medici con dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e mille fanti, incontratosi in ottanta lancie franzesi, la maggiore parte della compagnia di Bernabò Visconte, e messosi a seguitargli e poi astutamente ritirandosi, gli condusse in una imboscata, fatta da sé, di cinquecento scoppiettieri, e rottigli con poca difficoltà ne ammazzò o prese la maggiore parte. Similmente in una altra battaglia Zucchero borgognone roppe sessanta uomini d'arme della compagnia del grande scudiere. Assaltorno ancora piú volte i fanti spagnuoli i fanti franzesi che erano a guardia delle trincee che si facevano per andare coperti insino a' ripari, e ne ammazzorno non piccolo numero; e nel tempo medesimo Paolo Luzzasco, che con cento cinquanta cavalli leggieri era rimasto a Pizzichitone, scorrendo per tutto il paese circostante, dava molestia gravissima a quegli che erano in Cremona. Né succedevano allo ammiraglio piú felicemente l'insidie che l'altre cose. Perché essendosi occultamente convenuto con Morgante da Parma, uno de' capi di squadra di Giovanni de' Medici, essendone solamente conscio Gianniccolò de' Lanzi, uno de' suoi cavalli leggieri, e quattro altri, che come prima gli toccasse la guardia del bastione di una porta, il quale usciva fuora de' ripari, vi ricevesse dentro le sue genti, accadde, la notte destinata, che Morgante, parendogli avere bisogno a eseguire tal cosa di piú compagni, lo conferí con un altro de' suoi; il quale, simulando di consentire a questa perfidia, lo consigliò che andasse a comandare in nome di Prospero Colonna alle sentinelle che sentendo cosa alcuna non si movessero, acciocché non impedissino l'uomo il quale manderebbe a chiamare i soldati del campo che doveano venire al bastione: perché l'ammiraglio avea la notte medesima accostati da quella parte cinquemila fanti, perché stessino preparati quando riceveano il segno del muoversi, e messo in arme tutto l'esercito. Ma mentre che Morgante va a dare questo ordine l'altro corse subitamente a rivelare la cosa a Giovanni de' Medici; dal quale, andato al bastione, presi i consci ed esaminati, furono secondo il costume della giustizia militare passati per le picche. Ma già pareva che da ogni parte cominciassino a declinare le cose de' franzesi: perché, per la fertilità del paese circostante a Milano e per avere con mulini domestici sollevata la difficoltà del macinato, diminuiva del continuo la speranza che in quella città avessino a mancare le vettovaglie; e per gli spessi danni ricevuti intorno a Milano si credeva che avessino perduti tra utili e inutili mille cinquecento cavalli, onde spaventati non uscivano degli alloggiamenti, se non per la necessità di fare la scorta alle vettovaglie e a' saccomanni, e sempre molto grossi. La infamia della quale viltà l'ammiraglio convertendo in gloria sua, usava dire che non governava la guerra secondo l'impeto degli altri capitani franzesi ma con la moderazione e maturità italiana: e nondimeno, qualunque volta o cavalli o fanti di loro si riscontravano con gli inimici, dimostravano prontezza molto maggiore a fuggire che a resistere.

                                                 Assicurati adunque i capitani di Cesare dal timore dell'armi e della fame, anzi sperando di mettere in difficoltà delle vettovaglie gli inimici, niuna cosa piú gli tormentava che il mancamento de' danari; senza i quali era malagevole nutrire i soldati in Milano ma quasi impossibile menargli, quando cosí ricercassino l'occorrenze della guerra, fuora. Alla quale difficoltà cercando di provedere per molte vie, ma trall'altre Prospero, consentendogli occultamente il viceré di Napoli e il duca di Sessa, avea, quasi subito dopo la morte del pontefice, cominciato a trattare col duca di Ferrara: il quale, ricusato molte offerte fattegli dall'ammiraglio perché, ottenuto che ebbe Reggio, andasse all'espugnazione di Cremona, convenne finalmente con Prospero che, ricuperando per opera sua Modona, pagasse incontinente trentamila ducati e ventimila altri fra due mesi. La cosa pareva facile a eseguire, perché comandando Prospero al conte Guido Rangone soldato della lega e a' fanti spagnuoli che si partissino di Modona niuno rimedio era che quella città abbandonata non inclinasse subito il collo al duca: e movevano Prospero con maggiore ardire a questa cosa, oltre alla causa publica, le cupidità private l'amicizia con Alfonso da Esti il desiderio comune a tutti i baroni romani di deprimere la grandezza de' pontefici e la speranza che, alienata Modona e Reggio dalla Chiesa, Parma e Piacenza piú agevolmente al duca di Milano pervenissino. La qual cosa, mentre che secretissimamente si trattava, pervenuta agli orecchi del conte Guido e da lui manifestata al Guicciardino, conobbe non potersi in alcuno modo interrompere se non si persuadeva a' capitani spagnuoli (i quali bene trattati e largamente pagati stavano volentieri in quella città) che, allegando non essere sottoposti all'autorità di Prospero Colonna insino a tanto non fussino pervenuti allo esercito, recusassino di partirsi da Modona se non per comandamento del duca di Sessa, per il cui comandamento entrati vi erano; con saputa del quale benché il governatore tenesse per certo trattarsi questa cosa, si persuadeva che, essendo oratore di Cesare a Roma e reclamando il collegio, non solamente si vergognerebbe a dare tale commissione ma non potrebbe negare, alla richiesta de' cardinali, di comandare apertamente il contrario. E succedette la cosa appunto secondo il disegno. Perché, quando Prospero mandò a comandare al conte Guido e agli spagnuoli che andassino per le necessità della guerra a Milano, il conte si scusò con molte ragioni allegando essere suddito della Chiesa e modonese, e i capitani spagnuoli, persuasi da lui e dal governatore, risposono a niuno altro che al duca di Sessa dovere in tal cosa ubbidire: le quali cose significate dal governatore al collegio de' cardinali, chiamato subito al conclave il duca di Sessa, egli, non volendo rendere sospetto sé e per conseguente Cesare, non potette negare di non comandare per sue lettere a quegli capitani che non partissino. Anzi, come spesso succedono le cose contrarie a' pensieri degli uomini, ne succedette che, leggendosi nel collegio certe lettere di Prospero intercette dal governatore, per le quali si palesava tutto il progresso della cosa, i cardinali aderenti al re di Francia, per l'opposizione de' quali si difficultavano prima le provisioni de' danari che per opera del cardinale de' Medici si erano cominciati a mandare a Modona, conoscendo essere pernicioso al re che tal cosa avesse effetto, diventorno apertamente fautori che a Modona si mandassino danari; e il simigliante fece il cardinale Colonna, per dimostrare agli altri di anteporre a ogn'altro rispetto l'utilità della sedia apostolica. La quale diligenza benché fusse bastata a differire l'esecuzione delle convenzioni fatte con Alfonso da Esti, nondimeno, non essendo perciò rimosso il fondamento di questi pensieri, avevano in animo che il viceré di Napoli, il quale benché camminando lentamente veniva a Milano con quattrocento lancie e duemila fanti, quando passava da Modena ne levasse i fanti spagnuoli.

                                                 Ma a Milano, in questi tempi medesimi, augumentò la copia delle vettovaglie: perché, temendo l'ammiraglio che da' soldati che erano in Pavia non fusse occupato il ponte fatto da lui in sul Tesino, per il quale venivano all'esercito le cose necessarie, rimosse l'esercito minore da Moncia per mandare alla custodia del ponte tremila fanti; degli altri una parte chiamò a sé, gli altri distribuí parte in Marignano parte a Biagrassa vicina al ponte; onde agli imperiali, ricuperata Moncia, perveniva piú copiosamente la facoltà del cibarsi. Erano in questo tempo nell'esercito franzese (l'alloggiamento fortissimo del quale si distendeva dalla badia di Chiaravalle insino alla strada di Pavia, accostandosi da quella strada a Milano per minore spazio di un tiro di artiglieria) ottocento cavalli leggieri seimila svizzeri duemila fanti italiani diecimila tra guasconi e franzesi; aveano al ponte del Tesino mille fanti tedeschi mille italiani, il medesimo numero a Biagrassa, ove era Renzo da Ceri; in Noara dugento lancie, tra in Alessandria e in Lodi duemila fanti: in Milano erano ottocento lancie ottocento cavalli leggieri cinquemila fanti spagnuoli seimila fanti tedeschi e quattromila italiani, oltre alla moltitudine del popolo ardentissima con l'animo e con le opere contro a' franzesi; in Pavia il marchese di Mantova, con cinquecento lancie seicento cavalli leggieri dumila fanti spagnuoli e tremila italiani; a Castelnuovo di Tortonese erano con Vitello tremila fanti, benché poco dipoi, essendo passate alcune genti franzesi verso Alessandria, si ritirò a Serravalle per timore che non gli fusse impedita la facoltà del ritornarsi a Genova; e i viniziani avevano seicento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, de' quali mandorno mille fanti a Milano, a richiesta di Prospero desideroso di servirsi della fama de' loro aiuti, e poco dipoi un'altra parte a Cremona, per il sospetto di un trattato tenuto da Niccolò Varolo, il quale, per timore di non essere incarcerato, fuggí di quella città.

                                                 Finalmente l'ammiraglio, costretto dalla difficoltà delle vettovaglie, da' tempi freddissimi e nevi grandissime, e dalla instanza e protesti che gli facevano i svizzeri perché non voleano tollerare piú tante incomodità, deliberò discostarsi da Milano: ma innanzi publicasse il suo consiglio procurò che Galeazzo Visconte dimandasse facoltà di andare a vedere madonna Chiara, famosa per la forma egregia del corpo ma molto piú per il sommo amore che gli portava Prospero Colonna. Entrato in Milano introdusse ragionamenti di tregua, per i quali convennono insieme, il dí seguente, allato a' ripari, Alarcone, Paolo Vettori commissario fiorentino e Ieronimo Morone, e per l'ammiraglio Galeazzo Visconte e il generale di Normandia; i quali proposono che si sospendessino l'armi per tutto maggio, obligandosi a distribuire l'esercito per le terre: e arebbono alla fine consentito di ridursi tutti di là dal Tesino, ma dannando i capitani di Cesare l'interrompere colla tregua la speranza che aveano della vittoria risposono non potere deliberare cosa alcuna senza la volontà del viceré. Onde l'ammiraglio, due dí poi, mosse innanzi all'aurora verso la riva del Tesino l'artiglierie, seguitò, come fu chiaro il giorno, con tutto l'esercito, procedendo con tale ordine che pareva non recusasse di combattere. La qual cosa come fu veduta nella città, non solo i soldati e il popolo chiedevano con altissime voci di essere menati ad assaltargli ma i capitani e gli uomini di maggiore autorità faceano appresso a Prospero Colonna instanza del medesimo, dimostrandogli la facilità della vittoria, perché né di forze si riputavano inferiori agli inimici e di animo sarebbono molto superiori; non potendo essere che la ritirata non avesse messo timidità grande nella maggiore parte di quello esercito, della quale molti fanti italiani, che all'ora medesima si partivano, riferivano il medesimo. Ricordavangli la gloria infinita, la perpetuazione eterna del nome suo, se tante vittorie già acquistate confermasse con questa ultima gloria e trionfo. Ma nell'animo di Prospero era sempre fisso di fuggire quanto poteva di sottomettersi all'arbitrio della fortuna; e perciò, immobile nella sua sentenza non altrimenti che uno edificio solidissimo al soffiare de' venti, rispondeva non essere ufficio di savio capitano lasciarsi muovere dalle voci popolari, non menare i soldati suoi ad assaltare gli inimici quando niuna altra speranza restava loro che difendersi. Assai essersi vinto, assai gloria acquistata, avendo senza pericolo e senza sangue costretto gli inimici a partirsi; né dovere essere infinita la cupidità degli uomini, e potere ciascuno facilmente conoscere che senza comparazione maggiore sarebbe la perdita se le cose succedessino sinistramente che il guadagno se le succedessino prosperamente. Avere sempre con queste arti condotte a onorato fine le cose sue, sempre per esperienza conosciuto piú nuocere a' capitani la infamia della temerità che giovargli la gloria della vittoria: perché in parte di quella non veniva alcuno, tutta e intera s'attribuiva al capitano; ma la laude de' successi prosperi della guerra, almeno secondo la opinione degli uomini, comunicarsi a molti. Non volere, quando era già vicino alla morte, andare dietro a nuovi consigli, né abbandonare quegli i quali, seguitati da lui per tutta la vita passata, gli aveano dato gloria utilità e grandezza. Divisonsi i franzesi in due parti: l'ammiraglio con la parte maggiore si fermò a Biagrassa, terra distante da Milano quattordici miglia, gli altri mandò a Rosa distante da Milano sette miglia e, intra se medesime, miglia...

                                                  

                                                 Lib.15, cap.6

                                                  

                                                 Il conclave e l'elezione di Clemente VII. Aspettazione dell'opera del nuovo pontefice. Vano tentativo di Renzo da Ceri contro la rocca di Arona. Morte di Prospero Colonna; giudizio dell'autore. Variazioni nel modo di condurre le guerre dopo Carlo VIII. Fallimento dell'impresa di Cesare contro la Francia.

                                                  

                                                 Ma pochissimi dí poi che l'ammiraglio si era levato di quello alloggiamento, nel quale era stato circa..., succedette la creazione del nuovo pontefice, essendo già stati nel conclave cinquanta dí: nel quale entrati da principio trentasei cardinali e sopravenuti poi tre cardinali, consumorno tanto tempo con varie contenzioni; dividendo gli animi loro non solamente le volontà diverse di Cesare e del re di Francia ma eziandio la grandezza del cardinale de' Medici. Il quale, oppugnato da tutti quegli che seguitavano l'autorità del re, da alcuni di coloro ancora che dipendevano da Cesare, aveva in arbitrio suo le voci concordi di sedici cardinali, disposti assolutamente a eleggere lui e a non eleggere alcuno altro senza il suo consentimento, e promesse occulte da cinque altri di dare il voto alla elezione che si facesse di lui proprio; e lo favorivano oltre a questo lo imbasciadore di Cesare e tutti gli altri che l'autorità d'esso seguitavano: i quali fondamenti benché avesse avuti quasi tutti alla morte del pontefice Lione, nondimeno, era ora entrato nel conclave con la deliberazione piú costante di non abbandonare, né per lunghezza di tempo né per qualunque accidente, le sue speranze, fondate principalmente perché alla elezione del pontefice è necessario concorrino i due terzi delle voci de' cardinali presenti. Né gli ritraeva da queste divisioni o il pericolo comune d'Italia o proprio dello stato della Chiesa; anzi, secondo che variavano i progressi della guerra, andava ciascuna delle parti differendo la elezione, sperando favore dalla vittoria di quegli che gli erano propizi; e si sarebbe differita molto piú tempo se ne' cardinali avversi al cardinale de' Medici, i quali erano quasi tutti dei piú vecchi del collegio, fusse stata la medesima unione a eleggere qualunque di loro che era in non eleggere lui, e deposte le cupidità particolari si fussino contentati di questo fine, che il cardinale de' Medici non ascendesse al pontificato. Ma è molto difficile che mediante la concordia nella quale è mescolata discordia e ambizione si pervenga al fine che comunemente si cerca. Il cardinale Colonna, inimico acerbissimo del cardinale de' Medici, ma per natura impetuoso e superbissimo, sdegnato co' cardinali congiunti seco perché recusavano di eleggere pontefice il cardinale Iacobaccio romano, uomo della medesima fazione e molto dependente da lui, andò spontaneamente a offerire al cardinale de' Medici di aiutarlo al pontificato: il quale, per una cedola di mano propria, secretissimamente gli promesse l'officio della vicecancelleria che risedeva in persona sua, e il palazzo suntuosissimo il quale, edificato già dal cardinale di San Giorgio, era stato conceduto a lui dal pontefice Lione: donde acceso tanto piú il cardinale della Colonna indusse nella sentenza sua il cardinale Cornaro e due altri. La inclinazione de' quali come fu nota cominciorono molti degli altri, tirati, come spesso interviene ne' conclavi, da viltà o ambizione, a fare a gara di non essere degli ultimi a favorirlo; in modo che la notte medesima fu adorato per pontefice, di concordia comune di tutti, e la mattina seguente, che fu il giorno decimonono di novembre, fatta secondo la consuetudine la elezione per solenne scrutinio; il dí medesimo precisamente che due anni innanzi era vittorioso entrato in Milano. Credettesi che trall'altre cagioni gli avesse giovato l'entrata grande di benefici e uffici ecclesiastici, perché i cardinali quando entrorno nel conclave feciono concordemente una costituzione che l'entrate di quel che fusse eletto pontefice si distribuissino con eguale divisione negli altri. Voleva continuare nel nome di Giulio; ma ammonito da alcuni cardinali essersi osservato che quegli che, eletti pontefici, non aveano mutato il nome avevano tutti finita la vita loro infra uno anno, assunse il nome di Clemente settimo, o per essere vicina la festività di quel santo o perché alludesse allo avere, subito che fu eletto, perdonato e ricevuto in grazia il cardinale di Volterra con tutti i suoi: il quale cardinale benché Adriano avesse, negli ultimi dí della vita, dichiarato inabile a intervenire nel conclave, vi era entrato per concessione del collegio, e stato insino all'estremo pertinace perché Giulio non fusse eletto.

                                                 Grandissima certamente per tutto il mondo era l'estimazione del nuovo pontefice; però la tardità della elezione, maggiore che già fusse accaduto lunghissimo tempo, pareva ricompensata con l'avere posto in quella sedia una persona di somma autorità e valore; perché aveva congiunta ad arbitrio suo la potenza dello stato di Firenze alla potenza grandissima della Chiesa, perché aveva tanti anni a tempo di Lione governato quasi tutto il pontificato, perché era riputato persona grave e costante nelle sue deliberazioni, e perché, essendo state attribuite a lui molte cose che erano procedute da Lione, ciascuno affermava esso essere uomo pieno di ambizione, di animo grande e inquieto e desiderosissimo di cose nuove; alle quali parti aggiugnendosi lo essere alieno dai piaceri e assiduo alle faccende, non era alcuno che non aspettasse da lui fatti estraordinari e grandissimi. La elezione sua ridusse subito in somma sicurtà lo stato della Chiesa. Perché il duca di Ferrara, spaventato che in quella sedia fusse asceso un tale pontefice, né sperando piú di ottenere Modena per la venuta del viceré di Napoli, meno sperando ne' franzesi, i quali prima per mezzo di Teodoro da Triulzi venuto nel campo suo gli facevano, perché aderisse a loro, grandissime offerte, lasciata sufficiente custodia in Reggio e in Rubiera, ritornò a Ferrara. Quietoronsi similmente le cose della Romagna; ove, sotto nome di opprimere la fazione inimica ma in verità stimolato da' franzesi, era col seguito de' guelfi entrato Giovanni da Sassatello, scacciatone nel pontificato di Adriano per la potenza de' ghibellini.

                                                 Ma diviso che fu l'esercito franzese tra Biagrassa e Rosa, l'ammiraglio, appresso al quale non erano rimasti piú che quattromila svizzeri, licenziò come inutili i fanti del Delfinato e di Linguadoca e mandò l'artiglierie grosse di là dal Tesino, con intenzione di aspettare in quello alloggiamento le genti che il re preparava per soccorrerlo, perché non temeva potervi essere sforzato e vi aveva abbondanza di vettovaglie: e nondimeno, per non perdere del tutto il tempo, mandò Renzo da Ceri con settemila fanti italiani a pigliare Arona, terra fortissima ne' confini del Lago Maggiore, posseduta da Anchise Visconte; in soccorso del quale Prospero Colonna mandò da Milano mille dugento fanti. La rocca di Arona soprafà tanto la terra che è inutile il possedere questa a chi non possiede quella: però Renzo attendeva a battere la rocca, e avendovi dati piú assalti ove furno morti molti de' suoi, finalmente, poiché invano v'ebbe consumato circa a un mese, si partí; confermata l'opinione, che già molti anni era ampliata per tutta Italia, che piú, in niuna parte, le azioni sue corrispondessino alla fama acquistata nella difesa di Crema.

                                                 Camminava in questo tempo alla morte Prospero Colonna, stato già ammalato otto mesi, non senza sospetto di veleno o di medicamento amatorio: però, dove prima gli era molestissima la venuta del viceré, non potendo poi piú reggere le cure della guerra, l'aveva continuamente sollecitata. Venne adunque il viceré; ma accostatosi a Milano, per mostrare reverenza alla virtú e fama di tale capitano, soprastette qualche dí a entrarvi: pure, intendendo essere ridotto allo estremo e già alienato dello intelletto, entrò, per desiderio di vederlo, in tempo che sopravisse poche ore poi; benché altri dichino che ritardò a entrarvi dopo la morte, che succedette il penultimo dí di quello anno. Capitano certamente, in tutta la sua età, di chiaro nome, ma salito negli ultimi anni della vita in grandissima riputazione e autorità; perito dell'arte militare e in quella di grandissima esperienza; ma non pronto a pigliare con celerità l'occasioni che gli potessino porgere i disordini o la debolezza degli inimici, come anche per il suo procedere cautamente non lasciava facile a loro l'occasione di opprimere lui; lentissimo per natura nelle sue azioni e a cui tu dia meritamente il titolo di cuntatore: ma se gli debbe la laude d'avere amministrato le guerre piú co' consigli che con la spada, e insegnato a difendere gli stati senza esporsi, se non per necessità, alla fortuna de' fatti d'arme. Perché all'età nostra ha avute molte varietà il governo della guerra: conciossiaché, innanzi che Carlo re di Francia passasse in Italia, sostenendosi la guerra molto piú co' cavalli di armadura grave che co' fanti, ed essendo le macchine che si usavano contro alle terre incomodissime a condurre e a maneggiare, se bene tra gli eserciti si commettevano spesso le battaglie, piccolissime erano le uccisioni, rarissimo il sangue che vi si spargeva, e le terre assaltate tanto facilmente si difendevano (non per la perizia della difesa ma per la imperizia dell'offesa) che non era alcuna terra cosí piccola o cosí debole che non sostenesse per molti dí gli eserciti grandi degli inimici: di maniera che con grandissima difficoltà si occupavano con l'armi gli stati posseduti da altri. Ma sopravenendo il re Carlo in Italia, il terrore di nuove nazioni, la ferocia de' fanti ordinati a guerreggiare in altro modo, ma sopra tutto il furore delle artiglierie, empié di tanto spavento tutta Italia che a chi non era potente a resistere alla campagna niuna speranza di difendersi rimaneva; perché gli uomini, imperiti a difendere le terre, subito che s'approssimavano gli inimici s'arrendevano, e se alcuna pure si metteva a resistere era in brevissimi dí spugnata. Cosí il reame di Napoli e il ducato di Milano furno quasi in un dí medesimo vinti e assaltati; cosí i viniziani, vinti in una battaglia sola, abbandonorno subitamente tutto lo imperio che aveano in terra ferma; cosí i franzesi, non veduti non che altro gli inimici, lasciorno il ducato di Milano. Cominciorno poi gli ingegni degli uomini, spaventati dalla ferocia delle offese, ad aguzzarsi a' modi delle difese, rendendo le terre munite con argini con fossi con fianchi con ripari con bastioni; onde, aiutando anche molto questo effetto la moltitudine delle artiglierie, nocive piú nelle difensioni che nelle oppugnazioni, sono ridotte a grandissima sicurtà, le terre che sono difese, di non potere essere spugnate. A queste invenzioni dette, a tempo de' padri nostri, forse in Italia principio la recuperazione di Otranto; dove Alfonso duca di Calavria entrato trovò, fatti da' turchi, molti ripari incogniti agli italiani; ma rimasono piú nella memoria degli uomini che nell'esempio. Prospero con queste arti difese due volte piú chiaramente il ducato di Milano, esso medesimo, o solo o primo di alcuno altro, e offendendo e difendendo, coll'impedire agli inimici le vettovaglie, con l'allungare la guerra, tanto che 'l tedio la lunghezza la povertà i disordini gli consumavano; e vinse e difese senza tentare giornate, senza combattere, non traendo non che altro fuori la spada, non rompendo una sola lancia: onde aperta la via da lui a quegli che seguitorno, molte guerre, continuate molti mesi, si sono vinte piú con la industria con l'arti con la elezione provida de' vantaggi, che con l'armi.

                                                 Queste cose si feciono in Italia l'anno mille cinquecento ventitré. Preparoronsi per l'anno medesimo con grande espettazione molte cose di là da' monti, le quali non partorirno effetti degni di tanti príncipi. Perché Cesare e il re di Inghilterra aveano convenuto insieme e promesso al duca di Borbone di rompere con armi potenti la guerra, l'uno in Piccardia l'altro nella Ghienna; ma i movimenti del re di Inghilterra furno nella Piccardia quasi di niuno momento, e quel che tentò il duca di Borbone nella Borgogna si dimostrò subito vano, perché, mancandogli i danari per pagare i fanti tedeschi, alcuni de' capitani convenuti col re di Francia ne ritrassero una parte, onde egli andò a Milano: ove Cesare, non gli piacendo che passasse in Ispagna forse per non dare perfezione al matrimonio, come era il suo desiderio, mandatogli per Beuren il titolo di luogotenente suo generale in Italia, lo confortò che si fermasse. Né dalla parte di Spagna procederono a Cesare le cose felicemente. Il quale, benché ardente alla guerra fusse venuto a Pampalona per entrare in Francia personalmente, e di già avesse mandato l'esercito di là da' monti Pirenei, il quale avea occupato Salvatierra non molto distante da San Gianni di Piè di Porto, nondimeno, essendo stata maggiore la prontezza che non era la potenza (perché, per mancamento di danari, né poteva sostentare tante forze quanto sarebbe stato necessario a tanta impresa né aveva, per la medesima cagione, potuto raccorre l'esercito se non quasi alla fine dell'anno, donde ne' luoghi freddi la stagione dell'anno gli moltiplicava le difficoltà, impedivano la strettezza delle vettovaglie difficili a condursi per tanto cammino), fu costretto a dissolvere l'esercito, ragunato contro al consiglio quasi di tutti: tanto che Federigo di Tolleto duca di Alva, principe vecchio e di autorità, diceva, nel fervore della guerra, Cesare, in molte cose simile al re Ferdinando avolo materno, rappresentare piú in questa deliberazione Massimiliano avolo paterno.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.7

                                                  

                                                 Accordi fra i collegati per condurre a fine la guerra. Contegno del pontefice. Fortunate azioni del marchese di Pescara e di Giovanni de' Medici. Movimenti degli eserciti avversari. Azione dei veneziani a Garlasco e di Giovanni d'Urbino a Sartirana. Altri fatti di guerra nel ducato di Milano.

                                                  

                                                 Séguita l'anno mille cinquecento ventiquattro; nel principio del quale, invitando le difficoltà de' franzesi i capitani cesarei a pensare di porre fine alla guerra, chiamorno a Milano il duca di Urbino e Pietro da Pesero proveditore viniziano, per consultare come s'avesse a procedere nella guerra: nel quale consiglio fu unitamente deliberato che, subito a Milano giugnessino seimila fanti tedeschi, i quali il viceré aveva mandato a soldare, l'esercito cesareo e de' viniziani unito insieme si avvicinasse agli inimici per cacciargli, o coll'armi o colla fame, di quello stato. Alla qualcosa, giudicando avere forze sufficienti, niente altro repugnava che la difficoltà de' danari; de' quali dovendosi, per gli stipendi corsi, quantità grande a' soldati, non si sperava potergli fare muovere di Milano e dell'altre terre se prima non si pagavano; né manco era necessario, avendo a stare l'esercito alla campagna, provedere che per l'avvenire corressino ordinatamente di tempo in tempo i pagamenti. Sollevorono questa difficoltà in parte i milanesi, desiderosi di liberarsi dalle molestie della guerra, i quali prestorno al duca [novanta]mila ducati: disponendogli a questo piú facilmente l'esempio de' danari prestati quando Lautrech stette intorno a Milano, [i quali] erano stati dipoi, dell'entrate ducali, restituiti prontamente. Porse similmente a questa difficoltà la mano il pontefice; il quale, avendo sospettissima per la memoria delle cose passate la vittoria del re di Francia (benché con sommo artificio agli uomini che il re gli avea mandati dimostrasse il contrario), numerò occultissimamente all'oratore di Cesare ventimila ducati, e volle che i fiorentini, a' quali il viceré dimandava, per virtú della confederazione fatta vivente Adriano, nuova contribuzione, pagassino come per ultimo residuo trentamila ducati.

                                                 Né aveva perciò il pontefice nell'animo di dimostrarsi per l'avvenire piú favorevole all'una parte che all'altra; anzi, con tutto che Cesare e il re, mandatogli, subito che e' fu assunto al pontificato, l'uno Beuren l'altro San Marsau, si sforzassino congiugnerlo a sé, deliberava, rimossi che fussino i pericoli presenti, usando quella moderazione che nelle discordie de' cristiani conviene a' pontefici, attendere come non inclinato piú all'uno che all'altro a procurare la pace: la quale deliberazione, grata al re, che aveva temuto che pontefice non avesse contro a lui la medesima disposizione che aveva avuto cardinale, dispiaceva per il contrario a Cesare, parendogli che, per la passata congiunzione, per l'averlo favorito dopo la morte di Lione e nella assunzione al pontificato, fusse conveniente che non si separasse da lui. Però gli fu molestissimo quel che gli fu significato per parte del pontefice, che, benché non spogliasse l'animo della benivolenza portatagli insino a quel dí, nondimeno, che avendo deposta la persona privata e diventato padre comune, era necessitato in futuro a non fare offici se non comuni.

                                                 Ma mentre che il viceré si prepara per andare contro agli inimici mandò Giovanni de' Medici a campo a Marignano, la quale terra insieme con la fortezza si arrendé; e non molti dí poi il marchese di Pescara, il quale, disposto a non militare sotto Prospero Colonna, non prima che nell'estremità della sua vita era venuto alla guerra, avendo notizia che nella terra di Robecco alloggiavano con monsignore di Baiardo quattrocento cavalli leggieri e molti fanti, chiamato in compagnia Giovanni de' Medici, assaltatigli improvisamente, presa la maggiore parte degli uomini e de' cavalli, e dissipati e messi in fuga gli altri, ritornò subito a Milano, per non dare tempo agli inimici, che erano a Biagrassa, di seguitarlo: lodato in questo fatto di industria e di ardore ma molto piú di celerità, perché Robecco, distante non piú che due miglia da Biagrassa, è distante da Milano, donde erano partiti, diciassette miglia.

                                                 Ridotte a questo grado le cose della guerra, che la speranza de' franzesi consisteva che agli inimici avessino a mancare danari, quella degli imperiali che a' franzesi avessino a mancare le vettovaglie, perché non speravano potergli cacciare per forza dello alloggiamento fortissimo di Biagrassa, e nondimeno aspettando ciascuno soccorso, questi de' fanti tedeschi quegli de' svizzeri e altri fanti, l'ammiraglio, fatto abbruciare Rosa, ritirò quelle genti a Biagrassa, attendendo per incomodare gli inimici a fare correre e abbruciare tutto il paese. Ma venuti finalmente i fanti tedeschi, l'esercito imperiale, nel quale erano principali il duca di Milano il duca di Borbone il viceré di Napoli il marchese di Pescara, con mille secento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri settemila fanti spagnuoli dodicimila tedeschi e mille cinquecento italiani, lasciati alla guardia di Milano quattromila fanti, andò ad alloggiare a Binasco; ove, non molti dí poi, si uní con loro il duca di Urbino con secento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti de' viniziani. Nel quale tempo il castello di Cremona, non potendo piú resistere alla fame e avendo Federigo da Bozzole, che era in Lodi, tentato invano di soccorrerlo, s'arrendé agli imperiali. Andò dipoi l'esercito a Casera, terra propinqua a cinque miglia a Biagrassa; dove l'ammiraglio, il quale aveva distribuito tra Lodi, Novara e Alessandria dugento lancie e cinquemila fanti, stava fermo, con ottocento lancie, ottomila svizzeri (a' quali pochi dí poi se ne aggiunsono piú di tremila altri) e con quattromila fanti italiani e dumila tedeschi; né ancora esausto di vettovaglie, perché n'avevano nell'esercito e ne' luoghi vicini copia per due mesi. Impossibile era l'assaltargli, senza grandissimo pericolo, in alloggiamento tanto forte. Però gli imperiali, avendo piú volte tentato di passare il Tesino, per interrompere che da quella parte non passassino vettovaglie, per insignorirsi delle terre tenevano di là dal Tesino e per impedire che venendo soccorso di Francia non si unisse con loro, ma soprastando per timore che Milano non restasse in pericolo, finalmente deliberorno di passare, giudicando che per la confidenza che avevano nel popolo milanese non fusse necessario molto presidio di soldati. Però ritornò il duca a Milano e con lui Giovanni de' Medici, e vi restorno seimila fanti. Cosí passorno, il secondo dí di marzo, il fiume del Tesino sotto Pavia, in su tre ponti: alloggiò la battaglia a Gambalò, il resto dello esercito nelle ville vicine. Per la passata de' quali, l'ammiraglio mandò subito Renzo da Ceri alla guardia di Vigevano; e temendo di non perdere quella terra e gli altri luoghi di Lomellina, i quali perduti sarebbe restato quasi assediato, passò egli, a' cinque dí, con tutto lo esercito, lasciati a Biagrassa cento cavalli e mille fanti, e alloggiò la vanguardia sua intorno a Vigevano, la battaglia a Mortara a due miglia di Gambalò, dove era il viceré; nel quale alloggiamento, molto sicuro, aveva comode le vettovaglie, perché avevano sicura la strada di Monferrato, Vercelli e Novara, e le vettovaglie venivano di terra in terra, tutte vicine l'una a l'altra e quasi per condotto. Presentò l'ammiraglio, due dí continui, la battaglia agli inimici; i quali, benché si conoscessino superiori di numero e di virtú di soldati, recusorno di farla, non volendo mettere in pericolo la speranza del vincere quasi certa, perché per lettere intercette aveano presentito che a essi cominciavano a mancare danari.

                                                 Passato che ebbe l'esercito imperiale il Tesino, il duca di Urbino con le genti viniziane andò a campo a Garlasco, terra forte di sito, fossi e ripari, dove erano quattrocento fanti italiani; il quale, posto tra Pavia e Trumello di là dal Tesino, dove egli aveva disegnato di alloggiare, interrompeva non solo a lui ma a tutto il resto dello esercito le vettovaglie: e fatta la batteria gli dette il dí medesimo l'assalto, nel quale essendo quasi ributtato, molti de' suoi passorono per l'acqua de' fossi insino alla gola, essendovi ancora alcuni de' fanti di Giovanni de' Medici; e assaltorono con tale impeto che vi entrorono per forza, con grandissima uccisione di quegli di dentro. Accostossi dipoi l'esercito a San Giorgio verso la Pieve al Cairo, per accostarsi a Sartirano, terra forte situata in sulla riva di qua dal Po, e opportuna a impedire loro le vettovaglie; alla custodia della quale erano Ugo de' Peppoli e Giovanni da Birago con alcuni cavalli e con [secento] fanti. Ma andatovi Giovanni d'Urbina, coll'artiglierie e con dumila fanti spagnuoli, espugnò prima la terra e poi la rocchetta, uccisi quasi tutti i fanti e presi i capitani. Mossonsi i franzesi per soccorrere Sartirano, ma prevenuti dalla celerità degli inimici, inteso nel cammino quel che era succeduto, fermorno tutto l'esercito a Mortara.

                                                 Né ancora nell'altre parti del ducato di Milano procedevano felicemente le cose loro. I soldati lasciati in Milano costrinsono ad arrendersi la terra di San Giorgio sopra Moncia, dalla quale andavano vettovaglie a Biagrassa; Vitello ricuperò la terra della Stradella, gli uomini della quale costretti dalla iniquità de' soldati aveano chiamato fanti da Lodi; Paolo Luzzasco scontratosi in molti cavalli de' franzesi gli messe in fuga; e Federico da Bozzole andato da Lodi ad assaltare Pizzichitone ne riportò, in cambio della vittoria, ferite e morti di molti de' suoi. Solamente, alcuni cavalli de' franzesi, scorrendo tra Piacenza e Tortona, tolsono quattordicimila ducati mandati allo esercito di Cesare.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.8

                                                  

                                                 I grigioni assoldati dai francesi giunti a Cravina ritornano in patria. I francesi perdono Biagrassa; la peste a Milano. Bonnivet a Novara, quindi a Romagnano, ed al di là della Sesia inseguito dai nemici; assalti e scaramuccie; ferita e morte di Baiardo. Ritorno di Bonnivet in Francia. L'Italia liberata pel momento dalle molestie della guerra, ma non dal sospetto che si rinnovino.

                                                  

                                                 In queste difficoltà due erano le speranze dell'ammiraglio, l'una della diversione l'altra del soccorso; perché il re mandava per la montagna di Monginevra quattrocento lancie alle quali doveano unirsi diecimila svizzeri, e Renzo da Ceri conduceva per la via di Val di Sasina nel territorio di Bergamo cinquemila fanti grigioni, onde doveano passare a Lodi a congiugnersi con Federico da Bozzole col quale erano molti fanti italiani: persuadendosi l'ammiraglio che l'esercito di Cesare sarebbe costretto a ripassare, per la sicurtà di Milano, il fiume del Tesino. Incontro a questi mandò il duca di Milano Giovanni de' Medici con cinquanta uomini d'arme trecento cavalli leggieri e tremila fanti; il quale, unitosi con trecento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e quattromila fanti de' viniziani, si accostò agli inimici venuti alla villa di Cravina, tra i fiumi dell'Adda e del Brembo, e lontana otto miglia da Bergamo; e corse con una parte delle genti insino a' loro alloggiamenti: i quali, il terzo dí dappoi, querelandosi non avere trovato a Cravina né danari né cavalli né altri fanti, come dicevano essere stato promesso da Renzo, ritornorno al paese loro. Risoluto il movimento de' grigioni, Giovanni de' Medici spugnò Caravaggio, e di poi passato Adda messe con l'artiglierie in fondo il ponte che i franzesi aveano a Bufaloro in sul Tesino. Rimaneva ancora in potestà de' franzesi, tra Milano e il Tesino, la terra di Biagrassa, ove erano molte vettovaglie e a guardia mille fanti sotto Ieronimo Caracciolo napoletano. Alla spugnazione della quale, perché posta in sul canale grande impediva le vettovaglie che molte [si] sogliono per quello canale condurre a Milano, si mosse Francesco Sforza, chiamato a sé Giovanni de' Medici; e seguitandolo oltre a' soldati tutta la gioventú del popolo milanese. Dettono l'assalto alla terra, avendola prima battuta con l'artiglierie da' primi raggi del sole insino a mezzo il giorno, e l'espugnarono il dí medesimo; con singolare laude di Giovanni de' Medici, nel quale apparí quel dí non solamente la ferocia, colla quale avanzava tutti gli altri, ma prudenza e maturità degna di sommo capitano. Fu preso il Caracciolo, ammazzati molti fanti, molti ne fece sospendere Giovanni de' Medici per punizione di essersi prima fuggiti da lui. Spugnata la terra s'arrendé la rocca, pattuita la salute di quegli che vi erano dentro. Fu lietissima questa vittoria al popolo milanese; ma senza comparazione maggiore fu la infelicità che la letizia, perché da Biagrassa, dove era cominciata la peste, furno, per il commercio delle cose saccheggiate trasportate a Milano sparsi in quella città i semi di tanto pestifera contagione; la quale, pochi mesi poi, si ampliò tanto che solamente in Milano tolse la vita a piú di cinquantamila persone.

                                                 Ma di là dal Tesino, ove era la somma delle cose, l'ammiraglio, dopo la perdita di Sartirano essendosegli di nuovo approssimati gli inimici, abbandonata Mortara si ritiro in due alloggiamenti a Novara; diminuito molto di forze, perché non solamente de' fanti ma assai degli uomini d'arme erano alla sfilata ritornati in Francia: onde niuno altro intento era in lui che temporeggiarsi insino a tanto venisse il soccorso de' svizzeri, i quali in numero circa ottomila erano già vicini a Ivrea. Da altra parte i capitani [imperiali] intenti a impedire la venuta loro, intenti a ridurre gli inimici in difficoltà di vettovaglie, occupavano le terre vicine a Novara, ammazzando i franzesi ove gli trovavano lasciati alla guardia delle terre; e avendo messo presidio in Vercelli, per torre la facoltà a' svizzeri di entrarvi, si fermorno a Biandrà tra Vercelli e Novara, in uno alloggiamento circondato da ogni parte di fossi d'alberi e acque. Finalmente l'ammiraglio, intendendo i svizzeri passata Ivrea essersi fermati in sul fiume della Sesia, il quale per la copia che in quelli dí vi era d'acque non aveano potuto passare, desideroso di unirsi con loro, piú (come si credeva) per partirsi sicuro che per combattere, andò da Novara ad alloggiare a Romagnana in sul fiume medesimo; ove, patendo di vettovaglie e diminuendo continuamente il numero delle sue genti, fece gittare il ponte tra Romagnana e Gattinara: e da altra parte gli inimici, venuti da Biandrà a Briona, andorno ad alloggiare appresso a Romagnana a due miglia. In queste angustie passorno i franzesi il fiume il dí seguente: la mossa de' quali se fusse stata sollecitamente vegghiata dagli inimici, si crede che quel dí n'arebbono riportata pienissima vittoria. Ma erano diverse le sentenze de' capitani, alcuni desiderando che si combattesse, alcuni che senza molestargli si lasciassino partire. Né pareva che nell'esercito fusse la providenza e il governo conveniente. Solo il marchese di Pescara, procedendo in tutte l'azioni col solito valore, pareva degno che a lui si riferisse la somma delle cose; gli altri, invidiosi della virtú e gloria sua, cercavano di oscurarla piú presto col detrarre e contradire che con la concorrenza delle opere.

                                                 Tardi pervenne allo esercito imperiale la notizia della partita de' franzesi: la quale come fu intesa, molti cavalli leggieri e molti fanti, senza ordine senza insegne, guadato il fiume gli seguitorno; i quali pervenuti all'ultimo squadrone cominciorno a scaramucciare, e benché i franzesi, combattendo e camminando, gli sostenessino per lungo spazio di tempo, lasciorno finalmente sette pezzi di artiglieria e copia di munizioni e di vettovaglie, oltre a molte insegne di cavalli e di fanti, morti eziandio di essi non pochi nel combattere. Feciono i franzesi dimostrazione di alloggiare a Gattinara, terra distante un miglio da Romagnana, e intratanto facevano occultamente andare innanzi i carriaggi e l'artiglierie; ma come gli inimici, credendo che alloggiassino, furno cominciati a ritirarsi, andorno piú oltre circa sei miglia ad alloggiare a Ravisingo verso Ivrea. Alloggiorno la sera medesima gli imperiali senza impedimenti in sul fiume, il quale passorno come prima cominciò a lucere la luna; non gli seguitando i viniziani, a' quali, essendo entrati nel territorio del duca di Savoia, pareva avere trapassati gli oblighi della confederazione, per la quale non erano tenuti a altro che alla difesa del ducato di Milano. Procedevano i franzesi in battaglia bene ordinata con lento passo, avendo collocati nel retroguardo i svizzeri; da' quali furno rimessi i primi cavalli e fanti che venendo disordinatamente gli assaltorno, essendo già i franzesi discostati da Ravisingo circa due miglia. Ma sopravenendo il marchese di Pescara co' cavalli leggieri si rinnovò la battaglia, non tale che fermasse il camminare de' franzesi; de' quali in questo ultimo congresso fu ammazzato Giovanni Cabaneo e fatto prigione monsignore di Baiardo, percosso da uno scoppietto, della quale ferita morí poco di poi. Parve al marchese, ancora che già fussino sopravenuti molti soldati, non seguitare gli inimici piú oltre, perché non avea seco artiglierie né altro che una parte sola dell'esercito. Cosí, rimasti i franzesi senza molestia ritornorno, insieme co' svizzeri, alle case loro; avendo lasciato a Bauri di là da Ivrea quindici pezzi d'artiglieria alla custodia di trecento svizzeri e di uno de' signori del paese: ma né queste si salvorno, perché i capitani di Cesare, avutane notizia, mandorno a prenderle. Divisonsi poi i vincitori in piú parti: a Lodi fu mandato il duca di Urbino, ad Alessandria il marchese di Pescara; le quali città sole si tenevano in nome del re, perché Novara, accostandovisi il duca di Milano e Giovanni de' Medici, si era arrenduta: al viceré rimase la cura di andare incontro al marchese del Rotellino, il quale con quattrocento lancie aveva passato i monti: ma questo, intesa la partita dell'ammiraglio, ritornò subito in Francia. Né feciono resistenza alcuna Boisí e Giulio da San Severino preposti alla guardia di Alessandria. Similmente Federico, dimandato tempo di pochi dí per certificarsi se era vero che l'ammiraglio avesse passato i monti, convenne di lasciare Lodi; riservatasi facoltà, come eziandio era stato conceduto a quegli di Alessandria, di condurre in Francia i fanti italiani: i quali, in numero circa cinquemila (che tanti erano nell'una e l'altra città), furno poi alle cose del re di grandissimo giovamento.

                                                 Questo fine ebbe la guerra fatta contro al ducato di Milano sotto il governo dell'ammiraglio: per il quale non essendo indebolita la potenza del re di Francia né stirpate le radici de' mali, non si rimovevano ma solamente si differivano in altro tempo tante calamità; rimanendo in questo mezzo Italia liberata dalle molestie presenti ma non dal sospetto delle future. Tentossi nondimeno per Cesare, stimolato dal duca di Borbone e invitato dalla speranza che l'autorità di quel duca avesse a essere di grandissimo momento, di trasferire la guerra in Francia, dimostrandosi pronto al medesimo il re di Inghilterra.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.9

                                                  

                                                 I soldati di Cesare prendono Fonterabia; vani tentativi del pontefice di condurre i príncipi alla pace o alla tregua; pretese del re d'Inghilterra al trono di Francia, e ambizione del cardinale eboracense. Accordi di Cesare e del re d'Inghilterra per muovere la guerra in Francia; il pontefice avverso all'impresa. Occupazione di Nizza. Vicende della guerra in Provenza. Deliberazione del re di Francia di portare la guerra in Italia. Ritirata dei soldati di Cesare dalla Provenza. Gli eserciti nemici nel ducato di Milano.

                                                  

                                                 Aveva Cesare, nel principio dell'anno presente, mandato il campo a Fonterabia, terra di brevissimo spazio, posta in sull'estuario che divide il regno di Francia dalla Spagna; e ancora che quel luogo fusse munitissimo d'uomini di artiglierie e di vettovaglie, né mancasse tempo a coloro che lo difendevano di ripararlo, nondimeno, per la imperizia de' franzesi, i ripari furno fatti tanto inavvertentemente che, rimanendo esposti alle offese degli inimici, la necessità gli costrinse a convenire di uscirsene salvi. Recuperata Fonterabia si distendevano piú oltre i suoi pensieri, rifiutati i conforti e l'autorità del pontefice; il quale, avendo mandato nel principio dell'anno, per trattare o pace o sospensione dell'armi, a Cesare al re di Francia e al re di Inghilterra, aveva trovato gli animi mal disposti: perché il re, acconsentendo alla tregua per due anni, ricusava la pace, non sperando potere ottenere in quella condizioni che gli soddisfacessino; Cesare, dannando la tregua per la quale si dava tempo al re di Francia a riordinarsi a nuova guerra, desiderava la pace; e al re d'Inghilterra era molesta qualunque convenzione si facesse per mezzo del pontefice, per il desiderio che avea che il trattamento della concordia finalmente del tutto si referisse a lui, inducendolo a questo gli ambiziosi consigli del cardinale eboracense. Il quale, veramente esempio a' nostri dí di immoderata superbia, benché nato di infima condizione e di sangue sordidissimo, era salito appresso a quel re in tanta autorità che era manifestissimo a ciascuno che la volontà del re senza la approvazione di Eboracense fusse di niuno momento, e per contrario fusse validissimo tutto quello che Eboracense solo deliberasse. Ma dissimulavano il re e il cardinale con Cesare questo pensiero, dimostrandosi ardenti a muovere la guerra contro al reame di Francia; il quale il re di Inghilterra pretendeva legittimamente appartenersegli per varie ragioni, pigliandone la prima origine da Adovardo cognominato..., re d'Inghilterra. Il quale essendo, insino nell'anno della salute nostra mille [trecento ventotto], morto senza figliuoli maschi Carlo quarto, cognominato bello, re di Francia, della sorella del quale era nato Adovardo, aveva fatto instanza, come piú prossimo de' parenti maschi al re morto, essere dichiarato re di quel reame; ma escluso dal parlamento universale di tutto il regno, nel quale fu determinato che per virtú della legge salica, legge antichissima di quel reame, fussino inabili a succedere non solo le femmine ma ciascuno nato per linea femminina, assunto non molto dipoi il titolo di re di Francia, assaltò il regno con esercito potente; dove ottenute molte vittorie, e contro a Filippo di Valois, il quale con consentimento comune era stato dichiarato successore di Carlo bello, e contro a Giovanni suo figliuolo il quale condusse prigione in Inghilterra, contrasse finalmente pace con lui; per la quale, rimanendogli molte provincie e stati del reame di Francia, rinunziò al titolo regio. Ma essendo a questa pace, che non fu lungamente osservata, succedute ora lunghe guerre ora lunghe tregue, ultimamente Enrico quinto re d'Inghilterra, confederatosi con Filippo duca di Borgogna, alienato dalla corona di Francia per la uccisione del duca Giovanni suo padre, ebbe successi tanto prosperi contro a Carlo sesto, re alienato dallo intelletto, che insieme con la città di Parigi occupò quasi tutto il reame di Francia; nella quale città avendo trovato il re insieme con la moglie e con Caterina sua figliuola, si congiunse in matrimonio con quella, facendo al re demente consentire che, nonostante vivesse Carlo suo figliuolo, il regno, morto il padre, si trasferisse in lei e ne' suoi figliuoli: per virtú del quale titolo, benché invalido e inetto, fu, dopo la morte di Enrico, coronato solennemente in Parigi Enrico sesto suo figliuolo re di Francia e di Inghilterra. Ma ancoraché poi Carlo, dopo la morte del padre nominato Carlo settimo, per l'occasione dell'essere suscitate in Inghilterra tra quegli del sangue regio gravissime guerre, cacciasse gli Inghilesi, eccettuata la terra di Calès, di là dal mare Oceano, nondimeno non omessono per questo i re di Inghilterra di usare il titolo di re di Francia. Queste cagioni potevano muovere Enrico ottavo alla guerra, sicuro piú che fusse stato alcuno degli antecessori nel suo reame: perché essendo stati depressi dai re della famiglia di Iorch (era questo il nome d'una fazione) i re della famiglia di Lancastro, nome dell'altra, i seguaci della casa di Lancastro, non vi essendo superstite piú alcuno di quel sangue, sollevorono al regno Enrico di Richemont, come piú prossimo a loro; il quale, superati ed estinti i re avversari, per regnare con maggiore fermezza e autorità si copulò legittimamente con una figliuola di Adovardo penultimo re della casa di Iorch, donde pareva che in Enrico ottavo, nato di questo matrimonio, fussino trasferite tutte le ragioni dell'una e dell'altra famiglia; le quali, per le insegne portavano, si chiamavano volgarmente la rosa rossa e la rosa bianca. Nondimeno, non incitava principalmente il re di Inghilterra la speranza di conseguire con l'armi il reame di Francia, perché in questo conosceva innumerabili difficoltà, quanto la cupidità di Eboracense che la lunghezza de' travagli e la necessità delle guerre avesse finalmente a partorire che nel suo re avesse a essere rimesso l'arbitrio della pace, quale sapendo dovere dependere dalla sua autorità, pensava, in uno tempo medesimo, e fare risonare gloriosamente per tutto il mondo il nome suo e stabilirsi la benivolenza del re di Francia, al quale occultamente inclinava. Però non proponeva di obligarsi a quelle condizioni alle quali, se avesse [avuto] l'animo ardente a tanta guerra, era conveniente si obligasse.

                                                 Questa occasione incitava Cesare alla guerra, e molto piú la speranza che la grazia l'autorità e il seguito grande che il duca di Borbone soleva avere in quel reame avesse a sollevare molto il paese. Perciò, con tutto che molti de' suoi lo consigliassino che, mancandogli danari e avendo compagni di fede incerta, deposti i pensieri di cominciare una guerra tanto difficile, consentisse che il pontefice trattasse la sospensione dell'armi, convenne col re di Inghilterra e col duca di Borbone: che il duca passasse nel reame di Francia con parte dello esercito che era in Italia; al quale, come avesse passato i monti, pagasse il re di Inghilterra ducati centomila per le spese della guerra del primo mese, restando in arbitrio suo o continuare di mese in mese questa contribuzione o di passare in Francia con esercito potente, per fare guerra dal primo dí di luglio per tutto il mese di dicembre, ricevendo dallo stato di Fiandra tremila cavalli e mille fanti con sufficiente artiglieria e munizione: che ottenendosi la vittoria, si restituisse al duca di Borbone lo stato toltogli dal re di Francia; acquistassesi per lui la Provenza, alla quale pretendeva per la cessione fatta dopo la morte di Carlo ottavo dal duca dell'Oreno ad Anna duchessa di Borbone, la quale tenesse con titolo di re; giurasse, innanzi al pagamento de' centomila ducati, il re di Inghilterra in re di Francia e prestassegli omaggio, il che non facendo, questa capitolazione fusse nulla; né potesse Borbone trattare, senza consenso di tutti due, col re di Francia: rompesse Cesare la guerra nel tempo medesimo da' confini di Spagna, e che gli oratori di Cesare e del re di Inghilterra procurassino che i potentati di Italia, per assicurarsi in perpetuo dalla guerra de' franzesi, concorressino con denari a questa impresa; cosa che riuscí vana, perché il pontefice non solo recusò di contribuire ma dannò espressamente questa impresa, predicendo che non solo non arebbe in Francia prospero successo ma che eziandio sarebbe cagione che la guerra ritornasse in Italia piú potente e piú pericolosa che prima.

                                                 La quale confederazione come fu fatta, benché il duca di Borbone, il quale costantemente recusò di riconoscere il re di Inghilterra in re di Francia, confortasse che piú presto si andasse con l'esercito verso Lione per accostarsi al suo stato, nondimeno fu deliberato si passasse in Provenza, per la facilità che arebbe Cesare di mandargli soccorso di Spagna e per servirsi dell'armata che, per comandamento e co' danari di Cesare, si preparava a Genova. I progressi di questa spedizione furno che Borbone e con lui il marchese di Pescara, dichiarato a quella guerra (perché di ubbidire a Borbone si sdegnava) capitano generale di Cesare, passorno a Nizza; ma con forze molto minori di quelle che erano destinate: perché a cinquecento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri quattromila fanti spagnuoli tremila fanti italiani e cinquemila tedeschi si doveano aggiugnere trecento uomini d'arme dell'esercito di Italia e cinquemila altri fanti tedeschi, ma questi per mancamento di danari non vennono; e il viceré, impotente a soldare nuovi fanti, come era stato deliberato ne' primi consigli, per opporsi a Michelantonio marchese di Saluzzo (il quale, cacciato del suo stato, era con mille fanti in sulla montagna), riteneva gli uomini d'arme per la guardia del paese. Aggiugnevasi che l'armata di Cesare, una delle principali speranze, guidata da don Ugo di Moncada allievo del Valentino, uomo di pravo ingegno e di pessimi costumi, appariva inferiore alla armata del re di Francia; la quale partita da Marsilia si era fermata nel porto di Villafranca. Entrorno nondimeno nella Provenza; la Palissa la Foglietta Renzo da Ceri e Federigo da Bozzole, capitani del re, perché non aveano forze sufficienti a opporsi si andavano continuamente ritirando. Una parte, camminando allato al mare, spugnò la torre imminente al porto di Tolone, dalla quale furno condotti all'esercito due cannoni. Arrendessi Asais, città, per la sua degnità e perché vi risiede il parlamento, principale della Provenza, e molte altre terre del paese. Desiderava il duca di Borbone che da Asais, discostandosi dal mare, si cercasse di passare il fiume del Rodano, per entrare piú nelle viscere dello stato del re di Francia, mentre che erano deboli le sue provisioni; perché le genti d'arme sue, avendo patito molto e maltrattate ne' pagamenti dal re, molto esausto di danari e che non aspettava che gli inimici di Lombardia passassino in Francia, erano ridotte in tale disordine che non si potevano cosí presto riordinare; e diffidando, come sempre, della virtú de' fanti del suo reame era necessitato aspettare, innanzi uscisse in campagna, la venuta di fanti svizzeri e tedeschi: nel quale spazio di tempo pensava Borbone di potere, passando il Rodano, fare qualche progresso importante. Ma altra fu la sentenza del marchese di Pescara e degli altri capitani spagnuoli; i quali per l'opportunità del mare desideravano, come sapevano essere la intenzione di Cesare, che si acquistasse Marsilia, porto opportunissimo a molestare con l'armate marittime la Francia e a passare di Spagna in Italia. Alla volontà de' quali non potendo repugnare il duca di Borbone, posero il campo a Marsilia; nella quale città era entrato Renzo da Ceri con quegli fanti italiani che da Alessandria e da Lodi erano stati menati in Francia. Intorno a Marsilia dimororno vanamente quaranta dí, perché, benché battessino da piú parti le mura con l'artiglierie e tentassino di fare le mine, nondimeno si opponevano alla spugnazione molte difficoltà: la muraglia assai forte di antica struttura, la virtú de' soldati, la disposizione del popolo, divotissimo a' re di Francia e inimicissimo al nome spagnuolo, per la memoria che Alfonso vecchio d'Aragona, ritornando da Napoli con armata marittima in Ispagna, avea all'improviso saccheggiata quella città, la speranza del soccorso cosí dalla parte del mare come perché il re di Francia, venuto in Avignone città del pontefice posta in sul Rodano, raccoglieva continuamente grande esercito. Aggiugnevasi che all'esercito mancavano danari. Mancavano similmente le speranze che il re di Francia, assaltato da altre parti, fusse impedito a volgere a una parte sola tutti i suoi provedimenti: perché il re di Inghilterra, con tutto che appresso a Borbone avesse mandato Riccardo Pacceo, ricusava di pagare i centomila ducati per il secondo mese; meno faceva segni di muovere la guerra nella Piccardia, anzi, avendo ricevuto nell'isola Giovan Giovacchino dalla Spezie mandatogli dal re di Francia, e rispondendo il cardinale sinistramente agli oratori di Cesare, dava dell'animo suo non mediocre sospetto. Né dalla parte di Spagna corrispondeva la potenza alla volontà: perché, avendo le corti di Castiglia (cosí chiamano la congregazione de' deputati in nome di tutto il regno) negato a Cesare di sovvenirlo di quattrocentomila ducati, come sogliono fare ne' casi gravi del re, non avea potuto mandare danari all'esercito che era in Provenza, né fare da' confini suoi contro al re di Francia se non deboli movimenti e di pochissima riputazione. Onde i capitani cesarei, disperati di ottenere Marsiglia e temendo, come il re si accostava, non incorrere in gravissimo pericolo, levorno il campo da Marsilia, il medesimo dí nel quale il re, raccolti seimila svizzeri (la venuta de' quali aspettando avea tardato), si mosse d'Avignone con tutto l'esercito. Levato il campo da Marsilia, i capitani di Cesare voltorono subito la fronte a Italia, procedendo con grandissima celerità, perché conoscevano in quanto pericolo si ridurrebbono se nel paese inimico si fusse accostato loro o tutto o parte dell'esercito del re di Francia; e da altra parte il re, giudicando d'avere occasione molto opportuna di ricuperare il ducato di Milano per l'esercito potente che avea, perché sapeva essere deboli le cose degli inimici, e perché sperava andando per il cammino diritto dovere essere in Italia innanzi all'esercito che si partiva da Marsilia, deliberò seguitare quel beneficio che la fortuna gli porgeva; la qual cosa manifestò agli uomini suoi con queste parole: - Io ho stabilito di volere, senza indugio, passare in Italia personalmente; qualunque mi conforterà al contrario non solo non sarà udito da me ma mi farà cosa molto molesta. Attenda ciascuno a eseguire sollecitamente quel che gli sarà commesso, o che appartiene all'ufficio suo. Iddio, amatore della giustizia, e la insolenza e temerità degli inimici ci ha finalmente aperta la via di ricuperare quel che indebitamente ci era stato rapito. -

                                                 A queste parole corrispose e la costanza nella determinazione e la celerità dell'esecuzione. Mosse subito l'esercito, nel quale erano dumila lancie e ventimila fanti; fuggito il congresso della madre, che da Avignone veniva per confortarlo che non passando i monti amministrasse la guerra per capitani. Commesse a Renzo da Ceri che co' fanti che erano stati seco a Marsilia salisse in sull'armata e, o per non prestare l'orecchie a' ragionamenti della concordia o diffidando del pontefice, vietò che l'arcivescovo di Capua, mandato a lui per passare poi a Cesare, procedesse piú oltre, ma che o trattasse seco per lettere, aspettando in Avignone appresso alla madre, o ritornasse al pontefice. E se (come scrisse iattabondo in Italia, presupponendo forse, secondo l'uso di molti, le cose ragionate e disegnate per già fatte o eseguite) avesse col medesimo ardore fatto seguitare gli inimici che si partivano, sarebbe per avventura, con poco sangue e senza pericolo, rimasto vincitore di tutta la guerra. Ma essi disprezzando le molestie date da' paesani e seguitati da piccole forze del re, procedendo con grandissimo ordine per la riviera del mare si condussono a Monaco; ove rotte in molti pezzi l'artiglierie e caricatele in su' muli, per condurle piú facilmente, pervennero al Finale: nel qual luogo intesa la mossa del re, raddoppiorno, per essere a tempo a difendere il ducato di Milano, nel quale non erano rimaste forze sufficienti a resistere, quella celerità che prima aveano usata per salvarsi. Cosí, procedendo l'uno e l'altro esercito verso Italia, pervennono, in un dí medesimo, il re di Francia a Vercelli, il marchese di Pescara co' cavalli e co' fanti spagnuoli ad Alva; seguitando il duca di Borbone co' fanti tedeschi per intervallo di una giornata; il quale, non dando spazio di respirare a se stesso, andò il dí seguente da Alva a Voghiera, cammino di quaranta miglia, per andare il prossimo dí a Pavia; ove si congiunse col viceré, venuto da Alessandria, ove avea lasciato alla custodia duemila fanti, con grandissima prestezza, in tempo che già l'esercito del re cominciava a toccare le ripe del Teseno. Quivi consultando tra loro e con Ieronimo Morone delle cose comuni, ebbono il primo pensiero, lasciata sufficiente guardia in Pavia, di fermarsi come l'altre volte aveano fatto in Milano: però ordinorno che subito vi andasse il Morone per provedere alle cose necessarie, e che il duca di Milano, il quale aveano mandato a chiamare, lo seguitasse; essi, lasciato Antonio de Leva a Pavia con trecento uomini d'arme e circa cinquemila fanti, da pochi spagnuoli in fuori, tutti tedeschi, si mossono verso Milano.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.10

                                                  

                                                 Misere condizioni di Milano dopo la peste. Parole del Morone ai milanesi. I francesi sotto Milano, dove pongono un presidio per l'assedio del castello. Difficoltà di Cesare: contegno degli antichi confederati. Vano assalto del re di Francia a Pavia; vani tentativi di deviare le acque del Ticino; assedio della città.

                                                  

                                                 Ma la città di Milano, afflitta dalla peste grandissima che l'avea vessata quella state, non pareva piú simile a se medesima: perché del popolo era morto numero grandissimo, di quegli che aveano fuggito tanto infortunio molti erano assenti, non ridotta dentro la copia delle vettovaglie consueta, difficili i modi del fare provedimenti di danari; de' ripari, non avendo alcuni atteso a conservargli, la maggiore parte per terra: e nondimeno, in tante difficoltà, sarebbe stata la antica prontezza degli uomini alle medesime fatiche e pericoli. Ma il Morone, conoscendo che il mettere l'esercito in Milano piú tosto partorirebbe la ruina di quello che la difesa della città, fatta altra deliberazione, fermatosi in mezzo della moltitudine, parlò cosí: - Noi possiamo oggi dire, né con minore molestia di animo, le parole medesime che nelle angustie sue disse il Salvatore: “lo spirito certamente è pronto, la carne inferma”. Voi avete il medesimo ardore che avete avuto sempre di conservarvi per signore Francesco Sforza; a lui trafiggono, come sempre, il cuore i pericoli e le calamità del suo diletto popolo; egli è parato a mettere la vita propria per salvarvi, voi con non minore prontezza l'esporreste al presente che molte volte l'avete esposta per il passato. Ma alla volontà non corrispondono da parte alcuna le forze; perché per l'essere la città quasi vota d'abitatori, esserci strettezza di vettovaglie, mancamento di danari e i bastioni quasi per terra, non ci è modo di proibire che i franzesi non ci entrino. Duole al duca quanto la morte l'essere necessitato ad abbandonarvi, ma molto piú che la morte gli dorrebbe che il volervi difendere fusse cagione dell'ultimo eccidio vostro, come senza dubbio alcuno sarebbe. Ne' mali tanto gravi è tenuto prudente chi elegge il male minore, chi non si dispera tanto che abbandoni con una sola deliberazione tutte le sue speranze. Però il duca vi conforta a cedere alla necessità, che ubbidiate al re di Francia per riserbarvi a tempi migliori; i quali abbiamo grandissime cagioni di sperare che presto ritorneranno. Non abbandonerà il duca al presente se medesimo, non abbandonerà in futuro voi. La potenza di Cesare è grandissima, la fortuna inestimabile; la causa è giustissima, gli inimici sono quegli medesimi che tante volte sono stati vinti da noi. Risguarderà Iddio la pietà vostra verso il duca, la pietà del duca verso la patria; e dobbiamo tenere per certo che, permettendo ora a qualche buon fine quello a che ci costrigne la necessità presente, ci darà presto contro all'inimico superbissimo vittoria tale che felicemente con lunga pace ci ristoreremo da tante molestie. - Dopo le quali parole, avendo fatto mettere vettovaglie in castello, si uscí della città. Andava e il duca a Milano, non sapendo quel che avesse fatto il Morone; ma a fatica uscito di Pavia, scontrò Ferrando Castriota che guidava l'artiglieria, dal quale avvertito che una grande parte degli inimici avea passato il Tesino, e che avendo scontrato in sul fiume Zucchero borgognone co' suoi cavalli leggieri l'aveano rotto, temendo non trovare il cammino impedito, ritornò a Pavia. Nelle quali cose benché il duca e il Morone fussino proceduti sinceramente, nondimeno i capitani di Cesare, che erano coll'esercito a Binasco, insospettiti che occultamente non fussero convenuti col re di Francia, mandorno Alarcone con dugento lancie a Milano, per seguitarlo o no secondo gli avvisi ricevessino da lui. Alla giunta del quale, il popolo, che già concordava con alcuni fuorusciti che convenivano in nome del re, ripreso animo chiamò il nome di Cesare e di Francesco Sforza. Ma Alarcone, conoscendo essere vana la speranza del difendersi e presentito approssimarsi già l'avanguardia franzese, uscí per la porta Romana alla via di Lodi; ove eziandio si era voltato tutto l'esercito imperiale, nel tempo medesimo che gli inimici cominciavano a entrare per le porte Ticinese e Vercellina: i quali, se non si volgendo a Milano avessino atteso a seguitare l'esercito di Cesare, stracco per la lunghezza del cammino nel quale aveano perdute molte armi e cavalli, si crede per certo che con somma facilità l'arebbono dissipato; e se pure, poi che erano accostati a Milano, fussino andati subito verso Lodi, non arebbono avuto i capitani di Cesare ardire di fermarvisi; e forse, passando con celerità il fiume dell'Adda, arebbono con la medesima facilità messo in disordine grande le reliquie degli inimici. Ma il re, o parendogli forse di molta importanza lo stabilire alla sua divozione Milano, nella quale città gli era sempre stata fatta la resistenza principale, o non conoscendo l'occasione o movendolo altra cagione, non solamente si accostò a Milano, dove né entrò egli né volle che l'esercito entrasse, ma si fermò per mettervi il presidio necessario e ordinare l'assedio del castello, nel quale erano settecento fanti spagnuoli; avendo, con laude grande di modestia e benignità, proibito che a' milanesi non fusse fatta molestia alcuna.

                                                 Ordinate che ebbe le cose di Milano voltò l'esercito a Pavia, giudicando essere inutile alle cose sue lasciarsi dopo le spalle una città nella quale erano tanti soldati: e avea il re, secondo che era la fama, computati quegli che rimanevano a Milano, dumila lancie ottomila fanti tedeschi seimila svizzeri seimila venturieri quattromila italiani, i quali italiani dipoi molto si augumentorono. Nel qual tempo, de' capitani di Cesare, si era fermato il marchese di Pescara in Lodi con duemila fanti; e il viceré, lasciate guardate Alessandria, Como e Trezzo, si era ridotto a Sonzino, insieme con Francesco Sforza e con Carlo di Borbone; i quali, intra tante difficoltà e angustie ripreso alquanto d'animo per la andata del re a Pavia, e pensando al riordinarsi se la difesa di quella città dava loro tempo (perché altrimenti niuno rimedio conoscevano), mandorno in Alamagna a soldare seimila fanti; allo stipendio de' quali, e a altre spese necessarie, si provedeva con cinquantamila ducati che Cesare, perché nella guerra di Provenza si spendessino, a Genova mandati avea. Ma sopra tutte le cose disturbava i consigli loro la penuria di danari, non avendo facoltà di trarne del ducato di Milano, né sperando d'avere, per la impotenza sua, da Cesare altro provedimento che commissione che a Napoli si vendesse il piú si poteva dell'entrate del regno. Piccolo o forse niuno sussidio, o di soldati o di danari, speravano dagli antichi confederati; perché dal pontefice e dai fiorentini, richiesti di porgere danari, ottenevano parole generali: perché il papa, dopo la partita dell'ammiraglio di Italia deliberato al tutto di non si mescolare nelle guerre tra Cesare e il re di Francia, non aveva mai voluto rinnovare la confederazione fatta coll'antecessore né fare lega nuova con alcun principe; anzi, benché si dimostrasse inclinato a Cesare e al re di Inghilterra, aveva occultamente prima promesso al re di Francia di non se gli opporre quando assaltasse il ducato di Milano; e i viniziani, ricercati dal viceré che ordinassino le genti alle quali erano tenuti per i capitoli della lega, benché non negassino rispondevano freddamente, come quegli che aveano nell'animo di accomodare i consigli a' progressi delle cose, o perché appresso a molti di loro risorgesse la memoria della congiunzione antica col re di Francia, o perché credessino egli passato in Italia con tante forze contro a inimici imparatissimi dovere essere vittorioso, o perché piú che il solito avessino a sospetto la ambizione di Cesare, conciossiaché, con ammirazione e quasi querela di tutta Italia, non avesse investito Francesco Sforza del ducato di Milano. Movevagli oltre a questo l'autorità del pontefice, i cui consigli ed esempio in questo tempo non mediocremente risguardavano.

                                                 Ma il re di Francia, accostatosi a Pavia dalla parte di sopra, tra il fiume del Tesino e la strada per la quale si va a Milano, fermata la vanguardia nel borgo di Santo Antonio di là dal Tesino, in sulla strada che conduce a Genova, egli alloggiato alla abbazia di San Lanfranco lontana un miglio dalle mura, batté con l'artiglierie da due parti due dí le mura, e dipoi con l'esercito ordinato cominciò a dare la battaglia; ma apparendo la terra dentro essere bene riparata e dimostrandosi gli inimici molto valorosi a difendersi, e per contrario vedendosi ne' suoi manifesti segni di temenza e già essendone stati ammazzati molti, dette il segno di ritirarsi; e comprendendo quanto fusse difficile l'espugnare una città, difesa da tanti uomini di guerra, coll'impeto delle battaglie, si voltò a opere di trincee e di cavalieri con grandissimo numero di guastatori, intento a tagliare i fianchi perché i soldati piú sicuramente vi si accostassino. A questa opera che si dimostrava lunga e difficile aggiunse il fare le mine, per pigliarla, se altrimenti non gli riuscisse, a palmo a palmo; e ultimatamente, facendolo molto diffidare la virtú e il numero de' difensori, avuto il consiglio di molti ingegnieri e periti del corso del fiume, il quale due miglia sopra a Pavia si divide in due corni, e poi un miglio di sotto, innanzi che entri nel Po, si ricongiugne, deliberò di divertire il ramo che passa allato a Pavia nel ramo minore detto il Gravalone, sperando dovergli poi essere facile spugnarla da quella parte donde il muro, per la sicurtà che dava la profondità dell'acque, niuno riparo aveva. Nella quale opera, tentata con moltitudine quasi innumerabile d'uomini e con grandissima spesa, né senza timore di quegli di dentro, consumò molti dí; ora rovinando l'impeto dell'acqua, la quale per le pioggie immoderate grossissima era divenuta, gli argini, che nel letto dove il fiume si divide si lavoravano per sforzarlo a volgersi nel ramo minore, ora sperando il re di superare con la possanza degli uomini e de' danari la violenza del fiume. Finalmente l'esperienza dimostrò quel che quasi sempre apparisce che piú può la rapidità del fiume che la fatica degli uomini o la industria de' periti. Però il re, privato della speranza, della forza e delle opere, determinò di perseverare nell'assedio, colla lunghezza del quale sperava ridurre quegli di dentro in necessità di arrendersi.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.11

                                                  

                                                 Nuovi e inutili tentativi di concordia del pontefice: suoi accordi col re di Francia; nuove angustie e difficoltà di Cesare.

                                                  

                                                 Ma mentre che queste cose si fanno e si preparano, il pontefice, poi che ebbe inteso il re avere occupato Milano, commosso dal principio tanto prospero e perciò desideroso di assicurare le cose proprie, mandò a lui Gianmatteo Giberto vescovo di Verona suo datario, uomo a sé confidentissimo ma né anche ingrato al re. Commessegli che prima andasse a Sonzino a confortare il viceré e gli altri capitani alla concordia, dimostrando dovere andare al re di Francia per la medesima cagione; i quali, già cresciuti di speranza per la resistenza di Pavia, gli risposono ferocemente non volere prestare orecchie ad alcuna composizione per la quale il re avesse a ritenere un palmo di terra nel ducato di Milano. Simile e forse piú dura disposizione trovò nel re di Francia, enfiato per la grandezza dell'esercito e per la facoltà non solamente di sostentarlo ma di accrescerlo; col quale fondamento principalmente affermava essere passato in Italia e non per la speranza sola d'avere a prevenire gli inimici, benché dicesse e questo essergli in buona parte succeduto. Sperare al certo di ottenere Pavia, la quale tuttavia continuava di battere aspramente, per l'opere faceva intorno alle mura; alle quali confidava che gli inimici, avendo, come si comprendeva per la infrequenza del tirare, mancamento di munizioni, non potrebbono resistere, e per la derivazione che ancora non era disperata del Tesino e per la carestia del pane che era dentro; né stimare premio degno di tante fatiche e di spesa cosí immoderata la ricuperazione sola del ducato di Milano e di Genova, ma pensare non meno ad assaltare il regno di Napoli.

                                                 Trattossi dipoi tra loro, e con piccola difficoltà se gli dette la perfezione, la cagione principale per la quale il datario era stato mandato; perché il pontefice s'obligò a non dare aiuto manifesto o occulto contro al re e che il medesimo farebbono i fiorentini, e il re ricevette in protezione il pontefice e i fiorentini, inserendovi specialmente l'autorità che avea in Firenze la famiglia de' Medici: la quale concordia convennono non si publicasse se non quando paresse al pontefice; e nondimeno, ancora che non pervenisse allora alla notizia de' capitani di Cesare, cresceva in essi continuamente il sospetto conceputo di lui. Però, per certificarsi al tutto della sua mente, mandorno a lui Marino abate di Nagera commissario del campo, a proporgli insieme speranza e timore: perché da una parte gli offerivano cose grandissime, dall'altra gli dimostravano che, essendo Cesare e il re venuti all'ultima contenzione, non poteva Cesare altro che riputare che fusse stato contro a sé chiunque non fusse stato con lui. Ma il pontefice rispondeva, niuna cosa meno convenire a sé che il partire dalla neutralità nelle guerre tra príncipi cristiani, perché cosí richiedeva lo ufficio pastorale e perché potrebbe con maggiore autorità trattare la pace: per la quale, nel tempo medesimo, procurava con Cesare; a cui, avuta licenza dalla madre del re di passare da Lione in Spagna, dopo l'acquisto di Milano, pervenne l'arcivescovo di Capua, e scusato che ebbe con le medesime ragioni il pontefice del non avere voluto rinnovare la lega, come Cesare, intesa la andata del re verso Italia aveva instantemente dimandato, lo confortò efficacemente in suo nome che o con la tregua o con la pace si deponessino l'armi. Inclinavano l'animo suo alla concordia le difficoltà nelle quali vedeva essere ridotto: non avere modo di fare in Ispagna provedimento alcuno di danari per le cose di Italia, la prosperità che si dimostrava del re di Francia, il sospetto che il re di Inghilterra non fusse occultamente convenuto con l'inimico; perché quel re non solamente ricusava che cinquantamila ducati, i quali finalmente aveva proveduti a Roma per la guerra di Provenza, si mandassino all'esercito di Lombardia, ma (quel che causava sospetto maggiore) dimandava a Cesare, costituito in tante necessità, che gli restituisse i danari prestati e che gli pagasse tutti quegli a' quali era tenuto: perché Cesare, insino quando passò in Ispagna, cupidissimo della sua congiunzione, per rimuovere tutte le difficoltà che lo potevano tenere sospeso, si obligò a pagargli la pensione che ciascuno anno gli dava il re di Francia e ventimila ducati per le pensioni che il medesimo re pagava al cardinale eboracense e ad alcuni altri, e trentamila ducati che per il doario si pagavano alla reina bianca, stata moglie del re Luigi; delle quali promesse non avea insino a quel dí pagata cosa alcuna. E nondimeno Cesare, con tutto che alla afflizione dell'animo si aggiugnesse la infermità del corpo, perché il dolore conceputo quando cominciorno ad apparire le difficoltà della spugnazione di Marsilia gli avea generata la quartana, o perché la mente sua indisposta a cedere all'inimico non si piegasse naturalmente per alcune difficoltà o perché confidasse nella virtú del suo esercito, se si conducessino mai a fare giornata con gli inimici, o promettendosi dovere essere per l'avvenire favorito non meno immoderatamente dalla fortuna che per il passato stato fusse, rispondeva non essere secondo la degnità sua fare alcuna convenzione mentre che il re di Francia vessava coll'armi il ducato di Milano.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.15, cap.12

                                                  

                                                 Disegni e preparativi del re di Francia per la spedizione contro il reame di Napoli: obiezioni del pontefice. I preparativi sospesi e ripresi; proposte del pontefice al viceré. Discussione nel consiglio dell'esercito di Cesare. Risposta del viceré al pontefice. Breve del pontefice a Cesare; risposta dell'oratore pontificio alle querele di Cesare.

                                                  

                                                 Avea in questo mezzo deliberato il re di Francia di assaltare il reame di Napoli, sperando o che il viceré, mosso dal pericolo perché non vi era rimasto presidio alcuno, abbandonerebbe, per andare a difenderlo, lo stato di Milano, o almeno cederebbe a deporre l'armi con inique condizioni; il che il re, mosso dalle difficoltà di ottenere Pavia cominciava a desiderare. Destinò che a questa guerra andasse Giovanni Stuardo duca d'Albania, del sangue de' re di Scozia, con dugento lancie [secento] cavalli leggieri e quattromila fanti che si levassino dall'esercito, la metà italiani quattrocento svizzeri e gli altri tedeschi; e che, per unirsi a lui, Renzo da Ceri scendesse a Livorno co' fanti destinati per l'armata, la quale ritardata dalle difficoltà de' provedimenti necessari dimorava ancora nel porto di Villafranca; e che Renzo medesimo e gli altri Orsini soldassino nel paese di Roma [quattro]mila fanti: la quale deliberazione fece, per Alberto conte di Carpi oratore suo, nota al pontefice, ricercandolo che permettesse che a Roma si soldassino i fanti e consentisse che l'esercito passasse per lo stato della Chiesa. Grave era questa dimanda al pontefice, a cui sarebbe stato molestissimo che al re di Francia pervenisse oltre al ducato di Milano il regno di Napoli, ma, non avendo ardire apertamente di negarla, confortava il re che per allora non facesse questa impresa, né mettesse lui in necessità di non gli concedere quello che per giusti rispetti non poteva consentire; dimostrandogli con prudente discorso questo pensiero essere contro alla propria utilità: perché se la cupidità di ricuperare il ducato di Milano gli avea per il passato concitati tanti inimici, che farebbe ora il vedersi che aspirasse anche al regno di Napoli? che maraviglia sarebbe se questo movesse i viniziani a prendere la guerra per Cesare, trapassando ancora gli oblighi della loro confederazione? Considerasse che, se per disavventura si difficultassino i progressi suoi in Lombardia, con che riputazione potrebbono procedere nel regno di Napoli, e che la declinazione in qualunque di questi luoghi partorirebbe la caduta nell'altro; e che in ultimo si ricordasse d'averlo commendato di essersi ritirato all'ufficio del pontefice, però non convenire che ora lo astrignesse a fare il contrario. Ma invano si dicevano queste cose, perché il duca, non aspettata la risposta, avea, come certo della concessione del pontefice, passato il Po al passo della Stellata che è nello stato di Milano: benché il quinto dí poi ritornò indietro, perché il re, avendo notizia che già cominciavano ad arrivare agli inimici i fanti tedeschi e che il duca di Borbone era andato nella Alamagna per muoverne maggiore quantità, volle serbarsi intero l'esercito insino non venisse nuovo supplemento di svizzeri e grigioni, i quali avea mandati a soldare.

                                                 Nel quale tempo procedevano le cose di ciascuna delle parti quasi oziosamente. Il re continuava l'assedio di Pavia, non intermettendo i lavori delle trincee e il molestarla con l'artiglierie; gli imperiali, aspettando il ritorno di Borbone, si riposavano: eccetto che il marchese di Pescara, nella providenza e ardire del quale la maggiore parte de' consigli ma certamente tutte l'esecuzioni si riposavano, uscito una notte di Lodi con dugento cavalli e dumila fanti, entrato all'improviso nella terra di Melzi, guardata negligentemente da Ieronimo e da Gianfermo da Triulzi con dugento cavalli, fece prigioni i capitani con la maggiore parte de' soldati; de' quali Ieronimo, poco poi, morí di una ferita ricevuta nel combattere. Arrivorno dipoi all'esercito del re i svizzeri e grigioni; alla venuta de' quali il duca di Albania, mosso di nuovo, passò il Po alla Stradella del piacentino.

                                                 Dalla quale inclinazione non potendo il pontefice divertire il re, né forse, per non lo insospettire, non ne facendo molta instanza, gli parve tempo opportuno a manifestare agli imperiali le convenzioni fatte prima con lui e a rinnovare la menzione della concordia; alla quale, per la difficoltà dell'ottenere Pavia e per il pericolo del regno di Napoli, sperava dovere trovare minore durezza in ciascuna delle parti. A' quali effetti mandò Paolo Vettori, capitano delle sue galee, a significare al viceré: non avere mai potuto, benché n'avesse fatto grandissima diligenza, rimuovere il re dalla deliberazione di assaltare il reame di Napoli; né potere, per non trasferire la guerra in sé (alla quale non potrebbe resistere) vietargli il passo, anzi essere necessitato ad assicurarsi con nuove convenzioni da lui; nelle quali non consentirebbe mai condizione alcuna nociva a Cesare, a cui conoscere niuna cosa essere piú utile, in tante difficoltà, che la pace; la quale perché si potesse trattare innanzi che i disordini piú oltre procedessino, confortare il viceré a consentire che l'armi si sospendessino; deponendo (perché altrimenti il re non vi condiscenderebbe) in mano di persona non sospetta quel che in nome di Cesare e del duca si teneva ancora nel ducato di Milano. Sperare che, fatto questo, si converrebbe in qualche modo onesto della pace: per la quale proponeva che il ducato di Milano, separandosi in tutto dalla corona di Francia, fusse con l'investitura di Cesare (il quale in ricompenso ne ricevesse somma conveniente di pecunia) conceduto al secondogenito del re; che con onesto modo si provedesse al duca di Milano e al duca di Borbone; e che il pontefice i viniziani e i fiorentini si obligassino a unirsi con Cesare contro al re, in caso non osservasse le cose promesse.

                                                 Conoscevano i capitani di Cesare la grandezza delle difficoltà e de' pericoli, avendo in un tempo medesimo a sostenere in tanta penuria di danari la guerra in Lombardia e a pensare al regno di Napoli, abbandonati manifestamente da' sussidi del pontefice e de' fiorentini, e già certi che i viniziani farebbono il medesimo; i quali, se bene soldando nuovi fanti si ingegnassino dare speranza di volere osservare la lega, differivano con varie scuse l'esecuzione. Però il viceré, non alieno con l'animo dalla concordia, inclinava per la sicurtà del regno di Napoli a ritirarvisi con l'esercito. Ma prevalse nel consiglio il parere del marchese di Pescara; il quale, procedendo parimente con audacia e con prudenza, dimostrò essere necessario, dispregiati gli altri pericoli, fermarsi alla guerra di Lombardia, dalla vittoria della quale tutte l'altre cose dipendevano. Non essere destinate tali forze ad assaltare il regno di Napoli, né potere con tal celerità condursi là, ove erano molte terre forti, e la resistenza di coloro la salute de' quali consisteva nel difenderlo, che almeno non si dovesse per piú e piú mesi sostenere; nel qual tempo verisimilmente si imporrebbe alla guerra di Milano l'ultima mano: se con vittoria, chi dubitava che vincendo libererebbono subito il reame di Napoli, quando bene per Cesare non si tenesse altro che una torre sola? Stando fermi in Lombardia potere essere vincessino a Milano e a Napoli, andando a Napoli si perdeva al certo Milano né si liberava il regno dal pericolo, ove incontinente tutta la guerra si trasferirebbe: e con quale speranza, ritornandovi come vinti? donde con tanta riputazione vi entrerebbono gli inimici, tanta sarebbe l'inclinazione de' popoli (che per natura per odio per paura si fanno incontro alla fortuna del vincitore), che non piú si difenderebbe il regno di Napoli che il ducato di Milano. Né muovere altro il re di Francia, dubbio ancora de' successi di Lombardia, a dividere l'esercito, a cominciare una guerra nuova mentre pendeva la prima, che la speranza che per troppa sollecitudine del regno di Napoli gli lasciassino in preda tutto lo stato di Milano: per i cui consigli deliberarsi, per i cui cenni muoversi l'esercito tante volte vincitore, che essere altro che con eterna infamia concedere alle minaccie de' vinti quella gloria che tante volte contro a loro s'aveano con l'armi acquistata? La quale sentenza seguitando finalmente il viceré mandò a Napoli il duca di Traietto, con ordine che, raccolti piú danari che si potesse, Ascanio Colonna e gli altri baroni del regno attendessino a difenderlo; e ancora che alla imbasciata fattagli in nome del pontefice avesse risposto modestamente scrisse con molta acerbità a Roma, ricusando volere udire ragionamento alcuno di concordia donde il pontefice, mostrando essere menato dalla necessità, perché il duca di Albania continuamente andava innanzi, publicò, non come cosa fatta prima, essere convenuto col re di Francia con una semplice promessa di non offendere l'uno l'altro: il che significò eziandio per uno breve agli atti di Cesare, allegando le cagioni e specialmente la necessità che l'avea indotto. Il quale breve presentato da Giovanni Corsi oratore fiorentino e aggiunte quelle parole che convenivano a tale materia, Cesare, il quale prima dimostrava non si potere persuadere che il pontefice in tanto pericolo l'abbandonasse, commosso molto di animo, rispose che né odio né ambizione né alcuna privata cupidità l'avea indotto a pigliare da principio la guerra contro al re di Francia, ma le persuasioni e l'autorità del pontefice Leone, confortato a questo (come si diceva) dal presente pontefice che allora era il cardinale de' Medici, dimostrandogli importare molto alla salute publica che quel re non possedesse cosa alcuna in Italia: il medesimo cardinale essere stato autore della confederazione che, innanzi alla morte di Adriano pontefice, si fece per la medesima cagione. Però essergli sommamente molesto che colui che sopra tutti gli altri era tenuto a non si separare da lui, ne' pericoli ne' quali era stato autore che entrasse, avesse fatto una mutazione che tanto gli noceva, e senza alcuna necessità: perché a che si potere attribuire altro che a soperchio timore, mentre che Pavia si difendeva? Ricordò quel che avea sempre, dopo la morte di Lione e specialmente in due conclavi, operato per la sua grandezza, e il desiderio che avea avuto che e' fusse assunto al pontificato, per mezzo del quale avea creduto s'avesse a stabilire la libertà e il bene comune d'Italia; né si persuadere che al pontefice fusse uscito della memoria la poca fede del re di Francia, né quel che dalla sua vittoria potesse o temere o sperare. Conchiuse che né per la deliberazione del pontefice, benché indebita e inaspettata, né per qualunque altro accidente abbandonerebbe se medesimo, né confidasse alcuno che per mancamento di danari avesse a mutare sentenza, perché metterebbe prima a ogni pericolo tutti i regni e la vita propria: ed essere tanto fisso in questo che supplicava Iddio non fusse cagione della dannazione della sua anima. Alle quali querele replicava l'oratore fiorentino: il papa, poi che fu eletto alla suprema degnità, essere stato obligato a procedere non piú come cardinale de' Medici ma come pontefice romano, l'ufficio del quale era pensare e affaticarsi per la pace de' cristiani; perciò non avere mai ricordato altro che la necessità che se n'avea, scrittone sí spesso a lui e mandatogli l'arcivescovo di Capua due volte, e protestato che il debito suo era non aderire ad alcuno; avere ricordato il medesimo quando l'ammiraglio partí di Italia, non si potendo in tempo alcuno trattare con maggiore onore per lui: né avere riportata altra risposta che non si potere fare senza consentimento del re di Inghilterra. Ricordassesi Cesare quanto il pontefice avesse dissuaso il passare nella Provenza, perché si turbava in tutto la speranza della pace e perché, come indovino delle cose che erano succedute, avea predetto che la necessità che si poneva al re di Francia di armarsi potrebbe essere occasione di suscitare incendio in Italia di maggiori pericoli. Avere per il vescovo di Verona confortato il re, già possessore di Milano, e il viceré, alla concordia; ma in niuno avere trovato inclinazione alla pace. Avere dipoi negato, con molte ragioni e con grandissima efficacia, di consentire il passo per lo stato della Chiesa alle genti che andavano contro al regno di Napoli; ma il re non solo essere stato sordo alle parole sue ma, non aspettata la sua risposta, averle già fatte passare nel piacentino. Perciò avere ultimamente mandato Paolo Vettori a confortare il viceré alla sospensione dell'armi, proponendogli le condizioni conformi al tempo; e a certificarlo della necessità che avea di assicurarsi dal pericolo imminente, vedendo massime stare sospesi i viniziani, e il re di Inghilterra alieno dal concorrere alla difesa del ducato di Milano se, nel tempo medesimo, per Cesare e per lui non si muoveva la guerra di là da' monti: ma vedendo il viceré ricusare tutti i modi proposti e le genti del re procedere sempre innanzi, era stato costretto pigliare la fede e sicurtà da lui, non si obligando ad altro che a non l'offendere. Lamentavasi Cesare, la condizione proposta al viceré essere stata molto dura: aversi a dipositare dalla sua parte quello si teneva, senza fare menzione che dal re di Francia si facesse il medesimo. E finalmente, ancora che il marchese di Pescara, confortandolo alla concordia, gli avesse significato essere nel campo molti disordini e le cose in gravissimo pericolo, nondimeno non piegava l'animo alla pace, sperando per il valore de' suoi soldati la vittoria se gli eserciti si conducessino l'un contr'all'altro a combattere.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.13

                                                  

                                                 Invio di munizioni del duca di Ferrara al re di Francia; il duca di Albania, capo della spedizione contro il reame di Napoli, presso Lucca. Fazione di Varagine. Il duca di Albania a Siena: riordinamento del governo della città. Fanti assoldati in Roma e dal duca e dai Colonnesi suoi avversari.

                                                  

                                                 Perseverava in questo tempo l'assedio di Pavia, benché cessato alquanto per mancamento di munizioni il molestarla con l'artiglierie. Alla quale difficoltà il re per provedere era stato contento che il duca di Ferrara, ricevuto nuovamente da lui in protezione, con obligo di pagargli in pecunia numerata settantamila ducati, ne convertisse ventimila in valore di tante munizioni; le quali si conducevano per il parmigiano e piacentino, con animali e carra de' paesani prestate per commissione del pontefice: non senza grave querela del viceré, come se questo fusse prestare espressamente aiuto al re di Francia. Le quali perché sicuramente si conducessino avea mandato a incontrarle, con dugento cavalli e mille cinquecento fanti, Giovanni de' Medici: il quale, nel principio della guerra, querelandosi di essere veduto con malo occhio dal viceré né gli essere dati tanti danari che bastassino a muovere i soldati, era dagli stipendi di Cesare passato agli stipendi del re. E pareva che ad assicurare le munizioni bastasse questo presidio, per la propinquità del duca di Albania il quale nel tempo medesimo avea passato il Po; ma il viceré e il marchese di Pescara per impedirle, gittato il ponte presso a Cremona, passorno il Po con secento uomini d'arme e ottomila fanti, alloggiando a Monticelli il primo dí: nondimeno, ritornorno presto di là dal fiume, avendo sentito che il re per opporsi loro mandava Tommaso di Fois con una parte dello esercito. Dopo la partita de' quali il duca di Albania passò, per il territorio di Reggio e la Carfagnana, l'Apennino; ma procedendo con lentezza tale che confermava l'opinione che il re, piú per indurre con questo timore i capitani di Cesare o a concordia o ad abbandonare le cose di Lombardia che per speranza di fare progressi, tentasse questa impresa. Unissi con lui presso a Lucca Renzo da Ceri con [tre]mila fanti venuti in sulla armata, alla quale nel passare si era arrenduta Savona e Varagine; e ritornata l'armata nella riviera occidentale di Genova teneva in sospetto quella città.

                                                 Séguita l'anno mille cinquecento venticinque. Nel principio del quale don Ugo di Moncada, partito da Genova con l'armata, scese in terra con tremila fanti a Varagine, dove erano a guardia alcuni fanti de' franzesi; ma venendovi al soccorso l'armata franzese, della quale era capitano il marchese di Saluzzo, l'armata inimica essendo restata senza fanti si ritirò, però i fanti franzesi, scesi in terra, assaltati gli inimici e mortine molti, gli roppono, e presono don Ugo.

                                                 Nel principio dell'anno medesimo, il duca di Albania astrinse i lucchesi a pagargli dodicimila ducati e a prestargli certi pezzi di artiglierie; e dipoi proceduto piú innanzi per il dominio de' fiorentini, da' quali fu raccolto come amico, si fermò con lo esercito appresso a Siena: pregato a questo dal pontefice, il quale, poi che né con l'autorità né con le armi poteva ovviare a quel che gli era molesto, si sforzava di condurre i suoi disegni con l'arte e con la industria. Non dispiaceva al pontefice che il re di Francia conseguisse il ducato di Milano, parendogli che, mentre stavano in Italia Cesare e il re, che la sedia apostolica e il suo pontificato fussino sicuri dalla grandezza di ciascuno di loro. Questa medesima ragione causava che gli fusse molesto che il re di Francia acquistasse il regno di Napoli, acciò che in mano di uno principe tanto potente non fusse in uno tempo medesimo quello reame e il ducato di Milano: però, cercando occasione di differire l'andata del duca di Albania, fece instanza col re che nel transito riordinasse il governo di Siena; il quale il pontefice, essendo quella città situata in mezzo tra Roma e Firenze, desiderava sommamente che fusse in mano degli amici suoi, come per opera sua era stato pochi mesi innanzi. Perché essendo, nel pontificato di Adriano morto il cardinale Petruccio e pretendendo alla successione sua nel governo Francesco suo nipote, se gli opposono per la sua insolenza i principali del Monte de' nove, con tutto che fussero della medesima fazione; facendo instanza col duca di Sessa, oratore cesareo, e col cardinale de' Medici che fusse data altra forma al governo, o riducendola a libertà o volgendo quella autorità a Fabio figliuolo di Pandolfo Petrucci, benché non molto innanzi si fusse occultamente fuggito da Napoli: la quale cosa, ventilata lungamente, fu finalmente, come Clemente fu assunto al pontificato, per consentimento comune suo e di Cesare, restituito Fabio nel luogo paterno. Ma non avendo l'autorità che aveva avuta il padre, la città quasi tutta inclinata alla libertà, quegli del Monte de' nove non molto uniti con lui né molto concordi tra loro, la debolezza che ha la potenza di uno quando non è fondata in sulla benivolenza de' cittadini né si regge totalmente e senza rispetti a uso di tiranno, partorí (non ostante che alla piazza fusse la guardia dependente da lui) che suscitato uno giorno per opera de' suoi avversari, senza aiuto alcuno de' forestieri, tumulto popolare, fu con piccola difficoltà cacciato della città; donde il pontefice, il quale non confidava né nella moltitudine né in altra fazione, deliberò ridurre in loro l'autorità, per costituirne poi capo o Fabio o chi altri di loro gli paresse: cosa che agli imperiali (come il sospetto cominciato fa che tutte le cose si ripigliano in mala parte) accrebbe l'opinione che la capitolazione tra il pontefice e il re di Francia contenesse da ogni parte maggiori effetti e obligazioni che di neutralità. Dal fermarsi il duca d'Albania intorno a Siena procedette che i sanesi, per liberarsi dalle molestie dell'esercito, dettono amplissima autorità a quegli cittadini che erano confidenti al pontefice sopra l'ordinazione del governo: la qual cosa come fu fatta, ricevute da' sanesi artiglierie e certa quantità di danari, passò piú oltre, ma procedendo colla consueta tardità. Andò da Montefiascone a Roma a parlare al pontefice, e di poi passato il Tevere a Fiano si fermò nelle terre degli Orsini, dove si raccoglievano i fanti che si soldavano in Roma con permissione del pontefice; il quale permetteva medesimamente che i Colonnesi, i quali per la difesa del regno di Napoli facevano la massa a Marino, soldassino in Roma fanti. Ma per la tardità del procedere, e perché da ogni parte apparivano pochissimi danari, era questo movimento in piccolissimo concetto: gli occhi l'orecchie gli animi degli uomini erano tutti attenti alle cose di Lombardia; le quali cominciando ad affrettarsi al fine, accrescevano per vari accidenti a ciascuna delle parti ora la speranza ora il timore.

                                                  

                                                 Lib.15, cap.14

                                                  

                                                 Difficoltà degli assediati in Pavia; risposta dei veneziani all'oratore di Cesare. Scarsezza di danari nell'esercito di Cesare. Milizie cesaree in marcia verso Pavia. Diversità di pareri nel consiglio del re di Francia. Il re delibera di perseverare nell'assedio della città; nuove disposizioni delle forze assedianti. Le forze del re di Francia. Gli imperiali prendono il castello di Sant'Angelo. Casi sfortunati per i francesi. Perché i grigioni richiamano gli uomini propri soldati dal re. Appoggio del re d'Inghilterra a Cesare.

                                                  

                                                 Erano gli assediati in Pavia angustiati dalla carestia de' danari, aveano strettezza di munizioni per l'artiglierie, cominciava a mancare il vino e, dal pane in fuori, tutte l'altre vettovaglie; onde i fanti tedeschi già quasi tumultuosamente dimandavano danari, concitati dal capitano loro, oltre a quello che per se stessi faceano: del quale si temeva che secretamente non fusse convenuto col re di Francia. Da altra parte il viceré, avvicinandosi il duca di Borbone, il quale conduceva dell'Alamagna cinquecento cavalli borgognoni e seimila fanti tedeschi, soldati co' danari del re de' romani, era andato a Lodi, ove pensavano raccorre tutto l'esercito; riputando dovere avere esercito non inferiore agli inimici. Ma per muovere i soldati e per sostentargli non aveano né danari né facoltà alcuna di provederne, degli aiuti del pontefice e de' fiorentini erano del tutto disperati, medesimamente di quegli de' viniziani. I quali, dopo aver interposto varie scuse e dilazioni, aveano finalmente risposto al protonotario Caracciolo, oratore di Cesare appresso a loro, volere procedere secondo che procedesse il pontefice, per mezzo del quale si credeva che secretamente avessino convenuto col re di Francia di stare neutrali; anzi confortavano occultamente il pontefice a fare scendere in Italia agli stipendi comuni diecimila svizzeri, per non avere a temere della vittoria di ciascuno de' due eserciti: cosa approvata da lui, ma per carestia di danari e per sua natura, eseguita tanto lentamente che molto tardi mandò in Elvezia il vescovo di Veroli a preparare gli animi loro.

                                                 Sollevò alquanto le difficoltà di Pavia la industria del viceré e degli altri capitani: perché mandati nel campo franzese alcuni a vendere vino, Antonio de Leva, avuto il segno, mandò a scaramucciare da quella parte; donde levato il romore, i venditori, rotto il vaso grande, corsono in Pavia con uno piccolo vasetto messo in quello, nel quale erano rinchiusi tremila ducati: per la quale piccola somma fatti capaci, i tedeschi della difficoltà del mandargli, stettono in futuro piú pazienti. E levò anche il fomento de' tumulti la morte del capitano, proceduta in tempo tanto opportuno che si credette fusse stato, per opera di Antonio de Leva, morto di veleno. Nel qual tempo, o poco prima, il marchese di Pescara, andato a campo a Casciano, alla custodia della qual terra erano cinquanta cavalli e quattrocento fanti italiani, gli costrinse ad arrendersi senza alcuna condizione. Ma essendo venuto co' soldati tedeschi il duca di Borbone, niuna altra cosa ritardava i capitani, ansii del pericolo di Pavia, che il mancamento tanto grande di danari che non solamente non potevano pensare agli stipendi dell'esercito ma aveano difficoltà de' danari necessari a condurre le munizioni e l'artiglierie: nella quale necessità, proponendo a' fanti la gloria e le ricchezze che perverrebbono loro della vittoria, riducendo in memoria quel che vincitori aveano conseguito per il passato, accendendogli con gli stimoli dell'odio contro a' franzesi, indussono i fanti spagnuoli a promettere di seguitare un mese intero l'esercito senza ricevere danari, e i tedeschi a contentarsi di tanti che bastassino a comperare le vettovaglie necessarie. Maggiore difficoltà era negli uomini d'arme e ne' cavalli leggieri alloggiati per le terre del cremonese e della Ghiaradadda; perché non avendo, già molto tempo, ricevuti danari allegavano non potere, seguitando l'esercito ove sarebbe necessario comperare tutte le vettovaglie, sostentare sé e i cavalli. Lamentavansi essere meno grata e meno stimata l'opera loro che quella de' fanti, ne' quali era stata, pur qualche volta, distribuita alcuna quantità di danari, in essi, già tanto tempo, niuna; e nondimeno non essere inferiori né di virtú né di fede, ma molto superiori di nobiltà e di meriti passati. Mitigò, gli animi di costoro il marchese di Pescara, andato a' loro alloggiamenti; ora scusando ora consolandogli ora riprendendogli: che quanto erano di virtú piú chiari, quanto piú era manifesto il loro valore, tanto piú si doveano sforzare di non essere superati da' fanti né di fede né di affezione verso Cesare, di cui si trattava non solamente l'onore e la gloria ma di tutti gli stati che aveva in Italia: la cui grandezza quanto amassino, a cui quanto desiderassino servire, non dovere mai avere maggiore occasione di dimostrarlo; e se tante volte aveano per Cesare esposta la vita propria, che vergogna essere, che cosa nuova, che ora recusassino mettere per lui vile quantità di pecunia? Dalle quali persuasioni e dalla autorità del marchese mossi, consentirono di ricevere per un mese quasi minima quantità di danari. Cosí raccolto tutto l'esercito, nel quale si diceano essere settecento uomini d'arme, pari numero di cavalli leggieri, mille fanti italiani e piú di sedicimila tra spagnuoli e tedeschi, partiti da Lodi il vigesimo quinto dí di gennaio, andorno il dí medesimo a Marignano; dimostrando volere andare verso Milano, o perché il re mosso dal pericolo di quella città si levasse da Pavia o per dare causa di partirsi da Milano a' soldati che vi erano alla custodia: nondimeno, passato poi appresso a Vidigolfo il fiume del Lambro, si dirizzorno manifestamente verso Pavia.

                                                 Pagava il re nell'esercito [mille trecento] lancie diecimila svizzeri quattromila tedeschi cinquemila franzesi e settemila italiani, benché, per le fraudi de' capitani e per la negligenza de' suoi ministri, il numero de' fanti era molto minore. Alla guardia di Milano era Teodoro da Triulzi con [trecento] lancie semila fanti tra grigioni e vallesi e tremila franzesi; ma quando gli imperiali si voltorno verso Pavia richiamò, da duemila in fuori, tutti i fanti all'esercito. All'uscita degli imperiali alla campagna, si disputava nel consiglio del re quello che fusse da fare; e... della Tramoglia,... della Palissa, Tommaso di Fois e molti altri capitani confortavano che il re si levasse coll'esercito dall'assedio di Pavia, e si fermasse o al monasterio della Certosa o a Binasco, alloggiamenti forti (come ne sono spessi nel paese) per i canali dell'acque derivate per annaffiare i prati. Dimostravano che in questo modo si otterrebbe presto, e senza sangue e senza pericolo, la vittoria; perché l'esercito inimico, non avendo danari, non poteva sostentarsi insieme molti dí ma era necessitato o a dissolversi o a ridursi ad alloggiare sparso per le terre: che i tedeschi che erano in Pavia, i quali, per non essere imputati di coprire la timidità con la scusa del non essere pagati, sopportavano pazientemente, creditori già dello stipendio di molti mesi, subito che e' fusse levato l'assedio dimanderebbono il pagamento; al quale non avendo i capitani modo di provedere né speranza apparente colla quale gli potessino, benché vanamente, nutrire, conciterebbono qualche pericoloso tumulto: non conservarsi insieme gli inimici con altro che colla speranza di fare presto la giornata; i quali, come vedessino allungarsi la guerra e discostarsi l'opportunità del combattere, si empierebbono di difficoltà e di confusione. Dimostravano quanto fusse pericoloso stare con l'esercito in mezzo di una città, nella quale erano cinquemila fanti di nazione bellicosissima, e di uno esercito che veniva per soccorrerla, potente e di numero d'uomini e di virtú e di esperienza di capitani e di soldati, e feroce per le vittorie ottenute per il passato, e il quale avea collocato tutte le speranze sue nel combattere. Non essere infamia alcuna il ritirarsi quando si fa per prudenza non per timidità, quando si fa per ricusare di non mettere in dubbio le cose certe, quando il fine propinquo della guerra ha a dimostrare a tutto il mondo la maturità del consiglio; e niuna vittoria essere piú utile piú preclara piú gloriosa che quella che s'acquista senza danno e senza sangue de' suoi soldati; e la prima laude nella disciplina militare consistere piú nel non si opporre senza necessità a' pericoli, nel rendere, con la industria con la pazienza e con l'arti, vani i conati degli avversari, che nel combattere ferocemente. Il medesimo era consigliato al re dal pontefice, a cui il marchese di Pescara, temendo di tanta povertà, aveva prima significato, le difficoltà dell'esercito di Cesare essere tali che gli troncavano quasi tutta la speranza di prosperi successi. Nondimeno il re, le cui deliberazioni si reggevano solamente co' consigli dell'ammiraglio, avendo piú innanzi agli occhi i romori vani, e per ogni leggiero accidente variabili, che la sostanza salda degli effetti, si riputava ignominia grande che l'esercito, nel quale egli si trovava personalmente, dimostrando timore cedesse alla venuta degli inimici; e lo stimolava (quello di che quasi niuna cosa fanno piú imprudentemente i capitani) che si era quasi obligato a seguitare co' fatti le parole dette vanamente: perché e palesemente aveva affermato, e molte volte in Francia e per tutta Italia significato, che prima eleggerebbe la morte che muoversi senza la vittoria da Pavia. Sperava nella facilità di fortificare il suo alloggiamento di maniera che non potria essere disordinato allo improviso da assalto alcuno; sperava che, per l'inopia de' danari, ogni piccola dilazione disordinerebbe gli inimici, i quali, non avendo facoltà di comperare le vettovaglie e necessitati di andare predando i cibi per il paese, non potrebbono stare fermi agli alloggiamenti; sperava similmente dare impedimento alle vettovaglie che s'arebbono a condurre al campo, delle quali sapeva la maggiore parte essere destinata da Cremona, perché di nuovo avea soldato Giovanlodovico Palavicino, acciò che o occupasse Cremona, dove era piccolo presidio, o almeno interrompesse la sicurtà che da quella città si movessino le vettovaglie. Queste ragioni confermorno il re nella pertinacia di perseverare nell'assedio di Pavia, e per impedire agli inimici l'entrarvi ridusse in altra forma l'alloggiamento dell'esercito. Alloggiava prima il re, dalla parte di Borgoratto, alla badia di San Lanfranco, posta circa un mezzo miglio di là da Pavia e oltre alla strada per la quale da Pavia si va a Milano e in sul fiume del Tesino, vicino al luogo dove fu tentata la diversione dell'acque; la Palissa, e con l'avanguardia e co' svizzeri, alle Ronche, nel borgo appresso alla porta di Santa Iustina, fortificatosi alle chiese di San Piero di Sant'Appollonia e di San Ieronimo; alloggiava Giovanni de' Medici, co' cavalli e fanti suoi, alla chiesa di San Salvadore. Ma intesa la partita degli inimici da Lodi, andò ad alloggiare nel barco, al palagio di Mirabello situato di qua da Pavia; lasciati a San Lanfranco i fanti grigioni, ma non mutato l'alloggiamento della avanguardia. Ultimatamente, passò il re ad alloggiare a' monasteri di San Paolo e di San Iacopo luoghi comodi ed eminenti e cavalieri alla campagna, vicinissimi a Pavia ma alquanto fuori del barco; trasferito ad alloggiare a Mirabello [monsignore] d'Alansone col retroguardo. E per potere soccorrere l'un l'altro roppono il muro del barco da quella parte, occupando lo spazio del campo insino al Tesino, dalla parte di sotto, e dalla parte di sopra insino alla strada milanese; di maniera che, tenendo circondata intorno intorno Pavia, e il Gravelone e il Tesino e la Torretta, che è dirimpetto alla darsina in mano del re, non potevano gli imperiali entrare in Pavia se o non passavano il Tesino o non entravano per il barco.

                                                 Risedeva il peso del governo dell'esercito nell'ammiraglio: il re, consumando la maggiore parte del tempo in ozio e in piaceri vani, né ammettendo faccende o pensieri gravi, dispregiati tutti gli altri capitani, si consigliava con lui; udendo ancora Anna di Memoransí, Filippo Ciaboto di Brione e... di San Marsau, persone al re grate ma di piccola esperienza nella guerra. Né corrispondeva il numero dell'esercito del re a quello che ne divulgava la fama, ma eziandio a quello che ne credeva esso medesimo: perché, essendo della cavalleria una parte andata col duca di Albania un'altra parte rimasta con Teodoro da Triulzi alla guardia di Milano, molti alloggiando sparsi per le ville e terre circostanti, non alloggiavano fermamente nel campo oltre ottocento lancie, e de' fanti, de' quali si pagava, per le fraudi de' capitani e per la negligenza de' ministri del re, numero immoderato, era diversissima la verità dall'opinione, ingannando sopra tutti gli altri i capitani italiani, i quali lo stipendio per moltissimi fanti ricevevano ma pochissimi ne tenevano: il medesimo accadeva ne' fanti franzesi. Duemila valligiani, che alloggiavano a San Salvadore tra San Lanfranco e Pavia, assaltati all'improviso da quegli di dentro, erano stati dissipati.

                                                 In questo stato delle cose i capitani imperiali, passato che ebbero il Lambro, si accostorno al castello di Santangelo; il quale, situato tra Lodi e Pavia, arebbe dato, se non fusse stato in potestà loro, impedimento grandissimo al condurre delle vettovaglie da Lodi allo esercito. Guardavalo Pirro fratello di Federico da Bozzole con [du]cento cavalli e [otto]cento fanti; e il re, pochi dí prima, per non mettere i suoi temerariamente in pericolo, aveva mandato a considerare il luogo il medesimo Federico e Iacopo Cabaneo, i quali riferirono quel presidio essere bastante a difenderlo. Ma l'esperienza dimostrò la fallacia de' discorsi loro: perché essendovisi accostato Ferdinando Davalo co' fanti spagnuoli e avendo con l'artiglierie levate alcune difese, quegli di dentro impauriti si ritirorno il dí medesimo nella rocca, e poche ore dappoi pattuirono che, rimanendo prigioni Pirro, Emilio Cavriana e tre figliuoli di Febus da Gonzaga, gli altri tutti, lasciate l'armi e i cavalli e promesso non militare per un mese contro a Cesare, si partissero.

                                                 Chiamò ancora il re dumila fanti italiani di quegli di Marsilia, che erano a Savona; i quali (secondo scrive il Capella) essendo arrivati nello alessandrino presso al fiume di Urbe, Gaspar Maino, che con mille settecento fanti era a guardia di Alessandria, uscito fuora con poca gente, gli assaltò; e avendogli trovati stracchi per il cammino e senza guardie, perché non avevano sospetto di essere assaltati, gli ruppe con poca fatica; e fuggendo nel Castellaccio, entrò dentro alla mescolata con loro: i quali si arrenderono con diciassette insegne. Né ebbe migliore successo la cura data a Gian Lodovico Palavicino; il quale, entrato con quattrocento cavalli e dumila fanti in Casalmaggiore, dove non erano mura, e fattivi ripari e occupato dipoi San Giovanni in Croce, cominciò di quel luogo a correre il paese, attendendo quanto poteva a rompere le vettovaglie. Però Francesco Sforza, che era a Cremona, fatto con difficoltà mille quattrocento fanti, gli mandò con pochi cavalli di Ridolfo da Camerino e co' cavalli della sua guardia verso Casalmaggiore, sotto Alessandro Bentivoglio; i quali accostatisi, il Palavicino col quale era Niccolò Varolo soldato de' franzesi, il decimo ottavo dí di febbraio, confidando nello avere piú gente, non aspettato Francesco Rangone che doveva venire con altri fanti e cavalli, uscito fuora si attaccò con loro; e volendo sostenere i suoi che già si ritiravano, fatto cadere da cavallo, fu fatto prigione e tutti i suoi rotti e dissipati.

                                                 Aggiunsesi alle cose del re di Francia un'altra difficoltà: perché Gian Iacopo de' Medici da Milano, castellano di Mus, dove era stato mandato dal duca di Milano per l'omicidio fatto di Monsignorino Ettor Visconte, posto di notte uno agguato a canto alla rocca di Chiavenna, situata in su uno colle a capo del lago e distante dalle case del castello, prese il castellano, uscito fuora a passeggiare, e condotto subito alla porta della rocca minacciando di ammazzarlo, indusse la moglie a dargli la rocca; il che fatto, egli, immediate, scopertosi di un altro agguato con trecento fanti ed entrato per la rocca nella terra, la prese: donde le leghe de' grigioni, pochi dí innanzi al conflitto, revocorno i seimila grigioni che erano nello esercito del re.

                                                 Arrivò in questo tempo nello esercito imperiale il cavaliere da Casale, mandato dal re d'Inghilterra con promesse grandi, e con ordine di levare i cinquantamila ducati di Viterbo: perché quel re, cominciando ad avere invidia alla prosperità del re di Francia, e mosso ancora che nel mare di verso Scozia erano state prese dai franzesi certe navi inghilesi, minacciava rompere la guerra in Francia, e desiderava sostenere l'esercito imperiale. Però commesse al Pacceo, che era a Trento, che andasse a Vinegia a protestare in nome suo la osservanza della lega; alla quale si sperava gli avesse a indurre piú facilmente che Cesare aveva mandato la investitura di Francesco Sforza in mano del viceré, con ordine ne disponesse secondo le occorrenze delle cose. Fece ancora il re d'Inghilterra pregare dall'oratore suo il pontefice che aiutasse le cose di Cesare; a che il pontefice si scusò per la capitolazione fatta col re di Francia, per sua sicurtà, senza offesa di Cesare; dolendosi ancora che, dopo il ritorno dello esercito di Provenza, era stato venti dí innanzi avesse potuto intendere i loro disegni, e se avevano animo di difendere o di abbandonare lo stato di Milano.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.15, cap.15

                                                  

                                                 Gli imperiali, occupati i luoghi vicini a Pavia, si accostano all'esercito nemico; sussidio di munizioni agli assediati. Scaramuccie fra i soldati nemici; trattative di tregua per opera dei nunzi del pontefice presso i due eserciti. Ferita di Giovanni de' Medici. Battaglia di Pavia.

                                                  

                                                 Ma erano già di piccolo momento i trattamenti e le pratiche de' príncipi e le diligenze e sollecitudini degli imbasciadori, perché approssimandosi gli eserciti si riduceva la somma di tutta la guerra, e delle difficoltà e pericoli sostenuti molti mesi, alla fortuna di poche ore. Conciossiaché l'esercito imperiale, dopo l'acquisto di Santo Angelo, spingendosi innanzi andò ad alloggiare, il primo dí di febbraio, a Vistarino e il secondo dí a Lardirago, Santo Alesso e le due porte del barco, passato la Lolona piccolo fiumicello; il quale alloggiamento era propinquo quattro miglia a Pavia e a tre miglia del campo franzese: e il terzo o quarto dí di febbraio venne ad alloggiare in Prati, credo verso porta Santa Iustina, distendendosi tra Prati, Trelevero e la Motta, e in uno bosco a canto a San Lazzero; alloggiamenti vicini a due miglia e mezzo di Pavia, a uno miglio della vanguardia franzese e a mezzo miglio de' ripari e fosse del campo loro, e tanto vicini che molto si danneggiavano con l'artiglierie. Avevano gli imperiali occupato Belgioioso e tutte le terre e il paese che avevano alle spalle eccetto San Colombano, nel quale perseverava la guardia franzese, ma assediata, che niuno poteva uscirne: avevano in Santo Angelo e in Belgioioso trovata quantità grande di vettovaglie; e si sforzavano, per esserne piú copiosi, acquistare il Tesino come avevono acquistato il Po, donde le impedivano a' franzesi: tenevano Santa Croce; e avendo il re, quando andò ad alloggiare a Mirabello, abbandonata la Certosa, non vi andavano gli imperiali perché non fussino impedite loro le vettovaglie. Tenevano San Lazzero i franzesi, ma per l'artiglierie degli inimici non ardivano di starvi. Correva in mezzo tra l'uno e l'altro alloggiamento una roza, cioè uno rivolo di acqua corrente detto la Vernacula, che ha origine nel barco; il quale passando in mezzo tra San Lazzero e San Piero in Verge entra nel Tesino: il quale, come molto importante, sforzandosi gli imperiali di passare per potere con minore difficoltà procedere piú innanzi, i franzesi valorosamente lo difendevano; e ciascuno sollecitamente il proprio alloggiamento fortificava. Il canale della Vernacula era alquanto profondo, con le ripe alte in modo non si poteva passare senza ponte; e passava tra Santa Croce e San Lazzero. Aveva lo alloggiamento del re grossi ripari a fronte alle spalle e al fianco sinistro, circondati da fossi e fortificati con bastioni, e al fianco destro il muro del barco di Pavia; in modo era riputato fortissimo. Simigliante fortificazione aveva l'alloggiamento degli imperiali, quali tenevano tutto il paese da San Lazzero verso Belgioioso insino al Po; in modo che l'esercito abbondava di vettovaglie. Vicini i ripari dell'uno alloggiamento all'altro a quaranta passi, e i bastioni sí propinqui che si tiravano con gli archibusi. In questo modo stavano alloggiati gli eserciti l'ottavo dí di febbraio, e scaramucciavano a ogn'ora; ma ciascuno teneva il campo nel forte suo, non volendo fare giornata a disavvantaggio; e pareva a' capitani imperiali avere insino a quel dí guadagnato assai, poiché si erano accostati tanto a Pavia che facendosi giornata potevano essere aiutati dalle genti che vi erano dentro. Pativasi in Pavia di munizioni; però gli imperiali mandorno cinquanta cavalli, ciascuno con uno valigiotto in groppa pieno di polvere; i quali entrati di notte per la via di Milano, aspettando che per ordine di quegli del campo si facesse dare all'arme a' franzesi, si condussono salvi in Pavia: donde spesso uscendo Antonio de Leva, e infestando quegli di fuora, assaltati i grigioni che erano alla guardia di Borgoratto e di San Lanfranco, tolse loro tre pezzi di artiglieria e parecchie carra cariche di munizioni. I quali, pochi dí poi, revocati da' loro superiori si partirno dall'esercito.

                                                 In questo stato delle cose era incredibile la vigilanza la industria e le fatiche del corpo e dell'animo del marchese di Pescara, il quale dí e notte non cessava, con scaramuccie col dare all'arme con fare nuovi lavori, di infestare gli inimici; spingendosi sempre innanzi, con cavamenti con fossi e con bastioni. Lavoravano uno cavaliere sopra il canale, e danneggiandogli molto i franzesi con due pezzi piantati a San Lazzero, voltatavi l'artiglieria lo rovinorno, e gli costrinsono ad abbandonarlo. Però pativano i franzesi molto da uno cavaliere fatto nel campo, e il simigliante da un altro che era fatto a Pavia. Ed eransi fortificati in modo con bastioni e con ripari, e fatti tali cavalieri, che offendevano assai il campo franzese ed erano poco offesi: però i franzesi mutavano artiglierie, per battergli per fianco, facendo continuamente ogni opera gli spagnuoli per andare innanzi a palmo a palmo. Erano anche, in tanta vicinità, frequenti le scaramuccie, nelle quali quasi sempre i franzesi restavano inferiori; non si intermettendo in parte alcuna le fazioni per la pratica della tregua, la quale continuamente si trattava per i nunzi del pontefice che erano nell'uno esercito e nell'altro; né mancando anche, assiduamente, molti de' piú intimi del re, e il pontefice molte volte, di confortarlo che per fuggire tanto pericolo si discostasse con l'esercito da Pavia, per essere necessario che, per la penuria che avevano gli inimici di danari, ottenesse in brevissimo tempo e senza sangue la vittoria. Il decimo settimo dí di febbraio, quegli di Pavia usciti fuora scaramucciorno con la compagnia di Giovanni de' Medici, il quale onorevolmente gli rimesse dentro; e ritornando poi a mostrare all'ammiraglio il luogo e le cose accadute nella fazione, essendo ascosti alcuni scoppettieri in una casa, fu ferito con uno scoppio sopra 'l tallone e rottogli l'osso, con dispiacere grande del re; per la quale ferita fu necessitato farsi portare a Piacenza. Per la ferita del quale si rimesse, nelle scaramuccie e negli assalti subiti, tutta la ferocia del campo franzese; e quegli di Pavia, uscendo ogni dí fuora con maggiore ardire, e avendo abbruciata la badia di San Lanfranco, sempre battevano i franzesi, i quali parevano molto inviliti; e la notte de' diciannove venendo i venti, il marchese di Pescara con tremila fanti spagnuoli assaltò i bastioni de' franzesi, e salito (secondo scrive il Numaio) su per i ripari, ammazzò piú di cinquecento fanti e inchiodò tre pezzi di artiglieria.

                                                 Finalmente, non essendo possibile a' capitani imperiali sostenere piú, per mancamento di danari, l'esercito loro in quello alloggiamento, e considerando che ritirandosi non solo si perdeva Pavia ma restavano senza speranza di difendere l'altre cose che possedevano del ducato di Milano, avendo anche grandissima confidenza di ottenere la vittoria per la virtú de' soldati loro e perché nell'esercito franzese erano moltissimi disordini, e oltre a esserne partiti molti fanti non corrispondendo il numero, di lunghissimo intervallo, a quegli che erano pagati: la notte avanti il vigesimoquinto dí di febbraio, giorno dedicato secondo il rito de' cristiani all'apostolo Matteo e il medesimo dí natale di Cesare, deliberati, secondo dicono alcuni, di assaltare l'esercito del re, altri dicono, di andare a Mirabello dove alloggiavano alcune compagnie di cavalli e di fanti, con intenzione, non si movendo i franzesi, di avere liberato lo assedio di Pavia, e movendosi, tentare la fortuna della giornata, - però avendo (secondo scrivono alcuni) fatto dare nelle prime parti della notte piú volte all'armi per straccare i franzesi, fingendo volergli assaltare verso il Po, Tesino e San Lazzero, dipoi, a mezza notte, essendosi per comandamento de' capitani tutti i soldati messi una camicia bianca sopra l'armi per segno di riconoscersi da' franzesi, fatto (secondo scrive il Cappella) due squadre di cavalli e quattro di fanti, nella prima seimila fanti divisi in parti eguali di tedeschi spagnuoli e italiani sotto il marchese del Guasto, la seconda solo di fanti spagnuoli, la terza e quarta di tedeschi; - e arrivati al muro del barco, con muratori ed eziandio con aiuto de' soldati, essendo qualche ora innanzi giorno, gittorno in terra sessanta braccia di muro, secondo il Cappella: il Numaio, che andorno alle due porte del barco, presonle ed etiam gittorno a terra piú braccia di mura secondo il Barba, roppeno in piú luoghi il muro del barco per fare in uno tempo tre assalti: uno con tremila fanti tra lanzi e spagnuoli alla volta di Mirabello, dove (secondo lui) alloggiava il re con parte dello esercito; l'altro nel resto delle genti d'arme che erano piú a basso co' svizzeri, nel bosco grande del barco, e questi due assalti non con grande sforzo ma tanto che intratenesse; e col resto del campo assaltare al traverso del campo franzese. E scrive il Cappella che il muro fu gittato in terra con tanto silenzio che i franzesi non sentirno, ma di questo il re poi disse il contrario; e che entrati nel barco, la prima squadra andò alla volta di Mirabello, il resto dello esercito alla volta del campo; ma che il re, intesa la entrata nel barco, pensando andassino a Mirabello, uscí degli alloggiamenti e venne a combattere in su la campagna, la quale credo fusse aperta e spianata dal re, desideroso si combattesse piú presto quivi che altrove, per la superiorità di cavalli. E secondo il Numaio, presono il cammino verso Mirabello e castel di Pavia; e che i franzesi, credendo volessino andare a Milano, voltorno subito l'artiglierie e feciono grande danno al retroguardo; e che gli imperiali avevano nella vanguardia quattrocento cavalli leggieri e quattromila tra archibusieri e scoppiettieri, che si attaccorno con lo squadrone del re, che ordinariamente era la battaglia ma, secondo camminavano gli spagnuoli, fu la vanguardia. Scrive il Cappella che, scontrato il re nella prima squadra degli spagnuoli, i suoi furno costretti dagli scoppi a piegare, insino a tanto che, sopravenendo i svizzeri, gli spagnuoli furno ributtati da' svizzeri e dalla cavalleria che gli assaltò per fianco; e che sopragiunsero i tedeschi e ruppeno con molta uccisione i svizzeri: ed essendo il re con grande numero di gente d'arme entrato nella battaglia, e sforzandosi fermare i suoi, dopo avere combattuto alquanto, ferito il cavallo ed egli caduto in terra, fu preso da cinque soldati che non lo conoscevano; ma sopravenendo il viceré, dandosi a conoscere venne in sua mano. Nel quale tempo, il Guasto con la prima squadra aveva rotto i cavalli che erano a Mirabello; e il Leva, il quale (secondo dicono alcuni) aveva a questo effetto gittato in terra tanto spazio di muro che potevano uscirne in uno tempo medesimo cento e cinquanta cavalli, uscito di Pavia aveva assaltato i franzesi alle spalle, in modo che tutti si messono in fuga, e quasi tutti svaligiati eccetto il retroguardo de' cavalli, il quale, sotto Alanson, nel principio della battaglia si ritirò intero. Scrive il Barba che quella terza parte piú grossa, che assaltò al traverso del campo franzese, fu piegata dalle artiglierie di sorte che se il viceré, per avviso di Pescara, non soccorreva erano rotti, ma la sua giunta gli ricompose e seguitò lo assalto gagliardo; che la scoppietteria spagnuola dette ne' svizzeri, e gli voltò di sorte che fece fare il medesimo alla gente d'arme; che quegli di Pavia con sei bandiere assaltorono i fanti franzesi che alloggiavano quasi al diritto del castello, e con l'aiuto dell'artiglierie gli ruppeno subito; che al re fu morto il cavallo sotto, e ferito leggiermente in una mano e piú leggiermente nel volto. Il Numaio: che lo squadrone del re, assaltato da detti scoppiettieri, si messe in rotta, e nel ritirarsi disordinò gli altri fanti e il resto dello esercito; che al re fu morto il cavallo sotto, ed essendo in mezzo di molti che lo volevano prigione vi corse il viceré, e con molte riverenze gli baciò la mano, e [lo] ricevé prigione in nome dello imperadore, ferito leggiermente in una mano e piú leggiermente nel volto; e che di Pavia uscirno tutti i cavalli e tremila fanti. Il Cappella: che in questa giornata morirno, tra di ferro e di essere affogati, fuggendo, nel Tesino, piú di ottomila nel campo franzese e circa venti de' primi signori di Francia, tra' quali l'ammiraglio, Iacopo Cabanneo, il marisciallo di Francia (credo sia la Palissa), la Tramoglia, il grande scudiere, Obigní, Boisí e lo Scudo; il quale, pervenuto ferito in potestà degli inimici, espirò presto. Furono fatti prigioni il re di Navarra, il bastardo di Savoia, Memoransí, San Polo, Brione, La Valle, Ciandé, Ambricort, Galeazzo Visconte, Federigo da Bozzole, Bernabò Visconte, Guidanes e infiniti gentiluomini, e quasi tutti i capitani che non furono ammazzati; fu preso anche Ieronimo Leandro vescovo di Brindisi, nunzio del pontefice, ma per comandamento del viceré fu liberato: de' quali prigioni San Polo e Federigo da Bozzole, condotti nel castello di Pavia, non molto dipoi, corrotti gli spagnuoli che gli guardavano, si liberorno con la fuga. Che degli imperiali morirno circa settecento, ma nessuno capitano eccetto Ferrando Castriota marchese di Santo Angelo; e che la preda fu sí grande che mai furno in Italia soldati piú ricchi. Il marchese di Pescara ebbe due ferite di picca e una di scoppio, e Antonio da Leva fu ferito leggiermente in una gamba. E de' franzesi annegorno molti nel Tesino; e Pavia si poteva poco piú tenere, mancandovi massime il vino. E i genovesi avevano poco innanzi fatto tregua co' franzesi per tempo di uno mese. E il Numaio: che nella giornata morirno in tutto seimila uomini. Salvossi di tanto esercito il retroguardo guidato da Alanson, di [quattrocento] lancie; il quale, senza combattere o essere assaltato o seguitato, intero, ma lasciati i carriaggi, si ritirò con grandissima celerità nel Piamonte. Della quale vittoria subito che fu pervenuto il rumore a Milano, Teodoro da Triulzi restatovi in presidio con quattrocento lancie, se ne partí verso Musocco, seguitandolo tutti i soldati alla sfilata: in modo che, il dí medesimo che fu fatta la giornata, restò libero dai franzesi tutto il ducato di Milano. Fu il re condotto, il dí seguente dopo la vittoria, nella rocca di Pizzichitone; perché il duca di Milano per sicurtà propria malvolentieri consentiva che e' fusse condotto nel castello di Milano: dove, dalla libertà [in fuori], che era guardato con somma diligenza, era in tutte l'altre cose trattato e onorato come re.

                                                 E fu di questo successo attribuita per tutto colpa grande o alla avarizia o alla pusillanimità del pontefice: il quale, se al desiderio che ebbe di sospendere l'armi tra gli eserciti, insino a tanto che tra i príncipi si fusse convenuto delle differenze principali, avesse accompagnato l'armarsi potentemente e spignere le genti a Parma e Piacenza, non solo arebbe conservato sé in maggiore riputazione, e con piú sicurtà per tutti i casi che potessino succedere, ma eziandio arebbe maneggiato con piú autorità la concordia: trattandola in modo che ciascuna delle parti avesse causa di dubitare che egli pigliasse l'arme in favore di coloro che fussino manco alieni dalla concordia. Ma mentre che, rinvolto nelle sue irresoluzioni e nella cupidità di non spendere, differisce di dí in dí l'armarsi, e però con piccola autorità si interpone alla concordia, avendo la giornata posto fine alla guerra, e in tempo che stimolato dai viniziani e confortato da molti altri e ammonito dal pericolo che gli era imminente da chi restasse vincitore si risolveva a soldare in compagnia de' viniziani diecimila svizzeri...

                                             

                                                 Lib.16, cap.1

                                                  

                                                 Apprensioni dei governi italiani per la potenza di Cesare dopo la battaglia di Pavia. Particolari ragioni di apprensione dei veneziani e del pontefice. Ragioni del pontefice di temere dell'inimicizia di Cesare. Proposte di accordi dei veneziani al pontefice.

                                                  

                                                 Essendo adunque, nella giornata fatta nel barco di Pavia, non solo stato rotto dall'esercito cesareo l'esercito franzese ma restato ancora prigione il re cristianissimo e morti o presi appresso al suo re la maggiore parte de' capitani e della nobiltà di Francia, portatisi cosí vilmente i svizzeri i quali per il passato aveano militato in Italia con tanto nome, il resto dello esercito spogliato degli alloggiamenti non mai fermatosi insino al piede de' monti, e (quello che maravigliosamente accrebbe la riputazione de' vincitori) avendo i capitani imperiali acquistato una vittoria sí memorabile con pochissimo sangue de' suoi, non si potrebbe esprimere quanto restassino attoniti tutti i potentati d'Italia; a' quali, trovandosi quasi del tutto disarmati, dava grandissimo terrore l'essere restate l'armi cesaree potentissime in campagna, senza alcuno ostacolo degli inimici: dal quale terrore non gli assicurava tanto quel che da molti era divulgato della buona mente di Cesare, e della inclinazione sua alla pace e a non usurpare gli stati di altri, quanto gli spaventava il considerare essere pericolosissimo che egli, mosso o da ambizione, che suole essere naturale a tutti i príncipi, o da insolenza che comunemente accompagna le vittorie, spinto ancora dalla caldezza di coloro che in Italia governavano le cose sue, dagli stimoli finalmente del consiglio e di tutta la corte, voltasse, in tanta occasione bastante a riscaldare ogni freddo spirito, i pensieri suoi a farsi signore di tutta Italia; conoscendosi massime quanto sia facile a ogni principe grande, e molto piú degli altri a uno imperadore romano, giustificare le imprese sue con titoli che apparischino onesti e ragionevoli.

                                                 Né erano travagliati da questo timore solamente quegli di autorità e forze minori ma, quasi piú che gli altri, il pontefice e i viniziani: questi, non solo per la coscienza di essergli mancati, senza giusta causa, ai capitoli della loro confederazione ma molto piú per la memoria degli antichi odii e delle spesse ingiurie state tra loro e la casa d'Austria e delle gravi guerre avute, pochi anni innanzi, con l'avolo suo Massimiliano, per le quali si era, nello stato che e' posseggono in terra ferma, rinfrescato maravigliosamente il nome e la memoria delle ragioni, quasi dimenticate, dello imperio; e per conoscere che ciascuno che avesse in animo di stabilire grandezza in Italia era necessitato a pensare di battere la potenza loro, troppo eminente: il papa, perché, dalla maestà del pontificato in fuora, la quale ne' tempi ancora della antica riverenza che ebbe il mondo alla sedia apostolica fu spesso mal sicura dalla grandezza degli imperadori, si trovava per ogn'altro conto molto opportuno alle ingiurie, perché era disarmato, senza danari e con lo stato della Chiesa debolissimo nel quale sono rarissime terre forti, non popoli uniti o stabili alla divozione del suo principe, ma diviso quasi tutto il dominio ecclesiastico in parte guelfa e ghibellina e i ghibellini, per inveterata e quasi naturale impressione, inclinati al nome degli imperadori, e la città di Roma sopra tutte l'altre debole e infetta di questi semi. Aggiugnevasi il rispetto delle cose di Firenze, le quali, dependendo da lui ed essendo grandezza propria e antica della sua casa, non gli erano forse manco a cuore che quelle della Chiesa; né era manco facile lo alterarle, perché quella città, poiché nella passata del re Carlo ne furono cacciati i Medici, avendo sotto nome della libertà gustato diciotto anni il governo popolare, era stata malcontenta del ritorno loro, in modo che pochi vi erano a' quali piacesse veramente la loro potenza.

                                                 Alle quali occasioni, tanto potenti, temeva sommamente il pontefice che non si aggiugnesse volontà non mediocre di offenderlo, non tanto perché dalla ambizione de' piú potenti non è mai sicuro in tutto chi è manco potente quanto perché temeva che, per diverse cagioni, non fusse in questo tempo esoso a Cesare il nome suo: discorrendo seco medesimo che, se bene, e vivente Lione e poi mentre era cardinale, si fusse affaticato molto per la grandezza di Cesare, anzi Lione ed egli con grandissime spese e pericoli gli avessino aperta in Italia la strada a tanta potenza, e che, come fu assunto al pontificato, avesse dato danari, mentre che l'ammiraglio era in Italia, a' suoi capitani e fattone dare da' fiorentini, né levate dell'esercito le genti della Chiesa e di quella republica; nondimeno, che presto, o considerando che allo offizio suo si apparteneva essere padre e pastore comune tra i príncipi cristiani, e piú presto autore di pace che fomentatore di guerre, o cominciando tardi a temere di tanta grandezza, si era ritirato da correre la medesima fortuna; in modo che non aveva voluto rinnovare la confederazione fatta per la difesa d'Italia dal suo antecessore; e quando, l'anno dinanzi, l'esercito suo entrò col duca di Borbone in Provenza non aveva voluto aiutarlo con denari; il che se bene non dette giusta querela a' ministri di Cesare (non essendo egli, anche per la lega di Adriano, tenuto a concorrere contro a' franzesi [che] nelle guerre di Italia), nondimeno erano stati princípi di fare che non lo riputassino piú una cosa medesima con Cesare, anzi diminuissino assai della fede che insino a quel dí in lui avuta avevano; come quegli che, menati solo o dallo appetito o dal bisogno, avevano quasi per offesa se alle imprese loro particolari, fatte per occupare la Francia, non mettevano le spalle anche gli altri, come prima si era fatto alle universali cominciate sotto titolo di assicurare Italia dalla potenza de' franzesi. Ma cominciorono e scopersonsi le querele e i dispiaceri quando il re di Francia passò alla impresa di Milano. Perché se bene il papa, secondo che scrisse poi nel breve suo querelatorio a Cesare, desse occultamente qualche quantità di danari nel ritorno di Marsilia, nondimeno dipoi non si era stretto e inteso con loro, ma subito che il re ebbe acquistato la città di Milano, parendogli che le cose sue procedessino prosperamente, aveva capitolato con lui; e ancora che egli se ne scusasse con Cesare, allegando che in quel tempo, non avendo i capitani suoi per spazio di venti dí significatogli alcuno de' loro disegni, e dipoi disperando della difesa di quello stato e temendo eziandio di Napoli, e spingendosi il duca d'Albania con le genti verso Toscana, era stato necessitato pensare alla sicurtà sua, ma non avere però potuto in lui tanto il rispetto del proprio pericolo che e' non avesse accordato con condizioni per le quali non manco si provedeva alle cose di Cesare che alle sue, e che e' non avesse disprezzato partiti grandissimi offertigli dal re di Francia perché entrasse seco in confederazione; nondimeno non avevano operato le sue escusazioni che e' non se ne fusse turbato molto Cesare e i suoi ministri, non tanto perché e' si veddono privati al tutto della speranza di avere piú da lui sussidio alcuno quanto perché e' dubitorno che la capitolazione non contenesse piú oltre che obligazione di neutralità, e perché e' parve loro che in ogni caso l'avesse dato troppa riputazione alla impresa franzese, e perché temerono ancora che il papa non fusse mezzo che i viniziani seguitassino lo esempio suo; il che essere stato vero si certificorono dipoi, per lettere e per brevi che dopo la vittoria furono trovati nel padiglione del re prigione. Aveva in ultimo acceso questi sospetti e mala sodisfazione quando il papa acconsentí che per il dominio suo passassino, e fussino aiutate a condurre, le munizioni delle quali il duca di Ferrara accomodò il re di Francia mentre era a campo a Pavia, ma molto piú l'andata del duca di Albania alla impresa del reame di Napoli, perché non solo come amico fu per tutto lo stato della Chiesa e de' fiorentini ricettato e onorato, ma ancora si fermò molti giorni intorno a Siena per riformare a stanza sua il governo di quella città: il che se bene allungava l'andata del duca al reame di Napoli, e a questo effetto principalmente era stato procurato da lui per essergli molesto che uno medesimo diventasse signore di Napoli e di Milano; nondimeno gli imperiali avevano per questo fatta interpretazione che tra il re di Francia e lui fusse stato fatto altro legame che semplice promessa di non offendere. Però temeva giustamente il pontefice non solo di essere offeso, come temevano tutti gli altri, dai cesarei, col tempo e con l'occasione, ma che ancora, senza aspettare opportunità maggiore, non assaltassino subito o lo stato della Chiesa o quello di Firenze. E gli accrebbe il timore che, essendosi il duca d'Albania, come ebbe avviso della calamità del re, ritirato, per salvarsi, da Monteritondo verso Bracciano, e fatti ancora andare là cento cinquanta cavalli che erano in Roma, i quali il papa fece accompagnare insino là dalla sua guardia, perché il duca di Sessa e gli imperiali si preparavano per rompere le genti sue, accadde che, venendo da Sermoneta circa quattrocento cavalli e mille dugento fanti delle genti degli Orsini, seguitati da Giulio Colonna con molti cavalli e fanti, furno rotti da lui alla abbazia delle Tre Fontane; ed entrati fuggendo in Roma per la porta di San Paolo e di San Sebastiano, le genti di Giulio, entrate dentro con loro, ne ammazzorono insino in Campo di Fiore e in altri luoghi della città: la quale con tumulto grande si levò tutta in arme, prima con grande timore e poi con grande indignazione del pontefice, che all'autorità sua non fusse avuto né rispetto né riverenza alcuna.

                                                 Ma in questa sospensione e ansietà grandissima dell'animo, gli sopravenneno i conforti e offerte de' viniziani: i quali, costituiti nel medesimo timore di se medesimi, con efficacissima instanza si sforzavano persuadergli che, congiunti insieme, facessino calare subito in Italia diecimila svizzeri, e soldato una grossa banda di genti italiane si opponessino a cosí gravi pericoli; promettendo, come è costume loro, di fare per la loro parte molto piú che poi non sogliono osservare. Allegavano che i fanti tedeschi che erano stati alla difesa di Pavia, né avevano, già molti mesi, avuto denari, veduto che dopo la vittoria continuavano le medesime difficoltà de' pagamenti che prima, si erano ammutinati, avevano tolto l'artiglierie e fattisi forti in Pavia; che per la medesima cagione tutto il resto dello esercito di Cesare era sollevato e per sollevarsi ogni dí piú, non avendo i capitani facoltà di pagarlo: in modo che, armandosi e loro e lui potentemente, e si assicuravano gli stati comuni e si nutriva l'occasione che gli imperiali, impegnati in queste difficoltà e necessitati a tenere del continuo grosse forze alla guardia del re prigione, si disordinassino per loro medesimi. Aggiugnersi, che e' non era da dubitare che madama la reggente, in mano della quale era il governo di Francia, desiderosissima di questa unione, non solo farebbe subito cavalcare, a stanza loro, il duca di Albania con le sue genti e quelle quattrocento lancie del retroguardo che si erano ritirate dalla giornata a salvamento, ma ancora, con volontà di tutto il regno di Francia, concorrerebbe alla salute d'Italia con grossa somma di denari, conoscendo che da quella dependeva in grande parte la speranza della recuperazione del re suo figliuolo. Essere ottima senza dubbio questa deliberazione se si facesse con prestezza, ma la lunghezza dare a' cesarei facoltà di riordinarsi; e tanto piú che chi non si risolveva ad armarsi era necessitato di accordarsi con loro e porgergli denari, che non era altro che essere instrumento di liberargli da tutte le difficoltà e stabilirsi da se medesimo in perpetua suggezione. Davano anche speranza d'avere a essere seguitati dal duca di Ferrara, il quale, e per la dependenza antica da' franzesi e per gli aiuti dati in questa guerra al re, non era senza grandissimo timore: la congiunzione del quale pareva di non piccolo momento, per la opportunità grande del suo stato alle guerre di Lombardia; [per essere] la città di Ferrara fortissima ed egli abbondantissimo di munizioni e di artiglierie e, come era fama, ricchissimo di denari.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.2

                                                  

                                                 Il pontefice si volge con tutto l'animo alla concordia con Cesare. Difficoltà di comprendere nella concordia i veneziani. Ritorno del duca d'Albania in Francia. Confederazione fra il pontefice e Cesare. Diversità di giudizi sulla confederazione; giudizio dell'autore.

                                                  

                                                 Né la speranza di avere a vincere una impresa sí difficile né la considerazione de' pericoli piú lontani, a' quali il tempo suole spesso partorire rimedi non pensati, arebbe inclinato Clemente a prestare orecchi a questi ragionamenti, se non l'avesse indotto il timore di non essere assaltato di presente, a volere piú presto esporsi al pericolo manco certo che al pericolo che appariva maggiore e piú presente; e perciò si ristrinsono tanto le pratiche tra loro che, essendosi condotte insino allo estendere i capitoli, si aspettava che a ogn'ora si stipulassino; e in modo che il papa, persuadendosene la conclusione, spedí in poste al re d'Inghilterra Ieronimo Ghinuccio sanese, auditore della camera apostolica, per cercare destramente di disporlo a opporsi a tanta grandezza di Cesare. Quando opportunamente sopravenne lo arcivescovo di Capua, antico segretario e consigliere suo, e che molti anni era stato appresso a lui di grandissima autorità; il quale, subito che aveva udito la vittoria degli imperiali, era da Piacenza andato in campo a don Carlo del Lanoi viceré di Napoli, e risoluto della sua intenzione corse subito in poste al pontefice, portandogli speranza certa di accordo. Perché il viceré e gli altri capitani avevano per allora due pensieri: l'uno di provedere a' denari per sodisfare l'esercito, col quale per non avere modo di pagarlo si trovavano in grandissima confusione; l'altro di condurre la persona del re di Francia in luogo che la difficoltà del guardarlo non gli avesse a tenere in continuo travaglio; e stabilite bene queste due cose, giudicavano restare in grado da potere sempre mettere a effetto i disegni loro: però desideravano l'accordo col papa, presupponendo di cavarne quantità grande di denari. E per disporvelo tanto piú col fargli spavento, e anche per sgravare degli alloggiamenti de' soldati lo stato di Milano che era molto consumato, avevano mandata ad alloggiare in piacentino quattrocento uomini d'arme e ottomila tedeschi, non come inimici, ma ora dicendo che il ducato di Milano non poteva nutrire sí grosso esercito ora minacciando di volergli fare passare in terra di Roma a trovare il duca di Albania, in caso che le genti condotte dagli Orsini non si dissolvessino. Ma erano superflue queste diligenze; perché come il papa fu certificato potere fuggire i pericoli presenti, lasciati gli altri pensieri, si voltò con tutto l'animo alla concordia: perciò, subito udito l'arcivescovo, fece fermare l'auditore della camera per il cammino; e per levare tutte l'occasioni che potessino interromperla operò che il duca di Albania dissolvesse, dai cavalli e fanti oltramontani in fuora, tutto 'l resto dello esercito e gli dette le stanze a Corneto, ricevuta promessa da' ministri di Cesare di licenziare anche essi le genti loro che erano intorno a Roma, e fermare Ascanio Colonna e altre genti che venivano del regno; e si interpose ancora che i Colonnesi, che cominciavano a molestare le terre degli Orsini, desistessino dall'armi.

                                                 Desiderava il pontefice e faceva ogni opera perché nella concordia che e' trattava col viceré si includessino i viniziani, ma la difficoltà era che essi ricusavano di volere pagare i denari dimandati loro dal viceré; perché dimandava che gli pagassino tanti danari quanti arebbono spesi nelle genti che avevano a contribuire, e che in futuro contribuissino non con gente, ma con danari; dimandando anche il medesimo a tutti quegli i quali erano compresi nella confederazione fatta con Adriano. Ma la durezza de' viniziani facevano beneficio al pontefice, dando sospizione al viceré che pensassino a nuovi movimenti. Le quali cose mentre si trattano, con speranza certissima d'aversi a conchiudere, i fiorentini, per ordine del pontefice, mandorono al marchese di Pescara, per intrattenimento dello esercito, venticinquemila ducati; ricevuta promessa il pontefice da Giambartolomeo da Gattinara, il quale appresso a lui trattava per il viceré, che questa quantità sarebbe computata nella somma maggiore che arebbono a pagare per vigore della nuova capitolazione.

                                                 La quale innanzi si conchiudesse, pochissimi dí, il duca di Albania, il quale per tornarsene in Francia aveva aspettato l'armata, venuta quella al Porto di Santo Stefano e mandategli le galee, si imbarcò a Civitavecchia sopra quelle e sopra le galee del pontefice, prestategli con consentimento del viceré, benché né all'armata né alle galee non dessino salvocondotto; e con lui Renzo da Ceri, con l'artiglieria avuta da Siena e da Lucca, con quattrocento cavalli mille fanti tedeschi e pochi italiani, perché il resto della gente si era sfilata e il resto de' cavalli parte venduti parte lasciati. I progressi del quale erano stati tali che si comprese apertamente essere stato mandato, o perché gli imperiali, temendo del regno di Napoli, partissino, per soccorrerlo, del ducato di Milano o perché per questo timore si inducessino alla concordia; e per questa cagione essere proceduto lentamente, mancando forse al re [denari] bastanti a mandarlo con esercito potente.

                                                 Ma finalmente, lasciati da parte i viniziani, si conchiuse il primo dí di aprile in Roma, tra il pontefice e il viceré di Napoli come luogotenente cesareo generale in Italia (per il quale era in Roma con pieno mandato Giambartolomeo da Gattinara, nipote del gran cancelliere di Cesare), confederazione per sé e per i fiorentini da una parte e per Cesare dall'altra. La somma de' capitoli piú importanti fu: che tra il papa e Cesare fusse perpetua amicizia e confederazione, per la quale l'uno e l'altro di loro fusse obligato a difendere da ciascuno con certo numero di gente il ducato di Milano, posseduto allora sotto l'ombra di Cesare da Francesco Sforza, il quale fu nominato come principale in questa capitolazione; e che l'imperadore avesse in protezione tutto lo stato che teneva la Chiesa, quello che possedevano i fiorentini, e particolarmente la casa de' Medici con l'autorità e preminenze che aveva in quella città; pagandogli però i fiorentini, di presente, centomila ducati per ricompenso quello che arebbono auto a contribuire nella guerra prossima, per virtú della lega fatta con Adriano, la quale pretendeva non essere estinta per la sua morte, per essere specificato ne' capitoli che la durasse uno anno dopo la morte di ciascuno de' confederati: che i capitani cesarei levassino genti dello stato ecclesiastico, né mandassino di nuovo ad alloggiarvene dell'altre senza consentimento del pontefice: a' viniziani fu lasciato luogo di entrare in questa confederazione, in termine di venti dí, con oneste condizioni, che avessino a essere dichiarate dal papa e da Cesare: e che il viceré fusse tenuto a fare venire, fra quattro mesi, la ratificazione di Cesare di tutti questi capitoli. E obligorono i mandatari del viceré, in uno capitolo da parte confermato con giuramento, che, caso che Cesare non ratificasse fra il tempo questi capitoli, avesse il viceré a restituire i centomila ducati; dovendosi però, insino che i danari non si restituissino, osservare la lega interamente. Alla quale furono aggiunti tre articoli, non connessi nella capitolazione ma posti in scrittura separata, confermati eziandio per giuramento, che contennono: che in tutte, le cose beneficiali del regno di Napoli fusse permesso a' pontefici usare quella autorità e giurisdizione che si disponeva per le investiture del regno; che il ducato di Milano pigliasse in futuro il sale delle saline di Cervia, per quel prezzo e modi che altre volte fu convenuto tra Lione e il presente re di Francia, e confermato nella capitolazione che l'anno mille cinquecento ventuno fece il medesimo Lione con l'imperadore; e che il viceré fusse obligato a fare sí e talmente che il duca di Ferrara restituisse, immediate, alla Chiesa Reggio, Rubiera, l'altre terre che aveva prese, vacante la sedia romana per la morte di Adriano; e che per questo il pontefice, subito che e' ne fusse reintegrato, avesse a pagare a Cesare centomila ducati, e a ogni sua requisizione assolvere il duca dalle censure e privazioni nelle quali era incorso, ma non già dalla pena di centomila ducati promessa in caso di contravenzione allo instrumento fatto con Adriano: e nondimeno, ricuperata che il papa ne avesse la possessione, si avesse a vedere di ragione se quelle terre e Modena appartenevano alla Chiesa o allo imperio; e appartenendosi allo imperio si avessino a riconoscere in feudo da Cesare, appartenendosi alla Chiesa restassino libere alla sedia apostolica.

                                                 Fu questa deliberazione del pontefice interpretata variamente dagli uomini, secondo che sono varie le passioni e i giudizi. La moltitudine massime, alla quale sogliono piacere piú i consigli speciosi che i maturi, e che spesso ha per generosi quegli che non misurano le cose prudentemente, tutti coloro ancora che facevano professione di desiderare la libertà di Italia, lo biasimorono, come se per viltà d'animo avesse lasciato l'occasione di unirla contro a Cesare, e aiutato co' danari propri l'esercito suo a liberarsi da tutti i disordini; ma la maggiore parte degli uomini piú prudenti giudicorono molto diversamente, perché consideravano che il volersi opporre con genti nuove a uno esercito grossissimo e vincitore non era consiglio prudente. Non potere essere che la venuta de' svizzeri non fusse cosa lunga, e da arrivare facilmente passato che fusse il bisogno, quando bene fussino prontissimi a venire: di che, atteso la natura loro e la percossa ricevuta sí di fresco, non si aveva certezza alcuna. Né si dovere sperare meglio del reame di Francia, dove per tanta rotta non era restato né animo né consiglio; non vi era in pronto provisione di danari, non di gente d'arme, e quelle poche ancora che si erano salvate il dí della giornata, avendo perduto i carriaggi, avevano bisogno di tempo e di denari a riordinarsi: però, non avere questa unione altro probabile fondamento che la speranza che l'esercito inimico, per non essere pagato, non avesse a muoversi; il che quando bene succedesse non restare per questo privati del ducato di Milano, il quale mentre si reggeva a divozione di Cesare arebbe sempre il pontefice causa grandissima di temerne. Ma questa essere anche speranza molto incerta, perché era da temere che i capitani, con l'autorità e arti loro, col proporre il sacco di qualche città ricca della Chiesa o di Toscana, non lo disponessino a camminare: essersi già veduto che una parte de' tedeschi, solo per avere piú grassi alloggiamenti, aveva passato il fiume del Po e venuta in parmigiano e piacentino; in modo che se si fussino deliberati di spingersi innanzi non potere essere se non tardi rimedio alcuno, e fondarsi con troppo pericolo una tanta deliberazione in su la speranza sola de' disordini degli inimici, dalla volontà de' quali dependevano finalmente lo svilupparsene. Fu adunque il consiglio di Clemente, secondo il tempo che correva, prudente e bene considerato. Ma sarebbe stato forse piú laudabile se in tutti gli articoli della capitolazione avesse usato la medesima prudenza, e voltato l'animo piú presto a saldare tutte le piaghe di Italia che ad aprire e inasprirne qualcuna di momento; imitando i savi medici, i quali, quando i rimedi che si fanno per sanare la indisposizione degli altri membri accrescono la infermità del capo o del cuore, posposto ogni pensiero de' mali piú leggieri e che aspettano tempo, attendono con ogni diligenza a quello che è piú importante e piú necessario alla salute dello infermo. Il che perché s'intenda meglio è necessario ripetere piú da alto parte delle cose già narrate, ma sparsamente, di sopra, riducendole in uno luogo medesimo.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.3

                                                  

                                                 La politica dei pontefici verso il duca d'Este, e loro ambizione su Ferrara. Apprensioni del duca dopo l'elezione di Clemente; timori di suoi accordi con Cesare.

                                                  

                                                 La casa da Esti, oltre ad avere tenuto lunghissimamente sotto titolo di vicari della Chiesa il dominio di Ferrara, aveva molto tempo posseduto Reggio e Modena con le investiture degli imperadori, non si facendo allora dubbio che quelle due città non fussino di giurisdizione imperiale; e le possedé pacificamente insino che Giulio secondo, suscitatore delle ragioni già morte della sedia apostolica e sotto pietoso titolo autore di molti mali, per ridurre totalmente Ferrara in dominio della Chiesa, roppe guerra al duca Alfonso: nella quale avendo avuto occasione di torgli Modena, la ritenne al principio per sé, come cosa che insieme con tutte l'altre terre insino al fiume del Po appartenesse alla sedia apostolica, per essere parte dello esarcato di Ravenna; ma poco poi, per timore de' franzesi, la dette a Massimiliano imperadore. Né per questo cessò la guerra contro ad Alfonso; ma avendogli, non molto poi, tolto ancora Reggio, si crede che se fusse vivuto piú lungamente arebbe preso Ferrara; inimico acerbissimo di Alfonso, sí per la pietà che e' pretendeva alla ambizione di volere ricuperare alla Chiesa ciò che si dicesse essere mai stato suo in tempo alcuno, come per lo sdegno che egli avesse seguitato piú presto l'amicizia franzese che la sua; e forse ancora per l'odio implacabile portato da lui alla memoria e alle reliquie di Alessandro sesto suo predecessore, Lucrezia figliuola del quale era maritata ad Alfonso ed eranne di questo matrimonio nati già parecchi figliuoli. Lasciò Giulio, morendo, a' successori suoi non solo l'eredità di Reggio ma la medesima cupidità di acquistare Ferrara, stimolandogli la memoria gloriosa che pareva che appresso ai posteri avesse lasciata di sé. Però, fu piú potente in Lione suo successore questa ambizione che il rispetto della grandezza che aveva in Firenze la casa de' Medici, alla quale pareva piú utile che si diminuisse la potenza della Chiesa che, aggiugnendogli Ferrara, farla piú formidabile a tutti i vicini: anzi, avendo comperato Modena, indirizzò totalmente l'animo ad acquistare Ferrara, piú con pratiche e con insidie che con aperta forza; perché questo era diventato troppo difficile, avendo Alfonso, poi che si vidde in tanti pericoli, atteso a farla fortissima, lavorato numero grandissimo di artiglierie e di munizioni, e trovandosi, come si credeva, quantità grossa di denari. E furono le inimicizie sue forse maggiori ma trattate piú occultamente che quelle di Giulio; e oltre a molte pratiche tenute spesso da lui per pigliarla, o allo improviso o con inganni, obligò sempre i príncipi, co' quali si congiunse, in modo che almanco non potevano impedirgli quella impresa; né solo viventi Giuliano suo fratello e Lorenzo suo nipote, per l'esaltazione de' quali si credeva che avesse avuto questa cupidità, ma non manco dopo la morte loro: donde si può facilmente comprendere che da niuna cosa ha l'ambizione de' pontefici maggiore fomento che da se stessa. Il quale desiderio fu tanto ardente in lui che molti si persuasono che quella sua ultima, piú presto precipitosa che prudente, deliberazione di unirsi con Cesare contro al re di Francia fusse in grande parte spinta da questa cagione. In modo che la necessità costrinse Alfonso per sodisfare al re di Francia, unico fondamento e speranza sua, di rompere la guerra in modenese quando lo esercito di Lione e di Cesare era accampato intorno a Parma; nella quale avendo cattivo successo si sarebbe presto ridotto in gravissime difficoltà se, in ne' medesimi dí, non fusse inopinatamente, nel corso delle vittorie, morto Lione; morte certo per lui non manco salutifera che quella di Giulio. Né io so se, alla fine, fusse totalmente mancato Adriano suo successore di questa cupidità; benché per essere nuovo e inesperto nelle cose d'Italia [lo] avesse, ne' primi mesi che e' venne a Roma, assoluto dalle censure, concessagli di nuovo la investitura e permesso che e possedesse eziandio tutto quello che aveva occupato nella vacazione della Chiesa, e gli avesse ancora dato speranza di restituirgli Modena e Reggio: da che di poi, informato meglio delle cose, si alienò con l'animo ogni dí piú. In modo che Alfonso, avendo compreso che piú facilmente si induce a perdonare chi è offeso che a restituire chi possiede, fu piú ardito, vacando la sedia per la morte di Adriano, che non era stato prima nelle altre occasioni che aveva avute. Ma per la creazione di Clemente entrò in grandissimo timore che per lui non fussino ritornati gli antichi tempi; e meritamente, perché in lui, se gli fussino succedute le cose prospere, sarebbe stata la medesima disposizione che era stata in Giulio e in Lione: ma non avendo ancora occasione per Ferrara, era tutto intento a riavere Reggio e Rubiera, come cosa piú facile e piú giustificata per la possessione fresca che ne aveva avuto la Chiesa, e come se per questo gli risultasse ignominia non piccola del non le ricuperare. Da questo nacque che, prima in molti altri modi e ultimamente nella capitolazione col viceré, ebbe piú memoria di questo che non desideravano molti; i quali, conoscendo il pericolo che soprastava a tutti della grandezza di Cesare e che nissuno rimedio era piú salutifero che una unione molto sincera e molto pronta di tutta Italia, e che tutto dí potevano succedere o occasioni o necessità di pigliare l'armi, arebbono giudicato essere meglio che il pontefice non esasperasse né mettesse in necessità di gittarsi in braccio allo imperadore il duca di Ferrara, principe che, per la ricchezza per l'opportunità del sito e per l'altre sue condizioni, era, in tempi tali, da tenerne molto conto; e che piú presto l'avesse abbracciato, e fatto ogni diligenza di levargli l'odio e la paura: se però il fare benefizio a chi si persuade avere ricevute tante ingiurie è bastante a cancellare degli animi, sí male disposti e inciprigniti, la memoria delle offese; massime quando il benefizio si fa in tempo che pare causato piú da necessità che da volontà.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.4

                                                  

                                                 Il vescovo di Pistoia inviato dal pontefice a visitare e consolare il re di Francia. Cesare riceve in protezione i lucchesi; nuovo mutamento di govemo in Siena. Accordi di altri principi italiani con Cesare; rinvio di soldati tedeschi in Germania.

                                                  

                                                 Fatta la capitolazione, il pontefice, per non mancare degli offici convenienti verso tanto principe, mandò, con permissione del viceré, il vescovo di Pistoia a visitare e consolare in nome suo il re di Francia. Il quale, dopo le parole generali avute insieme presente il capitano Alarcone, e l'avere il re supplicato il pontefice che per lui facesse buono officio con Cesare, gli domandò con voce sommessa quel che fusse del duca di Albania; udendo con grandissima molestia la risposta, che risoluta una parte dell'esercito era con l'altra passato in Francia.

                                                 Convennono in questo tempo medesimo i lucchesi col viceré, il quale gli ricevé nella protezione di Cesare, di pagare diecimila ducati. Convennono e i sanesi di pagarne quindicimila, senza obligarlo a mantenere piú una forma che un'altra di governo: perché da uno canto quegli del Monte de' nove, a instanza del pontefice, per mezzo del duca d'Albania, avevano riassunta, benché non ancora consolidata, l'autorità; da altro, quegli che per fare professione di desiderare la libertà si chiamavano volgarmente i libertini, preso, per la giornata di Pavia, animo contro al governo introdotto per le forze del re di Francia, avevano mandato diversamente uomini al viceré per renderlo propizio a' disegni loro; né auta da lui certa risoluzione circa la forma del governo, avevano tutti sollecitata prontissimamente la composizione. La quale essendo fatta, e venuti a ricevere i danari gli uomini mandati dal viceré, nel tempo medesimo che i danari si annoveravano, e in presenza loro, Girolamo Severini cittadino sanese, che era stato appresso al viceré, ammazzò Alessandro Bichi, principale del nuovo reggimento e a chi il pontefice aveva disegnato che per allora si volgesse tutta la riputazione; donde preso l'armi da altri cittadini che erano congiurati seco, e levato in arme il popolo che era male contento che il governo ritornasse alla tirannide, cacciati i principali del Monte de' nove, riformorono la città a governo del popolo, inimico del pontefice e aderente di Cesare: essendo procedute queste cose non senza saputa, come si credette, del viceré, o almeno con somma approbazione di quello che era stato fatto, per considerare quanto fusse opportuno alle cose di Cesare avere a sua divozione quella città potente, che ha opportunità di porti di mare, fertile di paese, vicina al reame di Napoli e situata tra Roma e Firenze; non ostante che il viceré e il duca di Sessa avessino dato speranza al pontefice di non alterare il governo introdotto col favore suo.

                                                 Seguitorono molti altri di Italia la inclinazione de' sopradetti e la fortuna de' vincitori: co' quali il marchese di Monferrato compose in quindicimila ducati; e il duca di Ferrara, non si potendo sí presto stabilire le cose sue per i rispetti che avevano alla capitolazione fatta col pontefice, e perché era necessario intenderne prima la volontà di Cesare, fu contento di prestare al viceré cinquantamila ducati, con promessa di riavergli se non capitolassino insieme. Co' quali danari, e con centomila ducati promessi loro dallo stato di Milano e quegli che promessono i genovesi e i lucchesi, e con quegli ancora rimessi da Cesare a Genova per sostentazione della guerra ma arrivati dopo la vittoria, attendevano i capitani, secondo che i danari venivano, a pagare i soldi corsi dello esercito; rimandando di mano in mano, secondo che erano pagati, i tedeschi in Germania. In modo che, non si vedendo segni che avessino in animo di seguitare contro ad alcuno per allora il corso della vittoria, anzi avendo il viceré ratificato la capitolazione fatta con suo mandato col pontefice, e trattando nel tempo medesimo di fare appuntamento nuovo co' viniziani il quale molto desiderava, si voltorono gli occhi di tutti a risguardare in che modo Cesare ricevesse sí liete novelle e a che fini si indirizzassino i suoi pensieri.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.5

                                                  

                                                 Come Cesare accoglie la notizia della vittoria sul nemico; convocazione del consiglio; parole del vescovo di Osma; parole del duca d'Alba. Cesare fa notificare al re di Francia a quali condizioni gli concederebbe la libertà; risposta del re.

                                                  

                                                 Nel quale, per quello che si potette comprendere dalle dimostrazioni estrinseche, apparirono indizi grandi di animo molto moderato e atto a resistere facilmente alla prosperità della fortuna, e tale che non era da credere in uno principe sí potente, giovane e che mai aveva sentito altro che felicità. Perché avuto avviso di tanta vittoria, che gli pervenne il decimo dí di marzo, e con esso lettere di mano propria del re di Francia, scritte supplichevolmente e piú presto con animo di prigione che con animo di re, andò subito alla chiesa a rendere grazie a Dio, con molte solennità, di tanto successo, e con segni di somma devozione prese la mattina seguente il sagramento della eucarestia e andò in processione alla chiesa di Nostra Donna fuora di Madril, dove allora si trovava con la corte; né consentí che, secondo l'uso degli altri, si facessino, con campane o con fuochi o in altro modo, dimostrazioni di allegrezza, dicendo essere conveniente fare feste delle vittorie avute contro agl'infedeli non di quelle che si avevano contro a cristiani. E non mostrando ne' gesti o nelle parole segno alcuno di troppa letizia o di animo gonfiato, rispose alle congratulazioni degli imbasciadori e uomini grandi che erano appresso a lui, che ne aveva preso piacere perché lo aiutarlo Dio sí manifestamente gli pareva pure indizio di essere, benché immeritamente, nella sua grazia; e perché sperava che ora sarebbe l'occasione di mettere la cristianità in pace, e di apparecchiare la guerra contro agli infedeli; e perché arebbe facoltà maggiore di fare beneficio agli amici e di perdonare agli inimici. Soggiugnendo che benché questa vittoria gli potesse parere giustamente tutta sua, per non essere stato seco ad acquistarla alcuno degli amici, voleva nondimeno che la fusse comune a tutti; anzi, avendo udito l'oratore viniziano che gli giustificava le cose fatte dalla sua republica, disse poi a' circostanti, le scuse sue non essere vere ma che voleva accettarle e riputarle per vere. Nelle quali parole e dimostrazioni, significatrici di somma sapienza e bontà, poiché si fu continuato qualche dí, egli, per procedere maturamente come era consueto, chiamato uno giorno il consiglio, propose lo consigliassino in che modo fusse da governarsi col re di Francia e a che fine dovesse indirizzarsi questa vittoria; comandando che per ciascuno si consigliasse liberamente alla presenza sua. Dopo il quale comandamento il vescovo di Osma, che teneva la cura del confessarlo, parlò cosí:

                                                 - Se bene, gloriosissimo principe, tutte le cose che accaggiono in questo mondo inferiore procedono dalla providenza del sommo Dio e da quella hanno giornalmente il moto suo, pure questo talvolta in qualcuna si scorge piú chiaramente: ma se si vedde mai manifestamente in alcuna, si è veduto nella presente vittoria; perché, per la grandezza sua e per la facilità con la quale è stata acquistata, e per essersi vinti inimici potentissimi e molto piú abbondanti di noi delle provisioni necessarie alla guerra, non può negare alcuno che non sia stata espressa volontà di Dio e quasi miracolo. Però, quanto il beneficio suo è stato piú manifesto e maggiore tanto piú è obligata la Maestà vostra a riconoscerlo e a dimostrarne la debita gratitudine; il che principalmente consiste nello indirizzare la vittoria secondo che piú sia il servigio di Dio, e a quel fine per il quale si può credere che egli ve la abbia conceduta. E certamente, quando io considero in che grado sia ridotto lo stato della cristianità, non veggo che cosa alcuna sia né piú santa né piú necessaria né piú grata a Dio che la pace universale tra i príncipi cristiani: conciossiaché si tocchi con mano che senza questa la religione, la fede sua, il bene vivere degli uomini ne vanno in manifestissima ruina. Abbiamo da una parte i turchi, che per le nostre discordie hanno fatto contro a' cristiani tanto progresso, e ora minacciano l'Ungheria, regno del marito della sorella vostra; e se pigliano l'Ungheria (come, se i príncipi cristiani non si uniscono, senza dubbio piglieranno) aranno aperta la strada alla Germania e alla Italia. Dall'altra parte, questa eresia luteriana, tanto inimica a Dio, tanto vituperosa a chi la può opprimere, tanto pericolosa a tutti i príncipi, ha già preso tale piede che se non si provede si empie il mondo di eretici, né si può provedere se non con l'autorità e potenza vostra; le quali mentre che voi siate impegnato in altre guerre non possono adoperarsi a estirpare questo perniciosissimo veleno. Dipoi, quando bene al presente né di turchi né di eretici si temesse, che cosa piú brutta piú scelerata piú pestifera, che tanto sangue de' cristiani, che si potrebbe spendere gloriosamente per augumentare la fede di Cristo o almanco riserbare a tempi piú necessari, si spanda per le passioni nostre inutilmente, accompagnato da tanti stupri da tanti sacrilegi e opere nefande: mali che chi ne è cagione per volontà non può sperarne da Dio perdono alcuno, chi gli fa per necessità non merita di essere escusato, se almanco non ha determinata intenzione di rimediare come prima ne arà la facoltà. Debbe adunque essere il fine e la mira vostra la pace universale de' cristiani, come cosa sopra tutte l'altre onorevole santa e necessaria. La quale vediamo ora in che modo si possa conseguire. Tre sono le deliberazioni che può prendere la Maestà vostra del re di Francia: l'una, di tenerlo perpetuamente prigione; l'altra, di liberarlo amorevolmente e fraternalmente, senza altre convenzioni che quelle che appartenghino a fermare tra voi perpetua pace e amicizia e a sanare i mali della cristianità; la terza, liberarlo ma cercando di trarne piú profitto che sia possibile: delle quali, se io non mi inganno, l'altre due prolungano e accrescono le guerre, la liberazione amorevole e fraterna è solo quella che le estirpa in eterno. Perché chi può dubitare che il re di Francia, usandosegli tanta generosità, sí singolare liberalità, non rimanga per tanto beneficio piú legato coll'animo e piú in potestà vostra che non è al presente col corpo? e se tra voi e lui sarà vera unione e concordia tutto il resto de' cristiani andrà a quello cammino che da voi due sarà mostrato. Ma il risolversi a tenerlo sempre prigione, oltre che sarebbe pure con infamia troppo grande di crudeltà e segno di animo che non conoscesse la potestà della fortuna, non fa egli nascere guerre di guerre? perché presuppone volere acquistare o tutta o parte della Francia, che senza nuove e grandissime guerre non si può fare. Se si piglia il partito di mezzo, cioè liberarlo ma con piú vantaggiosi patti che si possa, credo che sia il piú implicato il piú pericoloso partito di tutti gli altri; perché, faccisi che parentado che capitoli che obligazioni si voglia, resterà sempre inimico, né gli mancherà mai la compagnia di tutti quegli che temano della grandezza vostra; in modo che ecco nuove guerre, e piú sanguinose e piú pericolose che le passate. Conosco quanto questa opinione sia diversa dal gusto degli uomini, quanto sia nuova e senza esempli; ma si convengono bene a Cesare deliberazioni estraordinarie e singolari. Né è da maravigliarsi che l'animo cesareo sia capacissimo di quello a che i concetti degli altri uomini non arrivano, i quali quanto avanza di degnità tanto debbe avanzare di magnanimità; e però conoscere, sopra tutti gli altri, quanto sia piena di vera gloria una tanta generosità, quanto sia piú officio di Cesare il perdonare e il beneficare che l'acquistare; che non invano Dio gli ha dato quasi miracolosamente la potestà di mettere la pace nel mondo; che a lui si appartiene, dopo tante vittorie, dopo tante grazie che Dio gli ha fatte, dopo il vedere inginocchiato a' piedi suoi ognuno, procedere non piú come inimico di persona ma provedere come padre comune alla salute di tutti. Piú fece glorioso il nome di Alessandro magno, il nome di Giulio Cesare, la magnanimità di perdonare agli inimici, di restituire i regni a' vinti, che tante vittorie e tanti trionfi; lo esempio de' quali debbe molto piú seguitare chi, non avendo per fine unico la gloria, ancora che sia premio grandissimo, desidera principalmente di fare quel che è il proprio il vero ufficio di ciascuno principe cristiano. Ma consideriamo piú innanzi, per convincere coloro che misurano le cose umane solamente con fini umani, quale deliberazione sia piú conforme ancora a questi. Io certamente giudico che in tutta la grandezza della Maestà vostra non sia la piú maravigliosa la piú degna parte che questa gloria di essere stato insino a oggi invitto, di avere condotto a felicissimo fine, con tanta riputazione con tanta prosperità, tutte le imprese vostre. Questa è senza dubbio la piú preziosa gioia, il piú singolare tesoro che sia tra tutti i vostri tesori; adunque, come meglio si stabilisce come meglio si assicura come piú certamente si conserva che col posare le guerre con fine sí generoso e sí magnanimo, col levare la gloria acquistata dalla potestà della fortuna, e di mezzo il mare ridurre in sicuro porto questo navilio carico di mercie di inestimabile valore? Ma diciamo piú oltre: non è piú desiderabile quella grandezza che si conserva volontariamente che quella che si mantiene con violenza? Niuno ne dubita, perché è piú stabile piú facile piú piacevole piú onorevole. Se Cesare si obliga il re di Francia con tanta liberalità, con tanto beneficio, non sarà egli sempre padrone di lui e del regno suo? se e' dà sí manifesta certezza al papa e agli altri príncipi di contentarsi dello stato che ha, né avere altro pensiero che della salute universale, non resteranno eglino senza sospetto? e non avendo piú né da temere né da contendere con lui, non solo ameranno ma adoreranno tanta bontà. Cosí con volontà di tutti darà le leggi a tutti, e senza comparazione disporrà piú de' cristiani con la benivolenza e con l'autorità che non farebbe con le forze e con l'imperio. Arà facoltà, aiutato e seguitato da tutti, voltare le armi contro a luterani e contro agl'infedeli, con piú gloria e con piú occasione di maggiori acquisti; i quali non so perché non si debbino anche desiderare nella Affrica o nella Grecia o nel levante, quando bene lo ampliare il dominio fra i cristiani avesse quella facilità che molti, a giudizio mio, vanamente si immaginano. Perché la potenza della Maestà vostra è augumentata tanto che è troppo formidabile a ciascuno; e come si vegga che si disegni maggiore progresso tutti di necessità si uniranno contro a voi. Ne teme il papa, ne temono i viniziani, ne teme Italia tutta; e, per i segni che spesso si sono veduti, è da credere che abbia a essere molesta al re d'Inghilterra. Potrannosi intrattenere qualche mese, con speranze e pratiche vane, i franzesi, ma bisognerà in ultimo che il re si liberi o che si disperino; disperati, si uniranno con tutti questi altri. Se il re si libera con condizioni per la Maestà vostra di poca utilità, e che guadagno si sarà fatto a perdere l'occasione di usare tanta magnanimità? la quale se non si mostra in questo principio, ancora che si mostrasse poi, non arà seco piú né laude né gloria né grazia pari; se con condizioni che vi sieno utili, non le osserverà, perché nessuna sicurtà che vi abbia data gli potrà importare tanto che non gli importi molto piú che lo inimico suo non diventi sí grande che poi lo possi opprimere: cosí aremo o una inutile pace o una pericolosa guerra, i fini delle quali sono incerti; ed [è] da temere piú da chi ha avuto sí lunga felicità la mutazione della fortuna, e da dispiacere piú quando le cose succedono male a chi ha avuto potestà di stabilirle tutte bene. Penso, Cesare, avere sodisfatto al comandamento vostro, se non con la prudenza almanco con l'affezione e con la fede; né mi resta altro che pregare Dio che vi dia mente e facoltà di fare quella deliberazione che sia piú secondo la sua volontà, sia piú secondo la vostra gloria, piú, finalmente, secondo il bene della republica cristiana: della quale, e per la degnità suprema che voi avete e perché si vede essere cosí la volontà divina, a voi conviene esserne padre e protettore. -

                                                 Fu udito questo consiglio da Cesare con grande attenzione, e senza fare segno alcuno di dispiacergli o di approvarlo; ma, poi che stato alquanto tacito ebbe accennato che gli altri seguitassino di parlare, [Federico duca d'Alva, uomo] e appresso a Cesare di grande autorità, disse cosí:

                                                 - Io sarò scusato, invittissimo imperadore, se io confesserò che in me non sia giudizio diverso dal giudizio comune, né capacità di aggiugnere con lo intelletto a quello a che gl'intelletti degli altri uomini non arrivano; anzi sarò forse piú lodato se consiglierò che si proceda per quelle vie medesime che sono proceduti sempre i padri e gli avoli vostri, perché i consigli nuovi e inusitati possono al primo aspetto parere forse piú gloriosi e piú magnanimi ma riescono poi senza dubbio piú pericolosi e piú fallaci di quegli che in ogni tempo ha, appresso a tutti gli uomini, approvato la ragione e l'esperienza. La volontà di Dio principalmente, e dipoi la virtú de' vostri capitani e del vostro esercito, vi ha data la maggiore vittoria che avesse, già sono molte età, alcuno principe cristiano; ma tutto il frutto dello avere vinto consiste nello usare la vittoria bene, e il non fare questo è tanto maggiore infamia che il non vincere, quanto è piú colpa lo essere ingannato da quelle cose che sono in potestà di chi si inganna che da quelle che dependono dalla fortuna: dunque, tanto piú è da avvertire di non fare deliberazione che vi abbia alla fine a dare appresso agli altri vergogna, appresso a voi medesimo penitenza; e quanto piú grave è la importanza di quello che si tratta tanto si debbe procedere piú circospetto, e fare maturamente quelle deliberazioni che, errate una volta, non si possano piú ricorreggere: e ricordarsi che se il re si libera non si può piú ritenere, ma mentre che è in prigione è sempre in potestà vostra il liberarlo: né doverrebbe la tardità dargli ammirazione, perché, se io non mi inganno, è conscio a se medesimo quel che farebbe se Cesare fusse suo prigione. È stata certo cosa grandissima a pigliare il re di Francia, ma chi considererà bene la troverà senza comparazione maggiore a lasciarlo; né sarà mai tenuto prudenza il fare una deliberazione di tanto momento senza lunghissime consulte e senza rivoltarsela infinite volte per la mente. Né sarei forse in questa sentenza se io mi persuadessi che il re, liberato al presente, riconoscesse tanto benefizio con la debita gratitudine; e che il papa e gli altri d'Italia deponessino insieme col sospetto la cupidità e l'ambizione: ma chi non conosce quanto sia pericoloso fondare una risoluzione tanto importante in su uno presupposito tanto fallace e tanto incerto? anzi, chi considera bene la condizione e costumi degli uomini ha piú presto a giudicare il contrario, perché di sua natura niuna cosa è piú breve niuna ha vita minore che la memoria de' benefici; e quanto sono maggiori tanto piú, come è in proverbio, si pagano con la ingratitudine: perché chi non può o non vuole scancellargli con la remunerazione, cerca spesso di scancellargli o col dimenticarsegli o col persuadere a se medesimo che e' non sieno stati sí grandi; e quegli che si vergognano di essersi ridotti in luogo che abbino avuto bisogno del benefizio si sdegnano ancora di averlo ricevuto, in modo che può piú in loro l'odio, per la memoria della necessità nella quale sono caduti, che l'obligazione per la considerazione della benignità che a loro è stata usata. Dipoi, di chi è piú naturale la insolenza piú propria la leggerezza, che de' franzesi? dove è la insolenza è la cecità; dove è la leggerezza non è cognizione di virtú, non giudizio di discernere le azioni d'altri, non gravità da misurare quello che convenga a se stesso. Che adunque si può sperare di uno re di Francia, enfiato di tanto fasto quanto ne può capere in uno re de' franzesi, se non che arda di sdegno e di rabbia di essere prigione di Cesare, nel tempo che e' pensava di avere a trionfare di lui? sempre gli sarà innanzi agli occhi la memoria di questa infamia né, liberato, crederà mai che il mezzo di spegnerla sia la gratitudine, anzi il cercare sempre di esservi superiore: persuaderà a se medesimo che voi lo abbiate lasciato per le difficoltà del ritenerlo, non per bontà o per magnanimità. Cosí è quasi sempre la natura di tutti gli uomini, cosí sempre quella de' franzesi, da' quali chi aspetta gravità o magnanimità aspetta ordine e regola nuova nelle cose umane. In luogo adunque di pace e di riordinare il mondo sorgeranno guerre maggiori e piú pericolose che le passate, perché la vostra riputazione sarà minore e lo esercito vostro che aspetta il frutto debito di tanta vittoria, ingannato delle speranze sue, non arà piú la medesima virtú e vigore, né le cose vostre la medesima fortuna, la quale difficilmente sta con chi la ritiene non che con chi la scaccia. Né sarà di altra sorte la bontà del papa e de' viniziani; anzi, pentiti di avervi lasciato conseguire la passata vittoria, cercheranno di impedirvi le future, e la paura che hanno ora di voi gli sforzerà a fare ogni opera di non avere a ritornare in nuova paura; e, dove è in potestà vostra di tenere legato e attonito ognuno, voi medesimo con una dissoluta bontà sarete quello che gli farete sciolti e arditi. Non so quale sia la volontà di Dio, né credo la sappino gli altri; perché e' si suole pure dire che i giudíci suoi sono occulti e profondi. Ma, se si può congetturare da quello che tanto chiaramente si dimostra, credo che sia favorevole alla vostra grandezza; non credo già che abbondino tante sue grazie a fine che voi le dissipiate da voi medesimo ma per farvi superiore agli altri, cosí in effetto come siete in titolo e in ragione: però, perdere sí rara occasione che Dio vi manda non è altro che tentarlo, e farvi indegno della sua grazia. Ha sempre dimostrato l'esperienza, e lo dimostra la ragione, che mai succedino bene le cose che dependano da molti; però, chi crede con l'unione di molti príncipi spegnere gli eretici o domare gl'infedeli non so se misura bene la natura del mondo. Sono imprese che hanno bisogno di uno principe sí grande che dia la regola agli altri; senza questo, se ne tratterà e farà per l'innanzi con quello successo che se ne è trattato e fatto per l'addietro. Per questo credo che Dio vi mandi tante vittorie, per questo credo che Dio vi apra la via alla monarchia, con la quale sola si possono fare sí santi effetti; e meglio è che si tardi a dare loro principio per fargli con migliori e piú certi fondamenti. Né vi alieni da questa deliberazione il timore di tante unioni che si minacciano, perché troppo grande è l'occasione che avete in mano; né mai, se le cose saranno bene negoziate, la madre del re, per la pietà materna e per la necessità di ricuperare il figliuolo, si spiccherà dalle speranze di riaverlo da voi per accordo; né mai i príncipi d'Italia si unirarno col governo di Francia, conoscendo che sempre sia in potestà vostra, col liberare il re, separarlo anzi voltarlo contro a loro. Bisogna stieno attoniti e sospesi, e alla fine faccino a gara di ricevere le leggi da voi: a quali sarà glorioso usare la clemenza, e la magnanimità quando le cose restino in grado che e non possino mancare di riconoscervi per superiore. Cosí la usorono Alessandro e Cesare, che furno liberali a perdonare le ingiurie, non inconsiderati a rimettersi da se stessi in quelle difficoltà e pericoli che avevano già superati. È laudabile chi fa cosí perché fa cosa che ha pochi esempli, ma per avventura imprudente chi fa quello che non ha alcuno esempio. Però, Cesare, il parere mio è che di questa vittoria si tragga piú frutto che si può; e che perciò il re, trattandolo sempre con onori convenienti a re, sia condotto, se non si può in Spagna, almeno a Napoli. In risposta della lettera sua si mandi a lui uno uomo con benignissime parole, per il quale si proponghino le condizioni della sua liberazione; tali che, come particolarmente si potrà consultare, sieno premi degni di tanta vittoria. Cosí, fermati questi fondamenti e questi fini del vostro procedere, la giornata e gli accidenti che si scopriranno, farà piú presta o piú tarda la liberazione del re, lo stare in guerra o in pace con gl'italiani; a' quali si diano per ora buone speranze: e si augumenti quanto si può il favore e la riputazione dell'armi con l'arte e con la industria, per non avere a tentare ogni dí di nuovo la fortuna; e stiamo parati ad accordare con questo o con quello o con tutti insieme o con nessuno, secondo che le occasioni consiglieranno. Queste sono le vie per le quali sempre sono camminati i savi príncipi, e particolarmente quegli che vi hanno fondato tanta grandezza; i quali non hanno mai gittato via gli instrumenti del crescere né allentato, quando l'hanno avuto propizio, il favore della fortuna. Cosí dovete fare voi, al quale appartiene per giustizia quello che in qualcuno di loro poteva parere ambizione. Ricordatevi, Cesare, che voi siete principe e che è ufficio vostro di procedere per la via de' príncipi; e che nessuna ragione, o divina o umana, vi conforta a omettere l'opportunità di fare risorgere l'autorità usurpata e oppressa dello imperio, ma vi obliga solamente ad avere animo e intenzione di usarla rettamente. E ricordatevi sopra tutto quanto sia facile a perdere l'occasioni grandi e quanto sia difficile ad acquistarle; e però, mentre che si hanno, essere necessario di fare ogni opera per ritenerle né fondarsi in su la bontà o in su la prudenza de' vinti, poi che il mondo è pieno di imprudenza e di malignità, e giudicando che o dalla grandezza vostra o da nessuno altro mezzo si ha a difendere la religione cristiana, accrescerla quanto si può, non piú per interesse della autorità e gloria vostra che per servigio di Dio e per zelo del bene universale. -

                                                 Impossibile sarebbe esprimere con quanto favore di tutto il consiglio fusse udito [il duca d'Alva], avendosi già ciascuno proposto nell'animo lo imperio di quasi tutti i cristiani: però, non fu alcuno degli altri che senza replica non confermasse la medesima sentenza; approvandola ancora Cesare, piú presto sotto specie di non volere discostarsi dal consiglio de' suoi che con dichiarare quale fusse per se stessa la sua inclinazione. Espedí adunque, Beuren, cameriere intimo e molto accetto, a notificare a' capitani la sua deliberazione e a visitare in suo nome il re di Francia, e a proporre le condizioni con le quali poteva ottenere la liberazione. Il quale, fatto il cammino per terra (perché la madre del re, acciò che piú comodamente si potessino trattare le cose del figliuolo, non impediva piú il transito agli uomini e a' corrieri che andassino e venissino da Cesare), andò insieme col Borbone e col viceré a Pizzichitone, dove era ancora il re, [e] gli offerse la liberazione; ma con condizioni tanto gravi che dal re furono udite con grandissima molestia: perché, oltre alla cessione delle ragioni quali pretendeva avere in Italia, gli dimandava la restituzione del ducato di Borgogna come cosa propria, che al duca di Borbone desse la Provenza, e per il re di Inghilterra e per sé altre condizioni di grandissimo momento. Alle quali dimande rispose il re, costantemente, avere deliberato piú presto morire prigione che di privare i figliuoli di parte alcuna del reame di Francia; ma, che quando bene avesse deliberato altrimenti, che in potestà sua non sarebbe di eseguirlo, non comportando l'antiche costituzioni di Francia che si alienasse cosa alcuna appartenente alla corona senza il consentimento de' parlamenti, e degli altri appresso a' quali risedeva l'autorità di tutto il reame; i quali erano consueti, in casi simiglianti, anteporre la salute universale allo interesse particolare delle persone de' re. Dimandassingli condizioni che gli fussino possibili, perché non potrebbono trovare in lui maggiore prontezza e a congiugnersi con Cesare e a favorire la sua grandezza: né cessò di proporre condizioni diverse, non facendo difficoltà di concedere larghissimamente degli stati di altri pure che ottenesse la liberazione, senza promettere de' suoi. La somma fu: offerirsi a pigliare per moglie la sorella di Cesare che era restata vedova del re di Portogallo, confessando di avere la Borgogna in nome di sua dote, nella quale succedessino i figliuoli che nascerebbono di questo matrimonio; restituire al duca di Borbone il ducato che gli era stato confiscato e aggiugnergli qualche altro stato, e in ricompenso della sorella di Cesare che gli era stata promessa dargli la sorella sua, restata nuovamente vedova per la morte di Alanson: sodisfare al re d'Inghilterra con danari, e a Cesare pagarne per la taglia sua grandissima quantità; cedergli le ragioni del regno di Napoli e del ducato di Milano; promettere di farlo accompagnare con armata di mare e con esercito per terra quando andasse a Roma a pigliare la corona dello imperio, che era come promettere di dargli in preda tutta Italia. Con la quale forma di capitoli Beuren ritornò a Cesare: e vi andò con lui monsignore di Memoransí, persona insino allora accettissima al re, e il quale fu dipoi promosso da lui prima all'uficio del gran maestro e poi alla degnità del gran conestabile di Francia.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.6

                                                  

                                                 Dolore in Francia per la sconfitta e la prigionia del re; proposte della reggente a Cesare; proposte ai veneziani e al papa. Difficoltà di accordi fra Cesare e il re d'Inghilterra. Accordi fra il re d'Inghilterra e la reggente di Francia. Insolenza dei capitani cesarei in Italia.

                                                  

                                                 Ma venuta in Francia la nuova della rotta dello esercito e della cattura del re, sarebbe quasi impossibile immaginare quanta fusse la confusione e la disperazione di tutti; perché al dolore smisurato che dava il caso miserabile del suo re a quella nazione, affezionatissima naturalmente e devotissima al nome reale, si aggiugnevano infiniti dispiaceri privati e publici: privati, perché nella corte e nella nobiltà pochissimi erano quegli che non avessino perduto, nella giornata, figliuoli fratelli o altri congiunti o amici non volgari; publichi, per tanta diminuzione dell'autorità e dello splendore di sí glorioso regno (cosa tanto piú loro molesta quanto piú per natura si arrogano e presumono di se medesimi), e perché temevano che tanta calamità non fusse principio di rovina maggiore, trovandosi prigione il re, e con lui o presi o morti nella giornata i capi del governo e quasi tutti i capitani principali della guerra, disordinato il regno di danari e circondato da potentissimi inimici. Perché il re di Inghilterra, ancora che avesse tenuto diverse pratiche e dimostrato in molte cose variazione di animo, nondimeno, pochi dí innanzi alla giornata, esclusi tutti i maneggi che aveva avuti col re, aveva publicato di volere passare in Francia se in Italia succedesse qualche prosperità: però era grande il timore che, in tanta opportunità, Cesare ed egli non rompessino la guerra in Francia; dove, per non essere altro capo che una donna e i piccoli figliuoli del re, del quale il primogenito non aveva ancora finiti otto anni, e per avere loro seco il duca di Borbone, signore di tanta potenza e autorità nel regno di Francia, era pericolosissimo ogni movimento che e' facessino. Né alla madre, in tanti affanni che aveva per l'amore del figliuolo e per i pericoli del regno, mancavano le passioni sue proprie; perché, ambiziosa e tenacissima del governo, dubitava che, allungandosi la liberazione del re e sopravenendo in Francia qualche nuova difficoltà, non fusse costretta cedere l'amministrazione a quegli che fussino deputati dal regno. Nondimeno, in tanta perturbazione raccolto l'animo da lei e da quegli che gli erano piú appresso, oltre al provedere, piú presto potettono, le frontiere di Francia e ordinare gagliarde provisioni di danari, scrisse madama la reggente, per ordine e in nome della quale si spedivano tutte le faccende, a Cesare lettere supplichevoli e piene di compassione, con introdurre e poi sollecitare, di mano in mano, quanto potette le pratiche dello accordo. Per le quali anche, poco dipoi liberato don Ugo di Moncada, lo mandò a Cesare a offerire: che il figliuolo rinunzierebbe alle ragioni del regno di Napoli e dello stato di Milano; sarebbe contento che si vedesse di ragione a chi apparteneva la Borgogna, e in caso che appartenesse a Cesare, riconoscerla in nome di dota della sorella; restituire a Borbone lo stato suo, co' mobili di grandissimo valore e i frutti stati occupati dalla camera reale; dargli per donna la sorella, e consentire che avesse la Provenza se fusse giudicato avervi migliore ragione. Le quali pratiche perché fussino piú facili, piú che per avere volto l'animo a' pensieri della guerra, spedí madama subito in Italia a raccomandare al papa e a' viniziani la salute del figliuolo; offerendo, se per la sicurtà propria volevano ristrignersi seco e pigliare l'armi contro a Cesare, cinquecento lancie e grossa contribuzione di danari. Ma il principale suo desiderio e di tutto il regno di Francia sarebbe stato di mitigare l'animo del re d'Inghilterra; giudicando, come era vero, che non avendo inimico lui il regno di Francia non avesse a essere molestato, ma che se egli da uno canto dall'altro Cesare movessino l'armi, avendo con loro Borbone e tante occasioni, che ogni cosa si empierebbe di difficoltà e di pericoli.

                                                 Ma di questo cominciò presto a dimostrarsi a madama qualche speranza. Perché, se bene il re di Inghilterra avesse, subito che intese la nuova della vittoria, fatti segni grandissimi di allegrezza e publicato di volere passare in Francia personalmente, mandati anche a Cesare oratori per trattare e sollecitare di muovere comunemente la guerra, nondimeno, procedendo in questo tempo col medesimo stile che altre volte aveva proceduto, ricercò anche madama che gli mandasse uno uomo proprio; la quale lo spedí subito con amplissime commissioni, usando tutte le sommissioni e arti possibili a mitigare l'animo di quel re: il quale, non partendo dal consiglio del cardinale eboracense, pareva che avesse per fine principale di diventare talmente cognitore delle differenze tra gli altri príncipi che tutto il mondo potesse conoscere dependere da lui il momento della somma delle cose. Però, e nel tempo medesimo offeriva a Cesare di passare in Francia con esercito potente, offeriva di dare perfezione al parentado conchiuso altre volte tra loro e, per levarne ogni scrupolo, consegnare di presente a Cesare la figlia, che non era ancora negli anni nubili. Ma avevano queste cose non piccole difficoltà, parte dependenti da lui medesimo parte dependenti da Cesare, non pronto a convenire con lui come era stato per il passato; perché quel re dimandava per sé quasi tutti i premi della vittoria, la Piccardia la Normandia la Ghienna e la Guascogna, con titolo di re di Francia; e che Cesare, ancora che i premi fussino ineguali, passasse personalmente in Francia, partecipe egualmente delle spese e de' pericoli. Turbava la inegualità di queste condizioni l'animo di Cesare, e molto piú che, ricordandosi che negli anni prossimi aveva ne' maggiori pericoli del re di Francia allentato sempre l'armi contro a lui, si persuadeva non potere fare fondamento in questa congiunzione; ed essendo esaustissimo di danari e stracco da tanti travagli e da tanti pericoli, sperava potere conseguire piú dal re di Francia col mezzo della pace che col mezzo delle armi, movendole in compagnia del re di Inghilterra. Né era piú appresso a lui in tanta estimazione in quanta soleva essere il matrimonio della figliuola, collocata ancora negli armi minori, e nella dota della quale s'aveva a computare quel che Cesare aveva ricevuto in prestanza dal re di Inghilterra: anzi, mosso dal desiderio d'avere figliuoli, dalla cupidità de' danari, aveva inclinazione a congiugnersi con la sorella di [Giovanni] re di Portogallo, di età nubile e dalla quale sperava ricevere in dote grandissima quantità di danari; e molti ancora, in caso facesse questo matrimonio, gliene offerivano i popoli suoi, desiderosi di avere una regina della medesima lingua e nazione, e che presto procreasse figliuoli. Per le quali cose difficultandosi ogni dí piú la pratica tra l'uno e l'altro principe, e aggiugnendosi la inclinazione che ordinariamente aveva al re di Francia il cardinale eboracense, le querele ancora che già palesemente faceva di Cesare, sí per gli interessi del suo re come perché gli pareva cominciare a essere disprezzato da Cesare, il quale, solendo innanzi alla giornata di Pavia non mandargli mai se non lettere scritte tutte di sua mano sottoscrivendosi: “il vostro figliuolo e cugino Ciarles”, avuta quella vittoria, cominciò a fargli scrivere lettere nelle quali non vi era piú scritto di mano propria altro che la sottoscrizione, non piú piena di titoli di tanta riverenza e sommissione ma solamente con il proprio suo nome: “Ciarles”; tutte queste cose furono cagione che il re d'Inghilterra, raccolto con umanissime parole e dimostrazioni l'uomo mandatogli da madama la reggente, e confortatola a sperare bene delle cose future, non molto poi, alienato totalmente l'animo dalle cose di Cesare, contrasse confederazione con madama contraente in nome del figliuolo; nella quale volle inserisse espressa condizione che non si potesse concedere a Cesare, eziandio per la liberazione del re, cosa alcuna posseduta allora dal reame di Francia. Questa fu la prima speranza di salute che cominciasse ad avere il regno di Francia, questo il principio di respirare da tante avversità augumentato poi continuamente per i progressi de' capitani cesarei in Italia: i quali, diventati insolentissimi per tanta vittoria, e persuadendosi che alla volontà loro avessino a cedere tutti gli uomini e tutte le difficoltà, perderono l'occasione di concordare i viniziani, contravennono al pontefice nelle cose gli avevano promesse, ed empiendo lui il duca di Milano e tutta Italia di sospetto sparsono i semi di nuove turbazioni; le quali messono finalmente Cesare in necessità di fare deliberazione precipitosa, con pericolo grandissimo dello stato suo d'Italia, se non avesse potuto piú la sua antica felicità o il fato malignissimo del pontefice: cose certamente degnissime di particolare notizia, perché di accidenti tanto memorabili si intendino i consigli e i fondamenti; i quali spesso sono occulti, e divulgati il piú delle volte in modo molto lontano da quel che è vero.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.7

                                                  

                                                 Il pontefice pubblica l'accordo concluso col viceré; sue ragioni di malcontento verso il viceré. Cesare ratifica solo in parte l'accordo col pontefice, il quale ricusa perciò le lettere di ratifica. Atteggiamento di attesa dei veneziani. Il re di Francia condotto in Ispagna; contegno di Cesare verso di lui. Tregua fra Cesare ed il governo di Francia; disposizioni riguardanti le cose d'Italia e le milizie cesaree.

                                                  

                                                 Non aveva adunque il pontefice capitolato appena col viceré che sopravennono le offerte grandi di Francia per incitarlo alla guerra; e se bene non gli mancassino allo effetto medesimo i conforti di molti, né gli fusse diminuita la diffidenza che prima aveva degli imperiali, deliberò di procedere in tutte le cose talmente che dalle azioni sue non avessino cagione di prendere sospetto alcuno. Perciò, subito che intese il viceré avere accettato e publicato lo appuntamento fatto in Roma, lo fece ancora egli publicare in San Giovanni Laterano, senza aspettare che prima fusse venuta la ratificazione promessa di Cesare, onorando, per piú efficace dimostrazione dell'animo suo, la publicazione, che fu fatta il primo dí di maggio, con la presenza sua e con la solennità della sua incoronazione; sollecitò che i fiorentini pagassino i danari promessi, e si interpose quanto potette perché i viniziani appuntassino ancora loro co' cesarei. Ma da altra parte, gli furono date da loro molte giuste cause di querelarsi: perché nel pagamento de' danari promessi non vollono accettare i venticinquemila ducati pagati per ordine suo da' fiorentini mentre si trattava l'accordo, allegando il viceré, impudentemente, se altrimenti fusse stato promesso essere stato fatto senza sua commissione; non rimossono i soldati del dominio della Chiesa, anzi empierono il piacentino di guarnigioni. Alle quali cose, che si potevano forse in qualche parte scusare per la carestia che avevano di danari e di alloggiamenti, aggiunsono che non solo, nella mutazione dello stato di Siena, dettono sospetto di avere l'animo alieno dal pontefice, ma ancora dipoi comportorono che i cittadini del Monte de' nove fussino male trattati e spogliati de' beni loro da i libertini, non ostante che molte volte, lamentandosene lui, gli dessino speranza di provedervi. Ma quello che sopra ogni cosa gli fu molestissimo fu l'avere subito prestato il viceré orecchi al duca di Ferrara, e datagli speranza di non lo sforzare a lasciare Reggio e Rubiera e di operare che Cesare piglierebbe in protezione lo stato suo; e ancora che ogni dí promettesse al pontefice che finito il pagamento de' fiorentini lo farebbe reintegrare di quelle terre, e che il pontefice, per sollecitare lo effetto e per ottenere che le genti si levassino dello stato della Chiesa, mandasse a lui il cardinale Salviati, legato suo in Lombardia e deputato legato a Cesare, al quale il viceré dette intenzione di fargli restituire Reggio con le armi se il duca ricusasse di farlo volontariamente, nondimeno gli effetti non corrispondevano alle parole: cosa che, non si potendo scusare con la necessità de' danari, perché maggiore quantità perveniva loro per la restituzione di quelle, dava materia di interpretare, probabilmente procedere dal desiderio che avessino della bassezza sua o di guadagnarsi il duca di Ferrara, o perché e' s'andassino continuamente preparando alla oppressione d'Italia. Davano queste cose sospezione e molestia di animo quasi incredibile al pontefice, ma molto maggiore il parergli non essere da queste operazioni diversa la mente di Cesare. Il quale, avendo mandato al pontefice le lettere della ratificazione della confederazione fatta in suo nome dal viceré, differiva di ratificare i tre articoli stipulati separatamente dalla capitolazione, allegando che quanto alla restituzione delle terre tenute dal duca di Ferrara non aveva facoltà di pregiudicare alle ragioni dello imperio, né sforzare quel duca che asseriva tenerle in feudo dallo imperio; e però offeriva che questa differenza si trattasse per via di giustizia o di amicabile composizione: e si intendeva che il desiderio suo sarebbe stato che le restassino al duca sotto la investitura sua, per la quale gli pagasse centomila ducati, pagandone anche al pontefice centomila altri per la investitura di Ferrara e per la pena apposta nel contratto che aveva fatto con Adriano. Allegava essere stato impertinente convenire co' ministri suoi sopra il dare i sali al ducato di Milano, perché il dominio utile di quel ducato, per la investitura concessa benché non ancora consegnata, apparteneva a Francesco Sforza; e però, che il viceré non si era obligato semplicemente, nello articolo, a farlo obligare a pigliargli ma a curare che e' consentisse; la quale promessa, per contenere il fatto del terzo, era notoriamente, quanto allo effetto dello obligare o sé o altri, invalida; e nondimeno, che per desiderio di gratificare al pontefice arebbe procurato di farvi consentire il duca, se non fusse fatto e interesse non piú suo ma alieno, perché già il duca di Milano, in ricompenso degli aiuti avuti dallo arciduca, aveva convenuto di pigliare i sali da lui: e pure che si interporrebbe perché il fratello, ricevendo ricompenso onesto di danari, consentisse, non in perpetuo, come diceva l'articolo, ma durante la vita del pontefice. Né ammetteva anche l'articolo delle cose beneficiali, se con quello che si esprimeva nelle investiture non si congiugneva quel che fusse stato osservato dai re suoi antecessori. Per queste difficoltà recusò il pontefice di accettare le lettere della ratificazione e di mandare a Cesare le sue; dimandando che poi che Cesare non aveva ratificato nel termine de' quattro mesi secondo la promessa del viceré, fussino restituiti a' fiorentini i centomila ducati: alla quale dimanda si rispondeva (piú presto cavillosamente che con solidi fondamenti) la condizione della restituzione de' centomila ducati non essere stata apposta nello instrumento ma promessa per uno articolo da parte dagli agenti del viceré con giuramento, né referirsi alla ratificazione de' tre articoli stipulati separatamente dalla confederazione ma alla ratificazione della confederazione, la quale Cesare aveva nel termine de' quattro mesi ratificata e mandatone le lettere nella forma debita. Perveniva anche alla notizia del pontefice che le parole di tutta la corte di Cesare erano piene di mala disposizione contro alle cose d'Italia; e seppe anche che i capitani dello esercito suo cercavano di persuadergli che, per assicurarsi totalmente d'Italia, era bene fare restituire Modena al duca di Ferrara, rimettere i Bentivogli in Bologna, pigliare il dominio di Firenze di Siena e di Lucca come di terre appartenenti allo imperio. Però, trovandosi pieno di ansietà e di sospetto ma non avendo dove potersi appoggiare, e sapendo che i franzesi [si] offerivano a dargli Italia in preda, andava per necessità temporeggiando e simulando.

                                                 Trattavasi in questo tempo continuamente l'accordo tra i viniziani e il viceré; il quale, oltre al riobligargli alla difesa in futuro del ducato di Milano, dimandava, per sodisfazione della inosservanza della confederazione passata, grossissima somma di danari. Molte erano le ragioni che inclinavano i viniziani a cedere alla necessità, molte che incontrario gli confortavano a stare sospesi; in modo che i consigli loro erano pieni di varietà e di irresoluzione: pure, alla fine, dopo molte dispute, attoniti come gli altri per tanta vittoria di Cesare e vedendosi restare soli da ogni banda, commessono all'oratore suo Pietro da Pesero, che era appresso al viceré, che riconfermasse la lega nel modo che era stata fatta prima ma pagando a Cesare, per sodisfazione del passato, ottantamila ducati. Ma instando determinatamente il viceré di non rinnovare la confederazione se non ne pagavano centomila, accadde, come interviene spesso nelle cose che si deliberano male volontieri, che in disputare questa piccola somma si interpose tanto tempo che a' viniziani pervenne la notizia che il re d'Inghilterra non era piú contro a' franzesi in quella caldezza di che da principio si era temuto; e già, per avere ricevuto i pagamenti, erano stati licenziati tanti fanti tedeschi dell'esercito imperiale che il senato viniziano, assicurato di non avere per allora a essere molestato, deliberò di stare ancora sospeso, e riservare in sé, piú che poteva, la facoltà di pigliare quelle deliberazioni che per il progresso delle cose universali potessino conoscere essere migliori.

                                                 Queste cagioni, oltre al desiderio che n'avevano avuto continuamente, stimolavano tanto piú l'animo del viceré e degli altri capitani di trasferire la persona del re di Francia in luogo sicuro; giudicando che, per la mala disposizione di tutti gli altri, non si custodisse senza pericolo nel ducato di Milano: però deliberorono di condurlo a Genova e da Genova per mare a Napoli, per guardarlo nel Castelnuovo, nel quale già si preparavano l'abitazioni per lui. La qual cosa era sommamente molestissima al re, perché insino dal principio aveva ardentemente desiderato di essere condotto in Spagna; persuadendosi (non so se per misurare altri dalla natura sua medesima, o pure per gli inganni che facilmente si fanno gli uomini da se stessi in quello che e' desiderano) che, se una volta era condotto al cospetto di Cesare, d'avere, o per la benignità sua o per le condizioni che egli pensava di proporre, a essere facilmente liberato. Desiderava e il medesimo, per amplificare la gloria sua, ardentemente il viceré; ma ritenendosene per timore della armata de' franzesi, andò, di comune consentimento, Memoransí a madama la reggente, e avute da lei sei galee sottili, di quelle che erano nel porto di Marsilia, con promissione che, subito che e' fusse arrivato in Spagna, sarebbono restituite, ritornò con esse a Portofino, dove era già condotta la persona del re: le quali aggiunte a sedici galee di Cesare, con le quali avevano prima deliberato di condurlo a Napoli, e armatele tutte di fanti spagnuoli, preso a' sette dí di giugno il cammino di Spagna, in tempo che non solo i príncipi d'Italia ma tutti gli altri capitani cesarei e Borbone tenevano per certo che il re si conducesse a Napoli, si condussono con prospera navigazione, l'ottavo giorno, a Roses porto della Catalogna, con grandissima letizia di Cesare, ignaro insino a quel dí di questa deliberazione. Il quale, subito che n'ebbe notizia, comandato che per tutto donde passava fusse ricevuto con grandissimi onori, commesse nondimeno, insino a tanto che altro se ne determinasse, che fusse custodito nella rocca di Sciativa appresso a Valenza, rocca usata anticamente da i re di Aragona per custodia degli uomini grandi, e nella quale era stato tenuto ultimamente piú anni il duca di Calavria. Ma parendo questa deliberazione inumana al viceré e molto aliena dalle promesse che in Italia gli aveva fatte, ottenne per lettere da Cesare che insino a nuova deliberazione fusse fermato in una villa vicina a Valenza, dove erano comodità di caccie e di piaceri. Nella quale poi che l'ebbe con sufficiente guardia collocato, lasciato con lui il capitano Alarcone, il quale continuamente aveva avuta la sua custodia, andò insieme con Memoransí a Cesare, a referirgli lo stato di Italia e le cose trattate col re insino a quel dí, confortandolo con molte ragioni a voltare l'animo alla concordia con lui, perché con gli italiani non poteva avere fedele amicizia e congiunzione. Donde Cesare, udito che ebbe il viceré e Memoransí, determinò che il re di Francia fusse condotto in Castiglia nella fortezza di Madril, luogo molto lontano dal mare e da' confini di Francia; dove, onorato con la cerimonia e con le riverenze convenienti a tanto principe, fusse nondimeno tenuto con diligente e stretta guardia, avendo facoltà di uscire qualche volta il dí fuora della fortezza cavalcando in su una mula. Né consentiva Cesare di ammettere il re al cospetto suo se prima la concordia non fusse o stabilita o ridotta in speranza certa di stabilirsi: la quale perché si trattasse per persona onorata e che quasi fusse la medesima che il re, fu espedito in Francia con grandissima celerità Memoransí, per fare venire la duchessa di Alanson sorella vedova del re, con mandato sufficiente a convenire; e perché non avessino a ostare nuove difficoltà si fece, poco poi, tra Cesare e il governo di Francia tregua per tutto dicembre prossimo. Ordinò ancora Cesare che una parte delle galee venute col viceré ritornassino in Italia, per condurre il duca di Borbone in Spagna, senza la presenza del quale affermava non volere fare alcuna convenzione (benché per mancamento di danari si spedivano lentamente); e dimostrandosi molto disposto alla pace universale de' cristiani, e volere in uno tempo medesimo dare forma alle cose d'Italia, sollecitava con molta instanza il pontefice che accelerasse l'andata del cardinale de' Salviati o di altri con sufficiente mandato: al quale anche, essendo già deliberato di pigliare per moglie la infante di Portogallo, cugina sua carnale e cosí congiunta seco in secondo grado, espedí Lopes Urtado a dimandare al pontefice la dispensa; essendosi prima scusato col re di Inghilterra di non potere resistere alla volontà de' popoli suoi. Per il medesimo Lopes, il quale partí alla fine di luglio, mandò i privilegi della investitura del ducato di Milano a Francesco Sforza, con condizione che di presente pagasse centomila ducati e si obligasse a pagarne cinquecentomila altri in vari tempi, e a pigliare i sali dall'arciduca suo fratello: e il medesimo portò commissione che, dai fanti spagnuoli in fuora, i quali alloggiassino nel marchesato di Saluzzo, si licenziassino tutti gli altri; e che secento uomini d'arme ritornassino nel reame di Napoli, gli altri rimanessino nel ducato di Milano; e che del suo esercito fusse capitano generale il marchese di Pescara. Aggiunse Cesare a questa commissione che certi danari, quali aveva mandati a Genova per armare quattro caracche con intenzione di passare subito in Italia personalmente, si convertissino ne' bisogni dello esercito, perché deliberava di non partire per allora di Spagna; e che il protonotario Caracciolo andasse da Milano a Vinegia in nome di Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o almeno perché ciascuno restasse certificato tutte le azioni sue tendere alla pace universale de' cristiani.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.16, cap.8

                                                  

                                                 Diverse ragioni di malcontento, pel trasferimento del re di Francia in Ispagna, dei veneziani del pontefice del Borbone e del marchese di Pescara. Condizione di soggezione a Cesare del duca di Milano; malcontento dei sudditi; occulte proposte del Morone contro Cesare al marchese di Pescara, al pontefice ed ai veneziani. Contegno del marchese di Pescara: sua rivelazione della congiura a Cesare. Promesse della reggente di Francia. Cesare invia la patente di capitanato al marchese di Pescara. Investitura del ducato a Francesco Sforza. Infermità del duca; raccolta di nuove milizie da parte del marchese di Pescara.

                                                  

                                                 Ma l'andata del re di Francia in Spagna aveva dato grandissima molestia al pontefice e a' viniziani. Perché, poi che lo esercito cesareo era assai diminuito, pareva loro che, in qualunque luogo di Italia si fermasse la persona del re, che la necessità di guardarlo bene tenesse molto implicati i cesarei, in modo che o facilmente si potesse presentare qualche occasione di liberarlo o almanco che la difficoltà di condurlo in Spagna e la poca sicurtà di tenerlo in Italia costrignesse Cesare a dare alle cose universali onesta forma. Ma vedutolo andare in Spagna, e che egli medesimo, ingannato da vane speranze, aveva dato agli inimici facoltà di condurlo in sicura prigione, si accorsono che tutto quello che si trattava era assolutamente in mano di Cesare, e che nelle pratiche e offerte de' franzesi non si poteva fare alcuno fondamento; donde, augumentandosi ogni dí la riputazione di Cesare, si cominciò ad aspettare da quella corte le leggi di tutte le cose. Né so se e' fusse minore il dispiacere che ebbono, benché per diverse cagioni, il duca di Borbone e il marchese di Pescara, che il viceré senza saputa loro avesse condotto il re cristianissimo in Spagna: Borbone, perché trovandosi per l'amicizia fatta con l'imperadore scacciato di Francia aveva piú interesse che nissuno altro di intervenire a tutte le pratiche dello accordo, e però si dispose a passare ancora egli in Spagna (benché, essendo necessitato aspettare il ritorno delle galee che erano andate col viceré, tardò a partirsi piú che non arebbe desiderato); e il marchese era sdegnato per la poca estimazione che aveva fatta di lui il viceré, ma ancora male contento di Cesare, dal quale gli pareva che e' non fussino riconosciuti quanto si conveniva i meriti suoi e l'opere egregie fatte da lui in tutte le prossime guerre, e specialmente nella giornata di Pavia, della vittoria della quale aveva il marchese solo conseguito piú gloria che tutti gli altri capitani: e nondimeno era paruto che Cesare, con molte laudi e dimostrazioni, l'avesse riconosciuta assai dal viceré. Il che non potendo tollerare scrisse a Cesare lettere contumeliosissime contro al viceré lamentandosi di essere stato immeritamente tanto disprezzato da lui che non l'avesse giudicato degno di essere almeno conscio di una tale deliberazione; e che se nella guerra e ne' pericoli avesse riferito al consiglio e arbitrio proprio la deliberazione delle cose non solo non sarebbe stato preso il re di Francia ma, subito che fu perduto Milano, lo esercito cesareo, abbandonata la difesa di Lombardia, si sarebbe ritirato a Napoli. Essere il viceré andato a trionfare di una vittoria nella quale era notissimo a tutto l'esercito che esso non aveva parte alcuna, e che essendo nell'ardore della giornata restato senza animo e senza consiglio, molti gli avevano udito dire piú volte: - noi siamo perduti; - il che quando negasse si offeriva parato a provargliene, secondo le leggi militari, con l'arme in mano. Accresceva la mala contentezza del marchese che avendo, subito dopo la vittoria, mandato a pigliare la possessione di Carpi, con intenzione di ottenere quella terra per sé da Cesare, non era ammesso questo suo desiderio; perché Cesare, avendola conceduta due anni innanzi a Prospero Colonna, affermava che benché mai ne avesse avuta la investitura, volere, in beneficio di Vespasiano suo figliuolo, conservare alla memoria di Prospero morto quella remunerazione che aveva fatto alla virtú e opere di lui vivo: la quale ragione ancora che fusse giusta e grata, e al marchese dovessino piacere gli esempli di gratitudine se non per altro perché gli accrescevano la speranza che avessino a essere remunerate tante sue opere, non era nondimanco accettata da lui; il quale, come sentiva molto di se medesimo, giudicava conveniente che questo suo appetito, nato da cupidità e da odio implacabile che e' portava al nome di Prospero, fusse anteposto a ogni altro benché giustissimo rispetto. Però, e con Cesare e con tutto il consiglio erano gravissime le sue querele, e tanto palesi in Italia i suoi lamenti, e con tale detestazione della ingratitudine di Cesare, che dettono animo ad altri di tentare nuovi disegni: donde a Cesare, se e' non pensava a occupare piú oltre in Italia, si presentò giusta cagione anzi quasi necessità di fare altri pensieri; e se pure aveva fini ambiziosi ebbe occasione di coprirgli con la piú onesta occasione e col piú giustificato colore che avesse saputo desiderare. Il che, poiché fu origine di grandissimi movimenti, è necessario che molto particolarmente si dichiari.

                                                 La guerra che, vivente Leone decimo, fu cominciata da lui e da Cesare per cacciare il re di Francia d'Italia fu presa sotto titolo di restituire Francesco Sforza nel ducato di Milano; e benché in esecuzione di questo, ottenuta la vittoria, gli fusse consegnata la ubbidienza dello stato e il castello di Milano e l'altre fortezze, quando si recuperorono, nondimeno, essendo quello ducato tanto magnifico e tanto opportuno, non cessava il timore avuto nel principio da molti che Cesare aspirasse a insignorirsene, interpretando che lo ostacolo potente che aveva del re di Francia fusse cagione che per ancora tenesse occulta questa cupidità, perché arebbe alterato i popoli che ardentemente desideravano Francesco Sforza per signore, e concitatasi contro tutta Italia che non sarebbe stata contenta di tanto suo augumento. Teneva adunque Francesco Sforza quello ducato, ma con grandissima suggezione e pesi quasi incredibili: perché, consistendo tutto il fondamento della difesa sua dai franzesi in Cesare e nel suo esercito, era necessitato non solo a osservarlo come suo principe ma ancora a stare sottoposto alla volontà de' capitani; e gli bisognava sostentare quelle genti che non erano pagate da Cesare, ora col dare loro danari, che si traevano dai sudditi con grandissime angherie e difficoltà, ora col lasciargli vivere a discrizione quando in una quando in un'altra parte, eccetto la città di Milano, dello stato: le quali cose, per sé gravissime, faceva intollerabili la natura degli spagnuoli avara e fraudolente e, quando hanno facoltà di scoprire gli ingegni loro, insolentissima; nondimeno il pericolo che si correva da' franzesi, a' quali i popoli erano inimicissimi, e la speranza che queste cose avessino qualche volta finalmente a terminare facevano tollerare agli uomini sopra le forze ancora, e sopra la loro possibilità. Ma dopo la vittoria di Pavia non potevano i popoli piú tollerare che non continuando le medesime necessità, poiché era prigione il re, continuasse nondimeno il pericolo delle medesime calamità; e perciò dimandavano che di quello ducato si rimovesse o tutto o la maggiore parte dello esercito: il medesimo ardentemente desiderava il duca, non avendo insino allora sentito del dominare altro che il nome, e non manco perché temeva che Cesare, assicurato del re di Francia, o non lo occupasse per sé o non lo concedesse a persone che da lui totalmente dependessino. Alla quale suspizione, procreata dalla natura stessa delle cose, davano non piccolo nutrimento le parole insolenti dette dal viceré, innanzi che conducesse il re di Francia in Spagna, e cosí dagli altri capitani, e le dimostrazioni che e' facevano di disprezzare il duca e di desiderare apertamente che Cesare lo opprimesse; e molto piú che, avendo Cesare dopo molte dilazioni mandati in mano del viceré i privilegi della investitura, egli, offerendola al duca, aveva dimandato che, per ristoro delle spese fatte da Cesare per lo acquisto e per la difesa di quello stato, si pagassino in certi tempi uno milione e dugento migliaia di ducati, peso tanto eccessivo che il duca fu costretto ricorrere a Cesare perché si riducesse a quantità tollerabile. Ma queste difficoltà facevano dubitare che le dimande sí esorbitanti fussino interposte per differire. Allegoronsi poi, da quegli i quali si sforzavano di escusare la necessità di Francesco Sforza, molte altre cagioni di averlo fatto giustamente sospettare, e particolarmente di avere auto notizia che i capitani avevano ordinato di ritenerlo; per il che egli, chiamato dal viceré a certa dieta, aveva ricusato di andarvi fingendosi ammalato, e il medesimo aveva osservato in tutti i luoghi dove essi potessino fargli violenza. Il quale sospetto, o vero o vano che e fusse, fu cagione che egli, vedendo che nello stato di Milano non erano restate molte genti, per essere andata una parte de' fanti spagnuoli prima col viceré e poi con Borbone in Spagna, e perché molti ancora, arricchiti per tante prede, si erano alla sfilata ritirati in vari luoghi, considerando ancora la indegnazione grandissima la quale si dimostrava nel marchese di Pescara, voltato l'animo ad assicurarsi da questo pericolo, entrò in speranza che, con consentimento suo, si potesse disfare quello esercito. Autore di questo consiglio fu Ieronimo Morone, suo gran cancelliere e appresso a lui di somma autorità; il quale, per ingegno eloquenza prontezza invenzione ed esperienza, e per avere fatto molte volte egregia resistenza alla acerbità della fortuna, fu uomo a' tempi nostri memorabile; e sarebbe ancora stato piú se queste doti fussino state accompagnate da animo piú sincero e amatore dello onesto, e da tale maturità di giudizio che i consigli suoi non fussino spesso stati piú presto precipitosi o impudenti che onesti o circospetti. Costui, odorando la mente del marchese, si condusse co' ragionamenti seco tanto innanzi che venneno in parole di tagliare a pezzi quelle genti e di fare il marchese re di Napoli, pure che il pontefice e i viniziani vi concorressino. Al quale consiglio il pontefice, essendo pieno di sospetto e di ansietà, tentato per ordine del Morone, non si mostrò punto alieno; benché da altra parte, non per scoprire la pratica ma per prepararsi qualche rifugio se la cosa non succedesse, avvertí sotto specie di affezione Cesare che tenesse bene contenti i suoi capitani. Mostroronsi i viniziani caldissimi: e si persuadevano anche tutti che v'avesse a essere non manco pronta la madre del re di Francia; la quale già si accorgeva che, arrivato il figliuolo in Spagna, la sua liberazione non procedeva con quella facilità che si erano immaginati.

                                                 Non è dubbio che tali consigli sarebbono facilmente succeduti se il marchese di Pescara fusse, in questa congiurazione contro a Cesare, proceduto sinceramente; il quale se da principio ci prestasse orecchi, con simulazione o no, sono state varie le opinioni insino tra gli spagnuoli, e nella corte medesima di Cesare; e i piú, calcolando i tempi e gli andamenti delle cose, hanno creduto che egli da principio concorresse veramente con gli altri ma che poi, considerando molte difficoltà che potevano sorgere in progresso di tempo, e spaventandolo massime il trattare continuamente i franzesi con Cesare, e dipoi la deliberazione della andata della duchessa di Alanson a Cesare, facesse nuove deliberazioni. Anzi, affermano alcuni avere tardato tanto a dare avviso a Cesare del trattarsi in Italia cose nuove che, avendone già ricevuto avviso da Antonio de Leva e da Marino abate di Nagera commissario nello esercito cesareo, non si stava nella corte senza ammirazione del silenzio del marchese. Ma quel che fusse allora, certo è che, non molto poi, mandato Giovambatista Castaldo suo uomo a Cesare, gli manifestò tutto quello che si trattava, e con consentimento suo continuò la medesima pratica: anzi, per avere notizia de' pensieri di ciascuno e a tutti levare la facoltà di potere mai negare di avervi acconsentito, ne parlò da se medesimo col duca di Milano, e operò che il Morone procurasse tanto che il pontefice, il quale poco innanzi gli aveva dato in governo perpetuo la città di Benevento, e con chi egli intratteneva grandissima amicizia e servitú, mandò Domenico Sauli con uno breve di credenza a parlargli del medesimo. Le conclusioni che si trattavano erano: che tra il papa il governo di Francia e gli altri di Italia si facesse una lega della quale fusse capitano generale il marchese di Pescara, e che egli, avendo prima alloggiata la fanteria spagnuola separatamente in diversi luoghi del ducato di Milano, ne tirasse seco quella parte che lo volesse seguitare; gli altri con Antonio de Leva, che dopo lui era restato il primo dello esercito, fussino svaligiati e ammazzati; e che con le forze di tutti i confederati si facesse per lui la impresa del regno di Napoli, del quale il papa gli concedesse la investitura. Alle quali cose il marchese dimostrava di non interporre altra difficoltà che il volere, innanzi a tutto, essere bene certificato se, senza maculare l'onore e la fede sua, potesse pigliare questa impresa in caso gli fusse comandato dal pontefice; sopra che veniva in considerazione, a chi, egli che era uomo e barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a obbedire, o a Cesare, che per la investitura Alle quali cose il marchese dimostrava di non interporre altra difficoltà che il volere, innanzi a tutto, essere bene certificato se, senza maculare l'onore e la fede sua, potesse pigliare questa impresa in caso gli fusse comandato dal pontefice; sopra che veniva in considerazione, a chi, egli che era uomo e barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a obbedire, o a Cesare, che per la investitura avuta dalla Chiesa aveva il dominio utile di quel regno, o al pontefice, che per esserne supremo signore aveva il dominio diretto. Sopra il quale articolo, e a Milano per ordine di Francesco Sforza, e a Roma per ordine di Clemente, ne furono, segretissimamente e con soppressione de' nomi veri, fatti consigli da eccellenti dottori. Accrescevansi queste speranze contro a Cesare per le offerte di madama la reggente; la quale, giudicando che la necessità o almanco il timore di Cesare fusse utile a quel che per la liberazione del figliuolo si trattava con lui, sollecitava il pigliare l'armi, promettendo di mandare cinquecento lance in Lombardia e concorrere alle spese della guerra con somma grande di danari: né cessava il Morone di confermare gli animi degli altri in questa sentenza; perché, oltre al dimostrare la facilità che si aveva, senza l'aiuto ancora del marchese di Pescara, di disfare quello esercito che era diminuito assai di numero, prometteva in nome del duca, se il marchese non stesse fermo nelle cose trattate, subito che gli altri disegni fussino in ordine, fare prigione nel castello di Milano lui e gli altri capitani che vi andavano quotidianamente a consultare. Le quali occasioni, se bene paressino grandi, non sarebbono però state bastanti a fare che il pontefice pigliasse l'armi senza il marchese di Pescara, se nel medesimo tempo, intesa la provisione mandata a Genova per armare le quattro caracche, non avesse anche avuto indizio di Spagna della inclinazione di Cesare di passare in Italia; la quale cosa affliggendolo maravigliosamente, e per le condizioni del tempo presente e per la disposizione inveterata de' pontefici romani, a' quali niuna cosa soleva essere piú spaventosa che la venuta degli imperadori romani armati in Italia, desiderando di ovviare a questo pericolo spacciò, con consenso de' viniziani, segretamente in Francia, per conchiudere le cose trattate con madama la reggente, Sigismondo segretario di Alberto da Carpi, uomo destro e molto confidato al pontefice. Il quale, correndo la posta fu di notte da certi uomini di male affare ammazzato, per cupidità di rubare, appresso al lago di Iseo nel territorio bresciano: il che, essendo stato occultissimo molti dí, non fu piccola la dubitazione del pontefice che e' non fusse stato preso secretamente in qualche luogo per ordinazione de' capitani imperiali, e forse del marchese medesimo; il procedere del quale, per le dilazioni che interponeva, cominciava non mediocremente a essere sospetto.

                                                 In questo stato delle cose sopravenne la espedizione data da Cesare a Lopes Urtado; il quale, essendo ammalato in Savoia, la mandò subito per messo proprio a Milano, con la patente del capitanato nella persona del marchese di Pescara (il quale, per continuare nella simulazione medesima con gli altri, dimostrò non essergli molto grata, ancora che subito accettasse il capitanato), e commissione ancora al protonotario Caracciolo che andasse a Vinegia in nome di Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o almanco perché ciascuno restasse giustificato del desiderio che aveva Cesare di stare in pace con tutti. Accettò Francesco Sforza, al quale era già cominciata infermità di non piccolo momento, la investitura del ducato, e ne pagò cinquantamila ducati; ma non perciò pretermesse di continuare le pratiche medesime col marchese. Varie sono state le opinioni se questa espedizione di Cesare fusse sincera o artificiosa; perché molti credettono che avesse volto veramente l'animo ad assicurare quegli di Italia, altri dubitorono che egli, per paura di nuovi movimenti, volesse tenere gli uomini sospesi con varie speranze e andare guadagnando tempo, col concedere la investitura e col dare in apparenza la commissione del levare lo esercito, tanto grata a tutta Italia; ma che da parte avesse dato a' suoi capitani ordinazione che non lo rimovessino. Né mancò dipoi chi credesse che egli avesse già notizia dal marchese delle pratiche tenute col Morone, e però commettesse cosí non per essere ubbidito ma per acquistare qualche giustificazione, e posare con queste speranze gli animi degli uomini insino a tanto gli paresse il tempo opportuno a eseguire i suoi disegni. Nella quale dubietà essendo molto difficile il pervenirne alla vera notizia, massime non sapendo se al tempo che Giovambatista Castaldo, mandato dal marchese a significare il trattato, arrivò alla corte, fusse ancora stato espedito Lopes Urtado, e considerato quali in molte cose siano poi stati i progressi di Cesare, è senza dubbio manco fallace il tenere per vera la migliore e piú benigna interpretazione.

                                                 Non cessava intratanto il marchese di intrattenere con le speranze medesime il Morone e gli altri, e nondimeno differire con varie scuse la esecuzione: alla qual cosa gli dette occasione l'essere talmente aggravata la infermità del duca di Milano che si fece per tutti giudizio quasi certo della sua morte. Perché pretendendo tutti i capitani che, in caso tale, quello stato ricadesse a Cesare, supremo signore del feudo, non solo gli fu lecito non rimuovere l'esercito ma ebbe necessità di chiamarvi di nuovo dumila fanti tedeschi, e ordinare che ne stesse preparato maggiore numero: donde, essendo nel ducato di Milano i soldati tanto potenti, restava privato della facoltà di dissolvergli di offendergli; dando speranza di eseguire i consigli della congiurazione come prima ne ritornasse la facoltà. La quale mentre che si aspetta, publicando di volere procedere con rispetto grandissimo col pontefice, levò dello stato della Chiesa le guarnigioni delle quali egli si querelava gravemente.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.9

                                                  

                                                 Infermità del re di Francia; visita e promessa di Cesare. Difficoltà di trattative fra Cesare e madama d'Alanson. Trattative fra il pontefice e Cesare.

                                                  

                                                 Ma nel tempo medesimo, per nuovo accidente succeduto in Spagna, si variorono quasi tutte le cose. Perché il re di Francia, pieno di gravissimi dispiaceri, poiché invano aveva desiderata la presenza di Cesare, si ridusse, per infermità sopravenutagli nella rocca di Madril, in tale estremità della vita che i medici deputati alla sua curazione feciono intendere a Cesare diffidarsi totalmente della salute, se già non veniva egli in persona a confortarlo e dargli speranza della liberazione. Dove preparandosi di andare, il gran cancelliere suo lo dissuase, dicendo che lo onore suo ricercava di non vi andare se non con disposizione di liberarlo subito e senza alcuna convenzione, altrimenti essere una umanità non regia ma mercenaria, e uno desiderio di farlo guarire non per carità della salute sua ma mosso solamente da interesse proprio, per non perdere per la sua morte la occasione de' guadagni sperati dalla vittoria; consiglio certamente memorabile e degno di essere accettato da tanto principe: nondimeno, consigliato diversamente da altri, andò in poste a visitarlo. La visitazione fu breve, perché il cristianissimo era già quasi allo estremo, ma piena di parole grate, e di speranza certissima, come e' fusse sanato, di liberarlo; e, quel che ne fusse cagione, o questo conforto o che la gioventú fusse per se stessa superiore alla natura della infermità, cominciò dopo questa visitazione ad alleggierirsi in modo che in pochi dí restò liberato dal pericolo, ancora che non ritornasse se non con tardità alla prima valitudine.

                                                 Ma né le difficoltà che apparivano dell'animo di Cesare né le speranze date dagli italiani avevano impedita la andata di madama di Alanson in Spagna; perché niuna cosa era piú difficile a' franzesi che abbandonare le pratiche della concordia con quegli che potevano restituirgli il suo re, niuna piú facile a Cesare che, col dare speranza a' franzesi, divertirgli dai pensieri del pigliare l'armi e con questa arte tenere sospesi gli italiani in modo che non ardissino di fare nuove deliberazioni; e cosí, ora allentando ora strignendo, tenere confusi e implicati gli animi di tutti. Fu madama di Alanson ricevuta da Cesare con grate dimostrazioni e speranze, ma gli effetti riuscirono duri e difficili. Perché gli parlò, il quarto dí di ottobre, ricercandolo del matrimonio della sorella vedova col re; alla quale dimanda rispose Cesare non potere farlo senza consentimento del duca di Borbone. L'altre particolarità si trattavano da' deputati dell'una parte e dell'altra, facendo Cesare ostinatamente instanza che, come proprio, gli fusse restituito il ducato di Borgogna, i franzesi non consentendo se non o di accettarla per dote o che giuridicamente si vedesse a quale de' due príncipi apparteneva. Nelle altre condizioni si sarebbono facilmente concordati; ma restando tanta discrepanza nelle cose della Borgogna, madama di Alanson alla fine se ne ritornò in Francia, senza avere riportato altro che facoltà di vedere il fratello. Il quale, alla partita di lei, diffidando già ogni dí piú della sua liberazione, si dice avergli commesso che per sua parte ricordasse alla madre e agli uomini del consiglio che pensassino bene al beneficio della corona di Francia, non avendo considerazione alcuna della persona sua come se piú non vivesse. Né si troncorono perciò per la partita sua al tutto le pratiche, perché vi rimasono il presidente di Parigi i vescovi di Ambrone e di Tarba, i quali insino ad allora l'avevano trattate, ma con leggiera speranza, non si inclinando Cesare a condizione alcuna senza la restituzione della Borgogna, né consentendo il re di concederla se non per ultima necessità.

                                                 Arrivò adunque il cardinale alla corte, dove, ricevuto da Cesare con grandissimo onore, trattava le sue commissioni, le quali principalmente contenevano la ratificazione degli articoli promessi dal viceré; confortando anche che al duca di Milano fusse conceduta la investitura per la sicurtà comune. Ma il viceré medesimo dissuadeva la restituzione di Reggio e di Rubiera; per i conforti e sotto la speranza del quale, il duca di Ferrara, desideroso di trattare per se medesimo appresso a Cesare la causa sua, ottenuta dal pontefice promessa che per sei mesi non sarebbe molestato da lui lo stato suo, si condusse insino a' confini del regno di Francia, con determinazione di passare piú innanzi; ma negandogli madama il salvocondotto, se ne ritornò finalmente a Ferrara. Trattavasi ancora tra il pontefice e Cesare la causa della dispensazione, per potere fare matrimonio con la sorella del re di Portogallo; il quale Cesare, non ostante che al re di Inghilterra avesse già promesso con giuramento di non ricevere per moglie altri che la figliuola, era determinato di contrarre. Alla quale dispensazione concedere il pontefice procedeva lentamente, essendogli persuaso da molti che il desiderio di ottenere questa grazia renderebbe Cesare piú facile a' desideri suoi nelle cose che si trattavano; o almeno essere cosa imprudente, in caso s'avesse a fare guerra seco, dargli facoltà di accumulare tanti danari quanti accumulerebbe per mezzo di questo matrimonio: perché il re di Portogallo gli offeriva in dote novecentomila ducati, de' quali, detratta quella parte che s'aveva d'accordo a compensare in debiti contratti con lui, si pensava gliene perverebbono in mano almanco cinquecentomila ducati; e oltre a quattrocentomila ducati consentivano di dargli i popoli di Castiglia, per quello che essi chiamavano servizio, quale, cominciato anticamente dalla volontà propria de' popoli per soccorrere alle necessità de' suoi re, era ridotto in ordinaria prestazione, offerivano di donargli quattrocentomila altri ducati in caso desse perfezione a questo matrimonio. Da altra parte il pontefice non sapeva resistere alla importunità del duca di Sessa oratore cesareo, perché in lui era quasi sempre repugnanza grande dalla disposizione alla esecuzione; conciossiaché, alienissimo per sua natura dal concedere qualunque grazia dimandatagli, non sapeva anche difficultarle, o negarle costantemente; ma lasciando spesso vincere la volontà sua dalla importunità di quegli che dimandavano, e in modo che e' pareva che il piú delle volte concedesse piú per paura che per grazia, non procedeva in questo con quella costanza né con quella maestà che ricercava la grandezza della sua degnità né la importanza delle faccende che si trattavano. Cosí accadde nella dispensa dimandata; che combattendo in lui da uno canto la utilità propria dall'altro la sua mollizie, scaricò, come spesso era usato di fare, addosso ad altri quello che a lui non bastava non so se la fronte o l'animo di sostenere. Spedí per uno breve la dispensa nella forma dimandata da Cesare, e la mandò al cardinale de' Salviati, con commissione che, se le cose sue si risolvevano con Cesare secondo la speranza che aveva data di volere fare, subito che il cardinale arrivasse alla corte, gli desse il breve, altrimenti lo ritenesse: commissione nella quale il ministro, come in suo luogo si dirà, non fu né piú nervoso né piú costante che fusse stato il padrone.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.10

                                                  

                                                 Il Morone fatto prigione dal marchese di Pescara. Il Pescara, occupato il ducato, costringe i milanesi a giurare fedeltà a Cesare, e cinge con trincee il castello di Milano ove trovasi il duca; timori d'Italia tutta per la potenza di Cesare; come fu giudicato l'operato del marchese di Pescara. Risposta dei veneziani all'inviato di Cesare.

                                                  

                                                 Ma mentre che il cardinale trattava le commissioni del pontefice con Cesare, essendogli data continuamente speranza di desiderata espedizione, succederono in Lombardia effetti molto diversi. Perché essendo il duca di Milano alleggierito in modo della infermità che si teneva per certo che almanco fusse liberato dal pericolo di presta morte, deliberò il marchese di Pescara (il quale per il Castaldo medesimo aveva avuto commissione da Cesare di provedere a questi pericoli, secondo che gli paresse piú opportuno) di impadronirsi del ducato di Milano, sotto colore che il duca, per le pratiche tenute per il mezzo del Morone, era caduto dalle ragioni della investitura, e che il feudo era ricaduto a Cesare supremo signore. Però, essendo il marchese a Novara, benché oppresso da non piccola infermità, e avendo una parte dello esercito in Pavia, i tedeschi alloggiati appresso a Lodi (le quali due città aveva fatte fortificare), chiamò inaspettatamente a Novara il resto delle genti che alloggiavano nel Piemonte e nel marchesato di Saluzzo, il quale quasi subito dopo la vittoria avevano occupato; e sotto specie di volere compartire gli alloggiamenti per tutto lo stato di Milano, chiamò a Novara il Morone, nella persona del quale si può dire che consistesse la importanza d'ogni cosa; perché era certo che, come egli fusse fatto prigione, il duca di Milano, spogliato d'uomini e di consiglio, non farebbe resistenza alcuna; dove, se fusse libero, poteva dubitare che, con lo ingegno con l'esperienza con la riputazione, difficultasse molto i suoi disegni. Era ancora necessario che Cesare avesse in potestà sua la persona del Morone, stato autore e instrumento di tutte le pratiche, per potere col suo processo giustificare le imputazioni che si davano al duca di Milano. Non è cosa alcuna piú difficile a schifare che il fato, nessuno rimedio è contro a' mali determinati. Poteva già conoscere il Morone che la pratica tenuta col marchese di Pescara era vana; sapeva di essere in grandissimo odio appresso a tutti i soldati spagnuoli, tra i quali già molte cose della sua infedeltà si dicevano; e che Antonio de Leva publicamente minacciava di farlo ammazzare; non è credibile non considerasse la importanza della sua persona, che non vedesse in che grado si trovava il duca di Milano, inutile allora e quasi come morto; tra loro, già molti dí innanzi, era ogni cosa sospesa e piena di sospizione: ognuno lo confortava a non andare, egli medesimo ne stette ambiguo. Nondimeno, o avendo ancora occupato l'animo dalle simulazioni e dalle arti del marchese o facendo fondamento nella amicizia grande che gli pareva avere contratta con lui, o confidandosi della fede la quale disse poi avere avuta per una sua lettera, o per dire meglio tirato da quella necessità, che trascina gli uomini che non vogliono lasciarsi menare, si risolvé di andare quasi a una carcere manifesta: cosa a me tanto piú maravigliosa quanto mi restava in memoria avermi il Morone detto piú volte nello esercito, al tempo di Leone, non essere uomo in Italia né di maggiore malignità né di minore fede del marchese di Pescara. Fu ricevuto da lui benignamente; e soli, in camera, parlorono delle prime pratiche e di ammazzare gli spagnuoli e Antonio de Leva, ma in luogo che Antonio, che dal marchese era stato occultato dietro a uno panno d'arazzo, udiva tutti i ragionamenti; dal quale, partito che fu dal marchese, che fu il quartodecimo dí di ottobre, fu fatto prigione e mandato nel castello di Pavia. Nel quale luogo andò il marchese proprio a esaminarlo sopra quelle cose che insieme avevano trattate; messe in processo tutto l'ordine della congiurazione, accusando il duca di Milano come conscio di ogni cosa; che era quello che principalmente si cercava.

                                                 Incarcerato il Morone, il marchese, in mano del quale erano prima Lodi e Pavia, ricercò il duca che per sicurtà dello stato dello imperadore gli facesse consegnare Cremona e le fortezze di Trezzo, Lecco e Pizzichitone, che per essere in su il passo di Adda sono tenute le chiavi del ducato di Milano; promettendo, avute queste, di non innovare piú altro: le quali il duca, trovandosi ignudo di ogni cosa, abbandonato di consiglio e di speranza, gli fece subito consegnare. Avute queste, ricercò piú oltre di essere ammesso in Milano (diceva) per parlare seco; che gli fu consentito con la medesima facilità: ed entrato che fu in Milano, gli mandò a fare instanza che gli facesse consegnare il castello di Cremona; e che non ricercava il medesimo di quello di Milano per non essere dimanda conveniente, poi che vi era dentro la sua persona, ma che dimandava bene che, per sicurtà dello esercito di Cesare, il duca consentisse che il castello fusse serrato con le trincee. Dimandò ancora che gli desse in mano Gian Angelo Riccio suo segretario e Poliziano segretario del Morone, acciò che si potessino esaminare sopra le imputazioni che erano date a lui di avere macchinato contro a Cesare. Alle quali dimande rispose il duca che teneva le castella di Milano e di Cremona in nome e a instanza di Cesare, al quale era stato sempre fedelissimo vassallo, e che non le voleva consegnare ad alcuno se prima non intendeva la sua volontà; la quale per intendere chiaramente gli manderebbe subito uno uomo proprio, pure che il marchese gli concedesse sicurtà di passare; e che non gli pareva onesto consentire di essere, in questo mezzo, serrato in castello; dalla quale violenza si difenderebbe in qualunque modo potesse. Avere bisogno per sé di Gian Angelo, per essere egli instrutto di tutte le cose sue importanti, né essere per allora appresso a sé altro ministro; e avere anche maggiore necessità di quello del Morone per poterlo presentare innanzi a Cesare, e giustificare con questo mezzo che, nella infermità sua, il padrone aveva fatto in suo nome, senza saputa sua, molte espedizioni che gli potrebbono essere di carico, se con questo mezzo non giustificasse la innocenza sua; e che le pratiche del Morone erano diverse e separate dalle pratiche sue. Lo effetto fu che, dopo molte repliche e protesti fatti da l'uno a l'altro per scrittura, il marchese costrinse il popolo di Milano a giurare fedeltà allo imperadore contro alla volontà sua, e con incredibile dispiacere di tutti messe per tutto lo stato officiali in nome di Cesare, e cominciò con le trincee a serrare il castello di Cremona e quello di Milano; nel quale il duca, con grandissimi conforti e speranze di soccorso dategli dal pontefice e da' viniziani, era risoluto di fermarsi, avendovi seco ottocento fanti eletti, e messevi quelle vettovaglie che comportò la brevità del tempo. Né mancò di impedire, quanto potette, con l'artiglierie che e' non si lavorasse alle trincee; le quali si lavoravano dalla parte di fuora, col fosso piú lontano dal castello che non aveva fatto Prospero Colonna. Spaventò, e ragionevolmente, l'occupazione del ducato di Milano Italia tutta; la quale conosceva andarne in manifesta servitú ogni volta che Cesare fusse padrone di Milano e di Napoli; e sopra tutti afflisse il pontefice, vedendo scoperte quelle pratiche con le quali aveva trattato non solo di assicurare Milano ma ancora di distruggere l'esercito di Cesare e torgli il regno di Napoli. Al marchese di Pescara conciliò forse grazia appresso a Cesare, ma nel cospetto di tutti gli altri eterna infamia; non solo perché restò nella opinione della maggiore parte che da principio avesse avuto intenzione di mancare a Cesare, ma ancora perché, quando gli fusse stato sempre fedele, parve cosa di grande infamia che avesse dato animo agli uomini, e allettatigli con tanta arte e con tante fraudi a fare pratiche seco, per avere occasione di manifestargli, e farsi grande de' peccati d'altri procurati con le lusinghe e con l'arti sue.

                                                 Difficultò questa innovazione la speranza della concordia la quale si trattava per il protonotario Caracciolo col senato viniziano, ridotta già in termini che pareva propinqua alla conclusione, di rinnovare la prima confederazione con le medesime condizioni e di pagare a Cesare, per ricompensazione della omissione del passato, ottantamila ducati; escluse in tutto le dimande di contribuire in futuro con danari, e di restituire i fuorusciti di Padova e dell'altre terre che avevano seguitato Massimiliano. Ma il caso sopravenuto di Milano empié quello senato di grandissima perplessità, essendo da una parte molestissimo restare soli in Italia contro a Cesare, con pericolo che, come minacciava il marchese di Pescara di volere fare, la guerra non si trasferisse nel loro dominio (e già ne appariva qualche preparazione), da altra, non manco, di accrescere col loro accordo la facilità a Cesare di insignorirsi totalmente di quel ducato; il quale, aggiuntogli a tanti stati e a tante altre opportunità, era la scala di soggiogare loro con tutto il resto d'Italia. Né cessava di confortargli al medesimo efficacemente il vescovo di Baiosa, mandato da madama la reggente per trattare la unione sua con gli italiani contro a Cesare; nel quale frangente le consulte loro erano spesse ma dubbie, e piene di varie opinioni; e se bene lo accettare l'accordo fusse piú conforme alla consuetudine loro, perché rimoveva i pericoli presenti, donde potevano sperare nella lunghezza del tempo e nelle occasioni che possono aspettare le republiche, le quali a comparazione de' príncipi sono immortali, pure pareva anche loro troppo importante che Cesare si confermasse nello stato di Milano, e che i franzesi restassino esclusi di ogni speranza di avere alcuna congiunzione in Italia. Però, determinati finalmente di non si obligare a cosa alcuna, risposono al protonotario Caracciolo che i progressi loro passati facevano fede a tutto il mondo (ed egli ancora, che si era trovato a conchiudere la confederazione, ne era buono testimonio) quanto avessino sempre desiderato la amicizia di Cesare, col quale si erano collegati in tempo che lo accostarsi loro a' franzesi sarebbe stato, come sapeva ciascuno, di grandissimo momento; e che sempre avevano perseverato e ora piú che mai perseveravano nella medesima disposizione; ma che di necessità gli teneva sospesi il vedere che in Lombardia si fusse fatta innovazione di tanta importanza, e massime ricordandosi che e la confederazione loro con Cesare e tanti altri movimenti, che si erano fatti a questi anni in Italia, non avevano avuto altro fine che il volere che il ducato di Milano fusse di Francesco Sforza, come fondamento necessario alla libertà d'Italia e alla sicurtà universale: e però pregare Sua Maestà che, imitando in questo caso se medesima e la sua bontà, volesse rimuovere questa innovazione e stabilire la quiete d'Italia come era in potestà sua di fare, perché gli troverebbe sempre dispostissimi, e con l'autorità e con le forze, a seguitare questa santa inclinazione; né gli darebbono mai causa che da loro avesse a desiderare uffizio alcuno cosí al proposito del bene universale come degli interessi suoi particolari. La quale risposta essendo senza speranza alcuna di conclusione non partorí però rottura di guerra, perché e lo aggravare tutto dí la infermità del marchese di Pescara e il desiderio di insignorirsi prima di tutto lo stato di Milano e di stabilire bene quello acquisto, e il volere prima Cesare risolvere tante altre cose che aveva in mano, non lasciava dare principio a impresa di tanto momento.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.11

                                                  

                                                 Il Borbone in Ispagna; disprezzo dei nobili spagnuoli per lui; morte del marchese di Pescara; giudizio dell'autore. Incertezza del pontefice sull'opportunità della confederazione contro Cesare.

                                                  

                                                 Era in questo tempo arrivato Borbone (il quale arrivò il quintodecimo dí di novembre) alla corte di Cesare. Circa il quale non merita di essere preterito con silenzio che, benché da Cesare fusse ricevuto con tutte le dimostrazioni e onori possibili e carezzato come cognato, nondimeno, che tutti i signori della corte, soliti come sempre accade a seguitare nell'altre cose l'esempio del suo principe, l'aborrivano come persona infame, nominandolo traditore al proprio re; anzi uno di loro, ricercato in nome di Cesare che consentisse che il suo palazzo gli fusse conceduto per alloggiamento, rispose, con grandezza di animo castigliana: non potere dinegare a Cesare quanto voleva, ma che sapesse che, come Borbone se ne fusse partito, l'abbrucierebbe, come palazzo infetto dalla infamia di Borbone e indegno di essere abitato da uomini d'onore. Ma gli onori fatti da Cesare al duca di Borbone accrescevano la diffidenza de' franzesi; i quali, per questo, e piú per il ritorno senza effetto di madama di Alanson, sperando poco nello accordo, ancora che continuamente per uomini propri che avevano appresso a Cesare si praticasse, instavano quanto potevano di fare la lega col pontefice: a che intervenivano i conforti e l'autorità del re d'Inghilterra, le spesse ed efficaci instanze de' viniziani. E si aggiunse una opportunità senza dubbio grande, che in questi dí, che fu al principio di dicembre, morí il marchese di Pescara; forse per giusto giudizio di Dio, che non comportò che egli godesse il frutto di quel seme che aveva seminato con tanta malignità.

                                                 Era costui di casa di Avalos, di origine catelano; i maggiori suoi erano venuti in Italia col re don Alfonso di Aragona, che primo di quella casa acquistò il reame di Napoli; e cominciando dalla giornata di Ravenna, nella quale ancora giovanetto fu fatto prigione, era intervenuto in tutte le guerre che avevano fatte gli spagnuoli in Italia; in modo che, giovane di età, che non passava trentasei anni, era già vecchio di esperienza. Ingegnoso, animoso, molto sollecito e molto astuto, e in grandissimo credito e benivolenza appresso alla fanteria spagnuola, della quale era stato lungamente capitano generale; in modo che e la vittoria di Pavia e, già qualche anno, tutte le onorevoli fazioni fatte da quello esercito erano principalmente succedute per il consiglio e per la virtú sua. Capitano certamente di valore grande, ma che con artifici e simulazioni sapeva assai favorire e augumentare le cose sue. Il medesimo, altiero insidioso maligno, senza alcuna sincerità, e degno, come spesso diceva desiderare, di avere avuto per patria piú presto Spagna che Italia.

                                                 Confuse adunque assai la morte sua quello esercito, appresso al quale egli era in tanta grazia e riputazione, e agli altri dette speranza di poterlo molto piú facilmente opprimere poiché gli era mancato uno capitano di tale autorità e valore. Però appresso al pontefice erano tanto piú calde e importune le instanze di coloro che desideravano che la lega si facesse; ma non erano minori le sue sospensioni e debitamente, perché da ogni parte combattevano ragioni efficacissime, e da tenere confuso ogn'uomo bene caldo e deliberato non che Clemente, che nelle cose sue procedé sempre tardo e sospeso. Non si aspettava piú da Cesare deliberazione alcuna che assicurasse Italia: vedevasi attentissimo a pigliare il castello di Milano, quale preso, tutti gli altri e il papa massime, che aveva lo stato debole e posto in mezzo della Lombardia e del regno di Napoli, gli restavano manifestamente in preda; e presupposto che in facoltà sua fusse di opprimerlo, era molto dubitabile che e' non l'avesse a fare, o per ambizione (che è quasi naturale agli imperadori contro a' pontefici) o per assicurarsi o per vendicarsi; trovandosi, come era credibile, pieno di sdegno e di diffidenza per le pratiche tenute col marchese di Pescara: e se la necessità di provedere a questo pericolo era grande non parevano anche leggieri i fondamenti e le speranze di poterlo fare, perché o il rimedio aveva a succedere per mezzo di una lega e congiunzione sí potente o si aveva a disperarsene in eterno. Prometteva il governo di Francia cinquecento lance, e ogni mese, mentre durava la guerra, quarantamila ducati; co' quali si ragionava soldare diecimila svizzeri. Disegnavasi che il papa e i viniziani mettessino insieme mille ottocento uomini d'arme ventimila fanti e dumila cavalli leggieri, uscissino i franzesi e i viniziani in mare con una grossa armata per assaltare o Genova o il reame di Napoli. Prometteva madama la reggente di rompere subito con potente esercito la guerra alle frontiere di Spagna, acciò che Cesare fusse impedito a mandare gente e danari per la guerra d'Italia. Lo esercito restato in Lombardia non era grosso, non aveva capitani della autorità soleva, essendo morto il marchese, e il Borbone e il viceré di Napoli in Spagna; non vi era modo di danari non abbondanza di vettovaglie; i popoli inimicissimi per il desiderio del suo duca e per le intollerabili esazioni che si facevano dai soldati e nella città di Milano e in tutto lo stato, il castello di Milano e di Cremona in mano del duca; e i viniziani davano speranza che anche il duca di Ferrara entrerebbe in questa confederazione, pure che Clemente si contentasse di concedergli Reggio, quale a ogni modo possedeva. Da altro canto faceva difficoltà la astuzia, la virtú degli inimici, lo essere soliti a stare lungamente, quando era necessario, con pochi danari e a tollerare molti disagi e incomodità, le terre fortificate in che erano e la facilità, per essere terre in piano, da potere anche meglio ripararle e fortificarle, nelle quali potersi intrattenere tanto che gli venisse soccorso di Germania, di qualità da ridurre tutta la guerra alla fortuna d'una giornata; le genti della lega non potere essere altro che genti nuove e di poco valore a comparazione di quello esercito veterano e nutrito in tante vittorie. Aversi difficoltà di capitano generale, non avendo il marchese di Mantova, che allora era capitano della Chiesa, spalle da sostenere tanto peso; né potendo sicuramente commettersi alla fede del duca di Ferrara né di quello di Urbino, che avevano ricevuto tante offese, né potevano essere contenti della grandezza del pontefice. Tagliare male di sua natura l'arme della Chiesa, tagliare medesimamente male l'arme de' viniziani; e se ciascuna male, separata e dispersa, quanto peggio accompagnate e congiunte insieme? E negli eserciti delle leghe non concorrere mai le provisioni in uno tempo medesimo; e tra tante volontà, dove sono vari interessi e vari fini, nascere facilmente disordini sdegni dispareri e diffidenze; e, almanco, non vi essere mai né prontezza a seguitare gagliardamente, quando si mostra benigno, il favore della fortuna, né disposizione da resistere costantemente quando si volge il disfavore. Ma quello che sopratutto causava, in questa deliberazione, difficoltà grandissima e timore era il sospetto che i franzesi, ogni volta che Cesare vedendosi strignere offerisse di liberare il loro re, non solo abbandonassino la lega ma ancora lo aiutassino contro a' collegati. E se bene il re d'Inghilterra obligava per loro la fede sua, che e' non si accorderebbono, e si trattava che e' dessino, in Roma in Firenze o in Vinegia, sicurtà di pagamenti per tre mesi, nondimeno non si trovava mezzo alcuno da assicurare da questa sospizione: perché non avendo essi altro fine che la ricuperazione del re, ed essendo notorio che e' non avevano inclinazione alla guerra se non quando non avevano speranza dell'accordo, pareva verisimile che ogni volta che Cesare volesse consentirlo loro preporrebbono la concordia seco a ogn'altro interesse e rispetto, anzi si conosceva che quanto fussino maggiori gli apparati e le forze della lega tanto piú inclinerebbe Cesare ad accordare col re di Francia. E però pareva pericolosissimo partito collegarsi a una guerra nella quale le provisioni potenti de' confederati potessino cosí nuocere come giovare. Combattevano il pontefice da ogni parte con queste ragioni gl'imbasciadori e agenti de' príncipi ma non manco i ministri suoi medesimi, perché la casa e il consiglio suo era diviso; de' quali ciascuno favoriva la propria inclinazione con tanto minore rispetto quanto era maggiore l'autorità che s'avevano arrogata con lui, ed egli insino a quel tempo assuefattosi a lasciarsi in grande parte portare da coloro che arebbono avuto a obbedire a' cenni suoi, né essere altro che ministri ed esecutori delle volontà e ordini del padrone. Per intelligenza di che, e di molte altre cose che occorsono, è necessario dichiarare piú da alto.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.12

                                                  

                                                 Diversità dei caratteri di Leone decimo e di Giulio de' Medici; stima generale delle doti di Giulio e grande attesa per la sua elezione a pontefice; sua incertezza nel deliberare e nell'eseguire. Suoi consiglieri e loro modo d'agire. Il pontefice già deciso alla confederazione contro Cesare sospende gli accordi per la notizia dell'arrivo d'un ambasciatore cesareo.

                                                  

                                                 Lione, che portò primo grandezza ecclesiastica nella casa de' Medici, e con l'autorità del cardinalato sostenne tanto sé e quella famiglia, caduta di luogo eccelso in somma declinazione, che e' potetteno aspettare il ritorno della prospera fortuna, fu uomo di somma liberalità; se però si conviene questo nome a quello spendere eccessivo che passa ogni misura. In costui, assunto al pontificato, apparí tanta magnificenza e splendore e animo veramente regale che e' sarebbe stato maraviglioso eziandio in uno che fusse per lunga successione disceso di re o di imperadori: né solo profusissimo di danari ma di tutte le grazie che sono in potestà di uno pontefice; le quali concedeva sí smisuratamente che faceva vile l'autorità spirituale, disordinava lo stile della corte, e per lo spendere troppo si metteva in necessità di avere sempre a cercare danari per vie estraordinarie. A questa tanta facilità era aggiunta una profondissima simulazione, con la quale aggirava ognuno nel principio del suo pontificato, e lo fece parere principe ottimo; non dico di bontà apostolica, perché ne' nostri corrotti costumi è laudata la bontà del pontefice quando non trapassa la malignità degli altri uomini; ma era riputato clemente, cupido di beneficare ognuno e alienissimo da tutte le cose che potessino offendere alcuno. Il medesimo fu deditissimo alla musica alle facezie e a' buffoni; ne' quali sollazzi teneva il piú del tempo immerso l'animo, che altrimenti sarebbe stato volto a fini e faccende grandi, delle quali aveva lo intelletto capacissimo. Credettesi per molti, nel primo tempo del pontificato, che e' fusse castissimo; ma si scoperse poi dedito eccessivamente, e ogni dí piú senza vergogna, in quegli piaceri che con onestà non si possono nominare. Ebbe costui, tra le altre sue felicità, che furono grandissime, non piccola ventura di avere appresso di sé Giulio de' Medici suo cugino; quale, di cavaliere di Rodi, benché non fusse di natali legittimi, esaltò al cardinalato. Perché essendo Giulio di natura grave, diligente, assiduo alle faccende, alieno da' piaceri, ordinato e assegnato in ogni cosa, e avendo in mano per volontà di Lione tutti i negozi importanti del pontificato, sosteneva e moderava molti disordini che procedevano dalla sua larghezza e facilità; e quel che è piú, non seguendo il costume degli altri nipoti e fratelli de' pontefici, preponendo l'onore e la grandezza di Lione agli appoggi potesse farsi per dopo la sua morte, gli era in modo fedelissimo e ubbidientissimo che pareva che veramente fusse un altro lui; per il che fu sempre piú esaltato dal pontefice, e rimesse a lui ogni dí piú le faccende: le quali, in mano di due nature tanto diverse, mostravano quanto qualche volta convenga bene insieme la mistura di due contrari. L'assiduità la diligenza l'ordine la gravità di costui, la facilità la prodigalità i piaceri e la ilarità di quell'altro, facevano credere a molti che Lione fusse governato da Giulio, e che egli per se stesso non fusse uomo da reggere tanto peso, non da nuocere ad alcuno e desiderosissimo di godersi i comodi del pontificato; e allo incontro, che in Giulio fusse animo ambizione cupidità di cose nuove, in modo che tutte le severità tutti i movimenti tutte le imprese che si feceno a tempo di Lione si credeva procedessino per istigazione di Giulio, riputato uomo maligno ma di ingegno e di animo grande. La quale opinione del valore suo si confermò e accrebbe dopo la morte di Lione; perché, in tante contradizioni e difficoltà che ebbe, sostenne con tanta dignità le cose sue che pareva quasi pontefice, e si conservò in modo l'autorità appresso a molti cardinali che, entrato in due conclavi assoluto padrone di sedici voti, aggiunse finalmente, nonostante infinite contradizioni della maggiore parte e de' piú vecchi del collegio, dopo la morte di Adriano, al pontificato, non finiti ancora due anni dalla morte di Lione: dove entrò con tanta espettazione che fu fatto giudizio universale che avesse a essere maggiore pontefice e a fare cose maggiori che mai avesse fatte alcuni di coloro che avevano insino a quel dí seduto in quella sedia. Ma si conobbe presto quanto erano stati vani i giudizi fatti di Lione e di lui. Perché in Lione fu di grande lunga piú sufficienza che bontà, ma Giulio ebbe molte condizioni diverse da quello che prima era stato creduto di lui: con ciò sia che e' non vi fusse né quella cupidità di cose nuove né quella grandezza e inclinazione di animo a fini generosi e magnanimi che prima era stata l'opinione, e fusse stato piú presto appresso a Lione esecutore e ministro de' suoi disegni che indirizzatore e introduttore de' suoi consigli e delle sue volontà. E ancora che avesse lo intelletto capacissimo e notizia maravigliosa di tutte le cose del mondo, nondimeno non corrispondeva nella risoluzione ed esecuzione; perché, impedito non solamente dalla timidità dell'animo, che in lui non era piccola, e dalla cupidità di non spendere ma eziandio da una certa irresoluzione e perplessità che gli era naturale, stesse quasi sempre sospeso e ambiguo quando era condotto alla determinazione di quelle cose le quali aveva da lontano molte volte previste, considerate e quasi risolute. Donde, e nel deliberarsi e nello eseguire quel che pure avesse deliberato, ogni piccolo rispetto che di nuovo se gli scoprisse, ogni leggiero impedimento che se gli attraversasse, pareva bastante a farlo ritornare in quella confusione nella quale era stato innanzi deliberasse; parendogli sempre, poi che aveva deliberato, che il consiglio stato rifiutato da lui fusse il migliore: perché, rappresentandosegli allora innanzi solamente quelle ragioni che erano state neglette da lui, non rivocava nel suo discorso le ragioni che l'avevano mosso a eleggere, per la contenzione e comparazione delle quali si sarebbe indebolito il peso delle ragioni contrarie; né avendo, per la memoria di avere temuto molte volte vanamente, presa esperienza di non si lasciare soprafare al timore. Nella quale natura implicata e modo confuso di procedere, lasciandosi spesso trasportare da' ministri, pareva piú presto menato da loro che consigliato.

                                                 Di questi furono appresso a lui in somma potenza Niccolò Scombergh germano e Giammatteo Giberto da Genova: quello reverito e quasi temuto dal pontefice, questo gratissimo e molto amato da lui. Quello, seguitando l'autorità di Ieronimo Savonarola, dedicatosi, mentre studiava nelle leggi, nell'ordine de' frati predicatori, ma dipoi partitosi dalla religione benché ritenendo l'abito e il nome, [aveva] seguitate le faccende secolari; questo, nella età puerile dedicatosi alla religione ma dipoi partitosene per la autorità paterna, benché non fusse di legittimi natali, aveva abdicato in tutto, e con l'abito e col nome, quella professione. Questi, concordi nel suo cardinalato e poi nel principio del pontificato, guidorono ad arbitrio loro il pontefice; ma cominciando poi a discordare, o per ambizione o per la diversità delle nature, lo distrassono e lo confusono. Perché fra' Niccolò, affezionatissimo, per il vincolo della nazione o per qualunque altro rispetto, al nome di Cesare, e per natura fisso nelle opinioni proprie, le quali spesso discordavano dalle opinioni degli altri uomini, favoriva tanto immoderatamente le cose di Cesare che spesso venne in sospetto al pontefice come piú amatore degli interessi di altri che de' suoi; l'altro, non conoscendo in verità né altro amore né altro padrone, ma per natura ardente nelle cose sue, se in qualche cosa errava, procedeva piú presto da volontà che da giudicio; e se bene nel tempo di Lione fusse stato inimico acerrimo de' franzesi e fautore delle cose di Cesare, morto Leone, era diventato tutto l'opposito: donde, essendo questi due ministri potentissimi tra loro in manifesta dissensione né procedendo con maturità o con rispetto dell'onore del pontefice, e facendo notorio a tutta la corte la sua freddezza e irresoluzione, lo rendevano appresso alla maggiore parte degli uomini disprezzabile e quasi ridicolo.

                                                 Essendo egli adunque di natura irresoluto, e in una deliberazione sí perplessa e sí difficile aiutato confondere da coloro che dovevano aiutarlo risolvere, non sapeva egli medesimo dove si volgere: finalmente, piú perché era necessario deliberare qualche cosa che per risoluzione e giudicio fermo, trovandosi massime in termine che anche il non deliberare era specie di deliberare, si inclinò a fare la lega, e a rompere in compagnia degli altri la guerra a Cesare. Concordoronsi e distesonsi i capitoli, né mancava altro che lo stipulargli, quando ebbe nuove che a Genova era arrivato il comandatore Errera mandato a lui da Cesare; quale avvisava che veniva subito in diligenza, e con grata e buona espedizione: deliberò adunque di aspettarlo, con gravissima querela degli imbasciadori, a' quali aveva dato ferma intenzione di stipulare il dí medesimo la confederazione.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.13

                                                  

                                                 Ragioni dell'invio dell'ambasciatore di Cesare al pontefice. Obiezioni del pontefice alle proposte di Cesare e promesse dell'ambasciatore. Accordo provvisorio fra il pontefice e Cesare.

                                                  

                                                 La cagione della venuta sua fu che Cesare, poi che ebbe dato commissione tale al marchese di Pescara che almanco era in arbitrio suo lo occupare lo stato di Milano, dubitando che per questo non si facessino in Italia nuovi movimenti, ristrinse le pratiche dell'accordo col legato Salviato: in modo che tra loro fu fatta capitolazione, riservata però la condizione della ratificazione del pontefice, nella quale se gli sodisfaceva della restituzione di Reggio e di Rubiera, e vi si includeva la difesa e conservazione del duca di Milano, che erano le cose state principalmente desiderate da Clemente, ma con condizione espressa che, nel caso della sua morte, non potesse ritenere per sé quel ducato né darlo allo arciduca suo fratello, ma ne investisse monsignore di Borbone; il quale il pontefice medesimo, assai inconsideratamente, per conforti dello arcivescovo di Capua, gli aveva, insieme con Giorgio di Austria fratello naturale di Massimiliano Cesare, proposto, nel tempo che per la infermità fu quasi disperata la vita di Francesco Sforza. La quale capitolazione fatta, il legato, non aspettato che da Clemente avesse la perfezione, non potette o non seppe negare di dare a Cesare il breve tanto desiderato della dispensa: la quale essendo stata fatta prima con espressione solamente dello impedimento in secondo grado senza nominare la figliuola del re di Portogallo, per manco offendere il re di Inghilterra, o perché, essendo tra loro vincolo doppio di affinità, non fusse fatta menzione se non del vincolo piú potente, fu necessario farne un'altra che con espressa nominazione delle persone comprendesse tutti gli impedimenti.

                                                 Con la espedizione di questa confederazione partí il comandatore Errera dalla corte cesarea, uno giorno o due dipoi che Cesare aveva ricevuto l'avviso della cattura del Morone: e condotto, il sesto dí di dicembre, innanzi al pontefice, oltre a molte offerte e fede larghissima della buona disposizione di Cesare, gli presentò i capitoli [dell'accordo]; del quale se bene i capitoli che trattavano del sale e delle cose beneficiali del reame di Napoli erano discrepanti da quello che aveva appuntato col viceré, pure, perché il principale suo fine era di assicurarsi da' sospetti, gli arebbe accettati se avesse conosciuto procedersi sinceramente nelle cose del ducato di Milano. Ma poi che nel capitolo che trattava di Francesco Sforza non si faceva menzione della imputazione che gli era stata data, né si prometteva di restituire lo stato tolto né di perdonargli gli errori che avesse commesso (anzi Cesare, nella conclusione fatta col legato e nella istruzione data a questo suo agente, non aveva dimostrato di saperne cosa alcuna), fu conosciuta facilmente la astuzia e arte loro: perché la confederazione e la promessa di conservare e difendere Francesco Sforza nel ducato di Milano non privava Cesare della potestà di procedergli contro come suo vassallo, e dichiarare il feudo divoluto, per la imputazione dello avere macchinato contro alla Maestà sua; e Borbone, surrogato in caso della sua morte, veniva anche a succedere in caso della sua privazione, perché dalle leggi è considerata la morte naturale e la morte civile, della quale dicono morire chi è condennato per tale delitto. Però rispose il pontefice, con gravissime parole: non avere con Cesare causa alcuna particolare di discordia, anzi, che di ogni differenza e disputa che potesse essere tra loro non eleggerebbe mai altro giudice che lui; ma che era anche necessario fermare in modo le cose comuni che Italia restasse sicura, il che non poteva essere se non si rilasciava a Francesco Sforza il ducato di Milano; e gli mostrò le ragioni per le quali quello capitolo cosí generale non era bastante; conchiudendo che a lui sarebbe grandissimo dispiacere di essere necessitato a pigliare nuove deliberazioni, e discostarsi da Cesare col quale era stato sempre congiuntissimo. Replicò il duca di Sessa che la mente di Cesare era sincerissima, e che senza dubbio era contento che, non ostante tutto quello fusse accaduto, il ducato di Milano restasse a Francesco Sforza, ma che per inavvertenza non era stato disteso il capitolo in ampia forma; ma facesse il pontefice riformarlo a modo suo, che gli promettevano presentargli in termine di due mesi la ratificazione, pure che anche egli promettesse che, durante questo tempo, non conchiuderebbe la lega che si trattava col governo di Francia e co' viniziani. Fu conosciuto chiaramente per ciascuno che questa offerta non aveva altro fondamento che il desiderio di guadagnare dilazione di due mesi, acciò che Cesare avesse spazio di potere meglio deliberarsi e provedere i rimedi contro a tanta unione; e nondimeno il pontefice, dopo molte dispute e con grandissimo dispiacere degli altri imbasciadori, acconsentí a questa dimanda, sí per desiderio di allungare quanto poteva lo entrare nelle spese e nelle molestie come perché gli pareva che, mentre che il cristianissimo era prigione, fusse pericolosissima ogni congiunzione che si facesse con la madre, essendo in potestà di Cesare dissolverla ogni volta che gli piacesse; e questa dilazione potere pure portare, ancorché poco se ne sperasse, la conclusione desiderata; e se pure causasse la concordia tra i due re, considerò profondamente (ancora che molti altri giudicassino in contrario) che meglio era che si facesse in tempo che Cesare avesse minore necessità; perché quanto fusse in grado migliore tanto sarebbono piú gravi le condizioni che egli porrebbe al re di Francia; l'asprezza delle quali dava speranza che il re, poiché fusse liberato, non le avesse a osservare. Fu aggiunto ancora in questo trattato che nel medesimo tempo non si innovasse né di lavorare né di altro contro al castello di Milano, se Francesco Sforza si obligava a non offendere e molestare quegli di fuora; la quale condizione egli non volle accettare.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.14

                                                  

                                                 Lettera del pontefice a Cesare a favore del duca di Milano. Matrimonio di Cesare con la principessa di Portogallo. Discussione nel consiglio di Cesare sulla politica da seguirsi riguardo al re di Francia, ed in Italia; parole del gran cancelliere; parole del viceré.

                                                  

                                                 Consumato con queste azioni, disposte piú alla guerra che alla pace, l'anno della natività del Figliuolo del sommo Dio mille cinquecento venticinque, cominciò l'anno mille cinquecento ventisei, pieno di grandi accidenti e di maravigliose perturbazioni. Nel principio del quale anno ritornando Errera a Cesare, il pontefice gli scrisse una lunga lettera di propria mano, nella quale, non negando totalmente né confessando le cose trattate contro a lui ma trasferendone la colpa nel marchese di Pescara, si sforzò di escusare Francesco Sforza, sedotto, se aveva fatto errore alcuno, dai consigli di Ieronimo Morone; e supplicandolo efficacissimamente che, per quiete e beneficio di tutta la cristianità, fusse contento di perdonargli. Nel quale tempo Cesare, aspettando la risposta del pontefice, teneva sospese tutte le pratiche degli altri; e ancora che Borbone, che era carezzato assai e confermatagli la speranza del parentado, instesse di consumare il matrimonio, gli era interposta dilazione, allegando che Cesare voleva prima consumare il matrimonio suo con la sposa di Portogallo, la quale di giorno in giorno aspettava: ma si faceva per lasciarsi libera la facoltà di fare l'accordo col re di Francia, nel quale si trattava dargli per moglie la medesima promessa a Borbone; prevalendo, come è l'uso di tutti i príncipi, l'utilità alla onestà. Sopravenne dipoi, avendo già Cesare consumato il matrimonio in Sibilia, Errera da Roma, con la minuta del capitolo amplissimo disteso dal pontefice in benefizio di Francesco Sforza: in modo che Cesare, certificato anche che il legato non aveva commissione da parte, diversa da quel capitolo, e concorrendo tutto il consiglio in questa sentenza, che e' fusse necessario interrompere la lega che si trattava e pericoloso l'avere a sostenere in uno tempo medesimo tanti inimici, si ridusse in necessità o di sodisfare al pontefice e a' viniziani della restituzione di Francesco Sforza o di concordarsi col re di Francia. Il quale finalmente, dopo molte contenzioni avute sopra la Borgogna, non potendo altrimenti sperare da Cesare la liberazione, offeriva di restituirla con i contadi e pertinenze sue, e cedere alle ragioni che aveva sopra il regno di Napoli e sopra il ducato di Milano; e dare statichi, per l'osservanza delle promesse, due suoi figliuoli.

                                                 Grandissime dispute erano in su la elezione dell'una o dell'altra deliberazione. Il viceré, che aveva condotto in Spagna il re cristianissimo, e dategli tante speranze e procurato sí ardentemente la sua liberazione, faceva piú efficace instanza che mai; e l'autorità sua, almanco per fede e per benivolenza, era grande appresso a Cesare. Ma in contrario piú presto esclamava che disputava Mercurio da Gattinara, gran cancelliere; uomo, benché nato di vile condizione nel Piamonte, di molto credito ed esperienza, e il quale già piú anni sosteneva tutte le faccende importanti di quella corte. I quali essendo uno giorno ridotti in consiglio, presente Cesare, per determinare finalmente tutte le cose che si erano trattate tanti mesi, il gran cancelliere parlò cosí:

                                                 - Io ho bene sempre dubitato, invittissimo Cesare, che la nostra troppa cupidità, e lo averci proposto noi fini male misurati, non fusse causa che di vittoria tanto preclara e tanto grande noi non riportassimo alla fine né gloria né utilità; ma non credetti perciò già mai che l'avere vinto avesse a condurre in pericolo la reputazione e lo stato vostro, come io veggo che manifestamente si conduce: poi che si tratta di fare un accordo per il quale Italia tutta si disperi e il re di Francia si liberi, ma con sígravi condizioni che, se non per volontà almanco per necessità, ci resti maggiore inimico che prima. Desidererei e io, con ardore pari a quello degli altri, che in uno tempo medesimo si recuperasse la Borgogna e si stabilissino i fondamenti di dominare Italia, ma conosco che chi cosí presto vuole tanto abbracciare va a pericolo di non stringere cosa alcuna, e che nessuna ragione comporta che il re di Francia, liberato, vi attenda tanto importanti capitoli. Non sa egli, che se e' vi restituisce la Borgogna, che vi apre una porta di Francia? e che in potestà vostra sarà sempre di correre insino a Parigi? e, che avendo voi facoltà di travagliare la Francia da tante parti, che sarà impossibile che e' vi resista? Non sa egli, e ognuno, che il consentirvi che voi andiate armato a Roma, che voi mettiate il freno a Italia, che voi riduciate in arbitrio vostro lo stato spirituale e temporale della Chiesa, è cagione di raddoppiare la vostra potenza, che mai piú vi possino mancare né danari né armi da offenderlo, e che egli sia necessitato ad accettare tutte le leggi che a voi parrà d'imporgli? Adunque, ci è chi crede che vi abbia a osservare uno accordo per il quale egli diventi vostro schiavo e voi diventiate suo signore? Gli mancheranno i lamenti e le esclamazioni di tutto il reame di Francia, le persuasioni del re d'Inghilterra, gli stimoli di tutta Italia? l'amore forse che è tra voi due sarà cagione che e' si fidi di voi, o vegga volentieri la vostra potenza? O dove furono mai due príncipi tra i quali fussino piú cause di odio e di contenzione? Ci è non solo la emulazione della grandezza, che suole mettere l'armi in mano a' fratelli, ma antiche e gravissime inimicizie cominciate insino dai padri e dagli avoli degli avoli vostri, tante guerre state lungamente tra queste due case, tante paci e accordi non osservati, tante ingiurie e offese fatte e ricevute. Non crediamo noi che gli arda di sdegno quando e' si ricorda di essere stato tanti mesi vostro prigione? tenuto sempre con guardie sí strette, non avere mai avuto grazia di essere stato condotto al cospetto vostro? che in questa carcere, per i dispiaceri e incomodità, è stato vicino alla morte? e che ora non si libera per magnanimità o per amore ma per paura di tanta unione che si tratta contro a voi? Crediamo noi che sia piú potente di tanti stimoli il parentado fatto per necessità? E chi non sa quanto i príncipi stimano questi legami? e chi è migliore testimonio del conto che si tiene de' parentadi che noi? Parrà forse a qualcuno che assai ci assicuri la fede che e' darà di ritornare in prigione! e che fondamenti inconsiderati, che speranze imprudenti sarebbeno queste? Cosí mi sforza, Cesare, a parlare il dolore estremo che io ho che e' si pensi di prendere uno partito tanto dannoso e pericoloso. Sappiamo pure tutti quanto sia stimata la fede negli interessi degli stati, che vagliano le promesse de' franzesi, i quali, aperti in tutto il resto, sono maestri perfettissimi di ingannare; che questo re è per natura tanto piú scarso di fatti quanto è piú abbondante di parole. Però conchiudiamo pure che, non benivolenza tra due príncipi che hanno per antichissima eredità le ingiurie e le inimicizie, non memoria de' benefizi de' quali non ci è nissuno, non fede o promesse (che nelle importanze dello stato sono appresso di molti di poco peso, appresso a' franzesi di niuno) lo indurranno a eseguire un accordo che metta in cielo lo inimico suo, e sé e il suo reame in manifesta suggezione. Risponderassi, sento, che per timore di queste cose se gli dimanda la sicurtà di due figliuoli e tra loro il primogenito, l'amore de' quali bisognerà che gli stimi piú che la Borgogna; e io temo che l'amore de' figliuoli opererà piú presto il contrario, quando se gli presenterà nell'animo la memoria loro e la considerazione che l'osservare lo accordo sarebbe il principio di fargli vostri schiavi. Non so se questo pegno bastasse quando e' fusse al tutto disperato di recuperargli in altro modo, perché troppo importa il mettere in pericolo il regno suo, il quale perduto una volta è difficillimo il recuperare; ma si può bene sperare di recuperare col tempo i figliuoli o con accordo o con altra occasione, e per l'età loro tenera sarà manco molesta la dilazione. Ma potendo egli avere uniti seco contro a voi quasi tutti i príncipi cristiani, chi dubita che si ristringerà con loro e cercherà di moderare questo accordo con la via dell'armi? e che il guadagno che noi aremo conseguito di questa vittoria sarà una guerra gagliardissima e pericolosissima? concitata dall'odio, dalla necessità e dalla disperazione del re d'Inghilterra, del re di Francia e di tutta Italia. Da' quali tutti ci difenderemo, se Dio non si straccherà di fare ogni dí per noi di quegli miracoli che tante volte ha fatti insino al presente, se la fortuna muterà natura per noi, e la sua incostanza e mutazione diventeranno in noi, contro a tutti gli esempli delle cose passate, uno esempio di costanza e di stabilità. Abbiamo conchiuso, già tanti mesi, in tutti i consigli nostri, che si faccia ogni opera perché gl'italiani non si unischino col governo di Francia, e ora ci precipitiamo a una deliberazione che leva tutte le difficoltà che insino a ora gli hanno tenuti sospesi, che moltiplica i pericoli nostri che moltiplica le forze degli inimici. Perché chi non sa quanto piú potente sarà la lega che abbia per capo il re di Francia, libero e nel regno suo, che quella che si facesse col governo di Francia restando il re vostro prigione? Chi non sa che nissuna ragione ha tenuto insino a ora il papa ambiguo a confederarsi contro a voi se non il timore che voi non separiate i franzesi da loro con offerirgli il suo re? di che temeranno manco quando aremo i figliuoli e non lui. Cosí la medicina che noi prepariamo usare per fuggire il pericolo sarà quella che senza comparazione lo accrescerà, e in cambio di interrompere questa unione saremo il mezzo noi che la si faccia, e piú stabile e piú potente. Sarammi detto: che parere è adunque il tuo? consigli tu che di tanta vittoria non si tragga alcuno profitto? abbiamo noi a stare continuamente in queste perplessità? Io confermo quel che ho detto molte volte: che è troppo nocivo il prendere in una volta tanto cibo che lo stomaco non sia potente a comportarlo, e che è necessario o, reintegrandosi con Italia (che non dimanda altro da noi che di essere assicurata), cercare di avere dal re di Francia la Borgogna e quel piú che noi possiamo, o fare uno accordo con lui per il quale ci resti Italia a discrezione, ma sí dolce, in quanto agli interessi suoi, che gli abbi causa di osservarlo; e nella elezione tra queste due vie bisogna, Cesare, che la prudenza e la bontà vostra preponga quello che è stabile e piú giusto a quello che al primo aspetto paresse forse piú utile e maggiore. Confesso che piú ricco stato e piú opportuno a molte cose è quel di Milano che la Borgogna, e che non si può fare amicizia con Italia che non si lasci Milano o a Francesco Sforza o a uno altro del quale il papa si contenti; e nondimeno lodo molto piú il fare questo che lo accordare co' franzesi: perché di giustizia piú è vostra la Borgogna che non è Milano, piú facile a mantenere che quella, dove non è alcuno che vi voglia. Cercare la Borgogna, vostra antica eredità, è somma laude; volere Milano, o per voi o per uno che dependa in tutto da voi, non è senza nota di ambizione: il primo ricerca da voi la memoria di tanti gloriosi vostri progenitori, l'ossa de' quali sepolte in cattività non gridano altro che essere da voi liberate e ricuperate: e sí giusti sí pietosi sí santi prieghi sono forse cagione di farvi Dio piú propizio. Piú prudente e piú facile consiglio è cercare di stabilire una amicizia con chi malvolentieri vi diventa inimico che con chi in tempo alcuno non vi può essere amico. Perché nel re di Francia non sarà mai se non odio e desiderio di opporsi a disegni vostri; ma il papa e gli altri d'Italia, come si leva l'esercito di Lombardia, assicurati dal sospetto, non aranno da contendere con voi né per emulazione né per timore, e restandovi amici ne arete, ora e sempre, comodità e profitto. Vi inclina dunque piú a questa amicizia l'onore l'utilità la sicurtà, ma, se io non mi inganno, non meno la necessità: perché, quando bene voi facciate accordo col re senza obligarlo ad altro che ad aiutarvi alle imprese d'Italia, a me non è verisimile che e' ve lo abbia a osservare; perché gli parrà che il lasciarvi Italia in preda metta in troppo pericolo il suo reame, e da altro canto grandissime saranno le opportunità e le speranze che, per mezzo di sí potente unione, gli parrà avere di travagliarvi e ridurvi a uno accordo di manco gravi condizioni. Cosí di uno re prigione lo faremo libero e inimico nostro, e daremo capo al regno di Francia acciò che, congiunto a tanti altri, vi faccia con piú forze e con maggiore autorità la guerra. Quanto è meglio accordare con gl'italiani! fare una buona e vera congiunzione col pontefice, che l'ha continuamente desiderata, e levare a franzesi ogni speranza della compagnia degli italiani! perché allora non la necessità o il timore di nuove leghe, ma la volontà vostra e la qualità delle condizioni, vi arà a tirare ad accordo co' franzesi; allora vedrete che il bisogno e la disperazione gli sforzerà non solo a rendervi la Borgogna e farvi patti maggiori ma ancora a mettervi in mano tale sicurtà che non abbiate a temere dell'osservanza. Perché non bastano i figliuoli mentre che e' possono sperare tanta congiunzione, né basterebbe, appena, se vi mettessino in mano Baiona, Nerbona e l'armata. A questo modo caverete frutto grande, onorevole, giusto e sicuro, di questa vittoria; altrimenti, o io non ho intelligenza di cosa alcuna o questo accordo metterà lo stato vostro in sí grave pericolo che io non so conoscere che cosa ve ne possa liberare, se già la imprudenza del re di Francia non sarà maggiore che la nostra. -

                                                 Aveva il gran cancelliere, con questo parlare accurato e veemente e con la riputazione della prudenza sua, commosso gli animi di una grande parte del consiglio, quando il viceré, autore della contraria opinione, parlò, secondo si dice, cosí:

                                                 - Non è già da lodare, gloriosissimo Cesare, chi, per appetito di avere troppo, abbraccia piú che non può tenere, ma non merita di essere manco biasimato chi, per superchio sospetto e diffidenza, si priva da se stesso delle occasioni grandi acquistate con tante difficoltà e pericoli; anzi, essendo l'uno e l'altro errore gravissimo, è piú dannabile, in uno tanto principe, quello che procede da timidità e abiezione di animo che quello che nasce da generosità e grandezza, e piú laudabile è cercare, con pericolo, di acquistare troppo che, per fuggire pericolo, annichilare le occasioni rarissime che l'uomo ha: e questo è proprio il consiglio del cancelliere, che dubitando non si possa conseguire con questo accordo la Borgogna e Milano (perché di lui non è già da sospettare che lo muova o l'amore di Italia sua patria o la benivolenza che ha al duca di Milano) si risolve a una via che, secondo lui, si guadagna la Borgogna e si perde Milano, stato senza comparazione di maggiore importanza, ma, secondo me, si perde Milano e non si guadagna la Borgogna; e dove questa vittoria vi ha aperta gloriosissimamente la strada al principato de' cristiani, non ci resterà, se seguiteremo il consiglio suo, altro che danno e infamia. E certo io non veggo nel consiglio suo sicurtà alcuna, anzi pericolo grandissimo, piccolissima utilità, e quella facile a uscirci di mano, veggola piena di indegnità e di vergogna; e, per contrario, nell'accordo col re di Francia mi pare che sia grandissima gloria, grandissima utilità, e sicurtà bastante. Perché io vi dimando, cancelliere: che ragione avete voi, che sicurtà che fede, che gl'italiani, poi che aremo lasciata la ducea di Milano, abbino a osservare l'accordo nostro né si intromettere tra il re di Francia e noi? e non piú presto, poiché aranno abbassato la nostra riputazione, poiché aranno dissoluto quello esercito che è il freno della loro malignità, poiché saranno sicuri che in Italia non possino venire nuovi tedeschi (perché non sarà in Lombardia luogo che gli riceva né dove si possino raccorre), che sicurtà, dico, avete voi che gl'italiani, allora, continuando le sue pratiche, non abbino, col minacciarci il regno di Napoli, che resterà quasi alla loro discrezione, a sforzarci a liberare il re di Francia? Fidatevi voi, cancelliere, nella gratitudine di Francesco Sforza? che dopo tanti benefici vi ha rimeritato, Cesare, con sí scellerato tradimento! che farà ora che vi ha conosciuto desideroso di punire con la giustizia tanta iniquità, ora che da voi teme la pena, dagli inimici vostri aspetta la salute? Fidatevi voi, cancelliere, della amicizia de' viniziani, che nascono inimici dello imperio e della casa d'Austria; e tremano ricordandosi che, quasi ieri, Massimiliano vostro avolo tolse loro tante terre di quelle che ora posseggono? Fidatevi voi della bontà di Clemente o della inclinazione sua allo imperadore, col quale il principio della congiunzione di Lione fu, dopo avere tentato contro a noi molte cose, per desiderio di vendicarsi e di assicurarsi de' franzesi, e per ambizione di occupare Ferrara? Morto Lione, costui, cardinale, inimicato da mezzo il mondo, continuò per necessità la nostra amicizia; ma fatto papa, ritornato subito al naturale de' pontefici, che è di temere e di odiare gli imperadori, non ha cosa alcuna piú in orrore che il nome di Cesare. Scusansi tutti questi che le macchinazioni loro non sono procedute da odio o da altra cupidità ma solamente dal sospetto della vostra grandezza, e che cessato questo, cesseranno tutte le pratiche: il che o non è vero o, se pure da principio fu vero, è necessario che abbia fatto poi altre radici e sia diventato altro umore; perché è naturale che dietro al sospetto viene l'odio, dietro all'odio l'offese, con l'offese la congiunzione e intrinsichezza con gli inimici di chi si offende, i disegni non solo di assicurarsi ma ancora di guadagnare della ruina dello offeso, la memoria delle ingiurie, maggiore senza dubbio e piú implacabile in chi le fa che in chi le riceve. Però, quando bene da principio si fussino mossi solo dal sospetto, sarebbe questo stato causa diventassino inimici vostri, volgessino gli animi e le speranze alle cose franzesi, cominciassino poi, in tutte le convenzioni che hanno trattate, a dividersi il reame di Napoli. Ora, séguiti quale si voglia sicurtà e accordo con noi, resterà sempre acceso ne' petti loro l'odio e il timore; né confidando di quello che parrà loro fatto per necessità, e parendogli avere maggiore facilità di strignerci alle voglie loro, timidi che alla fine non si faccia tra il re di Francia e noi uno nuovo appuntamento simile a quello che fu fatto a Cambrai, cupidi di liberare (per usare i loro vocaboli) Italia da' barbari, ardiranno di volere porvi le leggi, di dimandare la liberazione del re di Francia: se la negherete, Cesare, come difenderete da loro il regno di Napoli? se la concederete, perduti tutti i frutti della vittoria, resterete il piú disonorato il piú sbattuto principe che fusse mai. Ma pogniamo che Italia fusse per osservarvi l'accordo, e che voi strignesse la necessità o di lasciare Milano o di non riavere la Borgogna, che comparazione è tra l'uno partito e l'altro? La Borgogna è piccola provincia, di poca entrata, né anche tanto opportuna quanto molti si persuadono; il ducato di Milano, per la ricchezza e bellezza di tante città, per il numero e nobiltà de' sudditi, per l'entrate grandi, per la capacità di notrire tutti gli eserciti del mondo, è superiore a molti reami: ma, ancora che e' sia sí ampio e sí potente, sono da stimare piú le opportunità che nascono da acquistarlo che quello che e' vale per se medesimo; perché, essendo a vostra divozione Milano e Napoli, bisognerà che i pontefici dependino, come già solevano, dagli imperadori, la Toscana tutta il duca di Ferrara e il marchese di Mantova vi sieno sudditi; i viniziani, circondati dalla Lombardia e dalla Germania, saranno necessitati ad accettare le leggi vostre. Cosí, non dico con l'armi o con gli eserciti ma con la riputazione del vostro nome, con uno araldo solo, con le insegne imperiali comanderete Italia tutta. E chi non sa che cosa sia Italia? provincia regina di tutte l'altre, per l'opportunità del sito per la temperie dell'aria per la moltitudine e ingegni degli uomini, attissimi a tutte le imprese onorevoli, per la fertilità di tutte le cose convenienti al vivere umano, per la grandezza e bellezza di tante nobilissime città, per le ricchezze per la sedia della religione per l'antica gloria dello imperio, per infiniti altri rispetti; la quale se voi dominerete tremeranno sempre di voi tutti gli altri príncipi. Cercare questo si appartiene piú alla grandezza, piú alla gloria vostra, piú è grato all'ossa degli avoli vostri: poi che questi anche hanno a venire in consiglio; i quali, e per la bontà e per la pietà loro, non è da credere desiderino altro che quello che è piú comodo a voi e piú glorioso al vostro nome. Seguitando adunque il consiglio del cancelliere perderemmo uno acquisto grandissimo per uno acquisto piccolo, e questo piccolo è incertissimo: di che ci doverebbe pure ammonire quel che fu per accadere a' mesi passati. Non ci ricorda egli, quando il re di Francia fu in tanto pericolo di morte, in quanto dispiacere noi stemmo? per conoscere che con la morte sua si perdeva tutto il frutto sperato per la vittoria: chi ci assicura che ora non possa intervenire il medesimo? e piú facilmente, perché gli restano le reliquie del male di allora, perché, mancandogli la speranza che insino al presente l'ha sostentato, gli torneranno maggiori i dispiaceri da' quali la infermità sua ebbe cagione; e massime che, avendosi a trattare di condizioni e di sicurtà inestricabili, le pratiche nuove bisognerà che abbino lunghezza, che sarà sottoposta a questo accidente e forse ad altri non minori né manco facili. Non sappiamo noi che nessuna cosa ha tanto tenuto fermo il governo di Francia quanto opinione della sua presta liberazione? per la quale i grandi di quel regno sono stati quieti e ubbidienti alla madre: come questa speranza mancasse, sarebbe facile cosa che il regno si risenta, e alteri il governo; e quando i grandi ne avessino la briglia in mano non sarà in loro cura alcuna di liberare il re, anzi, per mantenersi sciolti e padroni, aranno piacere della sua cattività. Cosí, in cambio della Borgogna e di tanti acquisti, non potremmo piú sperare né della sua prigione né della sua liberazione. Ma io dimando piú oltre, cancelliere: ha Cesare, in questa deliberazione, a tenere conto alcuno della dignità e maestà sua? e che maggiore infamia può egli avere, che piú diminuzione di onore, che essere costretto a perdonare a Francesco Sforza? che uno uomo mezzo morto, rebelle vostro, esempio singolare di ingratitudine, non con l'umiliarsi e fuggire alla vostra misericordia ma col gettarsi in braccio agli inimici vostri, vi sforzi a cedergli a restituirgli lo stato, sí giustamente toltogli, a pigliare le leggi da lui? Meglio è, Cesare, e piú conviene alla dignità dello imperio, alla vostra grandezza, sottoporsi di nuovo alla fortuna, mettere di nuovo ogni cosa in pericolo, che, dimenticatovi il grado vostro, l'autorità di principe supremo di tutti i príncipi e il nome cesareo, e vincitore tante volte d'un potentissimo re, accettare da preti e da mercatanti quelle condizioni che, se voi fussi stato vinto, né piú gravi né piú indegne vi sarebbono state poste. Però, considerando io tutte queste ragioni, e quanto sia piccola l'utilità che ci può risultare dello accordo con gl'italiani e per quanti accidenti ci possa facilmente uscire di mano, e quanto sia poco sicuro il fidarsi di loro, e di quanta indignità sia pieno il lasciare lo stato di Milano, e che a noi è necessario risolversi e avere una volta considerazione del fine, e che la carcere del re non ci dà utilità se non per i frutti che si possono trarre della liberazione, ho confortato e conforto l'accordare prima con lui che con gli italiani; che nessuno può negare non essere piú glorioso piú ragionevole piú utile: pure che ci assicuriamo della osservanza (in che io fo qualche fondamento) e della gratitudine sua, per il beneficio che egli riceverà da voi, e del vincolo del parentado e della virtú della sorella vostra, instrumento abile a mantenere questa amicizia, ma molto piú del pegno de' due figliuoli, e tra questi il primogenito; del quale non so che maggiore pegno, né piú importante a lui, si possa ricevere. E, poi che la necessità ci strigne a deliberarci, si debbe pure fidarsi piú di uno re di Francia con tanto pegno che degli italiani senza alcuno pegno, piú della fede e parola di uno tanto re che della cupidità immoderata de' preti e della sospettosa viltà de' mercatanti; e piú facilmente possiamo avere, come molte volte hanno avuto i passati nostri, congiunzione per qualche tempo co' franzesi che con gli italiani, inimici nostri naturali ed eterni. Né solo in questa via veggo maggiore speranza che ci abbia a essere atteso, ma ancora minore pericolo in caso vi fusse mancato. Perché quando bene il re non vi desse la Borgogna non ardirà, restando per ostaggio i suoi figliuoli, di farvi nuove offese, ma cercherà, con pratiche e con prieghi, di moderare l'accordo: senza che, vinto da voi ieri, e oggi uscito di prigione, temerà ancora dell'armi vostre né arà piú ardire di tentare la vostra fortuna; e se egli non piglia l'armi contro a voi, Cesare, certo e che tutti gli altri staranno fermi, tanto che acquisterete il castello di Milano e vi confermerete in modo in quello stato che non arete piú da temere di malignità di alcuno. Ma agl'italiani, se accordate ora seco e vi voglino mancare, non resta freno alcuno che gli ritenga; e cresciuta la facoltà dello offendervi, sarà libera e crescerà la volontà. Però, a giudicio mio, sarebbe somma e timidità e imprudenza perdere, per troppo sospetto, uno accordo pieno di tanta gloria di tanta grandezza e con sicurtà bastante, pigliando in cambio di quello di una deliberazione pericolosissima, se io non mi inganno, e dannosissima. -

                                                  

                                                 Lib.16, cap.15

                                                  

                                                 Cesare delibera di accordarsi col re di Francia. Patti dell'accordo. Impressioni destate dalle condizioni dell'accordo; rifiuto del gran cancelliere di sottoscriverle. Dimostrazioni di familiarità fra Cesare e il re di Francia.

                                                  

                                                 Varie furono l'opinioni degli altri del consiglio, parlato che ebbe il viceré; parendo a tutti quelli che erano di sincero giudizio che lo accordare col re di Francia, nel modo proposto, fusse deliberazione molto pericolosa. Nondimeno, poteva ne' fiamminghi tanto il desiderio di recuperare la Borgogna, come antico patrimonio e titolo de' príncipi suoi, che non gli lasciava discernere la verità; e fu anche fama che in molti potessino assai i donativi e le promesse larghe fatte da' franzesi. E sopra tutto Cesare, o perché cosí fusse la prima sua inclinazione o perché appresso a lui l'autorità del viceré, congiunta massime con quella di Nassau che sentiva il medesimo, fusse di grandissimo momento, o perché gli paresse troppa indegnità essere costretto di perdonare a Francesco Sforza, udiva volentieri chi consigliava l'accordo col re di Francia: in modo che, poi che di nuovo ebbe fatto tentare il legato Salviato se e' voleva consentire che lo stato di Milano si desse al duca di Borbone e si certificò che non aveva commissione di accettare questo partito (nel quale caso arebbe preposta l'amicizia del pontefice), deliberò di concordarsi col re di Francia. Col quale, essendo già innanzi le cose discusse e quasi resolute, si venne in pochissimi dí alla conclusione; non intervenendo a cosa alcuna il legato del pontefice: avendo prima Cesare ottenuto dal duca di Borbone il consentimento che la sorella promessa a lui si maritasse al re di Francia. Il quale, pregato assai, consentí, non tanto per la cupidità di avere il ducato di Milano, come, contro alla autorità del gran cancelliere e del viceré, benché con obligazione di gravi pagamenti, gli fu promesso, quanto per essere le cose sue ridotte in termine che, non avendo né potendo avere dependenza da altri che da Cesare, era necessitato accomodarsi alla sua volontà: e consentito che ebbe, perché in tempo tanto incomodo non si trovasse alla corte, partí subito, per ordine di Cesare, alla volta di Barzalona, per aspettare le provisioni necessarie a passare in Italia; le quali, per mancamento di navili (non essendo allora in Spagna altre galee sottili che tre) e di danari, erano per procedere lentamente.

                                                 Contenne la capitolazione, stipulata il quartodecimo dí di febbraio dell'anno mille cinquecento ventisei: che tra Cesare e il re di Francia fusse pace perpetua, nella quale fussino compresi tutti quegli i quali di consentimento comune si nominassino: che il re di Francia, a dieci dí di marzo prossimo, fusse posto libero ne' suoi confini, nella costa di Fonterabia e, in termine di sei settimane seguenti, consegnasse a Cesare la ducea di Borgogna, la contea di Ciarolois, la signoria di Neiers e Castello Chimu, dependenti della detta ducea, la viscontea di Ausonia, il Resort di San Lorenzo, dependenti dalla Francia Contea, tutte le pertinenze solite della detta ducea e viscontea; quali tutte fussino in futuro separate ed esenti dalla sovranità del regno di Francia: che, nell'ora e nel punto medesimo che il re si liberasse, si mettessino in mano di Cesare il Delfino e, oltre a lui, o il duca di Orliens secondogenito del re o dodici de' principali signori di Francia, i quali furono nominati da Cesare, rimettendo in elezione di madama la reggente [di] dare o il secondogenito o i dodici baroni; i quali avessino a stare per statichi insino a tanto fusse fatta la restituzione delle terre predette, e ratificata e giurata la pace con tutti i suoi capitoli dagli stati generali di Francia, e registrata (il che essi dicono interinata) in tutti i parlamenti di quel reame, con le solennità necessarie, alle quali era prefisso termine di quattro mesi; al quale tempo, facendosi la restituzione degli staggi, si consegnasse a Cesare Angolem, il terzo figliuolo del re, acciò che per maggiore intrattenimento della pace si nutrisse appresso a lui: rinunziasse il re cristianissimo e cedesse a Cesare tutte le ragioni del regno di Napoli, eziandio quelle che gli fussino pervenute per le investiture della Chiesa; e il medesimo facesse delle ragioni dello stato di Milano, di Genova, di Asti, di Arazo e di Tornai, di Lilla e di Douai: restituisse ancora la terra e castello di Esdin, come membro della contea di Artois, con tutte le munizioni, artiglierie e mobili che vi erano quando ultimamente era stato preso; rinunziasse alla sovranità di Fiandra e di Artois e di ogni altro luogo posseduto da Cesare: e da altra parte, cedesse Cesare a tutte le ragioni di qualunque luogo posseduto da' franzesi, e specialmente di Perona, Mondiviere e Roia, e della contea di Bologna e di Pontieuri, e le terre di qua e di là della riviera di Somma: fusse tra loro lega e confederazione perpetua a difesa degli stati, con obligazione di aiutare l'uno l'altro, quando fusse di bisogno, con cinquecento uomini d'arme e diecimila fanti: che Cesare promettesse madama Elionora sua sorella per moglie al re cristianissimo, della quale, subito che fusse ottenuta dal pontefice la dispensa, si facesse lo sposalizio con parole obligatorie di presente, e si conducesse in Francia per consumare il matrimonio, nel tempo medesimo che, secondo i capitoli, si avevano a liberare gli ostaggi; e la sua dote fusse scudi dugentomila con i donamenti convenienti, da pagarsi la metà tra sedici mesi l'altra metà di poi infra uno anno prossimo: che tra il Delfino e la figliuola del re di Portogallo, nata di madama Elionora, si facesse sposalizio come fussino in età abile: facesse il re di Francia il possibile che il re antico di Navarra cedesse a Cesare le ragioni di quel reame, e non volendo cedere non potesse il re dargli aiuto alcuno: che il duca di Ghelleri e conte di Zulf e le terre principali di quegli stati promettessino, con sicurtà sufficiente, che dopo la morte sua si dessino a Cesare: che il re non desse aiuto al duca di Vertimberg né eziandio a Ruberto della Marcia; desse a Cesare, quando vorrà passare in Italia e infra due mesi che ne sarà ricercato da lui, dodici galee quattro navi e quattro galeoni, proviste di tutto a spese sue eccetto che di uomini di guerra, che gli avessino a essere restituite infra tre mesi dal dí che s'imbarcasse: che in luogo delle genti di terra offertegli per Italia gli desse scudi dugentomila, la metà infra sedici mesi l'altra infra uno anno prossimo; e al tempo della liberazione degli ostaggi fusse tenuto a dargli cedole di banchi della paga di seimila fanti per sei mesi, subito che arrivasse in Italia; servendolo eziandio a spese sue di cinquecento lance con una banda di artiglierie: cavasselo di danno della promessa fatta al re d'Inghilterra per le pensioni gli pagava il re di Francia, che importavano cinquecentomila scudi, o vero gli desse a Cesare in denari contanti: supplicasse l'uno e l'altro di loro il pontefice a intimare, piú presto si potesse, uno concilio universale, per trattare la pace de' cristiani e la impresa contro agli infedeli ed eretici, a tutti concedere la crociata per tre anni: restituisse il re, fra sei settimane, il duca di Borbone, in ampla forma, eziandio in tutti gli stati, beni mobili e immobili e frutti presi, né potesse molestarlo per le cose passate né astrignerlo ad abitare o a andare nel reame di Francia, lasciandogli la facoltà di potere procedere per giustizia sopra la contea di Provenza; e restituisse tutti quegli che lo avevano seguitato, e nominatamente il vescovo di Autun e San Valerio: liberassinsi da ogni parte, fra quindici dí, i prigioni presi per conto di guerra; e a madama Margherita fusse restituito tutto quello possedeva innanzi alla guerra: fusse libero il principe di Oranges, e gli fusse restituito il principato di Oranges e quanto possedeva alla morte del padre, statogli tolto per avere seguitato le parti di Cesare; e medesimamente, alcuni altri baroni: che al marchese di Saluzzo fusse restituito il suo stato: che il re, come arrivasse nella prima terra del regno suo, ratificasse questa capitolazione, e fusse obligato farla ratificare al Dalfino come pervenisse alla età di quattordici anni. Nominoronsi molti di comune consentimento, eziandio i svizzeri, ma nessuno de' potentati italiani, eccetto il pontefice, quale chiamorono per conservatore di questa concordia; cosa piú presto di cerimonia che di sostanzialità. Aggiunsesi la fede data dal re di ritornare spontaneamente in carcere quando, per qualunque cagione, non adempiesse le cose promesse.

                                                 Grandissima fu l'ammirazione che ebbe di questo accordo tutta la cristianità: perché, come si intese che la prima esecuzione aveva a essere la liberazione del cristianissimo, fu giudizio universale di ciascuno che, liberato, non avesse a dare la Borgogna, per essere membro di troppa importanza al reame di Francia; e, da quegli pochi in fuora che ne avevano confortato Cesare, la corte sua tutta ebbe la medesima opinione. E il gran cancelliere, sopra gli altri, riprendeva e detestava, e con tale veemenza che ancora che avesse comandamento di sottoscrivere la capitolazione, come è uffizio de' gran cancellieri, ricusò di farlo, allegando che l'autorità che gli era stata data non doveva essere usata da lui nelle cose pericolose e perniciose come questa; né si potette rimuoverlo dal suo proposito con tutta la indegnazione di Cesare: il quale, poi che lo vidde stare in questa pertinacia, egli proprio la sottoscrisse; e pochi dí poi andò a Madril per stabilire il parentado, e con famigliari e dimestichi parlamenti fondare col re amicizia e benivolenza. Grandi furono le cerimonie e le dimostrazioni di timore tra loro: stetteno molte volte insieme in publico, ebbono soli in segreto piú volte lunghissimi ragionamenti; andorono, portati da una medesima carretta, a uno castello vicino a mezza giornata, dove era la regina Elionora, con la quale contrasse, credo, lo sposalizio. Ma non però, in tanti segni di pace e di amicizia, gli furono allentate le guardie, non allargata la libertà ma, in uno tempo medesimo, carezzato da cognato e guardato da prigione; in modo che si potesse facilmente giudicare che questa fusse una concordia piena di discordia, uno parentado senza amore, e che, in ogni occasione, potrebbeno piú le antiche emulazioni e passioni tra loro che il rispetto delle cose fatte piú per violenza che per altra cagione. Ma avendo consumato piú dí in questi andamenti, ed essendo già venuta la ratificazione di madama la reggente, con la dichiarazione che in compagnia del Delfino di Francia darebbeno piú presto il secondogenito che i dodici signori, il re partí da Madril, per trovarsi a' confini dove si aveva a fare il baratto della persona sua co' piccoli figlioli, e in compagnia sua il viceré autore della sua liberazione; al quale Cesare aveva donato la città di Asti e altri stati in Fiandra e nel reame di Napoli.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.16

                                                  

                                                 Cesare comunica al pontefice l'accordo col re di Francia e le intenzioni sue riguardo al ducato di Milano. Il pontefice delibera di mantenersi libero nelle decisioni e spedisce in Francia un proprio ambasciatore per conoscere le intenzioni del re. Identica politica dei veneziani.

                                                  

                                                 Nel quale tempo Cesare scrisse al pontefice una lettera cerimoniale, significandogli che, per il desiderio della pace e del bene comune della cristianità, dimenticate tante ingiurie e inimicizie, aveva restituita la libertà al re di Francia e datagli la sorella sua per moglie, e che aveva eletto lui per conservadore della pace, di chi sempre voleva essere obedientissimo figliuolo. E gli scrisse, pochi dí poi, un'altra lettera di mano propria, la quale gli mandò per il medesimo Errera che aveva portato la lettera scritta a lui di mano propria del pontefice; rispondendogli parte con parole dolci, parte mescolate di qualche acerbità: conchiudendo che restituirebbe il ducato a Francesco Sforza in caso non avesse fatto il delitto di che era imputato, e che voleva che questo si vedesse per giustizia dai giudici deputati da sé come da suo superiore; ma constando che avesse fallito non poteva mancare di investirne il duca di Borbone, a chi egli medesimo era stato cagione che e' lo avesse promesso, avendogliene nel tempo della infermità di Francesco Sforza proposto; e che per sodisfare a lui, e per assicurare dello animo [suo] Italia, non aveva voluto né ritenerlo per sé né darlo al fratello proprio; affermando, sopra la fede sua, questa essere veramente la sua intenzione; la quale pregava efficacemente che approvasse, offerendogli sempre l'autorità e le forze sue, come obbediente figliuolo della sedia apostolica. Portò ancora il medesimo Errera la risposta alla minuta del capitolo stato disteso dal pontefice in favore di Francesco Sforza, il quale Cesare, perseverando nella sua prima deliberazione, non aveva voluto approvare; anzi indirizzò per lui al duca di Sessa la forma dello accordo al quale per ultimo si risolveva, con autorità di stipularlo in caso che da lui fusse accettato. Contenevasi in essa che Francesco Sforza fusse compreso nella loro confederazione in caso non avesse lesa la maestà di Cesare, ma in caso della sua morte o privazione succedesse nella confederazione il duca di Borbone, investito da lui del ducato di Milano: confermavasi la obligazione fatta dal viceré della restituzione delle terre che teneva il duca di Ferrara, ma con condizione che il pontefice fusse tenuto a concedergli la investitura di Ferrara e rimettergli la pena della contravenzione; cosa contraria ai pensieri del pontefice, che aveva disegnato di esigere la pena de' centomila ducati, per pagare con questa i centomila promessi a Cesare in caso di quella restituzione: non ammetteva che lo stato di Milano avesse a levare i sali della Chiesa, né di riferirsi, in quanto alle collazioni benefiziali del reame di Napoli, al tenore delle investiture ma allo uso de' re passati, i quali in molti casi avevano disprezzato le ragioni e l'autorità della sedia apostolica. E perché col legato era stato trattato che, per levare di Lombardia lo esercito, grave a tutta Italia, si pagassino dal papa e da lui, come re di Napoli, e dagli altri d'Italia, ducati cento cinquantamila, e si conducesse a Napoli o dove, fuora d'Italia, paresse a Cesare, che diceva volerlo fare passare in Barberia, fu aggiunto che, essendo lo esercito creditore di maggiore quantità che non era allora, fussino ducati dugentomila.

                                                 Presentorono il duca di Sessa ed Errera al pontefice la copia di questi capitoli, con protestazione che in potestà loro non era di variarne pure una sillaba; e nondimeno arebbeno facilmente preso forma tutte l'altre difficoltà pure che del ducato di Milano fusse stato disposto in modo che il pontefice e gli altri non avessino causa d'avere sospetto. Ma si considerava che il duca di Borbone era inimico cosí implacabile del re di Francia che, o per sicurtà sua o per cupidità di entrare in Francia, starebbe sempre soggettissimo a Cesare, né si potrebbe mai sperare che la troppa grandezza sua gli fusse molesta; e che il capitolo di levare lo esercito di Lombardia, che tanto era stato desiderato da tutti, e per il quale effetto non sarebbe paruto grave pagare ogni quantità di denari, riusciva di nissuna utilità, poiché a Milano restava uno duca che non solo a ogni cenno di Cesare ve lo arebbe accettato, anzi forse, per interesse proprio, desiderato e stimolatolo. Però il pontefice, il quale, perché nella concordia fatta col re di Francia non si faceva menzione sostanziale di lui, né della sicurtà degli stati di Italia memoria alcuna, si era confermato nella persuasione fattasi prima che la grandezza di Cesare avesse a essere la servitú sua, deliberò di non accettare lo accordo nel modo che gli era proposto, ma di conservarsi libero insino a tanto che avesse certezza quello che facesse il re di Francia circa alla osservazione del suo appuntamento: nella quale sentenza si determinò con maggiore animo perché, oltre a quello che pareva verisimile, gli penetrò agli orecchi, per parole dette dal re innanzi fusse liberato, e da altri a' quali erano noti i consigli suoi, egli avere l'animo alieno dalla osservanza delle cose promesse a Cesare. Nella quale deliberazione per confermarlo, come cosa dalla quale avesse a dependere la sicurtà propria, espedí in Francia in poste Paolo Vettori fiorentino, capitano delle sue galee, acciò che nel tempo medesimo che arriverebbe il re fusse alla corte: usando questa celerità non solo per sapere, il piú presto si poteva, la mente sua ma perché il re, avuta subito speranza di potersi congiugnere il pontefice e i viniziani contro a Cesare, avesse causa di deliberare piú prontamente. Fu adunque commesso a Paolo che in nome del pontefice si rallegrasse seco della sua liberazione, facessegli intendere l'opere fatte da lui perché seguisse questo effetto, e quanto le pratiche tenute di collegarsi con la madre avessino fatto inclinare Cesare a liberarlo; mostrassegli poi, il pontefice essere desiderosissimo della pace universale de' cristiani, e che Cesare ed egli facessino unitamente la impresa contro al turco; quale si intendeva prepararsi molto potentemente per assaltare l'anno medesimo il reame di Ungheria. Queste furono le commissioni apparenti, ma la sostanziale e segreta fu che, tentato prima destramente di sapere bene la inclinazione del cristianissimo, in caso lo trovasse volto a osservare lo accordo fatto non passasse piú innanzi, per non fare vanamente piú perdita con Cesare che si fusse fatta per il passato; ma trovandolo inclinato altrimenti, o vero ambiguo, si sforzasse confermarvelo e con ogni occasione lo confortasse a questo cammino; mostrando il desiderio che il pontefice aveva, per benefizio comune, di congiugnersi seco. Spedí ancora in Inghilterra il protonotario da Gambara, per fare uffizio con quel re al medesimo fine; e per ricordo suo i viniziani mandorono in Francia, con le medesime commissioni, Andrea Rosso suo segretario. E perché Paolo, subito che fu arrivato in Firenze, si ammalò e morí, il pontefice, benché pigliasse in malo augurio che già due volte i ministri mandati da lui in Francia per questa pratica fussino periti nel cammino, vi mandò in luogo suo Capino da Mantova. Né mancavano intratanto, i viniziani e lui, di usare ogni diligenza per tenere confortato e in piú speranza che e' si potesse il duca di Milano, acciò che la paura della pace di Madril non lo facesse precipitare a qualche accordo con Cesare.

                                                  

                                                 Lib.16, cap.17

                                                  

                                                 Come avvenne la liberazione del re di Francia dalla prigionia e la consegna dei figliuoli; il re si reca prestamente a Baiona, donde spedisce lettere al re d'Inghilterra.

                                                  

                                                 Era arrivato in questo tempo il re di Francia a Fonterabia, terra di Cesare che è posta in sul mare Oceano in su i confini tra la Biscaia e il ducato di Ghienna; e da altro canto la madre co' due figliuoli era venuta a Baiona presso a Fonterabia a poche leghe, soggiornata qualche dí piú che il dí determinato a fare la permutazione, perché era stata in cammino oppressata dalla podagra. Adunque, il decimo ottavo dí di marzo, il re, accompagnato dal viceré e dal capitano Alarcone e da circa cinquanta cavalli, si condusse in su la riva del fiume che divide il reame di Francia dal reame di Spagna; e al medesimo tempo, si presentò in su l'altra riva Lautrech con gli due figlioletti e con numero pari di cavalli: in mezzo al fiume era una barca grande, fermata con le ancore, in su la quale non era persona alcuna. Accostossi a questa barca il re in su uno battello, dove era egli, il viceré e Alarcone e otto altri, armati tutti di armi corte; e dall'altra banda della barca si accostò in su un altro battello Lautrech, gli statichi e altri otto compagni, armati nel modo medesimo. Montò dipoi in su la barca il viceré con tutti i suoi e con loro il re, e immediate poi Lautrech con gli otto compagni; in modo che in su la barca si trovò il numero pari da ogni parte, essendo col viceré Alarcone e otto altri, e col re Lautrech e altri otto. I quali come furono saliti tutti nella barca, Lautrech tirò del battello in barca il Delfino; quale, consegnato al viceré e da lui ad Alarcone, fu posto subito nel loro battello; e nel medesimo istante era tirato in barca il piccolo duca d'Orliens. Il quale non vi fu prima che il cristianissimo saltò di barca in su il suo battello, con tanta prestezza che questa permutazione venne a essere fatta in uno momento medesimo; e tiratosi a riva, montò subito, come se temesse di aguato, in su uno cavallo turco di maravigliosa velocità, preparato per questo effetto, e senza fermarsi corse a San Giovanni del Lus, terra sua, vicina a quattro leghe; dove rinfrescatosi prestamente, si condusse con la medesima velocità a Baiona, raccolto con incredibile letizia di tutta la corte. Donde subito espedí in diligenza uno uomo al re di Inghilterra, significandogli con lettere di mano propria la sua liberazione, e con umanissime commissioni di riconoscerla totalmente dalle opere che aveva fatte; offerendo di volere essere seco una cosa medesima e di procedere in tutte le occorrenze co' suoi consigli: e poco dipoi gli espedí altri imbasciadori per ratificare solennemente la pace fatta dalla madre con lui, perché nella amicizia di quel re faceva grandissimo fondamento.

                                             

                                                 Lib.17, cap.1

                                                  

                                                 Viva attesa in Italia delle decisioni del re di Francia liberato dalla prigionia. Ragioni di rammarico contro Cesare esposte dal re di Francia agli inviati del pontefice e dei veneziani; veri intenti del re. Difficili condizioni del duca di Milano assediato nel castello, e gravezze degli abitanti del ducato per il mantenimento dei soldati di Cesare. Malcontento e tumulti in Milano.

                                                  

                                                 La liberazione del re di Francia, ancora che alla solennità dei capitoli fatti e alla religione de' giuramenti e delle fedi date tra loro, e al vincolo del nuovo parentado, fusse aggiunto il pegno di due figliuoli, e in quegli il primogenito destinato a tanta successione, sollevò i príncipi cristiani in grandissima espettazione, e fece volgere inverso di lui gli occhi di tutti gli uomini, i quali prima erano solamente volti verso Cesare; dependendo diversissimi né manco importanti effetti dalla deliberazione sua dello osservare o no la capitolazione fatta a Madril. Perché, osservandola, si vedeva che Italia impotente a difendersi per se medesima se ne andava senza rimedio in servitú, e si accresceva maravigliosamente l'autorità e la grandezza di Cesare: non osservando, era necessitato Cesare o dimenticare, per la inosservanza del re di Francia, le macchinazioni fattegli contro dal duca di Milano, restituirgli quel ducato perché il pontefice e i viniziani non avessino causa di congiugnersi col re, e perdere tanti guadagni sperati dalla vittoria; o pure, potendo piú in lui la indegnazione conceputa col duca di Milano e il desiderio di non avere in Italia l'ostacolo de' franzesi, stabilire la concordia col re, convertendo in pagamento di danari l'obligazione della restituzione della Borgogna; o veramente, non volendo cedere né all'una cosa né all'altra, ricevere contro a tanti inimici una guerra, eziandio quasi per confessione sua molto difficile, poiché per fuggirla si era ridotto a lasciare con tanto pericolo il re di Francia.

                                                 Ma non si stette lungamente in ambiguità quale fusse la mente del re. Perché essendo, subito che arrivò a Baiona, ricercato da uno uomo del viceré di ratificare lo appuntamento, come aveva promesso di fare subito che e' fusse in luogo libero, differiva di giorno in giorno con varie escusazioni: con le quali per nutrire la speranza di Cesare, mandò uno uomo proprio a significargli non avere fatta subito la ratificazione, perché era necessario, innanzi procedesse a questo atto, mollificare gli animi [de'] suoi, malcontenti delle obligazioni che tendevano alla diminuzione della corona di Francia; ma che non ostante tutte le difficoltà osserverebbe indubitatamente quanto aveva promesso. Da che potendosi assai comprendere quello che avesse nello animo, sopravenneno pochi dí poi gli uomini mandati dal pontefice e da' viniziani; a' quali non fu necessario usare molta diligenza per chiarirsi della sua inclinazione. Perché il re, avendogli ricevuti benignamente, ne' primi ragionamenti che poi ebbe con l'uno e con l'altro di loro separatamente, si querelò molto della inumanità che, nel tempo che era stato prigione, lo imperadore gli aveva usata, non trattandolo come principe tale quale era, né con quello animo che doverebbe fare uno principe che avesse commiserazione delle calamità di uno altro principe, o considerazione che quello che era accaduto a lui potesse anche accadere a se medesimo. Allegava lo esempio di Adovardo, re d'Inghilterra, quello che fu chiamato Adovardo Gambiglione: che, essendogli presentato Giovanni re di Francia, preso nella giornata di Pottieri, dal principe di Gales suo figliuolo, non solo lo aveva ricevuto benignamente ma eziandio lasciatolo in libera custodia in tutto il tempo che stette prigione nella isola, aveva sempre familiarmente, conversato seco, ammessolo alle sue caccie e a suoi conviti; né però per questo avere perduto il prigione, o conseguito accordo manco favorevole per lui: da che essere nato tra loro tanta dimestichezza e confidenza che Giovanni, eziandio poi che, liberato, era stato piú anni in Francia, ritornasse volontariamente in Inghilterra per desiderio di rivedere l'ospite suo. Aversi memoria solo di due re di Francia che fussino stati fatti prigioni in battaglia, Giovanni e lui; ma essere non manco notabile la diversità degli esempli, poiché l'uno poteva essere allegato per esempio della benignità, l'altro per esempio della acerbità del vincitore. Ma non avere trovato animo piú placato o mansueto verso gli altri; anzi essersi, per i parlamenti avuti seco a Madril, certificato che egli, occupato da somma ambizione, non pensava ad altro che a mettere in servitú la Chiesa, Italia tutta e gli altri príncipi. Desiderare che il papa e i viniziani avessino animo di pensare alla salute propria, perché dimostrerebbe loro quanto fusse desideroso di concorrere alla salute comune, e di restrignersi con loro a pigliare l'armi contro a Cesare; non per ricuperare per sé lo stato di Milano o accrescere altrimenti la sua potenza, ma solo perché, col mezzo della guerra, potesse conseguire i figliuoli e Italia la libertà: poi che la troppa cupidità non aveva lasciato lume a Cesare di obligarlo in modo che e' fusse tenuto a stare nella capitolazione. Conciossiaché, e prima quando era nella rocca di Pizzichitone e poi in Spagna nella fortezza di Madril, avesse molte volte protestato a Cesare, poiché vedeva la iniquità delle dimande sue, che, se stretto dalla necessità cedesse a inique condizioni o quali non fusse in potestà sua di osservare, che non solo non le osserverebbe, anzi, reputandosi ingiuriato da lui per averlo astretto a promesse inoneste e impossibili, se ne vendicherebbe se mai ne avesse l'occasione. Né avere mancato di dire molte volte quello che per loro stessi potevano sapere, e che credeva anche essere comune a gli altri regni: che in potestà del re di Francia non era obligarsi, senza consentimento degli stati generali del reame, ad alienare cosa alcuna appartenente alla corona: non permettere le leggi cristiane che uno prigione di guerra stesse in carcere perpetua, per essere pena conveniente agli uomini di male affare, non trovata per supplizio di chi fusse battuto dalla acerbità della fortuna; sapersi per ciascuno essere di nessuno valore le obligazioni fatte violentemente in prigione, ed essendo invalida la capitolazione non restare anche obligata la sua fede, accessoria e confermatrice di quella; precedere i giuramenti fatti a Remes, quando con tanta cerimonia e con l'olio celeste si consacrano i re di Francia, per i quali si obligano di non alienare il patrimonio della corona: però non essere manco libero che pronto a moderare la insolenza di Cesare. E il medesimo desiderio mostrò di avere la madre, e la sorella di Alanson, che per essere stata vanamente in Spagna si lamentava assai della asprezza di Cesare, e tutti i principali della corte che intervenivano nelle faccende segrete; conchiudendo che, se e' venivano i mandati del pontefice e de' viniziani, si verrebbe subito alla conclusione della lega: la quale dicevano essere bene si maneggiasse in Francia, per avere piú facilità di tirarvi il re d'Inghilterra, come mostravano speranza grande dovesse succedere. Queste cose si dicevano con grande asseverazione dal re di Francia e da' suoi, ma in secreto erano molto diversi i suoi pensieri: perché, disposto totalmente a non dare a Cesare la Borgogna, aveva anche l'animo alieno di non muovere, se non costretto da necessità, le armi contro a lui; ma trattando di confederarsi con gli italiani, sperava che Cesare, per non cadere in tante difficoltà si indurrebbe a convertire in obligazione di danari l'articolo della restituzione della Borgogna; nel quale caso nessuno rispetto delle cose d'Italia l'arebbe ritenuto, per desiderio di riavere [i figliuoli], a convenire seco.

                                                 Ma i messi del pontefice e i viniziani, ricevuta tanta speranza da lui, significorono subito la risposta avuta, in tempo che in Italia crescevano la necessità e l'occasione del congiugnersi contro a Cesare. La necessità, perché il duca di Milano, il quale da principio, parte per colpa de' ministri suoi parte per il breve tempo che ebbe a provedersi, aveva messo poca vettovaglia in castello, né quella poca era stata dispensata con quella moderazione che si suole usare per gli uomini collocati in tale stato, faceva tutto dí intendere (come ebbe sempre mezzo di scrivere, ancora che e' fusse assediato nel castello) non avere da mangiare per tutto il mese di giugno prossimo, e che non si facendo altra provisione sarebbe necessitato rimettersi alla discrezione di Cesare: e se bene si credeva che, come è costume degli assediati, proponesse maggiore strettezza che in fatto non aveva, nondimeno si avevano molti riscontri che gli avanzava poco da vivere; e il lasciare andare il castello in mano di Cesare, oltre alla riputazione che si accresceva, faceva molto piú difficile la recuperazione di quello stato. Ma non meno pareva che crescesse l'occasione, per essere ridotti i popoli tutti in estrema disperazione. Conciossiaché, non mandando Cesare denari per pagare la sua gente, alla quale si dovevano già molte paghe, né vi essendo modo di provederne di altro luogo, avevano i capitani distribuito gli alloggiamenti della gente d'arme e de' cavalli per tutto il paese, gravandolo a contribuire, qual terra a questa compagnia quale a quell'altra; le quali erano necessitate ad accordare co' capitani e co' soldati questo peso con denari: il che si esercitava sí intollerabilmente che allora fusse costante fama, affermata da molti che avevano notizia delle cose di quello stato, che il ducato di Milano pagasse ciascuno dí a' soldati di Cesare ducati cinquemila, e si diceva che Antonio de Leva riscoteva per sé solo trenta ducati ciascuno giorno. La fanteria ancora, alloggiata in Milano e per l'altre terre, non solo voleva essere provista da' padroni delle case dove abitavano di tutto il vitto loro ma, riducendosi spesso molti fanti in una casa medesima, era il padrone di quella necessitato di provedere al vivere di tutti; e l'altre case, non avendo da dare loro gli alimenti, bisognava si componessino con denari: e toccavano talvolta a uno fante solo piú alloggiamenti, che, da uno in fuora che gli provedeva del vitto, gravava gli altri a pagargli denari.

                                                 Questa condizione miserabile, ed esercitata con tanta crudeltà, aveva disperato gli animi di tutto il ducato e specialmente quegli del popolo di Milano, non assuefatto, innanzi alla entrata del marchese di Pescara in Milano, a essere gravato di alimenti o di contribuzione per gli alloggiamenti de' soldati; e il quale, essendo potente di numero e di armi, ancoraché non in quella frequenza che soleva essere innanzi alla peste, non poteva tollerare tanta insolenza e acerbissime esazioni: dalle quali per liberarsi, o almeno per moderarle in qualche parte, benché i milanesi avevano mandati a Cesare imbasciadori, erano stati espediti con parole generali ma senza alcuna provisione. Né mancava anche Milano, non gravato secondo la sua proporzione di quel numero di soldati che l'altre terre, avere a pagare denari per le spese publiche, cioè di quelle che accadesse fare per ordine de' capitani per conservazione delle cose di Cesare: i quali denari esigendosi difficilmente, si usavano per i ministri proposti alle esazioni molte acerbità. Per le quali cose essendo condotto il popolo in estrema disperazione si convenneno popolarmente tra loro medesimi di resistere con l'armi in mano alle esazioni, e che ciascuno che fusse gravato dagli esattori chiamasse i vicini a difenderlo; i quali tutti, e dietro a loro gli altri che fussino chiamati, concorressino, al comandamento de' capitani deputati per molte parti della città, per resistere a quegli che facessino le esazioni e a' soldati che volessino favorirgli. Il quale ordine poi che fu dato, accadde che uno fabbro della città, essendo andati gli esattori a gravarlo, concitò per sua difesa i vicini; dietro a' quali concorrendo gli altri del popolo si fece per la città grandissima sollevazione: per la quale sedare essendo concorsi Antonio de Leva e il marchese del Guasto, e in compagnia loro alcuni de' principali gentiluomini di Milano, si quietò finalmente il tumulto, ma ricevuta promessa da' capitani che, contenti delle entrate publiche, non graverebbeno alcuno per altre imposizioni né metterebbeno in Milano altri soldati. Non durò questa concordia se non insino a l'altro giorno, perché essendo venuto avviso che alla città si accostavano nuovi soldati il popolo di nuovo prese l'armi, ma con maggiore tumulto e molto piú ordinato e con maggiore concorso che non si era fatto il dí precedente. Al quale impeto cominciando i capitani a temere di non potere resistere, ebbeno (cosí affermano molti) inclinazione di partirsi con la gente da Milano; e si crede che cosí arebbeno messo in esecuzione se il popolo avesse unitamente dimostrato di volere procedere alla offensione loro e de' soldati. Ma cominciorno imperitamente a saccheggiare la corte vecchia, dove risedeva il capitano della giustizia criminale con certo numero di fanti; cominciando a volere fare il principio da quello che doveva essere l'ultimo della loro esecuzione: dal quale disordine i capitani imperiali avendo ripreso animo, fortificate le loro strade e chiamata la maggiore parte de' fanti che stavano allo assedio del castello, si congregorono insieme per resistere se il popolo volesse assaltargli. Questo dette occasione a quegli che erano assediati di uscire fuora del castello ad assaltare i ripari fatti dalla parte di dentro, ma si ritirorono presto non vedendo avere soccorso dal popolo; il quale, parte per essere inesperto all'armi parte per portare alle case loro le robe guadagnate nel sacco di corte vecchia, non solo non faceva l'operazioni convenienti ma si andava piú presto risolvendo: con la quale occasione i capitani, interponendosi alcuni de' gentiluomini, sedorono anche questo tumulto, ma con promissione di cavare tutti i soldati della città e del contado di Milano, eccetto i fanti tedeschi che erano allo assedio del castello. Cosí facilmente dalla astuzia degli uomini militari si era fuggito uno gravissimo pericolo, elusa la imperizia dell'armi de' popolari, e i disordini ne' quali facilmente la moltitudine tumultuosa, e che non ha capi prudenti o valorosi, si confonde. Ma non essendo per queste concordie né dissolute le intelligenze né deposte l'armi del popolo, anzi dimostrandosi ogni dí disposizione di maggiore sollevazione, pareva a chi pensava di travagliare le cose di Cesare occasione di grandissimo momento; considerando massime le poche forze e l'altre difficoltà che avevano gli imperiali, e ricordandosi che, nelle guerre prossime, l'ardore maraviglioso che il popolo di Milano e dell'altre terre avevano avuto in favore loro era stato grandissimo fondamento alla difensione di quello stato.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.2

                                                  

                                                 Ragioni per cui il pontefice propende ad accordi col re di Francia contro Cesare. Decisione del pontefice e dei veneziani di conchiudere la confederazione col re di Francia. Assoldamento di milizie.

                                                  

                                                 Erano in questi termini le cose d'Italia quando sopravenneno gli avvisi di Francia della pronta disposizione e offerte del re, e della richiesta fatta da lui che e' si mandassino i mandati; e nel tempo medesimo gli imbasciadori del re d'Inghilterra che erano appresso al pontefice lo confortorono assai a pensare che si moderasse la grandezza di Cesare, e a dare animo al re di Francia di non osservare la capitolazione. Per le quali cose non solo i viniziani, che in ogni tempo e in occasioni molto minori avevano confortato a pigliare l'armi, ma il pontefice ancora, che molto difficilmente si disponeva a entrare in questo travaglio, gli parve essere necessitato a raccorre la somma de' discorsi suoi e non differire piú di fare qualche deliberazione. Le ragioni, che a' mesi passati l'avevano inclinato alla guerra, non solo erano le medesime ma ancora piú considerabili e piú potenti: perché e quanto tempo piú si erano allungate le pratiche Cesare aveva potuto scoprire meglio l'animo del pontefice essere alieno dalla grandezza sua; e il pontefice, per lo accordo che egli aveva fatto col re di Francia, era entrato in giusto sospetto di non potere ottenere condizioni eque da lui, e che gli avesse in animo di opprimere il resto d'Italia; e il pericolo ogni dí piú era presente, approssimandosi il castello di Milano alla dedizione. Incitavano l'animo suo le ingiurie che si rinnovavano dai capitani imperiali; i quali, dopo la capitolazione fatta a Madril, avevano mandato ad alloggiare nel piacentino e nel parmigiano uno colonnello di fanti italiani, dove facevano infiniti danni; e querelandosene il pontefice, rispondevano che per non essere pagati vi erano venuti di propria autorità. Commovevanlo eziandio le cose forse piú leggiere ma interpretate, come si fa nelle sospizioni e nelle querele, nella parte peggiore: perché Cesare aveva publicato in Spagna certi editti pragmatici contro alla autorità della sedia apostolica, per virtú de' quali essendo proibito a' sudditi suoi trattare cause beneficiali di quegli regni nella corte romana, ebbe ardire uno notaio spagnuolo, entrato nella ruota di Roma il dí deputato alla udienza, intimare in nome di Cesare ad alcuni che desistessino di litigare in quello auditorio. Né solo pareva che per la liberazione del cristianissimo fusse sciolto quel nodo che aveva tenuto implicati gli animi di ciascuno, che i franzesi per riavere il suo re fussino per abbandonare la lega, e la compagnia del re di Francia si conosceva di molto piú importanza alla impresa che non sarebbe stata quella della madre e del governo, ma ancora si vedevano maggiori l'altre occasioni. Perché la sollevazione del popolo di Milano pareva di non piccolo momento e, per la carestia che era di vettovaglie in quello stato, si giudicava fusse vantaggio grande assaltare gl'imperiali innanzi che per la ricolta avessino comodità di vettovagliare le terre forti, innanzi si perdesse il castello di Milano e che Cesare avesse piú tempo di mandare in Italia nuove genti o provisione di danari. E veniva in considerazione che il re di Francia, il quale per la memoria delle cose passate verisimilmente si diffidava del pontefice, non vedendo in lui ardore alla guerra, non si risolvesse a osservare la concordia fatta a Madril o a rifermarla di nuovo; né si dubitava che, congiunte insieme tante forze terrestri e marittime e la facoltà di continuare nelle spese, benché gravi, lungamente, che le condizioni di Cesare, abbandonato da tutti gli altri ed esausto di danari, sarebbeno molto inferiori nella guerra. Solamente faceva scrupolo in contrario il timore che il re, per il rispetto de' figliuoli non abbandonasse gli altri collegati, come si era dubitato non facesse il governo di Francia quando il re era prigione. Pure il caso si riputava diverso: perché, pigliando l'armi contro a Cesare con tante occasioni, pareva che sí grande fusse la speranza di ricuperargli con le forze, e con questo avesse a succedere con tanta sua riputazione, che e' non avesse causa di prestare orecchi a concordia particolare, la quale succederebbe non solo con ignominia sua ma eziandio con pregiudicio proprio, se non presente almeno futuro; perché il permettere che Cesare riducesse Italia ad arbitrio suo non poteva, alla fine, essere se non molto pericoloso al reame di Francia. Dalla quale ragione si inferiva similmente che avesse a esercitare ardentissimamente la guerra: perché pareva inutilissimo consiglio, confederandosi contro a Cesare, privarsi della recuperazione de' figliuoli con l'osservanza della concordia; e nondimeno, da altra parte, pretermettere quelle cose per le quali poteva sperare di conseguirgli gloriosamente con l'armi.

                                                 Considerorno forse, quegli che discorsono in questo modo, piú quello che ragionevolmente si doveva fare che non considerorno quale sia la natura e la prudenza de' franzesi: errore, nel quale certamente spesso si cade nelle consulte e ne' giudizi che si fanno della disposizione e volontà di altri. Anzi forse non considerorono perfettamente quanto i príncipi, consci il piú delle volte della inclinazione propria ad anteporre l'utilità alla fede, siano facili a persuadersi il medesimo degli altri príncipi; e che però il re di Francia, sospettando che il pontefice e i viniziani, come per l'acquisto del ducato di Milano fussino assicurati della potenza di Cesare, diventassino negligenti o alieni dagli interessi suoi, giudicasse essergli piú utile la lunghezza della guerra che la vittoria, come mezzo piú facile a indurre Cesare, stracco dai travagli e dalle spese, a restituirgli con nuova concordia i figliuoli. Ma movendo il pontefice le ragioni precedenti, e molto piú la penitenza di avere aspettato oziosamente il successo della giornata di Pavia, e lo essere statone morso e ripreso di timidità da ciascuno, le voci di tutti i suoi ministri, di tutta la corte, di tutta Italia, che lo increpavano che la sedia apostolica e Italia tutta fussino ridotte in tanti pericoli per colpa sua, deliberò finalmente non solo di confederarsi col re di Francia e con gli altri contro a Cesare ma di accelerarne la conclusione, e per gli altri rispetti e per questo massime, che le provisioni potessino essere a tempo a soccorrere il castello di Milano innanzi che per la fame si arrendesse agli inimici. La quale necessità fu cagione di tutti i mali che seguitorono: perché altrimenti, procedendo piú lentamente, il pontefice, dalla autorità del quale dependevano in questa agitazione non poco i viniziani, arebbe aspettato se Cesare, commosso dalla inosservanza del re di Francia, proponesse per sicurtà comune quelle condizioni che prima aveva denegate. E quando pure fusse stato necessitato a pigliare le armi, non essendo costretto a dimostrarne al re di Francia tanta necessità, arebbe facilmente ottenute da lui per sé e per i viniziani migliori condizioni; ma senza dubbio sarebbono stati meglio distinti gli articoli della confederazione, stabilita maggiore sicurtà della osservanza, e ultimatamente non cominciata la guerra se prima non si fussino mossi i svizzeri e ridotte in essere tutte le provisioni necessarie, e forse entrato nella confederazione il re di Inghilterra: col quale, per la distanza del cammino, non s'ebbe tempo a trattare. Ma parendo al pontefice e al senato viniziano, per il pericolo del castello, di somma importanza la celerità, espedirono subito ma secretissimamente i mandati di fare la confederazione agli uomini loro; con condizione che, per minore dilazione, si riferissino quasi a quegli medesimi capitoli che prima erano stati trattati con madama la reggente.

                                                  

                                                 Ma sopravenendo pure tuttavia avvisi nuovi della necessità del castello, entrò il pontefice in considerazione che, essendo necessario che, per essere impedito il cammino diritto da Roma alla corte di Francia, gli spacci andassino con lungo circuito per il cammino de' svizzeri, e che essendo facil cosa che nel capitolare nascesse qualche difficoltà per la quale di necessità si interponesse tempo, che potrebbe accadere che e' si tardasse tanto a conchiudere la confederazione che, se si differisse a cominciare dopo la conclusione a fare le provisioni per soccorrere il castello, era da dubitare non fussino fuora di tempo: e però, consultato questo pericolo co' viniziani, stimolati ancora dagli agenti del duca di Milano che erano a Roma e a Vinegia e da molti partigiani suoi che proponevano vari partiti, si risolverono preparare tante forze che paressino bastanti a soccorrere il castello, per usarle subito che di Francia si fusse avuta la conclusione della lega; e intratanto dare speranza al popolo di Milano, e fomentare varie pratiche proposte loro nelle terre di quello stato. Però unitamente conchiuseno che i viniziani spignessino a' confini loro, verso il fiume dell'Adda, il duca d'Urbino con le loro genti d'arme e seimila fanti italiani; e il pontefice mandasse a Piacenza il conte Guido Rangone con seimila fanti. E perché e' pareva necessario avere uno grosso numero di svizzeri (anzi il duca di Urbino faceva intendere a' viniziani essere necessario a conseguire totalmente la vittoria avere dodicimila svizzeri), e il pontefice e i viniziani, per non si scoprire tanto contro a Cesare insino non avessino certezza che la lega fusse fatta, non volevano mandare in Elvezia uomini loro a levargli, fu udito Gianiacopo de' Medici milanese; il quale, mandato dal duca di Milano (per essere intervenuto allo omicidio di Monsignorino Visconte) castellano della rocca di Mus, conosciuta l'occasione de' tempi e la fortezza del luogo, se ne era fatto padrone. Il quale, facendo intendere che molti mesi innanzi aveva tenute pratiche con vari capitani svizzeri per questo effetto, offerse di fare muovere, subito che gli fussino mandati seimila ducati, seimila svizzeri, non soldati per decreto de' cantoni ma particolarmente; a' quali come fussino scesi nel ducato di Milano s'avesse a dare il compimento della paga. E, come accade nelle imprese che da uno canto sono reputate facili dall'altro sono sollecitate dalla strettezza del tempo, non solo l'offerta di costui, essendo massime approvata dai ministri del duca di Milano e da Ennio vescovo di Veroli, al quale il pontefice prestava fede nelle cose de' svizzeri per averle in nome della Chiesa trattate lungamente, e però era stato per suo ordine molti mesi a Brescia, e allora stava appresso al proveditore viniziano, donde continuamente trattava con molti di quella nazione, fu senza pensare piú innanzi accettata dal papa e da' viniziani; ma ancora fu udito in Vinegia Ottaviano Sforza vescovo di Lodi che offeriva di levarne facilmente numero grande, e da loro, subito, senza consultarne altrimenti col pontefice, spedito in Elvezia per soldarne altri seimila, nel modo medesimo e co' medesimi pagamenti. Dalle quali cose male intese nacque, come di sotto si dirà, principio grande di mettere in disordine la impresa che con tanta speranza si cominciava.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.17, cap.3

                                                  

                                                 Dichiarazioni e proposta del re di Francia al viceré riguardo alle condizioni concluse con Cesare, e indugio della conclusione degli accordi col pontefice e coi veneziani. Sdegno di Cesare per la proposta del re di Francia e sue deliberazioni. Conclusione e patti della lega fra il pontefice i veneziani ed il re di Francia. Il pontefice ed i veneziani deliberano la rottura della guerra.

                                                  

                                                 Ma mentre che queste cose si preparano in Italia, cominciando Cesare a sospettare delle dilazioni interposte alla ratificazione, il viceré di Napoli, il quale insieme con gli statichi e con la regina Elionora si era fermato nella terra di Vittoria per condurgli al re subito che avesse adempiuto le cose contenute nella capitolazione, andò e con lui Alarcone, per commissione di Cesare, al re di Francia, il quale da Baiona si era trasferito a Cugnach, per certificarsi interamente della sua intenzione. Dal quale benché e' fusse ricevuto con grandissimo onore e carezze, e come ministro di Cesare e come quello da chi il re cristianissimo riconosceva in grande parte la sua liberazione, lo trovò in tutto alieno da volere rilasciare la Borgogna; scusandosi ora che non potrebbe mai avere il consentimento del regno, ora che non arebbe mai volontariamente consentito a una promessa che per essere di tanto pregiudizio alla corona di Francia era impossibile a lui l'osservarla: ma che, desiderando quanto poteva di mantenersi l'amicizia cominciata con Cesare e dare perfezione al parentado, sarebbe contento, tenendo fermo tutte l'altre cose convenute tra loro, pagare a Cesare in luogo del dargli la Borgogna due milioni di scudi; dimostrando che non altro lo indurrebbe a confermare con questa moderazione la confederazione fatta a Madril che la inclinazione grande che aveva di essere in bona intelligenza con Cesare, perché non gli mancavano né offerte né stimoli del pontefice, del re d'Inghilterra e de' viniziani per incitarlo a rinnovare la guerra. La quale risposta e ultima sua deliberazione e il viceré significò a Cesare, e il re vi mandò uno de' suoi segretari a esporgli il medesimo. Donde procedette che, benché i mandati del pontefice e de' viniziani, prima molto desiderati, fussino arrivati nel tempo medesimo, il re, inclinato piú alla concordia con Cesare, e però deliberato di aspettare la risposta sopra questo partito nuovo del quale il viceré gli aveva dato speranza, cominciò apertamente a differire la conclusione della confederazione: non dissimulando totalmente, perché era impossibile tenerlo occulto, di trattare nuova concordia con Cesare, la quale essendogli stata proposta dal viceré non poteva fare nocumento alcuno l'udirla; e affermando efficacemente, benché altrimenti avesse in animo, che non farebbe mai conclusione alcuna se con la restituzione de' figliuoli non fusse anche congiunta la relassazione del ducato di Milano e la sicurtà di tutta Italia. La quale cosa sarebbe stata bastante a intepidire l'animo del pontefice se, per il sospetto fisso nell'animo, non avesse giudicato che il confederarsi col re di Francia fusse unico rimedio alle cose sue.

                                                 Ma è cosa maravigliosa quanto l'animo di Cesare si perturbasse ricevuto che ebbe l'avviso del viceré, e intesa la esposizione del segretario franzese; perché gli era molestissimo cadere della speranza della recuperazione della Borgogna desiderata sommamente da lui, per la amplificazione della sua gloria e per la opportunità di quella provincia a cose maggiori. Indegnavasi grandemente che il re di Francia, partendosi dalle promesse e dalla fede data, facesse dimostrazione manifesta a tutto il mondo di disprezzarlo; e gli pungeva anche l'animo non mediocremente una certa vergogna che, avendo contro al consiglio di quasi tutti i suoi, contro al giudicio universale di tutta la corte, contro a quello che, poi che si era inteso l'accordo fatto, gli era stato predetto di Fiandra da madama Margherita sorella del padre suo e da tutti i ministri suoi di Italia, misurata male la importanza e la condizione delle cose, si fusse persuaso che il re di Francia avesse a osservare. Ne' quali pensieri, calcolato diligentemente quel che convenisse alla degnità propria e in quali pericoli e difficoltà rimanessino in qualunque caso le cose sue, deliberò di non alterare il capitolo che parlava della restituzione di Borgogna: piú presto, concordandosi col pontefice, consentire alla reintegrazione di Francesco Sforza, come se piú fusse secondo il decoro suo perdonare a uno principe minore che, cedendo alla volontà di uno principe potente ed emulo della grandezza sua, fare quasi confessione di timore; piú presto avere la guerra pericolosissima con tutti che rimettere la ingiuria ricevuta dal re di Francia. Perché dubitava che il pontefice, vedendo essere stata sprezzata l'amicizia sua, non avesse alienato totalmente l'animo da lui; e gli accresceva il sospetto lo intendere che oltre allo avere mandato uno uomo in Francia a congratularsi, vi mandava publicamente uno imbasciadore; e molto piú che nuovamente aveva condotto a' soldi suoi, sotto colore di assicurare le marine dello stato della Chiesa dai mori, Andrea Doria con otto galee e con trentacinquemila ducati di provisione l'anno: la quale condotta, per la qualità della persona e per non avere mai prima il pontefice pensato a potenza marittima, e per essere egli stato piú anni agli stipendi del re di Francia, gli dava sospizione non fusse fatta con intenzione di turbare le cose di Genova. Però, preparandosi a qualunque caso, fece in uno tempo medesimo molte provisioni: sollecitò la passata in Italia del duca di Borbone, la quale prima procedeva lentamente, ordinando che di Italia venissino a Barzalona sette galee sue che erano a Monaco per aggiugnerle alle tre galee di Portondo, e sollecitando che in Italia portasse provisione di centomila ducati, perché l'andata sua senza denari sarebbe stata vana; destinò don Ugo di Moncada al pontefice, con commissione, secondo publicava, da sodisfargli: ma questo limitatamente, perché volle andasse prima alla corte del re di Francia, acciò che, inteso dal viceré se vi era speranza alcuna che il re volesse osservare, o non passasse piú innanzi o, passando, variasse le commissioni secondo lo stato e la necessità delle cose.

                                                 Ma a ogni consiglio salutifero del pontefice si opponeva il pericolo dello arrendersi il castello di Milano, già vicino alla consunzione; il timore che tra il re di Francia e Cesare non si stabilisse, con qualche mezzo, la congiunzione; la incertitudine di quel che avesse a partorire la venuta di don Ugo di Moncada, nella quale era sospetto l'avere prima a passare per la corte di Francia; sospette di poi, quando bene passasse in Italia, le simulazioni e le arti loro. Però, sollecitando insieme co' viniziani la conclusione della confederazione, il re finalmente, poiché per la venuta di don Ugo ebbe compreso Cesare essere alieno da alterare gli articoli della capitolazione, temendo che il differire piú a confederarsi non inducesse il pontefice a nuove deliberazioni, e giudicando che per questa confederazione sarebbeno appresso a Cesare in maggiore esistimazione le cose sue, e che forse il timore piegherebbe in qualche parte l'animo suo, stimolato ancora a questo medesimo dal re d'Inghilterra, il quale piú con le persuasioni che con gli effetti favoriva questa conclusione, ristrinse le pratiche della lega. La quale il decimosettimo dí di maggio dell'anno millecinquecentoventisei si conchiuse, in Cugnach, tra gli uomini del consiglio procuratori del re da una parte, e gli agenti del pontefice e de viniziani dall'altra, in questa sentenza: che tra il pontefice il re di Francia i viniziani e il duca di Milano (per il quale il pontefice e i viniziani promesseno la ratificazione) fusse perpetua lega e confederazione, a effetto di fare lasciare libero il ducato di Milano a Francesco Sforza e di ridurre in libertà i figliuoli del re: che a Cesare si intimasse la lega fatta, e fusse in facoltà sua di entrarvi in termine di tre mesi, restituendo i figliuoli al re, ricevuta per la liberazione loro una taglia onesta che avesse a essere dichiarata dal re di Inghilterra, e rilasciando anche il ducato di Milano interamente a Francesco Sforza, e gli altri stati di Italia nel grado che erano innanzi si cominciasse l'ultima guerra: che di presente, per la liberazione di Francesco Sforza assediato nel castello di Milano e per la ricuperazione di quello stato, si movesse la guerra con ottocento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e ottomila fanti per la parte del pontefice, e per la parte de viniziani con ottocento uomini d'arme mille avalli leggieri e ottomila fanti, e del duca di Milano con quattrocento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e quattromila fanti, come prima ne avesse la possibilità; e intratanto mettessino per lui i quattromila fanti il pontefice e i viniziani: il re di Francia mandasse subito in Italia cinquecento lance, e durante la guerra pagasse ogni mese al pontefice e a' viniziani quarantamila scudi, co' quali si conducessino fanti svizzeri: che il re rompesse subito la guerra a Cesare di là da i monti, da quella banda che piú gli paresse opportuno, con esercito almanco di dumila lance e di diecimila fanti e numero sufficiente d'artiglierie; armasse dodici galee sottili e i viniziani tredici a spese proprie; unisse il pontefice a queste le galee con le quali aveva condotto Andrea Doria; e che la spesa delle navi necessarie per detta armata fusse comune; con la quale armata si navigasse contro a Genova; e dipoi vinto o indebolito in Lombardia l'esercito cesareo si assaltasse potentemente per terra e per mare il reame di Napoli; del quale, quando si acquistasse, avesse a essere investito re chi paresse al pontefice, benché in uno capitolo separato si aggiugnesse che non potesse disporne senza consenso de' collegati, riservatogli nondimeno i censi antichi che soleva avere la sedia apostolica e uno stato per chi paresse a lui, di entrata di quarantamila ducati: che, acciò che il re di Francia avesse certezza che la vittoria che si ottenesse in Italia e l'acquisto del reame di Napoli faciliterebbe la liberazione de' figliuoli, che in tale caso, volendo Cesare infra quattro mesi dopo la perdita di quel reame entrare nella confederazione con le condizioni soprascritte, gli fusse restituito, ma non accettando questa facoltà, avesse il re di Francia in perpetuo sopra il reame di Napoli uno censo di ducati settantacinquemila l'anno: non potesse il re di Francia, in tempo alcuno né per qualunque cagione, molestare Francesco Sforza nel ducato di Milano, anzi fusse obligato insieme con gli altri a difenderlo contro a ciascuno e a procurare quanto potesse che tra i svizzeri e lui si facesse nuova confederazione, ma avesse da lui censo annuo di quella quantità che paresse al pontefice e a' viniziani, non potendo però arbitrare manco di cinquantamila ducati l'anno: avesse Francesco Sforza a ricevere ad arbitrio del re moglie nobile di sangue franzese, e fusse obligato ad alimentare condecentemente Massimiliano Sforza suo fratello in luogo della pensione annua la quale riceveva dal re: fusse restituita al re la contea di Asti, e ricuperandosi Genova vi avesse quella superiorità che vi soleva avere per il passato; e che volendo Antoniotto Adorno, che allora ne era doge, accordarsi con la lega, fusse accettato, ma riconoscendo il re di Francia per superiore, nel modo che pochi anni innanzi aveva fatto Ottaviano Fregoso: che da tutti i collegati fusse richiesta a Cesare la restituzione de' figliuoli regi, e ricusando farlo gli fusse dinunziato, in nome di tutti, che i confederati non pretermetterebbeno cosa alcuna per conseguirla; e che finita la guerra di Italia, o almanco preso il regno di Napoli, e indebolito talmente lo esercito cesareo che e' non fusse da temerne, fussino obligati aiutare il re di Francia di là da' monti contro a Cesare, con mille uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e diecimila fanti, o di danari in luogo delle genti, a elezione del re: non potesse alcuno de' confederati senza consentimento degli altri convenire con Cesare; al quale fusse permesso, in caso entrasse nella confederazione, andare a Roma per la corona imperiale, con numero di gente non formidabile, da dichiararsi dal pontefice e da' viniziani: che morendo eziandio alcuno de' collegati la lega restasse ferma, e che il re di Inghilterra ne fusse protettore e conservatore, con facoltà di entrarvi; ed entrandovi si desse a lui nel regno di Napoli uno stato di entrata annua di ducati trentacinquemila, e uno di diecimila, o nel regno medesimo o in altra parte d'Italia, al cardinale eboracense. Recusò il pontefice che in questa confederazione fusse compreso il duca di Ferrara, ancora che desiderato dal re di Francia e da' viniziani; anzi ottenne che nella confederazione si esprimesse, benché sotto parole generali, che i confederati fussino obbligati ad aiutarlo alla recuperazione di quelle terre delle quali era in disputa con la Chiesa. De' fiorentini non fu dubbio che effettualmente non fussino compresi nella confederazione, disegnando il pontefice non solo valersi delle genti d'arme e di tutte le forze loro ma ancora di fargli concorrere seco, anzi sostentare per la maggiore parte le spese della guerra: ma per non turbare a quella nazione i commerci che avevano nelle terre suddite a Cesare, né mettere in pericolo i mercatanti loro, non furono nominati come principalmente collegati ma detto solamente che, per rispetto del pontefice, godessino tutte le esenzioni privilegi e benefici della confederazione come espressamente compresi, promettendo il pontefice per loro che per modo alcuno non sarebbeno contro alla lega. Né si providde chi avesse a essere capitano generale dello esercito e della guerra, perché la brevità del tempo non patí che si disputasse in sulle spalle di chi, per l'autorità e qualità sua, e per essere confidente di tutti, fusse bene collocato tanto peso, non essendo massime facile trovare persona in chi concorressino tante condizioni.

                                                 Stipulata la lega, il re, il quale non aveva ancora in fatto rimosso l'animo dalle pratiche col viceré di Napoli, differí di ratificarla e di dare principio alla espedizione delle genti d'arme e de' quarantamila ducati per il primo mese, insino a tanto venisse la ratificazione del pontefice e de' viniziani; la quale dilazione benché turbasse la mente loro, nondimeno, strignendoli a andare innanzi le medesime necessità, fatta la ratificazione, deliberorno di cominciare subitamente, sotto titolo di volere soccorrere il castello di Milano, la rottura della guerra. E però il pontefice, il quale prima aveva mandato a Piacenza con le sue genti d'arme e con cinquemila fanti il conte Guido Rangone governatore generale dello esercito della Chiesa, vi mandò di nuovo con altri fanti e con le genti d'arme de' fiorentini Vitello Vitelli, che ne era governatore, e Giovanni de' Medici, quale fece capitano generale della fanteria italiana; e per luogotenente suo generale nello esercito e in tutto lo stato della Chiesa, con pienissima e quasi assoluta potestà, Francesco Guicciardini, allora presidente della Romagna. E i viniziani da altra parte augumentorno l'esercito loro, del quale era capitano generale il duca d'Urbino e proveditore Pietro da Pesero, fermandolo a Chiari in bresciano, con commissione che l'uno e l'altro esercito procedesse al danno de' cesarei senza rispetto o dilazione alcuna.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.4

                                                  

                                                 Tentativi di accordi di Ugo di Moncada a nome di Cesare col duca di Milano. Tentativi di accordi di Ugo di Moncada a nome di Cesare col pontefice. Lettere di Antonio de Leva intercette dal luogotenente del pontefice. Attesa in Italia di soldati svizzeri e ragioni del loro ritardo. Tumulti provocati a Milano dai capitani cesarei.

                                                  

                                                 Era intratanto arrivato a Milano don Ugo di Moncada; il quale, benché la lega stipulata fusse ancora occulta al viceré e a lui, nondimeno, diffidando per le risposte del re che le cose si potessino piú ridurre alla sodisfazione di Cesare aveva seguitato il suo cammino in Italia: dove, menato seco nel castello il protonotario Caracciolo, fatta al duca ampia fede della benignità di Cesare, lo tentò che si rimettesse alla volontà sua. Ma rispondendo il duca che, per le ingiurie fattegli dai suoi capitani, era stato necessitato a ricorrere agli aiuti del pontefice e de' viniziani, senza partecipazione de' quali non era conveniente disponesse di se medesimo, gli dette don Ugo speranza la intenzione di Cesare essere che le imputazioni che egli erano date si vedessino sommariamente per il protonotario Caracciolo, prelato confidentissimo a lui; accennando farsi questo piú presto per restituirgli lo stato con maggiore conservazione della riputazione di Cesare che per altra cagione, e che parlato che avesse col pontefice darebbe perfezione a queste cose: e nondimeno non consentí che prima si levasse l'assedio, e si promettesse di non innovare cosa alcuna, come il duca faceva instanza. Credettesi, e cosí divulgò poi la fama, che le facoltà date da Cesare a don Ugo fussino molto ampie, non solo di convenire col pontefice con la reintegrazione del duca di Milano ma eziandio di convenire col duca solo, assicurandosi che, restituito nello stato, non nocesse alle cose di Cesare; ma non commesso cosí se non con limitazione di quello che consigliassino i tempi e la necessità; e che don Ugo, considerando in che estremità fusse ridotto il castello, e che la concordia col duca non giovava alle cose di Cesare se non quanto fusse mezzo a stabilire la concordia col pontefice e co' viniziani, giudicasse inutile il comporre con lui solo. Feciono dipoi don Ugo e il protonotario condurre a Moncia il Morone, che era prigione nella rocca di Trezo piú presto perché il protonotario pigliasse informazione da lui, avendo a essere giudice della causa, che per altra cagione.

                                                 Da Milano andò da poi don Ugo a Roma, avendo prima scritto a Vinegia che mandassino autorità sufficiente allo oratore loro di Roma per potere trattare le cose occorrenti: dove arrivato si presentò insieme col duca di Sessa innanzi al pontefice, proponendogli con parole magnifiche essere in potestà sua accettare la pace o la guerra; perché Cesare, ancora che per la sua buona mente avesse inclinazione piú alla pace, era nondimeno e con l'animo e con le forze parato e a l'una e a l'altra. A che avendogli risposto il pontefice generalmente, dolendosi però che i mali termini usati seco dai suoi ministri e la tardità della venuta sua fussino cagione che, dove prima era libero di se medesimo, si trovasse ora obligato ad altri, ritornati a lui il dí seguente, gli esposeno la intenzione di Cesare essere: lasciare libero il ducato di Milano a Francesco Sforza, deponendosi però il castello in mano del protonotario Caracciolo insino a tanto che, per onore di Cesare, avesse conosciuto la causa, non sostanzialmente, ma per apparenza e cerimonia; terminare con modo onesto le differenze sue co' viniziani; levare lo esercito di Lombardia co' pagamenti altre volte ragionati; né, in contracambio di queste cose, ricercare altro da lui se non che non si intromettesse tra Cesare e il re di Francia. A questa proposta rispose il pontefice: credere che e' fusse noto a tutto il mondo quanto avesse sempre desiderato di conservare l'amicizia con Cesare, né avere mai ricercatolo di maggiori cose di quelle che spontaneamente gli offeriva; le quali, desiderando lui piú il bene comune che lo interesse proprio, non potevano essere piú secondo la sua sodisfazione: continuare e ora nel medesimo proposito, ancora che gli fussino state date molte cagioni di alterarlo; e nondimeno udire al presente con maggiore molestia d'animo che le gli fussino concedute che non aveva udito quando gli erano state denegate, perché non era piú in potestà sua, come era stato prima, di accettarle: il che non essere proceduto per colpa sua ma per l'avere Cesare tardato tanto a risolversene: la quale [tardità] aveva causato che, non gli essendo mai stata porta speranza alcuna di assicurare le cose comuni d'Italia, e in questo mezzo [vedendo] consumarsi il castello di Milano, era stato necessitato, per la salute sua e degli altri, confederarsi col re di Francia; senza il quale, non volendo mancare alla osservanza della fede, non poteva piú determinare cosa alcuna. Nella quale risposta avendo, non ostante molte replicazioni in contrario, perseverato costantemente, don Ugo, poiché gli ebbe parlato piú volte invano, malcontento, ed egli e i capitani imperiali, che, esclusa la speranza della pace, le cose tendessino a manifesta guerra, la quale, per la potenza della lega e per le condizioni disordinate che avevano, riputavano molto difficile il sostenere, [se ne andò nelle terre dei Colonnesi].

                                                 Furono dal luogotenente del pontefice intercette lettere che Antonio de Leva scriveva al duca di Sessa, avvisandolo della mala disposizione del popolo di Milano, e che la cosa non teneva altro rimedio che l'aiuto di Dio; e lettere di lui medesimo e del marchese del Guasto scritte a don Ugo dopo la partita sua da Milano, dove lo sollecitavano della pratica dello accordo, facendo instanza che e' gli avvisasse subito del seguito, con ricordargli il pericolo loro e dello esercito di Cesare.

                                                 Ma non era già tanta confidenza negli animi di chi aveva a disporre delle forze della lega quanto era il timore de' capitani imperiali. Perché il duca di Urbino, nel quale aveva in fatto a consistere il governo degli eserciti, per il titolo di capitano generale che aveva delle genti viniziane, e per non vi essere uomo eguale a lui di stato, di autorità e di reputazione, stimando forse piú che non era giusto la virtú delle genti spagnuole e tedesche e diffidando smisuratamente de' soldati italiani, aveva fisso nello animo di non passare il fiume della Adda se con l'esercito non erano almanco cinquemila svizzeri; anzi dubitando che, se solamente con le genti de' viniziani passava il fiume dell'Oglio, gli imperiali passassino Adda e andassino ad assaltarlo, faceva instanza che lo esercito ecclesiastico, che già era a Piacenza, passato il Po sotto Cremona, si andasse a unire con quello de' viniziani, per accostarsi poi a Adda e aspettare in su le rive di quel fiume e in alloggiamento forte la venuta de' svizzeri. La quale, oltre alla natura loro, aveva riscontrato in molte difficoltà, essendo stata data imprudentemente al castellano di Mus e al vescovo di Lodi la cura del condurli: perché la vanità del vescovo di Lodi era poco efficace a questo maneggio, e il castellano era intento principalmente a fraudare una parte de' danari mandatigli per pagarne i svizzeri; né avevano, l'uno o l'altro di loro, tanta autorità appresso a quella nazione che fusse bastante a farne levare, massime con sí piccola quantità di danari, numero sí grande, cosí presto come sarebbe stato di bisogno; e questa anche si corrompeva per la emulazione nata tra loro, intenti piú ad ambizione e a gli interessi particolari che ad altro. Aggiunsono anche qualche difficoltà gli agenti che erano per il re di Francia nelle leghe di Elvezia, perché non avevano notizia quale fusse sopra questa cosa la mente del re né se era contraria o conforme alla sua intenzione; perché, non per inavvertenza ma studiosamente, per quegli consigli che spesso parendo molto prudenti riescono troppo acuti, si era pretermesso di dare notizia al re di questa espedizione. Perché Alberto Pio, oratore regio appresso al pontefice, aveva dimostrato essere pericolo che se il re intendesse, innanzi alla conclusione della lega, l'ordine dato di soldare i svizzeri non andasse piú tardo a conchiuderla, parendogli già a ogni modo che senza lui fusse cominciata dal pontefice e da' viniziani la guerra con Cesare. Cosí ritardandosi la venuta de' svizzeri si ritardava il piú principale e il piú potente de' fondamenti disegnati per soccorrere il castello di Milano, non ostante che il vescovo e il castellano della venuta loro prestissima dessino quotidianamente certa e presentissima speranza.

                                                 Ma i capitani cesarei, poi che veddeno prepararsi scopertamente la guerra, per non avere in uno tempo medesimo a combattere con gli inimici di dentro e di fuora, [deliberorono] di assicurarsi del popolo di Milano; il quale diventando ogni dí piú insolente non solo negava loro tutte le provisioni dimandavano, ma eziandio se alcuno de' soldati spagnuoli fusse trovato per la città separato dagli altri era ammazzato da i milanesi. Captata adunque occasione dai disordini che si facevano per la terra, dimandorno che alcuni capitani del popolo si uscissino di Milano; donde nata sollevazione furono alcuni spagnuoli che andavano per Milano ammazzati da certi popolari: e però Antonio de Leva e il marchese, fatto tacitamente accostare le genti a Milano, protestato non essere piú obligati agli accordi fatti a' dí passati, il dí decimosettimo di giugno fatto ammazzare in loro presenza, per dare principio al tumulto, uno della plebe che non aveva fatto loro reverenza, e dopo lui tre altri, e usciti degli alloggiamenti con una squadra di fanti tedeschi, detteno cagione al popolo di dare all'armi. Il quale, se bene nel principio sforzò la corte vecchia e il campanile del vescovado dove era guardia di fanti italiani, combattendo alla fine senza ordine, come fanno i popoli imperiti, piú con le grida che con l'armi, ed essendo offesi molto dagli scoppiettieri, posti ne' luoghi eminenti che prima avevano occupati, ne erano feriti e ammazzati molti di loro: in modo che, crescendo continuamente i disordini e il terrore, e avendo i fanti tedeschi cominciato a mettere fuoco nelle case vicine, e già approssimandosi alla città le fanterie spagnuole chiamate da capitani, il popolo, temendo degli estremi mali, convenne che i suoi capitani e molti altri de' popolari, i quali vi consentirono, si partissino di Milano, e che la moltitudine deponesse l'armi sottomettendosi alla obbedienza de' capitani. I quali accelerorono di fare cessare con queste condizioni il tumulto innanzi che i fanti spagnuoli entrassino dentro, dubitando che, se entravano mentre che l'una e l'altra parte era in su l'armi, non fusse in potestà loro di raffrenare l'impeto militare che la non andasse a sacco: dalla quale cosa aveano l'animo alieno, e per timore che lo esercito arricchito di sí grossa preda non si dissolvesse o diminuisse notabilmente, come perché, considerando la carestia de' danari e l'altre difficoltà che arebbeno nella guerra, giudicavano essere piú utile conservare quella città, per potervi lungamente dentro pascere lo esercito, che consumare in uno giorno tutto il nervo e lo spirito che aveva.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.5

                                                  

                                                 Acquisto di Lodi da parte dei collegati. Importanza di tale acquisto; attesa degli svizzeri e spostamenti dell'esercito veneto-pontificio; dispareri fra i capi dell'esercito. Arrivo di soldati svizzeri all'esercito dei collegati; deliberazione di accostarsi a Milano per gli aiuti al castello.

                                                  

                                                 Pareva adunque che le cose della lega non procedessino con quella prosperità che gli uomini si avevano promesso da principio, essendosi già trovate tante difficoltà nella venuta de' svizzeri e mancato il fondamento del popolo di Milano. Ma nuovo accidente che sopravenne gli rendé la riputazione e la facilità del vincere molto maggiore e piú manifesta che prima. Eransi, in tanta mala contentezza anzi nella estrema disperazione del ducato di Milano, tenute, già qualche mese, per mezzo di varie persone, diverse pratiche di novità quasi in ogni città di quello stato; ma riuscendo l'altre vane, ne ebbe effetto una, tenuta dal duca d'Urbino e dal proveditore viniziano, nella città di Lodi, con Lodovico Vistarino gentiluomo di quella città. Il quale, movendosi o per essere stato antico servidore della casa Sforzesca o dalla compassione della sua patria, trattata da Fabbrizio Maramaus, colonnello di mille cinquecento (il Capella dice di settecento) fanti napoletani, con la medesima asperità che dagli spagnuoli e da i tedeschi era trattato Milano, deliberò di mettere dentro le genti de' viniziani, non ostante che (secondo scrive il Capella) fusse soldato degli imperiali: ma egli affermava, e il duca di Urbino lo confermava, che aveva prima dimandato e ottenuto licenza, sotto escusazione di non potere piú intrattenere senza danari i fanti a' quali era preposto. L'ordine della cosa fu stabilito in questo modo: che la notte de' ventiquattro di giugno, Malatesta Baglione, con tre o quattromila fanti de' viniziani, si accostasse, quasi in sul fare del dí, alle mura, dalla banda di certo bastione, per essere messo dentro dal Vistarino. Il quale poco [innanzi], accostatosi con due compagni a quello bastione il quale guardavano sei fanti, come per rivedergli, e seguitato da alcuni i quali aveva occultati in certe case vicine, occupò il bastione, ammazzate (secondo scrive il Capella) con tanta prestezza le guardie che non fu sentito strepito alcuno; perché, se bene aveva dato prima il nome secondo il costume militare, essi sospettando erano venuti seco all'armi: né fu senza pericolo, essendo concorsi alcuni allo strepito, di non riperdere il bastione, perché cominciorno a combattere; nella quale quistione Lodovico fu ferito. Ma essendo già ridotto all'ultima necessità, arrivò Malatesta con le genti; le quali salite in sul bastione medesimo con le scale entrorono nella terra: donde Fabrizio Maramaus, il quale, sentito lo strepito, veniva verso le mura con una parte de' suoi fanti, fu costretto a ritirarsi nella rocca. La terra fu vinta; e la piú parte de' suoi fanti, che erano alloggiati separatamente per la città, svaligiati e fatti prigioni. Nella quale arrivò non molto poi, con una parte delle genti, il duca di Urbino; il quale essendo, per approssimarsi piú, il dí precedente andato ad alloggiare a Orago in sul fiume dell'Oglio, e passatolo per ponte fatto a tempo la notte medesima, come intese l'entrata di Malatesta passò per ponte simile il fiume dell'Adda, e posto in Lodi maggiore presidio perché si difendesse se per la rocca entrava soccorso, ritornò subito all'esercito: ma non perciò vi andò, secondo riferiva Pietro da Pesero, senza qualche titubazione e perplessità. Ma venuto l'avviso a Milano, il marchese del Guasto con alcuni cavalli leggieri e con tremila fanti spagnuoli, co' quali era Giovanni d'Urbina, si spinse a Lodi senza tardare; e messa la fanteria senza ostacolo per la porta del soccorso nella rocca, situata in modo che si poteva entrarvi per una via coperta naturale, senza pericolo di essere battuto o offeso, da i fianchi della città (essendo già, come io credo, statovi e partito il duca di Urbino), dalla rocca entrò subito nella città, e si condusse insino in sulla piazza; in sulla quale la gente menata da Malatesta e il rinfrescamento che era venuto poi aveva fatto la sua testa, poste in guardia molte case e la strada che andava alla porta donde erano entrati, per potersene uscire salvi se gli imperiali gli soprafacessino. Combattessi al principio gagliardamente, e fu opinione di molti che se gli spagnuoli avessino perseverato nel combattere arebbeno ricuperato Lodi; perché i soldati viniziani, ne' quali per l'ordinario non era molta virtú, si trovavano assai stracchi. Ma il marchese diffidando, o per avervi trovato piú numero di gente che da principio non aveva creduto o per immaginarsi che lo esercito viniziano fusse propinquo, si staccò presto dal combattere, e lasciata la guardia nel castello si ritirò a Milano. Sopravenne dipoi il duca d'Urbino, il quale si gloriava di avere fatto passare l'esercito, senza fermarsi, per ponti in su due fiumi grossi; e attese a stabilire piú la vittoria, ingrossandovi di gente, per resistere se gli inimici di nuovo vi ritornassino, e facendovi piantare l'artiglierie; ma quegli di dentro, perché non aspettavano soccorso e potevano difficilmente difendere il castello, capace per il piccolo circuito di poca gente, la notte seguente, essendo raccolti da i cavalli che a questo effetto furno mandati da Milano, abbandonorono il castello.

                                                 Lo acquisto di Lodi fu di grandissima opportunità e di riputazione non minore alle cose della lega, perché la città era bene fortificata e una di quelle che sempre si era disegnato che gli imperiali avessino a difendere insino allo estremo. Da Lodi si poteva, senza alcuno ostacolo, andare insino in su le porte di Milano e di Pavia; perché queste città, situate come in triangolo, sono vicine l'una a l'altra venti miglia (però gli imperiali vi mandorono subito da Milano mille cinquecento fanti tedeschi); e trovavasi guadagnato il passo d'Adda, che prima era riputato di qualche difficoltà; levato ogni impedimento dell'unione degli eserciti; tolta la facoltà di soccorrere, quando fusse assaltata, Cremona (nella quale città era a guardia il capitano Curradino con mille cinquecento fanti tedeschi); e privati gli inimici di uno luogo opportunissimo a travagliare lo stato della Chiesa e quello de' viniziani: donde era voce comune per tutto l'esercito che, procedendosi innanzi con prestezza, gli imperiali si ridurrebbono in grandissima perplessità e confusione. Ma altrimenti sentiva il duca d'Urbino, già risoluto che l'accostarsi a Milano senza una grossa banda di svizzeri fusse cosa di molto pericolo. Ma non volendo scoprire agli altri totalmente questa sua opinione, deliberò, con fare poco cammino e soprasedere sempre almanco uno dí per alloggiamento, dare tempo alla venuta de' svizzeri; sperando dovessino arrivare allo esercito in pochissimi dí, e disprezzando tutto quello che si proponeva fusse da fare in caso non venissino, non ostante che per i progressi succeduti insino a quel dí fusse da dubitarne. Perciò, essendo lo esercito ecclesiastico, il dí dopo l'acquisto di Lodi, andato ad alloggiare a San Martino, a tre miglia appresso a Lodi, fu conchiuso nel consiglio comune che, soprastati ancora uno dí gli ecclesiastici e i viniziani ne' medesimi alloggiamenti, andassino poi il dí prossimo ad alloggiare a Lodi Vecchio, lontano da Lodi cinque miglia (dove dicono essere stato edificato Lodi da Pompeio magno) e distante tre miglia dalla strada maestra verso Pavia, a cammino che accennava a Milano e a Pavia, per tenere in piú sospensione i capitani imperiali: il quale dí gli eserciti ecclesiastici e viniziani camminando si unirono in su la campagna, pari quasi di fanteria (che in tutto erano poco manco di ventimila fanti), ma i viniziani piú abbondanti di genti d'arme e di cavalli leggieri, de' quali gli ecclesiastici tuttavia si provedevano, e ancora con molto maggiore provisione di artiglieria e di munizioni e di tutte le cose necessarie. A Lodi Vecchio, dove si dimorò il giorno seguente, mutato consiglio, fu deliberato di camminare in futuro in su la strada maestra, per fuggire il paese che fuora della strada è troppo forte di fosse e di argini, e perché era riputato piú facile il soccorrere il castello per quella via, che aveva a voltare verso porta Comasina, che per la via di Landriano che aveva a voltare a porta Verzellina, dove il condursi, per la qualità del paese, era piú difficile; e perché, andando da quella banda era piú sicuro il condurre le vettovaglie e piú facile il ricevere i svizzeri, perché erano piú alle spalle. Con questa risoluzione si condusse, l'ultimo di giugno, l'esercito unito a Marignano; dove consigliandosi quello si avesse a fare, inclinava il duca d'Urbino ad aspettare la venuta de' svizzeri, la quale era nella medesima e forse maggiore incertitudine che prima; parendogli che senza queste spalle di ordinanza ferma fusse molto pericoloso, con gente nuova e raccolta tumultuariamente, accostarsi a Milano; benché vi fussino pochi cavalli, tremila fanti tedeschi e cinque in seimila fanti spagnuoli, e questi senza denari e con poca provisione di vettovaglie. Dal quale parere discrepavano i pareri di molti degli altri capitani: i quali giudicavano che, procedendo con la gente ordinata e con gli alloggiamenti sempre il dí precedente riconosciuti, si potesse accostarsi a Milano senza pericolo, perché il paese è per tutto sí forte che senza difficoltà si poteva sempre alloggiare in sito munitissimo; né pareva loro verisimile che l'esercito cesareo fusse per uscire in campagna ad assaltargli, perché essendo necessario che e' lasciassino assediato il castello, né potendo anche per sospetto del popolo spogliare al tutto di gente la città di Milano, restava di numero troppo piccolo ad assaltare uno esercito sí grosso; il quale, benché fusse raccolto nuovamente, abbondava pure di molti fanti sperimentati alla guerra e dove erano tanti capitani de' piú riputati di Italia. Ed essendo l'accostarsi a Milano senza pericolo, non essere ancora senza speranza della vittoria lo accostarsi: perché non essendo i borghi di Milano fortificati, anzi, per la negligenza usata a riordinargli, aperti da qualche parte, non pareva credibile che gli imperiali si avessino a fermare a difendere circuito tanto grande (della quale [cosa] pareva si vedessino indizi manifesti, con ciò sia che, atteso poco alla riparazione de' borghi, si fussino tutti volti alla fortificazione della città); e abbandonando i borghi, ne' quali l'esercito andrebbe subito ad alloggiare, non pareva che la città potesse avere lunga difesa; non solo per trovarsi lo esercito senza denari e con poca vettovaglia, ma perché e Prospero Colonna e molti altri capitani avevano sempre giudicato essere molto difficile il difendere Milano contro a chi avesse occupato i borghi, si perché la città è debolissima di muraglia (facendo muro in molti luoghi le case private) sí eziandio perché i borghi sono vantaggiosi alla città: e si aggiugneva l'avere il castello a sua divozione.

                                                 Dependevano principalmente questa e l'altre deliberazioni dal duca di Urbino; perché, se bene fusse solamente capitano de' viniziani, gli ecclesiastici, per fuggire le contenzioni e perché altrimenti non si poteva fare, aveano deliberato di riferirsi a lui come a capitano universale. Ma egli, benché non lo movessino queste ragioni a andare innanzi, per le instanze efficacissime le quali, per ordine de' loro superiori, gliene facevano il luogotenente del pontefice e il proveditore viniziano (al parere de' quali poiché anche aderivano molti altri capitani, gli pareva che il soprasedere quivi lungamente, non avendo maggiore certezza della venuta de' svizzeri, potesse essere con grave suo carico e infamia), però, sopraseduto l'esercito due dí a Marignano, si condusse il terzo dí di luglio a San Donato lontano cinque miglia da Milano, deliberato di andare innanzi piú per sodisfare al desiderio e al giudizio di altri che per propria deliberazione; ma con intenzione di mettere sempre uno dí in mezzo tra l'uno alloggiamento e l'altro, per dare piú tempo alla venuta de' svizzeri: de' quali mille, finalmente, scesi in bergamasco, venivano alla via dello esercito; e continuavano, secondo il solito, gli avvisi spessi della venuta degli altri. Però, il quinto dí di luglio, andò l'esercito ad alloggiare a tre miglia di Milano, passato San Martino, fuora di strada in su la mano destra, in alloggiamento forte e bene sicuro; dove il dí medesimo si fece una fazione piccola contro ad alcuni archibusieri spagnuoli fattisi forti in una casa, e il dí seguente, stando il campo nel medesimo alloggiamento, un altra simile: e il medesimo dí arrivorono nel campo cinquecento svizzeri, condotti da Cesare Gallo. Quivi si consultò del modo del procedere piú innanzi; e ancoraché la prima intenzione fusse stata di andare dirittamente a soccorrere il castello di Milano, dove le trincee che lo serravano di fuora non erano sí gagliarde che non si potesse sperare di superarle, nondimeno parve al duca d'Urbino, il consiglio del quale era alla fine approvato da tutti gli altri (e che ne' consigli proponeva e non aspettando che gli altri rispondessino diceva l'opinione sua, o almanco nel proporre usava tali parole che per se stessa veniva a scoprirsi, in modo che gli altri capitani non pigliavano assunto di contradirgli) che gli eserciti camminassino per la diritta a' borghi di Milano; allegando che, per le spianate che sarebbe necessario di fare per la fortezza del paese, il volere condursi fuori della strada maestra al soccorso del castello sarebbe cosa lunga né senza pericolo di qualche disordine, perché si arebbe a mostrare troppo dappresso il fianco agli inimici e si darebbe loro facoltà di fare piú potente resistenza, perché unirebbeno tutte le forze loro dalla banda del castello, dove, altrimenti, sarebbeno necessitati stare divisi per resistere agli inimici e non abbandonare la guardia del castello; e perché, conducendosi con gli eserciti a porta Romana, sarebbe sempre in potestà de' capitani della lega voltarsi facilmente, secondo che alla giornata apparisse essere opportuno, a quale banda volessino. Secondo il quale consiglio si fece deliberazione che il settimo dí si alloggiasse a Bufaleta e Pilastrelli, ville vicine a mezzo miglio di Milano, sotto i tiri dell'artiglierie loro, e le quali sono circostanti alla strada maestra; con intenzione da quegli alloggiamenti pigliare i partiti che fussino dimostrati buoni dall'occasione e da i progressi degli inimici: i quali era opinione di molti che, veduto gli eserciti alloggiati in luogo sí vicino, non avessino a volere mettersi alla difesa, massime notturna, de' borghi, per essere in piú luoghi ripieni i fossi e spianati i ripari, e da qualche banda tanto aperti che difficilmente si potevano difendere.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.6

                                                  

                                                 Arrivo del duca di Borbone con milizie spagnuole in Milano. L'esercito veneto-pontificio sotto Milano; scaramuccie coi nemici. Improvvisa deliberazione del duca d'Urbino di scostarsi da Milano. Meraviglia generale per la ritirata dei collegati.

                                                  

                                                 Ma la notte precedente al dí nel quale doveva farsi innanzi l'esercito, il duca di Borbone, il quale pochi dí innanzi era arrivato a Genova con sei galee e con lettere di mercatanti per centomila ducati, entrò con circa ottocento o... fanti spagnuoli, quali aveva condotti seco, in Milano; sollecitatone molto dal marchese del Guasto e da Antonio de Leva: dalla venuta del quale i soldati pigliorono molto animo. E per la medesima si potette comprendere la negligenza o la fredda disposizione, studiosamente, del re di Francia alla guerra. Perché avendo il pontefice, nel principio quando condusse agli stipendi suoi Andrea Doria, consultato seco con che forze e apparati si dovessino tentare le cose di Genova, propose molta facilità tentandola in tempo che già fusse cominciata la guerra nel ducato di Milano, e che con le sue otto galee si congiugnessino le galee le quali il re di Francia aveva nel porto di Marsilia, o che almanco impedissino la venuta, con le galee, del duca di Borbone; perché, restando in tale caso con le sue otto galee signore del mare, non poteva la città di Genova stare molti dí col mare serrato per le mercatanzie, per gli esercizi e per le vettovaglie: e benché il re promettesse che impedirebbe la venuta del duca di Borbone furono parole vane, perché l'armata sua non era in ordine, e i capitani delle galee, parte per carestia di danari parte per negligenza e forse per volontà, erano stati espediti tardi de' pagamenti; come poi anche succedette delle genti d'arme.

                                                 Ma essendo incognita di fuori la venuta del duca di Borbone, la deliberazione dello andare innanzi con l'esercito fu pervertita dal duca di Urbino, o per avvisi ricevuti, secondo si credette, da Milano o per relazione di qualche esploratore. Mutata la diffidenza avuta insino a quel dí [in speranza] non minore, affermò al luogotenente del pontefice, presente il proveditore veneto, tenere per certo che il dí seguente sarebbe felicissimo; perché se gli inimici uscivano a combattere (il che non credeva dovessino fare) indubitatamente sarebbono vinti, ma non uscendo, che certamente, o il dí medesimo abbandonerebbono Milano ritirandosi in Pavia o almanco, abbandonata la difesa de' borghi, si ridurrebbono nella città; la quale, perduti i borghi, non potrebbono totalmente difendere: e ciascuna di queste tre cose bastare a conseguire la vittoria della guerra. Però il dí seguente, che fu il settimo di luglio, lasciato lo alloggiamento disegnato il dí dinanzi, con speranza di guadagnare i borghi senza contrasto, e aspirando alla gloria d'avergli presi camminando d'assalto, spinse qualche banda di scoppiettieri a porta Romana e a porta Tosa; dove, non ostante gli avvisi avuti i dí precedenti e il dí medesimo del volersi partire, gli spagnuoli si erano fermi in quella parte de' borghi, non per fare quivi, secondo si disse, continua resistenza ma per ritirarsi in Milano piú presto come uomini militari, e con avere mostrato il volto agli inimici, che volere che e' trovassino i borghi vilmente abbandonati. Dalla quale resistenza non solo si conservava piú la riputazione del loro esercito, essendo massime in facoltà sua ritirarsi sempre nella città senza disordine, ma eziandio poteva nascere loro occasione da pigliare animo a perseverare nella difesa de' borghi; il che era di grandissima importanza, perché il ritirarsi nella città era partito piú presto necessario che da eleggere spontaneamente, e per l'altre ragioni e perché, riducendosi dentro a circuito sí stretto, era piú facile impedire che vettovaglie non entrassino in Milano; senza le quali non potevano, per non essere ancora condotte le biade nuove, sostenersi lungamente. Appresentatosi adunque [con] gli scoppiettieri alle due porte, dove gli spagnuoli oltre al difendersi non cessavano continuamente di lavorare, il duca, trovata, fuora dell'opinione che aveva avuta, la resistenza, fece accostare a uno tiro di balestro a porta Romana tre cannoni, quali piantati bravamente cominciò a battere la porta e fare pruova di fare levare uno falconetto, il quale fu levato; fece smontare molti de' suoi per dare l'assalto, e ordinò si accostassino le scale: nondimeno, non continuando nel proposito di dare l'assalto, si ridusse la fazione in scaramuccie leggiere di scoppietti e di archibusi a' ripari; dove, avendo quelli di dentro vantaggio grande rispetto al sito, furno morti di quegli di fuora circa quaranta fanti e feritine molti. La porta era stata battuta [con] molti colpi ma con poco danno per essere i cannoni lontani: ma dicendo essere l'ora tarda ad alloggiare il campo non dette l'assalto, e alloggiò lo esercito nel luogo medesimo, benché, per la brevità del tempo, con qualche confusione; lasciò a' tre cannoni buona guardia, e il resto del campo alloggiò quasi tutto a mano destra della strada; sperando ciascuno molto della vittoria, perché, per avvisi di molti e per relazione di prigioni presi da Giovanni di Naldo soldato de' viniziani, si aveva nuove gl'imperiali, caricate molte bagaglie, essere piú presto in moto di partirsi che altrimenti; e a tempo arrivorno in campo la sera medesima cannoni de' viniziani.

                                                 Ma si variò poco poi non solo la speranza ma tutto lo stato della cosa. Perché essendo, quasi in su il principio della notte, usciti fuora alcuni fanti spagnuoli ad assaltare l'artiglieria, furno rimessi dentro da' fanti italiani che erano a guardia di quella: ancora che il duca d'Urbino dicesse che erano stati messi in disordine. Il quale, passate già poche ore della notte, trovandosi ingannato dalla speranza conceputa che alle porte e a' ripari de' borghi gli fusse stata fatta resistenza, e ritornandogli in considerazione il timore che prima aveva della fanteria degli inimici, fece precipitosamente deliberazione di discostarsi con lo esercito; e cominciatala subito a mettere in esecuzione col dare principio a fare partire l'artiglierie e le munizioni, e comandato alle genti viniziane che si ordinassino per partirsi, mandò per il proveditore a significare al luogotenente e ai capitani ecclesiastici la deliberazione che aveva fatta; confortandogli a fare anche essi, senza dilazione, il medesimo. Alla quale voce, come di cosa non solo nuova ma contraria alla espettazione di ciascuno, confusi e quasi attoniti, andorono a trovarlo, per intendere piú particolarmente i suoi pensieri e fare pruova di indurlo a non si partire. Il quale, con parole molto determinate e risolute, si lamentò che contro al parere suo, solamente per sodisfare ad altri, si fusse tanto accostato a Milano, ma che era piú prudenza ricorreggere l'errore fatto che perseverarvi dentro; conoscere che, per non essere stato per la brevità del tempo alloggiato il dí dinanzi ordinatamente, e per la viltà de' fanti italiani dimostratasi la sera medesima allo assalto delle artiglierie, che il dimorare l'esercito quivi insino alla luce prossima sarebbe la distruzione non solo della impresa ma di tutto lo stato della lega; perché era sí certo vi sarebbeno rotti che, non ci avendo una minima dubitazione, non voleva disputarla con alcuno; con ciò sia che gl'imperiali avevano la sera medesima piantato uno sagro tra porta Romana e porta Tosa, che batteva per fianco lo alloggiamento pericolosissimo de' fanti de' viniziani, e che la notte medesima ne pianterebbono degli altri, e come fusse il giorno, fatto dare all'arme, e necessitato l'esercito a mettersi in ordinanza, lo batterebbeno per fianco, e cosí disordinatolo, usciti fuora ad assaltarlo, lo romperebbeno con grandissima facilità: dolergli che la brevità del tempo, e lo essere nell'esercito suo molto maggiori impedimenti di artiglierie e di munizioni che nello esercito ecclesiastico, l'avesse costretto a cominciare prima a levarsi che a comunicarlo con loro; ma ne' partiti che si pigliano per necessità essere superfluo il fare escusazione: avere fatto maggiore esperienza che avesse fatto mai capitano alcuno, essendosi messo di cammino a dare lo assalto a Milano; bisognare ora usare la prudenza, né disperare, per la ritirata, della vittoria della impresa: essersi Prospero Colonna, e con forse manco giuste cagioni, levato da Parma già mezza presa; e nondimeno avere poco poi gloriosamente acquistato tutto il ducato di Milano: confortare gli ecclesiastici a seguitare la sua deliberazione, né differire il levarsi; perché replicava loro di nuovo che, trovandogli il sole in quello alloggiamento, resterebbeno rotti senza rimedio; e che però ciascuno ritornasse allo alloggiamento di San Martino. Rispose il luogotenente che, benché ciascuno pensasse le deliberazioni sue essere fatte con somma prudenza, nondimeno che nessuno di quegli capitani conosceva cagione che necessitasse a levarsi con tanta prestezza; e ridurgli in memoria quel che, veduta la ritirata loro, farebbe il duca di Milano disperato di essere soccorso; quanto animo perderebbeno il pontefice e i viniziani, e le imaginazioni che per la declinazione delle imprese, massime ne' princípi, sogliono nascere nelle menti de' príncipi; potersi, se lo alloggiamento fatto disordinatamente era causa di tanto pericolo, rimediarvi facilmente, senza tôrre tanta riputazione a quello esercito, con lo alloggiarlo di nuovo con migliore ordine e con discostarlo tanto che bastasse ad assicurarlo da' sagri piantati dagli inimici. Confermò il duca di nuovo la prima conclusione; né potersi, secondo la ragione della guerra, pigliare altra deliberazione: volere assumere in sé questo carico, e che e' si sapesse per tutto il mondo egli esserne stato autore: né essere bene consumare piú il tempo vanamente in parole, perché era necessario essersi levati innanzi alla fine della notte. Con la quale conclusione ciascuno, tornato a' suoi alloggiamenti, attese a espedirsi e a sollecitare la partita delle genti. Delle quali quelle che erano dinanzi si levorono con tanto spavento che, partendosi quasi con dimostrazione di essere rotti, si sfilorono molti fanti e molti cavalli de' viniziani, de' quali alcuni non si fermorono insino fussino condotti a Lodi; e l'artiglierie de' viniziani passorono di là da Marignano, ma rivocate si fermorono quivi: il resto della gente, e il retroguardo massime, partí ordinato. Né volle Giovanni de' Medici, che con la fanteria ecclesiastica era nella ultima parte dello esercito, muoversi insino a tanto non fusse bene chiaro il giorno, non gli parendo conveniente riportarne in cambio della sperata vittoria la infamia del fuggirsi di notte: il che fare non essere stato necessario dimostrò l'esperienza, perché degli imperiali non uscí alcuno fuora de' ripari ad assaltare la coda dello esercito; anzi, avendo, come fu dí, veduto tanto tumultuosa levata, restorono pieni di somma ammirazione, non sapendo immaginarne la cagione. E accrebbe ancora la infamia di questa ritirata che, benché il duca avesse detto volere che le genti si fermassino a San Martino, nondimeno ordinò tacitamente che i maestri del campo de' viniziani conducessino le loro a Marignano, mosso dal timore o che gli inimici non andassino ad assaltarlo allora in quello alloggiamento, o almeno, come esso medesimo confessò poi, tenendo per certo che il castello di Milano, veduto discostarsi il soccorso dimostrato (di che niuna cosa spaventa piú gli assediati), s'avesse ad arrendere (nel quale caso non arebbe avuto ardire di stare fermo a San Martino), giudicasse essere manco disonorevole ritirarsi in una sola volta che fare in sí breve spazio di tempo due ritirate: e però, non si fermando le artiglierie e le bagaglie e le prime squadre dello esercito viniziano a San Martino, camminavano verso Marignano. Di che ricercando il luogotenente di intendere dal duca la cagione, rispose che non faceva, in quanto alla sicurtà, differenza dall'uno all'altro, perché giudicava tanto sicuro dagli inimici l'alloggiamento di San Martino quanto quello di Marignano; ma essere per questo da anteporre l'alloggiamento di Marignano, perché le genti stracche dalle fazioni dei dí precedenti, non ricevendo quivi travagli dagli inimici, potrebbeno con piú comodità riposarsi e riordinarsi. E replicandosi, quanto, nella sicurtà pari dell'uno e dell'altro alloggiamento, togliesse piú la speranza del soccorso agli assediati nel castello di Milano il ritirarsi l'esercito a Marignano che se si fermasse a San Martino, rispose, con parole concitate, non volere, mentre che aveva in mano il bastone de viniziani, lasciare usare ad altri l'autorità sua; volere andare ad alloggiare a Marignano. In modo che l'uno e l'altro esercito, assai disonoratamente e con grandissimi gridi di tutti i soldati, potendo usare, ma per contrario, le parole di Cesare: - Veni, vidi, fugi - si condusse ad alloggiare a Marignano; con deliberazione del duca di stare fermo quivi insino a tanto che nel campo arrivassino non solo il numero di cinquemila svizzeri, a' quali si erano ristrette le promesse del castellano di Mus e del vescovo di Lodi (che nell'ora medesima che il campo si levava era arrivato con cinquecento), ma eziandio tanti altri che facessino il numero di dodicimila; perché giudicava non si potere fare piú fondamento nel castello di Milano, non si potere o sforzare o ridurre alla necessità di arrendersi quella città, per mancamento delle cose necessarie, senza due eserciti, e ciascuno da per sé sí potente che fusse bastante a difendersi da tutte le forze unite degli inimici.

                                                 Cosí si ritirorno dalle mura di Milano gli eserciti l'ottavo di luglio; commovendo molti non solo l'effetto della cosa ma eziandio la infelicità dello augurio, perché il dí medesimo, di consentimento comune de' collegati, si publicava a Roma a Vinegia e in Francia, con le cerimonie e solennità consuete, la lega. E a giudizio della maggiore parte degli uomini ebbe sí poca necessità il pigliare uno partito di tanta ignominia che molti dubitassino che il duca non fusse stato mosso da ordinazione occulta del senato viniziano, il quale, a qualche proposito incognito agli altri, desiderasse la lunghezza della guerra; altri dubitassino che il duca, ritenendo alla memoria le ingiurie ricevute da Lione e dal presente pontefice quando era cardinale, e temendo che la grandezza sua non gli mettesse in pericolo lo stato, non gli fusse o per odio o per timore grata la vittoria sí presta della guerra; massime che gli dava giusta cagione di timore dello animo del pontefice il tenere i fiorentini Santo Leo con tutto il Montefeltro, e sapere che la piccola figliuola restata di Lorenzo de' Medici riteneva continuamente il nome di duchessa d'Urbino. Nondimeno, il luogotenente del pontefice si certificò per mezzi indubitatissimi che a' viniziani fu molestissima la ritirata, e che non avevano cessato mai di sollecitare lo accostarsi lo esercito a Milano sperando molto nella facilità della vittoria; e considerato non essere verisimile che il duca, se avesse sperato di ottenere Milano, avesse voluto privarsi di gloria tanto maggiore di quella che molto innanzi avesse avuto alcuno altro capitano, quanto era maggiore la fama e la riputazione dello esercito imperiale di quella che molti anni innanzi avesse avuto alcuno altro esercito in Italia (alla quale gloria seguiva dietro quasi per necessità la sicurtà del suo stato, perché il pontefice, e per fuggire tanta infamia e per non fare tale offesa a' viniziani, non arebbe avuto ardire di assaltarlo); e considerato anche diligentemente i progressi di tutti quegli dí, ebbe per piú verisimile (nella quale sentenza concorsono molti altri) che il duca, caduto dalla speranza la quale due giorni innanzi aveva conceputa del dovere gl'imperiali abbandonare almanco i borghi, ritornasse con tanta veemenza alla sua prima opinione (per la quale aveva temuto piú le forze loro e piú diffidatosi della virtú de' fanti italiani che non facevano gli altri capitani) che, rappresentandosegli maggiore timore che agli altri, cadesse precipitosamente in quella deliberazione.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.7

                                                  

                                                 Preoccupazione del pontefice per le vicende della guerra e per il pericolo di tumulti in Roma. Vano tentativo del pontefice di mutare il governo in Siena; milizie pontificie, fiorentine e di fuorusciti sotto le mura della città.

                                                  

                                                 Confuse questa ritirata molto il pontefice e i viniziani, condotti già con la speranza in termine che di dí in dí aspettavano l'avviso dello acquisto di Milano, ma il pontefice massime, non preparato né co' denari né con la costanza dell'animo alla lunghezza della guerra; al quale anche, a Roma e altrove nello stato suo, si scoprivano di molte difficoltà. Perché essendo alla guardia di Carpi trecento fanti spagnuoli e qualche numero di cavalli, cominciorono a scorrere con gravissimi danni per tutto il paese circonstante della Chiesa, dando anche impedimento grande a' corrieri e a' denari che da Roma e da Firenze andavano allo esercito; a' quali non si poteva, con mettere piccola guardia nelle terre, ovviare: e il pontefice, entrato nella guerra con pochi denari e soprafatto dalle spese grandissime, difficilmente poteva co' denari suoi e con quegli che continuamente gli erano per conto della guerra porti da Firenze, fare provedimenti bastanti a reprimergli; essendo massime occupato in impresa nuova in Toscana, e necessitato a stare in sull'arme dalla parte di Roma. Perché don Ugo, il duca di Sessa partitosi dalla legazione, Ascanio, e Vespasiano Colonna ridottosi nelle castella de' Colonnesi propinque a Roma, facevano molte dimostrazioni di volere suscitare dalla parte di Roma qualche travaglio; e già alcuni de' loro partigiani si erano fatti forti in Alagna, terra della Campagna: i movimenti de' quali era sforzato a stimare il pontefice, per rispetto della fazione ghibellina di Roma quanto perché, pochi dí innanzi, si erano scoperti segni della mala disposizione della plebe romana contro a lui. Perché avendo, quando condusse Andrea Doria, sotto colore di assicurare i mari di Roma dalle fuste de' mori, dalle quali era impedita non mediocremente l'abbondanza della città, augumentati per sostentare quella spesa certi dazi, i macellari, essendo renitenti a pagargli, si erano tumultuosamente congregati all'abitazione del duca di Sessa, che ancora non era partito da Roma; alla quale concorseno armati quasi tutti gli spagnuoli che abitavano in Roma: benché questo tumulto facilmente si quietasse.

                                                 Ma alla impresa [del] mutare lo stato di Siena era stato ambiguo il pontefice, essendo vari i consigli di quegli che gli erano appresso. Perché alcuni, confidandosi nel numero grande de' fuorusciti e nella confusione del governo popolare, gli persuadevano fusse molto facile il mutarlo, ricordando di quanta importanza fusse in questo tempo l'assicurarsene, perché, in ogni disfavore che sopravenisse, il ricetto che vi potessino avere gli inimici sarebbe molto pericoloso alle cose di Roma e di Firenze; altri affermavano essere consiglio piú prudente dirizzare le forze in uno luogo solo che implicarsi in tante imprese, con piccola anzi quasi niuna diversificazione degli effetti, perché alla fine quegli che rimanessino superiori in Lombardia rimarrebbono superiori per tutto; né doversi tanto confidare delle forze o del seguito de' fuorusciti (le speranze de' quali riuscivano quasi sempre vanissime) che la mutazione di quello stato si tentasse senza potenti provisioni, le quali gli era difficile il fare, sí per la grandezza della spesa come perché aveva mandati tutti i suoi capitani principali alla guerra di Lombardia: le quali ragioni sarebbeno forse prevalute appresso a lui se quegli che reggevano in Siena fussino proceduti con quella moderazione la quale, nelle cose che importano poco, debbono usare i minori verso i maggiori, avendo piú rispetto alla necessità che alla giusta indegnazione. Ma accadde che, avendo molto prima uno certo Giovambatista Palmieri sanese, il quale aveva dalla republica la condotta in Siena di cento fanti, datogli speranza come le genti sue si accostassino a Siena di introdurle per una fogna che passava sotto le mura appresso a uno bastione, e avendo il pontefice mandatovi, a sua richiesta, due fanti confidati, all'uno de' quali Giovambatista commesse il portare la sua bandiera, i magistrati della città (con saputa de' quali Giovambatista eludendo il pontefice trattava questa cosa), quando parve loro il tempo opportuno, presi i due fanti e fattone solennemente il processo, e divulgato per tutto il trattato, ne presono publicamente il debito supplicio, per infamare il pontefice quanto potettono. Aggiunsesi che pochi dí poi mandorono gente ad assediare Giovanni Martinozzi, uno de' fuorusciti, quale dimorava nel contado di Siena alla tenuta sua di Montelifré. Dalle quali cose, come fatte in ingiuria sua, esacerbato l'animo del pontefice, deliberò tentare di rimettere i fuorusciti in Siena con le forze sue e de' fiorentini, ma con provisioni piú deboli che non conveniva, massime di fanti pagati; e perché alla debolezza dell'esercito non supplisse il valore o la autorità de' capitani, vi prepose [Virginio] Orsino conte della Anguillara, Lodovico conte di Pitigliano e [Giovan Francesco] suo figliuolo, Gentile Baglione e Giovanni da Sassatello. I quali, fatta la massa delle genti al ponte a Centina, e dipoi trasferitisi alle Tavernelle in sul fiume della Arbia, fiume famoso appresso agli antichi per la vittoria memorabile de' ghibellini contro a' guelfi di Firenze, si accostorono, il decimo settimo dí di giugno, alle mura di Siena con nove pezzi d'artiglieria de' fiorentini milledugento cavalli e con piú di ottomila fanti, ma quasi tutti o comandati del dominio della Chiesa e de' fiorentini o mandati senza danari ai fuorusciti da amici loro del perugino e di altri luoghi: e nel tempo medesimo Andrea Doria, con le galee e con mille fanti di sopracollo, assaltò i porti de' sanesi. Ma non essendosi, nello accostarsi alle mura di Siena, fatto dentro segno alcuno di tumulto, come avevano sperato i fuorusciti, fu necessario fermarsi con l'esercito per attendere alla espugnazione della città; nella quale erano sessanta cavalli e trecento fanti forestieri: però, accostatisi alla porta di Camollia, cominciorno a battere con l'artiglierie le mura da quella parte. Ma nella città forte di sito e la quale era stata fortificata, e di circuito sí grande che la minore parte circondava l'esercito, era il popolo (prevalendo piú in, lui l'odio del pontefice e de' fiorentini che l'affezione a' fuorusciti) disposto e unito alla conservazione di quel governo; e pel contrario nello esercito di fuora inutile la gente non pagata, i capitani di poca riputazione e tra loro non piccole divisioni, i fuorusciti divisi non solo nelle deliberazioni e nelle provisioni quotidiane ma discordanti eziandio per la forma del futuro governo, volendo già dividere e ordinare di fuora quel che non si poteva stabilire se non da chi era di dentro. Per le quali condizioni, ed essendo state battute le mura invano né avendo ardire di dare la battaglia, si cominciava già a sperare poco nella vittoria.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.8

                                                  

                                                 Difficoltà del re di Francia di ottenere soldati svizzeri. Tristi condizioni dei milanesi alla mercé delle soldatesche cesaree; speranze nel duca di Borbone e parole d'un milanese a lui. Vane promesse del duca di Borbone ai milanesi. Licenza riprovevole delle milizie de' collegati.

                                                  

                                                 Ma, in questo tempo medesimo, in Lombardia crescevano le difficoltà de' collegati. Perché se bene de' svizzeri condotti dal castellano di Mus e dal vescovo di Lodi ne fussino finalmente arrivati allo esercito cinquemila, nondimeno, non parendo numero bastante al duca di Urbino, si aspettavano quegli i quali, in nome del re di Francia, erano stati mandati a dimandare da' cantoni; sperando che, se non per altro, almeno che per cancellare la ignominia ricevuta nella giornata di Pavia, avessino a essere prontissimi a concedergli; e che per la medesima cagione i fanti conceduti avessino a procedere alla guerra (massime in tanta speranza della vittoria) con immoderato ardore. Ma in quella nazione, la quale pochi anni innanzi, per la ferocia sua e per la autorità acquistata, aveva avuto opportunità grandissima ad acquistare amplissimo imperio, non era piú né cupidità di gloria né cura degli interessi della republica, ma pieni di incredibile cupidità si proponevano per ultimo fine dello esercizio militare ritornare a casa carichi di danari: però, trattando la milizia secondo il costume de' mercatanti, e i cantoni, o pigliando publicamente le necessità di altri per occasioni di loro utilità o pieni di uomini venali e corrotti, concedevano o negavano i fanti secondo questi fini; e i capitani che erano ricercati di condursi, per avere migliore condizione quanto maggiore vedevano il bisogno di altri, piú si tiravano in alto facendo dimande impudentissime e intollerabili. Per queste cagioni, avendo il re ricercato i cantoni, secondo i capitoli della confederazione che aveva con loro, che gli concedessino i fanti i quali di consenso comune si avevano a pagare co' quarantamila ducati che sborsava il re di Francia, avevano i cantoni, dopo lunghe consulte, risposto, secondo l'uso loro, non volergli concedere se prima non erano sodisfatti dal re di tutto quello doveva loro per conto delle pensioni che era obligato a pagare ciascuno anno: la quale essendo somma grande, e difficile a pagare con brevità di tempo, furno necessitati, ottenuta anche non senza difficoltà licenza dai cantoni, a soldare capitani particolari. Le quali cose, oltre alla dilazione molto perniciosa, nello stato che erano le cose, non riuscirno con quella stabilità e riputazione che se si fussino ottenuti dalle leghe.

                                                 Con la quale occasione gli imperiali, non ricevendo intratanto molestia alcuna dagli inimici, i quali oziosamente dimoravano a Marignano, attendevano con somma sollecitudine a fortificare Milano; non la città, come facevano da principio della guerra, ma i ripari e i bastioni de' rifossi; non diffidando piú, per l'animo che avevano preso e per la riputazione diminuita degli avversari, di potergli difendere. E avendo spogliato delle armi il popolo di Milano e mandate fuora le persone sospette, non solo non n'avevano piú scrupolo o timore ma, avendolo ridotto in asprissima servitú, erano restati senza pensieri de' pagamenti de' soldati; i quali, alloggiati per le case de' milanesi, non solo costrignevano i padroni delle case a provederli quotidianamente del vitto abbondante e delicato ma eziandio a somministrare loro denari per tutte l'altre cose delle quali avevano o necessità o appetito; non pretermettendo, per esserne provisti, di usare ogni estrema acerbità. I quali pesi essendo intollerabili, non avevano i milanesi altro rimedio che cercare di fuggirsi occultamente di Milano, perché il farlo palesemente era proibito: donde, per assicurarsi di questo, molti de' soldati, massime gli spagnuoli, perché ne' fanti tedeschi era piú modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case molti de' loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli, avendo anche esposta alla libidine loro la maggiore parte di ciascuno sesso e età. Però, tutte le botteghe di Milano stavano serrate, ciascuno aveva occultate in luoghi sotterranei o altrimenti reconditi le robe delle botteghe le ricchezze delle case e le ricchezze e ornamenti delle chiese; le quali neanche per questo erano in tutto sicure, perché i soldati, sotto specie di cercare dove fussino l'armi, andavano diligentemente investigando per tutti i luoghi della città, sforzando ancora i servi delle case a manifestarle: delle quali, quando le trovavano, ne lasciavano a' padroni quella parte pareva loro. Donde era sopramodo miserabile la faccia di quella città, miserabile l'aspetto degli uomini ridotti in somma mestizia e spavento: cosa da muovere estrema commiserazione, ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quegli che l'avevano veduta pochi anni innanzi pienissima di abitatori, e per la richezza de' cittadini, per il numero infinito delle botteghe ed esercizi, per l'abbondanza e delicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e suntuosissimi ornamenti cosí delle donne come degli uomini, per la natura degli abitatori inclinati alle feste e a' piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia ma floridissima e felicissima sopra tutte l'altre città di Italia; e ora si vedeva restata quasi senza abitatori, per il danno gravissimo che vi aveva fatto la peste, e per quegli che si erano fuggiti e continuamente si fuggivano; gli uomini e le donne con vestimenti inculti e poverissimi, non piú vestigio o segno alcuno di botteghe o di esercizi per mezzo de' quali soleva trapassare grandissima ricchezza in quella città, e l'allegrezza e ardire degli uomini convertito tutto in sommo dolore e timore.

                                                 Confortògli nondimeno alquanto la venuta del duca di Borbone, persuadendosi che, poi che secondo era fama aveva portato provisione di denari e che per la ritirata dello esercito de' collegati parevano alquanto diminuite le necessità e i pericoli, avessi anche in parte a mitigarsi tante gravezze e acerbità; e molto piú sperorono che il duca, al quale era publicato essere dato da Cesare il ducato di Milano, avesse, per benefizio suo e per conservarsi per interesse proprio piú intere l'entrate e le condizioni della città, a provedere che e' non fussino piú cosí miserabilmente lacerati. La quale speranza restava loro sola, perché per gli imbasciadori mandati a Cesare comprendevano non potere aspettare da lui rimedio alcuno, o perché per essere troppo lontano non potesse per la salute loro fare quelle provisioni che fussino necessarie o, per essere in lui (come piú volte aveva dimostrato l'esperienza) molto minore la compassione delle oppressioni e miserie de' popoli che il desiderio di mantenere, per interesse dello stato suo, l'esercito; al quale non provedendo, a' tempi, de' pagamenti debiti, non poteva né egli né i capitani proibire che si astenessino dalle insolenze e dalle ingiurie: e tanto piú che i capitani, e per acquistare la benivolenza de' soldati e perché lo essere ogni cosa in preda era anche con emolumento loro, non avevano ingrata questa licenza militare; poiché, per mancare i pagamenti, avevano qualche scusa di tollerarla. Però, congregati insieme in numero grande tutti quegli che in Milano avevano qualche condizione piú eminente che gli altri, dimostrando nel volto negli abiti ne' gesti lo stato miserabile della patria e di ciascuno di loro, si condusseno con molte lacrime e lamenti innanzi al duca di Borbone; al quale uno di loro, a chi fu imposto dagli altri, parlò, secondo intendo, in questa sentenza:

                                                 - Se questa patria miserabile, la quale ha sempre per giustissime cagioni desiderato d'avere uno principe proprio, non fusse al presente oppressa da calamità piú acerbe e piú atroci che abbia mai alla memoria degli uomini tollerato alcuna città, sarebbe stata, illustrissimo duca, ricevuta con maraviglioso gaudio la vostra venuta: perché quale maggiore felicità poteva avere la città di Milano che ricevere uno principe datogli da Cesare, di sangue nobilissimo, e del quale la sapienza la giustizia il valore la benignità la liberalità abbiamo, in vari tempi, noi medesimi molte volte esperimentata? Ma la iniquissima fortuna nostra ci costrigne a esporre a voi, perché da altri non speriamo né aspettiamo rimedio alcuno, le nostre estreme miserie, maggiori senza comparazione di quelle che le città debellate per forza dagli inimici sogliono patire dalla avarizia dall'odio dalla crudeltà dalla libidine e da tutte le cupidità de' vincitori. Le quali cose, per se stesse intollerabili, rende ancora piú gravi l'esserci a ogni ora rimproverato che le si fanno [in] pena della infedeltà del popolo di Milano verso Cesare; come se i tumulti concitati a' dí passati fussino stati concitati con publico consentimento e non, come è notorio, da alcuni giovani sediziosi i quali temerariamente sollevorono la plebe, sicura, per la povertà, di potere perdere, cupida sempre per sua natura di cose nuove; e la quale, facile a essere ripiena di errori vani, di false persuasioni, si sospigne all'arbitrio di chi la concita, come si sospigne al soffio de' venti l'onda marina. Noi non vogliamo, per escusare o alleggerire le imputazioni presenti, raccontare quali siano state gli anni passati le operazioni del popolo milanese, dalla prima nobiltà insino alla infima plebe, per servizio di Cesare: quando la città nostra, per la devozione inveterata al nome cesareo, si sollevò con tanta prontezza contro a governatori e contro all'esercito del re di Francia; quando poi con tanta costanza sostenemmo due gravissimi assedi, sottomettendo volontariamente le nostre vettovaglie le nostre case alle comodità de' soldati, sostentandogli, perché mancavano gli stipendi di Cesare, prontissimamente co' danari propri, esponendo con tanta alacrità in compagnia de' soldati le nostre persone, il dí e la notte, a tutte le guardie a tutte le fazioni militari a tutti i pericoli; quando, il dí che si combatté alla Bicocca, il popolo di Milano con tanta ferocia difese il ponte, per il quale passo solo speravano i franzesi potere penetrare negli alloggiamenti dell'esercito cesareo. Allora da Prospero Colonna dal marchese di Pescara dagli altri capitani, insino da Cesare medesimo, era magnificata la nostra fede, esaltata insino al cielo la nostra costanza. Delle quali cose chi è migliore e piú certo testimonio che voi che, presente nella guerra dello ammiraglio, vedesti, lodasti, anzi spesso vi maravigliasti di tanta fedeltà, di tanto ardente disposizione? Ma cessi in tutto la memoria di queste cose, non si compensino i demeriti co' benemeriti. Considerinsi le azioni presenti: non recusiamo pena alcuna se nel popolo di Milano apparisce vestigio di malo animo contro a Cesare. Amava certamente il popolo di Milano grandemente Francesco Sforza come principe stato dato da Cesare, come quello del quale il padre l'avolo il fratello erano stati nostri signori, e per l'espettazione che s'aveva della sua virtú; e per queste cagioni ci fu molestissimo lo spoglio suo, fatto subitamente senza conoscere la causa, non essendo noi certificati che avesse macchinato contro a Cesare, anzi affermandosi, per lui e per molti altri, essere stata piú presto cupidità di chi allora governava l'esercito che commissione cesarea: e nondimeno la città tutta giurò in nome di Cesare, sottoponendosi alla ubbidienza de' capitani. Questa è stata la deliberazione della città di Milano, questo il consentimento publico, questo il consiglio, e specialmente della nobiltà; la quale che ragione, che giustizia, che esempio consente che abbia a essere per i delitti particolari con tanta atrocità lacerata? Ma non apparí anche ne' dí medesimi de' tumulti la fede nostra? perché, nella sollevazione della moltitudine, chi altri che noi si interpose con l'autorità e co' prieghi a fargli deporre l'armi? chi altri che noi, l'ultimo dí del tumulto, persuase a' capi e a' giovani sediziosi che si partissino della città? alla moltitudine, che si sottomettesse alla ubbidienza de' capitani? Ma e la commemorazione delle opere nostre e la giustificazione dalle calunnie opposteci sarebbe forse necessaria o conveniente se i supplíci che noi patiamo fussino corrispondenti a' delitti de' quali siamo accusati, o almanco se non li trapassassino di molto; ma che differenza è dall'una cosa all'altra! Perché noi abbiamo ardire di dire, giustissimo principe, che se i peccati di ciascuno di noi fussino piú gravi che fussino mai stati i peccati e le sceleratezze commesse da alcuna città verso il suo principe, che le pene, anzi l'acerbità de' supplíci che noi immeritamente sopportiamo, sarebbono maggiori senza proporzione di quello che avessimo meritato. Abbiamo ardire di dire che tutte le miserie tutte le crudeltà tutte le immanità (taciamo per onore nostro delle libidini) che abbia mai, alla memoria degli uomini, sopportate alcuna città alcuno popolo alcuna congregazione d'abitatori, raccolte insieme tutte, siano una piccola parte di quelle che, ogni dí ogni ora ogni punto di tempo, sopportiamo noi; spogliati in uno momento di tutta la roba nostra, costretti gli uomini liberi, con tormenti con carceri private con catene messe a' corpi di molti de' nostri dai soldati, a provedergli del vitto continuamente, a uso non militare ma di príncipi, a provedergli di tutte quelle cose che caggiono nella cupidità loro, a pagare ogni dí a loro nuovi danari; li quali essendo impossibile a pagare, gli costringono con minacci con ingiurie con battiture con ferite: in modo che non è alcuno di noi che non ricevesse per somma grazia, per somma felicità, nudo, a piede, lasciate in preda tutte le sostanze, potersi salvo della persona fuggire da Milano, con condizione di perdere in perpetuo e la patria e i beni. Desolò, a tempo de' proavi nostri, Federigo Barbarossa questa città, crudelissimo contro agli abitatori contro agli edifici contro alle mura: e nondimeno, che furono le miserie di quegli tempi comparate alle nostre? non solo per tollerarsi piú facilmente la crudeltà dello inimico come piú giusta che la crudeltà ingiusta dell'amico, ma eziandio perché uno dí, due dí, tre dí, saziorono l'ira e la acerbità del vincitore, finirono i supplíci de' vinti; noi già perseveriamo piú di uno mese in queste acerbissime miserie, accrescono ogni ora i nostri tormenti e, simili a dannati nell'altra vita, sopportiamo senza speranza di fine quello che prima aremmo creduto essere impossibile che la condizione umana tollerasse. Speriamo pure che la magnanimità tua, la tua clemenza abbia a soccorrere a tanti mali, che abbia a provedere che una città diventata leggittimamente tua, commessa alla tua fede, non sia con tanta immanità totalmente distrutta; che comperando con questa pietà gli animi nostri, meritando perpetua memoria di padre e risuscitatore di una città sí memorabile per tutto il mondo, fonderai piú in uno dí il principato tuo con la benivolenza e con la divozione de' sudditi che non fanno gli altri príncipi nuovi in molti anni con l'armi e con le forze. La somma della orazione nostra è che, se per qualunque cagione la volontà tua è aliena da liberarci da tanta crudeltà, se qualche impedimento ti interrompe, che noi ti supplichiamo con tutti gli spiriti che voi spigniate addosso a tutto questo popolo, a tutti noi a ognuno a ogni sesso a ogni età, il furore l'armi il ferro e l'artiglierie dello esercito: perché a noi sarà incredibile felicità essere impetuosamente morti, piú presto che continuare nelle miserie e ne' supplíci presenti; né sarà manco celebrata la pietà tua, se in altro modo non puoi soccorrerci, che infamata la loro immanità; né a noi manco lieto il terminare in questo modo la nostra infelicissima vita, né manco allegra a quegli che ci amano la nostra morte che soglia essere a' padri e a' parenti la natività de' figliuoli e degli altri congiunti cari. -

                                                 Seguitorono queste parole miserabili le lamentazioni e i pianti di tutti gli altri. A' quali il duca rispose con grandissima mansuetudine, dimostrando avere sommo dispiacere delle loro infelicità né minore desiderio di sollevare e beneficare quella città e tutto il ducato di Milano; scusando che quello che si faceva non solo era contro alla volontà di Cesare ma ancora contro alla intenzione di tutti i capitani, e che la necessità, per non avere avuto modo a pagare i soldati, gli aveva indotti piú presto a consentire questo che ad abbandonare Milano, o mettere in pericolo la salute dello esercito, e tutto lo stato che aveva Cesare in Italia in preda degli inimici. Avere portato seco qualche provisione di denari, ma non tanta che bastasse, per l'essere creditori di molte paghe; nondimeno, che se la città di Milano gli provedesse di trentamila ducati per la paga di uno mese, che condurrebbe l'esercito ad alloggiare fuora di Milano: affermando che, se bene sapeva che altre volte fussino stati ingannati di simili promesse, potrebbeno starne sicurissimi alla parola e alla fede sua; e aggiugnendo, pregare Dio che se mancasse loro gli fusse levato il capo dal primo colpo dell'artiglieria degli inimici. La quale somma, benché alla città tanto esausta fusse gravissima, nondimeno trapassando tutte l'altre calamità la miseria dello alloggiare i soldati, accettata la condizione proposta, cominciorono con quanta piú prestezza potettono a provedergli. Ma benché una parte de' soldati, ricevuti i danari secondo che si pagavano, fusse mandata ad alloggiare ne' borghi di porta Romana e di porta Tosa, per guardare i ripari e attendere a fortificargli (come anche si lavorava alla trincea di verso il giardino, nel luogo nel quale fu fatta da Prospero Colonna), nondimeno ritenevano, non meno che quegli che erano restati dentro, i medesimi alloggiamenti e continuavano nelle medesime acerbità; o non tenendo conto Borbone della sua promessa o non potendo, come si crede, resistere alla volontà e alla insolenza de' soldati, fomentati anche da alcuni de' capitani, che volentieri, o per ambizione o per odio, difficultavano i suoi consigli. Della quale speranza privato il popolo di Milano, non avendo piú né dove sperare né dove ricorrere, cadde in tanta disperazione che è cosa certissima alcuni, per finire tante acerbità e tanti supplizi morendo, poiché vivendo non potevano, si gittorono da luoghi alti nelle strade, alcuni miserabilmente si sospeseno da se stessi: non bastando però questo a mitigare la rapacità e la fiera immanità de' soldati.

                                                 Erano in questo tempo molto miserabili le condizioni del paese, lacerato con grandissima empietà dai soldati de' collegati; i quali, aspettati prima con grandissima letizia da tutti gli abitatori, aveano per le rapine ed estorsioni loro convertita la benivolenza in sommo odio: corruttela generale della milizia del nostro tempo, la quale, preso esempio dagli spaguoli, lacera e distrugge non manco gli amici che gli inimici. Perché se bene per molti secoli fusse stata grande in Italia la licenza de' soldati, nondimeno l'avevano in infinito augumentata i fanti spagnuoli, ma per causa se non giusta almeno necessaria, perché in tutte le guerre di Italia erano stati malissimo pagati: ma (come [per] gli esempli, benché abbino principio escusabile, si procede sempre di male in peggio) i soldati italiani, benché non avessino la medesima necessità perché erano pagati, seguitando l'esempio degli spagnuoli, cominciorono a non cedere in parte alcuna alle loro enormità. Donde, con grande ignominia della milizia del secolo presente, non fanno i soldati piú alcuna distinzione dagli inimici agli amici; donde non manco desolano i popoli e i paesi quegli che sono pagati per difendergli che quegli che sono pagati per offendergli.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.9

                                                  

                                                 L'esercito de' collegati, per le condizioni difficili della guarnigione del castello, si accosta di nuovo a Milano. Meraviglia dei capitani svizzeri per la lentezza e l'indecisione dell'esercito. Resa del castello di Milano; patti della resa. Ritirata dell'esercito pontificio da Siena. L'Ungheria assalita dai turchi.

                                                  

                                                 Andavansi in questo tempo consumando tanto le vettovaglie del castello che già gli assediati si appropinquavano alla necessità della dedizione; la quale desiderando di allungare quanto potevano, perché erano da alcuni capi dello esercito de' collegati nutriti con speranza di soccorso, la notte venendo il decimo settimo dí di luglio, messeno fuora per la porta del castello, di verso le trincee che lo serravano di fuora, piú di trecento tra fanti donne e fanciulli e bocche disutili: allo strepito delle quali benché dalla guardia degli inimici fusse dato all'arme, nondimeno, non essendo fatta loro altra opposizione, ed essendo le trincee sí strette che con l'aiuto delle picche si potevano passare, le passorono tutte salve. Erano due trincee lontane due tiri di mano dal castello, e tra l'una e l'altra uno riparo di altezza circa quattro braccia: il quale riparo, cosí come faceva guardia contro al castello, dava sicurtà a chi dal canto di fuora avesse assaltato le trincee. I quali usciti del castello, andati a Marignano dove era l'esercito, e fatto fede della estremità grande in che si trovavano gli assediati e della debolezza delle trincee, poiché insino alle donne e fanciulli le avevano passate, costrinseno i capitani a ritornare per fare pruova di soccorrerlo; consentendo il duca di Urbino, per non ricevere in sé solo questa infamia, di escusazione non tanto facile quanto prima, perché, essendo nello esercito piú di cinquemila svizzeri, non militava piú la causa principale che aveva allegata, di essere pericoloso l'accostarsi senza altri fanti [che] italiani a Milano. Perciò fu determinato nel consiglio, unitamente, che lo esercito non piú da altra parte ma dirittamente si accostasse al castello e che, preso, le chiese di San Gregorio e di Santo Angelo vicine a' rifossi, alloggiasse sotto Milano. Con la quale deliberazione partiti da Marignano si condusseno in quattro dí, per cammino difficile a camminare per la fortezza delle fosse e degli argini, il vigesimo secondo dí di luglio tra la badia di Casaretto e il fiume del Lambro, in luogo detto volgarmente l'Ambra; nel quale luogo il duca, variando quel che prima era stato deliberato nel consiglio, volle che si facesse l'alloggiamento, ponendo la fronte dello esercito alla badia a Casaretto vicina manco di due miglia a Milano, col fiume del Lambro alle spalle, e distendendosi da mano destra insino al navilio, dalla sinistra insino al ponte: in modo che si poteva dire alloggiato tra porta Renza e porta Tosa, perché teneva poco di porta Nuova e, per questi rispetti e per la natura del paese, alloggiamento molto forte. E allegava il duca d'avere fatto mutazione da questo alloggiamento a quello de' monasteri per la vicinità del castello, per non essere tanto sotto le mura che fusse necessitato a mettersi in pericolo e privato della facoltà di voltarsi dove gli paresse, e perché il minacciargli da piú parti gli necessitava a fare in piú luoghi guardie grandi; donde, rispetto al numero delle genti che avevano, si augumentavano le loro difficoltà.

                                                 Condotto in questo alloggiamento l'esercito (del quale una piccola parte, mandata il dí medesimo alla terra di Moncia, la ottenne per accordo, e il dí seguente espugnò con l'artiglierie la fortezza nella quale erano cento fanti napoletani), si ristrinseno i consigli di quello fusse da fare per metter vettovaglie nel castello di Milano, ridotto come si intendeva in estrema necessità; con intenzione di farne uscire Francesco Sforza. E benché molti de' capitani, o perché veramente cosí sentissino o per dimostrarsi animosi e feroci in quelle cose che si avevano a determinare con piú pericolo dello onore e della estimazione di altri che sua, consigliassino che si assaltassino le trincee, nondimeno il duca di Urbino il quale giudicava fusse cosa pericolosissima, non contradicendo apertamente ma proponendo difficoltà e mettendo tempo in mezzo, impediva il farne conclusione: donde essendo rimessa la deliberazione al dí prossimo, i capitani svizzeri dimandorono di essere introdotti nel consiglio, nel quale ordinariamente non intervenivano. Le parole fece per loro il castellano di Mus, che avendone condotto la maggiore parte riteneva titolo di capitano generale tra loro. Il quale, avendo esposto che i capitani svizzeri si maravigliavano che, essendosi cominciata questa guerra per soccorrere il castello di Milano e trovandosi le cose in tanta necessità, si stesse, dove era bisogno di animo e di esecuzione, a consumare il tempo vanamente in disputare se era da soccorrere o no, [disse] non potere credere non si facesse deliberazione opportuna alla salute comune e all'onore di tanti capitani e di tanto esercito; nel quale caso essi fare intendere che riceverebbeno per grandissima vergogna e ingiuria se, nello accostarsi al castello, non fusse dato loro quello luogo della fatica e del pericolo che meritava la fede e l'onore della nazione degli elvezi; né volere mancare di ricordare che, nel pigliare questa deliberazione, non avessino tanto memoria di quegli che avevano perduto con ignominia le imprese cominciate, che si dimenticassino la gloria e la fortuna di coloro che avevano vinto.

                                                 Nelle quali consulte mentre che il tempo si consuma, conoscendosi chiaramente per tutti la intenzione del duca aliena dal soccorrere, sopravenneno nuove, benché non ancora in tutto certe, che il castello era o accordato o in procinto di accordarsi: al quale avviso il duca prestando fede, disse, presente tutto il consiglio, questa cosa, se bene perniciosa per il duca di Milano, essere desiderabile e utile per la lega; perché la liberava dal pericolo che la cupidità o la necessità di soccorrere il castello non inducesse quello esercito a fare qualche precipitazione, essendo stata imprudenza grande di quegli che si erano mai persuasi che e' si potesse soccorrere; che ora, essendo liberati da questo pericolo, si aveva di nuovo a consultare, e ordinare la guerra nel medesimo modo che se fusse il primo dí del principio di essa. Ebbesi poco poi la certezza dello accordo: perché il duca di Milano, essendo ridotto il castello in tanta estremità di vivere che appena poteva sostenersi uno giorno, e disperato totalmente del soccorso, poi che dallo esercito della lega, arrivato due dí innanzi in alloggiamento sí vicino, non vedeva farsi movimento alcuno, continuate le pratiche che già piú dí, per trovarsi preparato a questo caso, aveva tenute col duca di Borbone (il quale, ritirato che fu l'esercito, aveva mandato in castello a visitarlo), conchiuse lo accordo il vigesimoquarto dí di luglio. Nel quale si contenne: che senza pregiudizio delle sue ragioni desse il castello di Milano a' capitani, riceventilo in nome di Cesare, avuta facoltà da loro di uscirne salvo insieme con tutti quegli che erano nel castello; e gli fusse lecito fermarsi a Como, deputatogli per stanza, col suo governo ed entrate, insino a tanto che si intendesse sopra le cose sue la deliberazione di Cesare; aggiugnendogli tante altre entrate che a ragione di anno ascendessino in tutto a trentamila ducati: dessigli salvocondotto per potere personalmente andare a Cesare; e si obligorono pagare i soldati che erano nel castello di quel che si doveva loro per gli stipendi corsi insino a quel dí, che si dicevano ascendere a ventimila ducati: dessinsi in mano del protonotario Caracciolo, Giannangiolo Riccio e il Poliziano, perché gli potesse esaminare; avuta la fede da lui di rilasciargli poi e fargli condurre in luogo sicuro: liberasse il duca di Milano il vescovo di Alessandria, che era prigione nel castello di Cremona; e a Sforzino fusse dato Castelnuovo di Tortonese. Non si parlò in questa convenzione cosa alcuna del castello di Cremona; il quale il duca, non potendo piú resistere alla fame, aveva commesso a Iacopo Filippo Sacco mandato da lui al duca di Borbone che, non potendo ottenere l'accordo altrimenti, lo promettesse loro. Ma egli accorgendosi, per le parole e modi del loro maneggio, del desiderio grande che avevano di convenire, mostrando il duca non essere mai per cedere questo, ottenne non se ne parlasse: perché i capitani imperiali, ancora che per molte congetture comprendessino non essere nel castello molte vettovaglie, e che la necessità presto era per fargli ottenere lo intento loro, nondimeno, desiderosi di assicurarsene, avevano deliberato di accettarlo con ogni condizione, non essendo certi che lo esercito della lega appropinquatosi non tentasse di soccorrerlo; nel quale caso, non confidando del potersi bene difendere le trincee, erano risoluti di uscire in su la campagna a combattere: il quale evento dubbio della fortuna fuggirono volentieri con accettare dal duca quello che potessino avere. Il quale, uscito il dí seguente del castello e accompagnato da molti di loro insino alle sbarre dello esercito, poiché vi fu dimorato uno dí, si indirizzò al cammino di Como; ma allegando, gli imperiali avergli promesso di dargli la stanza sicura in Como ma non già di levarne le genti che vi avevano a guardia, non volendo piú fidarsi di loro, se bene prima avesse deliberato non fare cosa che potesse irritare piú l'animo di Cesare, se ne andò a Lodi: la quale città fu dai confederati liberamente rimessa in sua mano. Né gli essendo stato de' capitoli fatti osservata cosa alcuna, eccetto che lo avere lasciato partire salvi egli con tutti i suoi e con le robe loro, ratificò per instrumento publico la lega fatta dal pontefice e dai viniziani in nome suo.

                                                 Ma in questo tempo medesimo il pontefice, benché per i movimenti de' Colonnesi avesse publicato il monitorio contro al cardinale e contro agli altri della famiglia della Colonna, nondimeno, vedendo molto diminuita la speranza di mutare il governo di Siena, ed essendogli molesto avere travagli nel territorio di Roma, prestò cupidamente orecchi a don Ugo di Moncada; il quale, non con animo di convenire ma per renderlo piú negligente alle provisioni, proponeva che sotto certe condizioni si rimovessino le offese contro a' sanesi e tra i Colonnesi e lui: a trattare le quali cose essendo venuto a Roma Vespasiano Colonna, uomo confidente al pontefice, fu cagione che il pontefice, il quale perduta in tutto la speranza di felice successo intorno a Siena trattava di fare levare dalle mura l'esercito, differí l'esecuzione di questo consiglio salutifero, aspettando, per minore ignominia, di farlo partire subito che fusse conchiuso questo accordo; e nondimeno moltiplicando continuamente i disordini e le confusioni di quello esercito, fu deliberato in Firenze di farlo ritirare. Accadde che il dí precedente a quello che era destinato a partirsi, essendo usciti della città quattrocento fanti verso l'artiglieria alla quale era a guardia Iacopo Corso, egli, subito, con la sua compagnia voltò le spalle; e levato il romore e cominciata la fuga, tutto il resto dello esercito nel quale non era né ubbidienza né ordine, non avendo chi gli seguitasse né chi gli assaltasse, si messe da se medesimo in fuga, facendo a gara i capitani i commissari i soldati a cavallo e i fanti, ciascuno, di levarsi piú presto dal pericolo, lasciate agli inimici le vettovaglie i carriaggi e l'artiglierie; delle quali dieci pezzi, tra grossi e piccoli, de' fiorentini e sette de' perugini furono condotti con grandissima esultazione e quasi trionfando in Siena: rinnovandosi con clamori grandi di quello popolo la ignominia delle artiglierie le quali, grandissimo tempo innanzi perdute da i fiorentini pure alle mura di Siena, si conservavano ancora in sulla piazza publica di quella città. Ricevettesi questa rotta il dí seguente nel quale in potestà de' capitani cesarei pervenne il castello di Milano. E ne' medesimi dí il pontefice, acciò che alle afflizioni particolari si aggiugnessino le calamità della republica cristiana, ebbe avvisi di Ungheria, Solimanno ottomanno, il quale si era mosso di Costantinopoli con potentissimo esercito per andare ad assaltare quel reame, poiché aveva passato il fiume del Savo senza contrasto (perché pochi anni innanzi aveva espugnato Belgrado), avere ora espugnato il castello, credo, di Pietro Varadino passato il fiume della Drava: donde, non gli ostando né monti né impedimenti de' fiumi, si conosceva tutta l'Ungheria essere in manifestissimo pericolo.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.10

                                                  

                                                 Richiesta del duca d'Urbino che venga nominato un capitano generale di tutta la lega; deliberazione di attendere gli svizzeri assoldati dal re di Francia e di assalire Cremona. Ragioni di timori e di apprensione del pontefice. Sollecitazioni e incitamenti del pontefice al re di Francia. Trattative del pontefice anche col re d'Inghilterra. Trattative col duca di Ferrara.

                                                  

                                                 Ma in Italia l'essere pervenuto in potestà di Cesare il castello di Milano pareva che avesse variato molto dello stato della guerra; essendo necessario, come diceva il duca di Urbino, fare nuovi disegni e nuove deliberazioni, come si arebbe avuto a fare se al principio non fusse stato in mano di Francesco Sforza il castello. Con la quale occasione, il dí medesimo che fu fatta la dedizione, discorrendo al luogotenente del pontefice e al proveditore veneto lo stato delle cose, soggiunse bisognare uno capitano generale di tutta la lega, al quale fusse commesso il governo degli eserciti; né dimandare questo piú per sé che per altri, ma avere bene deliberato di non prendere piú, senza questa autorità, pensiero alcuno se non di comandare alle genti viniziane; ricercandogli lo significassino a Roma e a Vinegia: dalla quale dimanda, fatta in tempo tanto importuno e con grandissima iracondia del pontefice, per rimuoverlo fu necessario che il senato viniziano mandasse in campo Luigi Pisano, gentiluomo di grande autorità; per opera del quale si moderò, piú presto alquanto che si estinguesse, questo ardore. Ma quanto al modo del procedere in futuro nella guerra, si deliberò che l'esercito non si rimovesse di quello alloggiamento insino a tanto venissino i svizzeri i quali si soldavano col nome e per mezzo del re di Francia; alla venuta de' quali affermava il duca essere necessario fare due alloggiamenti da due bande diverse intorno a Milano, non per assaltare né per tentare di sforzarlo ma per farlo cadere per mancamento delle vettovaglie, il che diceva confidare potere succedere in termine di tre mesi: ribattendo sempre caldamente l'opinione di quegli che consigliavano che, fatti che fussino questi alloggiamenti, si tentasse di espugnare quella città; perché, essendo la lega potentissima di danari e avendone gli imperiali grandissima difficoltà, tutte le ragioni promettevano la vittoria della impresa, nessuna fare timore del contrario se non il desiderio di accelerarla, perché col tempo e con la pazienza consumandosi gli avversari non poteva mancare che le cose non si conducessino a felice fine. Ed essendogli qualche volta risposto, il discorso essere verissimo ogni volta che si potesse stare sicuro che di Germania non venisse soccorso di nuovi fanti (il quale quando venisse, tale che gli imperiali potessino uscire alla campagna, non si potere negare che le cose restassino totalmente sottoposte allo arbitrio della fortuna), replicava, in quello caso promettersi la vittoria non manco certa, perché conoscendo la caldezza di Borbone giudicava che ogni volta che e' si reputasse pari di forze allo esercito de' confederati si spignerebbe tanto innanzi che e' darebbe a loro occasione di avere con facilità qualche prospero successo che accelererebbe la vittoria. Ma perché, per le difficoltà che si intendevano essere nella condotta de' svizzeri, si dubitava che la venuta loro non tardasse molti dí, e però essere molto dannosa la perdita di tanto tempo, fu deliberato, per consiglio principalmente del duca di Urbino e instando anche al medesimo il duca di Milano, di mandare subito Malatesta Baglione, con trecento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, alla espugnazione di Cremona; impresa giudicata facile, perché vi erano dentro poco piú di cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri mille elettissimi fanti tedeschi e trecento spagnuoli, pochissime artiglierie e minore copia di munizioni, non molta vettovaglia, il popolo della città, benché invilito e sbattuto, inimico, il castello contrario; il quale benché fusse stato separato dalla città con una trincea, nondimeno, per relazione di Annibale Picinardo castellano, si poteva sperare di torgli i fianchi, e però facilmente di espugnarla. Andò Malatesta con questi consigli a Cremona: per la partita del quale essendo diminuite le genti dello esercito, non stava il duca di Urbino con leggiero sospetto che le genti che erano in Milano non assaltassino una notte gli alloggiamenti, tanto erano lontane le cose dalla speranza della vittoria. Commettevansi nondimeno spessissime scaramuccie, per ordine di Giovanni de' Medici; nelle quali benché apparisse molto la sua ferocia e la sua virtú, e il valore de' fanti italiani stati oscuri insino che cominciorno a essere retti da lui; nondimeno non giovavano, anzi piú presto nocevano, alla somma della guerra, per le frequenti uccisioni de' fanti esercitati e di maggiore animo.

                                                 Ma in questo mezzo i successi avversi delle cose avevano indebolito molto dell'animo del pontefice, non bene proveduto di danari alla lunghezza, la quale già appariva, della guerra, né disposto a provederne con quegli modi che ricercava la importanza delle cose, e co' quali erano soliti a provederne gli altri pontefici, non era bene sicuro della fede del duca di Urbino, né confidava molto della sua virtú: ricevuta anche grandissima alterazione che nella declinazione delle cose avesse dimandato il capitanato generale, onore solito a dimandarsi piú presto per premio della vittoria. Ma lo turbava ancora molto piú il non si vedere che gli effetti del re di Francia corrispondessino alle obligazioni della lega, e a quello che ciascuno si era promesso di lui. Perché, oltre all'essere proceduto molto lentamente al pagamento de' quarantamila ducati per il primo mese, e la tardità usata alle provisioni necessarie per la espedizione de' svizzeri, non si vedeva preparazione alcuna per dare principio a muovere la guerra di là da' monti, allegando essere necessario che prima si facesse la intimazione a Cesare, secondo che si disponeva per i capitoli della confederazione; perché, facendo altrimenti, il re di Inghilterra, il quale aveva lega particolare con Cesare a difensione comune, per avventura lo aiuterebbe, ma fatta la intimazione cesserebbe questo rispetto; e che però prontamente moverebbe la guerra, e sperava che il re di Inghilterra farebbe il medesimo: il quale prometteva, subito che fusse fatta la intimazione, protestare a Cesare, e dipoi entrare nella confederazione fatta a Cugnach. Procedeva anche il re freddamente a preparare l'armata marittima, e, quel che manifestava piú l'animo suo, tardavano molto a passare i monti le cinquecento lancie le quali era obligato a mandare in Italia. E benché si allegasse procedere questa tardità o dalla negligenza de' franzesi o dalla impotenza de' danari e dal credito perduto negli anni prossimi co' mercatanti di Lione, o dallo essere le genti d'arme in grandissimo disordine per il danno ricevuto nella giornata di Pavia, e perché da poi avevano avuto niuno o pochissimi denari, in modo che, avendosi a rimettere quasi del tutto in ordine, non potevano espedirsi senza lunghezza di tempo, nondimeno chi considerava piú intrinsecamente i progressi delle cose cominciava a dubitare che il re avesse piú cara la lunghezza della guerra che la celerità della vittoria, dubitando (com'è piccola la fede e confidenza che è tra' príncipi) che gli italiani, ricuperato che avessino il ducato di Milano, tenendo piccolo conto degli interessi suoi, o non facessino senza lui concordia con Cesare o veramente fussino negligenti a travagliarlo in modo che avesse a restituirgli i figliuoli. Accresceva la sospensione del pontefice che il re di Inghilterra, ricercato di entrare nella confederazione, della quale era stato confortatore, non corrispondendo alle persuasioni e promesse che aveva fatto prima, dimandava, piú presto per interporre dilazione che per altra cagione, che i confederati si obligassino a pagargli i danari dovutogli da Cesare, e che lo stato e l'entrata promessagli nel regno di Napoli si trasferisse nel ducato di Milano. Temeva anche il pontefice che i Colonnesi, i quali con vari moti lo tenevano in continuo sospetto, con le forze del reame di Napoli non l'assaltassino. Però, raccolte insieme tutte le difficoltà, tutti i pericoli, faceva instanza co' collegati che, oltre al sollecitare ciascuno per la sua parte le provisioni terrestri e marittime espresse ne' capitoli della lega, si assaltasse comunemente il regno di Napoli con mille cavalli leggieri e dodicimila fanti e con qualche numero di gente d'arme; giudicando, per gli effetti succeduti insino a quel dí, che le cose non potessino succedere prosperamente se Cesare non fusse molestato in altro luogo che nel ducato di Milano.

                                                 Per le quali cagioni mandò al re di Francia Giovambatista Sanga romano, uno de' suoi secretari, per incitarlo a pigliare la guerra con maggiore caldezza, dimostrandogli quanto esso si trovasse esausto e impotente a continuare nelle spese medesime se non era anche soccorso da lui di qualche quantità di denari: che, non ostante che nella confederazione non fusse stato trattato di assaltare il reame di Napoli mentre durava la guerra di Lombardia, si disponesse a fare questa impresa di presente; alla quale benché i viniziani, per non si aggravare di tante spese, avessino da principio fatto difficoltà, nondimeno, vinti dalla sua instanza, avevano consentito di concorrervi, eziandio senza il re ma con tanto minore numero di gente quanto importava la sua porzione: che il re per questa cagione, oltre alle cinquecento lance, alle quali aveva disegnato per capo il marchese di Saluzzo, mosso piú, secondo diceva, dalla buona fortuna che dalla virtú dell'uomo, mandasse altre trecento lance in Lombardia, per poterne trasferire una parte nel reame di Napoli: che si sollecitasse la venuta dell'armata di mare, o per strignere con essa Genova o per voltarla al regno di Napoli; la quale benché dai franzesi fusse spedita con la medesima lentezza che si spedivano l'altre provisioni, nondimeno si andava continuamente sollecitando. Ed era l'armata del re quattro galeoni e sedici galee sottili, i viniziani tredici galee, il papa undici; della quale tutta era deputato capitano generale, a instanza del re, Pietro Navarra, non ostante che il papa avesse avuta piú inclinazione a Andrea Doria. Fu oltre a tutte queste [cose] commesso al Sanga, secretissimamente, che tentasse il re a fare la impresa di Milano per sé, per dargli cagione che con tutte le forze sue si risentisse alla guerra.

                                                 Ebbe anche il Sanga commissione di andare poi al re di Inghilterra, per domandargli sussidio di denari: con ciò sia che quel re, che da principio desiderava tanto la guerra contro a Cesare che se la lega si fusse trattata in Inghilterra, come egli ed Eboracense desideravano, si crede sarebbe entrato nella confederazione; ma non avendo patito il tempo e la necessità del castello di Milano che si facesse lunga pratica, poiché vidde fatta la lega per gli altri, gli parve potersi stare di mezzo come spettatore e giudice.

                                                 Trattava anche il pontefice, stimolato da' viniziani e non meno dal re di Francia, il quale a questo effetto aveva mandato il vescovo di Baiosa a Ferrara, di comporre le differenze con quello duca, benché piú presto in apparenza che in effetto; opponendogli diversi partiti, e tra gli altri di dargli Ravenna in contracambio di Modona e di Reggio: cosa disprezzata dal duca, non solo perché, avendo già preso animo dalla ritirata dello esercito dalle porte di Milano, si rendeva piú difficile che il solito a' partiti propostigli, e a questo di Ravenna specialmente; e per essere molto diverse le entrate, e perché questo gli pareva mezzo da farlo venire, a qualche tempo, in contenzione co' viniziani.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.11

                                                  

                                                 Provvedimenti di Cesare per la guerra. Vani assalti di milizie dei collegati a Cremona. Deliberazione del duca d'Urbino di recarvisi con nuove milizie. Giudizi sfavorevoli intorno al modo con cui è stata condotta l'impresa contro Milano. Le armate veneziana, pontificia e francese dominano il mare intorno a Genova. Resa di Cremona.

                                                  

                                                 Queste erano le pratiche le preparazioni e le opere de' confederati, differite interrotte e variate, secondo le forze secondo i fini e i consigli de' príncipi. Ma non era già in Cesare, le deliberazioni del quale dependevano da se stesso, né negligenza né irresoluzione di quello che comportassino le forze sue. Perché avendo il re di Francia, a instanza degli oratori de' confederati, denegato licenza al viceré (che la dimandò insino con le lacrime) di passare in Italia, egli, rifiutati doni di valore di ventimila ducati, se ne era ritornato in Spagna, portando seco (publicò lui) cedola di mano del re di Francia di essere parato all'osservanza dell'accordo di Madril, permutando la restituzione della Borgogna in pagamenti di due milioni di ducati: al ritorno del quale, Cesare, perduta ogni speranza che il re di Francia osservasse la capitolazione, deliberò mandarlo in Italia con una armata che portasse i fanti tedeschi, i quali in numero poco manco di tremila si stavano a Perpignano, e tanti altri fanti spagnuoli che in tutto facessino il numero di seimila; provedeva di mandare di nuovo a Milano centomila ducati, sollecitando la espedizione dell'armata, la quale non poteva essere sí presto perché, oltre al tempo che andava a metterla insieme e a preparare i fanti spagnuoli, era necessario pagare a' tedeschi centomila ducati de' quali erano creditori per gli stipendi passati; commetteva anche assiduamente in Germania che a Milano si mandasse soccorso di nuovi fanti, ma non vi provedendo a' denari per pagargli, ed essendo il fratello per la povertà sua impotente a provedergli, procedeva molto tardi questa espedizione.

                                                 E nondimeno la tardità e i successi poco prosperi de' confederati facevano che si potesse aspettare ogni dilazione. Perché Malatesta, condotto a Cremona, piantò, la notte de' sette di agosto, l'artiglierie alla porta della Mussa, giudicando quel luogo essere debole perché era male fiancheggiato e senza terrapieno; e volendo nel tempo medesimo dare lo assalto dalla banda del castello, giudicava a proposito battere in luogo lontano, perché fussino necessitati quegli di dentro a dividere tanto piú le genti loro. Nondimeno, battuto che ebbe, parendogli che quel luogo fusse forte e bene riparato, e (credo) la batteria fatta tanto alto che restava troppo eminente da terra l'altezza del muro, si risolvé di non gli dare lo assalto ma cominciare, con consiglio diverso, una batteria nuova vicina al castello, in luogo detto Santa Monica, dove già aveva battuto Federigo da Bozzole: e nel tempo medesimo faceva due trincee in su la piazza del castello, una che tirava a mano destra verso il Po, dove quegli di dentro avevano fatto due trincee; e sperava, con la sua, tôrre loro uno bastione al quale già si era avvicinato a sei braccia, il quale bastione quale già si era avvicinato a sei braccia, il quale bastione era nella prima trincea loro appresso alla muraglia della terra; e pigliandolo, disegnava servirsene per cavaliere a battere a lungo della muraglia dove batterono i franzesi. Però gli imperiali facevano un altro bastione dietro all'ultima trincea loro. L'altra trincea di Malatesta era da mano sinistra verso la muraglia, e già tanto vicina alla loro che si aggiugnevano co' sassi. E condotto le trincee al disegno suo, determinava fare la batteria. Né lo impedivano a fare lavorare l'artiglierie degli inimici, perché in Cremona non erano piú che quattro falconetti, poca munizione, e traevano molto poco. Nondimeno i fanti di dentro non restavano, uscendo fuora, di travagliare quegli che lavoravano alle trincee, mettendogli spesso, non ostante avessino grossa guardia, in molte difficoltà: donde Malatesta, quasi incerto di quello che avesse da fare, confondeva, con non molta sua laude, con vari giudíci scritti nelle sue lettere, i capitani dello esercito. I quali, vedendo la oppugnazione riuscire continuamente piú difficile, feciono andare nel campo suo mille dugento fanti tedeschi, condotti di nuovo dai viniziani a spese comuni del pontefice e loro, sotto Michele Gusmuier rebelle di Cesare e del fratello; e pochi dí poi, per provedere alla discordia ed emulazione che era tra Malatesta e Giulio Manfrone, vi andò dallo esercito con tremila fanti il proveditore Pesero, che di somma benivolenza era già diventato poco accetto al duca di Urbino. Ma la notte venendo i tredici dí di agosto, fece Malatesta piantare quattro pezzi di artiglieria tra la porta di santo Luca e il castello, per pigliare uno bastione; dove, essendosi battuto quasi tutto il dí, fece sboccare la trincea con speranza di pigliare la notte medesima il bastione. Ma alla quarta ora della notte, pochi fanti tedeschi assaltorno la guardia delle trincee che era, tra dentro e fuora, piú di mille fanti, e disordinati gli costrinseno ad abbandonarla (benché il dí seguente furono costretti a partirsene); in modo che la trincea, fatta con tanta fatica restò abbandonata dall'una parte e dall'altra. Ma la fortuna volle mostrarsi favorevole a quegli di fuori, se avessino saputo o conoscere o pigliare l'occasione: perché la notte, venendo i quindici, cascorono da se medesime circa cinquanta braccia di muraglia tra la porta di Santo Luca e il castello, insieme con uno pezzo della loro artiglieria; dove se con prestezza, venuto che fu il dí, si fusse presentata la battaglia erano quegli di dentro, spaventati da accidente sí improviso, senza speranza di resistere, perché il luogo dove arebbeno avuto a stare alla difesa restava scoperto dall'artiglieria del castello. Ma mentre che Malatesta tarda, prima a risolversi poi a mettere in ordine di dare lo assalto, i soldati, lavorando di dentro sollecitamente, e copertisi, la prima cosa, co' ripari dalla artiglieria del castello, si riparorono anche alla fronte degli inimici; in modo che quando fu presentato lo assalto, che erano già venti ore del dí, ancora che a quella banda si voltasse la maggiore parte del campo, nondimeno si accostorono, perché andavano troppo scoperti, con gravissimo danno; e accostatisi, erano, oltre all'altre difese, battuti da infiniti sassi gittati da quegli di dentro, in modo vi restò morto Giulio Manfrone il capitano Macone e molti altri soldati di condizione. Dettesi anche nel tempo medesimo un altro assalto per la via del castello, dove furno ributtati, benché con poco danno: ed era anche ordinato che alla batteria fatta da Santa Monica si desse un altro assalto, con ottanta uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille fanti; ma, avendo trovato il fosso pieno di acqua e il luogo bene fortificato, si ritirorono senza tentare. Sopravenne poi il proveditore Pesero, con tremila fanti italiani con piú di mille svizzeri e con nuova artiglieria, per potere fare due batterie gagliarde; in modo che, trovandosi piú di ottomila fanti, disegnavano fare due batterie, dando l'assalto a ciascuna con tremila fanti, e assaltare anche dalla parte del castello con dumila fanti: e avendo condotto in campo grandissima quantità di guastatori, lavoravano sollecitamente alle trincee; delle quali essendo spuntata una a' ventitré di agosto, ottenneno dopo lunga battaglia di coprire uno fianco degli inimici. La notte dipoi, precedente al dí vigesimo sesto, furno fatte due batterie; una guidata da Malatesta, di là dal luogo dove aveva battuto Federigo, l'altra alla porta della Mussa, guidata da Cammillo Orsino: l'una e l'altra delle quali ebbe poco successo; perché il terreno dove piantò Malatesta, per essere paludoso, non teneva ferma l'artiglieria, e acconsentendo, ogni volta che la tirava, i colpi battevano troppo alto; quella di Cammillo fu bassa, ma si trovò che vi era la fossa con l'acqua e tanti fianchi di archibusi che non si poteva andare innanzi. Però, ancora che non ostante queste difficoltà si desse la battaglia, si ricevé quivi molto danno; e benché dal canto di Malatesta i fanti si conducessino alla muraglia, passati una fossa dove era l'acqua dentro piú profonda che non si era inteso, furono facilmente ributtati. Fu anche dal canto del castello tirata giú una parte del cavaliere, e vi montorono su i fanti; ma la scesa dal lato di dentro era troppo alta, e avevano fatto gli imperiali da quella parte innanzi al castello tre mani di trincee con due mani di cavalieri e con fianchi, e dopo quegli ancora ripari: però da ogni banda, e da un altro canto ancora sotto uno riparo, furono ributtati gli assaltatori, che per tutto avevano assaltato con poco ordine e con piccolissimo danno degli inimici, morti e feriti molti di loro.

                                                 Costrinseno questi disordini e il perdersi la speranza di pigliare altrimenti Cremona (perché in quel campo mancava governo e obbedienza) il duca di Urbino a andarvi personalmente. Il quale, levato dello esercito che era intorno a Milano quasi tutti i fanti de' viniziani, e lasciatavi una parte delle genti d'arme con tutte le genti ecclesiastiche e i svizzeri, che erano già arrivati in numero di tredicimila, sprezzando (ora che vi restava minore numero di gente, e spogliata di uno capo di tale autorità) quello pericolo che prima, quando vi era egli con maggiori forze, dimostrava continuamente di temere, e affermando non essere uso di genti di guerra, e degli spagnuoli manco che degli altri, assaltare altre genti di guerra nella fortezza de' loro alloggiamenti, si condusse intorno a Cremona; disegnando di vincerla non per forza sola di batteria e di assalti, perché i ripari degli inimici erano troppo gagliardi, ma col cercare con numero grandissimo di guastatori accostarsi alle trincee e bastioni loro, e con la forza delle zappe piú che con l'armi insignorirsene.

                                                 Fu imputato il governo di questa impresa contro allo stato di Milano dai capitani imperiali in molte cose, e principalmente della ritirata da porta Romana, ma non manco dello avere tentata da principio debolmente e con poche forze la oppugnazione di Cremona, confidandosi vanamente che fusse facile il pigliarla, e che dipoi scoprendosi le difficoltà avessino, continuandola, impegnatovi tale parte dello esercito che avesse impedito loro le occasioni maggiori che nel tempo che si consumò quivi si presentorono. Perché, essendo già arrivato in campo il numero intero tanto desiderato de' svizzeri, si poteva facilmente, serrando Milano (secondo che sempre si era disegnato) con due eserciti, impedire la copia grande delle vettovaglie che per la via di Pavia continuamente vi entravano; le quali l'esercito solo che era a Lambrà, per avere a fare circuito grande, non poteva impedire. Ma molto piú importò perdere l'occasione che si aveva, forse, di sforzare Milano; perché nella gente che vi era dentro erano sopravenute tante infermità che, bastando con difficoltà quegli che erano sani a fare le fazioni e le guardie ordinarie, fu giudicio di molti, e degli imperiali medesimi, che se in quel tempo fussino stati travagliati strettamente portavano pericolo grande di non si perdere.

                                                 Ma maggiore e piú certa occasione era anche quella di pigliare Genova. Perché essendo l'armata viniziana congiunta con quella del pontefice a Civitavecchia, e di poi fermatesi nel porto di Livorno per aspettare l'armata franzese, la quale con sedici galee quattro galeoni e quattro altri navili, condotta nella riviera di ponente, aveva, per accordo anzi per volontà della città, ottenuta Savona e tutta la riviera di ponente, e presi dipoi piú navili carichi di grano che andavano a Genova, passò a Livorno a unirsi con l'altre. Erasi anche deliberato che, a spese comuni de' collegati, si armassino nel porto di Marsilia dodici navi grosse, o per assaltare, secondo il consiglio di Pietro Navarra, insieme con le galee franzesi, l'armata la quale si preparava nel porto di Cartagenia, o almeno per rincontrarla nel mare. Dove fatta vela le tre armate, a' ventinove di agosto, si fermorono l'ecclesiastica e la viniziana a Portofino, la franzese ritornò a Savona; donde senza contrasto, scorrendo tutti i mari, strignevano in modo Genova, dove era mancamento di vettovaglie, che non potendo entrarvi piú per mare cosa alcuna non è dubbio che, se si fusse mandato qualche numero di gente per la via di terra a impedire quello che era solo il loro rifugio, bisognava che Genova s'accordasse: né i capitani delle armate, ora con lettere ora con messi propri, facevano instanza di altro; chiedendo che almanco si mandassino per la via di terra quattromila fanti. Ma né del campo di Cremona si poteva levare gente, e parendo al duca e agli altri pericoloso il diminuire l'esercito che era a Milano, si intrattenevano con la speranza che, spedita Cremona, si manderebbe una banda di gente sufficiente.

                                                 La quale impresa (come era gagliarda la virtú de' difensori, e come le opere grandi che si fanno co' guastatori ricercano molto tempo) procedeva ogni dí con maggiore lunghezza che non era stato creduto. Perché il duca, avendo voluto avere in campo dumila guastatori, molte artiglierie e munizioni e grandissima copia di instrumenti atti a lavorare, di ogni sorte, faceva assiduamente lavorare nelle trincee del castello e al bastione di verso il Po, per guadagnarlo e servirsene per cavaliere; ancora che gli inimici, avendone dubitato piú dí, si erano tirati addietro con uno riparo gagliardo. E si lavorava ancora alle due teste della trincea che attraversava la piazza del castello, per rovinare i cavalieri che vi avevano; e tra le due trincee del campo si lavorava un'altra trincea larga sei braccia, coprendosi col terreno, innanzi e dal lato, per fare uno cavaliere, come si arrivasse alla fossa della trincea degli inimici. Lavoravasi ancora uno fosso fuora del castello verso il muro della terra, per andare a trovare il bastione di verso la muraglia rovinata; e dalla porta di Santo Luca insino alla muraglia medesima si lavorava un altra trincea, né si cessava di battere con l'artiglierie piantate nel castello i ripari degli inimici; i quali per la malignità del terreno, che era terra molto trita, erano passati facilmente da quelle: non stando anco oziosi quegli di dentro, perché, per diffidenza di potere tenere lungamente le loro trincee e cavalieri, lavoravano uno fosso verso le case della città; e nondimeno uscivano spesso fuora con molto vigore, assaltando i lavori. E la notte venendo i sette, assaltorno le trincee che si lavoravano dalla banda del castello, da tre parti: dove trovato i fanti che le guardavano quasi tutti a dormire ne ammazzorono piú di cento e parecchi capitani, e si condussero insino al rivellino del castello. E nondimeno le cose loro continuamente si strignevano. Perché fattosi il duca d'Urbino la via con le trincee insino a' ripari loro, che separavano il castello dalla città, assaltandogli dipoi con qualche scoppiettiere e con qualche buono soldato coperto con gli scudi, faceva loro grande danno; e l'artiglieria anche, dalle torri del castello, faceva il medesimo. Però gli imperiali abbruciorono il loro riparo che si faceva di contro al cavaliere, perché non fusse parapetto a quelli di fuora; ed essendosi, a' diciannove, sboccate due trincee nelle fosse loro, si ritiravano con altre trincee: delle quali il duca d'Urbino teneva poco conto, perché per la brevità del tempo non potevano essere bene fortificate e perché, ritirandosi piú al largo, era necessaria a difenderle maggiore guardia; e nondimeno dalla banda del campo, se bene le opere fussino finite, si procedeva con qualche lentezza, essendo necessario riordinare e rinnovare i fanti de' viniziani, stati molto tempo senza danari e però diminuiti molto di numero, sopravenendo sempre nelle cose de' collegati disordine sopra disordine. A che mentre si attendeva uscivano spesso la notte a tentare le trincee, ma indarno, perché l'esperienza della percossa ricevuta aveva insegnato agli altri. Ma ricondotti i fanti a bastanza, cominciò il duca di Urbino, a' ventidue, a battere a una torre a canto alla batteria di Federigo; dove avendo battuto pochissimi colpi, conoscendo gli inimici essere ridotti in termine che non potevano ricusare di accordarsi, mandò dentro uno trombetto a ricercare la città, col quale usciti fuora uno capitano tedesco uno capitano spagnuolo e Guido Vaina, il dí seguente fu fatta capitolazione: che, non avendo soccorso per tutto il mese, avessino a lasciare Cremona, e che a' tedeschi fusse permesso andarsene in Germania, agli spagnuoli nel regno di Napoli, promettendo non andare fra quattro mesi alla difesa dello stato di Milano; lasciassino tutte le artiglierie e munizioni, e partissinsi con le bandiere serrate senza sonare tamburi o trombe, eccetto che nel levarsi.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.12

                                                  

                                                 Risultato delle pratiche del pontefice coi re di Francia e d'Inghilterra. Grigioni al servizio dei collegati. Tiepide azioni di guerra fra gli avversari in Lombardia. Gravezze dei fiorentini e molestie dei senesi.

                                                  

                                                 Aveva in questo mezzo il re di Francia, alla corte del quale si fermò, pochi dí poi, come legato, il cardinale de' Salviati, partitosi di Spagna con licenza di Cesare, risposto alle richieste fattegli in nome del pontefice, escusandosi se le opere non sarebbono eguali alla volontà, per essere molto esausto di danari; ma nondimeno, se gli concedeva facoltà di riscuotere una decima dell'entrate beneficiali per tutto il regno, lo sovverrebbe, con una parte de' danari che se ne riscotessino, di ventimila ducati il mese, e che concorrerebbe alla guerra di Napoli: cosa che ebbe molta dilazione, perché il pontefice, allegando la degnità della sedia apostolica, recusava di concederla. Denegava, benché da principio vi dimostrasse inclinazione, di attendere per sé all'acquisto del ducato di Milano, dissuadendonelo massime Lautrech e la madre: del rompere la guerra di là da' monti dava speranza, ma diceva (il che si negava) essere necessario che precedesse la intimazione; la quale fatta, offeriva di muovere la guerra a' confini della Fiandra e di Perpignano, benché si comprendeva non v'avesse disposizione, non essendo in questo diverso l'animo suo da quello del re di Inghilterra. Appresso al quale l'espedizione fatta per parte del pontefice fece piccolissimo frutto: perché volendo il cardinale eboracense intrattenere ciascuno ed essere pregato da tutti, non procedevano a conclusione alcuna; anzi e il re e il cardinale rispondevano spesso: - A noi non appartengono le cose di Italia. - Anzi il re di Francia offeriva, consentendogli il pontefice le decime, volere convertire tutti i danari nella guerra di Italia; non lo consentendo, ne offeriva il mese ventimila, con condizione che non si spendessino se non o contro a Milano o contro al regno di Napoli.

                                                 Nel quale tempo temendosi che i grigioni, i quali nell'assedio del castello di Milano avevano recuperato e spianato Chiavenna, non si conducessino col duca di Borbone, o almanco permettessino che i tedeschi che si aspettavano al soccorso suo passassino per il paese loro, il pontefice e i viniziani si obligorno di condurre dumila fanti grigioni agli stipendi loro, pagare al castellano di Mus (il quale, temendo del duca di Milano quando venne nell'esercito, si era fuggito di campo, e dipoi, pretendendo essere creditore per i pagamenti fatti a' svizzeri, aveva fatti prigioni due imbasciadori viniziani che andavano in Francia) ducati cinquemila cinquecento che sforzati gli avevano promessi, restituirne a loro altrettanti che aveva estorti; fargli liberare da' dazi nuovi imposti a chi navigava per il lago di Como da lui. I quali si obligorno di impedire il passo a tedeschi, e operorno che Tegane, condotto dal duca di Borbone con dumila fanti, non andasse.

                                                 Ma intanto procedevano l'altre cose di Lombardia tiepidamente. Perché l'esercito intorno a Milano, nel quale era diminuito molto il numero, ma non le paghe, de' svizzeri, stava ozioso, non facendo altro che le consuete scaramuccie. Piú sollecite e maggiori molestie partorivano l'opere degli spagnuoli che erano in Carpi; i quali, avendo tacitamente avvisi di spie e comodità di ricetti nel territorio del duca di Ferrara, davano impedimento grandissimo a' corrieri e all'altre persone che andavano all'esercito; e correndo per tutti i paesi circostanti, insino nel bolognese e nel mantovano, non però contro ad altri che contro a' sudditi ecclesiastici, facevano danni innumerabili. Era pure, finalmente, il marchese di Saluzzo con le cinquecento lancie franzesi passato nel Piemonte; per la venuta del quale Fabrizio Maramaus, che posto a campo a Valenza, nella quale era a guardia Giovanni da Birago, la batteva con l'artiglierie, si ritirò a Basignana: ma recusando il marchese passare piú innanzi se dai confederati non gli erano pagati, per eguale porzione, quattromila fanti, i quali aveva con questa intenzione menati di Francia, e facendone il re grandissima instanza, per sicurtà delle sue genti d'arme e per maggiore riputazione del marchese, fu necessario acconsentirlo. Occupò nel tempo medesimo Sinibaldo dal Fiesco la terra di Pontriemoli, posseduta da Sforzino; ma con la medesima facilità fu presto recuperata per mezzo della rocca. In Milano pativano assai di danari, perché da Cesare non ne veniva provisione alcuna; e la povertà e le spese intollerabili de' milanesi erano tali che con difficoltà si riscotevano i trentamila ducati stati promessi dal popolo al duca di Borbone: col quale si condussono, per non essere accettati agli stipendi de' confederati per le spese grandissime che avevano, Galeazzo da Birago e Lodovico conte da Belgioioso i quali insino a quel dí avevano in ogni accidente seguitata la parte franzese. Giovanni da Birago occupò Novi. Ne' quali movimenti lo stato del marchese di Mantova era come comune a ciascuno, scusandosi per essere soldato del pontefice e feudatario di Cesare; anzi, essendo propinqua al fine la condotta sua, si ricondusse per altri quattro anni col pontefice e co' fiorentini, con espressa condizione di non essere tenuto di fare né con la persona né con lo stato suo contro a Cesare: benché nel principio della guerra avesse desiderato di andare personalmente nello esercito; il che non piacendo al pontefice perché non confidava del suo governo, gli aveva risposto che, essendo feudatario di Cesare, non voleva metterlo in questo pericolo.

                                                 Questo era allora lo stato delle cose di Lombardia. In Toscana i fiorentini, non avendo né eserciti né armi nel territorio loro, sentivano con lo spendere le molestie della guerra; [perché il pontefice], non avendo co' modi ordinari danari, e ostinato a non ne provedere con gli estraordinari, lasciava con grandissima empietà addosso a loro quasi tutte le spese che si facevano in Lombardia. I sanesi non stavano senza molestia nelle parti marittime, perché Andrea Doria, il quale da principio aveva occupato Talamone e Portoercole, gli faceva continuamente guardare, benché Talamone, non molto poi, dal capitano preposto alla guardia fusse dato a' sanesi; e i fuorusciti, fomentati dal pontefice, facevano nella Maremma qualche molestia: nella quale Giampaolo figliuolo di Renzo da Ceri, soldato del pontefice, presa furtivamente con alcuni cavalli la porta della terra di Orbatello, sopravenendo poi con i suoi cavalli e fanti occupò la terra.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.13

                                                  

                                                 Capitolazione fra il pontefice ed i Colonna. Notizia della vittoria dei turchi sugli ungheresi; effetti sul pontefice. Perfidia dei Colonnesi contro il pontefice; tumulto provocato in Roma; tregua fra il pontefice, gli imperiali ed i Colonnesi. Conseguenza di essa in Lombardia; partenza dei soldati tedeschi e spagnuoli da Cremona.

                                                  

                                                 Ma a Roma succederono cose di grandissimo momento, causate non per virtú di armi ma per

            insidie e per fraude, con ignominia grande del pontefice e con disordinare le speranze di Lombardia; dove si sperava, per l'acquisto di Cremona, condurre a fine la impresa di Genova e di potere, secondo i disegni fatti prima, fare due diversi alloggiamenti intorno a Milano. Perché dopo la rotta ricevuta a Siena, non sperando il pontefice potere travagliare con grandi effetti i Colonnesi, e avendo volto l'animo ad assaltare con maggiori forze, come è detto, il regno di Napoli, e da altro canto non sperando i Colonnesi né gli agenti di Cesare potere fare effetti notabili contro a lui, e desiderando ancora di torgli tempo insino a tanto venisse il viceré con l'armata di Spagna, mandato a Roma Vespasiano Colonna, alla fede del quale il papa credette, avevano, a' ventidue di agosto, capitolato insieme: che i Colonnesi rendessino Anagnia e gli altri luoghi presi; ritirassino le genti nel reame di Napoli, né tenessino piú soldati nelle terre le quali posseggono nel dominio ecclesiastico; non pigliassino l'armi a offesa del pontefice se non come soldati di Cesare, nel quale caso fussino tenuti a deporre in mano del pontefice gli stati che hanno nella giurisdizione ecclesiastica; potessino liberamente servire Cesare contro a ciascuno alla difensione del reame napoletano; e da altro canto il pontefice perdonasse a tutti l'offese fatte, abolisse il monitorio fatto al cardinale Colonna, non offendesse gli stati loro né gli lasciasse offendere dagli Orsini. Sotto la quale capitolazione mentre che il papa, tenendo conto piú che di altro della fede di Vespasiano, incauto si riposa, avendo licenziato i cavalli e quasi tutti i fanti che aveva soldato, e quegli pochi che gli restavano mandati ad alloggiare nelle terre circostanti, e raffreddato anche i disegni dello assaltare il regno di Napoli, le spesse querele e protesti che avevano da Cremona e da Genova (donde era significato che, se i progressi de' confederati non si interrompevano con potente diversione, quelle città non potevano piú sostenersi); però, non avendo modo a fare scopertamente guerra gagliarda e che partorisse rimedi sí subiti, volsono l'animo e i pensieri a opprimere con insidie il pontefice.

                                                 Le quali mentre che si preparano, acciò che alla afflizione che aveva per le cose proprie si aggiugnesse anche l'afflizione per le cose publiche, sopravenneno nuove che Solimanno ottomanno principe de' turchi aveva rotto in battaglia ordinata Lodovico re di Ungheria, conseguendo la vittoria non manco per la temerità degli inimici che per le forze sue; perché gli ungheri, ancora che pochissimi di numero a comparazione di tanti inimici, confidatisi piú nelle vittorie avute qualche volta per il passato contro a' turchi che nelle cose presenti, persuasono al re, giovane di età ma di consiglio anche inferiore alla età, che per non oscurare la fama e l'antica gloria militare de' popoli suoi, non aspettato il soccorso che veniva di Transilvania, si facesse incontro agli inimici, non recusando anche di combattere in campagna aperta, nella quale i turchi per la moltitudine innumerabile de' cavalli sono quasi invitti. Corrispose adunque l'evento alla temerità e imprudenza: fu rotto l'esercito raccolto di tutta la nobiltà e uomini valorosi di Ungheria, commessa di loro grandissima uccisione, morto il re medesimo e molti de' principali prelati e baroni del regno. Per la quale vittoria tenendosi per certo che il turco avesse a stabilire per sé tutto il regno di Ungheria con grandissimo pregiudizio di tutta la cristianità, della quale quello reame era stato moltissimi anni lo scudo e lo antemurale, si commosse il pontefice maravigliosamente: come negli animi già perturbati e afflitti fanno maggiore impressione i nuovi dispiaceri che non fanno negli animi vacui dalle altre passioni. Però, rivolgendo nella mente sua nuovi pensieri, e dimostrando ne' gesti nelle parole e nella effigie del volto smisurato dolore, chiamati i cardinali in concistorio, si lamentò efficacissimamente con loro di tanto danno e ignominia della republica cristiana; alla quale non era mancato egli di provedere, sí col confortare e supplicare assiduamente i príncipi cristiani della pace sí col soccorrere in tanti altri gravi bisogni suoi quel regno di non piccola quantità di denari. Essere stata, per la difesa di quel regno e per il pericolo del resto de' cristiani, molto incomoda e importuna la guerra presente, e averlo egli detto e conosciuto insino da principio; ma la necessità averlo indotto (poiché vedeva essere sprezzate tutte le condizioni oneste della quiete e sicurtà della sedia apostolica e di Italia) a pigliare l'armi, contro a quello che sempre era stata sua intenzione: perché e la neutralità usata per lui innanzi a questa necessità, e le condizioni della lega che aveva fatta, risguardanti tutte al benefizio comune, dimostrare a bastanza non lo avere mosso alcuna considerazione degli interessi propri e particolari suoi e della sua casa. Ma poiché a Dio, forse a qualche buono fine, era piaciuto che e' fusse ferito il corpo della cristianità, e in tempo che tutti gli altri membri di questo corpo erano distratti da altri pensieri che da quello della salute comune, credere la volontà sua essere che per altra via si cercasse di sanare sí grave infermità. E però, toccando questa cura piú allo offizio suo pastorale che ad alcuno altro, avere disposto, posposte tutte le considerazioni della incomodità del pericolo e della dignità sua, procurata il piú presto potesse e con qualunque condizione una sospensione dell'armi in Italia, salire in su l'armata e andare personalmente a trovare i príncipi cristiani, per ottenere da loro, con persuasioni con prieghi con lagrime, la pace universale de' cristiani. Confortare i cardinali ad accingersi a questa espedizione, e ad aiutare il padre comune in sí pietoso offizio; pregare Dio che fusse favorevole a sí santa opera: la quale quando per i peccati comuni non si potesse condurre a perfezione, gli piacesse almeno concedergli grazia che, nel trattarla, innanzi ne fusse escluso dalla speranza gli sopravenisse la morte; perché nissuna infelicità nissuna miseria gli potrebbe essere maggiore che perdere la speranza e la facoltà di potere porgere la mano salutare in incendio tanto pernicioso e tanto pestifero. Fu udita con grande attenzione ed eziandio con non minore compassione la proposta del pontefice, e commendata molto; ma sarebbe stata commendata anche molto piú se le parole sue avessino avuta tanta fede quanta in sé avevano degnità; perché la maggiore parte de' cardinali interpretava che, avendo prese l'armi contro a Cesare nel tempo che già, per le preparazioni palesi de' turchi, era imminente e manifesto il pericolo dell'Ungheria, lo commovesse piú la difficoltà nella quale era ridotta la guerra che il pericolo di quel reame: di che non si potette fare vera esperienza.

                                                 Perché i Colonnesi, cominciando a eseguire la perfidia disegnata, avevano mandato Cesare Filettino seguace loro con dumila fanti ad Anagnia, dove per il pontefice erano dugento fanti pagati; con dimostrazione, per occultare i loro pensieri, di volere pigliare quella terra. Ma avendo in fatto altro animo, occupati tutti i passi, e fatto estrema diligenza che a Roma non venissino altri avvisi de' progressi loro, raccolte le genti mandate intorno ad Anagnia, e con quelle e con l'altre loro, che erano in tutto circa ottocento cavalli e tremila fanti, ma quasi tutte genti comandate, camminando con grande celerità, né si presentendo in Roma cosa alcuna della venuta loro, arrivativi la notte che precedeva il dí vigesimo di settembre, preseno improvisamente tre porte di Roma; ed entrati per quella di San Giovanni Laterano, essendovi in persona non solo Ascanio e don Ugo di Moncada, perché il duca di Sessa era morto molti giorni innanzi a Marino, ma ancora Vespasiano, stato mezzano della concordia e interpositore, per sé e tutti gli altri, della sua fede, e il cardinale Pompeio Colonna, traportato tanto dalla ambizione e dal furore che avesse cospirato nella morte violenta del pontefice, disegnando anche, come fu comune e costante opinione, costretti con la violenza e con l'armi i cardinali a eleggerlo, occupare con le mani sanguinose e con l'operazioni scelerate e sacrileghe la sedia vacante del pontefice. Il quale, intesa che già era giorno la venuta loro, che già erano raccolti intorno a San Cosimo e Damiano, pieno di terrore e di confusione, cercava, vanamente, di provedere a questo tumulto; perché né aveva forze proprie da difendersi, né il popolo di Roma, parte lieto de' suoi sinistri parte giudicando non attenere a sé il danno publico, faceva segno di muoversi. Perciò, accresciuto l'animo degli inimici, venuti innanzi, si fermorono con tutte le genti a Santo Apostolo, donde spinseno per ponte Sisto in Trastevere circa cinquecento fanti con qualche cavallo; i quali, ributtato dopo qualche resistenza Stefano Colonna di Pilestrina dal portone di Santo Spirito, che soldato del pontefice era ridotto quivi con dugento fanti, si indirizzorono per Borgo vecchio alla volta di San Piero e del palazzo pontificale, essendovi ancora dentro il pontefice. Il quale, invano chiamando l'aiuto di Dio e degli uomini, inclinando a morire nella sua sedia, si preparava, come già aveva fatto Bonifazio ottavo nello insulto di Sciarra Colonna, di collocarsi con l'abito e con gli ornamenti pontificali nella cattedra pontificale; ma rimosso con difficoltà grande da questo proposito dai cardinali che gli erano intorno, che lo scongiuravano a muoversi, se non per sé almanco per la salute di quella sedia e perché nella persona del suo vicario non fusse sí sceleratamente offeso l'onore di Dio, si ritirò insieme con alcuni di loro, de' suoi piú confidenti, in Castello, a ore diciassette, e in tempo che già non solo i fanti e i cavalli venuti prima ma eziandio tutto il resto della gente saccheggiavano il palazzo e le cose e ornamenti sagri della chiesa di San Piero: non avendo maggiore rispetto alla maestà della religione e allo orrore del sacrilegio che avessino avuto i turchi nelle chiese del regno di Ungheria. Entrorono dipoi nel Borgo, del qual saccheggiorono circa la terza parte; non procedendo piú oltre per timore dell'artiglierie del Castello. Sedato poi il tumulto, che durò poco piú di tre ore perché in Roma non fu fatto danno o molestia alcuna, don Ugo, sotto la fede del pontefice e ricevuti per statichi della sicurtà sua i cardinali Cibo e Ridolfi nipoti cugini del pontefice, andò a parlargli in Castello; dove usate parole convenienti a vincitore, propose condizioni di tregua. Sopra che, essendo differita la risposta al dí seguente, fu conchiusa la concordia, cioè tregua, tra il pontefice in nome suo e de' confederati e tra Cesare, per quattro mesi, con disdetta di due altri mesi, e con facoltà a' confederati di entrarvi infra due mesi; nella quale fussino inclusi non solo lo stato ecclesiastico e il regno di Napoli ma eziandio il ducato di Milano i fiorentini i genovesi i sanesi e il duca di Ferrara, e tutti i sudditi della Chiesa mediate e immediate. Fusse obligato il pontefice ritirare subito di qua da Po le genti sue che erano intorno a Milano, e rivocare dall'armata Andrea Doria con le sue galee, e gli imperiali e i Colonnesi a levare le genti di Roma e di tutto lo stato della Chiesa e ritirarle nel reame di Napoli; perdonare a Colonnesi e a chiunque fusse intervenuto in questo insulto; dare per statichi della osservanza Filippo Strozzi e uno de' figliuoli di Iacopo Salviati, il quale si obligò a mandarlo a Napoli infra due mesi, sotto pena di trentamila ducati. Alla quale tregua concorse l'una parte e l'altra cupidamente: il pontefice per non essere in Castello vettovaglia da sostentarsi; don Ugo, benché reclamando i Colonnesi, perché gli pareva fatto assai a benefizio di Cesare, e perché quasi tutta la gente con che era entrato in Roma, carica della preda, si era dissipata in diverse parti.

                                                 Da questa tregua si interroppeno tutti i disegni di Lombardia e tutto il frutto della vittoria di Cremona: perché non ostante che, quasi ne' medesimi dí, arrivasse allo esercito con le lancie franzesi il marchese di Saluzzo, nondimeno, mancando le genti del pontefice, che per la tregua, il settimo dí di ottobre, si ritirorono la maggiore parte a Piacenza, si disordinò non meno il disegno del mandare gente a Genova che il disegno fatto di strignere Milano con due eserciti. Dette anche qualche disturbo che il duca d'Urbino, fatto che ebbe l'accordo con quegli di Cremona, non aspettata la consegnazione andò in mantovano, ancora che già sapesse la tregua fatta a Roma, a vedere la moglie; e avendo consentito alle genti che erano in Cremona prorogazione di tempo a partirsi, aspettò la partita loro intorno a Cremona tanto tempo che non fu allo esercito prima che a mezzo il mese di ottobre, con gravissimo detrimento di tutte le faccende; perché si trattava di mandare gente a Genova, ricercate piú che mai da Pietro Navarra e dal proveditore dell'armata viniziana, ed essendo nello esercito, ricongiunte vi fussino le genti viniziane, tante forze che bastavano a fare questo effetto senza partirsi di quello alloggiamento. Perché e col marchese di Saluzzo erano venute cinquecento lancie e quattromila fanti, e vi si aspettavano di giorno in giorno i duemila fanti grigioni condotti per l'accordo che si fece con loro; e il pontefice, ancora che facesse palese dimostrazione di volere osservare la tregua, nondimeno, avendo occultamente diversa intenzione, aveva lasciato nello esercito quattromila fanti sotto Giovanni de' Medici, sotto pretesto che fussino pagati dal re di Francia: scusa che aveva apparente colore, perché Giovanni de' Medici era continuamente soldato del re, e sotto suo nome riteneva la compagnia delle genti d'arme. Partironsi finalmente le genti di Cremona, della quale città fu consegnata la possessione a Francesco Sforza; e i tedeschi col capitano Curadino se ne andorono alla volta di Trento: ma i cavalli e i fanti spagnuoli, avendo passato Po per tornarsene nel regno di Napoli, ed essendo fatta loro qualche difficoltà dal luogotenente di concedere le patenti e i salvocondotti sufficienti (perché era molesto al pontefice che andassino a Napoli), preso allo improviso il cammino per la montagna di Parma e di Piacenza, e dipoi ripassato con celerità il Po alla Chiarella, si condussono salvi nella Lomellina e dipoi a Milano. Né solo partí dalle mura di Milano, per l'osservanza della tregua, il luogotenente con le genti del pontefice, ma eziandio si discostò da Genova Andrea Doria con le sue galee: contro alle quali erano, pochi dí prima, usciti di Genova seimila fanti tra pagati e volontari (perché in Genova erano quattromila fanti pagati), con ordine di assaltare prima secento fanti, i quali con Filippino dal Fiesco erano in terra, sperando che rotti quegli le galee, perché il mare era molto turbato, non si potessino salvare; ma Filippino aveva fatto, nella sommità delle montagne appresso a Portofino, tali fortificazioni di ripari e di bastioni che gli costrinse a ritirarsi con non piccolo danno. E nondimeno, non molti dí poi, non so sotto quale colore, Andrea Doria con sei galee ritornò a Portofino, per continuare insieme con gli altri nell'assedio marittimo di Genova.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.14

                                                  

                                                 Intimazione a Cesare della lega conclusa fra il pontefice il re di Francia ed i veneziani. Spostamenti delle milizie dei collegati in Lombardia. Il Frondsperg raccoglie in Germania milizie per scendere in Italia; nuove deliberazioni del duca d'Urbino.

                                                  

                                                 Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano con vari eventi in Italia, gli oratori del pontefice del re di Francia e de' viniziani intimorono il quarto dí di settembre (tanta dilazione era stata interposta a fare questo atto), a Cesare la lega fatta, e la facoltà che gli era data di entrarvi con le condizioni espresse ne' capitoli; al quale atto essendo stato presente l'oratore del re di Inghilterra, gli dette una lettera del suo re che lo confortava modestamente a entrare nella lega. Il quale, udita la intimazione, rispose agli imbasciadori, non comportare la degnità sua che entrasse in una confederazione fatta principalmente contro allo stato e onore suo; ma che, essendo stato sempre dispostissimo alla pace universale, di che aveva fatto dimostrazione sí evidente, si offeriva a farla di presente se essi avevano i mandati sufficienti: da che si credeva avesse l'animo alieno, ma che proponesse questa pratica per maggiore sua giustificazione, e per dare causa al re di Inghilterra di soprasedere l'entrare nella lega; raffreddare con questa speranza le provisioni de' collegati; e indurre poi, co' mezzi del trattarla, qualche gelosia e diffidenza tra loro. E nondimeno sollecitava da altro canto le provisioni dell'armata, che si diceva essere di quaranta navi e di seimila fanti pagati. Per sollecitare la partita della quale, che si metteva insieme nel porto tanto memorabile di Cartagenia, partí a' ventiquattro dí di settembre dalla corte il viceré; dimostrandosi Cesare molto piú pronto e piú sollecito alle faccende che non faceva il re di Francia: il quale, ancora che stretto da interessi sí gravi, consumava la maggiore parte del tempo in piaceri di caccie di balli e di intrattenimenti di donne. I figliuoli del quale, disperata la osservanza dell'accordo, erano stati condotti a Vagliadulit. Costrinse la venuta di questa armata il pontefice, sospettoso della fede del viceré e degli spagnuoli, ad armarsi. Però non solo chiamò a Roma Vitello con la compagnia sua e de' nipoti, ma eziandio cento uomini d'arme del marchese di Mantova e cento cavalli leggieri di Pieromaria Rosso, e dallo esercito gli furono mandati dumila svizzeri a spese sue e tremila fanti italiani; e nondimeno continuava in affermare di volere andare in Spagna ad abboccarsi con Cesare: da che lo dissuadevano quasi tutti i cardinali, massime non andando a cosa certa, e confortandolo a mandare prima legati.

                                                 Ritornato il duca d'Urbino all'esercito, e senza speranza alcuna di ottenere o con la forza dell'armi o con la fame Milano, e facendo i capitani dell'armate grandissima instanza che si mandassino genti a molestare per terra Genova, deliberò, per potere fare questo effetto, discostarsi con l'esercito dalle mura di Milano; ma disposte le cose in modo che continuamente fussino impedite le vettovaglie che andassino a quella città. Però dette principio alla fortificazione di Moncia, per potervi lasciare genti le quali attendessino a molestare le vettovaglie che si conducevano del monte di Brianza e di altri luoghi circostanti; e fortificata l'avesse, trasferire l'esercito in uno alloggiamento donde si impedissino le vettovaglie che continuamente vi andavano da Biagrassa e da Pavia: il quale alloggiamento come fusse fortificato, andasse verso Genova il marchese di Saluzzo co' fanti suoi e con una banda di svizzeri. Ma essendo, o per arte o per natura del duca, tali queste deliberazioni che non si potevano mettere a esecuzione se non con lunghezza molto maggiore che non conveniva allo stato delle cose e alla necessità nella quale era Genova, ridotta in tanta estremità di vettovaglie che con difficoltà si poteva piú sostenere, né mancando a ottenerla altro che il dare impedimento alle vettovaglie che vi si conducevano per terra, non si conducevano le cose disegnate a effetto; non ostante che nello esercito si trovassino quattromila svizzeri, dumila grigioni, quattromila fanti del marchese di Saluzzo, quattromila pagati dal pontefice sotto Giovanni de' Medici, e i fanti de' viniziani; i quali secondo gli oblighi e secondo l'affermazione loro erano diecimila, ma secondo la verità numero molto minore. Levossi finalmente lo esercito, l'ultimo dí di ottobre, dallo alloggiamento nel quale era stato lungamente, e si ridusse a Pioltello, lontano cinque miglia dal primo alloggiamento; essendosi nel levare fatto una grossa scaramuccia con quegli di Milano, co' quali uscí Borbone in persona. Ed era la intenzione del duca soprastare a Pioltello tanto che fusse dato fine alla fortificazione di Moncia, nella quale pensava lasciare dumila fanti con alcuni cavalli, e dipoi condursi a Marignano; dove deliberato l'altro alloggiamento, e presolo e fortificato, e forse prima, secondo diceva, preso Biagrassa, mandare dipoi le genti a Genova: cose di tanta lunghezza che davano giustissima cagione o di accusarlo di timidità o di avere sospetto di qualche fine piú importante, non ostante che egli allegasse per parte di sua scusa le male provisioni de' viniziani; i quali non pagando i fanti a' tempi debiti non avevano mai se non molto difettivo il numero promettevano, e partendosene, di quegli che avevano, sempre, per il soprastare delle paghe, molti, erano necessitati rimetterne di nuovo molti quando davano la paga: in modo che, come verissimamente diceva, aveva sempre una nuova milizia e uno nuovo esercito.

                                                 Ma quella dilazione, che insino a qui pareva stata volontaria, cominciò ad avere cagione e colore di necessità. Perché, dopo molte pratiche tenute in Germania di mandare soccorso di fanti in Italia, le quali per la impotenza dello arciduca e per non avere Cesare mandatovi provisione di danari erano state vane, Giorgio Fronspergh, affezionato alle cose di Cesare e alla gloria della sua nazione, e che due volte capitano di grosse bande di fanti era stato con somma laude in Italia per Cesare contro a' franzesi, deliberato con le facoltà private sostenere quello in che mancavano i príncipi, concitò con l'autorità sua molti fanti e col mostrare la occasione grande di predare e di arricchirsi in Italia, che, con ricevere da lui uno scudo per uno, lo seguitassino al soccorso di Cesare; e ottenuto dallo arciduca sussidio di artiglierie e di cavalli si preparava a passare, facendo la massa di tutte le genti tra Bolzano e Marano. In Lomellina erano stati qualche mese cavalli e fanti della lega. La fama del quale apparato, penetrata in Italia, dette cagione al duca di Urbino di levare il pensiero da molestare Genova, ridotta quasi in ultima estremità; non ostante che Andrea Doria, diminuite le dimande [fatte] prima, non facesse instanza di avere piú di mille cinquecento fanti, disegnando di farne egli altrettanti: i quali anche il duca gli negò, allegando per scusa la necessità che aveva avuto di fare andare dallo esercito mille cinquecento fanti de' viniziani in vicentino, per timore che i viniziani avevano che il soccorso tedesco non si dirizzasse a quel cammino; la quale opinione il duca confutava, persuadendosi farebbeno la via di Lecco. Per la quale cagione stava fermo a Pioltello, per essere piú propinquo a Adda; publicando volere andare a incontrargli e combattere con loro di là da Adda, all'uscita di Valle di Sarsina.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.15

                                                  

                                                 Nuovi inviati del pontefice al re di Francia; trattative con lui e col re d'Inghilterra. Milizie pontificie contro le terre dei Colonna. Vani tentativi di trattative del pontefice col duca di Ferrara. L'esercito del Frondspergh nel mantovano; deliberazioni del duca d'Urbino.

                                                  

                                                 Cosí, cominciando a tornare in nuove e maggiori difficoltà le cose di Lombardia, era anche acceso nuovo fuoco in terra di Roma. Perché il pontefice, costernato di animo per lo accidente de' Colonnesi, inclinato con l'animo alla pace, e allo andare con l'armata a Nerbona per trattarla personalmente con Cesare, aveva, subito partiti che furono gli inimici di Roma, mandato Paolo da Arezzo suo cameriere al re di Francia perché, con consentimento suo, passasse a Cesare, per la pratica della pace e per fare anche intendere al re le sue necessità e i suoi pericoli e dimandargli centomila ducati per sua difesa. Nelle quali cose era tanto discordante da se medesimo che, volendo dal re denari e maggiore prontezza alla guerra, non solo gli negava le decime, instando di volerne per sé la metà (il che il re recusava, dicendo non si essere mai costumato nel reame di Francia), ma ancora non si risolveva a creare cardinale il gran cancelliere; il quale, per l'autorità che aveva ne' consigli del re, e perché per sua mano passavano tutte le espedizioni di denari, poteva essergli in tutti i suoi disegni di grandissimo momento. Non mancò il re condolersi con Paolo e con gli altri nunzi del caso di Roma, offerire le forze sue alla sua difesa, mostrargli che non poteva piú fidarsi di Cesare, dargli animo e confortarlo a non perseverare nella tregua; nel quale caso, e non altrimenti, diceva volere pagare i ventimila ducati promessi per ciascuno mese: a che anche, e a non andare a Nerbona, lo confortò il re di Inghilterra; il quale, inteso lo accidente seguito, gli mandò venticinquemila ducati. Sconfortava il re di Francia l'andata del pontefice a' príncipi, come cosa che per la importanza sua meritava molta considerazione; e dinegò da principio che Paolo andasse a Cesare, o perché avesse sospetto che il pontefice non cominciasse con lui pratiche separate o perché, come diceva, fusse piú onorevole trattare la pace per mezzo del re di Inghilterra che parere di mendicarla da Cesare: benché, non molto poi, essendo fatta da Roma di nuovo instanza della sua andata, la consentí, o perché pure desiderava la pace o perché cominciasse a dispiacergli che la fusse trattata dal re di Inghilterra. I progressi del quale erano tali che meritamente dubitava di non essere, per gli interessi suoi propri, tirato a condizioni non convenienti: con ciò sia che quel re, anzi sotto il suo nome il cardinale eboracense, pieno di ambizione e desideroso di essere giudice del tutto, proponesse condizioni estravaganti; e avendo anche fini diversi da' fini degli altri, si lasciasse dare parole da Cesare, [e] non avesse l'animo alieno che il ducato di Milano fusse, per mezzo della pace, del duca di Borbone, pure che a lui si congiugnesse la sorella di Cesare, acciò che a sé restasse facoltà libera di maritare la figliuola al re di Francia. I conforti adunque fatti al pontefice dall'uno e l'altro re, il dubbio di non perdere la fede co' collegati, e privato degli appoggi loro restare in preda di Cesare e de' suoi ministri, gli stimoli de' consultori suoi medesimi, lo sdegno conceputo contro a' Colonnesi e il desiderio, col farne giusta vendetta, di ricuperare in qualche parte l'onore perduto, lo indusseno a volgere contro alle terre, de' Colonnesi quelle forze che prima solamente per sua sicurtà aveva chiamate a Roma; giudicando nessuna ragione costrignerlo a osservare quello accordo il quale aveva fatto non volontariamente ma ingannato dalle loro fraudi e sforzato, sotto la fede ricevuta, dalle loro armi.

                                                 Mandò adunque il pontefice Vitello con le genti sue a' danni de' Colonnesi, disegnando di abbruciare e fare spianare tutte le terre loro, perché, per l'affezione inveterata de' popoli e della parte, il pigliarle solamente era di piccolo pregiudizio; e nel medesimo tempo publicò uno monitorio contro al cardinale e agli altri della casa, per virtú del quale privò poi (che fu il vigesimo primo dí di...) il cardinale della dignità del cardinalato: il quale prima, volendosi difendere con la bolla della simonia, aveva in Napoli fatto publiche appellazioni e appellato al futuro concilio. Contro agli altri Colonnesi, i quali nel reame di Napoli soldavano cavalli e fanti, soprasedette la pronunziazione della sentenza. Le genti entrate nelle terre loro abbruciorono Marino e Montefortino, la fortezza del quale si teneva ancora per i Colonnesi, spianorono Gallicano e Zagarolo; non pensando i Colonnesi a difendere altro che i luoghi piú forti e specialmente la terra di Paliano, la quale terra [è] di sito forte e da potere con difficoltà condurvi l'artiglieria; né vi si poteva andare per altro che per tre vie che l'una non poteva soccorrere l'altra; e ha la muraglia grossissima, e gli uomini della terra bene disposti a difenderla: e nondimeno si credette che se Vitello con prestezza fusse andato ad assaltarla, non ostante vi fussino rifuggiti molti delle terre prese, l'arebbe ottenuta, perché non vi erano dentro soldati. Ma mentre differisce lo andarvi, secondando la natura sua, piena, nello eseguire, di difficoltà e di pericoli, entratovi dentro cinquecento fanti tra tedeschi e spagnuoli mandativi del reame di Napoli (i quali vi entrorono di notte), e dugento cavalli, la renderono in modo difficile che Vitello, che nel tempo medesimo aveva gente intorno a Grottaferrata, non ardito di tentare piú la impresa di Paliano, né anche quella di Rocca di Papa, ma mandate alcune genti a battere con l'artiglierie la rocca di Montefortino guardata da' Colonnesi, deliberò di unire tutte le genti a Valmontone, piú per attendere alla difesa del paese, se del reame si movesse cosa alcuna, che con speranza di potere fare effetto importante: di che appresso al pontefice acquistò imputazione assai. Il quale, ne' tempi che aveva disegno assaltare il regno di Napoli, e poi quando chiamò le genti a Roma per sua difesa, aveva desiderato che vi andassino Vitello e Giovanni de' Medici, capitani congiunti di benivolenza e di parentado, e dell'uno de' quali la timidità pareva bastante a temperare e a essere temperata dalla ferocia dell'altro: ma tirando i fati Giovanni a presta morte in Lombardia, aveva, per consiglio del luogotenente, servendosi intratanto nelle cose minori di Vitello, differito a chiamarlo insino a tanto avesse cagione o di maggiore necessità o di maggiore impresa, per non privare in questo mezzo lo esercito di Lombardia di lui, che per lo animo e virtú sua era di molto terrore agli inimici e di presidio agli amici; e tanto piú, riscaldando la venuta de' fanti tedeschi.

                                                 La quale, congiunta agli avvisi che si avevano dello essere in procinto di partirsi del porto di Cartagenia l'armata di Spagna, costrinseno il pontefice, stimolatone molto da' collegati e dai consiglieri suoi medesimi, a pensare a fare qualche composizione (da che sempre era stato alienissimo) col duca di Ferrara; non tanto per assicurarsi de' movimenti suoi quanto per trarne somma grande di denari, e per indurlo a cavalcare nello esercito come capitano generale di tutta la lega. Sopra che avendo praticato molte volte con Matteo Casella faventino, oratore del duca appresso a lui, e parendogli trovarne desiderio nel duca, commesse al luogotenente suo che era a Parma che andasse a Ferrara, dandogli, in dimostrazione uno breve di mandato amplissimo ma ristrignendo la commissione, a consentire di reintegrare il duca di Modena e di Reggio, col ricevere da lui in brevi tempi dugentomila ducati, obligarlo a scoprirsi e cavalcare come capitano della lega, e che il figliuolo suo primogenito pigliasse per moglie Caterina figliuola di Lorenzo de' Medici; trattandosi anche se vi fusse modo di dare con dote equivalente una figliuola del duca per moglie a Ippolito de' Medici, figliuolo già di Giuliano; e con molte altre condizioni: le quali non solo erano per se stesse quasi inestricabili, per la brevità del tempo, ma ancora il pontefice, che non ci conscendeva se non per ultima necessità, aveva commesso che non si facesse, senza suo nuovo avviso e commissione, la intera conclusione. La quale commissione allargò pochi dí poi, cosí nelle condizioni come nella facoltà del conchiudere, perché ebbe avviso che il viceré di Napoli era con trentadue navi arrivato nel golfo di San Firenze in Corsica, con trecento cavalli dumila cinquecento fanti tedeschi e tre in quattromila fanti spagnuoli. Ma era già diventata vana la volontà del pontefice, perché in su l'armata medesima era uno uomo del duca di Ferrara il quale, spedito dal luogo predetto con grande diligenza, non solo significò al duca la venuta della armata ma gli portò ancora da Cesare la investitura di Modena e di Reggio, e la promissione, sotto parole del futuro, del matrimonio di Margherita di Austria, figliuola naturale di Cesare, in Ercole primogenito del duca. Per le quali cose Alfonso, che prima con grandissimo desiderio aspettava la venuta del luogotenente, mutato consiglio, parendogli anche che per l'approssimarsi i fanti tedeschi e l'armata le cose di Cesare cominciassino molto a esaltarsi, significò, per Iacopo Alvarotto padovano suo consigliere, al luogotenente (che partito il vigesimo quarto dí da Parma era già condotto a Cento) la espedizione ricevuta di Spagna; per la quale se bene non fusse obligato a offendere né il pontefice né la lega, nondimeno, avendo ricevuto tanto beneficio da Cesare, non era conveniente trattasse piú di operargli contro; e che, essendo interrotta per quella la negoziazione per la quale andava a Ferrara, aveva voluto significargliene perché la taciturnità sua non desse giusta cagione di sdegno al pontefice: non gli negando però ma rimettendo in lui lo andare o non andare a Ferrara. Dalla quale proposta compreso il luogotenente essere vana l'andata sua, non volendo mettervi piú senza speranza di frutto della riputazione del pontefice, richiamato anche dalla necessità delle cose di Lombardia, si ritornò, interposti però nuovi ragionamenti di concordia in altra forma, subito a Modena: riducendosi ogni dí piú tutto lo stato della Chiesa da quella banda in maggiore pericolo. Conciossiaché Giorgio Fronspergh co' fanti tedeschi, in numero di tredici in quattordicimila, preso il cammino per Valdisabbio e per la Rocca di Anfo, condotti verso Salò, erano già arrivati a Castiglione dello Strivieri in mantovano. Contro a' quali il duca d'Urbino, che pochi dí innanzi per essere spedito a andargli a incontrare aveva condotto l'esercito a Vauri sopra Adda, tra Trezzo e Cassano, e gittato quivi il ponte e fortificato lo alloggiamento, lasciatovi il marchese di Saluzzo con le genti franzesi e co' svizzeri, grigioni e co' suoi fanti, partí il decimonono di novembre da Vauri, conducendo seco Giovanni de' Medici, seicento uomini d'arme molti cavalli leggieri e otto in novemila fanti; con disegno non di assaltargli direttamente alla campagna ma, infestandogli e incomodandogli delle vettovaglie (il quale modo solo diceva essere a vincere gente di tale ordinanza), condurgli in qualche disordine. Condussesi a' ventiuno a Sonzino, donde spinse Mercurio con tutti i cavalli leggieri e una banda di uomini d'arme per infestargli, e dare tempo allo esercito di raggiugnergli; dubitando già, per essere quel dí medesimo alloggiati alla Cavriana, di non arrivare tardi: di che, scusando la tardità della partita sua da Vauri, trasferiva la colpa nella negligenza e avarizia del proveditore Pisani, per la quale era stato necessitato soprastare uno dí o due piú, per aspettare che in campo fussino i buoi per levare l'artiglierie; dal quale difetto diceva poi essere proceduto grandissimo disordine e quasi la rovina di tutta la impresa.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.16

                                                  

                                                 Fazione di Borgoforte; ferita e morte di Giovanni de' Medici. Scontro delle flotte nemiche vicino a Codemonte; la flotta di Cesare a Gaeta. Marcia dell'esercito tedesco; truppe imperiali inviate da Milano a Pavia. Provvedimenti difensivi dei collegati; i tedeschi alla Trebbia.

                                                  

                                                 Si era insino a ora stato in ambiguo quale dovesse essere il cammino de' tedeschi: perché si credette prima che per il bresciano e per il bergamasco andassino alla volta di Adda, con disegno di essere incontrati dalle genti imperiali, e accompagnati con loro andarsene a Milano; erasi creduto di poi volessino passare Po a Casalmaggiore e di quivi trasferirsi alla via di Milano. Ma essendo a' ventidua dí venuti a Rivalta, otto miglia da Mantova tra il Mincio e Oglio (nel quale dí alloggiò il duca a Prato Albuino), e non avendo passato il Mincio a Goito, dava indizio volessino passare il Po a Borgoforte o Viadana piú presto che a Ostia e nelle parti piú basse, e passando a Ostia sarebbe stato segno di pigliare il cammino di Modena e di Bologna; dove, nell'uno luogo e nell'altro, si soldavano fanti e facevano provisioni. Preseno dipoi i tedeschi, a' ventiquattro, la via di Borgoforte; dove, non avendo loro artiglieria, arrivorono quattro falconetti, mandati loro per Po dal duca di Ferrara: aiuto in sé piccolo ma che riuscí grandissimo per benefizio della fortuna. Perché essendo il duca di Urbino, seguitandogli, entrato nel serraglio di Mantova nel quale erano ancora loro, corse, nell'accostarsi a Borgoforte, alla coda loro, benché con poca speranza di profitto, Giovanni de' Medici co' cavalli leggieri; e accostatosi piú arditamente perché non sapeva che avessino avute artiglierie, avendo essi dato fuoco a uno de' falconetti, il secondo tiro roppe la gamba alquanto sopra al ginocchio a Giovanni de' Medici; del quale colpo, essendo stato portato a Mantova, morí pochi dí poi, con danno gravissimo della impresa, nella quale non erano state mai dagli inimici temute altre armi che le sue. Perché, se bene giovane di ventinove anni e di animo ferocissimo, la esperienza e la virtú erano superiori agli anni e, mitigandosi ogni dí il fervore della età e apparendo molti indizi espressi di industria e di consiglio, si teneva per certo che presto avesse a essere nella scienza militare famosissimo capitano. Camminorono dipoi i tedeschi, non infestati piú da alcuno, lasciato indietro Governo, alla via di Ostia lungo il Po, essendo il duca d'Urbino a Borgoforte; e a' venti otto dí, passato il Po a Ostia, alloggiorono a Revere: dove, soccorsi di qualche somma di denari dal duca di Ferrara e di alcuni altri pezzi di artiglieria da campagna, essendo già in tremore grandissimo Bologna e tutta la Toscana, perché il duca di Urbino, ancoraché innanzi avesse continuamente affermato che passando essi Po lo passerebbe ancora egli, se ne era andato a Mantova, dicendo volere aspettare quivi la commissione del senato viniziano se aveva a passare Po o no. Ma i tedeschi, passato il fiume della Secchia, si volseno al cammino di Lombardia per unirsi con le genti che erano a Milano.

                                                 Nel quale tempo, il viceré partito da Corsica con venticinque vaselli, perché due [navi] erano, per l'ira del mare, innanzi arrivasse a San Firenze, andate a traverso e cinque sferrate dalle altre andavano vagando, riscontrò a' ventidue dí, sopra Sestri di Levante, con sei galee del re di Francia cinque del Doria e cinque de' viniziani; le quali appiccatesi insieme, sopra Codemonte, combatterono da ventidue ore del dí, insino alla notte: e scrisse il Doria avere buttato in fondo una loro nave dove erano piú di trecento uomini, e con l'artiglieria trattata male tutta l'armata; e che per il tempo tristo le galee erano state sforzate a ritirarsi sotto il monte di Portofino, e che aspettavano la notte medesima l'altre galee che erano a Portovenere; e venendo o non venendo volevano, alla diana, andare a cercarla. Nondimeno, benché la seguitassino insino a Livorno, non potetteno raggiugnerla perché si era dilungata dinanzi a loro per molte miglia: conciossiaché gli inimici, credendo fusse corso o in Corsica o in Sardigna, non furono presti a seguitarlo. Seguitò poi il cammino suo il viceré, ma travagliato dalla fortuna; sparsa l'armata sua: una parte, dove era don Ferrando da Gonzaga, stracorse in Sicilia, che dipoi si ridusseno a Gaeta, dove poseno in terra certi fanti tedeschi; egli col resto dell'armata arrivò al Porto di Santo Stefano. Donde, non avendo certezza de' termini in che si trovassino le cose, mandò a Roma al pontefice il comandatore Pignalosa, con buone parole della mente di Cesare; egli, come il mare lo permesse, si condusse con l'armata a Gaeta.

                                                 I fanti tedeschi intanto, passata Secchia e andati verso Razzuolo e Gonzaga, alloggiorono il terzo di dicembre a Guastalla, il quarto a Castelnuovo e Povi lontano dieci miglia da Parma; dove si congiunse con loro il principe di Oranges, passato da Mantova con due compagni, a uso di archibusiere privato. A' cinque, passato il fiume dell'Enza al ponte in su la strada maestra, alloggiorno a Montechiarucoli, standosi ancora il duca d'Urbino, non mosso da' pericoli presenti, a Mantova con la moglie; e a' sette, i tedeschi passato il fiume della Parma alloggiorno alle ville di Felina, essendo le pioggie grandi e i fiumi grossi. Erano trentotto bandiere, e per lettere intercette del capitano Giorgio al duca di Borbone, si mostrava molto irresoluto di quello avesse a fare. Passorono agli undici dí il Taro, alloggiorono a' dodici al Borgo a San Donnino, dove contro alle cose sacre e l'immagini de' santi avevano dimostrato il veleno luterano; a' tredici a Firenzuola, donde con lettere sollecitavano quegli di Milano a congiugnersi con loro: ne' quali era il medesimo desiderio, ma gli riteneva il mancamento de' denari, perché gli spagnuoli minacciavano non volere uscire di Milano se non erano pagati del vecchio, e già cominciavano a saccheggiare. Ma finalmente furono accordati, con difficoltà, da' capitani in cinque paghe: per le quali fu necessario spogliare le chiese degli argenti e incarcerare molti cittadini. E secondo gli pagavano gli mandavano a Pavia, con difficoltà grandissima perché non volevano uscire di Milano. Le quali cose ricercando tempo, mandorono di là da Po, per accostarsi a' tedeschi, alcuni cavalli e fanti italiani.

                                                 Aveva fatta instanza il luogotenente che, per sicurtà dello stato della Chiesa da quella banda, il duca di Urbino passasse Po con le genti viniziane, il quale non solo aveva differito, ora dicendo aspettare avviso della volontà de' viniziani ora allegando altre cagioni, ma dimostrando al senato essere pericolo che, passando egli il Po, gli imperiali non assaltassino lo stato loro, aveva ottenuto gli commettessino che non passasse; anzi aveva intrattenuto piú dí i fanti che erano stati di Giovanni de' Medici, sollecitati dal luogotenente a passare Po per difesa delle cose della Chiesa. E avendo il marchese di Saluzzo, richiesto dal luogotenente di soccorso, passato Adda, mosso ancora perché, essendo diminuiti i svizzeri e i fanti grigioni, gli pareva essere debole nello alloggiamento di Vauri, i viniziani, che prima avevano consentito che 'l marchese passasse Po in soccorso del pontefice con diecimila fanti tra svizzeri e i suoi, pagati da loro de' quarantamila ducati del re di Francia (de' quali ricevere e spendere restata la cura a loro, quando il pontefice fece la tregua, era sospizioni, e fu poi molto maggiore, che ne convertissino nel pagamento delle genti loro qualche parte), lo pregavano, per consiglio del duca di Urbino, che non passasse; e perciò il duca, chiamatolo a parlamento a Sonzino, soprastette tanto a venirvi che il marchese si partí; nondimeno, non solo fece ogni opera di farlo soprastare, per vedere meglio che facessino i tedeschi, ma eziandio lo confortò apertamente a non passare. A che lo ritardava anche che i pagamenti de' svizzeri, che in condotta erano seimila ma in fatto poco piú di quattromila, non erano in ordine: i quali pagare, insieme co' quattromila fanti del marchese, apparteneva a' viniziani. Per la quale cagione se bene si differisse insino al vigesimo settimo di dicembre il passare suo, mandò nondimeno parte della cavalleria franzese con qualche fante ad alloggiare in diversi luoghi del paese, per disturbare le vettovaglie a' fanti tedeschi, stati già molti dí a Firenzuola. Per quella cagione medesima fu mandato Guido Vaina con cento cavalli leggieri al Borgo a San Donnino, e Paolo Luzasco uscito di Piacenza si accostò a Firenzuola; donde una parte de' tedeschi, per piú comodità del vivere, andò ad alloggiare a Castello Arquà. Per sospetto de' quali si era prima proveduta Piacenza, ma non con quelle forze le quali parevano convenienti; perché il luogotenente, avendo sempre, dopo la venuta de' tedeschi, temuto che la difficoltà del fare progresso in Lombardia non sforzasse gli imperiali al passare in Toscana, desiderava pigliassino animo di andare a campo a Piacenza. Per la quale cagione, incognita a qualunque altro, eziandio al pontefice, differiva il provedere Piacenza talmente che si disperassino di espugnarla, provedendola perciò in modo non potessino occuparla con facilità, e sperando che quando v'andassino non avesse a mancare modo di mettervi soccorso. Ma la lunga dimora de' tedeschi ne' luoghi vicini, esclamando ciascuno del pericolo di quella città, lo costrinse a consentire che vi andasse il conte Guido con grossa gente: dove anche per ordine de' viniziani, che avevano promesso, per soccorrere alle necessità del pontefice, mandarvi a guardia mille fanti, vi fu mandato Babone di Naldo, uno de' loro capitani; ma per i mali pagamenti tornorono presto a quattrocento. Passò finalmente Saluzzo, non avendo in fatto piú che quattromila tra svizzeri e grigioni e tremila fanti de' suoi; e condotto al Pulesine, ancora che si desiderasse non partisse di quivi per infestare lo alloggiamento di Firenzuola, dove anche spesso scorreva il Luzasco, si ridusse per piú sicurtà a Torricella e a Sissa. Ma due dí poi i tedeschi, partiti da Firenzuola, andorono a Carpineti e luoghi circostanti; e il conte di Gaiazzo, presa Rivolta, passò la Trebbia: né si intendeva quale fusse il disegno del duca di Borbone, o di andare a campo a Piacenza, come fusse uscito di Milano, o pure passare innanzi alla volta di Toscana. Passorono poi, l'ultimo dí dell'anno, i tedeschi la Nura, per passare la Trebbia e aspettare quivi Borbone, essendo alloggiamento manco infestato dagli inimici.

                                                  

                                                 Lib.17, cap.17

                                                  

                                                 Brevi del pontefice a Cesare e risposte di questo; offerte del generale di San Francesco al pontefice di trattare la tregua a nome di Cesare; trattative di tregua e provvedimenti di guerra del pontefice; mutamento di contegno del viceré verso il pontefice. Maggiori esigenze di Cesare per la pace coi collegati. Capitolazione del duca di Ferrara con Cesare.

                                                  

                                                 Nella quale freddezza delle cose di Lombardia, procedente non tanto dalla stagione asprissima dell'anno quanto dalla difficoltà che aveva Borbone di pagare le genti, per la quale erano, per la provisione de' denari, vessati e tormentati maravigliosamente i milanesi (per la quale necessità Ieronimo Morone, condannato alla morte, compose, la notte precedente alla mattina destinata al supplicio, di pagare ventimila ducati, al quale effetto era stata fatta la simulazione di decapitarlo; co' quali uscito di carcere diventò subito, col vigore del suo ingegno, di prigione del duca di Borbone suo consigliere e, innanzi passassino molti dí, quasi assoluto suo governatore), erano tra il papa e il viceré grandi i trattati di tregua o di pace; ma piú veri e piú sostanziali i disegni del viceré di fare la guerra, preso animo, poi che fu arrivato a Gaeta, dai conforti de' Colonnesi e dallo intendere che il pontefice, perduto totalmente d'animo ed esausto di denari, appetiva grandemente l'accordo, e predicando a tutti la sua povertà e il suo timore, né volendo creare cardinali per denari come era confortato da tutti, accresceva l'ardire e la speranza di chi disegnava di offenderlo. Perché il pontefice, il quale non era entrato nella guerra con la costanza dell'animo conveniente, aveva scritto insino il vigesimo sesto dí di giugno [un brieve a Cesare] acerbo e pieno di querele, escusandosi di essere stato necessitato da lui alla guerra; ma parendogli, poi che l'ebbe espedito, che fusse troppo acerbo, ne scrisse subito un altro piú mansueto, commettendo a Baldassare da Castiglione suo nunzio che ritenesse il primo; il quale, già arrivato, era stato presentato il decimosettimo dí di settembre; fu dipoi presentato l'altro, e Cesare separatamente, benché in una espedizione medesima, rispose all'uno e all'altro secondo le proposte: allo acerbo acerbamente, al dolce dolcemente. Aveva avidamente prestato orecchi al generale di San Francesco, il quale, andandosene, quando si mosse la guerra, in Spagna, ebbe dal papa imbasciate dolci a Cesare; e di nuovo ritornato a Roma, per commissione di Cesare, aveva riferito assai della sua buona mente: e che sarebbe contento venire in Italia con cinquemila uomini e, presa la corona dello imperio, passare subito in Germania per dare forma alle cose di Luter, senza parlare del concilio; accordare co' viniziani con oneste condizioni; rimettere in due giudici diputati dal papa e da lui la causa di Francesco Sforza, il quale se fusse condannato, dare quello stato al duca di Borbone; levare lo esercito di Italia, pagando il papa e i viniziani trecentomila scudi o piú per le paghe corse (pure, che questo si tratterebbe per ridurlo a somma piú moderata); restituire al re i figliuoli, avuto da lui in due o piú termini due milioni d'oro: mostrava essere facile lo accordare col re d'Inghilterra, per non essere somma grande e il re di Francia averla già offerta. E per trattare queste cose, le quali il pontefice comunicò tutte con gli oratori franzesi e viniziani, offeriva il generale tregua per otto o dieci mesi, dicendo avere da Cesare il mandato amplissimo in sé e nel viceré o in don Ugo. Per la quale esposizione il pontefice, udito Pignalosa e intesa la partita del viceré dal Porto di Santo Stefano, mandò il generale a Gaeta per trattare seco; perché e i viniziani non arebbono recusata la tregua, pure che vi avesse consentito il re di Francia: il quale non se ne dimostrava alieno, anzi la madre aveva mandato a Roma Lorenzo Toscano, dimostrando inclinazione alla concordia nella quale fussino compresi tutti. E parendogli nissuna pratica potere essere bene sicura senza la volontà di Borbone, mandò a lui per le medesime cagioni uno suo limosiniere che era a Roma; il quale il duca poco dipoi rimandò al pontefice a trattare. E nondimeno, nel tempo medesimo, non abbandonando la provisione dell'armi, mandò Agostino Triulzio cardinale legato allo esercito di Campagna; e preparandosi ad assaltare eziandio per mare il regno di Napoli, e per difesa propria, arrivò, il terzo di dicembre, a Civitavecchia Pietro Navarra, con ventotto galee del pontefice de' franzesi e de' viniziani: nel quale tempo, o poco poi, era, con l'armata delle vele quadre arrivato Renzo da Ceri a Savona, mandato dal re di Francia per cagione della impresa disegnata contro al reame di Napoli. E da altro canto, Ascanio Colonna con dumila fanti e trecento cavalli venne in Valbuona, a quindici miglia di Tivoli, dove sono terre dello abate di Farfa e di Giangiordano. Mandò anche il pontefice, pochi dí poi, l'arcivescovo di Capua al viceré; il quale anche, insino al vigesimo dí di ottobre, aveva mandato a Napoli, sotto nome delle cose degli statichi, e particolarmente di Filippo Strozzi. Ma il viceré, intesa la debolezza del pontefice, non parlava piú umanamente. Preseno a' dodici di dicembre i Colonnesi, co' quali era il cardinale, Cepperano, che non era guardato, e le genti loro sparse per le castella di Campagna; e da altro canto Vitello, con le genti del pontefice, ridotto fra Tivoli, Palestrina e Velletri. Presono poi Pontecorvo, non guardato, e Ascanio poi dette la battaglia invano a Scarpa, castello della badia di Farfa, luogo piccolo e debole: ed egli e il cardinale con quattromila fanti correvano per Campagna, ma ributtati da qualunque voleva difendersi. Accostossi dipoi Cesare Filettino con mille cinquecento fanti, di notte, ad Alagnia; nella quale intromessi già furtivamente da alcuni uomini della terra cinquecento fanti, per una casa congiunta alle mura, furono ributtati da Gianlione da Fano, capo de' fanti che vi aveva il pontefice. Tornò poi il generale dal viceré, e riportò che egli consentirebbe alla tregua per qualche mese, acciò che intratanto si trattasse la pace, ma dimandare denari e, per sicurtà, le fortezze di Ostia e di Civitavecchia. Ma in contrario di lui scrisse l'arcivescovo di Capua (giunto a Gaeta dopo la partita sua, e forse mandatovi con malo consiglio dal pontefice) che il viceré non voleva, piú tregua ma pace col pontefice solo o con il pontefice e co' viniziani, pagandogli denari per mantenere lo esercito per sicurtà della pace, e poi trattare tregua con gli altri: o perché veramente avesse mutato sentenza o per le persuasioni, come molti dubitorono, dello arcivescovo.

                                                 Nel quale tempo Paolo da Arezzo, arrivato alla corte di Cesare co' mandati del pontefice, de' viniziani e di Francesco Sforza (dove anche il re di Inghilterra volle che per la medesima causa della pace andasse l'auditore della camera, perché vi era anche prima il mandato del re di Francia), lo trovò variato di animo, per avere avuto avviso della arrivata de' tedeschi e dell'armata in Italia. Però, partendosi dalle condizioni ragionate prima, dimandava che il re di Francia osservasse in tutto l'accordo di Madril, e che la causa di Francesco Sforza si vedesse per giustizia da i giudici deputati da lui. Cosí la intenzione di Cesare riceveva variazione dai successi delle cose; e le commissioni date lui a' ministri suoi che erano in Italia avevano, per la distanza del luogo, o espressa o tacita condizione di governarsi secondo la varietà de' tempi e delle occasioni. Però il viceré, avendo deluso piú dí con pratiche vane il pontefice, né voluto consentire una sospensione d'armi per pochi dí, tanto si vedesse l'esito di questo trattato, partí, a' venti, da Napoli per andare alla volta dello stato della Chiesa, proponendo nuove condizioni estravaganti dello accordo. Seguitò, l'ultimo dí dell'anno, la capitolazione del duca di Ferrara, fatta per mezzo di uno oratore suo, col viceré e con don Ugo, che aveva il mandato da Cesare; benché con poca sodisfazione di quello oratore, astretto quasi con minacce e con acerbe parole dal viceré di consentire: che il duca di Ferrara fusse obligato con la persona e con lo stato contro a ogni inimico di Cesare; fusse capitano generale di Cesare in Italia con condotta di cento uomini d'arme e di dugento cavalli leggieri, ma obligato a mettergli insieme co' danari propri, i quali gli avessino a essere o restituiti o accettati ne' conti suoi: che per la dota della figliuola naturale di Cesare, promessa al figliuolo, ricevesse di presente la terra di Carpi e la fortezza di Novi, appartenente già ad Alberto Pio, ma che le entrate, insino alla consumazione del matrimonio, si compensassino con gli stipendi suoi; e che Vespasiano Colonna e il marchese del Guasto rinunziassino alle ragioni vi pretendevano: pagasse, recuperato che avesse Modona, dugentomila ducati, ma che in questi si computassino quegli che dopo la giornata di Pavia aveva pagati al viceré; ma non recuperando Modona gli fussino restituiti tutti i denari che prima aveva sborsato: fusse Cesare obligato alla sua protezione, né potesse fare pace senza comprendervi dentro lui, con l'assoluzione delle censure e delle pene incorse poi che si era declarato confederato di Cesare; e delle incorse innanzi, fare ogni opera per fargliene consentire. Cosí, nella fine dell'anno mille cinquecento ventisei, tutte le cose si preparavano a manifesta guerra.

                                             

                                                 Lib.18, cap.1

                                                  

                                                 L'anno mille cinquecento ventisette ricco di avvenimenti e di sciagure. Movimenti delle milizie imperiali riunitesi nell'Emilia. Vicende di guerra nello stato pontificio. Richieste di aiuti del pontefice ai collegati e al re d'Inghilterra; dubbi dei collegati per le trattative del pontefice col viceré.

                                                  

                                                 Sarà l'anno mille cinquecento ventisette pieno di atrocissimi e già per piú secoli non uditi accidenti: mutazioni di stati, cattività di príncipi, sacchi spaventosissimi di città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte di fuga e di rapine. Alle quali calamità nessuna difficoltà ritardava a dare il principio che le difficoltà che aveva il duca di Borbone di potere muovere di Milano i fanti spagnuoli. Perché avendo convenuto insieme che Antonio de Leva rimanesse alla difesa del ducato di Milano con tutti i fanti tedeschi che prima vi erano (nella sostentazione de' quali si erano consumati tutti i danari raccolti da' milanesi, e quegli riscossi per virtú delle lettere che aveva portate di Spagna) e con mille dugento fanti spagnuoli e con qualche numero di fanti italiani sotto Lodovico da Belgioioso e altri capi, e forse con qualche parte dei fanti tedeschi, restavano i fanti spagnuoli; i quali, non avendo ricevuti danari in nome di Cesare, ma sostentati con le taglie e con le contribuzioni, e avendo in preda le case e le donne de' milanesi, continuavano volentieri nel vivere con tanta licenza; ma non potendo negarlo direttamente, dimandavano di essere prima sodisfatti degli stipendi corsi insino a quello dí. Promessono finalmente di seguitare la volontà del duca, ricevute prima da lui cinque paghe: ma era molto difficile il farne provisione, non bastando né i minacci né il votare delle case né le carceri a riscuotere danari da' milanesi: dove anche, per nutrire l'esercito, erano citati gli assenti, e i beni di quelli che non comparivano erano donati a' soldati. Finalmente, superate tutte le difficoltà, passorno le genti imperiali, il penultimo dí di gennaio, il fiume del Po, e il seguente dí una parte de' tedeschi, i quali prima avevano passata la Trebbia, ripassatala, andorono ad alloggiare a Pontenuro; il resto dell'esercito si fermò di là da Piacenza: essendo allo incontro il marchese di Saluzzo a Parma, e con tutte le genti distese per il paese. E il duca di Urbino, venuto a Casalmaggiore (avendo i viniziani rimesso in arbitrio suo il passare Po), cominciava a fare passare le genti; affermando, in caso che gli imperiali andassino, come da Milano si aveva avvisi, alla volta di Toscana, di volere passare in persona con seicento uomini d'arme novemila fanti e cinquecento cavalli leggieri, ed essere prima di loro a Bologna; e che il simile facesse, con la sua gente e con quella della Chiesa, il marchese di Saluzzo. Soprastette l'esercito imperiale circa venti dí, parte di qua parte di là da Piacenza, sopratenendolo in parte la difficoltà de' denari (de' quali insino a quel dí non avevano i tedeschi avuto alcuno dal duca di Borbone) parte l'avere egli inclinazione di porsi a campo a Piacenza, forse piú per le difficoltà del procedere innanzi che per altra cagione. Però instava col duca di Ferrara che lo accomodasse di polvere per l'artiglierie e che venisse a congiugnersi seco, offerendo mandargli incontro cinquecento uomini d'arme e il capitano Giorgio con seimila fanti. Alla quale dimanda rispose il duca essere impossibile mandargli la polvere per il paese inimico, né potere senza pericolo tentare di unirsi seco per essere tutte le genti della lega in luogo vicino; ma quando tutte queste cose fussino facili, dovere considerare, Borbone, non potere fare cosa piú comoda agli inimici e piú desiderata da loro che attendere a perdere tempo intorno a quelle terre a una a una; e considerare, quando non pigliasse Piacenza, o se pure la pigliasse ma con lunghezza di tempo, dove resterebbe la sua riputazione, dove il modo di proseguire la guerra, avendo tanto mancamento di denari e di tutte le provisioni: il benefizio di Cesare, la via unica della vittoria essere camminare verso il capo, condursi, lasciato ogni altra impresa indietro, una volta, a Bologna; donde potrebbe deliberare o di cercare di sforzare quella terra, a che non gli mancherebbeno gli aiuti suoi, o di passare piú innanzi alla volta di Firenze o di Roma.

                                                  

                                                 Le quali cose mentre si trattano, e che Borbone provede a denari non solo per finire il pagamento degli spagnuoli ma eziandio per dare qualche cosa a' fanti tedeschi, a' quali credo che al partire da Piacenza desse due scudi per uno, era accesa gagliardamente la guerra nello stato della Chiesa; essendo nel campo ecclesiastico andato nuovamente Renzo da Ceri che era venuto di Francia, e il campo del papa era vicino al viceré che era a' confini di Cepperano; dove alcuni fanti italiani roppono trecento fanti spagnuoli. Ma nel modo della difesa dello stato ecclesiastico era varietà di opinioni. Perché Vitello, innanzi alla venuta di Renzo, aveva consigliato il pontefice che, abbandonata la provincia della Campagna, si mettessino in Tivoli dumila fanti, in Pelistrina dumila altri, e che il resto dello esercito si fermasse a Velletri per impedire l'andata del viceré a Roma. La qual cosa essendo già deliberata, Renzo, sopravenendo, dannò il riserrarsi in Velletri, per essere terra grande e male reparabile, e per non lasciare procedere gli inimici tanto innanzi; ma che l'esercito si fermasse a Fiorentino, che non avendo a guardare tanti luoghi sarebbe piú grosso, ed era luogo per proibire che gli inimici non venissino piú innanzi: il quale consiglio approvato, si messeno in Frusolone, residenza principale della Campagna, lontano da Fiorentino cinque miglia, mille ottocento fanti, di quegli di Giovanni de' Medici la piú parte, che avevano preso il cognome delle bande nere, con Alessandro Vitello, Giovambatista Savello e Pietro da Birago condottieri di cavalli leggieri. Ma in questo mezzo i Colonnesi avevano occultamente indotto Napolione Orsino, abbate di Farfa, a pigliare l'armi in terra di Roma, come soldato di Cesare; la quale cosa dissimulando il pontefice, al quale ne era penetrata occultamente la notizia, e da chi prima aveva ricevuto danari, tiratolo con arte a andare a incontrare Valdemonte, quando veniva di Francia, lo fece prendere appresso a Bracciano e metterlo prigione in Castello Santangelo.

                                                 Attendeva il pontefice a provedere danari, né gli bastando i modi ordinari vendeva i beni di molte chiese e luoghi pii; e supplicando a' príncipi, ottenne di nuovo dal re di Inghilterra trentamila ducati, i quali gli portò maestro Rossello suo cameriere: col quale venne Robadanges, con diecimila scudi mandati dal re di Francia per conto della decima; la quale il papa stretto dalla necessità gli aveva concesso, con promissione di dargli, oltre a' pagamenti de' quarantamila scudi alla lega e de' ventimila al papa ciascuno mese, trentamila ducati di presente e trentamila altri fra uno mese. Commesse anche il re di Inghilterra a maestro Rossello che intimasse al viceré e al duca di Borbone una sospensione d'armi, per dare tempo al trattato della pace che secondo la volontà di Cesare si teneva in Inghilterra, altrimenti protestargli la guerra: e pareva allora che quel re, cupido del matrimonio della figliuola col re di Francia, inclinasse al favore de' collegati; il quale matrimonio subito che fusse succeduto, prometteva di entrare nella lega e rompere la guerra in Fiandra. Pareva anche molto inclinato particolarmente al beneficio del pontefice; ma non si potevano sperare i rimedi pronti da uno principe che non misurava bene le forze sue e le condizioni presenti d'Italia, e che anche non si era fermato in una determinata volontà; ritirandolo sempre in parte la speranza datagli da Cesare di mettere in sua mano la pratica della pace, benché non corrispondessino gli effetti: perché essendo andato a lui per questo effetto l'auditore della camera, ancora che Cesare si sforzasse di persuadergli con molte arti questa essere la sua intenzione, nondimeno, aspettando di intendere prima quel che per la passata de' tedeschi e dell'armata fusse succeduto in Italia, non dava risposta certa, mettendo eccezione ne' mandati de' collegati come se non fussino sufficienti. Mandò anche il re a Roma, per favorire la impresa del regno di Napoli, Valdemonte fratello del duca del Loreno, che per l'antiche ragioni del re Renato pretendeva alla successione di quello reame. Ma al pontefice noceva appresso a confederati il trattare continuamente la concordia col viceré, dubitando che a ogn'ora non convenisse seco, e però parendo quasi inutile al re di Francia e a' viniziani tutto quello che spendessino per sostenerlo: la quale suspizione accresceva il timore estremo che appariva in lui e i protesti cotidiani di non potere piú sostenere la guerra, aggiunto all'ostinazione di non volere creare cardinali per denari, né aiutarsi, in tanta necessità e in tanto pericolo della Chiesa, co' modi consueti, eziandio nelle imprese ambiziose e ingiuste, agli altri pontefici. Donde il re e i viniziani, per essere preparati a qualunque caso, si erano particolarmente riobligati di non fare concordia con Cesare l'uno senza l'altro; per la quale cagione il re, e per la speranza grande datagli dal re di Inghilterra di fare con lui, se convenivano del parentado, movimenti grandi alla prossima primavera, diventava piú negligente a' pericoli d'Italia.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.2

                                                  

                                                 Inutili tentativi del viceré contro Frosinone. Tregua fra il pontefice e il viceré, e offerte di Cesare al pontefice. Ritirata dell'esercito del viceré da Frosinone.

                                                  

                                                 Sollecitava in questo tempo il viceré di assaltare lo stato della Chiesa: dal quale essendo stati mandati dumila fanti spagnuoli a dare la battaglia a uno piccolo castello di Stefano Colonna, ne furono ributtati; e per lo spignersi egli innanzi, gli ecclesiastici lasciorno indietro la deliberazione fatta di battere Rocca di Papa; le genti del quale luogo avevano occupato Castel Gandolfo, posseduto dal cardinale di Monte, per essere male guardato. Finalmente il viceré, messi insieme dodicimila fanti, de' quali, dagli spagnuoli e tedeschi infuora condotti in su l'armata, la maggiore parte erano fanti comandati, si pose con tutto lo esercito, il vigesimo primo dí di dicembre, a campo a Frusolone, terra debole e senza muraglia ma alla quale succedono in luogo di mura le case private e la grotta, e stata messa in guardia dai capitani della Chiesa per non gli lasciare pigliare piede nella Campagna; e vi era anche vettovaglia per pochi dí: nondimeno il sito della terra, che è posta in su uno monte, dà facoltà a chi è dentro di potere sempre salvarsi da una parte avendo qualche poco di spalle; il che faceva piú arditi alla difesa i fanti che vi erano dentro, oltre a essere de' migliori fanti italiani che allora prendessino soldo. Né si potevano anche, per l'altezza del monte, accostare tanto l'artiglierie degli inimici (i quali vi avevano piantati tre mezzi cannoni e quattro mezze colubrine) che vi facessino molto danno: ma delle diligenze principali loro era lo impedire, quanto potevano, che non vi entrassino vettovaglie. Da altro canto il pontefice, benché esaustissimo di denari, e piú pronto a tollerare la indignità di pregare di esserne proveduto da altri che la indignità di provederne con modi estraordinari, augumentava quanto poteva le genti sue di fanti pagati e comandati; e aveva di nuovo condotto Orazio Baglione, dimenticate le ingiurie fatte prima al padre e poi a lui: il quale, come disturbatore della quiete di Perugia, aveva lungamente tenuto prigione in Castello Santo Agnolo. Con questi augumenti andava l'esercito del pontefice accostandosi per fare la massa a Fiorentino, e dare speranza di soccorso agli assediati. Fu finita a' ventiquattro la batteria di Frusolone, ma non essendo tale che desse al viceré speranza di vittoria non fu dato l'assalto; e nondimeno Alarcone, travagliandosi intorno alle mura, fu ferito d'uno archibuso, e vi fu anche ferito Mario Orsino. Ed era la principale speranza del viceré nel sapere essere dentro poche vettovaglie: delle quali anche pativa lo esercito che si ammassava a Fiorentino, perché le genti de' Colonnesi, che erano in Paliano, Montefortino e Rocca di Papa, che soli si tenevano per loro, travagliavano assai la strada; e andando Renzo allo esercito, avevano rotto la compagnia de' fanti di Cuio che gli faceva scorta. Uscirono nondimeno, uno giorno, trecento fanti di Frusolone e parte de' cavalli, con Alessandro Vitello Giambatista Savello e Pietro da Birago; e approssimatisi a mezzo miglio di Larnata dove erano alloggiate cinque insegne di fanti spagnuoli, ne tirorono due insegne in una imboscata e gli ruppeno con la morte del capitano Peralta con ottanta fanti, e prigioni molti fanti con le due insegne. Attendeva intratanto il viceré a fare mine a Frusolone, e quegli di dentro contraminavano tanto sicuri delle forze degli inimici che ricusorono quattrocento fanti che i capitani volevano mandare dentro in loro soccorso.

                                                 E nondimeno, nel tempo medesimo, non erano manco calde le pratiche dello accordo: perché a Roma erano tornati il generale e lo arcivescovo di Capua: co' quali era venuto Cesare Fieramosca napoletano, il quale Cesare aveva, dopo la partita del viceré, espedito di Spagna al pontefice, dandogli commissione che affermasse principalmente essergli stata molestissima l'entrata di don Ugo e de' Colonnesi in Roma, con gli accidenti che ne erano seguiti; facessegli fede, Cesare essere desiderosissimo di comporre seco tutte le controversie, e che trattasse in nome suo la pace, alla quale dimostrandosi inclinato anche con gli altri collegati, diceva (secondo scriveva il nunzio) che se il pontefice eseguiva, come aveva detto, di andare a Barzalona, gli darebbe libera facoltà di pronunziarla ad arbitrio suo. Proponevano questi per parte del viceré sospensione d'armi per due o tre anni col pontefice e co' viniziani, possedendo ciascuno come di presente possedeva, e pagando il pontefice cento cinquantamila ducati e i viniziani cinquantamila: cosa che benché fusse grave al pontefice, nondimeno tanto era inclinato a liberarsi dai travagli della guerra che, per indurre i viniziani a consentirvi, offeriva di pagare per loro i cinquantamila ducati. La risposta de' quali per aspettare fece tregua, l'ultimo dí di gennaio, col viceré per otto dí, con patto che le genti della Chiesa non passassino Fiorentino, quelle del viceré non passassino Frusolone né lavorassino contro alla terra; essendo medesimamente proibito a quegli di dentro non fortificare, né mettere dentro vettovaglia se non dí per dí. E parendo al Fieramosca avere scoperto assai la intenzione del pontefice, e potere con degnità di Cesare scoprirgli la sua, gli presentò una lunga lettera di mano propria di Cesare, piena di buona mente, di offerte e divozione verso il pontefice; e partito dipoi, per significare al viceré e al legato la sospensione fatta e ordinare che la si mettesse a esecuzione, trovò il dí seguente l'esercito che mosso da Fiorentino camminava alla volta di Frusolone; e avendo fatto intendere al legato la cosa, egli, non volendo interrompere la speranza grande che avevano i suoi della vittoria, date a lui parole, mandò occultamente a dire alla gente che continuasse di camminare.

                                                 Non poteva l'esercito arrivare a Frusolone se non si insignoriva di uno passo a modo di uno ponte, situato alle radici del primo colle di Frusolone, al quale erano a guardia quattro bandiere di fanti tedeschi; ma arrivata la vanguardia guidata da Stefano Colonna, e venuta con loro alle mani, gli roppe e messe in fuga, ammazzati circa dugento di loro e presine quattrocento con le insegne; e cosí guadagnato il primo colle, gli altri si ristrinseno in luogo piú forte, lasciata libera l'entrata in Frusolone agli ecclesiastici. I quali, essendo già vicina la notte, feceno l'alloggiamento in faccia loro; con speranza grande di Renzo e di Vitello (le azioni del quale in questa impresa procedevano con mala sodisfazione del pontefice) di avergli a rompere, o fermandosi o ritirandosi; come si crede che senza dubbio sarebbe seguito se avessino o fatto lo alloggiamento in su il colle preso o se fussino stati avvertiti e desti a sentire la ritirata degli inimici. Perché il viceré, non il giorno seguente ma l'altro giorno, due ore innanzi dí, senza fare segno o suono di levarsi, si partí con l'esercito, abbruciata certa munizione che gli restava e lasciate molte palle di artiglierie, e ancora che, intesa la partita sua, gli ecclesiastici gli spignessino dietro i cavalli leggieri, che preseno delle bagaglie e qualche prigione di poco conto, non furono a tempo a fargli danno notabile. Lasciò nondimeno addietro qualche munizione, e si ritirò a Cesano e di quivi a Cepperano.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.3

                                                  

                                                 Deliberazione dei collegati di assalire il regno di Napoli. Princìpi dell'impresa; irresoluzione del pontefice; azioni dell'armata dei veneziani contro la Campania e dell'esercito negli Abruzzi. Ragioni per cui non procede l'impresa contro il regno di Napoli.

                                                  

                                                 Per la ritirata del quale, il papa, preso animo e stimolato dagli imbasciadori de' confederati a' quali non poteva sodisfare altrimenti, si risolvé a fare la impresa del regno di Napoli. Perché e Robadanges, che aveva portato i diecimila ducati per conto della decima e i diecimila per conto di Renzo, aveva commissione non si spendessino senza consentimento di Alberto Pio, di Renzo e di Langes, e in caso fussino sicuri che il pontefice non si accordasse; e i viniziani, a' quali era andato maestro Rossello per indurgli ad accettare la tregua proposta dal viceré e approvata dal papa (ma per essersi in cammino rotto una gamba aveva mandato lo spaccio), risposeno non volere fare la tregua senza la volontà del re di Francia, con tanto maggiore animo quanto si intendeva le cose di Genova essere ridotte in grandissima estremità di vettovaglie. Deliberossi adunque di assaltare il regno di Napoli con lo esercito per terra, e che per mare andasse l'armata con Valdemonte che levasse dumila fanti; ma Renzo, secondo la deliberazione del quale si spendevano i danari del re di Francia, deliberò, contro alla volontà del pontefice (al quale pareva che tutte le forze si volgessino in uno luogo medesimo) di fare seimila fanti per entrare nello Abruzzi, sperando che per mezzo de' figlioli del conte di Montorio, mandativi con tremila fanti, si occupasse l'Aquila facilmente: il che subito succedette, fuggendosene Ascanio Colonna, come intese si approssimavano.

                                                 Cominciorono con speranza grande i princìpi di questa impresa: perché se bene il viceré, messa guardia ne' luoghi vicini, attendesse a riordinarsi quanto poteva, nondimeno, essendosi resoluta una parte delle sue genti, un'altra distribuita per necessità alla custodia delle terre, si credeva che resterebbe impegnato a resistere allo esercito terrestre; e però, che Renzo nello Abruzzi e l'armata della Chiesa e de' viniziani, che erano ventidue galee, non arebbeno contrasto, portando massime tremila fanti di sopracollo, e andandovi Orazio con dumila fanti e la persona di Valdemonte, al quale il pontefice aveva dato titolo di suo luogotenente. Ma le cose procedevano con maggiore tardità, perché l'esercito ecclesiastico non si era ancora il duodecimo dì di febbraio discostato da Frusolone, aspettando da Roma l'artiglieria grossa e che Renzo entrasse nello Abruzzi e che arrivasse l'armata; e aveva anche dato qualche impedimento e fatto perdere tempo, che i fanti di Frusolone, ammutinati, volsono la paga, come guadagnata per la vittoria. Abbandonorno nondimeno, a' diciotto dì, le genti del viceré Cesano e altri castelli circostanti, e si ritirorno a Cepperano; per la ritirata de' quali l'esercito ecclesiastico, il quale già cominciava a patire di vettovaglie, passò San Germano; e il viceré, temendo della somma delle cose, si ritirò a Gaeta e don Ugo a Napoli. E nondimeno il pontefice, per la necessità de' danari e temendo della venuta innanzi del duca di Borbone, all'esercito del quale non vedeva pronta la resistenza de' collegati, continuando nella medesima inclinazione della concordia con Cesare, aveva procurato che maestro Rossello in nome del suo re andasse al viceré: da che nacque che Cesare Fieramosca ritornò a Roma il vigesimo primo dì di febbraio; donde, esposte le sue commissioni, si partì il dì seguente, lasciato l'animo del pontefice confusissimo e pieno di irresoluzione. Al quale, perché non precipitasse all'accordo, i viniziani, al principio di marzo, offersono di numerargli fra quindici dì quindicimila ducati, quindicimila altri fra altri quindici dì, ottenuto da lui il giubileo per il loro dominio. Ma l'armata marittima del papa e de' viniziani, la quale, soprastata con grave danno per aspettare l'armata franzese, si era il vigesimo terzo di febbraio ritirata, per i venti, all'isola di Ponzo, fattasi poi innanzi saccheggiò Mola di Gaeta; dipoi, a' quattro dì di marzo, messi fanti in terra a Pozzuolo e trovatolo bene provisto, si rimesse in mare. Dipoi, spintasi innanzi e posto in terra presso a Napoli, per la riviera di Castello a mare di Stabbia, dove era Diomede Caraffa con cinquecento fanti, combattutolo il terzo dì di marzo per via del monte, lo sforzò e saccheggiò, e il dì seguente la fortezza si arrendé. Sforzò, il decimo dì, la Torre del Greco e Surrente; e molte altre terre di quella costa si detteno poi a patti. E aveva prima prese alcune navi di grani, di che Napoli, dove si faceva debole provisione, pativa assai, non avendo in mare ostacolo alcuno; e il secondo dì della quadragesima si appressò tanto al molo che il castello e le galee gli tiravano; e prima i fanti andorono, per terra, tanto innanzi che fu forza che quegli di Napoli si ritirassino per la porta del mercato e la serrassino. Prese dipoi l'armata Salerno; ed essendo andato Valdemonte coll'armata dietro a certe navi, lasciate a Salerno dove era Orazio quattro galee, il principe di Salerno, entrato per via della rocca con gente assai nella terra, fu rotto da Orazio, morti più di dugento fanti e presi prigioni assai. E nello Abruzzi il viceré, liberato di prigione il conte vecchio di Montorio perché ricuperasse l'Aquila, fu fatto prigione da' figliuoli; e Renzo, a' sei di marzo, preso Siciliano e Tagliacozzo, andava verso Sora. E nondimeno, in tanta occasione, l'esercito terrestre, ridotto o per la negligenza de' ministri o per le male provisioni del pontefice in carestia grande di vettovaglie, aveva il quinto dì di marzo cominciato a sfilarsi.

                                                 Ma continuandosi tuttavia le pratiche della pace, venneno a Roma, il decimo di marzo, Fieramosca e Serone segretario del viceré: dove, il dì dinanzi, era arrivato Langes, con parole e promesse assai ma senza danari; non ostante che di Francia fusse stato significato che si era partito con ventimila ducati, per mettere fanti in sull'armata de' navili grossi, quale si aspettava a Civitavecchia, e che ventimila altri ne portava al pontefice; confortandolo a fare la impresa del reame per uno de' figliuoli, al quale si maritasse Caterina figliuola di Lorenzo de' Medici nipote del pontefice. Perché il re, confidando nella pratica con Inghilterra e persuadendosi che il viceré, per il disordine di Frusolone, non potesse fare effetti, e che lo esercito imperiale, poiché tanto tardava a muoversi, non avendo anche denari, non fusse per andare più in Toscana, non voleva più la tregua, eziandio per tutti, quando bene non si avesse a pagare denari, per non dare tempo a Cesare di riordinarsi: e nondimeno, trovandosi senza denari, né de' ventimila ducati promessi al pontefice ciascuno mese né de' danari della decima non gli aveva mandato altro che diecimila ducati, né a' sette di marzo aveva ancora mandati i denari per i fanti dell'armata grossa, che era spesa comune tra lui e i viniziani; ed essendo di animo di non fare motto insino non conchiudeva con il re d'Inghilterra, gli pareva ragionevole che il pontefice aspettasse quello tempo. Però la impresa del regno di Napoli, cominciata con grande speranza, andava ogni dì raffreddando: perché l'armata, non essendo ingrossata né di legni nuovi né di gente e avendo a guardare i luoghi presi, poteva fare poco progresso; e lo esercito di terra, al quale le vettovaglie mandate da Roma per mare non erano, a' quattordici di marzo, condottesi ancora, per il tempo, non solo non andava innanzi, ma diminuendo per il disordine delle vettovaglie, si ritirò finalmente a Piperno; e i fanti che erano con Renzo diminuiti per non avere denari, in modo che egli, non avendo potuto mettere in mezzo il viceré, secondo il disegno, se ne ritornò a Roma: accrescendo questi disordini la pratica stretta che aveva il pontefice dello accordo, perché indeboliva le provisioni, fredde per sua natura, de' collegati: il che da altro canto accresceva la inclinazione del pontefice allo accordo, indotto a qualche maggiore speranza dell'animo di Cesare, per essere stata intercetta una sua lettera nella quale commetteva al viceré che si sforzasse di concordare col pontefice, se già lo stato delle cose non lo consigliasse a fare altrimenti.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.4

                                                  

                                                 Piano d'azione propostosi dal duca d'Urbino. Fazioni militari in Emilia e defezione del conte di Gaiazzo. Gli imperiali muovono il campo dalla Trebbia; meravigliosa costanza dei soldati. Movimenti degli eserciti avversari. Occupazione di Monza da parte del duca di Milano, e subito abbandono della città da parte dei suoi. Difficoltà dell'esercito tedesco in Emilia; inattività delle milizie dei collegati e del duca d'Urbino. Malattia del Frundsperg.

                                                  

                                                 Ma quello che lo moveva piú era il vedere farsi continuamente innanzi Borbone con lo esercito imperiale, né le risoluzioni del duca d'Urbino né le provisioni de' viniziani essere tali che lo rendessino sicuro delle cose di Toscana; il timore delle quali lo affliggeva sopramodo. Perché il duca d'Urbino, stando ancora le genti imperiali parte di qua parte di là da Piacenza, mutata la prima opinione di volere essere a Bologna con l'esercito veneto innanzi a loro, aveva risoluto ne' suoi consigli che, come si intendesse la mossa degli inimici, lo esercito ecclesiastico, lasciato Parma e Modena bene guardate, si riducesse a Bologna; e che egli con l'esercito de' viniziani camminasse alla coda degli inimici, lontano però sempre da loro, per sicurtà delle sue genti, venticinque o trenta miglia: col quale ordine, volendo gli inimici pigliare poi la via di Romagna e di Toscana, si procedesse continuamente, camminando sempre innanzi a loro l'esercito ecclesiastico, col marchese di Saluzzo con le lance franzesi e co' fanti suoi e de' svizzeri, lasciando sempre guardia nelle terre donde gli inimici avessino dopo loro a passare, e raccogliendole poi di mano in mano secondo fussino passati. Del quale consiglio suo, mal capace agli altri capitani, allegava molte ragioni; prima, non essere sicuro il mettersi con gli eserciti uniti in campagna per fare ostacolo agli imperiali che non passassino, perché sarebbe o pericoloso o inutile: pericoloso volendo combattere, perché essendo superiore di forze e di virtú se non di numero conseguirebbero la vittoria; inutile, perché se gli imperiali non volessino combattere sarebbe in facoltà loro lasciare indietro l'esercito de' collegati, ed essendo dipoi sempre innanzi a loro in ogni luogo farebbeno grandissimi progressi. Parergli, quando bene le cose fussino in potestà sua, migliore di tutte questa deliberazione; ma costrignerlo a questo medesimo la necessità: perché essendo già, secondo si credeva, quasi in moto l'esercito inimico, non essere tanto pronte le provisioni delle genti sue che e' fusse certo di potere essere a tempo a andare innanzi; e anche avere a considerare, poi che i viniziani avevano rimessa in lui liberamente questa deliberazione, di non lasciare lo stato loro in pericolo, il quale se gli inimici vedessino sprovisti, potrebbeno, preso nuovo consiglio da nuova occasione, passato Po, voltarsi a' danni loro. Con la quale ragione convinceva il senato viniziano, che per natura ha per obietto di procedere nelle cose sue cautamente e sicuramente; ma non sodisfaceva già al pontefice, considerando che con questo consiglio si apriva la via allo esercito imperiale di andare insino a Roma o in Toscana, o dove gli paresse; perché l'esercito che aveva a precedere, inferiore di forze, e diminuendone ogni dí per avere a mettere guardia nelle terre, non gli potrebbe resistere; né era certo che i viniziani, restando una volta indietro, avessino a essere cosí pronti a seguitargli co' fatti come sonavano le parole del duca, considerando massime i modi con che si era proceduto in tutta la guerra; e giudicando che uniti tutti gli eserciti insieme, ne' quali erano molto piú genti che in quello degli imperiali, potessino piú facilmente proibire loro il passare innanzi, impedire le vettovaglie e usare tutte le occasioni che si presentassino; né avere mai a essere tanto lontani da loro che non fussino a tempo a soccorrere, se si voltassino nelle terre de' viniziani. La quale deliberazione gli dispiacque molto piú quando intese che il duca d'Urbino, venuto il terzo dí di gennaio a Parma, sopravenutagli leggiera malattia, si ritirò il quartodecimo dí a Casalmaggiore; e di quivi, cinque dí poi, sotto nome di curarsi, a Gazzuolo; dove già alleggierito della febbre ma aggravato, secondo diceva, della gotta, aveva fatto venire la moglie. Il quale procedere, sospetto molto al pontefice, chi voleva tirare a migliore senso arguiva che le pratiche sue degli accordi erano causa del suo procedere con questa sospensione. Ma il luogotenente, comprendendo, parte da quello che era verisimile parte per relazione di parole dette da lui, che a questi modi sinistri lo induceva anche il desiderio della recuperazione del Montefeltro e di Santo Leo posseduto da' fiorentini, giudicando che, se non si sodisfaceva di questo, sarebbeno il pontefice e i fiorentini nelle maggiori necessità abbandonati da lui, né gli parendo che queste terre fussino premio degno di esporsi a tanto pericolo, sapendo anche che il medesimo si desiderava a Firenze, gli dette speranza certa della restituzione come se n'avesse commissione dal pontefice: la quale cosa non fu approvata dal pontefice, indulgente piú, in questo caso, all'odio antico e nuovo che alla ragione.

                                                 Stavano intanto gl'imperiali, avendo dato a' tedeschi pochissimi denari, alloggiati vicini a Piacenza, dove era il conte Guido Rangone con seimila fanti; donde correndo qualche volta Paolo Luzasco e altri cavalli leggieri della Chiesa, uno giorno, accompagnati da qualche numero di fanti e da alcuni uomini d'arme, roppono gli inimici che correvano, preseno ottanta cavalli e cento fanti, e restorono prigioni i capitani Scalengo, Zucchero e Grugno borgognone. Mandò dipoi Borbone, il nono dí di febbraio, dieci insegne di spagnuoli a vettovagliare Pizzichitone, e a' quindici dí, il conte di Gaiazzo co' cavalli leggieri e fanti suoi venne ad alloggiare al Borgo a San Donnino, abbandonato dagli ecclesiastici. Il quale, il dí seguente, per pratica tenuta prima con lui, e pretendendo egli di essere, perché non era pagato, libero dagli imperiali, passò nel campo ecclesiastico: condotto dal luogotenente, piú per sodisfare ad altri che per seguitare il giudizio suo proprio, con mille ducento fanti e centotrenta cavalli leggieri, i quali aveva seco, e con condizione che, essendogli tolto da Cesare il contado suo di Gaiazzo, avesse dopo otto mesi il pontefice, insino lo ricuperasse, a pagargli ciascuno anno l'entrata equivalente.

                                                 Desiderava Borbone, seguitato il consiglio del duca di Ferrara (il quale nondimeno recusò di cavalcare nello esercito) di andare piú presto a Bologna e a Firenze che soprasedere in quelle terre, di partire a ogn'ora; ma a' diciassette dí si ammutinorno i fanti spagnuoli dimandando denari, e ammazzorno il sergente maggiore mandato da lui a quietargli: e nondimeno, quietato il meglio possette il tumulto, a' venti dí passò con tutto l'esercito la Trebbia e alloggiò a tre miglia di Piacenza; avendo seco cinquecento uomini d'arme e molti cavalli leggieri, i quali la piú parte erano italiani, non mai pagati, i fanti tedeschi venuti nuovamente, quattro o cinquemila fanti spagnuoli di gente eletta e circa dumila fanti italiani, sbandati e non pagati; essendo restati de' tedeschi vecchi una parte a Milano, gli altri andati verso Savona, per dare favore alle cose di Genova, ridotta in grandissima angustia. Ed era certo maravigliosa la deliberazione di Borbone e di quello esercito, che, trovandosi senza danari senza munizioni senza guastatori senza ordine di condurre vettovaglie, si mettesse a passare innanzi in mezzo a tante terre inimiche e contro a inimici che avevano molto piú gente di loro; e piú maravigliosa la costanza de' tedeschi, che partiti di Germania con uno ducato solo per uno, e avendo tollerato tanto tempo in Italia con non avere avuto in tutto il tempo piú che due o tre ducati per uno, si mettessino, contro a l'uso di tutti i soldati e specialmente della loro nazione, a camminare innanzi, non avendo altro premio o assegnamento che la speranza della vittoria; ancora che si comprendesse manifestamente che, riducendosi in luogo stretto le vettovaglie e avendo i nimici propinqui, non potrebbeno vivere senza denari: ma gli faceva sperare e tollerare assai l'autorità grande che aveva il capitano Giorgio con loro, che proponeva loro in preda Roma e la maggiore parte di Italia.

                                                 Spinsonsi, a' ventidue dí, al Borgo a San Donnino; e il dí seguente, il marchese di Saluzzo e le genti ecclesiastiche, lasciato a guardia di Parma alcuni fanti de' viniziani, si partirono da Parma per la volta di Bologna, con undici in dodicimila fanti; lasciato ordine al conte Guido che da Piacenza venisse a Modena e i fanti delle bande nere a Bologna, restando in Piacenza guardia sufficiente. Cosí per il reggiano si condusseno, in quattro alloggiamenti, tra Anzuola e il ponte a Reno. Nel quale tempo Borbone era intorno a Reggio. E il duca di Urbino, il quale, proponendogli il luogotenente a Casalmaggiore che si accrescesse il numero de' svizzeri, l'aveva come cosa inutile recusato, ora instava seco che si proponesse a Roma e a Vinegia che si conducessino di nuovo quattromila svizzeri e dumila tedeschi; scusando la contradizione fatta allora perché la stagione non consentiva che si uscisse alla campagna, e avere creduto che gli inimici si risolvessino prima: a' quali, con questo augumento, prometteva di accostarsi. Consiglio disprezzato da tutti, perché a' pericoli presenti non soccorrevano rimedi tanto tardi; potendo anche egli essere certissimo che queste cose, per le difficoltà de' denari e volontà già disunite de' collegati, non si potevano mettere a esecuzione.

                                                 Nel quale tempo il duca di Milano, che fatti tremila fanti difendeva Lodi e Cremona e tutto il di là da Adda, e scorreva nel milanese, occupò con subito impeto la terra di Moncia; ma fu presto abbandonata da i suoi, avuto avviso che Antonio da Leva, che aveva accompagnato Borbone, ritornato a Milano andava a quella volta; e si diceva avere seco dumila fanti tedeschi de' vecchi, mille cinquecento de' nuovi, mille fanti spagnuoli e cinquemila fanti italiani sotto piú capi.

                                                 Ma Borbone, passata Secchia, presa la mano sinistra, si condusse, a' cinque di marzo, a Buonoporto; dove lasciato le genti andò al Finale ad abboccarsi col duca di Ferrara, che lo confortò assai a indirizzarsi, lasciati da parte tutti gli altri pensieri, alla volta di Firenze o di Roma: anzi si crede che lo consigliasse a indirizzarsi, lasciata ogni altra impresa, verso Roma. Nella quale deliberazione cruciavano l'animo del duca di Borbone molte difficoltà, e specialmente il timore che l'esercito, condotto in terra di Roma, o per necessità o per desiderio di rinfrescarsi, o incontrando in qualche difficoltà (come senza dubbio sarebbe incontrato se il pontefice non si fusse disarmato) non pigliasse per alloggiamento il regno di Napoli. Nel quale dí le genti de' viniziani passorono Po, senza la persona del duca d'Urbino (il quale benché quasi guarito era ancora a Gazzuolo) ma con intenzione di camminare presto. Alloggiò, il settimo dí, Borbone a San Giovanni in bolognese, donde mandò uno trombetto a Bologna, dove si erano ritirate le genti ecclesiastiche, a dimandare vettovaglie, dicendo volere andare al soccorso del reame; e il dí medesimo si unirono seco gli spagnuoli che erano in Carpi, consegnata quella terra al duca di Ferrara: e le genti de' viniziani erano in su la Secchia, risolute a non passare piú innanzi se prima non intendevano la partita di Borbone da San Giovanni. Al quale veniva vettovaglia di quello di Ferrara, ma avendola a pagare e non avendo quasi denari, alloggiavano, per mangiare il paese, molto larghi, e correvano per tutto predando uomini e bestie, donde traevano il modo di pagare le vettovaglie: in modo che si conosceva certissimo che se avessino avuto riscontro potente, o se l'esercito ecclesiastico, il quale era in Bologna e all'intorno, avesse potuto mettersi in uno alloggiamento vicino a loro, si sarebbeno gli imperiali ridotti presto in molte angustie; perché continuando di alloggiare cosí larghi sarebbeno stati con molto pericolo, e ristrignendosi non arebbeno avuto il modo a pagare le vettovaglie. Ma nelle genti che erano a Bologna erano molti disordini, sí per la condizione del marchese, atto piú a rompere una lancia che a fare offizio di capitano, sí ancora perché i svizzeri e i fanti suoi non erano pagati a' tempi debiti da' viniziani; e Borbone, per potere camminare piú innanzi, attendeva a provedersi da Ferrara di vettovaglie per piú dí, di munizioni, di guastatori e di buoi, avendo seco insino allora quattro cannoni: e ancora che facesse varie dimostrazioni di quello che avesse in animo, nondimeno si ritraeva per cosa piú certa avere in animo di passare in Toscana per la via del Sasso; e il medesimo confermava Ieronimo Morone il quale, già molti dí, teneva segreta pratica col marchese di Saluzzo, benché, a giudizio di molti, simulatamente e con fraude. Ma già avendo statuito dovere partire a' quattordici dí di marzo, e perciò rimandato al Bondino i quattro cannoni il dí precedente, i fanti tedeschi, delusi da varie promesse de' pagamenti e seguitati poi da' fanti spagnuoli, gridando denari, si ammutinorono con grandissimo tumulto, e con pericolo non mediocre della vita di Borbone se non fusse stato sollecito a fuggirsi occultamente del suo alloggiamento; dove concorsi lo svaligiorno, ammazzatovi uno suo gentiluomo: per il che il marchese del Vasto andò subito a Ferrara, donde tornò con qualche somma, benché piccola, di denari. E sopravenne, a' diciasette dí neve e acqua smisurata, in modo che era impossibile che per la grossezza de' fiumi e per le male strade l'esercito per qualche dí camminasse; e uno accidente di apoplessia sopravenuto al capitano Giorgio lo condusse quasi alla morte con maggiore speranza che non fu poi il successo che, avendo almeno a restare inutile a seguitare il campo i fanti tedeschi, per la partita sua, non avessino a sopportare piú le incomodità e il mancamento de' denari. Erano in questo tempo le genti de' viniziani a San Faustino presso a Rubiera: alle quali arrivò, il decimo ottavo dí di [marzo] il duca di Urbino; promettendo, secondo l'uso suo, al senato viniziano, quando era lontano dal pericolo, la vittoria quasi certa, non perciò per virtú dell'armi de' confederati ma per le difficoltà degli inimici.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.5

                                                  

                                                 Sfiducia del pontefice per l'esito della guerra e per gli scarsi aiuti del re di Francia e degli altri collegati; suoi timori per Firenze e per lo stato della Chiesa; suoi accordi con i rappresentanti di Cesare. Incauti provvedimenti del pontefice, troppo fiducioso negli accordi conchiusi; ostinazione dell'esercito imperiale nel volere seguitare la guerra. Inosservanza della tregua da parte dell'esercito imperiale. Il viceré, rassicurato il pontefice, tratta a Firenze con inviati del Borbone.

                                                  

                                                 In questo stato essendo da ogni banda ridotte le cose, il pontefice, invilito per non avere denari (alla quale difficoltà non voleva porre rimedio col creare nuovi cardinali), invilito per non succedere secondo i primi disegni la impresa del regno, perché già le genti sue per mancamento di vettovaglia si erano ritirate a Piperno, invilito perché le provisioni de' franzesi amplissime di parole riuscivano, ogni dí piú, scarsissime di effetti, come continuamente avevano fatto dal primo dí insino all'ultimo di tutta la guerra. Perché, oltre alla tardità usata per il re in mandare il primo mese della guerra i quarantamila ducati, in espedire le cinquecento lancie e l'armata marittima, oltre al non avere voluto rompere, come era obligato, la guerra di là da' monti, disegnato per uno de' fondamenti principali di ottenere la vittoria, mancò eziandio nelle promesse fatte quotidianamente. Aveva promesso di pagare al pontefice, oltre alla contribuzione ordinaria, ventimila ducati ciascuno mese, perché rompesse la guerra al reame di Napoli; ed essendo dipoi succeduta la tregua fatta per lo insulto di don Ugo e de' Colonnesi, confortandolo a non osservare la tregua, gli aveva riconfermato la medesima promessa, per servirsene o per la guerra di Napoli o per la difesa propria, e mandargli Renzo da Ceri, venuto appresso a lui per la difesa di Marsilia in grande estimazione: le quali cose, benché promesse insino al quinto dí di ottobre, si differirono tanto, per la tardità loro per i pericoli terrestri e per gli impedimenti del mare, che Renzo non prima che 'l quarto dí di gennaio arrivò a Roma senza danari, e dieci dí poi arrivorono ventimila ducati; de' quali avendone ritenuti Renzo quattromila per le spese fatte da sé e sua pensione, diecimila per la impresa dello Abruzzi, soli seimila ne pervennono nel pontefice: il quale sotto queste promesse aveva, quasi tre mesi innanzi, rotta la tregua. Promesse il re di pagargli per la concessione della decima, fra otto dí, scudi venticinquemila e trentacinquemila altri fra due mesi; ma di questi non ricevé mai il pontefice se non novemila portati da Robadanges. Partí dal re di Francia, il duodecimo dí di febbraio, Pagolo d'Arezzo; al quale, per dare maggiore animo alla guerra, promesse, oltre a tutti i predetti, ducati ventimila: i quali, mandati dietro a Langes non passorono mai Savona. Era obligato il re per i capitoli della confederazione a mandare dodici galee sottili; diceva averne mandate sedici, ma il piú del tempo tanto male provedute e senza uomini da porre in terra che non partivano da Savona: le quali se, nel principio che si roppe la guerra contro al reame di Napoli, si fussino congiunte subito con le galee del pontefice e de' viniziani, arebbono, secondo il giudicio comune, fatto grandissimi progressi. L'armata de' grossi navili, certamente molto potente, benché molte volte promettesse mandarla verso il regno, per quale si fusse cagione, non si discostò mai dalla Provenza o da Savona; e dopo avere concorso a dare due paghe a' fanti del marchese di Saluzzo, concordò co' viniziani, i quali tenevano minore numero di gente che quelle alle quali erano obligati, che 'l pagamento loro si traesse della contribuzione de' quarantamila ducati. E i conforti e gli aiuti del re di Inghilterra erano troppo lontani e troppo incerti. Vedeva i viniziani tardi ne' pagamenti delle genti; per colpa de' quali i fanti di Saluzzo e i svizzeri, che alloggiavano in Bologna, erano quasi inutili. Spaventavano le variazioni e il modo del procedere del duca d'Urbino, per la quale [cosa] conosceva non si avere a fare ostacolo alcuno che l'esercito imperiale non passasse in Toscana; donde, per la mala disposizione del popolo fiorentino, per lo avere i cesarei aderente la città di Siena, comprendeva cadere in gravissimo pericolo lo stato di Firenze ed eziandio quello della Chiesa. Queste ragioni lo commosseno: benché dopo molte pratiche e fluttazioni di animo, perché conosceva anche quanto fusse pernicioso e pericoloso il separarsi da' collegati e rimettersi alla discrizione degli inimici. Nondimeno, non essendo aiutato a bastanza da altri né volendo aiutarsi quanto arebbe potuto da se medesimo, e prevalendo in lui il timore piú presente, né sapendo fare con l'animo resistenza alle difficoltà e a' pericoli, [si risolvé] ad accordare col Fieramosca e con Serone, che erano in Roma per questo effetto in nome del viceré, di sospendere l'armi per otto mesi, pagando allo esercito imperiale sessantamila ducati: restituissensi le cose tolte della Chiesa e del regno di Napoli e de' Colonnesi, e a Pompeio Colonna la degnità del cardinalato, con l'assoluzione dalle censure (delle quali condizioni niuna fu piú grave al pontefice, e alla quale condiscendesse con maggiore difficoltà): e avessino facoltà il re di Francia e i viniziani a entrarvi fra certo tempo; nel quale entrandovi, uscissino i fanti tedeschi di Italia; non vi entrando, uscissino dello stato della Chiesa ed eziandio di quello di Ferrara: pagassensi quarantamila ducati a' ventidue del presente, il resto per tutto il mese; e che il viceré venisse a Roma: il che al papa pareva quasi uno assicurarsi della osservanza di Borbone.

                                                 Fatto l'accordo, si richiamorono subito da ciascuna delle parti tutte le genti e l'armata del mare, e si restituirono le terre occupate, procedendo il pontefice con buona fede alla osservanza (le condizioni del quale erano molto superiori nel regno di Napoli); ma all'Aquila i figliuoli del conte di Montorio, diffidando potervi stare sicuri altrimenti, liberorono il padre, il quale subito, col favore della fazione imperiale, ne scacciò i figliuoli e la fazione avversa. Arrivò poi il viceré a Roma; per la venuta del quale il pontefice, giudicandosi assicurato del tutto della osservanza della concordia, licenziò con pessimo consiglio tutte le genti che nelle parti di Roma erano agli stipendi suoi, riservandosi solamente cento cavalli leggieri e dumila fanti delle bande nere: dandogli a questo maggiore animo il persuadersi che il duca di Borbone fusse inclinato alla concordia, per le difficoltà che aveva a procedere nella guerra (perché sempre aveva dimostrato a lui desiderarla) e per una sua lettera al viceré, intercetta dal luogotenente, per la quale lo confortava a concordare col pontefice quando si potesse farlo con onore di Cesare. Al quale ritornò, pochi dí dopo la giunta del viceré, a significare le cose fatte e a trattare della pace [il generale di San Francesco].

                                                 Ma molto diversamente procedevano le cose intorno a Bologna: perché avendo il pontefice, subito dopo la stipulazione della tregua, espedito Cesare Fieramosca a Borbone perché approvasse la concordia, e ricevuto che avesse i danari levasse l'esercito del territorio della Chiesa, si scopersono, forse in Borbone ma senza dubbio ne' soldati, infinite difficoltà, dimostrandosi ostinati a volere seguitare la guerra, o perché s'avessino proposto speranza di grandissimo guadagno o perché i danari promessi del pontefice non bastassino a sodisfargli di due paghe; e però molti credettono che se fussino stati centomila ducati arebbono facilmente accettata la tregua. Quel che ne fusse la cagione certo è che, dopo la venuta del Fieramosca, non cessavano di predare il bolognese come prima e fare tutte le dimostrazioni degli inimici; e nondimeno Borbone, il quale faceva fare le spianate verso Bologna, e il Fieramosca davano speranza al luogotenente che non ostante tutte le difficoltà l'esercito accetterebbe la tregua, affermando Borbone essere necessitato a fare le spianate per intrattenere l'esercito con la speranza del procedere innanzi, insino a tanto l'avesse ridotto al desiderio suo, il quale era di conservarsi amico del pontefice. E nondimeno, nel tempo medesimo, venivano, per ordine del duca di Ferrara, allo esercito provisioni di farine guastatori carri polvere e instrumenti simili; il quale si gloriò poi né i danari dati loro né tutti questi aiuti passare il valore di sessantamila ducati. E da altra parte, il duca di Urbino, simulando di temere che quello esercito, accettata la tregua, non si volgesse al Pulesine di Rovigo, ritirò le genti viniziane di là dal Po a Casale Maggiore.

                                                 Stettono cosí sospese le cose otto dí. Finalmente, o perché questa fusse stata sempre la intenzione del duca di Borbone o perché non fusse in potestà sua comandare all'esercito, scrisse Borbone al luogotenente che la necessità lo costrigneva, poiché non poteva ridurre alla volontà sua i soldati, di camminare innanzi; e cosí mettendo a esecuzione andò, il dí seguente che fu l'ultimo dí di marzo, ad alloggiare al ponte a Reno, con tanto ardore della fanteria che venendo nel campo uno uomo mandato dal viceré per sollecitare Borbone che accettasse la tregua sarebbe, se non si fusse fuggito, stato ammazzato dagli spagnuoli. Ma maggiore fu la dimostrazione contro al marchese del Guasto; il quale, essendosi partito dallo esercito per andare nel reame di Napoli, mosso o da indisposizione della persona o per non contravenire, secondo che scrisse al luogotenente, alla volontà di Cesare come gli altri, o da altra cagione, fu bandito dallo esercito per rebelle. Per la venuta del duca di Borbone al ponte a Reno, il marchese di Saluzzo e il luogotenente, essendo già certi che gli inimici andavano verso la Romagna, lasciata una parte de' fanti italiani alla guardia di Bologna, non senza difficoltà di condurre i svizzeri (per il pagamento de' quali fu necessitato il luogotenente prestare a Giovanni Vitturio diecimila ducati), si indirizzorono, la notte medesima, col resto dello esercito a Furlí, dove entrorono il terzo dí di aprile, lasciato in Imola presidio sufficiente a difenderla. Sotto la quale città passò, il quinto dí, il duca di Borbone per alloggiare piú basso sotto la strada maestra. Ma come a Roma pervenne la certezza che Borbone non aveva accettata la tregua, il viceré, dimostrandone grandissima molestia, e persuadendosi che, secondo aveva ricevuto gli avvisi primi, procedesse perché fusse necessaria maggiore somma di danari, mandò uno suo uomo a offerire, di piú, ventimila ducati, quali pagava delle entrate di Napoli; ma dipoi, inteso essere stato in pericolo, partí il terzo dí d'aprile da Roma per abboccarsi con Borbone, avendo promesso al pontefice che costrignerebbe Borbone ad accettare la tregua, se non con altro modo, col separare da lui le genti d'arme e la maggiore parte de' fanti spagnuoli. Ma arrivato a sei dí in Firenze, si fermò quivi per trattare con uomini mandati da Borbone, come in luogo piú opportuno; essendo già certo non si potere fermare lo esercito se non pagandogli molto maggiore somma di denari, e avendo questi a pagarsi da' fiorentini, sopra i quali il pontefice aveva lasciato tutto il carico di provedervi.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.6

                                                  

                                                 Vanità delle speranze del pontefice per la conclusione della tregua; opera del suo luogotenente perché non sia abbandonato dai collegati; incertezza di questi. Terre di Romagna prese dal Borbone; comunicazione del viceré al Borbone della conferma della capitolazione conchiusa a Roma. Il Borbone passa l'Apennino; il luogotenente del pontefice convince i collegati a passare in Toscana; maggior sicurezza di Firenze e maggior pericolo per Roma. Il pontefice fiducioso nella tregua licenzia le milizie.

                                                  

                                                 Augumentavano queste varietà sommamente le difficoltà e i pericoli del pontefice, anzi già l'avevano augumentate molti dí: perché, nella incertitudine delle deliberazioni del duca di Borbone e di quello che avesse a partorire la venuta del viceré, aveva necessità degli aiuti de' collegati; i quali raffreddavano le azioni sue, sollecitandogli in contrario la instanza e gli stimoli del suo luogotenente perché il pontefice con tutte le parole e dimostrazioni manifestava il desiderio sommo che aveva dello accordo e la speranza grande che aveva che per l'opere del viceré dovesse succedere; e il luogotenente, da altro canto, comprendendo per molti segni che la speranza del pontefice era vana, e conoscendo che il raffreddarsi le provisioni de' collegati metteva in manifestissimo pericolo le cose di Firenze e di Roma, faceva estrema instanza col marchese di Saluzzo e co' viniziani per persuadere loro che l'accordo non arebbe effetto e confortargli che, se non per rispetto di altri almanco per interesse loro proprio, non abbandonassino le cose del pontefice e di Toscana; né dissimulando, per avere maggiore fede, che il papa ardentemente desiderava e cercava la tregua, e imprudentemente, non conoscendo le fraudi aperte degli imperiali, vi sperava; e che quando bene, col dargli aiuto, non ottenessino altro che facilitargli le condizioni dello accordo, essere questo a loro grandissimo benefizio, perché il papa, aiutato da loro, accorderebbe per sé e per i fiorentini con condizioni che nocerebbeno poco alla lega, abbandonato, sarebbe costretto per necessità obligarsi a dare agli imperiali somma grandissima di denari e qualche contribuzione grossa mensuale, che sarebbeno quelle armi con le quali in futuro si farebbe la guerra contro a loro: e però dovere, se non volevano nuocere a se stessi, qualunque volta Borbone si movesse per offendere la Toscana, muoversi anche essi con tutte le forze loro per difenderla. Stava molto perplesso il marchese di Saluzzo in questa deliberazione; ma molto piú vi stavano perplessi i viniziani, perché, scoperta a tutti la pusillanimità del pontefice, tenevano per certo che, eziandio dopo gli aiuti avuti di nuovo da loro, qualunque volta potesse conseguire lo accordo lo abbraccierebbe senza rispetto de' confederati, e che però fussino astretti a cosa molto nuova: aiutarlo per fargli facile il convenire con gli inimici comuni. Consideravano che lo abbandonarlo causerebbe maggiore pregiudizio alle cose comuni; ma giudicavano mettersi in manifesto pericolo le genti loro, tra l'Apennino e gli inimici e nel paese già diventato avverso, se, mentre che erano in Toscana, il pontefice stabilisse o di nuovo facesse l'accordo; e poteva anche nel senato quella dubitazione che il pontefice non facesse instanza che le genti loro passassino in Toscana, per costrignergli ad accettare, per pericolo di non le perdere, la sospensione. Le quali perplessità aveva con minore difficoltà rimosse il luogotenente dall'animo del marchese, ancora che molti del suo consiglio, per timore di non mettere le genti in pericolo, lo confortassino al contrario: però, come prima era stato pronto a venire a Furlí cosí non recusava, se il bisogno lo ricercasse, di passare in Toscana. Stavanne molto piú sospesi i viniziani; i quali, per tenere il papa e i fiorentini in qualche speranza e da altro canto essere pronti a pigliare i partiti di giorno in giorno, ordinorno che il duca di Urbino partisse il quarto dí di aprile da Casalmaggiore, mandando la cavalleria per la via di Po dalla parte di là e la fanteria per il fiume. Il quale, dimostrando qualche timore per la andata degli imperiali in Romagna, mandò dumila fanti de' viniziani a guardia del suo stato; benché per molti si dubitasse, e per il pontefice particolarmente, che secretamente non avesse promesso a Borbone di non gli dare impedimento al passare in Toscana.

                                                 Il duca di Borbone in questo mezzo, cercando da ogni parte vettovaglie, delle quali era in somma necessità, mandò una parte dello esercito a Cotignuola: la quale terra benché forte di muraglia, battuta che l'ebbe [con] pochi colpi, ottenne per accordo: perché gli uomini della terra, come molti altri luoghi di Romagna, temendo delle rapine de' soldati amici, gli avevano recusati. Presa Cotignuola, mandò a Lugo i quattro cannoni; e per provedersi di vettovaglie e per impedimento dell'acque, soprastette tre o quattro dí in su il fiume di Lamone; dipoi, il terzodecimo dí di aprile, passato il Montone, alloggiò a Villafranca, lontana cinque miglia da Furlí: nel quale dí il marchese di Saluzzo svaligiò cinquecento fanti, quasi tutti spagnuoli, che andavano sbandati cercando da vivere, verso Monte Poggiuoli, come andava per la necessità quasi tutto il resto dello esercito. Alloggiò Borbone, il quartodecimo dí, sopra strada alla volta di Meldola, cammino da passare in Toscana per la via di Galeata e di Val di Bagno; sollecitandolo molto i sanesi, che gli offerivano copia di vettovaglie e di guastatori; e camminando con l'abbruciare i tedeschi tutti i paesi donde passavano, assaltorono la terra di Meldola, che si arrendé e nondimeno fu abbruciata. Il quale dí ebbe la nuova che il viceré, con consentimento del La Motta mandato a questo effetto da lui, aveva, il dí dinanzi, capitolato in Firenze: che, non si partendo nelle altre cose anzi riconfermando la capitolazione fatta in Roma, dovesse il duca di Borbone cominciare infra cinque dí prossimi a ritirarsi con l'esercito e, che, subito si fusse ritirato al primo alloggiamento, gli fussino pagati da' fiorentini ducati sessantamila, a' quali il viceré ne aggiugneva ventimila; pagassinsegli altri settantamila per tutto maggio prossimo, de' quali il viceré per cedola di mano propria obligò Cesare a restituirne cinquantamila: ma questi ultimi non si pagassino se prima non fusse liberato Filippo Strozzi, e assoluto Iacopo Salviati dalla pena de' trentamila ducati, come il viceré aveva promesso al pontefice, non ne' capitoli della tregua ma sotto semplici parole.

                                                  

                                                 Non ritardò questa notizia il duca di Borbone dallo andare innanzi, né la notizia ancora che il viceré si era partito di Firenze per condursi a lui e per stabilire tutte le cose che fussino necessarie: perché il viceré e per molte altre cagioni desiderava la concordia, e perché (per quello che io ho udito da uomini degni di fede) trattava che l'esercito si voltasse subito contro a' viniziani, non per occupare le città del loro imperio ma per occupare la città medesima di Vinegia; sperando, con le barche e con gli uomini periti di quella navigazione che arebbe dal duca di Ferrara, e con le zatte che essi fabbricherebbono, poterla opprimere. E benché il viceré avesse promesso a Roma di rimuovere da Borbone la cavalleria e la maggiore parte de' fanti spagnuoli, nondimeno, mentre che si trattava in Firenze, recusava di farlo, dicendo non volere essere causa della ruina dello esercito di Cesare: anzi andò ad alloggiare il sesto[decimo] dí, a Santa Sofia, terra della valle di Galeata suddita a' fiorentini; e sforzandosi, con la celerità e con la fraude, di prevenire che nel passare delle alpi non gli fusse fatto ostacolo alcuno (nelle quali, per il mancamento delle vettovaglie, qualunque sinistro avesse avuto era bastante a disordinarlo), avendo ricevuto, il decimo settimo dí, a San Piero in Bagno, lettere dal viceré e dal luogotenente, della venuta sua, rispose all'uno e all'altro di loro averlo quello avviso trovato in alloggiamento tanto disagiato che era impossibile aspettarlo quivi, ma che il dí seguente l'aspetterebbe a Santa Maria in Bagno sotto l'alpi: mostrandosi, massime nelle lettere al luogotenente, desiderosissimo dello accordo e di fare conoscere al pontefice il suo buono animo e la sua divozione, benché altrimenti avesse nella mente. Andò il viceré il dí destinato; e il medesimo dí il luogotenente, insospettito del camminare di Borbone, acciò che non prima entrassino gli inimici in Toscana che il soccorso, persuaso al marchese di Saluzzo con molte ragioni l'andare innanzi, e confutati efficacemente Giovanni Vitturio proveditore viniziano appresso al marchese e gli altri (i quali, per timore che le genti non si mettessino in pericolo, dimandavano che innanzi che si passasse in Toscana si desse sicurtà per dugentomila ducati o pegni di fortezze), lo condusse con tutte le genti a Berzighella: donde scrisse al pontefice avere tanto pronta la disposizione del marchese che non dubitava piú di farlo passare con le sue genti in Toscana, e che teneva per certo che quelle de' viniziani farebbono il medesimo; ma che quanto per la passata loro si assicuravano le cose di Firenze tanto si mettevano in pericolo quelle di Roma, perché Borbone, non gli restando altra speranza, sarebbe necessitato voltarsi a quella impresa, e trovandosi piú propinquo a Roma, sarebbe difficile che il soccorso che si mandasse pareggiasse la sua prestezza, per passare in due alloggiamenti l'Apennino.

                                                 Al quale caso essendosi anche prima preparati, co' viniziani e col duca d'Urbino, i fiorentini, avevano dato speranza e poi promesso, in caso che le genti loro passassino in Toscana, entrare nella lega, obligarsi a pagare certo numero di fanti, e non accordare con Cesare eziandio quando volesse il pontefice; e al duca d'Urbino, che passato il Po a Ficheruolo si era condotto a' tredici dí al Finale e poi a Corticella, avevano, per Palla Rucellai mandato a trattare queste cose, offerto di restituirgli le fortezze di Santo Leo e di Maiuolo. Però fu manco difficile avere gli aiuti pronti come venne l'avviso che il viceré non solo non aveva trovato nel luogo destinato il duca di Borbone (il quale facendosi beffe di lui aveva, il dí medesimo, atteso a passare l'alpi) ma ancora era stato in grave pericolo di non essere morto dai contadini del paese, sollevati e tumultuosi per i danni e per le ingiurie ricevute dallo esercito: perché il marchese ancora che il duca d'Urbino, tiratolo a parlamento a Castel San Piero, cercasse di interporre o difficoltà o dilazione, fu pronto a passare l'alpi, in modo che a' ventidue alloggiò al Borgo a San Lorenzo in Mugello; e il duca di Urbino, non potendo onestamente discostarsene né volendo tirare a sé tutto il carico, veduta la prontezza de' franzesi, e sapendosi i viniziani essersi rimessi in lui (con commissione però, se subito che arrivasse in Toscana i fiorentini non facessino la confederazione, di ripassare subito l'esercito), passò ancora egli e alloggiò, il vigesimo quinto dí del mese, a Barberino.

                                                 Borbone intanto, passate il medesimo dí l'alpi, alloggiò alla Pieve a Santo Stefano; la quale terra dallo assalto de' suoi si difese francamente: e al pontefice, per intrattenerlo con le medesime arti e avere maggiore occasione di offenderlo, mandò uno uomo suo a confermare il desiderio che aveva di accordare seco, ma che veduta la pertinacia delle sue genti l'accompagnava per minore male; ma che lo confortava a non rompere le pratiche dello accordo, né guardare in qualche somma piú di denari. Ma era superfluo l'usare col pontefice queste diligenze: il quale, credendo troppo a quello desiderava, e troppo desiderando di alleggerirsi della spesa, subito che ebbe avviso della conclusione fatta in Firenze, con la presenza e consentimento del mandatario di Borbone, aveva imprudentissimamente licenziati quasi tutti i fanti delle bande nere; e Valdemonte, come in sicurissima pace, se ne era andato per mare alla volta di Marsilia.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.7

                                                  

                                                 Il Borbone presso ad Arezzo; deliberazioni dei collegati. Tumulto in Firenze; pericolosa condizione della città; come il tumulto viene sedato; calunnie contro il luogotenente del pontefice. Gravi conseguenze del tumulto per le operazioni dei collegati. Nuova confederazione del pontefice col re di Francia e coi veneziani.

                                                  

                                                 Trovandosi adunque tutti gli eserciti in Toscana, e intendendosi da i collegati che Borbone era andato in uno dí dalla Pieve a Santo Stefano ad alloggiare alla Chiassa presso ad Arezzo, che fu il vigesimoterzo dí, cammino di diciotto miglia, si consultò tra' capitani, che convenneno a Barberino, quello che fusse da fare, e facendo instanza molti di loro, e gli agenti del pontefice e de' fiorentini, che gli eserciti uniti si trasferissino in qualche alloggiamento di là da Firenze, per tôrre a Borbone la facoltà di accostarsi a quella città, fu risoluto che il dí seguente, lasciate le genti per riposarle ne' medesimi alloggiamenti, i capitani andassino a l'Ancisa lontana tredici miglia da Firenze, per trasferirvi dipoi le genti se lo trovassino alloggiamento da fermarvisi sicuramente, come affermava Federico da Bozzole autore di questo consiglio. Ma essendo l'altro dí in cammino, e già propinqui a Firenze, uno accidente improviso e da partorire, se non si fusse proveduto, gravissimi effetti, dette impedimento grande a questa e all'altre esecuzioni che si sarebbeno fatte.

                                                 Perché, essendo in Firenze grandissima sollevazione d'animo e quasi in tutto il popolo malissima contentezza del presente governo, e instando la gioventú che, per difendersi, secondo dicevano, da' soldati, i magistrati concedessino loro l'armi, innanzi se ne facesse deliberazione, il dí ventisei, nato nella piazza publica certo tumulto quasi a caso, la maggiore parte del popolo e quasi tutta la gioventú armata cominciò a correre verso il palagio publico. E dette fomento non piccolo a questo tumulto o la imprudenza o la timidità di Silvio cardinale di Cortona; il quale avendo ordinato di andare insino fuora della città a incontrare il duca di Urbino per onorarlo, non mutò sentenza, ancora che, innanzi che si movesse, avesse inteso essere cominciato questo tumulto: donde spargendosi per la città egli essere fuggito, furono molti piú pronti a correre al palazzo; il quale occupato dalla gioventú e piena la piazza di moltitudine armata, costrinseno il sommo magistrato a dichiarare rebelli con solenne decreto Ippolito e Alessandro nipoti del pontefice, con intenzione di introdurre di nuovo il governo popolare. Ma intratanto, entrati in Firenze il duca e il marchese con molti capitani e con loro il cardinale di Cortona e Ippolito de' Medici, e messi in arme mille cinquecento fanti, che per sospetto erano stati tenuti piú dí nella città, fatta testa insieme si indirizzorono verso la piazza; la quale, abbandonata subito dalla moltitudine, pervenne in potestà loro: benché, tirandosi sassi e archibusi da quegli che erano nel palagio, nessuno ardiva di fermarvisi, ma tenevano occupate le strade circostanti. Ma parendo al duca d'Urbino le genti che erano in Firenze non essere abbastanza a espugnare il palazzo e giudicando essere pericoloso, se non si espugnasse innanzi alla notte, che il popolo ripreso animo non tornasse di nuovo in su l'armi, deliberò, con consentimento di tre cardinali che erano presenti, Cibo, Cortona e Ridolfi, e del marchese di Saluzzo e de' proveditori viniziani, congregati tutti nella strada del Garbo contigua alla piazza, chiamare una parte delle fanterie viniziane che erano alloggiate nel piano di Firenze vicine alla città. Donde preparandosi pericolosa contesa, perché lo espugnare il palazzo non poteva succedere senza la morte di quasi tutta la nobiltà che vi era dentro, e anche era pericolo che, cominciandosi a mettere mano all'armi e all'uccisioni, i soldati vincitori non saccheggiassino tutto il resto della città, si preparava dí molto acerbo e infelice per i fiorentini; se il luogotenente con presentissimo consiglio non avesse espedito questo nodo molto difficile, perché avendo veduto venire inverso loro Federigo da Bozzole, immaginandosi quel che era, partendosi subito dagli altri, se gli fece incontro per essere il primo a parlargli: della quale cosa, benché paresse di niuno momento, ebbe origine principale il liberarsi quel dí la città di Firenze da cosí evidente pericolo. Era Federigo nel principio del tumulto andato in palagio, sperando di quietare, con l'autorità sua e con la grazia che aveva appresso a molti della gioventú, questo tumulto; ma non facendo frutto, anzi essendogli dette da alcuni parole ingiuriose, non aveva avuto piccola difficoltà a ottenere, dopo spazio di piú ore, che lo lasciassino partire. Però uscito del palagio pieno di sdegno, e sapendo quanto, per le piccole forze e piccolo ordine che vi era, fusse facile di espugnarlo, veniva per incitare gli altri a combatterlo subitamente. Ma il luogotenente, dimostrandogli con brevissime parole quanto sarebbono molesti al pontefice tutti i disordini che succedessino, e di quanto detrimento alle cose comuni de' confederati, e quanto fusse meglio l'attendere piú tosto a quietare che ad accendere gli animi, e perciò essere pernicioso il dimostrare al duca di Urbino e agli altri tanta facilità di espugnare il palagio, lo tirò senza difficoltà talmente nella sentenza sua che Federico, parlando agli altri come precisamente volle il luogotenente, propose la cosa in modo e dette tale speranza di posare le cose senza armi che, eletta questa per migliore via, pregorono l'uno e l'altro di loro che andando insieme in palazzo, attendessino a quietare il tumulto, assicurando ciascuno da quello che potessino essere imputati di avere macchinato, il dí, contro allo stato: dove andati, col salvocondotto di quegli che erano dentro, non senza molta difficoltà, gli indusseno ad abbandonare il palagio il quale erano inabili a difendere. Cosí, posato il tumulto, tornorono le cose allo essere di prima. E nondimeno (come è piú presente la ingratitudine e la calunnia che la rimunerazione e la laude alle buone opere) se bene allora ne fusse il luogotenente celebrato con somme laudi da tutti, nondimeno e il cardinale di Cortona si lamentò, poco poi, che egli, amando piú la salute de' cittadini che la grandezza de' Medici, procedendo artificiosamente, fusse stato cagione che in quel dí non si fusse stabilito in perpetuo, con l'armi e col sangue de' cittadini, lo stato alla famiglia de' Medici; e la moltitudine poi lo calunniò che, dimostrando, quando andò in palagio, i pericoli maggiori che non erano, gli avesse indotti, per beneficio de' Medici, a cedere senza necessità.

                                                 La tumultuazione di Firenze, benché si quietasse il dí medesimo e senza uccisione, fu nondimeno origine di gravissimi disordini; e forse si può dire che se non fusse stato questo accidente, non sarebbe succeduta quella ruina che poi prestissimamente succedette: perché il duca di Urbino e il marchese di Saluzzo, fermatisi in Firenze per la occasione di questo tumulto (benché senza necessità), non andorono a vedere, secondo la deliberazione che era stata fatta, l'alloggiamento dell'Ancisa; e il seguente dí Luigi Pisano e Marco Foscaro, oratore veneto appresso a' fiorentini, veduta la instabilità della città, protestorono non volere che l'esercito passasse Firenze se prima non si conchiudeva la confederazione trattata, nella quale dimandavano contribuzione di diecimila fanti, parendo loro tempo da valersi delle necessità de' fiorentini. Ma si conchiuse finalmente il vigesimo ottavo dí, rimettendosi a quella contribuzione che sarebbe dichiarata dal pontefice; il quale si credeva che già si fusse ricongiunto co' collegati. Aggiunsesi che, essendo venuto il tempo de' pagamenti de' svizzeri, né avendo Luigi Pisano, secondo le male provisioni che facevano i viniziani, danari da pagargli, passò qualche dí innanzi gli provedesse; in modo che si pretermesse il consiglio salutifero di andare con gli eserciti ad alloggiare all'Ancisa.

                                                 Nel quale stato delle cose il pontefice, inteso lo inganno usato al viceré da Borbone e la passata sua in Toscana, volto per necessità a' pensieri della guerra, aveva conchiuso, a' venticinque dí, di nuovo confederazione col re di Francia e co' viniziani, obligandogli a sovvenirlo di grosse somme di denari, né volendo obligare i fiorentini o sé ad altro che a quello che comportassino le loro facoltà; allegando la stracchezza in che era l'uno e l'altro di loro per avere speso eccessivamente. Le quali condizioni, benché gravi, approvate dagli oratori de' confederati per separare totalmente il pontefice dagli accordi fatti col viceré, non erano approvate da' principali: i viniziani improbavano Domenico Venereo, oratore loro, di avere conchiuso senza commissione del senato una confederazione di grave spesa e di piccolo frutto, per la vacillazione del pontefice, il quale pensavano che a ogni occasione tornerebbe alla prima incostanza e desiderio dello accordo, e il re di Francia esausto di danari, e intento piú a straccare Cesare con la lunghezza della guerra che alla vittoria, giudicava bastare ora che la guerra si nutrisse con piccola spesa; anzi, se bene nel principio, quando intese la tregua fatta dal pontefice, gli fusse molestissima, nondimeno, considerando poi meglio lo stato delle cose, desiderava che il pontefice disponesse i viniziani, senza i quali egli non voleva fare convenzione alcuna, ad accettare la tregua fatta.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.8

                                                  

                                                 Deliberazione del Borbone di marciare contro Roma, e lentezza del pontefice nel prendere provvedimenti. Scarsa sollecitudine dei romani alla richiesta d'aiuti del pontefice. Deliberazioni dei collegati di inviare milizie a Roma; fiducia di Renzo da Ceri nella possibilità di difendere Roma, e fiducia del pontefice in lui. Assalto dell'esercito tedesco a Roma, morte del Borbone; sacco della città. Milizie de' collegati sotto Roma, donde subito si ritirano.

                                                  

                                                 Ma in questo tempo il pontefice, al quale era molesto essersi trasferita la guerra in Toscana ma pure manco molesto che se si fusse trasferita in terra di Roma, soldava fanti e provedeva a' denari, ma lentamente; disegnando di mandare Renzo da Ceri con gente contro a' sanesi e anche assaltargli per mare, acciò che Borbone, implicato in Toscana, fusse impedito a pigliare il cammino di Roma: benché di questo gli diminuisse ogni dí il timore, sperando che, per le difficoltà che aveva Borbone di condurre inverso Roma le genti senza vettovaglie e senza denari, e per l'opportunità che aveva dello stato di Siena, dove almanco si nutrirebbono i soldati, fusse per fermarsi alla impresa contro a' fiorentini. Ma, o fusse stato altro il suo primo consiglio, stabilito, come molti hanno detto, segretissimamente, insino al Finale, con l'autorità del duca di Ferrara e di Ieronimo Morone, o diffidando, poiché alla difesa di Firenze erano condotte le forze di tutta la lega, di potere fare frutto in quella impresa, né potendo anche sostentare piú l'esercito senza denari, condotto insino a quel dí per tante difficoltà con vane promesse e vane speranze, e però necessitato o a perire o a tentare la fortuna, deliberò di andare improvisamente e con somma prestezza ad assaltare la città di Roma; dove e i premi della vittoria e per Cesare e per i soldati sarebbono inestimabili, e la speranza del conseguirgli non era piccola, poi che [il papa], con cattivo consiglio, aveva licenziato prima i svizzeri e poi i fanti delle bande nere, e ricominciato sí lentamente (disperato che fu l'accordo) a provedersi che giudicava non sarebbe a tempo a raccorre presidio sufficiente.

                                                 Partí adunque il duca di Borbone con tutto l'esercito, il dí vigesimo [sesto] di aprile, spedito, senza artiglierie senza carriaggi; e camminando con incredibile prestezza, non lo ritardando né le pioggie, le quali in quegli dí furono smisurate, né il mancamento delle vettovaglie, si appropinquò a Roma in tempo che appena il pontefice avesse certa la sua venuta, non trovato ostacolo alcuno né in Viterbo, dove il papa non era stato a tempo a mandare gente, né in altro luogo. Però il pontefice, ricorrendo (come prima gli era stato predetto avere a essere da uomini prudentissimi) nelle ultime necessità, e quando non gli potevano piú giovare, a quegli rimedi i quali, fatti in tempo opportuno, sarebbono stati alla salute sua di grandissimo momento, creò per danari tre cardinali; i quali per l'angustia delle cose non gli potettono essere numerati, né, gli fussino stati numerati, potevano, per la vicinità del pericolo, partorire piú frutto alcuno. Convocò anche i romani, ricercandogli che in tanto pericolo della patria pigliassino prontamente l'armi per difenderla, e i piú ricchi prestassino danari per soldare fanti, alla quale cosa non trovò corrispondenza alcuna. Anzi è restato alla memoria che Domenico di Massimo, ricchissimo sopra a tutti i romani, offerse di prestare cento ducati: della quale avarizia patí le pene, perché le figliuole andorono in preda de' soldati, egli co' figliuoli fatti prigioni ebbono a pagare grandissime taglie.

                                                 Ma in Firenze, avuta la nuova della partita di Borbone, la quale, scritta da Vitello che era in Arezzo, ritardò uno dí piú che non era conveniente a venire, si deliberò da' capitani che il conte Guido Rangone, con i cavalli suoi e con quelli del conte di Gaiazzo e con cinquemila fanti de' fiorentini e della Chiesa, andasse subito, spedito, alla volta di Roma, seguitasse l'altro esercito appresso: sperando che, se Borbone andava con artiglierie, sarebbe questo soccorso a Roma innanzi a lui; se andava spedito, sarebbe sí presto dopo lui che, non avendo artiglierie ed essendo mediocre difesa in Roma, dove il papa aveva scritto avere seimila fanti, sarebbe sopratenuto tanto che arrivasse questo primo soccorso; il quale arrivato, non era pericolo alcuno che Roma si perdesse. Ma la celerità di Borbone e le piccole provisioni di Roma pervertirono tutti i disegni. Perché Renzo da Ceri, al quale il pontefice aveva dato il carico principale della difesa di Roma, avendo per la brevità del tempo condotto pochi fanti utili ma molta turba imbelle e imperita, raccolta tumultuariamente dalle stalle de' cardinali e de' prelati e dalle botteghe degli artefici e delle osterie, e avendo fatto ripari al Borgo deboli, a giudizio di tutti, ma a giudizio suo sufficienti, confidava tanto nella difesa che né permettesse che si tagliassino i ponti del Tevere per salvare Roma, se pure il Borgo e Trastevere non si potessino difendere; anzi, giudicando essere superfluo il soccorso, presentita la venuta del conte Guido, gli fece il quarto dí di maggio scrivere dal vescovo di Verona in nome del pontefice che, per essere Roma provista e fortificata a bastanza, vi mandasse solamente seicento o ottocento archibusieri, egli col resto delle genti andasse a unirsi con l'esercito della lega, col quale unito farebbe piú frutto che rinchiuso in Roma: la quale lettera se bene non fece nocumento alcuno, perché il conte non era tanto innanzi che potesse essere a tempo, certificò pure quanto male si calcolassino da lui i pericoli presenti. Ma non fu manco maraviglioso, se è maraviglia che gli uomini non sappino o non possino resistere al fato, che il pontefice, che soleva disprezzare Renzo da Ceri sopra tutti gli altri capitani, si rimettesse ora totalmente nelle sue braccia e nel suo giudizio; e molto piú che, solito a temere ne' minori pericoli, era stato piú volte inclinato ad abbandonare Roma quando il viceré andò col campo a Frusolone, ora, in tanto pericolo, spogliatosi della natura sua, si fermasse costantemente in Roma, e con tanta speranza di difendersi che, diventato quasi come procuratore degli inimici, proibisse non solo agli uomini di partirsene ma eziandio ordinasse non fussino lasciate uscirne le robe, delle quali molti mercatanti e altri cercavano per la via del fiume di alleggierirsi.

                                                 Alloggiò Borbone con l'esercito, il quinto dí di maggio, ne' Prati presso a Roma, con insolenza militare mandò uno trombetto a dimandare il passo al pontefice (ma per la città di Roma) per andare con l'esercito nel reame di Napoli, e la mattina seguente in su il fare del dí, deliberato o di morire o di vincere (perché certamente poca altra speranza restava alle cose sue), accostatosi al Borgo della banda del monte di Santo Spirito, cominciò una aspra battaglia; avendogli favoriti la fortuna nel fargli appresentare piú sicuramente, per beneficio di una folta nebbia che, levatasi innanzi al giorno, gli coperse insino a tanto si accostorno al luogo dove fu cominciata la battaglia. Nel principio della quale Borbone, spintosi innanzi a tutta la gente per ultima disperazione, non solo perché non ottenendo la vittoria non gli restava piú refugio alcuno ma perché vedeva i fanti tedeschi procedere con freddezza grande a dare l'assalto, ferito, nel principio dello assalto, di uno archibuso, cadde in terra morto. E nondimeno la morte sua non raffreddò l'ardore de' soldati, anzi combattendo con grandissimo vigore, per spazio di due ore, entrorno finalmente nel Borgo; giovando loro non solamente la debolezza grandissima de' ripari ma eziandio la mala resistenza che fu fatta dalla gente. Per la quale, come molte altre volte, si dimostrò a quegli che per gli esempli antichi non hanno ancora imparato le cose presenti, quanto sia differente la virtú degli uomini esercitati alla guerra agli eserciti nuovi congregati di turba collettizia, e alla moltitudine popolare: perché era alla difesa una parte della gioventú romana sotto i loro caporioni e bandiere del popolo; benché molti ghibellini e della fazione colonnese deliberassino o almanco non temessino la vittoria degli imperiali, sperando per il rispetto della fazione di non avere a essere offesi da loro; cosa che anche fece procedere la difesa piú freddamente. E nondimeno, perché è pure difficile espugnare le terre senza artiglieria, restorno morti circa mille fanti di quegli di fuora. I quali come si ebbeno aperta la via di entrare dentro, mettendosi ciascuno in manifestissima fuga, e molti concorrendo al Castello, restorono i borghi totalmente abbandonati in preda de' vincitori; e il pontefice, che aspettava il successo nel palazzo di Vaticano, inteso gli inimici essere dentro, fuggí subito con molti cardinali nel Castello. Dove consultando se era da fermarsi quivi, o pure, per la via di Roma, accompagnati da' cavalli leggieri della sua guardia, ridursi in luogo sicuro, destinato a essere esempio delle calamità che possono sopravenire a' pontefici e anco quanto sia difficile a estinguere l'autorità e maestà loro, avuto nuove per Berardo da Padova, che fuggí dello esercito imperiale, della morte di Borbone e che tutta la gente, costernata per la morte del capitano, desiderava di fare accordo seco, mandato fuora a parlare co' capi loro, lasciò indietro infelicemente il consiglio di partirsi; non stando egli e i suoi capitani manco irresoluti nelle provisioni del difendersi che fussino nelle espedizioni. Però il giorno medesimo gli spagnuoli, non avendo trovato né ordine né consiglio di difendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna, v'entrorono dentro; donde non trovando piú difficoltà, la sera medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di Roma: dove, da quegli in fuora che si confidavano nel nome della fazione, e da alcuni cardinali che per avere nome di avere seguitato le parti di Cesare credevano essere piú sicuri che gli altri, tutto il resto della corte e della città, come si fa ne' casi tanto spaventosi, era in fuga e in confusione. Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all'autorità e degnità de' prelati, ma eziandio a' templi a' monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre. Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di quella città, destinata per ordine de' cieli a somma grandezza ma eziandio a spesse direzioni; perché era l'anno......... che era stata saccheggiata da' goti. Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e numero grande de' prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da' soldati, massime da' fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne' tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dí la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (eziandio del cardinale Colonna che non era con l'esercito), eccetto quegli palazzi che, per salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e cosí le persone e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari: e alcuni di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o saccheggiati dai tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro. Compose la marchesana di Mantova il suo palazzo in cinquantaduemila ducati, che furono pagati da' mercatanti e da altri che vi erano rifuggiti: de' quali fu fama che don Ferrando suo figliuolo ne partecipasse di diecimila. Il cardinale di Siena: dedicato per antica eredità de' suoi maggiori al nome imperiale, poiché ebbe composto sé e il suo palazzo con gli spagnuoli, fu fatto prigione da' tedeschi; e si ebbe, poi che gli fu saccheggiato da loro il palazzo, e condotto in Borgo col capo nudo con molte pugna, a riscuotere da loro con cinquemila ducati. Quasi simile calamità patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta, che fatti prigioni da' tedeschi pagorono la taglia, menati prima l'uno e l'altro di loro a processione per tutta Roma. I prelati e cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi sicuri dalla ingiuria delle loro nazioni, furono presi e trattati non manco acerbamente che gli altri. Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da' soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a' mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de' santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de' loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de' soldati (che furno le cose piú vili) tolseno poi i villani de' Colonnesi, che venneno dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il sacco a piú di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore. Arrivò, il dí medesimo che gli imperiali preseno Roma, il conte Guido co' cavalli leggieri e ottocento archibusieri al ponte di Salara, per entrare in Roma la sera medesima; ma inteso il successo si ritirò a Otricoli, dove si congiunse seco il resto della sua gente; perché, non ostante le lettere avute di Roma che disprezzavano il suo soccorso, egli, non volendo disprezzare la fama di essere quello che avesse soccorso Roma, aveva continuato il suo cammino. Né mancò (come è natura degli uomini, benigni e mansueti estimatori delle azioni proprie ma severi censori delle azioni d'altri) chi riprendesse il conte Guido di non avere saputo conoscere una preclarissima occasione, perché gli imperiali, intentissimi tutti a sí ricca preda, a votare le case, a ritrovare le cose occultate, a fare prigioni e a ridurre in luogo salvo i fatti, erano dispersi per tutta la città, senza ordine di alloggiamenti senza riconoscere le loro bandiere senza ubbidire i segni de' capitani; in modo che molti credetteno che se la gente che era col conte Guido si fusse condotta con prestezza in Roma non solo arebbeno conseguito, presentandosi al Castello non assediato né custodito di fuora da alcuno, la liberazione del pontefice ma ancora sarebbe succeduta loro piú gloriosa fazione, occupati tanto gli inimici alla preda che con difficoltà, per qualunque accidente, se ne sarebbe messo insieme numero notabile: essendo massime certo che, ancora poi per qualche dí, quando per comandamento de' capitani o per qualche accidente si dava alle armi, non si rappresentava alle bandiere alcuno soldato. Ma gli uomini si persuadono spesso che se si fusse fatta o non fatta una cosa tale sarebbe succeduto certo effetto, che se si potesse vederne la esperienza si troverebbeno molte volte fallaci simili giudizi.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.18, cap.9

                                                  

                                                 Avanzata dell'esercito dei collegati verso Roma; fallimento del tentativo di liberare il pontefice. Lentezza dell'esercito dei collegati; indugi nella conclusione degli accordi per la resa fra il pontefice e gli imperiali. Inattività dell'esercito dei collegati; inutili istanze del luogotenente del pontefice.

                                                  

                                                 Restava adunque a' rinchiusi nel Castello solamente la speranza del soccorso dello esercito della lega; il quale, partito da Firenze, non prima (credo) che 'l terzo o il quarto dí di maggio (perché i viniziani erano stati lenti a pagare i svizzeri), camminava, precedendo una giornata il marchese di Saluzzo alle genti viniziane ma con ordine accordato tra il duca e lui che seguitassino per il medesimo cammino. Nondimeno, il settimo dí, il duca, contro all'ordine dato, si dirizzò dallo alloggiamento di Cortona alla volta di Perugia, per arrivare a Todi e poi a Orti, e quivi passato il Tevere unirsi con gli altri. I quali, camminando per il cammino disegnato, sforzorono e saccheggiorono Castello della Pieve, che aveva recusato di alloggiare dentro i svizzeri, con morte di seicento o ottocento uomini di quegli della terra. Per il quale disordine, intenta la gente alla preda, non si condusseno prima che a' dieci dí al ponte a Cranaiuolo, dove ebbeno avviso della perdita di Roma, e agli undici a Orvieto: dove, per consiglio di Federigo da Bozzole, si spinse il marchese di Saluzzo, egli e Ugo de' Peppoli, con grossa cavalcata alla volta del Castello; disegnando egli e Ugo andare insino al Castello, e restando il marchese dietro per fare loro spalle; sperando trovare sprovisti gli imperiali e avere, col subito arrivare, occasione di cavare di Castello il pontefice e i cardinali: sapendosi massime i soldati, per la grandezza della preda, posposti gli altri pensieri, non essere intenti ad altro. Ma il disegno riuscí vano, perché a Federigo, non essendo già molto lontani da Roma, cadde il cavallo addosso, dal quale offeso molto non potette andare piú innanzi; e Ugo presentatosi presso al Castello essendo già fatto il dí, dove l'ordine era dovessino arrivare di notte, si ritirò: conoscendo, secondo diceva egli, scoperta l'occasione, ma secondo diceva Federigo, temendo piú che non sarebbe stato di bisogno.

                                                 Il duca di Urbino intratanto, inteso l'accidente di Roma, ancora che affermasse volere soccorrere con tutte le forze il pontefice, nondimeno, parendogli occasione di levare lo stato di Perugia di mano di Gentile Baglione, mantenutovi con l'autorità del pontefice, e rimetterlo in arbitrio de' figliuoli di Giampaolo, accostatosi con le genti de' viniziani a Perugia, costrinse con minacce Gentile a partirsene; e lasciatavi guardia sotto capi dependenti da Malatesta e da Orazio, de' quali l'uno era rinchiuso in Castello Santo Agnolo l'altro era in Lombardia con le genti de' viniziani, poiché, in questa fazione ebbe consumato tre dí, si condusse, a' quindici o a' sedici, a Orvieto, essendo stato causa di molta dilazione il cammino preso da lui dall'alloggiamento di Cortona per andare di là dal Tevere alla volta di Roma. A Orvieto si convenneno insieme tutti i capi dello esercito per risolvere le fazioni future. Sopra le quali il duca di Urbino, mostrato nel preambolo delle parole caldezza grande, proponeva molte difficoltà, ricordando sopra tutto il pensare alla sicurtà della ritirata se non riuscisse il soccorso del Castello; però volle statichi da Orvieto, per assicurarsi che nel ritorno non mancherebbeno di dare le vettovaglie allo esercito; e interponendo a tutte le cose lunghezza di tempo, risolvé finalmente di essere a' diciannove a Nepi, e che il dí medesimo il marchese con le sue genti e il conte Guido co' fanti italiani fussino a Bracciano, per andare tutti il dí seguente all'Isola, luogo lontano da Roma nove miglia: dove non furono gli eserciti (perché il duca soprastette a Nepi) prima che a' ventidue. La quale dilazione fu causata dall'andata di Perugia, da essere stato alloggiato tre dí a' piedi di Orvieto, e fermatosi uno dí nello alloggiamento di Nepi. La venuta de' quali intendendosi dal pontefice, per lettere del luogotenente scrittegli da Viterbo, fu cagione che, essendo quasi conclusa la concordia tra gli imperiali e lui, recusò di sottoscrivere i capitoli, non tanto per la speranza che egli raccogliesse dalle lettere (le quali, benché scritte cautamente, gli accennavano quel che, discorrendo il passato, potesse sperare del futuro) quanto per fuggire la ignominia che alla sua o timidità o precipitazione si potesse attribuire il non essere stato soccorso.

                                                 Era ne' franzesi prontezza di soccorrere, e i viniziani con lettere calde augumentavano la medesima disposizione, avendone parlato ardentemente il principe nel consiglio de' pregati; però, non restando al duca altra scusa, volle che il dí seguente si facesse la mostra di tutti gli eserciti; sperando trovare il numero diminuito in modo che gli desse giusta cagione di ricusare il combattere: disegno che riuscí vano, perché nello esercito, ancora che molti se ne fussino partiti, erano restati piú di quindicimila fanti, e tutta la gente dispostissima maravigliosamente a combattere. Consultossi, fatto la mostra, quello che fusse da fare; ed essendo molti disposti che si andasse a fare lo alloggiamento alla Croce di Montemari (come con grande instanza ricercavano quegli del Castello), allegando che, per essere alloggiamento forte e lontano da Roma tre miglia né essere da temere che gli imperiali uscissino ad alloggiare fuora di Roma, lo stare quivi e il ritirarsi potersi fare senza pericolo, e da quello alloggiamento potersi meglio conoscere e meglio eseguire l'occasione di soccorrere il Castello. Ma non piacendo al duca questa risoluzione, accettò uno partito proposto innanzi al tempo da Guido Rangone, che offeriva con tutti i cavalli e le fanterie ecclesiastiche accostarsi la notte medesima al Castello per fare pruova di trarne il pontefice; pure che il duca d'Urbino col resto dello esercito si conducesse insino alle Tre Capanne per fargli spalle. Ma non si eseguí la notte questo disegno, perché il duca, stimolato dagli altri, cavalcò per riconoscere l'alloggiamento di Montemari: e nondimeno, appropinquatosi la notte, non passò le Tre Capanne. Ma essendosi per questa andata perdute molte ore vanamente, fu necessario differire l'eseguire la deliberazione fatta alla notte futura. Ma il dí medesimo, avendo il duca fatto riferire a certe spie (o vere o subornate) che fussino le trincee fatte in Prati piú gagliarde, che non era la verità, e lo avere rotto (il che anche era falso) in piú luoghi il muro del corridore donde si va dal palazzo di Vaticano a Castello Santo Angelo, per potere, se si scopriva gente, soccorrere subito da piú bande, e proposto da lui molte difficoltà, che tutte furono consentite da Guido e approvate da quasi tutti gli altri capitani, si conchiuse essere cosa impossibile di soccorrere allora il Castello; ributtati agramente dal duca alcuni degli altri capitani che si sforzavano, disputando, di sostentare la contraria opinione. Cosí restava in preda il pontefice, non si rompendo pure solamente una lancia per cavare di carcere colui che per soccorrere altri aveva soldato tanta gente e speso somma infinita di denari e commosso alla guerra quasi tutto il mondo. Trattossi nondimeno se quel che non si faceva di presente si potesse fare in futuro con maggiori forze: alla qual cosa, proposta dal duca, rispose esso medesimo che indubitatamente soccorrerebbe il Castello qualunque volta nello esercito fusse il numero vero di sedicimila svizzeri, condotti per ordinazione de' cantoni, non computando in questi quegli che allora erano nello esercito, come già fatti inutili per la lunga dimora in Italia; e oltre a' svizzeri, diecimila archibusieri italiani tremila guastatori e quaranta pezzi di artiglieria; ricercando il luogotenente che confortasse il pontefice (che si intendeva avere da vivere per qualche settimana) che aspettasse ad accordarsi tanto che si mettessino insieme queste forze. E replicando il luogotenente che intendeva la proposta sua in caso non si variasse intratanto lo stato delle cose, ma essendo verisimile che, in questo tempo, quegli che erano in Roma, con nuove trincee e fortificazioni, farebbeno il soccorso piú difficile, e anche che del reame di Napoli verrebbeno a Roma le genti che erano state condotte dal viceré in su l'armata, desiderare di sapere che speranza potesse dare al pontefice quando, come era verisimile, succedessino queste cose, rispose che in tale caso si farebbe il possibile; e soggiugneva che congiungendosi le genti che erano a Napoli a quelle di Roma sarebbeno in tutto piú di dodicimila fanti tedeschi e otto in diecimila fanti spagnuoli: però, perdendosi il Castello, non si potere disegnare di vincere la guerra se non si avessino veramente almeno ventidue o ventiquattromila svizzeri. Le quali dimande essendo come impossibili sprezzate da tutti, lo esercito, il primo dí di giugno, molto diminuito di fanti, si ritirò a Monteruosi; non ostante che il papa, per favorirsene nelle pratiche dell'accordo, avesse fatto molta instanza che e' soprasedesse a levarsi: e la notte medesima, Piermaria Rosso e Alessandro Vitello con dugento cavalli leggieri passorono a Roma agli inimici.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.10

                                                  

                                                 Accordi fra il Pontefice e gli imperiali; stretta sorveglianza del pontefice in Castel Sant'Angelo. Città che malgrado l'accordo rimangono alla devozione del pontefice; il duca di Ferrara occupa Modena, i veneziani Ravenna e Cervia, e Sigismondo Malatesta Rimini. Restaurazione del governo popolare in Firenze. Ragioni di odio dei fiorentini contro i Medici, e persecuzione ai loro fautori.

                                                  

                                                 Aveva il pontefice, sperando sempre poco del soccorso, e temendo alla vita propria da' Colonnesi e da' fanti tedeschi, mandato a Siena a chiamare il viceré, sperando, anche, da lui migliore condizione: il quale andò cupidamente, credendo essere capitano dell'esercito. Arrivato a Roma, dove passò con salvocondotto de' capitani dello esercito, veduto essere contro a sé mala disposizione de' fanti tedeschi e spagnuoli, i quali dopo la morte di Borbone avevano eletto per capitano generale il principe di Oranges, non ebbe ardire di fermarvisi; ma andando verso Napoli, incontrato nel cammino dal marchese del Guasto, don Ugo e Alarcone, vi ritornò per consiglio loro: e nondimeno, non essendo grato all'esercito, non ebbe piú autorità né nelle cose della guerra né nel trattato della concordia col pontefice. Il quale finalmente, destituto di ogni speranza, convenne il sesto dí di giugno con gli imperiali, quasi con quelle medesime condizioni con le quali aveva potuto convenire prima: che il pontefice pagasse allo esercito ducati quattrocentomila, cioè centomila di presente, che si pagavano di denari argento e oro rifuggito nel Castello, cinquantamila fra venti dí, dugento cinquantamila fra due mesi, assegnando per il pagamento di questi una imposizione pecuniaria da farsi per tutto lo stato della Chiesa; mettesse in potestà di Cesare, per ritenerlo quanto paresse a lui, Castel Santo Angelo, le rocche di Ostia di Civitavecchia e di Civita Castellana, e le città di Piacenza di Parma e di Modona; restasse egli prigione in Castello con tutti i cardinali, che erano seco tredici, insino a tanto che fussino pagati i primi cento cinquantamila, dipoi andassino a Napoli o a Gaeta per aspettare quello che di loro determinasse Cesare; desse statichi allo esercito per l'osservanza de' pagamenti (de' quali la terza parte apparteneva agli spagnuoli) gli arcivescovi sipontino e pisano, i vescovi di Pistoia e di Verona, Iacopo Salviati, Simone da Ricasoli e Lorenzo fratello del cardinale de' Ridolfi: avessino facoltà di partirsi sicuramente del Castello Renzo da Ceri, Alberto Pio, Orazio Baglione, il cavaliere Casale oratore del re di Inghilterra; e tutti gli altri che vi erano rifuggiti, eccetto il pontefice e i cardinali: assolvesse il pontefice dalle censure incorse i Colonnesi, e che quando fusse menato fuori di Roma vi restasse uno legato in nome suo, e l'auditorio della ruota proposto a rendere ragione. Il quale accordo come fu fatto, entrò nel Castello con tre compagnie di fanti spagnuoli e tre compagnie di fanti tedeschi il capitano Alarcone; il quale, deputato alla guardia del Castello e della persona del pontefice, lo guardava con grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste e con piccolissima libertà.

                                                 Ma non furono con la medesima facilità consegnate l'altre fortezze e terre promesse: perché quella di Civita Castellana era custodita in nome de' collegati; quella di Civitavecchia recusò di consegnare Andrea Doria, benché n'avesse comandamento dal pontefice, se prima non gli erano pagati quattordicimila ducati, de' quali diceva di essere creditore per gli stipendi suoi. A Parma e a Piacenza andò in nome del pontefice Giuliano Leno romano, architettore, in nome de' capitani Lodovico conte di Lodrone, con comandamento alle città di obbedire alla volontà di Cesare; benché da altra parte avesse fatto occultamente intendere loro il contrario: le quali città, aborrendo lo imperio degli spagnuoli, recusorono di volergli ammettere. Ma i modonesi non erano piú in potestà propria, perché il duca di Ferrara, non pretermettendo l'occasione che gli davano le calamità del pontefice, minacciando di dare il guasto alle biade già mature, gli costrinse a dargli il sesto dí di giugno la città; non senza infamia del conte Lodovico Rangone, il quale, benché il duca avesse seco poca gente, se ne partí, non fatto segno alcuno di resistenza: e disprezzò in questo il duca l'autorità de' viniziani, i quali lo confortavano a non fare, in tempo tale, innovazione alcuna contro alla Chiesa. E nondimeno essi, non contenendo se medesimi da quello che dissuadevano agli altri, avuta intelligenza co' guelfi di Ravenna, mandativi fanti sotto colore di guardarla per timore di quelli di Cotignuola, appropriorono a sé quella città; e ammazzato furtivamente il castellano, occuporono anche la fortezza, publicando volerla tenere in nome di tutta la lega; occuporono e, pochi dí poi, Cervia e i sali che vi erano del pontefice. Nello stato del quale, non essendo né chi lo guardasse né chi lo difendesse, se non quanto da se stessi per interesse proprio facevano i popoli, occupò Sigismondo Malatesta con la medesima facilità la città e la rocca di Rimini.

                                                 Ma non avevano le cose sue avuta nella città di Firenze migliore fortuna. Perché, come vi fu la nuova della perdita di Roma, il cardinale di Cortona, impaurito per trovarsi abbandonato da' cittadini che facevano professione di essere amici de' Medici, non avendo modo, senza termini violenti ed estraordinari, di provedere a' denari, né volendo per avarizia mettere mano a' suoi, almeno insino a tanto che si intendesse il progresso degli eserciti che andavano per soccorrere il pontefice, non lo movendo alcuna necessità, perché nella città erano molti soldati, e il popolo spaventato per l'accidente seguito della occupazione del palazzo non arebbe avuto ardire di muoversi, deliberò di cedere alla fortuna; e, convocati i cittadini, lasciò libera a loro l'amministrazione della republica, ottenuti certi privilegi ed esenzioni, e facoltà a' nipoti del pontefice di stare come cittadini privati in Firenze, e abolizione per ciascuno di tutte le cose perpetrate per il passato contro allo stato. Le quali cose conchiuse, il sestodecimo dí di maggio, egli co' nipoti se ne andò a Lucca; dove pentitosi presto del partito preso con tanta timidità, fece pruova di ritenersi le fortezze di Pisa e di Livorno, le quali erano in mano di castellani confidenti al pontefice; e nondimeno questi, fra pochi giorni, non sperando per la cattività del papa soccorso alcuno, ricevuta anche qualche somma di denari, consegnorono quelle fortezze a' fiorentini. I quali in questo mezzo, avendo ridotta la città al governo popolare, creorono gonfaloniere di giustizia per uno anno, e con facoltà di essere confermato insino in tre anni, Niccolò Capponi, cittadino di grande autorità e amatore della libertà; il quale, desiderando sopra modo la concordia de' cittadini e che il governo si riducesse a forma piú perfetta che si potesse di republica, convocato il prossimo dí il consiglio maggiore, nel quale risedeva la potestà assoluta del deliberare le leggi e di creare tutti i magistrati, parlò in questa sentenza.

                                                 Furono gravissime le parole del gonfaloniere e prudentissimi certamente i consigli, a' quali se i cittadini avessino prestato fede sarebbe forse durata piú lungamente la nuova libertà. Ma essendo maggiore lo sdegno in chi ricupera la libertà che in chi la difende, e grande l'odio contro al nome de' Medici per molte cagioni, e massime per avere avuto a sostentare in gran parte co' danari propri le imprese cominciate da loro (perché è manifesto avere i fiorentini speso, nella occupazione e poi nella difesa del ducato di Urbino, ducati piú di cinquecentomila, altanti nella guerra mossa da Leone contro al re di Francia, e nelle cose che succederono dopo la morte sua dependenti da detta guerra ducati trecentomila, pagati a' capitani imperiali e al viceré, innanzi la creazione di Clemente e poi, e ora piú di secentomila nella guerra mossa contro a Cesare), cominciorono a perseguitare immoderatamente quegli cittadini che erano stati amici de' Medici, perseguitare il nome del pontefice. Scancellorno per tutta la città impetuosamente le insegne della famiglia de' Medici, affisse eziandio negli edifizi fabbricati da loro; roppeno le immagini di Leone e di Clemente che stavano nel tempio della Annunziata, celebrato per tutto il mondo; costrinseno i beni del pontefice, a esazione di debiti vecchi, non pretermettendo cosa alcuna, la maggiore parte di loro, appartenente a concitare lo sdegno del pontefice, e a nutrire divisione e discordia nella città: e arebbono moltiplicato a maggiori disordini se non si fusse interposta l'autorità e prudenza del gonfaloniere, la quale però non bastava a rimediare a' molti disordini.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.11

                                                  

                                                 Disordine e pestilenza fra le milizie imperiali in Roma; invio di milizie francesi in Italia. Confederazione tra i re di Francia e d'Inghilterra; accordi fra i collegati contro Cesare. Pestilenza in molte parti d'Italia. Partenza dell'esercito francese per l'Italia. Fazioni di guerra in Lombardia.

                                                  

                                                 Ma in Roma erano venuti, col marchese del Guasto e con don Ugo, tutti i fanti tedeschi e spagnuoli i quali erano nel reame di Napoli, in modo si dicevano essere, raccolti insieme, ottomila fanti spagnuoli dodicimila tedeschi e quattromila italiani; esercito, per la riputazione acquistata, per il terrore degli altri, per le deboli provisioni che si avevano da opporsi loro, da fare in Italia qualunque progresso. Ma essendone capitano in titolo e in nome solamente il principe di Oranges, ma in fatto governandosi da se stesso, e intento tutto alle prede e alle taglie e a riscuotere i danari promessi dal pontefice, non aveva pensiero alcuno degli interessi di Cesare; però non voleva partirsi di Roma. Dove governandosi tumultuosamente, il viceré e il marchese del Guasto, temendo da' fanti alle persone proprie, se ne fuggirono: essi restorono esposti alla pestilenza, la quale già cominciata vi fece poi gravissimo danno; perderono la occasione di molte cose, e specialmente di Bologna (la quale città, benché vi fusse, dopo la perdita del Borgo, andato con mille fanti pagati da' viniziani il conte Ugo de' Peppoli, tumultuando Lorenzo Malvezzi, con assenso tacito di Ramazzotto e col seguito della fazione de' Bentivogli, non senza difficoltà si conservò nella ubbidienza della sedia apostolica); e, quel che non importò forse meno, dettono spazio al re di Francia di mandare esercito potentissimo in Italia, con pericolo grandissimo che Cesare, dopo avere acquistata tanta vittoria, non perdesse il reame napoletano.

                                                 Perché indirizzandosi in Francia le cose a provisioni di nuova guerra, si era conchiusa, il vigesimoquarto dí di aprile, la confederazione trattata molti mesi tra il re di Francia e il re di Inghilterra, con condizione: che la figliuola di Inghilterra si maritasse al re di Francia o al duca di Orliens suo secondo genito, e che nello abboccamento de' due re, disegnato di farsi alla Pentecoste tra Cales e Bologna, convenissino a chi di loro due si avesse a dare; rinunziasse il re di Inghilterra al titolo del regno di Francia, ricevendo in ricompensa una pensione di cinquantamila ducati l'anno; entrasse nella lega fatta a Roma, obligandosi a muovere, per tutto luglio prossimo, la guerra a Cesare di là da' monti con novemila fanti, e il re di Francia con diciottomila e con numero di lance e di artiglierie conveniente; e che in questo mezzo mandassino, l'uno e l'altro di loro, oratori a Cesare a intimargli la confederazione fatta, a ricercargli la liberazione de' figli, e lo entrare nella pace con oneste condizioni, e in caso non accettasse infra uno mese, protestargli la guerra e dargli principio: e fatto questo accordo, il re di Inghilterra entrò subito nella lega; ed egli e il re di Francia mandorono in poste due uomini a fare le intimazioni convenute a Cesare. I quali atti si feciono con piú prontezza per Tarba e per l'oratore anglo, andati in poste, che non si erano fatti per commissione del pontefice; perché Baldassarre da Castiglione nunzio suo, dicendo non essere da esacerbare tanto l'animo di Cesare, aveva recusato che se gli protestasse la guerra. Ma dipoi, avuto in Francia l'avviso della perdita di Roma, temperandosi il dispiacere minore del caso del pontefice con l'allegrezza maggiore della morte di Borbone, non parendo al re da lasciare cadere le cose di Italia, convenne a' quindici di maggio co' viniziani di soldare a comune diecimila svizzeri, pagando lui la prima paga e i viniziani la seconda e cosí seguitando successivamente; e mandare diecimila fanti sotto Pietro Navarra, e i viniziani ne soldassino diecimila altri tra loro e il duca di Milano; mandare di nuovo cinquecento lance e diciotto pezzi di artiglieria. E perché il re di Inghilterra, non ostante le convenzioni fatte, non concorreva prontamente a rompere la guerra di là da' monti, la quale anche non sodisfaceva al re di Francia, desiderando ciascuno di loro di tenerla lontana da' regni suoi, liberatisi da quella obligazione, convennono che quel re pagasse per la guerra di Italia, per tempo di mesi [sei], diecimila fanti. Per la instanza del quale principalmente, Lautrech, benché quasi contro alla sua volontà, fu dichiarato capitano generale di tutto l'esercito.

                                                 Il quale mentre si prepara per passare con le provisioni convenienti di danari e delle altre cose necessarie, non succedeva in Italia accidente alcuno di momento. Perché l'esercito imperiale non si partiva di Roma, non ostante che quotidianamente ne morissino molti per la acerbità della pestilenza, la quale nel tempo medesimo faceva grandissimi progressi in Firenze e in molte parti di Italia; e l'esercito della lega, nella quale, con offensione gravissima di Cesare (perché, avendo per instanza fatta da loro commesso al duca di Ferrara il comporre in nome suo co' fiorentini, ebbe quasi subito notizia della contraria deliberazione), erano, per la instanza del marchese di Saluzzo e de' viniziani, entrati di nuovo i fiorentini, con obligazione di pagare cinquemila fanti, diminuito molto di numero, per essere i fanti de' viniziani, quegli del marchese e i svizzeri male pagati, ritiratosi a canto a Viterbo, attendeva a temporeggiarsi; sforzandosi di mantenere alla divozione della lega Perugia, Orvieto, Spuleto e l'altre terre vicine: dove avendo dipoi inteso una parte dell'esercito imperiale essere uscito di Roma, benché lo facessino per respirare alquanto collo allargarsi dubitando non uscissino tutti, fatto il primo pagamento, si ritirò a Orvieto e dipoi presso a Castello della Pieve; e sarebbesi ritirato ne' terreni de' fiorentini se loro lo avessino consentito. Era anche entrata la pestilenza in Castel Santo Angelo, con pericolo grande della vita del pontefice; intorno [al quale] morirno alcuni di quegli che servivano la sua persona. Il quale, afflitto da tanti mali, né avendo speranza in altro che nella clemenza di Cesare, gli destinò legato, con consentimento de' capitani, Alessandro cardinale di Farnese: benché egli, uscito con questa occasione del Castello e di Roma, recusò di andare alla legazione. Desideravano i capitani condurre il pontefice a Gaeta coi tredici cardinali che erano con lui; ma egli, con molta diligenza con prieghi e con arte, procurava il contrario.

                                                 Finalmente Lautrech, fatte l'espedizioni necessarie, partí dalla corte l'ultimo dí di giugno con ottocento lance, e con titolo, perché cosí aveva voluto il re, di capitano generale di tutta la lega; e il re di Inghilterra, in luogo de' diecimila fanti, si era tassato a pagare, cominciando al principio di giugno, scudi trentaduemila ciascuno mese, co' quali si pagassino diecimila fanti tedeschi sotto Valdemonte, ottima banda e molto esercitata, per avere rotto piú volte i luterani: e i diecimila fanti di Pietro Navarra erano parte franzesi parte italiani. Condusse ancora il re di Francia Andrea Doria, con otto galee e trentaseimila scudi l'anno.

                                                 Ma innanzi che Lautrech avesse passato i monti, le genti de' viniziani e del duca di Milano congiunte andorono a Marignano: donde Antonio de Leva, uscito di Milano co' fanti tedeschi con ottocento spagnuoli e altanti italiani, e con non molti cavalli, gli costrinse a ritirarsi. Nel quale tempo il castellano di Mus, condotto agli stipendi del re di Francia, mentre che in sul lago di Como aspetta la venuta de' svizzeri, occupò per inganno la rocca di Monguzzo posta tra Lecco e Como, nella quale abitava Alessandro Bentivogli come in casa propria. Mandò Antonio de Leva Lodovico da Belgioioso a recuperarla, il quale assaltatala invano tornò a Moncia. Ma avendo dipoi Antonio de Leva sentito che il castellano con dumila cinquecento fanti era venuto alla villa di Carato, distante da Milano quattordici miglia, ritornò a Milano; dove lasciati solo dugento uomini, benché i viniziani vi fussino propinqui a dieci miglia, partitosi di notte col resto dell'esercito, assaltò all'improviso in sul levare del sole le genti del castellano; le quali sentito il romore, uscite delle case dove alloggiavano, si ritirorno in uno piano circondato da siepi presso alla villa, non credendo esservi tutte le genti inimiche; e benché si mettessino in ordinanza, furono in quel luogo basso come in carcere senza difesa presi e morti, eccetto molti i quali nel principio si fuggirono, essendosi accorti che il castellano aveva subito fatto il medesimo.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.12

                                                  

                                                 Azione di príncipi presso Cesare per la liberazione del pontefice. Il cardinale eboracense in Francia e suoi accordi col re. Condizioni ed inattività degli eserciti avversari in Italia. Atto degno d'infamia compiuto a Perugia dai capitani dei confederati. Azioni dei collegati nel Lazio e nell'Umbria.

                                                  

                                                 Aveva in questo mezzo Cesare, per lettere del gran cancelliere, il quale mandato da lui veniva in Italia, scrittegli da Monaco (il quale richiamò subito), intesa la cattura del pontefice; e benché con le parole dimostrasse essergli molestissima, nondimeno si raccoglieva che in secreto gli era stata gratissima; anzi, non si astenendo totalmente dalle dimostrazioni estrinseche, non aveva per questo intermesso le feste cominciate prima per la natività del figliuolo. Ma essendo la liberazione del pontefice desiderata ardentissimamente dal re di Inghilterra e dal cardinale eboracense, e per la autorità loro risentendosene anche il re di Francia (il quale altrimenti, se avesse recuperato i figliuoli, si sarebbe poco commosso per i danni del pontefice e di tutta Italia), mandorono congiuntamente, l'uno e l'altro, oratori a Cesare a dimandargli la sua liberazione, come cosa appartenente comunemente a tutti i príncipi cristiani, e come debita particolarmente da Cesare, sotto la fede del quale era stato da' suoi capitani e dal suo esercito ridotto in tanta miseria; e in questo tempo medesimo ricercorono i cardinali che erano in Italia, che insieme co' cardinali che erano di là da' monti si congregassino in Avignone, per consultare in tempo tanto difficile quel che s'avesse a fare per beneficio della Chiesa: i quali, per non si mettere tutti in mano di príncipi tanto potenti, recusorono, benché con diverse escusazioni, di andarvi. E da altra parte il cardinale de' Salviati, legato appresso al re di Francia, ricercato dal pontefice che andasse a Cesare per aiutare le cose sue, alla venuta di don Ugo (il quale si era convenuto nella capitolazione che vi andasse), ricusò di farlo, come se fusse cosa perniciosa che tanti cardinali fussino in potestà di Cesare, ma mandò per uno suo cameriere la istruzione ricevuta da Roma allo auditore della camera; il quale riportò benignissime parole ma incerta e varia risoluzione. Arebbe Cesare desiderato che la persona del pontefice fusse condotta in Spagna; nondimeno, e perché era pure cosa piena di infamia e per non irritare tanto l'animo del re di Inghilterra, e perché tutti i regni di Spagna, i quali, e principalmente i prelati e i signori, detestavano molto che dallo imperadore romano, protettore e avvocato della Chiesa, fusse, con tanta ignominia di tutta la cristianità, tenuto in carcere quello che rappresentava la persona di Cristo in terra, però, avendo risposto a quegli oratori benignamente, e alla instanza che gli facevano della pace essere contento che la trattasse il re di Inghilterra (il che da loro fu accettato), mandò il terzo dí di agosto il generale in Italia e, di poi quattro dí, [Veri] di Migliau, l'uno e l'altro, secondo si diceva, con commissione al viceré per la liberazione del pontefice e restituzione di tutte le terre e fortezze occupategli. Per la sostentazione del quale consentí anche che il nunzio suo gli mandasse certa somma di danari, esatta dalla collettoria di quegli reami i quali nelle corti avevano denegato di dare a Cesare danari.

                                                 Passò in questo tempo, che era di luglio, il cardinale eboracense a Cales con milledugento cavalli; incontra il quale il re di Francia, volendo riceverlo onoratissimamente, mandò il cardinale del Loreno. Andò dipoi il re in Amiens a' tre di agosto, dove il seguente dí entrò Eboracense con grandissima pompa; accrescendogli ancora la estimazione lo avere portato seco trecentomila scudi per le spese occorrenti, e per prestarne al re di Francia, bisognando. Trattossi tra loro quel che apparteneva alla pace e quello che apparteneva alla guerra. E ancora che i fini del re di Francia fussino diversi da quegli del re di Inghilterra (perché per conseguire i figliuoli arebbe lasciato il pontefice e Italia in preda) nondimeno era stato necessitato promettergli di non fare accordo alcuno con Cesare senza la liberazione del pontefice. Però, avendo mandato Cesare al re di Inghilterra gli articoli della pace, gli fu risposto, in nome comune, che accetterebbono la pace con la restituzione de' figliuoli, pagandogli in certi tempi due milioni di ducati, la liberazione del pontefice e dello stato ecclesiastico, la conservazione di tutti gli stati e governi di Italia come erano di presente, e finalmente la pace universale. E si convenne tra loro che, accettando Cesare questi articoli, la figlia di Inghilterra si desse per moglie al duca d'Orliens, perché andrebbe innanzi il matrimonio del re con la sorella di Cesare; ma non succedendo la pace, si desse per moglie al re; i quali articoli mandati, denegorono di concedere salvocondotto a uno uomo quale Cesare dimandava di mandarvi, rispondendo bastare gli fussino stati mandati quegli articoli. La quale conclusione fatta, fu, il decimo ottavo dí di agosto, giurata e publicata solennemente la pace e la confederazione tra l'uno re e l'altro. Deliberorono che la guerra di Italia si facesse gagliardamente, avendo per obietto principale la liberazione del pontefice, ma rimettendo liberamente i modi e i mezzi del proseguirla nel consiglio di Lautrech; il quale, innanzi alla partita sua, aveva ottenuto dal re tutte l'espedizioni domandate: perché il re si metteva a fare sforzo ultimo, e quasi perentorio. Volle ancora Eboracense che in campo andasse per il suo re il cavaliere Casale, al quale si indirizzassino i trentacinquemila ducati pagava ciascuno mese, per essere certo vi fusse il numero intero degli alamanni. Cosí stabilito il modo della guerra di Italia, e mandate unitamente le risposte in Spagna, partí Eboracense, spedito alla partita sua il protonotario Gambero al pontefice, per confortare a farlo suo vicario universale in Francia in Inghilterra e in Germania, mentre stava in prigione: a che il re di Francia dimostrava consentire ma in segreto contradiceva.

                                                 Facevansi intratanto poche fazioni di guerra in Italia, essendo grande l'espettazione della venuta di Lautrech. Perché l'esercito imperiale, disordinato e deposta l'ubbidienza a' capitani, grave agli amici e alle terre arrendute, non si movendo, non era agli inimici di alcuno terrore; i fanti spagnuoli e gli italiani, fuggendo la contagione della peste, si stavano sparsi intorno a Roma; il principe di Oranges con cento cinquanta cavalli era andato a Siena, per quale si voglia cagione; dove prima aveva mandato alcuni fanti, perché il popolo di quella città, sollevato da capi sediziosi, aveva tumultuosamente saccheggiate le case de' cittadini del Monte de' nove e ammazzato Pietro Borghesi, cittadino di autorità, insieme con uno figliuolo e sedici o diciotto altri. In Roma restavano solamente i tedeschi pieni di peste; i quali essendo stati sodisfatti con grandissima difficoltà dal pontefice de' primi cento cinquantamila ducati, parte con danari parte con partiti fatti con mercatanti genovesi sopra le decime del regno di Napoli e sopra la vendita di Benevento, dimandavano, per il resto de' denari dovuti, altre sicurtà e altro assegnamento che la imposizione in su lo stato ecclesiastico, cose impossibili al pontefice incarcerato; [e] dopo molti minacci fatti agli statichi, e il tenergli incatenati con grandissima acerbità, gli condussono ignominiosamente in Campo di Fiore, dove rizzate le forche, come se incontinente volessino prendere di loro quello supplicio. Uscirono dipoi tutti di Roma senza capitani di autorità, per allargarsi e rinfrescarsi piú che per fare fazioni di importanza: e avendo saccheggiato le città di Terni e Narni, Spuleto si accordò di dare loro passo e vettovaglia. Però l'esercito de' collegati, per sicurtà di Perugia, andò ad alloggiare a Pontenuovo di là da Perugia; il quale prima alloggiava in sul lago di Perugia, ma diminuito, rispetto alle obligazioni de' collegati, molto di numero; perché col marchese di Saluzzo erano trecento lancie e trecento arcieri franzesi tremila svizzeri e mille fanti italiani, col duca d'Urbino cinquanta uomini d'arme trecento cavalli leggieri mille fanti alamanni e dumila italiani: scusandosi, impudentemente e contro alla verità, i viniziani, che supplivano alle loro obligazioni con le genti tenevano nel ducato di Milano. Avevanvi i fiorentini ottanta uomini d'arme cento cinquanta cavalli leggieri e quattromila fanti, necessitandogli a stare meglio proveduti che gli altri il timore che avevano continuamente che l'esercito imperiale non assaltasse la Toscana: però pagavano a' tempi debiti le genti loro, di che facevano il contrario tutti gli altri. Ma il duca d'Urbino, oltre alle sue antiche difficoltà, era in grandissimo dispiacere e quasi disperazione, sapendo che il re di Francia e Lautrech, tassandolo eziandio di infedeltà, non parlavano onoratamente di lui, ma molto piú perché era in malissimo concetto appresso a' viniziani; i quali, insospettiti o della fede o della instabilità sua, avevano messa diligente guardia alla moglie e al figliuolo, che erano in Vinegia, perché non partissino senza licenza loro; e dannavano scopertamente il suo consiglio, che era che Lautrech, senza tentare le cose di Lombardia, andasse verso Roma. Però dormiva ogni cosa oziosamente in quello esercito, avendo per grazia che gli imperiali non venissino piú innanzi: i quali, non molto poi, ricevuti dal marchese del Guasto, che andò all'esercito, due scudi per uno, se ne ritornorono, i tedeschi, male concordi con gli spagnuoli, a Roma, restando gli spagnuoli e gli italiani distesi ad Alviano, Attigliano, Castiglione della Teverina e verso Bolsena; ma diminuito tanto il numero massime de' tedeschi, per la peste, che si credeva che in tutto l'esercito di Cesare non fussino restati piú che diecimila fanti.

                                                 Ma innanzi alla partita loro feciono i capitani de' confederati uno atto degno di eterna infamia. Perché essendo Gentile Baglione ritornato in Perugia con volontà di Orazio, il quale, affermando che le discordie tra loro erano perniciose a tutti, aveva dimostrato di riconciliarsi seco, vi andò, con consentimento di tutti i capitani, Federigo da Bozzole a fargli intendere che, avendo presentito che egli trattava occultamente con gli inimici, intendevano di assicurarsi di lui; [e] ancoraché egli si giustificasse, e promettesse di andare a Castiglione del Lago, lo lasciò in guardia a Gigante Corso, colonnello de' viniziani; ma la sera medesima fu ammazzato, con due nipoti, da alcuni satelliti di Orazio, e per sua commissione: il quale fece, ne' medesimi dí, ammazzare fuora di Perugia Galeotto fratello di Braccio e nipote anche egli di Gentile.

                                                 Mandorono di poi gente per entrare in Camerino, inteso essere morto il duca; ma era prevenuto Sforza Baglione in nome degli imperiali, e vi entrò dipoi Sciarra Colonna per conto di Ridolfo genero suo, figliuolo naturale del duca morto. Assaltorono dipoi il marchese di Saluzzo e Federico con molti cavalli e con mille fanti, di notte, la badia di San Piero vicina a Terni, dove erano Pietromaria Rosso e Alessandro Vitello con dugento cavalli e quattrocento fanti: la quale impresa per sé temeraria, perché con tale presidio non era espugnabile se non con l'artiglierie, rendé felice o la fortuna o la imprudenza o l'avarizia di quegli condottieri; i quali, avendo il dí medesimo mandati cento cinquanta archibusieri a spogliare uno castello vicino, si erano privati delle genti necessarie alla difesa. Però, benché si fussino difesi molte ore, si detteno a discrezione; salvo però Piermaria Rosso e Alessandro Vitello con le robe loro, feriti l'uno e l'altro di archibusi, il primo in una gamba l'altro in una mano. Nel quale tempo avendo rotto il fiume del Tevere per tre o quattro bocche, inondò con grandissimo danno il campo della lega; il quale andò ad alloggiare verso Ascesi, essendo ancora gli imperiali fra Terni e Narni. Per la partita loro i collegati fattisi innanzi, alloggiò il duca di Urbino a Narni, i franzesi a Bevagna; le bande nere, governate da Orazio Baglione, capitano generale della fanteria de' fiorentini, non avendo ricevuto alloggiamento, entrate nella terra di Montefalco la saccheggiorono. Assaltò poi una parte di questi fanti le Presse, nel quale castello erano ritirati Ridolfo da Varano e Beatrice sua moglie; i quali non potendo difendersi si arrenderono a discrezione: benché poco dipoi recuperassino la libertà, perché Sciarra, non potendo piú sostenersi in Camerino per le molestie riceveva da quello esercito, si convenne di relassarlo, ricuperando il genero e la figliuola. Tentorono anche il marchese di Saluzzo e Federigo, con la cavalleria franzese e con dumila fanti, di svaligiare furtivamente la cavalleria spagnuola, alloggiata in Monte Ritondo, e in Lamentano, senza guardie e senza scolte, secondo riferiva Mario Orsino, cammino di tre giornate; ma scoperti, perché procedettono con poco ordine, non tentata la fazione tornorno indietro, avendo disegnato, per privargli della facoltà del fuggire, di tagliare in uno tempo medesimo il ponte del Teverone.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.13

                                                  

                                                 Scarsa attività degli eserciti in Lombardia. Azioni del Lautrech in Piemonte. Resa di Genova al re di Francia. Resa di Alessandria ai francesi. L'acquisto di Alessandria causa di discordia fra i collegati. Presa e sacco di Pavia; deliberazione del Lautrech di marciare verso Roma e verso il reame di Napoli. Condizioni poste da Cesare per la concordia e sue speranze di lieti successi.

                                                  

                                                 Non erano state molto diverse da queste, tutta la state, le operazioni de' soldati di Lombardia: dove le genti de' viniziani e del duca, congiunte insieme appresso a Milano con intenzione di tagliare i grani di quello contado, avevano rotto la scorta delle vettovaglie, morti cento fanti, presi trenta uomini d'arme e trecento cavalli tra utili e inutili; ma non procederono piú oltre contro a' frumenti, perché le genti de' viniziani, secondo il costume loro, presto diminuirono. Andrea Doria con l'armata sua si era ritirato verso Savona, i genovesi avevano recuperata la Spezie.

                                                 Ma cominciorono poi a riscaldare le cose di Lombardia per la passata di Lautrech nel Piemonte con una parte dell'esercito; il quale per non stare ozioso, mentre aspetta il resto, si pose a campo, ne' primi dí del mese di agosto, alla terra del Bosco nel contado di Alessandria, nella quale erano a guardia mille fanti, la maggiore parte tedeschi. Difendevansi con somma ostinazione, perché Lautrech, sdegnato che avevano morti alcuni svizzeri, recusava di accettargli se non si rimettevano liberamente alla sua discrezione; e somministrava loro spessi aiuti e dava animo Lodovico conte di Lodrone, proposto alla difesa di Alessandria, perché nel Bosco erano rinchiusi la moglie e i figliuoli. Finalmente, vessati dí e notte dalle artiglierie, e temendo delle mine, poi che ebbono tollerato dieci dí tanto travaglio, si rimessono in arbitrio di Lautrech: il quale ritenne prigioni i capitani, salvò la vita a' fanti, ma con condizione che gli spagnuoli ritornassino in Spagna per via di Francia, i tedeschi in Germania per il paese de' svizzeri; e che ciascuno d'essi, secondo l'uso della iattanza militare, uscisse del Bosco senza arme con una canna in mano; ma al conte Lodovico restituí liberalmente la moglie e i figliuoli.

                                                 Seguitorono questo acquisto successi prosperi delle cose di Genova. Perché essendo arrivate in Portofino cinque navi che andavano a Genova, cariche quattro di frumenti e una di mercatanzie, e perché si conducessino salve essendo andate nove galee da Genova per accompagnarle, accadde che, avendo avuto avviso che Cesare Fregoso si accostava per terra a Genova con dumila fanti, vi si ridussono quasi tutti quegli che erano in Portofino, abbandonando l'armata; il che dette occasione a Andrea Doria, condotto con tutte le condizioni che aveva dimandate agli stipendi del re di Francia, di serrarle con le galee sue nel porto medesimo; dove, conoscendo non potere resistere, disarmorono le galee e messeno le genti in terra. Cosí delle nove galee essendone abbruciata una, l'altre vennono in potestà degli inimici, con le navi cariche di frumenti e con la caracca Iustiniana, che venuta di levante si diceva essere ricca di centomila ducati. Alla quale fazione furono anche altre galee franzesi; le quali avendo prese prima cinque navi cariche di grani, che andavano a Genova, si erano dipoi poste alla Chiappa a ridosso di Codemonte, fra Portofino e Genova. Ne' quali dí ancora, certi fanti condotti dagli Adorni per mettergli in Genova furno rotti a Priacroce, luogo situato in quei monti. Questa calamità, oltre a tante altre perdite e danni di vari legni, privò i genovesi, ridotti in ultima estremità, totalmente di speranza di potersi piú sostenere; non ostante che ne' medesimi dí Cesare Fregoso, accostatosi a San Piero della Arena, fusse stato costretto a ritirarsi: ma spaventandogli piú la fame che le forze degli inimici, costretti dalla ultima necessità, mandorno a Lautrech imbasciadori a capitolare. Ritirossi Antoniotto Adorno doge nel Castelletto; e posati i tumulti, per opera massime di Filippino Doria che vi era prigione, la città ritornò sotto il dominio del re di Francia, il quale vi deputò governatore Teodoro da Triulzi. Ma il Capella scrive che, infestando Cesare Fregoso Genova per terra, Andrea Doria con diciassette galee aveva rinchiuso certe navi cariche di frumenti in uno porto tra Genova e Savona; e mandando i genovesi sei galee per soccorrerle, il vento spinse Andrea Doria a Savona: però le navi andorno a Genova, e i soldati uscirno fuora contro al Fregoso. Col quale mentre combattevano, il popolo genovese cominciò a chiamare Francia; e ritornando i soldati dentro a fermare il tumulto, gli inimici seguitandogli entrorno nella città con loro.

                                                 Accostossi dipoi Lautrech ad Alessandria, avendo nell'esercito suo la condotta di ottomila svizzeri, i quali continuamente diminuivano, diecimila fanti di Pietro Navarra e tremila guasconi, condotti di nuovo in Italia dal barone di Bierna, e tremila fanti del duca di Milano. Erano in Alessandria mille cinquecento fanti, i quali per la perdita degli alamanni che erano nel Bosco si erano molto inviliti; ma essendovi poi entrati, per i colli che erano vicini alla città, cinquecento fanti con Alberigo da Belgioioso, avevano ripreso animo, e difendevansi gagliardamente: ma raddoppiata la batteria da piú parti, per la venuta all'esercito delle artiglierie e delle genti de' viniziani (benché né per terra né per mare corrispondessino al numero al quale erano obligati), e molestandola ferocemente nel tempo medesimo con le trincee e con le mine, come sempre in qualunque oppugnazione faceva Pietro Navarra, Batista da Lodrone, non potendo piú difenderla, accordò di potersene andare in Piemonte, e gli alamanni con le loro robe in Germania, non potendo per sei mesi pigliare soldo contro allo esercito franzese.

                                                 L'acquisto di Alessandria dimostrò tra i confederati principio di qualche contenzione. Perché, disegnando Lautrech lasciarvi a guardia cinquecento fanti perché avessino in qualunque caso uno ricetto sicuro le genti sue, e quelle che venivano di Francia comodità di raccôrsi e riordinarsi in quella città, insospettito l'oratore del duca di Milano che questo non fusse principio di volere occupare per il suo re quello stato, contradisse con parole efficaci e con protesti; e risentendosene quasi non meno di lui l'oratore viniziano, interponendosene ancora quello di Inghilterra, cedé Lautrech, benché con grave indignazione, di lasciarla libera al duca di Milano: cosa che fu forse di molto pregiudizio a quella impresa, perché è opinione di molti che piú negligentemente attendesse allo acquisto di Milano o per sdegno o per riservarlo a tempo che, senza rispetto d'altri, potesse tirarlo a suo profitto.

                                                 Dopo la perdita di Alessandria, non essendo dubbio che Lautrech si dirizzerebbe alla impresa di Milano o di Pavia, è fama che Antonio de Leva, col quale erano centocinquanta uomini d'arme e cinquemila fanti tra tedeschi e spagnuoli, diffidandosi di potere difendere Milano con sí poca gente e con tante difficoltà, pensò di ritirarsi a Pavia; nondimeno, considerando essere poche vettovaglie in Pavia, né potersi in quella città sostentare l'esercito con le estorsioni, come acerbissimamente aveva fatto a Milano, deliberò finalmente di fermarvisi, e mandò alla guardia di Pavia Lodovico da Belgioioso; e a' milanesi, i quali vollono comperare con danari la licenza di partirsi, la concedette. Ma Lautrech, per rimuovere le difficoltà le quali potessino ritardarlo, fatta tregua con Cerviglione spagnuolo il quale era alla guardia di Case, benché molto diminuito di svizzeri, procedendo innanzi occupò Vigevano; e dipoi fatto uno ponte sopra il Tesino, e per quello (secondo credo) passato l'esercito, si inviò verso Benerola, villa propinqua a quattro miglia a Milano; dimostrando di volere andare, come lo confortavano i viniziani, a campo a quella città, ma veramente risoluto a quella deliberazione che gli paresse piú facile. Ma avendo inteso, come fu appropinquato a otto miglia a Milano, il Belgioioso avervi la notte dinanzi mandati quattrocento fanti, in modo che in Pavia non erano restati se non ottocento, voltato il cammino, andò il dí seguente, che fu il vigesimo ottavo dí di settembre, al monasterio della Certosa e dipoi con celerità grande si pose a campo a Pavia; al soccorso della quale città avendo Antonio de Leva, come intese la mutazione di Lautrech, mandato tre bandiere di fanti, non potettono entrarvi, in modo che per il piccolo numero de' difensori non pareva potersi resistere: e nondimeno il Belgioioso, supplicandolo il popolo della città che permettesse loro che per fuggire il sacco e la distruzione della città si accordassino, lo recusò. Ma avendo Lautrech continuato di battere quattro dí, e gittato in terra tanto muro che i pochi difensori non bastavano a ripararlo, alla fine il Belgioioso mandò uno trombetto a Lautrech; il quale non avendo potuto parlargli cosí presto, perché per sorte era andato nel campo de' viniziani, i soldati accostatisi entrorono nella terra per le rovine del muro: il che vedendo il Belgioioso, aperta la porta, uscí fuora ad arrendersi a' franzesi, da' quali fu mandato prigione a Genova. La città andò a sacco, e vi fu per otto dí continui usata da' franzesi crudeltà grande e fatti molti incendi, per memoria della rotta ricevuta nel barco. Disputossi poi se era da andare alla impresa di Milano o da procedere verso Roma. Instavano i fiorentini che andasse innanzi, per timore che, fermandosi Lautrech in Lombardia, lo esercito imperiale non uscisse di Roma a' danni loro; contradicevano i viniziani e il duca di Milano, venuto personalmente a Pavia a fare questa instanza, allegando la opportunità grande che si aveva di pigliare Milano e il profitto che se ne traeva ancora alla impresa di Napoli, perché preso Milano non restava speranza agli imperiali di avere soccorso di Germania, ma restando aperta questa porta si aveva sempre a temere che, venuto da quella banda grosso esercito, o non mettesse in pericolo Lautrech o non lo divertisse dalla impresa di Napoli: il quale rispose essere necessitato a andare innanzi per i comandamenti del suo re e del re d'Inghilterra, che principalmente l'avevano mandato in Italia per la liberazione del pontefice. Alla quale deliberazione si crede lo potesse indurre il sospetto che, se si acquistava il ducato di Milano, i viniziani, riputandosi assicurati dal pericolo della grandezza di Cesare, non fussino negligenti ad aiutarlo alla impresa del regno di Napoli; e forse non meno il parere al re essere utile alle cose sue che Francesco Sforza non ricuperasse interamente quello stato, acciò che, restando a lui facoltà di offerire di lasciarlo a Cesare, conseguisse piú facilmente la liberazione de' figliuoli per via di accordo: il quale continuamente si trattava, appresso a Cesare, per gli oratori franzesi e inghilesi e viniziani.

                                                 Ma in questo trattato nascevano molte difficoltà, perché Cesare faceva instanza che la causa di Francesco Sforza si vedesse di ragione, e che pendente la cognizione fusse posseduto da sé tutto lo stato; promettendo in ogni caso di non lo appropriare a se medesimo: dimandava che i viniziani pagassino allo arciduca il resto de' dugentomila ducati dovutigli per i capitoli di Vormazia; il che l'oratore veneto non ricusava, adempiendo l'arciduca e restituendo i luoghi a che era obligato: dimandava che a' fuorusciti loro, come già era stato convenuto, o restituissino centomila ducati o consegnassino entrata di cinquemila; pagassino a lui quello erano debitori per la confederazione fatta seco, la quale voleva si rinnovasse: restituissino alla Chiesa Ravenna, e rilasciassino quanto tenevano nello stato di Milano: dimandava a' fiorentini trecentomila ducati, per le spese fatte e danni avuti per la loro inosservanza: consentiva che il re di Francia pagasse al re di Inghilterra per lui il debito de' quattrocento cinquantamila ducati; del resto, insino in due milioni, dimandava staggi: voleva le dodici galee dal re di Francia per l'andata sua in Italia, ma non piú né cavalli né fanti: e che, subito che fusse stipulata la concordia, si partissino tutte le genti franzesi di Italia, il che il re recusava se prima non gli erano restituiti i suoi figliuoli. Le quali dimande quando si sperava mitigasse, lo fece (secondo il costume suo di non cedere alle difficoltà) piú pertinace la perdita di Alessandria e di Pavia, in modo che, essendo venuto a lui il quintodecimo dí di ottobre, di Inghilterra, l'auditore della camera, a sollecitare in nome di quello re la liberazione del pontefice, rispose avere proveduto per il generale; e che quanto allo accordo non voleva, né per amore né per forza, alterare le condizioni che aveva proposte prima. Ma certamente si comprendeva non essere Cesare molto inclinato alla pace, perché contro alla potenza degli inimici gli davano animo molte cagioni: perché confidava avere a resistere in Italia, per la virtú del suo esercito e per la facilità del difendere le terre; potere sempre con piccola difficoltà fare passare nuovi fanti tedeschi; essere esausti il re di Francia e i viniziani per le lunghe spese, le provisioni loro (come è consueto nelle leghe) interrotte e diminuite; confidarsi di potere esigere danari di Spagna a bastanza, con ciò sia che sostentava la guerra con spese molto minori (per le rapine de' soldati) che gli avversari, e perché sperava di disunire o di fare piú negligenti i collegati con qualche arte; e finalmente perché molto si prometteva della sua grandissima felicità, comprovata con la esperienza di molti anni, e pronunziatagli con innumerabili vaticini insino da puerizia.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.14

                                                  

                                                 Indugi di Lautrech per ordini del re di Francia. Condizioni con cui il duca di Ferrara si allea ai confederati; entrata del marchese di Mantova nella confederazione. Posizioni degli eserciti nemici nell'Italia centrale; ancora della lentezza del Lautrech. Accordi per la liberazione del pontefice dalla prigionia. Il pontefice a Orvieto.

                                                  

                                                 Ma in questo tempo Lautrech (per l'autorità del quale, come arrivò in Italia, il duca di Ferrara aveva operato che i Mariscotti restituissino a' bolognesi Castelfranco, e che i Bentivogli deponessino l'armi) sollecitava che l'armate marittime, destinate a assaltare o la Sicilia o il reame di Napoli, procedessino innanzi; delle quali la viniziana, non essendo le provisioni loro né per terra né per mare pari alle obligazioni, era a Corfú, e sedici galee dovevano andare a unirsi con Andrea Doria, il quale aspettava nella riviera di Genova Renzo da Ceri, destinato co' fanti a quella impresa. Rimandò di poi Lautrech in Francia quattrocento lancie e tremila fanti, e convenne co' viniziani, i quali confortava a restituire Ravenna al collegio de' cardinali, e col duca di Milano che, per difendere quello che si era acquistato, tenessino le genti loro, con le quali erano Ianus Fregoso e il conte di Caiazzo, in alloggiamento molto fortificato a Landriano, villa vicina a due miglia a Milano; per la vicinità de' quali non potendo allargarsi le genti che erano in Milano, si stimava aversi facilmente a guardare Pavia, Moncia, Biagrassa, Marignano, Binasco, Vigevano e Alessandria: egli, stabilite queste cose, passò, con mille cinquecento svizzeri, altanti tedeschi e seimila tra franzesi e guasconi, il decimo ottavo dí di ottobre, il Po a riscontro di Castel San Giovanni, con intenzione di aspettare i fanti tedeschi, de' quali era arrivata insino a quel dí piccola parte, e un'altra banda pure di fanti della medesima nazione, i quali il re di Francia aveva mandato a soldare di nuovo in luogo de' svizzeri, già resoluti quasi tutti. Dal quale luogo fu necessitato fare ritornare di là dal Po Pietro Navarra co' fanti guasconi e italiani, al soccorso di Biagrassa; alla quale terra, custodita dal duca di Milano, Antonio de Leva, intendendo essere male proveduta, era, il vigesimo ottavo dí di ottobre, andato a campo con quattromila fanti e sette pezzi d'artiglierie, e ottenutola il secondo dí per accordo, si preparava per passare nella Lomellina alla recuperazione di Vigevano e di Novara; ma intesa la venuta di Pietro Navarra con maggiori forze, si ritornò a Milano: donde al Navarra fu facile recuperare Biagrassa, nella quale Francesco Sforza messe migliori provisioni. Vedevasi già manifestamente differire industriosamente Lautrech il partirsi; e benché allegasse averlo ritenuto la espettazione de' fanti tedeschi, con una banda de' quali era pure finalmente venuto Valdemonte (gli altri si aspettavano), e si lamentasse per tutto delle piccole provisioni de' viniziani, nondimeno si dubitava ne fusse stato cagione l'aspettare danari di Francia: ma la cagione piú vera e piú potente era che il re, sperando la pace, la pratica della quale era stretta con Cesare, gli aveva commesso che, dissimulando questa cagione, procedesse lentamente. Da che anche era nato che il re non era stato pronto a pagare la parte sua degli alamanni, che si conducevano in luogo de' svizzeri, né quegli che prima erano destinati a venire con Valdemonte.

                                                 Con queste o necessità o escusazioni soprastando Lautrech a Piacenza con le genti alloggiate tra Piacenza e Parma, si rimosse la difficoltà avuta prima del duca di Ferrara: il quale che entrasse nella confederazione aveva Lautrech, subito che arrivò in Italia, fatto instanza grande; cosa da una parte desiderata dal duca per il parentado che gli era proposto col re di Francia, da altra ritenendolo la diffidenza che aveva del valore de' franzesi, e il sospetto che il re finalmente per recuperare i figliuoli non concordasse con Cesare; ma temendo de' minacci di Lautrech, aveva dimandato che le cose sue si trattassino a Ferrara, perché voleva maneggiare le cose che tanto gli importavano da se medesimo. Perciò andorono a Ferrara gli imbasciadori di tutti i collegati, e in nome de' cardinali congregati a Parma il cardinale Cibo: dove, alla fine, mosso il duca dal procedere innanzi di Lautrech, sforzatosi di fare capaci il capitano Giorgio e Andrea di Burgo, che molto onorati e intrattenuti da lui erano a Ferrara, accordò, ma con condizioni che dimostrorno o la industria sua nel sapere bene negoziare, e che non invano avesse voluto tirare la pratica alla presenza sua, o la cupidità grande che ebbeno gli altri di tirarlo nella confederazione. Nella quale entrò con obligazione di pagare ogni mese, per tempo di sei mesi, da sei a diecimila scudi secondo la dichiarazione del re di Francia, il quale dichiarò poi di seimila; e dare a Lautrech cento uomini d'arme pagati: e da altra parte, si obligorno i confederati alla protezione di lui e del suo stato; a dargli Cotignuola, tolta poco innanzi da' viniziani agli spagnuoli, in cambio della città antica e quasi disabitata di Adria, la quale instantemente dimandava; fargli restituire i palazzi che già possedeva in Vinegia e in Firenze; permettergli contro ad Alberto Pio l'acquisto della fortezza di Novi, posta appresso a' confini del Mantuano, la quale allora teneva assediata; pagassingli i frutti dello arcivescovado di Milano, se gli imperiali gli molestassino all'arcivescovo suo figliuolo. Obligò il cardinale Cibo, in nome de' cardinali i quali promettevano la ratificazione del collegio, il pontefice a rinnovare la investitura di Ferrara, a renunziare alle ragioni di Modena per la compra fatta da Massimiliano, ad annullare le obligazioni de' sali, a consentire alla protezione che i collegati preseno di lui, a promettere per bolle apostoliche di lasciare possedere a lui e a' suoi successori tutto quello possedeva; e che il pontefice farebbe cardinale il figliuolo, e gli conferirebbe il vescovado di Modena, vacante per la morte del cardinale Rangone. Con la quale confederazione si congiunse il parentado di Renea, figliuola del re Luigi, in Ercole suo primogenito, col ducato di Ciartres in dota e altre onorate condizioni. Entrò anche il marchese di Mantova, per la instanza di Lautrech, nella confederazione, benché prima si fusse condotto agli stipendi di Cesare.

                                                 Ma era in questo tempo indebolito molto l'altro esercito de' confederati, il quale stette ozioso molti dí tra Fuligno, Montefalco e Bevagna; del quale il duca di Urbino, intesa la custodia che si faceva in Vinegia della moglie e del figliuolo, partitosi contro alla commissione del senato per andare in poste a giustificarsi, ricevuto in cammino avviso della loro liberazione, e che il senato sodisfatto di lui desiderava non andasse piú innanzi, ritornò allo esercito: nel quale i svizzeri e i fanti del marchese non erano pagati; e i viniziani, né quivi né in Lombardia, dove erano obligati a tenere novemila fanti, ne tenevano la terza parte. Ritiroronsi di poi in quello di Todi e all'intorno; e gli spagnuoli, alla fine di novembre, erano verso Corneto e Toscanella; i tedeschi a Roma, a' quali era ritornato il principe di Oranges da Siena: dove, andato vanamente per riordinare quello governo, dimorò poco. Né si dubita, che se l'esercito imperiale si fusse fatto innanzi, che il duca di Urbino e il marchese di Saluzzo si sarebbono ritirati con l'esercito alle mura di Firenze; benché per iattanza spesso parlassino che, per impedire a loro la venuta in Toscana, farebbeno uno alloggiamento o tra Orvieto e Viterbo o nel territorio sanese, verso Chiusi e Sartiano. Ma Lautrech, non ostante fussino arrivati i fanti tedeschi, procedendo, per la espettazione della pratica della pace, con la consueta tardità, si era fermato a Parma: nella quale città, benché vi fussino i cardinali, ridotte in potestà sua le fortezze, e riscossi da tutt'a due quelle città e de' territori loro circa cinquantamila ducati, si credeva che avesse in animo non solo tenere in potestà sua Parma e Piacenza ma, perché Bologna dependesse dalla autorità del re, volgere il primato di quella città nella famiglia de' Peppoli. I quali disegni fece vani la liberazione del pontefice. Alla quale benché da principio non paresse che Cesare condiscendesse prontamente, perché dopo la nuova della cattività aveva tardato piú di uno mese a farne deliberazione alcuna, nondimeno, intesa poi la andata di Lautrech in Italia e la prontezza del re di Inghilterra alla guerra, aveva mandato in Italia il generale di San Francesco e Veri di Migliau con commissione sopra questo negozio al viceré; il quale essendo, in quegli dí che arrivò il generale, morto a Gaeta, fu necessario trattare il negozio con don Ugo di Moncada, al quale anche si distendeva il mandato di Cesare, e il quale il viceré aveva sostituito in suo luogo insino a tanto che sopra il governo del regno venisse da Cesare nuova ordinazione: e avendo il generale comunicato con don Ugo, andò a Roma, e insieme con lui [Migliau] venuto di Spagna con le medesime commissioni che il generale. Conteneva questo negozio due articoli principali: l'uno, che il pontefice sodisfacesse all'esercito creditore di somma grossissima di denari; l'altro, la sicurtà di Cesare che il pontefice, liberato, non si aderisse co' suoi inimici; e in questo si proponevano dure condizioni di statichi e di sicurtà di terre. Trattossi per queste difficoltà la cosa lungamente: la quale per facilitare, il pontefice aveva spesso sollecitato e continuamente sollecitava, ma occultamente, Lautrech a farsi innanzi, affermando essere sua intenzione di non promettere cosa alcuna agl'imperiali se non forzato, e che in tale caso, uscito di carcere, non osserverebbe, come prima potesse condursi in luogo sicuro; il che cercherebbe di fare col dare loro manco comodità potesse; e se pure accordasse, lo pregava che la compassione de' suoi infortuni e delle necessità facessino la scusa per lui. La qual cosa mentre che si trattava, gli statichi, con indegnazione gravissima de' fanti tedeschi, fuggirono occultamente di Roma, alla fine di novembre. Lunga fu la discettazione sopra questa materia, non essendo anche di una medesima sentenza quegli che avevano a determinare: perché don Ugo, benché avesse mandato a Roma Serone suo secretario insieme con gli altri, v'aveva, per la malignità della sua natura e per avere l'animo alieno dal pontefice, piccola inclinazione; il generale, tutto il contrario, per la cupidità di diventare cardinale; Migliau contradiceva come a cosa pericolosa a Cesare, e non potendo resistere se ne andò, a Napoli; della quale empietà patí le pene, perché ne' primi dí dello assedio, scaramucciando, fu morto di uno archibuso. Né mancava il pontefice a se medesimo; perché tirò nella sentenza sua Ieronimo Morone, il consiglio del quale era in tutte le deliberazioni di grande autorità; conferito il vescovado di Modena al figliuolo, e promessi a lui certi frumenti suoi che erano a Corneto, di valore di piú di dodicimila ducati. Ma non con minore industria si fece propizio il cardinale Colonna; promessagli la legazione della Marca, e dimostrandogli, quando, venuto a Roma, l'andò a visitare nel Castello, di volere essere a lui principalmente debitore di tanto beneficio; e artificiosamente instillandogli negli orecchi: che maggiore gloria o che maggiore felicità potesse desiderare che farsi noto a tutto il mondo essere in potestà sua deprimere i pontefici, in potestà sua, quando erano annichilati, fargli ritornare nella pristina grandezza. Dalle quali cose commosso quel cardinale, elatissimo e ventosissimo per natura, aiutò prontamente la liberazione; credendo fusse cosí facile al pontefice, liberato, dimenticarsi di tante ingiurie come facilmente gli aveva, prigione, raccomandato umilissimamente con prieghi e con lacrime la sua liberazione. Alleggerí in qualche parte le difficoltà la nuova commissione di Cesare, il quale instava che il pontefice si liberasse con piú sodisfazione sua che fusse possibile: soggiugnendo bastargli che, liberato, non aderisse piú a' collegati che a lui. Ma si crede giovasse piú che alcuna altra cosa la necessità che avevano, per il timore della venuta di Lautrech, di condurre quello esercito alla difesa del reame di Napoli; cosa impossibile se prima non era assicurato degli stipendi decorsi, in ricompenso de' quali recusavano ammettere tante prede e tanti guadagni fatti nel tempo medesimo. Questa necessità del provedere a' pagamenti fu anche cagione che manco si pensasse allo assicurarsi, per il tempo futuro, del pontefice. Conchiusesi finalmente, credo l'ultimo dí di ottobre dopo lunga pratica, la concordia in Roma col generale e con Serone in nome di don Ugo, che poi ratificò: non avversasse il papa a Cesare nelle cose di Milano e di Napoli; concedessegli la crociata in Spagna, e una decima delle entrate ecclesiastiche in tutti i suoi regni; rimanessino, per sicurtà della osservanza, in mano di Cesare Ostia e Civitavecchia, stata prima rilasciata da Andrea Doria; consegnassegli Civita Castellana, la quale terra, essendo entrato nella rocca per commissione secretissima del pontefice, benché simulasse il contrario, Mario Perusco procuratore fiscale, aveva ricusato di ammettere gli imperiali; consegnassegli eziandio la rocca di Furlí, e per statichi Ippolito e Alessandro suoi nipoti, e insino a tanto venissino a Parma, i cardinali Pisano, Triulzio e Gaddi, che furono condotti da loro nel regno di Napoli; pagasse subito a' tedeschi credo ducati sessantasettemila, agli spagnuoli trentacinquemila, con questo che lo lasciassino libero con tutti i cardinali, e uscissinsi di Roma e del Castello, chiamandosi libero ogni volta fusse condotto salvo in Orvieto, Spoleto o Perugia; e fra quindici dí dopo l'uscita di Roma pagasse altanti danari a' tedeschi, e il resto poi (che credo ascendeva, co' primi, a ducati piú di trecento cinquantamila) pagasse infra tre mesi a' tedeschi e spagnuoli, secondo le rate loro. Le quali cose per potere osservare, il pontefice, ricorrendo per uscire di carcere a quegli rimedi a' quali non era voluto ricorrere per non vi entrare, creò per danari [alcuni] cardinali, persone la maggiore parte indegne di tanto onore; per il resto, concedette nel reame di Napoli decime e facoltà di alienare de' beni ecclesiastici: convertendosi per concessione del vicario di Cristo (cosí sono profondi i giudíci divini) in uso e in sostentazione di eretici quel che era dedicato al culto di Dio. Co' quali modi avendo stabilito e assicurato di pagare a' tempi promessi, dette anche per statichi, per la sicurtà de' soldati, i cardinali Cesis e Orsino, che furono condotti dal cardinale Colonna a Grottaferrata; ed essendo spedite tutte le cose, e stabilito che il nono dí di dicembre dovessino gli spagnuoli accompagnarlo in luogo sicuro, egli, temendo di qualche variazione per la mala volontà che sapeva avere don Ugo, e per ogni altra cagione che potesse interrompere, la notte dinanzi, uscito segretamente al principio della notte, in abito di mercatante, del Castello, fu da Luigi da Gonzaga soldato degli imperiali, che con grossa compagnia di archibusieri l'aspettava ne' Prati, accompagnato insino a Montefiascone: dove licenziati quasi tutti i fanti, Luigi medesimo l'accompagnò insino a Orvieto, nella quale città entrò di notte, non accompagnato da alcuno de' cardinali. Esempio certamente molto considerabile e forse non mai, da poi che la Chiesa fu grande, accaduto: uno pontefice, caduto di tanta potenza e riverenza, essere custodito prigione, perduta Roma, e tutto lo stato ridotto in potestà d'altri: il medesimo, in spazio di pochi mesi, restituito alla libertà, rilasciatogli lo stato occupato, e in brevissimo tempo poi ritornato alla pristina grandezza. Tanta è appresso a' príncipi cristiani l'autorità del pontificato, e il rispetto che da tutti gli è avuto.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.15

                                                  

                                                 Fazioni di guerra in Lombardia. Sfortunata impresa delle navi dei collegati contro la Sardegna; il Lautrech a Bologna e sue trattative col pontefice. Condotta contradditoria del pontefice verso gli alleati. Vane pratiche di pace fra gli ambasciatori dei collegati e Cesare; intimazione di guerra.

                                                  

                                                 Nel quale tempo Antonio de Leva, dopo la partita di Lautrech da Piacenza, mandò fuora di Milano i fanti spagnuoli e italiani, perché si pascessino, perché recuperassino i luoghi piú deboli del paese, e perché aprissino le comodità del condursi le vettovaglie a Milano; quali presono quella parte del contado di sopra che si chiama Sepri. Mandò anche Filippo Torniello con mille dugento fanti e con alcuni cavalli a Novara, nella quale città erano quattrocento fanti del duca di Milano. Entrovvi il Torniello per la rocca, tenutasi sempre in nome di Cesare; de' fanti sforzeschi si ridusse una parte in Arona l'altra in Mortara. A' quali avendo il duca aggiunti altri fanti per la difesa della Lomellina e del paese, non era libero al Torniello lo allargarsi molto: in modo che, non si facendo per quella vernata altre fazioni che spesse scaramuccie, attendevano tutti a rubare, gli amici e i nimici, conducendo a ultimo eccidio tutto il paese.

                                                 Eransi anche in questo tempo congiunte, a Livorno, [le galee d']Andrea Doria e quattordici galee franzesi con le sedici galee de' viniziani; e avendo ricevuto Renzo da Ceri con tremila fanti per porre in terra, partirono il terzodecimo dí di novembre da Livorno: e benché prima fusse stato determinato che assaltassino l'isola di Sicilia, mutato consiglio, si voltorono alla impresa di Sardigna, per i conforti, secondo si credette, di Andrea Doria, e perché già avesse nel petto nuovi concetti. Acconsentí a questa impresa Lautrech, per la speranza che presa la Sardigna si facilitasse molto l'acquisto della Sicilia. Quello che ne fusse la cagione, travagliate in mare da tristissimi tempi, separate, andorno vagando per mare: una delle galee franzesi andò a traverso appresso a' liti di Sardigna; quattro delle galee viniziane, molto battute, ritornorono a Livorno; le franzesi scorsono per l'impeto de' venti in Corsica, dove poi in Porto Vecchio si ricongiunsono seco quattro galee de' viniziani; l'altre otto furono traportate a Livorno. Finalmente la impresa risolvette, restando insieme in molta discordia Andrea Doria e Renzo da Ceri. Ma Lautrech, il quale ricevé quando era in Reggio avviso della, liberazione del pontefice, rilasciata la fortezza di Parma a' ministri ecclesiastici, andò a Bologna; nella quale città, arrivato il vigesimo dí del mese medesimo, si fermò aspettando la venuta degli ultimi fanti tedeschi; i quali pochi dí poi si condussono nel bolognese, non in numero seimila, come era destinato, ma solamente tremila: e nondimeno soggiornò venti dí in Bologna, aspettando avviso dal re di Francia dell'ultima risoluzione circa la pratica della pace, e instando intratanto con somma diligenza col pontefice, insieme con l'autorità del re di Inghilterra, perché apertamente aderisse a' collegati.

                                                 Al quale ne' primi che arrivò a Orvieto, essendo andati a lui a congratularsi il duca di Urbino il marchese di Saluzzo, Federigo da Bozzole (il quale pochi dí poi morí di morte naturale a Todi) e Luigi Pisano proveditore viniziano, gli aveva con grandissima instanza ricercati che levassino le genti loro dello stato ecclesiastico, affermando gli imperiali avergli promesso che si partirebbono ancora essi dello stato della Chiesa in caso che l'esercito de' confederati facesse il medesimo. Aveva anche scritto uno breve a Lautrech, [ringraziandolo] dell'opere fatte per la sua liberazione e dell'averlo confortato a liberarsi in qualunque modo; le quali opere erano state di tanto momento a costrignere gli imperiali a determinarsi che non meno si pretendeva obligato al re e a lui che se fusse stato liberato con l'armi loro, i progressi delle quali arebbe volentieri aspettato se la necessità non l'avesse indotto, perché continuamente gli erano mutate in peggio le condizioni proposte, e perché apertamente aveva compreso non potere se non per mezzo della concordia conseguire la sua liberazione; la quale quanto piú si differiva tanto procedeva in maggiore precipizio la autorità e lo stato della Chiesa: ma sopra tutto averlo mosso la speranza d'avere a essere instrumento opportuno a trattare col suo re e con gli altri príncipi cristiani il bene comune. Queste furono da principio le sue parole, sincere e semplici come pareva convenire allo officio pontificale, e di uno pontefice specialmente che avesse avuto da Dio sí gravi e sí aspre ammonizioni: nondimeno, ritenendo la sua natura solita, né avendo per la carcere deposte né le sue astuzie né le sue cupidità, arrivati che furono a lui (già cominciato l'anno mille cinquecento ventotto) gli uomini mandati da Lautrech e Gregorio da Casale oratore del re di Inghilterra, a ricercarlo che si confederasse con gli altri, cominciò a dare varie risposte: ora dando speranza ora scusandosi che, non avendo né danari né gente né autorità, sarebbe a loro inutile il suo dichiararsi, e nondimeno a sé potrebbe essere nocivo perché darebbe causa agli imperiali di offenderlo in molti luoghi, ora accennando di volere sodisfare a questa dimanda se Lautrech venisse innanzi: cosa molto desiderata da lui perché i tedeschi avessino necessità di partirsi di Roma; i quali, consumando le reliquie di quella misera città e di tutto il paese circostante, e deposta totalmente la obbedienza de' capitani, tumultuando spesso tra loro, ricusavano di partirsi, dimandando nuovi denari e pagamenti.

                                                 Ma alla fine dell'anno precedente, e molto piú nel principio dell'anno medesimo, cominciorono manifestamente ad apparire vane le pratiche della pace, per le quali si esacerborono molto piú gli animi de' príncipi: perché, essendo risolute quasi tutte le difficoltà (con ciò sia che Cesare non negasse di restituire il ducato di Milano a Francesco Sforza, e di comporre co' viniziani e co' fiorentini e con gli altri confederati), si disputava solamente quale cosa s'avesse prima a mettere in esecuzione, o la partita dello esercito del re di Francia di Italia o la restituzione de' figliuoli. Negava il re di obligarsi a Cesare, restando a lui Genova, Asti e Edin, a levare l'esercito di Italia, se prima non recuperava i figli, ma offeriva statichi in mano del re di Inghilterra, per sicurtà della osservanza delle pene alle quali si obligava se recuperati i figli non levasse subito l'esercito; Cesare instava del contrario, offerendo le medesime cauzioni in mano del re di Inghilterra. E disputandosi chi fusse piú onesto che si fidasse dell'altro, diceva Cesare non si potere fidare di chi una volta l'aveva ingannato; a che rispondevano argutamente gli oratori franzesi che quanto piú si pretendeva ingannato dal re di Francia tanto manco poteva il re di Francia fidarsi di lui; né la offerta di Cesare, di dare le sicurtà medesime in mano del re di Inghilterra che offeriva di dare il re di Francia, essere offerta pari perché anche non era pari il caso, con ciò sia che fusse di tanto maggiore momento quello che Cesare prometteva di fare che quello che prometteva il re di Francia, e però non assicurare le sicurtà medesime. Soggiunseno in ultimo che gli oratori del re di Inghilterra, quali avevano mandato dal suo re di obligarlo a fare osservare quello che promettesse il re di Francia, non avevano mandato a obligarlo per l'osservanza di quello promettesse Cesare; e che, essendo le facoltà loro terminate e con tempo prefisso, non potevano né trasgredire né aspettare. Sopra la quale disputa non si trovava risoluzione alcuna, perché Cesare non aveva la medesima inclinazione alla pace che aveva il suo consiglio, persuadendosi, eziandio perduto Napoli, poterlo riavere con la restituzione de' figliuoli: ed era imputato molto il gran cancelliere, ritornato molto prima in Ispagna, di avere turbato con punti e con sofistiche interpretazioni. Finalmente gli oratori franzesi e inghilesi deliberorono, secondo le commissioni che avevano in caso della disperazione della concordia, di dimandare a Cesare licenza di partirsi, e poi subito fare intimare la guerra. Con la quale conclusione presentatisi, il vigesimo primo dí di gennaio, seguitandogli gli oratori de' viniziani del duca di Milano e de' fiorentini, innanzi a Cesare, residente allora con la corte a Burgus, gli oratori inghilesi gli dimandorono i quattrocento cinquantamila ducati prestatigli dal loro re, seicentomila per la pena nella quale era incorso per il ripudio della figliuola e cinquecentomila per le pensioni del re di Francia e per altre cagioni: le quali cose proposte per maggiore giustificazione, tutti gli oratori de' collegati gli dimandorono licenza di partirsi. A' quali rispose che consulterebbe la risposta che avesse a fare, ma essere necessario che, anche innanzi alla partita loro, gli oratori suoi fussino in luogo sicuro. E partiti da lui gli imbasciadori, entrorono subito gli araldi del re di Francia e del re di Inghilterra a intimargli la guerra: la quale avendo accettata con lieto animo, ordinò che gli imbasciadori del re di Francia de' viniziani e de' fiorentini fussino condotti a una villa lontana trenta miglia dalla corte, dove fu posta loro guardia di arcieri e alabardieri, proibito ogni commercio e la facoltà dello scrivere; a quello del duca di Milano, come a suo suddito, fece fare comandamento che non partisse dalla corte; a l'inghilese non fu fatta innovazione alcuna. E cosí, rotta ogni pratica della pace, restorono accesi solamente i pensieri della guerra, condotta e stabilita tutta in Italia.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.16

                                                  

                                                 Il Lautrech muove con l'esercito da Bologna per il regno di Napoli. Ragioni di diffidenza fra il pontefice e i collegati. Il Lautrech sul Tronto; accordi fra il re di Francia e quello d'Inghilterra restio a portare la guerra in Fiandra. Sfida dei re di Francia e d'Inghilterra a Cesare. Desiderio del re d'Inghilterra che sia annullato il matrimonio suo con Caterina d'Aragona e sue richieste al pontefice. Atteggiamento del pontefice.

                                                  

                                                 Dove Lautrech, stimolato dal suo re ma molto piú dal re di Inghilterra, poiché cominciò a indebolire la speranza della pace, era il nono dí di gennaio partito da Bologna, indirizzandosi al reame di Napoli per il cammino della Romagna e della Marca; cammino eletto da lui, dopo molta consultazione, contro alla instanza del pontefice, desideroso, con l'occasione della passata sua, di fare rimettere in Siena Fabio Petrucci e il Monte de' nove: e contro alla instanza ancora de' fiorentini, i quali, per fuggire i danni del loro paese, e nondimeno perché quello esercito fusse piú pronto a soccorrergli se gli imperiali, per fare diversione, si movessino per assaltare la Toscana, approvavano il cammino della Marecchia. Ma Lautrech elesse di entrare piú tosto per la via del Tronto nel regno di Napoli, per essere cammino piú comodo a condurre l'artiglierie e piú copioso di vettovaglie, e per non dare occasione agli inimici di fare testa a Siena o in altro luogo; desiderando di entrare, innanzi che avesse alcuno ostacolo, nel regno di Napoli.

                                                 Ma come fu mosso da Bologna, Giovanni da Sassatello restituí la rocca di Imola al pontefice, la quale quando era prigione aveva occupata; e accostandosi dipoi a Rimini, Sigismondo Malatesta figliuolo di Pandolfo si convenne seco di restituire quella città al pontefice, con patto che fusse obligato a lasciare godere alla madre la dota, a dare seimila ducati alla sorella non maritata e a consegnare, tra il padre e lui, ducati dumila di entrata; partisse subito di Rimini Sigismondo, e vi restasse il padre insino a tanto che il pontefice avesse ratificato, e in questo mezzo stesse la rocca in mano di Guido Rangone suo cugino; il quale, condotto agli stipendi del re di Francia, seguitava Lautrech alla guerra. Ma differendo il pontefice a adempiere queste promesse, Sigismondo occupò di nuovo la rocca, non senza querela grave del pontefice contro a Guido Rangone, come se tacitamente l'avesse permesso, né senza sospetto ancora che non vi avessino consentito Lautrech e i viniziani, come desiderassino tenerlo in continue difficoltà: i viniziani per causa di Ravenna, la quale avendo il pontefice, subito che fu liberato di Castello, mandato l'arcivescovo sipontino a dimandare a quel senato, aveva riportato risposta generale, con rimettersi a quello che gli esporrebbe Gaspare Contareno eletto oratore a lui; perché se bene avessino prima affermato che la ritenevano per la sedia apostolica, nondimeno aveano totalmente l'animo alieno dal restituirla, mossi dallo interesse publico e dallo interesse privato; perché quella città era molto opportuna ad ampliare lo imperio in Romagna, fertile da se stessa di frumenti, e per la fertilità delle terre vicine dava opportunità grande a condurne ciascuno anno in Vinegia, e perché molti viniziani avevano in quel territorio ampie possessioni. Sospettava dell'animo di Lautrech: perché avendo Lautrech, oltre a molte instanze fattegli prima, mandato, da poi che era partito da Bologna, Valdemonte capitano generale di tutti i fanti tedeschi e Longavilla, a ricercarlo strettissimamente che si dichiarasse contro a Cesare, potendo, massime per l'approssimarsi l'esercito, farlo sicuramente, non aveva potuto ottenerlo, non lo denegando il pontefice espressamente ma differendo e escusando; per la quale cagione aveva offerto al re di Francia di consentirvi, ma con condizione che i viniziani gli restituissino Ravenna: condizione quale sapeva non dovere avere effetto, non essendo i viniziani per muoversi a questo per le persuasioni del re, né comportando il tempo che egli, per sodisfare al pontefice, se gli provocasse inimici. Aggiugnevasi che anche non udiva la instanza di Lautrech fatta perché ratificasse la concordia fatta col duca di Ferrara, allegando essere cosa molto indegna lo approvare, quando era vivo, le convenzioni fatte in nome suo mentre che era morto; ma che non recuserebbe di convenire con lui: donde il duca di Ferrara, pigliando questa occasione, faceva difficoltà, benché ricevuto nella protezione del re di Francia e de' viniziani, mandare a Lautrech i cento uomini d'arme e di pagargli i danari promessi; come quello che, dubitando dell'esito delle cose, si sforzava di non aderire tanto al re di Francia che non gli restasse luogo di placare in qualunque evento l'animo di Cesare, appresso al quale si era escusato della sua necessità; e intratteneva continuamente a Ferrara Giorgio Fronspergh e Andrea de Burgo.

                                                 Procedeva nondimeno innanzi Lautrech con l'esercito, col quale arrivò il decimo dí di febbraio in sul fiume del Tronto, confine tra lo stato ecclesiastico e il regno di Napoli. Ma in Francia il re, intesa la retenzione del suo imbasciadore, messe quello di Cesare nel castelletto di Parigi, e ordinò che per tutta Francia fussino ritenuti i mercatanti sudditi di Cesare. Il medesimo in quanto allo oratore di Cesare fece il re di Inghilterra; benché, inteso dipoi il suo non essere stato ritenuto, lo liberò. Ed essendo già bandita la guerra in Francia in Inghilterra e in Spagna, instava il re in Inghilterra che si rompesse comunemente la guerra in Fiandra; alla quale egli per dare principio, aveva fatto correre e predare alcune sue genti in sul paese della Fiandra: non si facendo per questo da quegli di Fiandra movimento alcuno se non per difendersi; perché madama Margherita, sforzandosi quanto poteva di estinguere le occasioni di entrare in guerra col re di Francia, non permetteva che gli uomini suoi uscissino del suo paese. Ma al re di Inghilterra era anche molestissimo l'avere la guerra co' popoli di Fiandra: perché, non ostante che acquistandosi certe terre promessegli prima da Cesare, per sicurtà de' danari prestati, avessino a essere consegnate a lui, nondimeno e alle entrate sue e al suo regno era di molto pregiudizio lo interrompere il commercio de' suoi mercatanti in quella provincia; ma non potendo per le convenzioni fatte apertamente recusarlo, differiva quanto poteva, allegando che, secondo i capitoli di quella obligazione, gli era lecito tardare quaranta dí dopo la intimazione fatta, per dare tempo a' mercatanti di ritirarsi. La quale sua volontà e la cagione essendo conosciuta dal re cristianissimo, dopo avere trattato insieme di assaltare, in luogo della guerra di Fiandra, con armate marittime le marine della Spagna, affermando il re di Francia avere intelligenza in quelle parti. Le quali cose partorirono finalmente che il re d'Inghilterra, avendo mandato in Francia il vescovo batoniense per persuadere a lasciare le imprese di là da' monti e a crescere le forze e la guerra d'Italia, per consigli e conforti suoi si [convenne] che, per tempo di otto mesi prossimi, si levassino le offese tra il re di Francia il re di Inghilterra e il paese di Fiandra, con gli altri stati circostanti sottoposti a Cesare: alla quale [tregua] perché il re di Francia condiscendesse piú facilmente si obligò il re di Inghilterra a pagare, ogni mese, trentamila ducati per la guerra di Italia, per la quale era finita la contribuzione promessa prima per sei mesi.

                                                 Ma cosí come continuamente si accrescevano le preparazioni alla guerra si accendevano molto piú gli odii tra i príncipi, pigliando qualunque occasione di ingiuriarsi e di contendere, non meno con l'animo e con la emulazione che con l'armi. Perché avendo Cesare, circa due anni innanzi, in Granata, in tempo che similmente si trattava la pace tra il re di Francia e lui, detto al presidente di Granopoli oratore del re di Francia certe parole le quali inferivano che, volentieri, acciò che delle differenze loro non avessino a patire piú i popoli cristiani e tante persone innocenti, le diffinirebbe seco con battaglia singolare, e dipoi replicate all'araldo, quando ultimatamente gli aveva intimata la guerra, le parole medesime, aggiugnendogli di piú, il suo re essersi portato bruttamente a mancargli della fede data, il re di Francia, avendo intese queste parole, e parendogli di non potere senza sua ignominia passarle con silenzio, ancora che la richiesta di Cesare fusse richiesta forse piú degna tra cavalieri che tra tali príncipi, convocati il vigesimo settimo dí di marzo in una grandissima sala del palazzo suo (credo di Parigi) tutti i príncipi tutti gli imbasciadori e tutta la corte, nella quale presentatosi dipoi lui con grandissima pompa di vestimenti ricchissimi e di molto ornata compagnia, e postosi a sedere nella sedia regale, fece chiamare l'oratore di Cesare il quale, perché si era determinato che, condotto a Baiona, fusse liberato nel tempo medesimo che fussino liberati gli imbasciadori de' confederati, i quali per questo si conducevano a Baiona, dimandava di espedirsi da lui. Parlò il re scusandosi che principalmente Cesare, per avere con esempio nuovo e inumano ritenuto gli imbasciadori suoi e de' suoi collegati, era stato causa che anche egli fusse ritenuto; ma che dovendo ora andare a Baiona, perché in uno tempo medesimo si facesse la liberazione di tutti, desiderava portasse a Cesare una sua lettera ed esponesse una ambasciata di questo tenore: che avendo Cesare detto allo araldo che egli aveva mancato alla sua fede, aveva detto cosa falsa, e che tante volte mentiva quante volte lo replicava; e che in luogo di risposta, per non tardare la diffinizione delle loro differenze, gli mandasse il campo dove avessino tutti due insieme a combattere. E ricusando lo imbasciadore di portare e la lettera e la imbasciata, soggiunse che gli manderebbe, a fare intendere il medesimo, l'araldo; e che sapendo anche che aveva detto parole contro all'onore del re di Inghilterra suo fratello, non parlava di questo perché sapeva quel re essere bastante a difenderlo, ma che, se per indisposizione del corpo fusse impedito, che offeriva di mettere al cimento la sua persona per lui. La medesima disfida fece, pochi dí poi, con le medesime solennità e cerimonie, il re d'Inghilterra: non passando però con molto onore de' primi príncipi della cristianità che, avendo insieme guerra tanto importante e di tanto pregiudizio a tutta la cristianità, implicassino anche l'animo in simili pensieri.

                                                 E nondimeno, in tanto ardore di guerra e d'armi, non si divertiva il re di Inghilterra dalle cure amatorie: le quali, cominciando a empiere il petto suo di furore, partorirono in ultimo crudeltà e sceleratezze orrende e inaudite; con infamia grandissima e eterna del nome suo, che acquistato da Leone il titolo di difensore della fede per dimostrarsi osservantissimo della sedia apostolica, e per avere fatto scrivere in nome suo uno libro contro alla empietà e velenosa eresia di Martino Luter, acquistò titolo e nome di empio oppugnatore e persecutore della cristiana religione. Aveva per moglie il re d'Inghilterra Caterina figliuola già di Ferdinando e di Elisabella, re di Spagna, regina certamente degna di tali genitori, e che per le virtú e prudenza sua era in sommo amore e venerazione appresso a tutto quel regno: la quale, vivente Enrico padre suo, era stata prima maritata ad Artú figliuolo suo primogenito; col quale poi che ebbe dormito, restata vedova per la immatura morte del marito, fu di comune consentimento del padre e del suocero maritata a Enrico minore fratello, precedente, per l'impedimento della affinità tanto stretta, la dispensazione di Giulio pontefice. Del quale matrimonio essendone nato uno figliuolo maschio, che con immatura morte fu tolto loro, non ne nacque altri figliuoli che una figliuola femmina: susurrando già, massime alcuni per la corte, che, per essere il matrimonio illecito e non dispensabile in primo grado, erano miracolosamente privati di figliuoli maschi. Da che, e dal desiderio che sapeva avere il re di figliuoli, presa occasione il cardinale eboracense, cominciò a persuadere al re che, ripudiata la prima moglie che giustamente non era moglie, contraesse un altro matrimonio: movendolo a questo non la coscienza, né la cupidità per se stessa che il re avesse successori maschi, ma il persuadersi di potere indurre il re a pigliare Renea figliuola del re Luigi; il che desiderava estremamente, perché, conoscendo essere esoso a tutto il regno, desiderava di prepararsi a tutto quello che potesse succedere e in vita e dopo la morte del re; e inducendolo anche l'odio grande che aveva conceputo contro a Cesare, perché né con dimostrazioni né con fatti sodisfaceva alla maravigliosa sua superbia: né dubitava, per l'autorità grande che avevano il re ed egli nel pontefice, di non ottenere da lui la facoltà di fare giuridicamente il divorzio. Prestò gli orecchi il re a questo consiglio, non indotto a quel fine che disegnava Eboracense ma mosso, come molti dissono, non tanto dal desiderio di avere figliuoli quanto perché era innamorato di una donzella della regina, nata di basso luogo, la quale inchinò l'animo a pigliare per moglie; non essendo né a Eboracense né ad altri noto questo suo disegno, il quale quando cominciò o a scoprirsi o a congetturarsi non ebbe facoltà Eboracense di dissuadergli il fare divorzio, perché non arebbe avuto autorità a consigliargli il contrario di quello che prima gli aveva persuaso: e già il re, avendo dimandato parere da teologi da giureconsulti e da religiosi, aveva avuto risposta da molti che il matrimonio non era valido, o perché cosí credessino o per gratificare, come è costume degli uomini, al principe. Però, come il pontefice fu liberato di prigione, gli destinò imbasciadori per confortarlo a entrare nella lega, per operarsi, secondo che da lui fusse ordinato loro, per la restituzione di Ravenna, ma principalmente per ottenere la facoltà di fare il divorzio: che non si cercava per via di dispensa, ma per via di dichiarazione che il matrimonio con Caterina fusse nullo. E si persuase il re che il pontefice, per trovarsi debole di forze e di riputazione né appoggiato alla potenza di altri príncipi, e mosso ancora dal benefizio fresco de' favori grandi avuti da lui per la sua liberazione, avesse facilmente a consentirgli; sapendo massime che il cardinale, per avere favorito sempre le cose sue e prima quelle di Lione, poteva molto in lui: e acciò che il pontefice non potesse allegare scusa di timore per la offesa che ne risultava a Cesare, figliuolo d'una sorella di Caterina, e per allettarlo con questo dono, offerse pagargli per sua sicurtà una guardia di quattromila fanti. Udí il pontefice questa proposta; ma ancora che considerasse la importanza della cosa e la infamia grande che gliene potesse risultare, nondimeno trovandosi a Orvieto, e neutrale ancora tra Cesare e il re di Francia e in poca confidenza con ciascuno di loro, e però stimando assai il conservarsi l'amicizia del re d'Inghilterra, non ebbe ardire di contradire a questa dimanda; anzi, dimostrandosi desideroso di compiacere al re ma allungando, col difficultare i modi che si proponeva, accese la speranza e la importunità del re e de' suoi ministri, la quale, origine di molti mali, continuamente augumentava.

                                                 Ma quando il pontefice ebbe udito Valdemonte e Longavilla, il quale gli era stato mandato dal re [di Francia], risposto a loro parole generali, mandò al re insieme con Longavilla il vescovo di Pistoia, per farlo capace che, per l'essere senza danari senza forze e senza autorità, la dichiarazione sua non sarebbe di frutto alcuno a' collegati; potergli solamente giovare nel trattare la pace, e che però aveva commissione di andare a Cesare per esortarnelo con parole rigorose: il che il re, benché non restasse male sodisfatto della neutralità del pontefice, nondimeno, dubitando non lo mandasse per trattare altro, non consentí. Né Cesare anche si lamentava del pontefice se stava neutrale.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.17

                                                  

                                                 Difficoltà delle armate alleate; cause di malcontento del Doria e dei genovesi verso il re di Francia. Progressi delle milizie di terra; deficienza di danari; occupazione dell'Abruzzi. Partenza delle milizie imperiali da Roma; condizioni della città. L'esercito dei collegati in Puglia. Azioni di guerra; presa di Melfi. Il papa a Viterbo; occupazione dei castelli già appartenenti a Vespasiano Colonna.

                                                  

                                                 Ma nel tempo che Lautrech andava innanzi, e che era destinato che l'armate facessino il medesimo, si opponevano a questo molte difficoltà. Perché le dodici galee viniziane che prima si erano ridotte a Livorno, avendo patito molto nella impresa di Sardigna, e per i travagli del mare e per la carestia delle vettovaglie, partirono il decimo dí di febbraio da Livorno per andare a Corfú a rifornirsi: benché i viniziani promettevano mandarne in luogo loro dodici altre, per unirsi con l'armata franzese. La quale anche aveva delle difficoltà, per quello che aveva patito e per le differenze nate tra Andrea Doria e Renzo da Ceri; per le quali, benché Renzo si fusse fermato in Pisa ammalato, si trattava che il Doria, il quale con tutte le galee aveva toccato a Livorno, andasse con le sue galee a Napoli, Renzo con l'altre franzesi, con quattro di fra Bernardino e con le quattro de' viniziani, che tutte erano insieme, assaltasse la Sicilia: ma il Doria, con le otto sue galee e otto altre dell'armata del re di Francia, si ritirò a Genova, allegando essere necessario e alle galee e a lui concedere riposo; o perché questa fusse veramente la cagione, o perché gli interessi delle cose di Genova gli inclinassino già l'animo a nuovi pensieri. Con ciò sia che, avendosi a Genova dimandato al re che concedesse loro che si governassino liberamente da se stessi, offerendogli per il dono della libertà dugentomila ducati, e avendolo il re recusato, si credeva che al Doria, autore o almeno confortatore che facessino queste dimande, non fusse grato che il re acquistasse la Sicilia se la libertà non si concedeva a' genovesi. E pullulava anche un'altra causa importante di controversia: perché, avendo il re smembrato la città di Savona da' genovesi, si dubitava che, voltandosi infra non molto tempo, per il favore del re e per la opportunità del sito, a Savona la maggiore parte del commercio delle mercatanzie, e quivi facendo scala l'armate regie, quivi fabricandosi i legni per lui, Genova non si spogliasse di frequenza d'abitatori e di ricchezze: però il Doria si affaticava molto col re che Savona fusse rimessa nella antica subiezione de' genovesi.

                                                 Ma con maggiore felicità che le espedizioni marittime procedevano le cose di Lautrech: il quale, come fu arrivato ad Ascoli, inviò Pietro Navarra co' suoi fanti alla volta dell'Aquila; essendosi già, alla fama della sua venuta, arrenduti Teramo e Giulianuova. Seguitavalo, per la via della Lionessa, il marchese di Saluzzo con le sue genti; e piú addietro cento cinquanta cavalli leggieri e quattromila fanti delle bande nere de' fiorentini, con Orazio Baglione. Avevono anche i viniziani promesso mandargli, senza la persona del duca d'Urbino, quattrocento cavalli leggieri e quattromila fanti, delle genti le quali avevano in terra di Roma; e, in supplemento delle altre con le quali erano obligati di aiutare la guerra del regno di Napoli, si erano convenuti di pagargli ciascuno mese ventitremila ducati; e affermavano che, con l'armata disegnata per la impresa della Sicilia, arebbono in mare trentasei legni; e nondimeno apparendo manifestamente che erano stracchi, procedevano molto lentamente allo spendere. Come similmente era il re di Francia; perché a Lautrech, in questo tempo, vennono avvisi che l'assegnamento fattogli dal re, quando partí di Francia, di cento trentamila scudi il mese per le spese della guerra, e del quale aveva ancora a riscuoterne circa dugentomila, era stato ridotto, né per piú che per tre mesi futuri, solamente a ragione di sessantamila scudi il mese: di che era in grandissima disperazione, lamentandosi che il re non si commovesse né dalla ragione né dalla fede né dalla memoria ed esempio del danno proprio; perché diceva che l'avere voltato il re i denari e le forze che avevano a servire a lui, per la difesa del ducato di Milano, alla impresa di Fonterabia, era stato cagione di fargli perdere quello stato. Succedette la cosa dell'Aquila felicemente: perché, come Pietro Navarra, il quale Lautrech vi aveva mandato insino da Fermo, vi si accostò, il principe di Melfi se ne partí, e vi entrò in nome del re di Francia il vescovo della città, figliuolo del conte di Montorio. Occuporono per accordo e i fanti tedeschi de' viniziani Civitella, piccola terra ma forte, posta di là dal Tronto sette miglia; prevenuti dugento archibusieri spagnuoli i quali camminavano per entrarvi dentro. Seguitò l'esempio della Aquila tutto lo Abruzzi; e arebbe fatto il simigliante, in brevissimo tempo, tutto il reame di Napoli se l'esercito imperiale non fusse uscito di Roma.

                                                 Il quale, dopo molte difficoltà e molti tumulti, nati perché i soldati dimandavano di essere pagati del tempo corso dopo la liberazione del pontefice, uscí di Roma il decimosettimo dí di febbraio; dí di grandissimo respiramento alle miserie tanto lunghe del popolo romano se, subito dopo la partita loro, non vi fussino entrati l'abate di Farfa e altri Orsini co' villani delle terre loro, i quali vi feciono per molti dí gravissimi danni. Restò Roma spogliata, dall'esercito, non solo di una parte grande degli abitatori, con tante case desolate e distrutte, ma eziandio spogliata di statue di colonne di pietre singolari e di molti ornamenti della antichità; e nondimeno, non volendo partire i tedeschi senza i danari di due paghe, perché gli spagnuoli consentirono di uscirne senza altro pagamento, fu necessitato il pontefice, desideroso che Roma restasse vacua, pagare prima ventimila ducati, i quali pagò sotto colore di liberare i due cardinali statichi, e poi ventimila altri ne riceverono sotto nome del popolo romano; dubitandosi che anche questi non fussino pagati dal pontefice, ma sotto questo nome per dare minore causa di querelarsi a Lautrech: il quale nondimeno si querelò gravissimamente che, co' danari suoi, fusse stato cagione della partita da Roma dell'esercito, per la quale la vittoria manifestissima si riduceva agli eventi dubbi della guerra. Uscirono, secondo che è fama, di Roma mille cinquecento cavalli quattromila fanti spagnuoli dumila in tremila fanti italiani e cinquemila fanti tedeschi, tanti di questi aveva diminuiti la pestilenza.

                                                 La partita dell'esercito imperiale da Roma costrinse Lautrech, il quale altrimenti sarebbe andato per il cammino piú diritto verso Napoli, a pigliare il cammino piú lungo di Puglia a canto alla marina, per la difficoltà di condurre l'artiglierie, se avesse avuto in quegli luoghi l'opposizione degli inimici, per la montagna; e molto piú per fare provisione di vettovaglie, acciò che non gli mancassino se fusse necessitato fermare il corso della vittoria alle mura di Napoli. Però venne a Civita di Chieta, capo dello Abruzzi citra (perché il fiume di Pescara divide lo Abruzzi citra dallo Abruzzi ultra), dove se gli erano date Sermona e molte altre terre del paese, e con tanta inclinazione, o per l'affezione al nome de' franzesi o per l'odio a quello degli spagnuoli, che quasi tutte le terre anticipavano a darsi venticinque o trenta miglia innanzi alla giunta dello esercito. Procedeva nondimeno piú lentamente di quello arebbe potuto, per andare innanzi con maggiore stabilità e sicurezza; e si credeva che, per assicurarsi di riscuotere per tutto marzo l'entrata della dogana di Puglia, entrata di ottantamila ducati la quale consisteva in cinque terre, v'avesse a mandare Pietro Navarra co' suoi fanti, per la stranezza del quale, essendo Lautrech necessitato a comportarla, non era nello esercito molto ordine. Ma essendo partito dal Guasto, e inteso che una parte dell'esercito inimico, col quale si era unito il principe di Melfi con mille fanti tedeschi, di quegli che aveva menati di Spagna don Carlo viceré, e con dumila fanti italiani usciti della Aquila, era venuta a Nocera, lontana quaranta miglia da Termini verso la marina, e un'altra a Campobasso, lontana trenta miglia da Termini in sul cammino proprio di Napoli, mandato innanzi Pietro Navarra co' suoi fanti, egli l'ultimo dí di febbraio andò alla Serra, lontana diciotto miglia da Termini, donde il quarto dí di marzo arrivò a San Severo. Ma Pietro Navarra, procedendo innanzi, entrò l'uno dí in Nocera e l'altro dí in Foggia, entrando per una porta quando gli spagnuoli, che si erano ritirati a Troia, Barletta e Manfredonia, volevano entrarvi per l'altra: che giovò assai per le vettovaglie dell'esercito. Erano con Lautrech in tutto quattrocento lancie e dodicimila fanti, né di gente molto eletta; ma dovevansi unire seco il marchese di Saluzzo, il quale camminava innanzi a tutti, le genti de' viniziani e le bande nere de' fiorentini, desiderate molto da Lautrech perché, avendo fama di essere fanteria destra e ardita agli assalti quanto fanteria che allora fusse in Italia, facevano come uno condimento [al suo esercito], nel quale erano genti ferme e stabili a combattere. Ma inteso, per relazione di Pietro Navarra mandato da lui a speculare il sito, che in Troia e all'intorno erano cinquemila alamanni cinquemila spagnuoli e tremila cinquecento italiani, e tra Manfredonia e Barletta mille cinquecento italiani, né potendosi per i freddi grandissimi stare in campagna, Lautrech, agli otto dí di marzo, andò a Nocera con tutti i fanti e cavalli leggieri, e il marchese di Saluzzo nuovamente arrivato messe con le genti d'arme e con mille fanti in Foggia; affermando di volere fare, se la occasione si presentava, la giornata, e per altre ragioni e perché, essendogli stati diminuiti dal re gli assegnamenti, non poteva sostentare molto tempo le spese della guerra: e in San Severo lasciò gl'imbasciadori e le genti non atte alla guerra, con poca guardia. Cosí gli pareva stare sicuro né essere necessitato a fare giornata se non con vantaggio. Né gli mancavano vettovaglie, benché si pativa di macinato. Uscí dipoi, a dodici dí di marzo, in campagna, tre miglia di là da Nocera e cinque miglia presso a Troia, perché Nocera e Barletta distanti intra sé dodici miglia distano non piú che otto miglia da Troia; e gli imperiali, i quali avevano raccolte quasi tutte le genti che erano in Manfredonia e in Barletta, ma non pagate eccetto i fanti tedeschi, e che in Troia aveano copia di vettovaglie, uscirono a scaramucciare: dipoi il dí seguente si messeno in campagna, senza artiglieria, in uno alloggiamento forte in su il colle di Troia. Lautrech, a quattordici dí, girò quello colle dalla banda di sopra che risguarda mezzodí verso la montagna, e voltando il viso a Troia cominciò a salire, e guadagnato il poggio con grossa scaramuccia fece uno alloggiamento cavaliere a loro, e gli costrinse a colpi di artiglierie a ritirarsi, guadagnando per sé lo alloggiamento loro, parte in Troia parte a ridosso: in modo che Troia e lo esercito imperiale restorono tra l'esercito franzese e San Severo, il che difficultava i soccorsi che e' potessino avere da Napoli, e anche in grande parte impediva le vettovaglie che potessino condursi a loro; benché, per essere scarichi di bagaglie e di gente inutile, non consumassino molto. E da altra parte erano impedite da essi le vettovaglie che andavano da San Severo al campo franzese; e anche tenevano in pericolo San Severo, il quale potevano assaltare con una parte delle loro genti senza che i franzesi se ne accorgessino.

                                                 Cosí stando alloggiati gli eserciti, i franzesi di là da Troia di verso la montagna, gl'imperiali dalla banda di qua verso Nocera a ridosso della terra, in su la spiaggia molto fortificata, ed essendo la piú parte de' luoghi circostanti in mano de' franzesi, dimororono cosí insino a' diciannove dí, dandosi tutta notte all'arme e ogni dí facendo scaramuccie, in una delle quali fu preso Marzio Colonna; e interrompendo spesso le vettovaglie che andavano da San Severo e da Foggia allo esercito franzese (che per questo ebbe qualche stretta), né si potevano condurre senza grossa scorta. Nel quale tempo (secondo scrive il Borgia), il marchese del Guasto consigliò che si facesse la giornata, perché l'esercito franzese cresceva ogni giorno e il loro diminuiva; ma ebbe piú autorità il consiglio di Alarcone, che mostrava essere piú speranza nella vittoria nel stare alla difesa, consumando tempo, che nel rimettersi allo arbitrio della fortuna. A' diciannove dí, gli imperiali, per essere danneggiati dall'artiglieria inimica, si ritirorono in Troia; ma riparato poi il loro alloggiamento dalla artiglieria, al tempo buono vi ritornavano, al sinistro si ritornavano in Troia. Ma a' ventuno, in su il fare del dí, si levorono, e andorono verso la montagna ad Ariano con non piccola giornata, ed essendosi, contro a quello che prima credevano i franzesi, trovate in Troia vettovaglie assai, da che, per avere serrato i passi da condurle, s'erano promessi vanamente la vittoria, si interpretavano fussino levati o per volergli tirare in luogo dove patissino di vettovaglie o per avere inteso che il dí seguente si aspettavano nel campo franzese le bande nere: le quali, nel venire innanzi, essendo alloggiate per transito nell'Aquila, aveano, senza essere stati o ingiuriati o provocati ma meramente per cupidità di rubare, saccheggiata sceleratamente quella città. A' ventidue, Lautrech alloggiò alla Lionessa in su il fiume dello Ofanto, detto da' latini Aufido, lontano sei miglia da Ascoli, mandate le bande nere, e Pietro Navarra co' fanti suoi e con due cannoni, alla oppugnazione di Melfi; dove, avendo fatto piccola rottura, i guasconi s'appresentorono alle mura, e le bande nere con maggiore impeto, contro all'ordine de' capitani, feciono il medesimo: e facendo l'una nazione a gara con l'altra, battendogli gli archibusi de' fianchi, furono ributtati, con morte di molti guasconi e di circa sessanta delle bande nere. Ed ebbeno la sera medesima un altra battitura quasi eguale, essendo tornati al tardi, poiché era stata continuata la batteria, a dare un altro assalto. Ma la notte venneno in campo nuove artiglierie da Lautrech, con le quali avendo la mattina seguente fatte due batterie grandi, i villani, che ne erano dentro molti, cominciorono per paura a tumultuare. Per timore del quale tumulto occupati i soldati, che erano circa seicento, abbandonorono la difesa; donde quegli del campo entrati dentro ammazzorono tutti i villani e gli uomini della terra. Ritiroronsi i soldati nel castello, col principe; e poco poi si arrenderono, secondo disseno quegli del campo, a discrezione, benché essi pretendessino esserne eccettuata la vita. Fu salvato il principe con pochi de' suoi, gli altri tutti ammazzati, saccheggiata la terra e morti in tutto tremila uomini. Nella quale si trovò vettovaglie assai, con grandissimo comodo de' franzesi che avevano, per le loro male provisioni, somma necessità in Puglia di quello di che vi è somma abbondanza. A' ventiquattro, gli spagnuoli partirono da Ariano e si fermorono alla Tripalda, lontana venticinque miglia da Napoli in su il cammino diritto, e quaranta miglia da l'Ofanto: co' quali si uní il viceré il principe di Salerno e Fabbrizio Maramaus, con tremila fanti e con dodici pezzi di artiglieria; e si diceva che Alarcone usciva di Napoli con dumila fanti, per soccorrere la dogana. Soprastava nondimeno Lautrech in su l'Ofanto, per fare prima grossa provisione di vettovaglie; e tutta la gente sua era alloggiata tra Ascoli e Melfi: e dopo il caso di Melfi se gli erano date Barletta, Trani e tutte le terre circostanti, eccetto Manfredonia, dove erano mille fanti: donde mandato Pietro Navarra con quattromila fanti a combattere la rocca di Venosa, guardata da dugento cinquanta fanti spagnuoli che la difendevano gagliardamente, l'ottenne a discrezione; e ritenuti prigioni i capitani, licenziò gli altri senza armi. E aveva dato ordine tale che per lui si riscoteva l'entrata della dogana di Puglia, ma per gli impedimenti che dà la guerra non ascendeva alla metà di quello che era consueto riscuotersi. In questo alloggiamento arrivò il proveditore Pisani con le genti de' viniziani, che furno in tutto circa dumila fanti (ma non so se i lanzi loro, che erano circa mille, si computino in questo numero o se pure erano prima con Lautrech, come credo). Cosí attendeva ad assicurarsi delle vettovaglie: di che ebbe piú facilità poi che, per opera delle genti viniziane, ebbe Ascoli in suo potere.

                                                 Nel quale tempo, preso animo dalla prosperità de' successi, strigneva con parole alte il papa a dichiararsi. Il quale, se bene prima i viterbesi, per opera di Ottaviano degli Spiriti, non avevano voluto ricevere il suo governatore, nondimeno, avendo poi per timore ceduto, aveva trasferita la corte a Viterbo. Ed essendo nel tempo medesimo morto Vespasiano Colonna, e disposto nella sua ultima volontà che Isabella, sua unica figliuola, si maritasse a Ippolito de' Medici, il pontefice occupò tutte le castella che possedeva in terra di Roma: benché Ascanio pretendesse che, mancata la linea mascolina di Prospero Colonna, appartenessino a lui.

                                                  

                                                 Lib.18, cap.18

                                                  

                                                 Resa di Monopoli ai veneziani. Il duca di Ferrara invia il figliuolo in Francia per la perfezione del matrimonio. Raccolta di nuove milizie imperiali da inviarsi in Italia; provvedimenti dei collegati per far fronte ad esse. Miserrime condizioni e sofferenze dei milanesi; defezione del castellano di Mus. Il Lautrech nella Campania; la flotta dei Doria davanti al porto di Napoli; l'esercito dei collegati sotto le mura della città.

                                                  

                                                 Erasi in questo tempo Monopoli arrenduto a' viniziani, per i quali, secondo l'ultime convenzioni fatte col re di Francia, si acquistavano tutti quegli porti del regno di Napoli i quali possedevano innanzi alla rotta ricevuta dal re Luigi nella Ghiaradadda.

                                                 Indussono queste prosperità de' franzesi il duca di Ferrara a mandare il figliuolo in Francia, per la perfezione del matrimonio: il che prima, ricusando eziandio di essere capitano della lega, aveva industriosamente differito.

                                                 Ma Cesare, non provedendo con le genti di Spagna a tanti pericoli del regno napoletano, perché da quella parte mandò solamente seicento fanti non molto utili in Sicilia, aveva ordinato che di Germania passassino in Italia, per soccorso di quel reame, sotto il duca di Brunsvich, nuovi fanti tedeschi; i quali si preparavano con tanto maggiore sollecitudine quanto si intendeva essere maggiore, per i progressi di Lautrech, la necessità del soccorso. Alla venuta de' quali per opporsi, acciò che non perturbasse la speranza della vittoria, fu, con consentimento comune del re di Francia del re di Inghilterra e de' viniziani, destinato che in Italia passasse, per seguitare i tedeschi se andavano nel reame di Napoli, se non per fare la guerra con le genti de' viniziani e di Francesco Sforza contro a Milano, Francesco monsignore di San Polo della famiglia di Borbone, con quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri cinquemila fanti franzesi dumila svizzeri e dumila tedeschi: alla spesa del quale esercito, che si disegnava di sessantamila ducati il mese, concorreva il re di Inghilterra con trentamila ducati ciascuno mese. E i viniziani avevano fatto, nel consiglio de' pregati, decreto di soldare diecimila fanti: aiuto molto incerto e molto lento perché, secondo l'uso loro, non succedeva cosí presto il soldare al deliberare. Tardava il muoversi, poi che erano soldati; mossi che erano, restava la difficoltà, quasi inestricabile, del passare i fiumi; e ultimamente, il volere mettersi al pericolo di uscire alla campagna e lo impedire i passi de' monti, per l'esperienze passate, era difficile, perché avevano infiniti modi e vie da passare. Però il duca di Ferrara consigliava non si tentasse neanche di combattergli in campagna, per essere gente animosa ed efferata, ma che con uno esercito grosso gli andassino secondando, per impedire loro le vettovaglie e l'unirsi con le genti che erano in Milano.

                                                 Nella quale città, per l'acerbità di Antonio de Leva, era estremità e suggezione miserabile; perché, per provedere a' pagamenti de' soldati, aveva tirato in sé tutte le vettovaglie della città, delle quali, fatti fondachi publichi e vendendole in nome suo, cavava i denari per i pagamenti loro; essendo costretti tutti gli uomini, per non morire di fame, di pagarle a' prezzi che paresse a lui: il che non avendo la gente povera modo di poterlo fare, molti perivano quasi per le strade. Né bastando anche questi denari a' soldati tedeschi che erano alloggiati per le case, costrignevano i padroni ogni dí a nuove taglie, tenendo incatenati quegli che non pagavano: e perché, per fuggire queste acerbità e pesi intollerabili, molti erano fuggiti e fuggivano continuamente della città, non ostante l'asprezza de' comandamenti e la diligenza delle guardie, si procedeva contro agli assenti alle confiscazioni de' beni; che erano in tanto numero che, per fuggire il tedio dello scrivere, si mettevano in stampa. Ed era stretta in modo la vettovaglia che infiniti poveri morivano di fame, i nobili male vestiti e poverissimi; e i luoghi già piú frequenti, pieni di ortiche e di pruni. E nondimeno, a chi era autore di tante acerbità e di tanti supplizi succedevano tutte le cose felicemente: perché essendo il castellano di Mus accampatosi a Lecco come soldato della lega, con seicento fanti, e tolte le navi, perché gli spagnuoli che erano in Como non potessino soccorrerlo per la via del lago, Antonio de Leva, chiamati i fanti di Novara, uscito di Milano, si fermò a quindici miglia di Milano co' tedeschi; ed espugnata la rocca di Olgina che è in ripa di Adda, stata presa prima da Mus, mandò Filippo Torniello co' fanti italiani e spagnuoli a soccorrere Lecco, che è in su l'altra ripa del lago; dove Mus, con aiuti fatti venire da' viniziani e dal duca di Milano, e con artiglieria avuta da' viniziani, aveva preso tutti i passi e fortificatogli, che per l'asprezza de' luoghi e de' monti sono difficili. Ma gl'imperiali, occupato allo opposito il monte imminente a Lecco, poi che ebbeno fatto pruova invano di passare in piú luoghi, sforzorno finalmente dove le genti de' viniziani guardavano; le quali Mus, o per confidare manco nella virtú loro o per mettergli in manco pericolo, aveva, posto ne' luoghi piú aspri. Però Mus, con l'artiglieria e co' suoi salito in su le navi, salvò la gente; non stando senza sospetto che i viniziani avessino fatto leggiera difesa per gratificare al duca di Milano, al quale non piaceva che egli pigliasse Lecco: e poco poi, per conseguire con la concordia quello che non aveva potuto conseguire con l'armi, passato nelle parti imperiali, ebbe, per virtú dell'accordo, Lecco e altri luoghi da Antonio de Leva, ottenuto anche da Ieronimo Morone, che per lettere era stato autore di questa pratica, la cessione delle sue ragioni. Dal quale accordo ebbe Antonio de Leva, nella strettezza della fame, grandissima comodità di vettovaglie e di danari; perché il castellano, il quale aspirando a concetti piú alti assunse poi il titolo di marchese, pagò trentamila ducati, e a Milano mandò tremila sacca di frumento.

                                                 Procedeva intanto Lautrech, e a' tre di aprile era a Rocca Manarda, lasciati a guardia di Puglia cinquanta uomini d'arme dugento cavalli leggieri mille cinquecento in dumila fanti, tutte genti de' viniziani: dove non si teneva altro che Manfredonia in nome di Cesare. Ma l'esercito imperiale, risoluto di attendere (abbandonato tutto il paese circostante) [a difendere] Napoli e Gaeta, poi che, per tôrre alimenti agli inimici, ebbe saccheggiato Nola e condotto a Napoli le vettovaglie che erano in Capua, alloggiò in sul monte di San Martino, donde di poi entrò in Napoli con diecimila fanti tra tedeschi e spagnuoli, e licenziati tutti i fanti italiani, eccetto secento i quali militavano sotto Fabrizio Maramaus, perché Sciarra Colonna co' fanti suoi era andato nell'Abruzzi. Restorono in Napoli pochissimi abitatori, perché tutti quegli che avevano o facoltà o qualità si erano ritirati a Ischia a Capri e altre isole vicine: dicevasi esservi frumento per poco piú di due mesi, ma di carne e di strami piccola quantità. Arrenderonsi a Lautrech Capua, Nola, l'Acerra, Aversa e tutte le terre circostanti. Il quale dimorò con l'esercito quattro dí alla badia dell'Acerra distante sette miglia da Napoli, essendo proceduto e procedendo lentamente per aspettare le vettovaglie impedite da' cattivi cammini e dalle pioggie per le quali era la campagna piena d'acqua; bisognandogli provederne quantità grandissima perché era fama che nello esercito suo, secondo la corruttela moderna della milizia, fussino piú di ventimila cavalli e di ottantamila uomini, i due terzi gente inutile: e di quivi mandò alla impresa della Calavria Simone Romano, con cento cinquanta cavalli leggieri e cinquecento côrsi, non pagati, venuti del campo imperiale. E già Filippino Doria, con otto galee di Andrea Doria e due navi, venuto alla spiaggia di Napoli, aveva preso una nave carica di grani, e fatto con l'artiglierie sdiloggiare gl'imperiali dalla Maddalena; e benché poco di poi pigliasse due altre navi cariche di grani, e fusse cagione di molte incomodità agli inimici, nondimeno non bastavano le sue galee sole a tenere totalmente assediato il porto di Napoli. Perciò Lautrech sollecitava le sedici galee de' viniziani che venissino a unirsi con quelle; le quali, dopo essersi lentamente rimesse in ordine a Corfú, erano venute nel porto di Trani: ma esse, benché già si fussino arrendute loro le città di Trani e di Monopoli, preponendo i negozi propri agli alieni, benché dalla vittoria di Napoli dependessino tutte le cose, ritardavano, per pigliare prima Pulignano, Otranto e Brindisi. A' diciassette, Lautrech a Caviano, cinque miglia presso a Napoli; e il dí medesimo gl'imperiali che abbondavano di cavalli leggieri, dimostrandosi maggiore la sollecitudine e la diligenza per la negligenza de' franzesi, tolseno loro le vettovaglie, delle quali pativano; e avevano fortificato Santo Erasmo, posto nella sommità del monte di San Martino, per tôrlo a' franzesi, essendo cavaliere a Napoli da poterlo danneggiare assai con l'artiglieria, e perché, essendo padroni di quel monte, impedivano che quasi alla maggiore parte della città non si potevano accostare i franzesi. A' quali dette qualche speranza di discordia tra gli inimici l'avere il marchese del Guasto, pure per cause private, ferito il conte di Potenza e ammazzatogli il figliuolo. A' ventuno, a Casoria, a tre miglia di Napoli in su la via di Aversa: nel quale dí si scaramucciò sotto le mura di Napoli, e vi fu morto Migliau, quello che aveva accerrimamente contradetto alla liberazione del pontefice; della quale aveva esso medesimo portata la commissione di Cesare a' capitani. A' ventidue, a uno miglio e mezzo di Napoli; dove Lautrech proibí lo scaramucciare come inutile: e già se gli era arrenduto Pozzuolo. Finalmente, il penultimo dí di aprile, pervenuto alla città di Napoli, alloggiò l'esercito tra Poggio Reale, palazzo molto magnifico, edificato da Alfonso secondo di Aragona, quando era duca di Calavria, e il monte di San Martino; distendendosi le genti insino a mezzo miglio di Napoli; la persona sua piú innanzi di Poggioreale alla masseria del duca di Montealto: nel quale luogo si era fortificato allargandosi verso la via di Capua: alloggiamento fatto in sito molto forte, e dal quale si impediva a Napoli la comodità degli aquedotti che si partono da Poggio Reale; donde disegnava fare poi un altro alloggiamento piú innanzi, in sul colle che è sotto il monte di Santo Ermo, per tôrre piú le comodità a Napoli, e molestare di luogo piú propinquo la città. Delle quali cose per intelligenza piú chiara, pare necessario descrivere il sito della città di Napoli e del paese circostante.

                                             

                                                 Lib.19, cap.1

                                                  

                                                 Il Lautrech decide non l'espugnazione ma l'assedio a Napoli. Vittoria navale di Filippino Doria sugli imperiali. Condizioni degli assediati; inopportuna ostinazione del Lautrech nel non ascoltare i consigli altrui. Nuove azioni di guerra; progressi dei francesi in Calabria. Difficoltà per un piú stretto assedio di Napoli. Considerazioni dell'autore sull'ostinazione del Lautrech. Alcune azioni di guerra sotto Napoli. Mutamento di fortuna per i francesi. Vicende della guerra in Calabria ed in Puglia. Successi di Antonio de Leva in Lombardia.

                                                  

                                                 Alloggiato Lautrech con l'esercito appresso alle mura di Napoli, fu la prima consultazione se era da tentare di sforzare con lo impeto dell'artiglierie e con la virtú degli uomini quella città; come molti, confortando che a questo effetto si augumentasse il numero de' fanti, consigliavano. Allegavano questi molte difficoltà per le quali non si poteva sperare di starvi intorno lungamente: la difficoltà delle vettovaglie, perché gli inimici, copiosissimi di cavalli leggieri e pronti a esercitargli, rompevano tutte le strade; ed essere incerta la speranza che Napoli avesse ad arrendersi per la fame, perché non essendo bastanti le galee del Doria a tenere serrato il porto né venendo le galee de' viniziani, benché promesse ciascuno giorno, erano entrate da Gaeta in Napoli, che pativa di macinato, quattro galee cariche di farine, e ve ne entrava ciascuno dí degli altri legni; vedersi fredde le provisioni de' viniziani, i quali, per conto de' ventiduemila ducati che gli pagavano ciascuno mese, erano già debitori di sessantamila ducati; essergli somministrati parcamente i danari di Francia; ed empiersi già l'esercito di infermità, le quali però non procedevano tanto dalla gravezza ordinaria di quella aria, che suole cominciare a nuocere alla fine della state, quanto perché i tempi erano andati molto piovosi, alloggiando anche molti dello esercito in campagna. Nondimeno Lautrech, considerando che in tanta moltitudine e virtú di difensori, e per la fortificazione del monte il quale si poteva soccorrere, l'espugnare o il monte o la città era cosa molto difficile, né volendo forse spendere con piccolissima speranza i danari, per timore che poi per sostentare le spese ordinarie non gli mancassino, deliberò di attendere non alla espugnazione ma allo assedio; sperando che innanzi passasse molto tempo avessino a mancare agli inimici o le vettovaglie o [i] danari. Indirizzò adunque e l'animo e tutte le provisioni all'assedio lento, intento a impedire che per terra non vi entrassino vettovaglie, e a sollecitare la venuta delle galee viniziane per privargli del tutto delle vettovaglie marittime. Quivi, mutato consiglio, permesse si facessino le scaramuccie, perché i soldati stando in ozio non perdessino d'animo; e però se ne faceva spesso, e con grande laude delle bande nere; le quali, eccellenti per la disciplina di Giovanni de' Medici in questa specie di combattere, non avevano insino allora dimostrato quel che in giornata ordinaria e in battaglia ferma e stabile valessino in campagna. Arrivorno in questo tempo allo esercito ottanta uomini d'arme del marchese di Mantova e cento del duca di Ferrara; il quale duca benché fusse stato ricevuto in ampia protezione del re di Francia e de' viniziani, nondimeno aveva tardato quanto aveva potuto a fargli muovere, per regolare le sue deliberazioni con quello che si potesse congetturare dello evento futuro della guerra. In questo stato delle cose conceperono gl'imperiali speranza di rompere Filippino Doria, che era con le galee nel golfo di Salerno; non facendo tanto fondamento in su il numero e in su la bontà de' legni loro quanto nella virtú de' combattitori, perché empierono sei galee quattro fuste e due brigantini di mille archibusieri spagnuoli, de' piú valorosi e de' piú lodati dello esercito; co' quali vi entrorono don Ugo viceré e quasi tutti i capitani e uomini d'autorità. A questa armata, governata per consiglio del Gobbo, nelle cose marittime veterano e famoso capitano, aggiunseno molte barche di pescatori, per spaventare gli inimici da lontano col prospetto di maggiore numero di legni; i quali, partiti tutti da Pausilipo, toccorono all'isola di Capri; dove don Ugo, con grandissimo pregiudizio di questo assalto, perdé tempo a udire uno romito spagnuolo, che concionando accendeva gli animi loro a combattere come era degno della gloria acquistata con tante vittorie da quella nazione. Di quivi, lasciato a mano sinistra il Cavo della Minerva, entrati in alto mare, mandorno innanzi due galee, con commissione che accostatesi agli inimici simulassino poi di fuggire, per tirargli in alto mare a combattere. Ma Filippino Doria, avendo il dí dinanzi per esploratori fidati presentito il consiglio degli inimici, aveva, con grandissima celerità, ricercato Lautrech che gli mandasse subito trecento archibusieri; i quali, guidati da Croch, erano arrivati poco innanzi che si scoprisse l'armata degli inimici. La quale come si scoperse da lontano, Filippino, ancora che con grande animo avesse fatte tutte le preparazioni necessarie per combattere, nondimeno commosso dal numero grande de' legni che si scoprivano, stette molto sospeso; ma in breve spazio di tempo lo liberò da questa dubitazione il vedere, quando gli inimici si approssimavano, non vi essere altri legni da gabbia che sei. Perciò, con animo forte e come capitano peritissimo della guerra navale, fece allargare sotto specie di fuga tre galee dalle altre sue, acciò che girando assaltassino col vento prospero gli inimici per lato e da poppa, egli con cinque galee va incontro agli inimici, i quali dovevano scaricare la loro artiglieria per tôrre a lui col fumo la mira e la veduta. Ma Filippino dette fuoco a uno grandissimo basalischio della sua galea, il quale percotendo nella galea capitana, in sulla quale era don Ugo, ammazzò al primo colpo quaranta uomini, tra' quali il maestro della galea e molti uffiziali; e scaricate poi altre artiglierie ne ammazzò e ferí molti. Da altro canto l'artiglierie scaricate dalla galea di don Ugo ammazzorono nella galea di Filippino il maestro, ferirono il padrone; ma i genovesi, esperimentati a queste battaglie, schifavano meglio il pericolo, combattendo chinati e cauti fra gli intervalli de' palvesi. Cosí, mentre combattono con grandissima ferocia e spavento le due galee, tre altre galee degli imperiali strignevano due genovesi, ed erano già molto superiori; ma le tre prime genovesi, che simulando di fuggire erano andate in alto mare, ritornate sopra gli inimici percosseno per lato la galea capitana: delle quali la galea che era chiamata la Nettunna svelse il suo albero, che gli fece grande danno. Quivi don Ugo, ferito nel braccio e coperto, mentre confortava i suoi, da' sassi e da' fuochi gittati dagli alberi delle galee inimiche, combattendo fu morto; quivi la capitana di Filippino e la Mora spacciorno la capitana di don Ugo, l'altre due con l'artiglierie affondorono la Gobba, dove morí il Fieramosca; intratanto l'altre galee di Filippino avevano ricuperato due delle loro oppressate dalle spagnuole, e prese le loro fuste; due sole delle spagnuole, veduto la vittoria essere degli inimici, male trattate, con fatica fuggirono. Nel quale tempo il marchese del Guasto e Ascanio, affogata quasi e ardente la loro galea, rotti i remi, morti quasi tutti ed essi feriti, furono fatti prigioni, salvandogli dalla morte lo splendore dell'armi indorate. Restorno presi venti condottieri, molti padroni delle galee. E giovò assai a Filippino il liberare i forzati, la piú parte turchi e mori, che combatterno eccellentemente. I prigioni furno mandati da Filippino con tre galee al Doria; e una delle due galee, che si era salvata, passò pochi dí poi da' franzesi, perché il padrone, che era uno marchese Doria regnicola, fu imputato dagli spagnuoli di mancamento nella battaglia. Ma scrisse l'oratore fiorentino a Firenze, conformandosi nelle altre cose, che la battaglia durò da ore ventidue insino a due ore di notte, e che gli imperiali oltre alle sei galee avevano undici vele minori cariche di soldati; che da principio furono prese due galee franzesi, con morte quasi di tutti; ma che l'artiglieria, della quale i franzesi erano superiori, messe in fondo due galee, due altre con alcune fuste furono prese, e morta o ferita la piú parte delle ciurme e de' soldati; e che in una non ne restorono non feriti piú che tre; l'altre due, dove era Curradino co' tedeschi, molto danneggiate fuggirono a Napoli. Don Ugo fu morto da due archibusate e gittato in mare, e cosí il Fieramosca. Restorono prigioni il marchese del Guasto, Ascanio Colonna, il principe di Salerno, Santa Croce, Cammillo Colonna, il Gobbo, Serone e molti altri capitani e gentiluomini. Morirono piú di mille fanti, e de' franzesi pochi che non restassino o morti o feriti.

                                                 Dette questa vittoria speranza grande a' franzesi del successo di tutta la impresa, e forse maggiore che non sarebbe stato di bisogno, perché fece in qualche parte Lautrech piú lento alle provisioni; ma empié gli imperiali di molto terrore, dubitando del mancamento delle vettovaglie, poi che restavano al tutto spogliati dello imperio del mare, e per terra stretti da molte parti, massime dopo la perdita di Pozzuolo, perché per quella strada si conduceva a Napoli copia grande di vettovaglie: e già in Napoli era carestia grande di farina e di carne e piccola quantità di vino: però, il dí seguente alla rotta, cacciorono di Napoli numero grande di bocche inutili; e posto ordine alla distribuzione delle vettovaglie, si sforzavano che i fanti tedeschi patissino manco che gli altri soldati. Dalle quali cose nutrendosi la speranza di Lautrech, si accrebbe molto piú per uno brigantino intercetto, il settimo dí di maggio, con lettere de' capitani a Cesare: per le quali significavano d'avere perduto il fiore dell'esercito; non essere in Napoli grano per uno mese e mezzo, ma fare le farine a forza di braccia; cominciare a fare qualche tumulto i tedeschi, né vi essere danari da pagargli; né avere piú le cose rimedio alcuno se non veniva presta provisione di vettovaglie, di danari e di soccorso per mare e per terra: aggiugnevasi l'essere cominciata in Napoli la peste, contagiosa molto dove sono soldati tedeschi, perché non si astengono da conversare con gli infetti né da maneggiare le cose loro. Pativa, da altra parte, l'esercito di acque perché da Poggioreale alla fronte dell'esercito non sono altro che cisterne, delle quali si serviva l'esercito; augumentavanvisi le infermità; e gli inimici, essendo molto superiori di cavalli leggieri, uscendo continuamente fuora, massime per la via che va a Somma; non solo conducevano dentro copia di carne e di vini ma spesso interrompevano le vettovaglie che venivano all'esercito franzese, il quale per questa cagione qualche volta ne pativa: né si facevano altre fazioni che scaramuccie. Ricordavangli molti che conducesse cavalli leggieri per potersi opporre a quegli degli inimici; il che recusava di fare, anzi permetteva che la maggiore parte de' cavalli franzesi si stesse distesa in Capua in Aversa e in Nola, il che agli inimici augumentava la facoltà di fare gli effetti sopradetti. Altri consigliavano che, essendo per le infermità diminuita la fanteria dell'esercito, conducesse in supplemento di quello (come anche, perché fusse piú potente, era stato desiderato insino da principio) sette o ottomila fanti; e questo anche, avendo già cominciato a denegarlo, recusava di fare, allegando mancargli danari; benché a quel tempo n'avesse di Francia comoda provisione, avesse riscossa l'entrata della dogana delle pecore di Puglia, riscotesse l'entrate delle terre prese, e i signori del regno che gli erano appresso fussino pronti a prestargli non piccola quantità di danari.

                                                 Scaramucciavasi ogni dí dalle bande nere, alloggiate nella fronte dell'esercito; le quali, traportate da troppo animo, si accostavano tanto alle mura di Napoli che da quelle erano offesi con gli archibusi; e non avendo nel ritirarsi cavalli alle spalle, erano ammazzati da' cavalli degli inimici: donde conoscendosi il disavvantaggio grande di fare le scaramuccie senza cavalli sotto alle mura di Napoli, cominciorono a non si fare cosí frequentemente. Arrendessi a Lautrech dopo la vittoria, Castello a mare di Stabbia ma non la fortezza; Gaeta si teneva per Cesare, nella quale era il cardinale Colonna con novecento fanti italiani e con i secento fanti che erano venuti di Spagna: benché il cardinale Colonna dimandasse a Lautrech salvocondotto per andare a Roma, il quale non gli concedette. Erasi similmente arrenduto San Germano; e avendo le genti che erano in Gaeta recuperato Fondi e il paese circostante, Lautrech vi mandò don Ferrando Gaietano, figliuolo del duca di Traietto, e il principe di Melfi (nuovamente, per avere i capitani imperiali tenuto poco conto di liberarlo, concordato co' franzesi); i quali facilmente di nuovo l'occuporono. Faceva e in Calavria Simone Romano progresso grande, per la prontezza de' popoli a riconoscere il nome franzese: come arebbe anche fatto Napoli, se non fusse stata la tardità di Lautrech; la quale almanco dette tempo a mettervi le vettovaglie delle terre circostanti.

                                                 Ma non bastavano queste cose a ottenere la vittoria della guerra, la quale dependeva totalmente o dallo acquisto o dalla difesa di Napoli, se o non si espugnava quella città o non se gli impedivano le vettovaglie con maggiore diligenza, per terra e per mare. Però, intento principalmente allo assedio, né disperando anche in tutto di potere prendere Napoli per forza, poiché erano morti tanti fanti spagnuoli nella battaglia navale, sollecitava la venuta delle armate franzese e viniziana, per privare del tutto quella città delle vettovaglie marittime. Mosse anche la fronte dello esercito piú innanzi, in su uno poggio piú vicino a Napoli e al monte di San Martino, dove fu fatta dalle bande nere una trincea, non solo per muovere da quel poggio una trincea la quale, distendendosi insino alla marina e avendo nella estremità sua a canto al mare uno bastione, chiudesse la strada di Somma, ma per tentare, come prima fussino venute l'armate, di pigliare per forza il monte di Santo Martino, fatta prima un'altra trincea tra la città e il monte di San Martino, acciò che non potessino soccorrere l'uno all'altro; e poi in uno tempo medesimo assaltare Napoli con l'armate dalla parte del mare, e per terra, battendo dalla fronte dello alloggiamento di dentro, e di fuora assaltarla con una parte dell'esercito, e con l'altra assaltare il monte; acciò che gli inimici, divise per necessità le forze in tanti luoghi, potessino piú facilmente essere superati da qualche banda; non abbandonato però, per l'essersi allungata la fronte dell'alloggiamento, Poggio Reale, perché gli inimici recuperandolo non gli privassino della comodità delle acque, ma ristrignendo per la coda l'alloggiamento. A' quali consigli bene considerati si opponevano molte difficoltà. Perché né le trincee lunghe piú di uno miglio insino al mare si potevano, per mancamento di guastatori e per le infermità de' soldati, lavorare con celerità; né venivano, come per l'assedio e per l'espugnazione sarebbe stato necessario, l'armate: perché Andrea Doria con le galee che erano a Genova non si moveva, dell'armata preparata a Marsilia non si intendeva cosa alcuna, e la viniziana intenta piú allo interesse proprio che al beneficio comune, anzi piú tosto agli interessi minori e accessori che agli interessi principali, attendeva alla espedizione di Brindisi e di Otranto. Delle quali città Otranto aveva convenuto di arrendersi se fra sedici dí non era soccorso, e Brindisi benché per accordo avesse ammesso i viniziani, si tenevano ancora le fortezze in nome di Cesare: quella di mare, forte in modo da non sperare di espugnarla; quella grande di dentro alla città, avendo perduto due rocchette, pareva non potesse piú resistere.

                                                 Ma veramente non è opera senza mercede il considerare che disordini partorisca la ostinazione di quegli che sono proposti alle cose grandi. Lautrech, senza dubbio primo capitano del regno di Francia, esperimentato lungamente nelle guerre e di autorità grandissima appresso all'esercito, ma di natura altiero e imperioso, mentre che credendo a sé solo disprezza i consigli di tutti gli altri, mentre che non vuole udire niuno, mentre si reputa infamia che gli uomini si accorghino che non sempre si governi per giudicio proprio, omesse quelle provisioni le quali, usate, sarebbono state forse cagione della vittoria, disprezzate, ridussono la impresa, cominciata con tanta speranza, in ultima ruina.

                                                 Piantossi a' dodici di maggio l'artiglieria in su il poggio, e batteva uno torrione che danneggiava molto la campagna. Tiravasi anche spesso nella terra ma con poco frutto, e si scaramucciava qualche volta a Santo Antonio. A' sedici, l'artiglieria piantata a Capo di Monte tirava a certi torrioni tra la porta di San Gennaro e la Capuana, e impediva fare uno bastione cominciato da quegli di dentro; e Filippino, che era allo intorno, pigliava tutto dí navi che andavano con grano a Napoli: dove la piú parte viveva di grano cotto, e ne usciva ogni dí gente assai; e i tedeschi, ancora che patissino manco che gli altri, protestavano spesso per mancamento di pane e molto piú di vino e di carne, di che vi si pativa molto: pure, oltre all'altre arti, erano intrattenuti assai con lettere false di soccorso. E da altra banda, nello esercito crescevano ogni dí l'infermità, delle quali morivano molti. Lavoravasi a' diciannove alle trincee nuove, con le quali piantandosi due cannoni in su il bastione, come e' fusse fatto, si sarebbeno rovinati due mulini presso alla Maddalena guardati da due bandiere di tedeschi, che non si erano mai tentati, per avere facile il soccorso di Napoli. Intratanto si scaramucciava spesso a Santo Antonio.

                                                 Insino qui non procedevano se non felici le cose de' franzesi: ma cominciorono per cagioni occulte, a piegarsi alla declinazione. Perché Filippino Doria, per ordine avuto segretamente, come si conobbe poi, da Andrea Doria, si era ritirato con le galee intorno a Pozzuolo; donde in Napoli, dove erano restati pochi altri che soldati, entrava sempre qualche quantità di vettovaglia in su le barche: e se bene l'armata [de'] viniziani, acquistato Otranto, dava speranza a ogn'ora di venire a Napoli, nondimeno differivano perché erano in speranza di avere presto il castello grande di Brindisi. Crescevano anche a ogn'ora nello esercito le malattie; e le bande nere, dove prima alle fazioni si rappresentavano piú di tremila, ora, tra feriti ammalati e morti, appena arrivavano a duemila. A' ventidue gli spagnuoli assoltorono quegli di fuora che erano alla difesa delle trincee nuove, dove si lavorava con speranza di finirle fra sei o otto dí; ed essendovi Orazio Baglione con pochi compagni, in luogo pericoloso, fu ammazzato combattendo: morte piú presto degna di privato soldato che di capitano. Dal quale disordine gl'imperiali presa speranza di maggiore successo uscirno di nuovo fuora molto grossi: ma messosi il campo in arme e fattosi forte alle trincee, si ritirorno. Ritornò pure di nuovo Filippino, per molta instanza che gli fu fatta, nel golfo di Napoli. E a' ventisette non erano ancora finite le trincee cominciate per serrare la via di verso Somma; e gli spagnuoli ogni dí correvano e rompevano le strade, conducendo dentro quantità grande di carnaggi: a che i cavalli del campo gli facevano poco ostacolo, perché cavalcavano rarissime volte. E Lautrech, cominciando a desiderare supplemento di fanti ma non cedendo in tutto a' consigli degli altri, instava che di Francia gli fussino mandati per mare seimila fanti di qualunque nazione, perché per la carestia e infermità ne partivano molti del campo; e in tante difficoltà cominciava a essere solo a sperare la vittoria, fondandosi in su la fame: né aveva però fatto altro progresso, intorno alle mura di Napoli, che levare l'acqua a uno mulino di che quegli di dentro si servivano.

                                                 Procedeva in questo tempo in Calavria Simone Romano, con dumila fanti tra corsi e paesani. Al quale benché si fussino opposti... Sanseverino principe di bisignano e... figliuolo di Alarcone con mille cinquecento fanti del paese, nondimeno difficilmente lo sostenevano; donde il figliuolo di Alarcone si ritirò in Taranto, lasciato il principe in campagna: ma poco dipoi Simone Romano acquistò Cosenza per accordo; e dipoi, nella occupazione di una terra vicina, prese il principe di Stigliano e il marchese di Laino suo figliuolo con due altri suoi figliuoli. Ma in Puglia, quegli che tenevano Manfredonia in nome di Cesare scorrevano per tutto il paese, non resistendo loro i cavalli e i fanti de' viniziani, i quali erano andati all'acquisto di quelle terre. Né erano al tutto quiete le cose in terra di Roma; perché Sciarra Colonna avendo preso Paliano, non ostante fusse stato difeso in nome del pontefice per la figliuola di Vespasiano, lo recuperò l'abate di Farfa, facendo prigioni Sciarra e Prospero da Cavi: benché Sciarra, per opera di Luigi da Gonzaga, si fuggisse.

                                                 Ma mentre che intorno a Napoli si travaglia con queste difficoltà e con queste speranze, Antonio de Leva, presentendo che la città di Pavia, nella quale era Pietro da Longhena con quattrocento cavalli e mille fanti de' viniziani, e Anibale Pizinardo castellano di Cremona, con [trecento] fanti, il quale vi era andato per mantenere a divozione del duca il paese di là dal Po, molto negligentemente si guardava, una notte allo improviso, con le scale da tre bande, non essendo sentito da i soldati, la prese di assalto. Restò prigione Pietro da Longhena e uno figlio di Ianus Fregoso. Andò poi Antonio de Leva a Biagrassa, e quegli di dentro aspettati pochissimi tiri d'artiglierie si arrenderono; e volendo poi andare ad Arona, Federigo Buorromei si accordò seco, obligandosi a seguitare le parti di Cesare.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.19, cap.2

                                                  

                                                 Arrivo di milizie tedesche in Italia. Assalti ed assedio di Lodi. Ritorno di quasi tutti i tedeschi in Germania; lentezza delle operazioni dei veneziani e dei francesi. Vane istanze dei collegati presso il pontefice perché si dichiari per loro. Brama del pontefice che sia restituito alla sua famiglia il potere in Firenze.

                                                  

                                                 Nel quale tempo Brunsvich, partito da Trento, aveva, il decimo dí di maggio, passato l'Adice con l'esercito, nel quale erano diecimila fanti, seicento cavalli bene armati, e tra loro molti gentiluomini, e quattrocento moschetti, con le zatte, e ributtato dalla Chiusa era sceso in veronese: e ancora che, presentendosi molto innanzi la venuta sua, fusse stato trattato che San Polo andasse all'opposito, nondimeno, non si usando maggiore diligenza in questa che nelle altre provisioni, erano i tedeschi in Italia innanzi che San Polo fusse in ordine di muoversi; il quale di poi fu necessitato a soggiornare molti dí in Asti, per raccôrre le genti e per la difficoltà delle vettovaglie, delle quali era, per tutta Italia ma in Lombardia specialmente, grandissima carestia. Né si poteva alle cose comuni sperare maggiore o piú pronto soccorso dal senato viniziano, il quale, se bene avesse affermato che l'esercito suo uscirebbe in campagna con dodicimila fanti, nondimeno il duca di Urbino, entrato in Verona, non pensava ad altro che alla difesa delle terre piú importanti del loro stato. Però discesi i tedeschi in su il lago di Garda ottennono Peschiera per accordo; il medesimo, Rivolta e Lunata: in modo che, padroni quasi di tutto il lago, riscotevano in molti luoghi taglie di denari, abbruciando quegli che erano impotenti a riscuotersi. Stimolavagli che andassino verso Genova Antoniotto Adorno, venuto in quello esercito; ma non avendo denari e avendo molte difficoltà, e per abboccarsi con Antonio de Leva uscito a questo effetto di Milano, camminavano lentamente per il bresciano; dove andorono a trovargli Andrea de Burgos e il capitano Giorgio, per mezzo de' quali si dubitava che il duca di Ferrara, il quale in tanto timore degli altri non faceva provisione alcuna, non tenesse con loro occultamente qualche pratica. Indirizzoronsi dipoi i tedeschi alla volta di Adda per unirsi con Antonio de Leva: il quale, avendo il nono dí di giugno passato il fiume di Adda, con seimila fanti e sedici pezzi grossi di artiglieria, e alloggiato appresso a loro propinqui a Bergamo a tre miglia (nella quale città il duca di Urbino, venuto a Brescia, aveva, e in Brescia e in Verona, divise le sue genti), persuase loro, per l'estremo desiderio che aveva di ricuperare Lodi, di attendere prima a ricuperare lo stato di Milano che passare a Napoli.

                                                 Cosí il vigesimo dí si posono col campo a quella città, della quale partendosi il duca di Milano e ritiratosi a Brescia, vi aveva lasciato Giampaolo fratello suo naturale con manco di tremila fanti; e avendo piantato l'artiglieria, Antonio de Leva, al quale toccava il primo assalto, accostò i fanti spagnuoli dove era la maggiore rovina. Combatterno tre ore ferocemente, ma non si dimostrando minore la costanza e la virtú de' fanti italiani che vi erano dentro furono ributtati; e diffidandosi potere piú ottenerla per assalto, ridusseno tutta la speranza del vincerla in su la fame: perché, non essendo ancora fatta la ricolta, era in Lodi carestia tale che non si distribuendo piú pane ad altri che a' soldati bisognava che quegli della terra o morissino di fame o uscissino fuora con grandissimo pericolo. Scrive in questo modo il Capella il progresso del duca di Brunsvich. Ma i registri contengono che i tedeschi batterono molti dí Sonzino, e che finalmente l'ottennono per accordo; e che molti di loro, presentatisi sbandatamente a Pizzichitone, furono ributtati. Tentorono dipoi invano Castellione, nella quale oppugnazione fu ammazzato al duca di Brunsvich il cavallo sotto; e che mentre che erano nel cremonese, il duca di Urbino, uscito di Brescia, prese per forza la terra di Palazuolo, nella quale erano Emilio e Sforza, fratelli, de' Mariscotti, con alcuni cavalli leggieri e fanti non pagati: Emilio restò prigione e Sforza si rifuggí nella rocca; alla quale venendo il soccorso, il duca di Urbino si ritirò a Pontevico. Ne' quali dí, o forse prima, in bresciano, il conte di Caiazzo condottiere de' viniziani prese il luogotenente del capitano Zucchero con molti cavalli. Andò dipoi il campo a Lodi, dove, per essere stata inondata gran parte del paese, non si poteva battere se non di verso Pavia. Che il vigesimo nono dí di giugno fu dato l'assalto eziandio da' tedeschi di Brunsvich e di Antonio de Leva, nel quale i tedeschi nuovi riportorono piccola laude.

                                                 Ma tra' tedeschi era già entrata la peste; e anche essendo carestia nello esercito, molti partendosi ritornavano, per le terre de' svizzeri e de' grigioni, alle patrie loro. A che non faceva molto diligenza in contrario Enrico duca di Brunsvich loro capitano; perché avendo in Germania, per l'esempio de' fanti condotti da Giorgio Fronspergh, conceputo grandissime speranze, gli riuscivano in Italia le cose piú difficili che non si aveva immaginato; ed essendogli mancati i denari, gli restava quasi impossibile tenere i fanti fermi intorno a Lodi non che condurgli nel regno di Napoli. Né Antonio de Leva gli somministrava denari, anzi gliene toglieva ogni speranza querelandosi sempre della povertà di Milano; perché, poiché ebbe perduto la speranza di ottenere Lodi, non pensava né attendeva ad altro che a dare loro causa di andarsene, dubitando non si fermassino in quello stato, e cosí avervi compagni al governo e alle prede: e aveva atteso, mentre che loro perdevano tempo, a fare battere i grani e le biade per tutto lo stato di Milano e portare le ricolte a Milano. Finalmente, dovendosi a' tredici di luglio dare nuovo assalto a Lodi, i tedeschi si ammutinorno e mille se ne andorono verso Como; gli altri, restati in grandissimo disordine, allargorono l'artiglieria da Lodi. Per il che temendosi che non se ne tornassino in Germania, il marchese del Guasto, avuto licenza da Andrea Doria per dieci dí, sopra la fede, andò a Milano per persuadere a Brunsvich che non ritornasse in Germania; ma non si potendo intrattenere con le parole, se ne andorono per via di Como, restandone di loro con Antonio da Leva, al quale si era in quegli dí arrenduta Mortara, circa dumila: essendo cosa certa che se fussino soprastati qualche dí piú lo pigliavano per mancamento di vivere. Nella quale espedizione fu desiderato da molti la prontezza del duca d'Urbino, di essersi, quando il campo era intorno a Lodi, accostato o a Crema o a Pizzichitone, o almeno tenutovi qualche somma di cavalli leggieri per infestargli; benché, quando erano nel bresciano, gli avesse qualche volta costeggiati, ma non sí accostando mai a loro piú di tre miglia e procedendo sicuramente: nondimeno, contento di difendere lo stato de' viniziani, non passò mai il fiume dell'Oglio. Non essendo anche stata piú pronta la passata di San Polo; il quale, non ostante tutti i disegni e le promesse fatte dal re di mandare per interesse suo gente contro a' tedeschi, non arrivò in Piemonte se non in tempo che già i tedeschi se ne andavano, e anche con numero di gente molto minore che non avevano publicato.

                                                 Non restavano perciò i collegati di fare di nuovo instanza col pontefice che si dichiarasse per loro, e che procedendo contro a Cesare con l'armi spirituali lo privasse dello imperio e del reame di Napoli. Il quale, poi che si fu scusato che, dichiarandosi, non sarebbe piú mezzo opportuno alla pace, che la dichiarazione sua susciterebbe maggiore incendio tra príncipi cristiani senza utilità de' collegati, per la povertà e impotenza sua, e la privazione di Cesare solleverebbe la Germania, per sospetto che e' non volesse applicare a sé la autorità di eleggere, ed eleggesse il re di Francia; dimostrava il pericolo imminente da' luterani, i quali ampliavano: finalmente, non potendo piú resistere, si offerse parato a entrarvi se i viniziani gli restituivano Ravenna, condizione proposta da lui come impossibile; offerendo anche a obligarsi a non molestare lo stato di Firenze. Però, il vigesimo dí di giugno, arrivorno a Vinegia il visconte di Turrena e oratori del re di Inghilterra a instare con quel senato: promettendo per lui l'osservanza delle promesse; ma non avendo potuto ottenerne altro partirono male sodisfatti.

                                                 Ricuperò in questi tempi il pontefice la città di Rimini; la quale, tentata prima invano da Giovanni da Sassatello, si arrendé finalmente con patti che fussino salve le robe e le persone. Ma già cominciavano a non si potere piú dissimulare i suoi piú profondi e piú occulti pensieri, dissimulati prima con molte arti: perché essendogli infissa nell'animo la cupidità di restituire alla famiglia sua la grandezza di Firenze, si era sforzato, publicando efficacissimamente il contrario, persuadere a' fiorentini niuno pensiero essere piú alieno da lui; né desiderare se non che quella republica lo riconoscesse solamente, secondo l'esempio degli altri príncipi cristiani, come pontefice e che nelle cose private non perseguitassino i suoi, né l'onore, le insegne e gli ornamenti propri della sua famiglia. Con le quali commissioni avendo, come fu liberato, mandato a Firenze uno prelato fiorentino per imbasciadore, né essendo stato udito, aveva molto instato, e per mezzo anche del re di Francia, che mandassino a lui uno imbasciadore; sforzandosi, con levare loro il sospetto e col dimesticarsi con loro, rendergli piú opportuni alle sue insidie. Ma tentate invano queste cose, si sforzò di persuadere a Lautrech che, essendo quegli che reggevano in Siena dependenti da Cesare, era espediente alle cose sue rimettervi Fabio Petrucci; il che, benché gli fusse capace, se ne astenne per la contradizione de' fiorentini. Non gli succedendo per questa via, operò occultamente che Pirro da Castel di Piero, pretendendo querele contro a' sanesi, occupò con ottocento fanti, per mezzo di alcuni fuorusciti di Chiusi, quella terra, per travagliare con questo mezzo il governo di Siena; ma avendo i fiorentini fatto capace il visconte di Turrena, oratore del re di Francia, il papa non tendere ad altro fine che di perturbare con l'opportunità di Siena le cose di Firenze, il visconte procurò col pontefice che 'l movimento di Chiusi si posasse. Il quale, nella venuta de' tedeschi, aveva, con l'aiuto del marchese di Mantova, guardato Parma e Piacenza.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.3

                                                  

                                                 Vicende della guerra in Calabria e negli Abruzzi. Bolla secreta del pontefice per l'annullamento del matrimonio del re d'Inghilterra. Condizioni degli imperiali in Napoli; condizioni degli assedianti. Fazioni di guerra sotto Napoli.

                                                  

                                                 Procedevano in questi tempi le cose del reame di Napoli variamente. Perché era venuto di Sicilia in Calavria il conte Burella con mille fanti, e unitosi con gli altri; e da altra parte Simone Romano aveva ottenuto con le mine la fortezza di Cosenza a discrezione (benché l'esservi stato ferito di uno archibuso nella spalla ritardò in qualche parte il corso della vittoria) e unitosi poi col duca di Somma, il quale con fanti del paese assediava Catanzaro, terra molto forte ma in necessità di vettovaglie, nella quale era il genero di Alarcone con dugento cavalli e mille fanti; la quale ottenendo restavano signori di tutto il paese insino alla Calavria soprana; ma la necessità gli costrinse a volgersi contro alle genti unitesi col soccorso venuto di Sicilia, le quali avevano già fatto qualche progresso. Ma essendo stato Simone abbandonato da una parte de' suoi fanti paesani, fu necessitato a ritirarsi nella rocca di Cosenza; gli altri fanti suoi, con morte di qualcuno, si risolverono; i corsi si andavano ritirando verso l'esercito: restando non solo la Calavria in pericolo ma temendosi che i vincitori non si indirizzassino verso Napoli. Ma per contrario ebbono nello Abruzzi prosperità le cose de' franzesi; perché essendosi appropinquato a dodici miglia all'Aquila il vescovo Colonna per sollevare lo Abruzzi fu rotto e morto dallo abate di Farfa, morti quattrocento fanti e circa ottocento prigioni. Intorno a Gaeta quegli di dentro, per la giunta del principe di Melfi, si andavano ritirando; e quelli di Manfredonia, per la poca virtú delle genti viniziane, facevano danno assai.

                                                 Perseverava in questo tempo il pontefice nella deliberazione di non dichiararsi per alcuno, ma, perché teneva diverse pratiche, già sospetto al re di Francia; né anche grato a Cesare, se non per altro perché aveva destinato legato in Inghilterra il cardinale Campegio, per trattare in quella isola la causa delegata a lui e al cardinale eboracense. Perché instando quel re per la declarazione della invalidità del primo matrimonio, il pontefice, il quale si era molto allargato di parole co' ministri suoi, perché trovandosi in piccola fede appresso agli altri si sforzava di conservarsi il suo patrocinio, fece secretissimamente una bolla decretale declaratoria che il matrimonio fusse invalido; la quale dette al cardinale Campegio e gli commesse che, mostratala al re e al cardinale eboracense, dicesse avere commissione di publicarla se nel giudicio la cognizione della causa non succedesse prosperamente; acciocché piú facilmente consentissino che la causa si conoscesse giuridicamente, e tollerassino con animo piú equo la lunghezza del giudicio, il quale aveva commesso al cardinale Campegio che allungasse quanto potesse, né desse la bolla se prima non aveva nuova commissione da lui; ma si sforzò di persuadergli (come anche è verisimile che allora avesse in animo) la intenzione sua essere che finalmente s'avesse a dare. Della quale destinazione del legato e delegazione della causa facevano querela grave in Roma gli imbasciadori cesarei, ma con minore autorità per la difficoltà che avevano le cose di Cesare nel regno napoletano.

                                                 Ma intorno a Napoli si scoprivano, per l'una parte e per l'altra, molte difficoltà; ma tali che, raccolte tutte le ragioni, si sperava piú presto la vittoria per i franzesi, ritardata dalla virtú e dalla ostinazione degli inimici. Perché in Napoli augumentava giornalmente la carestia, massime di vino e di carne, non vi entrando piú per mare cosa alcuna; con ciò sia che le galee de' viniziani, in numero ventidue, fussino, pure dopo sí lunga espettazione, giunte a' dieci dí di giugno nel golfo di Napoli: perché se bene i cavalli di dentro uscendo continuamente, non verso l'esercito ma in quelle parti nelle quali credevano potere trovare vettovaglie, riportassino quasi sempre prede, massime di carnaggi, nondimeno, benché giovassino molto, non erano tante che, privati della comodità del mare, potessino lungamente sostentarsi. Affliggevagli la peste grande, il mancamento de' danari, la difficoltà di sostenere i fanti tedeschi, ingannati molte volte da vane speranze e promesse, e de' quali qualcuno alla sfilata andava nello esercito inimico: benché a ritenergli potesse molto la grazia e l'autorità che aveva appresso a loro il principe di Oranges, restato per la morte di don Ugo con autorità di viceré: il quale fece prigione il capitano Catte guascone, delle reliquie del duca di Borbone, con molti de' suoi; e poco dipoi, per sospetto vano, fece il simigliante di Fabrizio Maramaus, benché presto lo liberasse. Da altra parte, nell'esercito franzese augumentavano continuamente le infermità; le quali erano cagione che Lautrech, per non avere a guardare tanto, non procedesse alla perfezione delle ultime trincee, le quali, anche per l'impedimento di certe acque tagliate, avevano difficoltà di finirsi. Era anche nello esercito carestia, piú per poco ordine che per altro. Nondimeno Lautrech sperava piú nelle necessità che erano in Napoli che non temeva delle sue difficoltà; e o per questa cagione, persuadendosi aversi presto a finire, o per mancamento di denari non faceva nuovi fanti, come da tutto lo esercito si desiderava per la diminuzione grande, per i morti e per gli infermi non solamente nelle genti basse e ne' soldati privati ma già nelle persone grandi e di autorità; perché il quintodecimo dí erano morti... nunzio del pontefice e Luigi Pisano proveditore viniziano. Sperava anche di fare passare all'esercito tutti o la maggiore parte de' fanti tedeschi, pratica nella quale, prima il marchese di Saluzzo e dappoi egli, avevano lungo tempo vanamente confidato. Le medesime cagioni, e la speranza che gli era data di fare passare all'esercito alcuni cavalli leggieri che erano in Napoli, lo ritenevano da soldare cavalli leggieri, sommamente necessari; i quali, se pure n'avesse soldati almeno quattrocento, gli sarebbeno stati di grandissima utilità. Però scorrevano i cavalli di dentro piú liberamente; benché, ritornando uno giorno a Napoli con uno grosso bottino di bestiame, rincontrate le bande nere che erano il nerbo dello esercito, e senza le quali non si sarebbe stato intorno a Napoli, lo tolsono loro con perdita di forse sessanta cavalli; non ostante che gli spagnuoli uscissino tutti di Napoli, ma tardi, per soccorrergli. Sperava Lautrech che gli inimici fussino necessitati a partirsi presto da Napoli; e perciò, volendo privargli della facoltà di ritirarsi in Gaeta, ordinò fusse guardata Capua e Castello a mare di Volturno. E per tôrre anche loro la facoltà di ritirarsi in Calavria, oltre al fare tagliare certi passi, ricominciò a fare lavorare alla trincea ricordata piú volte ma intermessa per vari dispareri; ripigliandola tanto alto che l'acque che impedivano restassino di sotto. E disegnava anche di mettere in fortezza uno casale molto vicino a Napoli e guardarlo con mille fanti, che per questo voleva soldare; favorendosi eziandio delle galee viniziane sorte al diritto della trincea: la quale serviva ancora a fare venire piú facilmente allo esercito le vettovaglie dalla marina, e a tagliare la strada agli inimici quando tornavano con le prede per quel cammino, perché, per i fossi grandi e l'acque tagliate di Poggioreale, si andava dallo esercito al mare per circuito grande e pericoloso. Sforzavansi gli imperiali impedire quegli che lavoravano alla trincea; alla quale essendo usciti uno dí molto grossi i guastatori, per ordine di Pietro Navarra, il quale sollecitava questa opera, si rifuggirono; in modo che seguitandogli incautamente gli imperiali furono condotti in una imboscata, e ne fu tra morti e feriti piú di cento. Nondimeno la trincea non era ancora ammezzata, quando per mancamento de' guastatori quando per altra cagione; perché la negligenza interrompeva spesso gli ordini buoni che spesso si facevano: ne' quali, per essere la strettezza di Napoli grandissima, se si fusse continuato, è giudicio di molti che Lautrech arebbe indubitatamente ottenuta la vittoria.

                                                 Succedette, ne' dí medesimi, occasione di grandissimo momento se tali fussino stati gli esecutori quali furono gli ordinatori: ma è infelicità eccessiva di uno principe quando, come spesso accade al re di Francia co' suoi franzesi, la negligenza e piccola cura de' suoi ministri perverte i consigli buoni. Presentí Lautrech che i soldati di Napoli erano, per predare, usciti fuora per la via di Piè di Grotta molto grossi; però, per opprimergli, mandò, la notte de' venticinque dí di giugno, i fanti delle bande nere i cavalli de' fiorentini e settanta lancie franzesi e una banda di svizzeri, tedeschi e guasconi alla volta di Belvedere e di Piè di Grotta per incontrargli; e per impedire loro il ritirarsi ordinò che il capitano Buria co' fanti guasconi, postosi in sul monte eminente alla Grotta, scendesse subito levato il romore, per impedire che gli inimici non potessino entrare nella Grotta. Succedette il principio di questa fazione felicemente, perché le genti di Lautrech avendogli incontrati gli combatterno e messeno in fuga; avendo tra morti e presi piú che trecento uomini e cento cavalli utili e moltissime bagaglie. Fu scavalcato nel combattere don Ferrando da Gonzaga e fatto prigione, ma la furia de' tedeschi lo riscattò. Ma il capitano Buria, o per negligenza o per timore, non si rappresentò al luogo destinato; il che se avesse fatto si crede sarebbeno periti tutti. Aveva anche Lautrech mandato a Gaeta sei galee de' viniziani, e due ne erano restate alla bocca del Garigliano, per dare favore al principe di Melfi; e perché le galee non potevano proibire che con le fregate non entrasse in Napoli qualche rinfrescamento, messe in mare certe piccole barchette per impedirle; ordinò anche che i bestiami si discostassino, per tutto, quindici miglia da Napoli, perché non fussino cosí facili a essere tolti dagli imperiali. I quali in tutte le scaramuccie ricevevano danno, quando non si facevano nel forte loro.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.4

                                                  

                                                 Defezione di Andrea Doria dal re di Francia. Accordi del Doria con Cesare; l'armata del Doria lascia il porto di Napoli. Insuccessi dei collegati sotto Napoli. Tardi provvedimenti presi dal Lautrech. Cattive condizioni dell'esercito dei collegati; morte del Lautrech. Rotta dei collegati. Cause dell'infelice fine dell'impresa.

                                                  

                                                 Ma nuovo accidente che si scoperse, e del quale era molto prima apparito qualche indizio, perturbò gravemente le cose franzesi: perché Andrea Doria deliberò di partirsi dagli stipendi del re di Francia, ai quali era obligato per tutto il mese di giugno; deliberazione, per quel che si potette congetturare, fatta piú mesi innanzi; donde era proceduto che ritiratosi a Genova non era voluto andare con le galee nel regno di Napoli, e che offerendogli il re di farlo capitano della armata la quale si preparava a Marsilia lo recusò, allegando che per la età era inabile a tollerare piú queste fatiche. La origine di tale deliberazione si attribuiva poi, da lui e da altri, a varie cagioni. Esso si lamentava che il re, dopo l'averlo servito con tanta fedeltà cinque anni, avesse fatto ammiraglio e dato la cura del mare a monsignore di Barbigios; quasi parendogli conveniente che 'l re, dopo la sua recusazione, avesse dovuto replicare e fargli instanza che la accettasse: che non lo pagasse di ventimila ducati degli stipendi passati, senza i quali non poteva sostentare le sue galee: non avere voluto sodisfare a' giusti prieghi suoi di restituire a' genovesi la solita superiorità di Savona, anzi essersi trattato nel consiglio regio di farlo decapitare, come uomo che troppo superbamente usasse la sua autorità. Altri allegavano essere stata la prima origine della sua indignazione le contenzioni succedute tra Renzo da Ceri e lui nella impresa di Sardegna, nella quale pareva che il re avesse piú udito la relazione di Renzo che le sue giustificazioni: essersi sdegnato per la instanza grande fattagli dal re che gli concedesse i prigioni; i quali come cosa importante molto desiderava, massime il marchese del Guasto e Ascanio Colonna, benché con offerta di pagargli la taglia loro. Allegoronsi queste e altre cagioni; ma si credette poi che la vera, la principale fusse non tanto lo sdegno di non essere stato tenuto conto da' franzesi di lui quanto gli pareva meritare, o qualche altra mala sodisfazione, quanto che, pensando alla libertà di Genova, per introdurre sotto nome della libertà della patria la sua grandezza né potendo conseguire questo fine con altro modo, avesse deliberato non seguitare piú gli stipendi del re, né aiutarlo di conseguire con le sue galee la vittoria di Napoli: come si credeva che, per interrompere l'acquisto di Sicilia, avesse proposta la impresa di Sardigna. Però, indirizzato l'animo a questi pensieri, trattava per mezzo del marchese del Guasto di condursi con Cesare; non ostante la professione dell'odio grande che, per la memoria del sacco di Genova, aveva fatta, molti anni, contro alla nazione spagnuola, e la acerbità con la quale gli aveva trattati, quando alcuno di loro era venuto nelle sue mani. Ma procedendo simulatamente, non era ancora noto al re il suo disegno; però non era stato sollecito a procurare i rimedi a infermità tanto importante, ancora che n'avesse conceputo qualche sospetto; perché fu presa una sua galea che portava in Spagna uno spagnuolo mandato sotto pretesto della taglia di certi prigioni, al quale si trovò una lettera credenziale di Andrea Doria a Cesare: benché, per le querele sue grandi, gli fu permesso che senza essere esaminato continuasse il suo cammino. Finalmente, essendo arrivato Barbigios con quattordici galee a Savona, Andrea Doria, temendo di lui, si ritirò da Genova con le sue galee e co' prigioni a Lerice: la qualcosa come il re intese, gustando il pericolo quando era fatto irrimediabile, mandò a lui Pierfrancesco da Nocera per ricondurlo agli stipendi suoi; per il quale gli offerse sodisfare al desiderio suo delle cose di Savona, pagargli i ventimila ducati de' soldi corsi, pagargli altri ventimila ducati per la taglia del principe di Oranges, preso altre volte da lui e dipoi liberato dal re quando a Madril fece la pace con Cesare; e in caso volesse concedergli i prigioni, pagare, innanzi uscissino delle sue mani, la taglia loro; quando anche recusasse di concedergli, non volere il re gravarnelo. Non prestò il Doria orecchi a queste offerte, giustificando la partita sua dal re con le querele; donde Barbigios fu forzato, con detrimento grande delle cose del reame di Napoli, soprastare a Savona: nondimeno, passando poi piú innanzi, lasciò per la guardia di Genova cinquecento fanti a dieci miglia appresso a quella città, perché dentro era peste grandissima; e per la medesima cagione pose in terra, trenta miglia appresso a Genova, mille dugento fanti tedeschi venuti nuovamente: i quali avevano avuta la prima paga da' franzesi, ma per non avere i viniziani pagata la seconda, come erano obligati, fu necessario che il Triulzio governatore di Genova gli provedesse.

                                                 In queste agitazioni del Doria, il pontefice, presentendo quel che trattava con Cesare, significò il vigesimo primo dí di giugno la cosa a Lautrech, dimandandogli il consenso di condurlo agli stipendi suoi per privarne Cesare, e affermandogli che Filippino con le galee partirebbe tra dieci dí da Napoli: perciò Lautrech restituí a Filippino, per non lo esasperare, il secretario Serone, ritenuto sempre per avere lume da lui di molte cose secrete; e nondimeno, per sospetto già conceputo del pontefice, interpetrò sinistramente lo avviso suo. Finalmente Andrea Doria, benché Barbigios, nel passare innanzi con l'armata, che era di diciannove galee due fuste e quattro brigantini e vi era su il principe di Navarra, avesse parlato seco, non dissimulando piú quel che aveva in animo di fare, mandò uno uomo suo a Cesare in compagnia del generale, creato cardinale, mandato dal pontefice, a stabilire le sue convenzioni; le quali furono: la libertà di Genova sotto la protezione di Cesare, la suggezione di Savona a' genovesi, venia a lui che tanto aveva perseguitato il nome spagnuolo, condotto a servizio di Cesare con dodici galee e per soldo sessantamila ducati l'anno; e con altri patti molto onorevoli. Per le quali cose Filippino con tutte le galee partí, il quarto dí di luglio, da Napoli: la partita del quale, procedendo come già aveva cominciato a procedere, non noceva a' franzesi se non per la riputazione; perché, già molti dí, non solo faceva mala guardia, anzi talvolta i suoi brigantini conducevano furtivamente vettovaglia in Napoli; ed egli, oltre allo avere parlato con alcuni di Napoli, aveva portato i figliuoli di Antonio de Leva a Gaeta e fatto, molti dí, spalle che in Napoli entrassino vettovaglie. Ma se avesse servito fedelmente, come nel principio, n'arebbono ricevuto danno gravissimo. Perciò sollecitava tanto piú Lautrech la venuta della armata franzese: la quale si era fermata con somma imprudenza, per ordine del pontefice, a pigliare Civitavecchia.

                                                 Per la partita di Filippino con le galee, l'armata viniziana, la quale aveva preso l'assunto di lavorare dalla marina insino rincontrasse la trincea di Pietro Navarra, fu necessitata intermettere per attendere alla guardia del mare: il quale perché stesse piú serrato, si era ordinato che alcune fregate armate scorressino dí e notte la costa; e si usava anche per terra maggiore diligenza, opponendosi agli spagnuoli, che ogni dí scorrevano ma incontrati fuggivano senza combattere: in modo che Napoli era ridotto in estrema necessità, e i tedeschi protestavano di partirsi se presto non fussino soccorsi di danari e di vettovaglie. Donde Lautrech, sostentandolo assai la speranza di queste cose, si persuadeva che, per la pratica tenuta lungamente con loro, di giorno in giorno passerebbono allo esercito. Ma il quintodecimo dí di luglio le galee viniziane, eccetto quelle che erano intorno a Gaeta, ritornorono in Calavria per provedersi di biscotti; e però, essendo restato il porto aperto, entrorono in Napoli molte fregate con vettovaglie di ogni sorte, da vino in fuora, cosa molto opportuna perché in Napoli non era grano per tutto luglio. Ma nell'esercito, nel quale era anche passata la peste per contagione di genti uscite di Napoli, moltiplicavano grandemente le solite infermità. Valdemonte era vicino alla morte, e ammalato Lautrech: per la infermità del quale disordinandosi le cose, gl'imperiali, i quali correvano senza ostacolo per tutte le strade, tolseno le vettovaglie che venivano allo esercito che ne aveva strettezza. E nondimeno non si soldavano nuovi cavalli leggieri, anzi Valerio Orsino, condottiere de' viniziani, con cento cavalli leggieri si partí dello esercito per non essere pagato, e gli altri cavalli leggieri parte si erano partiti per non essere pagati parte per le infermità erano inutili; la gente d'arme franzese si era ridotta in guarnigione alle terre circostanti, e i guasconi sparsi per il paese attendevano a fare le ricolte e guadagnare. Speravasi pure ne fanti, i quali si diceva condurre l'armata: la quale, soprastata piú di venti dí da poi che si era partita da Livorno, arrivò finalmente il decimo ottavo dí di luglio con molti gentiluomini e con denari per lo esercito; ma non aveva se non ottocento fanti, perché gli altri che portava erano restati parte per la guardia di Genova parte alla impresa della fortezza di [Civitavecchia]. Alla venuta della quale avendo Lautrech mandato gente alla marina per ricevere i denari, non potetteno le galee per il mare grosso venire a terra; però vi ritornò, il dí seguente, il marchese di Saluzzo con le sue lance e con grossa banda di guasconi svizzeri e tedeschi e con le bande nere, ma nel ritorno loro incontrorono gl'imperiali che erano usciti grossi di Napoli, i quali caricorono in modo i cavalli franzesi, che voltorno le spalle e nel fuggirsi urtorono talmente i fanti loro medesimi che gli disordinorono; e trovandosi il conte Ugo de' Peppoli, che dopo la morte di Orazio Baglione era succeduto nel governo delle genti de' fiorentini, a piede con quaranta archibusieri, innanzi alla battaglia delle bande nere uno tiro di archibuso, restò prigione de' cavalli: e fu tale lo impeto degl'imperiali che se la battaglia delle bande nere non gli riteneva facevano grande strage; perché combatterono, massime la cavalleria loro, egregiamente. Restorono morti piú di cento e altrettanti presi, tra' quali parecchi gentiluomini franzesi smontati dall'armata; e fu preso anche Ciandalé nipote di Saluzzo: nondimeno, i denari si condusseno salvi. E fu attribuito il disordine a' cavalli franzesi, molto inferiori di virtú a' cavalli degl'inimici: donde si diminuiva l'animo a' fanti dello esercito, conoscendo non potersi fidare del soccorso de' cavalli.

                                                 Ma aveva nociuto sommamente all'esercito la infermità di Lautrech, il quale benché si sforzasse di sostentare con la virtú dell'animo la debolezza del corpo nondimeno non poteva né vedere né provedere a tutte le cose, le quali continuamente declinavano; perché gli imperiali, scorrendo fuori, non solo si provedevano di tutti i bisogni, eccetto il vino che non potevano condurre, ma toglievano spesso le vettovaglie dello esercito, toglievano le bagaglie e i saccomanni insino in su' ripari e i cavalli insino allo abbeveratoio; in modo che allo esercito, diminuito molto per le infermità, cominciavano a mancare le cose necessarie, diventato di assediante, assediato e in pericolo; e se non si fusse fatto guardia a' passi tutti i fanti sarebbeno fuggiti: e per contrario in Napoli, crescendo e le comodità e la speranza, i tedeschi non piú tumultuavano, e gli altri pigliavano in gloria il patire. Da' quali pericoli tanto manifesti vinta pure finalmente la pertinacia di Lautrech (il quale, pochi dí innanzi, aveva spedito in Francia perché mandassino per mare semila fanti), mandò Renzo, venuto credo in su l'armata, verso l'Aquila perché conducesse quattromila fanti e secento cavalli, assegnandogli il tesoriere dell'Aquila e dello Abruzzi; il quale prometteva condurgli in campo in brevi dí; provisione che, fatta prima, sarebbe stata di somma utilità.

                                                 A' ventinove erano rotte le strade, che, non che altro, insino a Capua, quale avevano alle spalle, non si andava sicuro; e nello esercito, ammalato quasi ognuno: Lautrech, sollevatosi prima dalla febbre, ritornato in maggiore indisposizione che il solito; la gente d'arme quasi tutta sparsa per le ville, o per essere ammalati o per rinfrescarsi sotto quella scusa, e i fanti quasi ridotti a niente; ed essendo in Napoli declinata la peste e l'altre infermità, per le quali erano ridotti a settemila fanti (altri dicono a cinquemila), si temeva non assaltassino il campo. Però Lautrech fermò i cinquecento fanti di Renzo mandati dopo la rotta di Simone, per impedire che le genti inimiche di Calavria non venissino verso Napoli, e mandò intorno nel paese a soldarne mille; condusse il duca di Nola con dugento cavalli leggieri e Rinuccio da Farnese con cento, che promettevano menargli presto; chiamò dugento stradiotti de' viniziani dalla impresa di Taranto, rivocò con gravi pene tutti gli uomini d'arme sani: sollecitava ogni dí Renzo; e riscaldava, ma tardi, con grandissima veemenza ed efficacia tutte le provisioni. A' due di agosto non erano nel campo franzese pure cento cavalli, e gli imperiali correvano ogni dí in su le trincee; e la notte dinanzi avevano scalato e saccheggiato Somma, dove era una banda d'uomini d'arme e di cavalli leggieri. Però Lautrech, vedendosi quasi assediato, sollecitava San Polo che gli mandasse gente per mare, e i fiorentini che voltassino a lui dumila fanti i quali avevano ordinato di mandare a San Polo; i quali prontamente lo consentivano. Era morto in campo Candela, lasciato in su la fede; era malato il Navarra, Valdemonte, Paolo Cammillo da Triulzi, il maestro del campo nuovo e vecchio, M. Ambrogio da Firenze; Lautrech era ricaduto; ammalati tutti gli oratori, tutti i segretari e tutti gli uomini di conto, da Saluzzo e il conte Guido in fuora; né si trovava in tutto il campo quasi una persona sana. Morivano i fanti di fame, ed essendo mancate quasi tutte le cisterne vi si pativa anche di acqua; gli imperiali padroni di tutta la campagna; né poteva fare altro l'esercito che starsi nel suo forte a buona guardia, aspettando il soccorso, che non poteva esservi fra quindici dí: e la negligenza anche accresceva i disordini. Roppeno poi gli spagnuoli l'acqua di Poggioreale, e benché si rassettasse non si usava senza grave pericolo. Aspettava Lautrech fra due dí il duca di Somma con mille cinquecento fanti, e presto i cavalli e fanti dello abate di Farfa; il quale Lautrech, poi che aveva rotto il vescovo Colonna, aveva mandato a chiamare. E a' sei si era avuta per accordo la fortezza di Castello a mare, importante per poter ridurre le galee in quel porto; e si disegnava pigliare quella di Baia. Ritornorono le galee de' viniziani malissimo armate, e sí male proviste di vettovaglie che bisognava che per guadagnare da vivere, lasciata la cura del guardare il porto di Napoli, scorressino per le marine circostanti. Agli otto gli spagnuoli, tornati a Somma, di nuovo la spogliorono; e preseno ogni resto di cavalli che vi aveva il conte Guido in guarnigione: e spesso in campo non era da mangiare. Assaltorono due dí innanzi la scorta delle vettovaglie con la quale erano dugento tedeschi, che rifuggiti in due case si arrenderono vilmente. E accresceva tutte le incomodità il circuito dello alloggiamento, che insino da principio era stato giudicato troppo grande, il che faceva pericolo e consumava i fanti per le troppe fazioni; e nondimeno Lautrech, intrattenendosi in su la speranza di Renzo, non voleva udire di ristrignerlo: e ancora non bene riavuto scorreva per tutto il campo, per mantenere gli ordini e le guardie, temendo non fusse assaltato. Declinavano le cose giornalmente, in modo che a' quindici, per la troppa potenza de' cavalli imperiali, non era piú commercio tra il campo e le galee; né potevano quegli del campo, per non avere cavalli, uscire delle strade. Davasi ogni notte all'arme due o tre volte: però gli uomini, consumati da tante fatiche e incomodità, non potevano andare alle scorte delle vettovaglie quanto bisognava. E quel che aggravò tutti i disordini fu che, la notte medesima venendo i sedici, morí Lautrech, in su l'autorità e virtú del quale si riposavano tutte le cose: credendosi per certo che le fatiche grandi, che aveva, avessino rinnovato la sua infermità.

                                                 Restò il pondo del governo nel marchese di Saluzzo, non pari a tanto peso. E moltiplicando ogni dí i disordini, e arrivato Andrea Doria, come soldato di Cesare, con dodici galee a Gaeta, in modo che l'armata franzese allentò la guardia, il conte di Sarni, con mille fanti spagnuoli, prese Sarni; cacciatine trecento fanti che vi erano alle stanze: dipoi andato il vigesimo secondo dí di agosto, con piú gente, di notte, a Nola, la prese. E Valerio Orsino che vi era a guardia si ritirò nella fortezza, dicendo essere ingannato da' paesani. E avendo mandato a Saluzzo per soccorso, gli promesse dumila fanti. Ma scrive il Borgia che il messo, preso nello andare, per riavere la moglie e i figliuoli che erano in Nola, fece la spia al conte di Sarni; e che però, venendo di notte, i fanti del campo, assaltati dalle genti di Napoli furono rotti. Altri, non facendo menzione di questo stratagemma, dicono che i franzesi vi andorono la notte seguente, e non la pigliorono. A' ventitré il campo, quasi senza gente e senza governo, si sostentava solo dalla speranza della venuta di Renzo, che ancora era all'Aquila; non desiderato piú per pigliare Napoli né per speranza di potere resistere in quello alloggiamento, ma solo per potersi levare sicuramente. Era morto Valdemonte, e il marchese di Saluzzo, conte Guido, conte Ugo e Pietro Navarra ammalati. E Maramaus uscí fuora con quattrocento fanti per privargli in tutto delle vettovaglie, e trovato Capua quasi abbandonata vi entrò dentro: per il che i franzesi, abbandonato Pozzuolo, messeno la guardia che vi era in Aversa, molto importante al campo. Ma perduta Capua e Nola restavano serrate quasi tutte le vettovaglie, in modo che, non potendo piú sostenersi, per ultimo partito si levorono una notte per ritirarsi in Aversa; ma presentita dagl'imperiali, che stavano intenti a questo caso, la levata loro, gli ruppeno nel cammino: dove fu preso Pietro Navarra e il principe di Navarra e molti altri capi e uomini di ogni condizione; e il marchese di Saluzzo si ritirò con una parte in Aversa. Dove avendolo seguitato gl'imperiali, non potendo difendersi, mandato fuori il conte Guido Rangone a parlare col principe di Oranges, capitolò per mezzo suo con lui: di lasciare Aversa con la fortezza, artiglierie e munizioni; restasse lui e gli altri capitani prigioni, dal conte Guido in fuora, al quale, in premio della concordia o per altra causa, fu consentita la libertà; facesse il marchese ogni opera che i franzesi e i viniziani restituissino tutto il regno; i soldati e quegli che per lo accordo restavano liberi lasciassino le bandiere l'armi i cavalli e le robe, concedendo però a quegli di piú qualità ronzini muli e cortialti; i soldati italiani non servissino per sei mesi contro a Cesare. Cosí restò tutta la gente rotta, e tutti i capitani o morti o presi nella fuga, o nello accordo restati prigioni. Aversa fu saccheggiata dallo esercito imperiale, che si ritirò poi a Napoli, dimandando otto paghe; Renzo che il dí seguente si era appressato a Capua, il principe di Melfi, lo abate di Farfa, inteso il caso, se ne andorono in Abruzzi: il quale paese solo e qualche terra di Puglia e di Calavria si tenevano in nome de' confederati.

                                                 Questo fine ebbe la impresa del regno di Napoli, disordinata per molte cagioni ma condotta all'ultimo precipizio per due cagioni principalmente: l'una, per le infermità causate in grande parte dallo avere tagliato gli acquidotti di Poggioreale per tôrre a Napoli la facoltà del macinare, perché l'acqua sparsa per il piano, non avendo esito, corroppe l'aria, donde i franzesi intemperanti e impazienti del caldo si ammalorono (aggiunsesi la peste, la contagione della quale penetrò per alcuni infetti di peste mandati studiosamente da Napoli nello esercito); l'altra, che Lautrech, il quale aveva menati di Francia la maggiore parte de' capi esperimentati nelle guerre, sperando piú che non era conveniente, né si ricordando essergli stato di poco onore l'avere, quando era alla difesa dello stato di Milano, scritto al suo re che impedirebbe agli inimici il passo del fiume dell'Adda, aveva in questo assedio scrittogli molte volte che piglierebbe Napoli. Perciò, per non fare da se stesso falso il suo giudicio, stette ostinato a non si levare, contro al parere degli altri capitani, che vedendo il campo pieno di infermità lo consigliavano a ritirarlo a Capua o in qualche altro luogo salvo; perché avendo in mano quasi tutto il regno non gli sarebbe mancato né vettovaglie né denari, e arebbe consumato gli imperiali a' quali mancava ogni cosa.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.5

                                                  

                                                 Accordi fra i comandanti dei francesi e dei veneziani in Lombardia. Forze e movimenti degli eserciti avversari. Perdita di Genova da parte dei francesi. Presa e sacco di Pavia da parte dei collegati.

                                                  

                                                 Non erano in questo mezzo state le cose di Lombardia senza travaglio: perché San Polo, raccolte le genti e la provisione delle vettovaglie, prese di là dal Po alcune terre e castella occupate prima da Antonio da Leva, che a' tre di agosto era alla Torretta attendendo a condurre piú vettovaglie poteva in Milano, dove non era piú persona di conto, e in tutto lo stato erano sí strette le ricolte che non vi era da vivere per otto mesi solamente per gli uomini del paese; dipoi si ritirò a Marignano, non potendo anche, per mancamento di denari, soprastare molto in quel luogo. Al quale tempo, il duca d'Urbino era ancora a Brescia e San Polo a Castelnuovo di Tortona: donde venuto a Piacenza si abboccorono, agli undici dí, a Monticelli in sul Po, dove si conchiuse che gli eserciti si unissino intorno a Lodi. Passò poi San Polo il Po presso a Cremona, essendogli comportato tacitamente a Piacenza che avesse barche per fare il ponte; e però Antonio de Leva, che aveva il ponte a Casciano e a sua divozione Caravaggio e Trevi, levò il ponte e abbandonò i luoghi di Ghiaradadda, come prima anche aveva abbandonata Novara; ma in Pavia aveva messi settecento fanti e in Santo Angelo cinquecento. Fu anche deliberato che il Vistarino con seicento fanti andasse alla impresa di Casé, in su la riva del Po dicontro a Tortona, perché impediva assai le vettovaglie.

                                                 Aveva San Polo quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri mille cinquecento fanti tedeschi a pagamento, ma in numero, per la negligenza di San Polo e per la fraude de' ministri suoi, molto minore; per i quali, e per gli altri tedeschi e svizzeri che si aspettavano, avevano convenuto i viniziani di pagare ciascuno mese a San Polo dodicimila ducati; e in campo trecento svizzeri, pagati a Ivrea per novecento, e tremila fanti franzesi. Avevano i viniziani trecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e seimila fanti, e il duca di Milano piú di duemila fanti eletti; il Leva quattromila tedeschi mille spagnuoli tremila italiani e trecento cavalli leggieri. Passorono le genti de' collegati Adda (avendo, secondo scrive l'oratore fiorentino, avuto, se il duca di Urbino avesse voluto, grande occasione di rompere Antonio de Leva), e si unirono a' ventidue di agosto; stando ancora fermo Antonio de Leva a Marignano. Da quello alloggiamento mandò il duca di Urbino a Santo Angelo tremila fanti e trecento cavalli leggieri con sei cannoni, sotto Giovanni di Naldo, che nello accamparsi fu morto da una artiglieria: però vi andò egli in persona, e l'ottenne. Alloggiorono il vigesimo quinto dí di agosto a San Zenone, in sul fiume del Lambro, propinquo a due miglia e mezzo a Marignano. A' ventisette le genti de' collegati, passato Lambro, si accostorono a Marignano; i quali accostandosi, gli spagnuoli si ritrassono in Marignano a uno riparo vecchio; e dopo scaramuccia di piú ore uscirono al largo, e si credette volessino combattere; e tirato per una ora da ogni banda, approssimandosi già la notte, si ritirorno in Marignano e Riozzo, e in su lo alloggiare il campo l'assaltorono bravamente. E a' ventiotto si ritirò Antonio de Leva con tutta la gente a Milano, i collegati a Landriano. Consultossi dipoi se fusse da tentare di sforzare Milano: il che mentre si praticava, andò lo esercito a Loccà con disegno di entrare in Milano per furto; che fu interrotto da una pioggia grossa che impedí, per la trista via, andare a porta Vercellina dove si aveva a entrare. Però, esclusi da questo disegno, ed essendo riferito, da chi fu mandato a riconoscere Milano, non essere riuscibile quella impresa, si deliberò di andare, per il cammino di Biagrassa, che altro non si poteva fare, a campo Pavia; sperando pigliarla facilmente, perché non vi erano piú di dugento fanti tedeschi e ottocento italiani. Cosí andando a quella volta, spinti certi fanti di là dal Tesino, fu preso Vigevano; e a' nove dí di settembre era San Polo a Santo Alesso, a tre miglia di Pavia: dove accostatisi l'uno e l'altro esercito, sopravenne avviso che gli messe in maggiore disputazione.

                                                 Perché, essendo in Genova la peste grandissima e per questo abbandonata quasi da ciascuno, eziandio quasi da tutti i soldati, e per il medesimo pericolo Teodoro governatore ritiratosi in castello, Andrea Doria, presa questa occasione, si approssimò alla città con alcune galee ma, non avendo piú che cinquecento fanti, con poca speranza di sforzarla. Ma l'armata franzese che era nel porto, temendo non gli fusse chiuso il cammino di andarsene in Francia, senza avere cura alcuna di Genova, si partí verso Savona; dove la prima che arrivasse fu la galea di Barbigios: benché alcuni dichino che Andrea Doria l'assaltò e prese sei galee, l'altre fuggirono. Donde essendo nella città pochi soldati, se bene Teodoro fusse tornato ad abitare nel palazzo, e il popolo, per la ingiuria della libertà data a Savona, inimico al nome di Francia, il Doria, avuta poca resistenza, vi entrò dentro. Fu cagione di tanta perdita la negligenza e il troppo promettersi del re, perché non pensando che le cose sue nel regno di Napoli cadessino sí presto, e persuadendosi che, in ogni caso, la ritirata dell'armata a Genova e la vicinità di San Polo bastassino a salvarla, pretermesse di farvi le provisioni necessarie. E Teodoro, ritirato nel castello, dimandava soccorso a San Polo, dando speranza di ricuperare la terra se gli fussino mandati subito tremila fanti. Sopra che consultandosi tra i capitani de' collegati, i franzesi erano disposti a andarvi subito con tutto il campo; e il duca d'Urbino mostrava che il provedere le barche per fare uno ponte in su Po, e il provedere le vettovaglie, era cosa piú lunga che non ricercava il bisogno presente: però, secondo il suo consiglio, si risolvé che Montigian voltasse, da Alessandria dove erano arrivati, a Genova tremila fanti tedeschi e svizzeri, i quali venivano all'esercito di San Polo; e quando pure non volessino andare gli conducesse in campo, e in cambio loro vi si mandassino tremila altri fanti; che intratanto si attendesse a strignere Pavia. E i viniziani davano intenzione, eziandio in caso non si pigliasse, soccorrere Genova con tutte le genti, purché restassino assicurati delle cose da quella banda.

                                                 Continuossi adunque la oppugnazione di Pavia: per la quale, a' quattordici, erano stati piantati in su il Tesino, di qua, al piano della banda di sotto, nove cannoni a uno bastione appiccato con l'arzanà, che in poche ore lo rovinorono quasi mezzo; e di là dal Tesino tre cannoni, per battere, quando si desse lo assalto, uno fianco che risponde all'arzanà; e in su uno colle di qua dal Tesino cinque cannoni che battevano due altri bastioni, e al finire del colle tre altri che tiravano alla muraglia: tutta artiglieria de' viniziani. Poi l'artiglieria di San Polo che levava le difese. E il dí seguente, Annibale castellano di Cremona si era condotto con una trincea in su il fosso del bastione del canto dell'arzanà, che era già giú piú che i due terzi; in modo che quegli dentro l'avevano quasi abbandonato: il quale dí fu morto da una artiglieria Malatesta da Sogliano condottiere de' viniziani. Cosí, continuato a battere tutto [il] dí e la notte seguente, si preparò l'esercito per dare la battaglia, essendo da ogni banda de' tre bastioni gittata muraglia assai; ma volendo la mattina cavare l'acqua de' fossi, vi trovorono uno muro sí gagliardo che vi consumorono tutto il dí ed eziandio il dí seguente, tanto che l'assalto si prolungò insino a' dí diciannove, essendo levata quasi tutta l'acqua. Nel quale dí, essendo al principio della mattina stato preso il bastione del canto, si cominciò a dare l'assalto; del quale, essendo divisa la gente in tre parti, toccava il primo assalto a Antonio da Castello con le genti de' viniziani, il secondo a Lorges con quelle di San Polo, l'ultimo al castellano con le genti di Milano, che (secondo il Cappella) erano mille dugento fanti; e il duca d'Urbino si messe a piede con dugento uomini d'arme e affrontò i bastioni, che si difeseno piú di due ore. Scrive il Cappella che dentro non erano piú che dugento tedeschi e ottocento italiani, che benché si portassino egregiamente, pure, per il poco numero, si difendevano con difficoltà. Ma il Martello scrive che dentro erano prima dumila fanti, e che di piú, a' diciotto, all'apparita del dí, vi entrorono cinquecento archibusieri eletti, in modo che fu difesa bravamente; ma l'artiglieria piantata di là dal Tesino strisciava tutti i loro ripari. E scrive il Cappella che e' fu ferito in una coscia, d'uno scoppio, Pietro da Birago che morí fra pochi dí, che non volle essere levato di terra acciò che i suoi non abbandonassino la battaglia; e fu ferito anche di scoppio Pietro Botticella, che si partí dalla battaglia: capitani tutt'e due del duca di Milano. Finalmente, a ore ventidue, si entrò dentro con poco danno, e con laude grande (secondo il Martello) del duca d'Urbino; e il Cappella scrive, con laude grande del Pizinardo. E scrive il Martello che di quegli di dentro furono ammazzati da seicento in ottocento, tra' quali quasi tutti i tedeschi (che erano quattrocento) che erano stati messi dagli spagnuoli alle difese; e che, innanzi si entrasse, mille fanti tra spagnuoli e italiani, usciti per la porta del castello, furno rotti da' cavalli. Ma cominciato a entrare dentro l'esercito, Galeazzo da Birago con molti soldati e uomini della terra si ritirò in castello. La città tutta andò a sacco, poco utile per i due sacchi precedenti. Il castello si accettò a patti, perché era necessario batterlo e in campo non era munizione, e i fossi larghissimi e profondissimi da non si riempiere sí presto, e dentro rifuggitivi cinquecento uomini di guerra. I patti furono che gli spagnuoli (che secondo il Martello in Pavia furno seicento), con l'artiglierie e munizioni che e' potessino tirare a braccia e ogni loro arnese, avessino facoltà, insieme co' tedeschi che erano restati pochissimi, di andarsene a Milano; e gl'italiani, in ogni luogo fuora che Milano.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.19, cap.6

                                                  

                                                 Proposito di San Polo di provvedere alle sorti di Genova. Provvedimenti del de Leva ritornato in Milano. Fallimento dell'impresa di San Polo; resa di Savona e del Castelletto di Genova. Mutamento del governo in Genova; azione per togliere le fazioni nella cittadinanza. Scontri fra le navi del Doria e quelle francesi; dispareri fra i collegati. Mutamento di dominio nel marchesato di Saluzzo. Vani tentativi dei francesi contro Andrea Doria. Fazioni di guerra in Lombardia. Manifestazioni dell'inclinazione del pontefice per Cesare.

                                                  

                                                 Presa Pavia, consigliò il duca d'Urbino che non si pensasse a sforzare Milano, perché bisognava esercito bastante a due batterie, ma per fargli danno grande si pigliasse Biagrassa, San Giorgio, Moncia e Como, e che si attendesse al soccorso di Genova: perché se bene i tedeschi e svizzeri avevano risposto a Montigian di volere andare a Genova, nondimeno i tedeschi, per non essere pagati, se ne andorono a Ivrea; in modo che non si era mandato soccorso alcuno al Castelletto, dove Andrea Doria minava sollecitamente. Però San Polo, che era restato con cento lance e dumila fanti, partí a' ventisette alla volta di Genova, passando il Po a Portostella in bocca del Tesino, al cammino di Tortona; promettendo di ritornare indietro se intendesse il soccorso essere non riuscibile, e che il duca d'Urbino l'aspettasse in Pavia; al quale erano restati quattromila fanti. Ma con le genti viniziane andavano sempre dumila fanti del duca di Milano; ed erano anche in Savona mille fanti de' franzesi, ma senza denari.

                                                 E Antonio de Leva, ritirato in Milano, proibí allora che alcuno non potesse fare pane in casa o tenervi farina, eccetto i conduttori di quello dazio; i quali gli pagorono, nove mesi continui, per ogni moggio di farina tre ducati: co' quali denari pagò, tutto quello tempo, i cavalli e i fanti spagnuoli e i tedeschi. Il che non solo lo difese dal pericolo presente ma lo sostenne tutta la vernata futura, avendo alloggiati i fanti italiani a Novara e in alcune terre di Lomellina e per le ville del contado di Milano; ne' quali luoghi comportò che tutta la vernata predassino e taglieggiassino.

                                                 Giunse, al primo d'ottobre, San Polo a Gavi, lontano venticinque miglia da Genova, lasciata l'artiglieria a Novi, e il seguente prese la rocca del Borgo de' Fornari; e fattosi piú innanzi verso Genova, dove erano entrati settecento fanti corsi, si ritornò al Borgo de' Fornari; non si trovando in tutto, per mancamento di denari, quattromila fanti, tra i suoi quegli condotti da Montigian e mille che erano stati mandati dal campo con Niccolò Doria; e quegli pochi che gli erano restati continuamente passavano in Francia. Però (potendo dire a imitazione di Cesare, ma per contrario, Veni vidi fugi) mandò Montigian con trecento fanti a Savona, dove i genovesi erano a campo; ma non vi poterono entrare, perché era serrata con le trincee e presi attorno tutti i passi. Ritirossi, a' dieci dí d'ottobre, in Alessandria e dipoi a Senazzara tra Alessandria e Pavia, ad abboccarsi col duca di Urbino, ma restato quasi senza gente: dove consultando le cose comuni, il duca, dimostrando che tra' viniziani e il duca di Milano non erano restati quattromila fanti, e che Antonio de Leva aveva tra Milano e fuori quattromila tedeschi seicento spagnuoli e mille quattrocento italiani, si risolvé di ritirarsi in Pavia e che San Polo si ritirasse in Alessandria, che gli fu conceduta dal duca di Milano; ragionando di soldare tutti nuovi fanti, e poi, se i tempi servissino, fare la impresa di Biagrassa, di Mortara e del castello di Novara. Succedé che, a' ventuno di ottobre, [Savona], veduto che Montigian non vi era potuto entrare, s'arrendé in caso che fra certi dí non fusse soccorsa. Però San Polo, desideroso di soccorrerla ma avendo da sé in tutto mille fanti, dimandò tremila fanti al duca d'Urbino e al duca di Milano; i quali gliene mandorono milledugento, in modo la lasciò perdere. E il Castelletto di Genova si arrendé per la fame: il quale acquistato fu spianato da' genovesi, e pieno di sassi il porto di Savona, per renderlo inutile.

                                                 I quali, con la autorità di Andrea Doria, stabilirono in quella città uno governo nuovo, trattato prima, sotto nome di libertà; la somma del quale fu che da uno consiglio di quattrocento cittadini si creassino tutti i magistrati e degnità della loro città, e il doge principalmente e il supremo magistrato, per tempo di due anni; levata la proibizione a' gentiluomini, che prima per legge ne erano esclusi. Ed essendo il fondamento piú importante a conservare la libertà che si provedesse alle divisioni de' cittadini, le quali vi erano state lungamente maggiori e piú perniciose che in altra città di Italia (con ciò sia che non vi fusse una divisione sola, ma la parte de' guelfi e l'opposita de' ghibellini, quella tra i gentiluomini e i popolari, né anche i popolari tra loro di una medesima volontà, e la fazione molto potente tra gli Adorni e i Fregosi; per le quali divisioni si poteva credere che quella città, opportunissima per il sito e per la perizia delle cose navali allo imperio marittimo, fusse stata depressa e molto tempo in quasi continua soggezione), però per medicare dalle radici questo male, spenti tutti i nomi delle famiglie e de' casati della città, ne conservorono solamente il nome di ventotto delle piú illustri e piú chiare, eccettuate l'Adorna e la Fregosa, che del tutto furono spente. A' nomi e al numero delle quali famiglie aggregorono tutti quegli gentiluomini e popolari che restavano senza nome di casato; avendo rispetto, per confondere piú la memoria delle fazioni, di aggregare de' gentiluomini nelle famiglie popolari, de' popolari nelle famiglie de' gentiluomini, de' seguaci stati degli Adorni nelle case che avevano seguitato il nome Fregoso, e cosí, per contrario, de' Fregosi in quelle che erano state seguaci degli Adorni: ordinato ancora che tra loro non fusse distinzione alcuna di essere proibiti, piú questi che quegli, agli onori e a' magistrati. Con la quale confusione degli uomini e de' nomi speravano conseguire che, in progresso di non molti anni, si spegnesse la memoria pestifera delle fazioni: restando in quel mezzo tra loro grandissima l'autorità di Andrea Doria; senza il consenso del quale, per la riputazione dell'uomo, per l'autorità delle galee che aveva da Cesare (che ne' tempi che non andavano alle fazioni dimoravano nel porto di Genova), e per l'altre sue condizioni, non si sarebbe fatto deliberazione alcuna di quelle piú gravi; essendo manco molesto la potenza e grandezza sua, perché per ordine suo non si amministravano le pecunie, non si intrometteva nella elezione del doge e degli altri magistrati e nelle cose particolari e minori. In modo che i cittadini, quieti e intenti piú alle mercatanzie che alla ambizione, ricordandosi massime de' travagli delle suggezioni passate, avevano cagione di amare quella forma di governo.

                                                 Appiccoronsi poi l'armata franzese e quella di Andrea Doria tra Monaco e Nizza, dove una galea del Doria fu messa in fondo. Abboccoronsi, perduta Savona, di nuovo il duca di Urbino e San Polo a Senazé, tra Alessandria e Pavia; dove il duca, con poca sodisfazione di Francesco Sforza e di San Polo, risolvé di andarsene di là da Adda, lasciando al duca di Milano la guardia di Pavia e confortando San Polo a fermarsi quella vernata in Alessandria. Delle quali cose non solo si sodisfaceva poco a' ministri, ma ancora il re di Francia, non accettando alcune scuse leggiere dategli da' viniziani, si lamentava sommamente che i viniziani non avessino dato soccorso al Castelletto di Genova e alla città di Savona; la quale i genovesi sfasciavano, e avevano anche preso Vitadé e Gavi. Venneno dipoi a San Polo mille fanti tedeschi; co' quali, computati mille fanti che aveva Valdicerca in Lomellina, si trovava quattromila fanti.

                                                 Ed era anche nato nuovo tumulto nel marchesato di Saluzzo. Perché avendone preso, dopo la morte del marchese Michele Antonio, il dominio Francesco monsignore suo fratello, che era entrato dentro, perché Gabriello secondogenito, eziandio vivente il fratello maggiore, era stato tenuto prigione nella rocca di Ravel, per ordine della madre che in puerizia aveva governato i figliuoli, sotto titolo che e' fusse quasi mentecatto, il castellano di Ravel lo liberò; però, presa la madre che lo teneva prigione, acquistò, accettato da' popoli, tutto lo stato, del quale fuggí il fratello; che poco dipoi entrò in Carmignuola, e raccolte genti roppe poco di poi il fratello.

                                                 Non si fece piú in questo anno cosa di momento in Lombardia, se non che il conte di Gaiazzo scorse insino a Milano. Ma i viniziani non davano i fanti promessi a San Polo, per la impresa di Sarravalle, Gavi e altri luoghi del genovese. Tentossi bene una fazione importante, perché Montigian e Villacerca, con dumila fanti e cinquanta cavalli, partirno a ore ventidue da Vitadé, per pigliare Andrea Doria nel suo palazzo; il quale, posto accanto al mare, è quasi contiguo alle mura di Genova. Non ebbe effetto, perché i fanti, stracchi per la lunghezza del cammino che è ventidua miglia, non arrivorno di notte ma che già era qualche ora di dí: però, essendosi levato il romore, Andrea Doria, dalla banda di dietro saltato in su una barca, campò il pericolo; e i franzesi, non fatto altro effetto che saccheggiato il palazzo, salvi tornorono indietro. E il conte di Gaiazzo, fatta una imboscata tra Milano e Moncia, roppe cinquecento tedeschi e cento cavalli leggieri che andavano per fare scorta a vettovaglie; benché di poi, mandato da loro a Bergamo, afflisse con le ruberie in modo quella città che il senato viniziano, il quale l'aveva fatto capitano generale delle fanterie sue, non potendo piú tollerare tanta insolenza e avarizia lo rimosse ignominiosamente dagli stipendi suoi. Nel quale tempo gli spagnuoli anche preseno la terra di Vigevano. Ma sopravvenneno in quel di Genova dumila fanti spagnuoli, che a' venticinque di dicembre erano al Borgo de' Fornari, mandati di Spagna da Cesare per difendere Genova o per andare a Milano, secondo fusse di bisogno. A' quali per condurgli andò, per ordine di Antonio de Leva, il Belgioioso, che era fuggito di mano de' franzesi; e il quale, pochi dí innanzi, si era presentato una notte con dumila fanti e qualche artiglieria a Pavia, dove non erano piú che cinquecento fanti del duca di Milano, ma la cosa fu presentita, però si era ritirato senza frutto. Preparavasi San Polo per impedire la venuta di questi fanti, i quali accennavano fare il cammino o di Casé o di Piacenza, e instava che le genti viniziane si facessino forti a Lodi perché da Milano non fusse fatto loro spalle; e cercava anche persuadergli a fare comunemente la impresa di Milano (la quale il duca di Urbino dissuadeva), dove era carestia e tutte le calamità. Ma procedevano i viniziani freddi per l'ordinario alle fazioni gagliarde, ma in questo tempo molto piú, perché per le relazioni di Andrea Navaiero, che era tornato loro oratore di Spagna, fatte in favore di Cesare, e per qualche pratica che si teneva in Roma con l'oratore cesareo, erano vari pareri nel loro senato, inclinandosi molti a concordare con Cesare: pure finalmente fu risoluto continuare la confederazione col re di Francia. Nel quale tempo il Torniello, passato Tesino con dumila fanti, prese Basignana, e andava verso Lomellina; e l'abate di Farfa, andato a Crescentino, luogo del ducato di Savoia, co' suoi cavalli, fu di notte rotto e fatto prigione, ma liberato per opera della marchesa di Monferrato; e il marchese di Mus roppe alcune genti di Antonio de Leva e tolse loro le artiglierie.

                                                 Dubitavasi ancora che il pontefice non inclinasse alle parti di Cesare; perché il cardinale di Santa Croce arrivato a Napoli fece liberare i tre cardinali che erano statichi quivi, e si diceva che aveva commissione da Cesare di fare restituire Ostia e Civitavecchia; per opera del quale, avendone supplicato al pontefice, Andrea Doria restituí Portoercole a' sanesi. Ma si scopriva l'animo del pontefice a cose nuove: perché per opera sua, benché occultamente, Braccio Baglione molestava nelle cose di Perugia Malatesta, benché fusse agli stipendi suoi; e inteso il duca di Ferrara essere venuto a Modena, tentò di pigliarlo nel ritorno a Ferrara, con uno agguato di dugento cavalli, fatto da Paolo Luzasco alla casa de' Coppi nel modonese: ma non essendo quel dí partito il duca, la cosa si scoperse.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.7

                                                  

                                                 Provvedimenti dei collegati per continuare la guerra nel regno di Napoli; atti di terrore ed esazioni del principe d'Oranges; fazioni di guerra. Indizi di disposizione alla pace; riconquiste del principe d'Oranges negli Abruzzi. Promesse del pontefice ai collegati e sue trattative con Cesare. Posizione degli eserciti in Puglia. Vani tentativi degli imperiali contro Monopoli. Nuove fazioni di guerra.

                                                  

                                                 Ma in questo tempo il reame napoletano non era perciò, per la rotta de' franzesi, liberato interamente dalle calamità della guerra. Perché Simone Romano, raccolte di nuovo genti, aveva preso Nola, Oriolo e Amigdalara, poste in sul mare nel braccio dello Apennino; e unitosi con lui Federico Caraffa, mandato dal duca di Gravina con mille fanti e molti altri del paese, aveva esercito non contennendo: ma dopo la vittoria degli imperiali intorno a Napoli, abbandonato dalle genti del duca di Gravina, saccheggiata Barletta (nella quale città fu intromesso per la rocca), si fermò quivi; tenendosi nel tempo medesimo per i viniziani Trani guardato da Cammillo, e Monopoli guardato da Giancurrado, tutt'a due della famiglia degli Orsini. Vennonvi poi Renzo da Ceri e il principe di Melfi con mille fanti; i quali, essendosi ridotti tra Nocera e Gualdo, e dipoi partitisi per comandamento del pontefice (il quale non voleva offendere l'animo de' vincitori), imbarcatisi a Sinigaglia, si condussono per mare a Barletta, con intenzione di rinnovare la guerra in Puglia; cosa deliberata con consentimento comune de' collegati, perché l'esercito imperiale fusse necessitato a fermarsi nel regno di Napoli insino alla primavera: al quale tempo si ragionava di fare per la salute comune nuove provisioni. Però il re di Francia mandò a Renzo soccorso di danari; e i viniziani, desiderando il medesimo, eziandio per ritenere piú facilmente con gli aiuti degli altri le terre occupate nella Puglia, offerivano di accomodarlo di dodici galee, ma instando che essi le armassino, e che la spesa si computasse negli ottantamila ducati a' quali erano tenuti per la contribuzione promessa a Lautrech, non udivano; e il re di Inghilterra prometteva di non mancare delle provisioni ordinarie, e i fiorentini si erano composti di pagare la terza parte delle genti vi aveva condotte Renzo. Non erano pronti a estinguere questo incendio gli imperiali, occupati in esigere de' danari, per sodisfare a' soldati de' pagamenti decorsi: le quali esazioni per fare piú facili, e per assicurare il reame con gli esempli della severità, fece il principe di Oranges decapitare publicamente in sulla piazza del mercato di Napoli, dove era la peste grande, Federigo Gaetano figliuolo del duca di Traietto ed Enrico Pandone duca di Boviano nato di una figliuola di Ferdinando vecchio re di Napoli, e quattro altri napoletani; usando ancora simili supplíci in altri luoghi del regno. Col quale esempio spaventati gli animi di ciascuno, procedendo contro agli assenti che avevano seguitato i franzesi, e confiscando i loro beni, gli componevano poi in danari; non pretermettendo acerbità alcuna per esigerne maggiore quantità potessino. Le quali cose tutte si trattavano da Ieronimo Morone, al quale in premio delle opere sue fu donato il ducato di Boviano. Aggiunsesi a questi movimenti che nello Abruzzi Giaiacopo Franco entrò per il re di Francia nella Matrice, che è vicina alla Aquila: per il che tutto il paese era sollevato, e nella Aquila si stava con sospetto; dove era Sciarra Colonna, ammalato, con seicento fanti. Provedevano anche i viniziani le cose di Puglia, e mandando per mare alcuni cavalli leggieri per fornire Barletta dettono a traverso in parte della spiaggia di Barletta e di Trani, dove il proveditore loro annegò, che era montato in su uno battello; i cavalli, de' quali era capo Giancurrado Orsino, maltrattati detteno nelle mani degl'imperiali; e Giampaolo da Ceri, che roppe presso al Guasto, restò prigione del marchese. Dettesi, nella fine dell'anno, l'Aquila alla lega, per opera del vescovo di quella città e del conte di Montorio e d'altri fuorusciti; a che dette causa l'essere maltrattata dagl'imperiali.

                                                 Seguita l'anno mille cinquecento ventinove; nel principio del quale cominciò ad apparire qualche indizio di disposizione, da qualunque parte, alla pace; dimostrando di volerla trattare appresso al pontefice: perché sapendosi che il cardinale di Santa Croce (cosí era il titolo del generale spagnuolo) andava a Roma con mandato di Cesare a potere conchiudere la pace, il re di Francia che ne aveva sommo desiderio spedí il mandato agl'imbasciadori suoi, e il re di Inghilterra mandò imbasciadori a Roma per la medesima cagione. Le quali pratiche, aggiunte alla stracchezza de' príncipi, facevano che i collegati alle provisioni della guerra procedevano lentamente. Perché e in Lombardia era il maggiore pensiero se gli spagnuoli, venuti a Genova, arebbeno facoltà di passare a Milano (donde per mancamento, di denari erano partiti quasi tutti i tedeschi); a' quali condurre andato il Belgioioso con cento cavalli insino a Casé, passò di quivi sconosciuto a Genova, donde condusse i fanti a Savona per raccôrre cinquecento fanti venuti di nuovo di Spagna e sbarcati a Villafranca. Ma nel regno di Napoli, dubitando gli imperiali che la rebellione dell'Aquila e della Matrice, e la testa fatta in Puglia, non partorissino cosa di maggiore momento, deliberorno voltare alla espugnazione di quegli luoghi le genti che aveano: però fu deliberato che 'l marchese del Guasto andasse co' fanti spagnuoli alla recuperazione delle terre di Puglia, e il principe co' fanti tedeschi andasse alla recuperazione dell'Aquila e della Matrice. Il quale come si accostò all'Aquila, quegli che erano nell'Aquila se ne uscirono, e Oranges compose la città e tutto il suo contado in centomila ducati; tolta ancora la cassa di argento, la quale Luigi decimo re di Francia aveva dedicata a san Bernardino. Di quivi mandò gente alla Matrice, dove era Cammillo Pardo con quattrocento fanti, che se ne era uscito prima con promessa di tornare; ma o temendo perché non vi era vino e tolto l'acqua, e discordia tra la terra e i fanti, o per altra cagione, non solo non vi tornò ma non mandò anche loro tutti i denari che gli mandorono i fiorentini per sostentare quel luogo: però i fanti se ne uscirono per le mura, e la terra si arrendé. E si temeva che Oranges non passasse in Toscana a instanza del pontefice.

                                                 In quale, riconvaluto di pericolosissima benché breve infermità, non desisteva di trattare e di dare speranza a ciascuno. Perché a' franzesi prometteva aderire alla lega se gli era restituita Ravenna e Cervia, componendo eziandio con oneste condizioni co' fiorentini e col duca di Ferrara; il quale, nel pagamento de' danari a Lautrech, aveva affermato pagargli per sua liberalità non già perché fusse obligato, non avendo il pontefice ratificato. Da altra parte, avendo recuperato, benché con grossi beveraggi, per la commissione portata dal cardinale di Santa Croce, le fortezze di Ostia e di Civitavecchia, aveva pratiche piú occulte e piú fidate con Cesare; trattando piú insieme le cose particolari che le universali della pace: le quali cominciavano ad avere piú secreto e piú fondato maneggio per altre mani, perché, di febbraio, uno uomo di madama Margherita venuto in Francia, parlato che ebbe al re, passò in Spagna.

                                                 Ma in Puglia questo era lo stato delle cose. Tenevasi Barletta per il re di Francia, nella quale era Renzo da Ceri, e con lui il principe di Melfi, Federico Caraffa, Simone Romano, Cammillo Pardo, Galeazzo da Farnese e Giancurrado Orsino e il principe di Stigliano. Tenevano i viniziani Trani, Pulignano e Monopoli, avendo in questi luoghi dumila fanti e secento cappelletti, de' quali ne erano in Monopoli dugento. Tenevano anche il porto di Biestri. Ma a queste genti il re di Francia, mandata che ebbe da principio piccola quantità di danari, non faceva alcuna provisione, né aveva accettati i corpi delle dodici galee offertigli da' viniziani; de' quali si roppono, nella spiaggia di Bestrice, tre galee e una fusta grossa, che andavano a provedere di vettovaglie Trani e Barletta: ma in piú volte n'aveano perdute cinque, ma ricuperata l'artiglieria e gli altri armamenti. Tenevasi ancora per i franzesi il monte di Santo Angelo, Nardoa in terra di Otranto e Castro, dove era il conte di Dugento, e facendo la guerra con gli uomini del regno e con le forze del paese, erano adunati in vari luoghi molti rebelli di Cesare e molti che seguitavano come soldati di ventura la guerra solamente per rubare; donde era piú che non si potrebbe credere miserabile la condizione del paese, sottoposto tutto a ruberie a prede a taglie e incendi da ciascuna delle parti. Ma piú che di altri erano famose le incursioni di Simone Romano, il quale, correndo co' suoi cavalli leggieri e con dugento cinquanta fanti per tutti i luoghi circostanti, conduceva spesso in Barletta bestiami frumenti e altre cose di ogni sorte; talvolta, uscendo con maggiore numero di fanti, ora per furto ora per forza saccheggiava questa e quell'altra terra: come accadde di Canosa, nella quale terra entrato di notte con le scale la svaligiò, e menonne molti cavalli di quaranta uomini d'arme alloggiati nel castello. Finalmente il marchese di Guasto, non tentata Barletta terra fortissima e bene fortificata, si pose, del mese di marzo, a campo a Monopoli con quattromila fanti spagnuoli e dumila fanti italiani, perché i tedeschi, in numero dumila cinquecento, fermatisi nell'Abruzzi recusorono di andare in Puglia; e alloggiò in una valletta coperta dal monte, in modo non poteva essere offeso dalle artiglierie della terra: nella quale Renzo mandò subito, in sulle galee, trecento fanti.

                                                 Ha Monopoli, terra di circuito piccolissimo, il mare da tre bande, e di verso la terra è la muraglia di trecento o trecento cinquanta passi, col fosso intorno. A rincontro della muraglia fece il marchese uno bastione vicino a uno tiro di archibuso, e due altri in sul lito del mare, uno da ogni parte; ma questi tanto lontani che battevano il mare e la porta di verso il mare, per impedire che le galee non vi mettessino soccorso o vettovaglia. Dette, di aprile, il Guasto l'assalto a Monopoli; dove, secondo gli avvisi di Barletta, perdé piú di cinquecento uomini e molti guastatori, e rotti tre pezzi di artiglieria; e si discostò uno miglio e mezzo: perché i viniziani, usciti fuora, scorseno tutti i bastioni suoi, ammazzando piú di cento uomini; e l'artiglieria della terra gli danneggiava assai, e avevano assicurato il porto con uno bastione fatto in su il lito a rincontro del suo. E perché i viniziani non bastavano a guardare quello e l'altre terre, Renzo aveva mandato gente a Monopoli; e una delle due galee loro che andavano a Monopoli con fanti e vettovaglie si roppe in porto.

                                                 Accostossi di nuovo il Guasto a Monopoli (dove era Cammillo Orsino e Giovanni Vitturio proveditore), dove faceva due cavalieri per battere per di dentro, e trincee per condursi in su' fossi e riempiergli con seicento carra di fascine (ma poco poi, usciti di Monopoli dugento fanti, abbruciorno il bastione o cavaliere di mezzo); e accostatosi con una trincea al diritto della batteria, e fatta una altra trincea al diritto degli alloggiamenti spagnuoli, lontana al fosso uno tiro di mano, e dietro a quella fortificato uno bastione, vi piantò su l'artiglieria, e batté sessanta braccia di muro, a quattro braccia da terra vel circa. Ma inteso che la notte vi era entrato Melfi, con genti mandate da Renzo, ritirò l'artiglieria; e finalmente, essendo la fine di maggio, ne levò il campo.

                                                 Seguitorono, e mentre stava il campo a Monopoli e dopo la ritirata, varie fazioni e movimenti; perché e quegli di Barletta facevano prede e danni grandissimi e i fanti che erano nel monte di Santo Angelo, de' quali era capo Federico Caraffa, presono San Severo e, soccorsa la terra di Vico, costrinsono gli imperiali a levarne il campo. Andò poi il Caraffa per mare con ventisei vele a Lanciano, dove erano alloggiati cento sessanta uomini d'arme; ed entratovi per forza ne menò trecento cavalli da fazione e molta preda, non vi lasciato alcuno presidio. Facevano anche molti fuorusciti danni grandissimi in Basilicata. Per le quali difficoltà si impediva molto agli imperiali l'esigere le imposizioni: né è dubbio, che se il re di Francia avesse mandato danari e qualche soccorso, che sariano per tutto il regno succeduti nuovi travagli, per i quali sarebbe stato almeno implicato l'esercito cesareo alla difesa delle cose proprie. Ma non potevano finalmente genti tumultuarie e collettizie, e senza soccorso o rinfrescamento alcuno (perché soli i fiorentini davano a Renzo qualche sussidio), fare cose di momento grande (anzi il duca di Ferrara denegò a Renzo di mandargli per mare quattro pezzi di artiglierie); perché in Barletta cominciava a mancare frumento e danari; e circa secento rebelli assediati dal viceré della provincia in Monte Lione, necessitati ad arrendersi per non avere né munizioni né vettovaglie, furno condotti prigioni a Napoli. Andorono dipoi il principe di Melfi con l'armate, e Federico Caraffa per terra, a campo a Malfetta, terra già del principe; dove Federico combattendo fu ammazzato da uno sasso: donde il principe sdegnato, sforzata la terra, la saccheggiò. Simile infortunio accadde a Simone Romano: perché essendo l'armata viniziana, la quale da Cavo di Otranto infestava tutto il paese, accostatasi a Brindisi, e poste genti in terra, dove anche era Simone Romano, occuporono la città; ma combattendo la rocca, Simone fu morto di una artiglieria.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.8

                                                  

                                                 Fazioni di guerra in Lombardia; accordi fra i collegati; arrivo di fanti spagnuoli dal genovese ad Antonio de Leva. Aspirazioni del pontefice su Perugia; timori di Malatesta Baglione e suoi accordi coi fiorentini e coi francesi. Intrighi del pontefice contro il duca di Ferrara. Il pontefice fa bruciare la bolla con cui accordava il divorzio al re d'Inghilterra; disgrazia e morte del cardinale eboracense.

                                                  

                                                 Ma in Lombardia, di marzo, San Polo prese per forza Serravalle, e la fortezza si accordò di stare neutrale. Ma essendovi gli inimici rientrati di notte di furto, si temeva non potere piú impedire agli spagnuoli il cammino per Milano, massime che ogni dí gli diminuivano le genti per mancamento di denari; avendone pochi dal re, e di quegli, come capitano di pochissimo governo, spendendone una parte per sé (che diceva esserne creditore del re) un'altra parte fraudata da' ministri. Disputavasi tra il re e i viniziani quale impresa fusse da fare, e il re instava di Genova, per la importanza di quella città, massime affermandosi già per cosa certa che Cesare passerebbe la state prossima in Italia, e perché il re, veduto i viniziani non l'avere mai aiutato né a soccorrere né a recuperare quella città, non ostante si fussino escusati allegando essere stato rumore della venuta in Italia di nuovi tedeschi, dubitava non fusse molesta loro la vittoria di quella impresa: ma i viniziani, allegando essere restata a Antonio de Leva pochissima gente, e offerendo, acquistato che fusse Milano, mandare le genti alla espugnazione di Genova, si deliberò fare, con suo consentimento, la impresa di Milano con sedicimila fanti, provedendo ciascuno alla metà. Fu questa deliberazione fatta di marzo, e assente il duca di Urbino; il quale, per l'essersi approssimati a' confini del regno il principe di Oranges e i fanti tedeschi, si era, quasi contro alla volontà de' viniziani, ridotto nel suo stato: ma i viniziani lo condussono di nuovo, con le condizioni medesime le quali aveano prima ottenute da loro il conte di Pitigliano e Bartolommeo d'Alviano, e gli mandorono trecento cavalli e tremila fanti per sua difesa, come erano tenuti: e detteno il titolo di governatore a Ianus Fregoso. Erano nell'esercito viniziano secento uomini d'arme mille cavalli leggieri e quattromila fanti, benché fussino obligati a tenerne dodicimila; il quale esercito prese, il sesto dí di aprile, Casciano per forza e la rocca a discrizione: e Antonio de Leva e il Torniello, usciti di Milano per divertire, vi si ritirorono. Succedette la passata de' fanti spagnuoli, che erano mille dugento, del genovese a Milano; per impedire la quale si erano fatte tante pratiche e tante consulte. Perché, avendo creduto San Polo e i viniziani che e' tentassino di passare per il tortonese e lo alessandrino, partiti da Voltaggio, preseno, per ordine del Belgioioso, cammino piú lungo per la montagna di Piacenza e luoghi sudditi alla Chiesa; ed essendo venuti a Varzi nella montagna predetta, non ostante che San Polo inviasse in là centocinquanta cavalli, e desse avviso del cammino loro a Lodi e alle genti de' viniziani (i quali, per ovviare, mandorono parte delle loro genti al duca di Milano, ma piú tardi uno giorno di quello che era necessario e minore numero di quelle che avevano promesso), passorono di notte il Po ad Arena, serviti di navi di Piacenza (né si poteva piú ovviare l'unione loro col Leva, che per facilitarla era venuto a Landriano, dodici miglia da Pavia); e condottisi a Milano, essendo sí poveri d'ogni cosa che si conveniva loro il nome di bisognoso, accrebbeno le calamità de' milanesi, spogliandogli insino per le strade. Cosí restorono vani i disegni de' franzesi e de' viniziani, di tutta la vernata, che erano stati di impedire la passata di questi fanti, pigliare Gavi e i luoghi circostanti per conto di Genova, e Case, che faceva danno grande a tutto il paese. Prese ancora Antonio de Leva a patti Binasco. Ma l'essere stati gli spagnuoli accomodati di barche da Piacenza, e il credersi che non si sarebbeno mossi se non avessino avuto certezza di potere in caso di necessità ritirarsi in quella città, aggiunto a molti altri indizi, accresceva a' collegati il sospetto (e massime veduta la restituzione delle fortezze) che il pontefice non fusse accordato o per accordare con Cesare.

                                                 Il quale avendo volto, benché occultamente, tutti i suoi pensieri a ricuperare lo stato di Firenze, se bene aggirando gli oratori franzesi tenesse varie pratiche e proponesse varie speranze, a loro e agli altri confederati, di accostarsi alla lega, nondimeno, parte movendolo il timore della grandezza di Cesare e la prosperità de' suoi successi, parte lo sperare di indurre piú facilmente lui che non arebbe indotto il re di Francia ad aiutarlo a rimettere i suoi in Firenze, desiderava estremamente, per facilitare questo disegno, tirare a sua divozione lo stato di Perugia: però si credeva che fomentasse Braccio Baglione e Pirro, che tutto dí tentavano nuovi travagli in quegli confini. Per il quale sospetto Malatesta, dubitando che mentre stava a' soldi suoi non avesse a essere oppresso con il suo favore, gli pareva necessario cercarsi di altra protezione. E però, mosso o da questa cagione o da cupidità di maggiori partiti, o dall'odio antico, negava di ricondursi seco, pretendendo non essere tenuto all'anno del beneplacito, perché diceva non apparirne scrittura, benché il pontefice affermasse che gli era obligato: però trattando di condursi col re di Francia e co' fiorentini, e lamentandosi eziandio di pratiche tenute dal cardinale di Cortona contro a lui, e di una lettera, che aveva intercetta, del cardinale de' Medici a Braccio Baglione. Ma il pontefice, volendo per indiretto interrompere questa condotta, proibí per editti publici che niuno suo suddito pigliasse senza sua licenza soldo da altri príncipi, sotto pena di confiscazione. Nondimeno, non restò per questo Malatesta di condursi. Al quale i franzesi si obligorono di dare dugento cavalli, dumila scudi di provisione, l'ordine di San Michele e dumila fanti in tempo di guerra; e i fiorentini gli detteno titolo di governatore, dumila scudi di provisione, mille fanti in tempo di guerra, cinquanta cavalli al figliuolo suo e cinquanta al figliuolo di Orazio, e cinquecento scudi per il piatto di tutti due; preseno la protezione del suo stato e di Perugia; e tra il re di Francia e loro cento scudi il mese a tempo di pace, per intrattenere dieci capitani. Pagavongli i fiorentini anche dugento fanti per guardare Perugia; ed egli obligato, ne' bisogni loro, di andare a servirgli con mille fanti soli, non avendo eziandio le genti promesse da' franzesi. Querelossi molto appresso al re di Francia il pontefice di questa condotta, come fatta direttamente per impedirgli di potere disporre a suo arbitrio d'una città suddita alla Chiesa. L'animo del quale non volendo il re offendere, differiva il ratificarla; e il pontefice per questo sperando di poterne rimuovere Malatesta, lo persuadeva che continuasse l'anno del beneplacito, e nel tempo medesimo fomentava occultamente Braccio Baglione, Sciarra Colonna e i fuorusciti di Perugia, i quali raccogliendo gente si erano accampati a Norcia: cose tutte vane, perché Malatesta era deliberato non continuare negli stipendi del pontefice; e aiutandolo scopertamente i fiorentini, non temeva di questi movimenti: i quali conoscendo il pontefice non bastare alla sua intenzione, presto cessorono. Non lasciava anche il pontefice stare quieto il duca di Ferrara, tanto alieno dalle convenzioni fatte in nome del collegio de' cardinali con lui che, essendo vacato di nuovo il vescovato di Modona per la morte del cardinale da Gonzaga, promesso al figliuolo del duca in quella convenzione, lo conferí a uno figliuolo di Ieronimo Morone; cercando, per la denegazione del possesso, occasione di provocargli contro questo ministro di autorità appresso allo esercito imperiale. Ma si crede che ancora, per mezzo di Uberto da Gambara governatore di Bologna, trattasse con Ieronimo Pio di occupare Reggio: del quale il duca, pervenutogli indizio di questa pratica, fece pigliare il debito supplicio. Trattava anche di recuperare furtivamente Ravenna, cosa che medesimamente riuscí vana.

                                                 Nel quale tempo anche, o poco poi, il pontefice, inclinando ogni dí piú con l'animo alle parti di Cesare, ed essendo già con lui in pratiche molto strette, per le quali mandò il vescovo di Vasone suo maestro di casa a Cesare, avocò in ruota la causa del divorzio di Inghilterra: cosa che arebbe fatto molto innanzi se non l'avesse ritenuto il rispetto della bolla che era in Inghilterra, in mano del Campeggio. Perché, essendo augumentate le cose di Cesare in Italia, non solamente non volendo offenderlo piú ma rivocare l'offesa che gli aveva fatta, deliberato eziandio, innanzi che ammalasse, di avocare la causa, mandò Francesco Campana in Inghilterra al cardinale Campeggio, dimostrando al re mandarlo per altre cagioni pure attenenti a quella causa, ma con commissione al Campeggio che abbruciasse la bolla: il che benché differisse di eseguire, per essere sopravenuta la infermità del pontefice, guarendo poi, messe a effetto il comandamento suo. Però il pontefice, liberato da questo timore, avocò la causa, con indegnazione grandissima di quel re, massime quando dimandando la bolla al cardinale intese quello che ne era successo. Partorirono queste cose la ruina del cardinale eboracense, perché il re presupponeva la autorità del cardinale essere tale appresso al pontefice che, se gli fusse stato grato il matrimonio con Anna, arebbe ottenuto tutto quello che avesse voluto. Per la quale indegnazione aperti gli orecchi alla invidia e alle calunnie de' suoi avversari, toltogli i danari e le robe sue mobili di immoderata valuta, e delle entrate ecclesiastiche lasciatagli una piccola parte, lo relegò al suo vescovado con pochi servitori; né molto poi, o per avere intercette sue lettere al re di Francia o per altra cagione, istigato dai medesimi, i quali per certe parole dette dal re, che dimostravano desiderio di lui, temevano che egli non recuperasse la pristina autorità, lo citò a difendere una accusazione introdotta contro a lui nel consiglio regio; per la quale essendo menato alla corte come prigione, sopravenutogli, nel cammino, flusso o per sdegno o per timore, morí il secondo dí della sua infermità: esempio, a' tempi nostri, memorabile di quel che possa la fortuna e la invidia nelle corti de' príncipi.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.9

                                                  

                                                 Saggi indirizzi di politica del gonfaloniere fiorentino Niccolò Capponi; opposizione di cittadini ambiziosi, che diffondono sospetti fra la moltitudine; sostituzione del gonfaloniere.

                                                  

                                                 Ma in questo tempo succedette in Firenze nuova alterazione contro a Niccolò Capponi gonfaloniere, quasi alla fine del secondo anno del suo magistrato, concitata principalmente dalla invidia di alcuni cittadini principali, i quali usorono per occasione il sospetto vano e la ignoranza della moltitudine. Aveva Niccolò avuto in tutto il suo magistrato due obietti principali: difendere contro alla invidia fresca quegli che erano stati onorati dai Medici, anzi, che co' principali di loro si comunicassino, come con gli altri cittadini, gli onori e i consigli publici; e nelle cose che non erano di momento alla libertà non esacerbare l'animo del pontefice: cosa l'una e l'altra molto utile alla republica, perché molti di quegli medesimi che, come inimici del governo, erano perseguitati sarebbono stati amicissimi, sapendo massime che il pontefice, per le cose succedute ne' tempi che si mutò lo stato, aveva mala sodisfazione di loro; e il pontefice, se bene desiderasse ardentissimamente il ritorno de' suoi, pure, non provocato di nuovo, aveva minore causa di precipitarsi e di querelarsi, come continuamente faceva, con gli altri príncipi. Ma a queste cose si opponeva la ambizione di alcuni i quali, conoscendo, se erano ammessi nel governo quegli altri, uomini senza dubbio di maggiore esperienza e valore, dovere restare minore la loro autorità, non attendevano ad altro che a tenere la moltitudine piena di sospetto del pontefice e di loro; calunniando il gonfaloniere per queste cagioni, e perché non ottenesse la prorogazione nel magistrato per il terzo anno, che non avesse l'animo alieno, quanto ricercava la autorità della republica, da' Medici. Dalle quali calunnie egli inconcusso, e giudicando molto utile che il pontefice non si esasperasse, intratteneva con lettere e con imbasciate il pontefice privatamente; pratiche però non cominciate né proseguite senza saputa sempre di alcuni de' principali e di quegli che erano ne' primi magistrati, né a altro fine che per rimuoverlo da qualche precipitazione. Ma essendogli per caso caduta una lettera ricevuta da Roma, nella quale era qualche parola da generare sospetto a quegli che non sapevano la origine e il fondamento di queste cose, e pervenuta nelle mani di alcuni di quegli che risedevano nel supremo magistrato, concitati alcuni giovani sediziosi, occuporono con l'armi il palagio publico, ritenendo quasi come in custodia il gonfaloniere; e chiamati i magistrati e molti cittadini, quasi tumultuosamente deliberorno che fusse privato del magistrato. La quale cosa approvata nel consiglio maggiore, si cominciò poi a conoscere legittimamente la causa sua; e assoluto dal giudicio fu con grandissimo onore accompagnato alle case sue da quasi tutta la nobiltà: ma surrogato in luogo suo Francesco Carducci, indegno, se tu riguardi la vita passata le condizioni sue e i fini pravi, di tanto onore.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.10

                                                  

                                                 Insuccesso dei collegati sotto Mortara. Disposizione del re di Francia e di Cesare alla pace, e primi accordi. Progressi dei collegati in Lombardia; discussioni e deliberazioni dei capitani dei collegati; vittoria degli imperiali a Landriano.

                                                  

                                                 A ventisette di aprile, passò Po a Valenza San Polo: per la passata del quale gli imperiali abbandonorono il Borgo a Basignano e la Pieve al Cairo. Di quivi mandò Guido Rangone, con parte dello esercito, a Mortara, che era forte per fossi doppi, fianchi e acqua: i quali, avendo la notte piantato l'artiglieria senza provisione di gabbioni trincee e simili preparazioni, furono in su il dí assaltati da quegli di dentro, che feciono loro danno assai e inchiodorno due pezzi d'artiglierie, con pericolo di non le pigliare tutte; non senza infamia di Guido, benché, indisposto del corpo, non si fusse trovato presente quando si piantorono. Era allora in Milano mala provisione; ma non erano migliori quelle de' franzesi e de' viniziani, che ricercando e dolendosi l'uno dell'altro non facevano alcuna provisione (pure San Polo diceva aspettare dumila alamanni): donde, tra l'altre difficoltà, nasceva ne' collegati qualche dubbio che il duca di Milano, veduta la poca speranza che gli restava di avere con le forze e aiuti loro a ricuperare quello stato, non facesse per mezzo del Morone qualche concordia con gli imperiali.

                                                 Ma erano i pensieri del re di Francia indiritti tutti alla pace, diffidandosi di potere altrimenti recuperare i figliuoli. Alla quale essendo anche inclinato Cesare, erano tornati di Spagna due uomini di madama Margherita, con mandato amplissimo in lei per fare la pace: di che essendo certificato il re da Lelu Baiard suo segretario, quale per questa cagione aveva spedito in Fiandra, dimandò a' collegati che mandassino anche loro i mandati. Ed essendosi spiccato con l'animo effettualmente da tutte le provisioni della guerra, cercando pure tirare a sé qualche giustificazione, si lamentava che i viniziani ricusavano contribuire a' denari per la passata sua: i quali, se bene da principio l'avessino stimolato caldamente, passando Cesare, a passare, e il re avesse offerto di farlo con dumila quattrocento lancie mille cavalli leggieri e ventimila fanti, in caso che da' confederati gli [si] dessino danari per pagare, oltre a questi, mille cavalli leggieri e ventimila fanti, e concorressino alla metà della spesa delle artiglierie, nondimeno poi, qual fusse la cagione, si ritiravano.

                                                 San Polo in questo tempo sforzò con quattro cannoni Santo Angelo, dove erano quattrocento fanti; poi si volse a San Colombano, per aprirsi le vettovaglie di Piacenza, che si accordò: e inteso Pavia essere di nuovo provista insino a mille fanti e in Milano quattromila, ma molti ammalati, volse il pensiero a Milano; e il Leva messe fanti in Moncia. Arrendessi, a' due di maggio, Mortara a San Polo a discrezione, battuta in modo che non poteva piú difendersi; e il Torniello, lasciata la terra di Novara ma non la rocca, dove messe pochissimi fanti, si ritirò a Milano: in modo che gli imperiali non tenevano, di là dal Tesino, altro che Gaia e la rocca di Bià, avendo San Polo anche presa la rocca di Vigevano. Andò, a' dieci, al Ponte a Loca con piú di seimila fanti vivi, per unirsi, al borgo a San Martino, co' viniziani, che ne avevano manco di quattro. Arrivò dipoi il duca di Urbino allo esercito; e venuti insieme a parlamento, a Belgioioso, determinorono nel consiglio comune di accamparsi a Milano con due eserciti da due parti, e che perciò San Polo, passato il Tesino, girasse a Biagrassa per sforzarla, e il dí medesimo i viniziani al borgo di San Martino, lontano da Milano cinque miglia; affermando i viniziani avere dodicimila fanti e San Polo otto, col quale dovevano unirsi i fanti del duca di Milano. Però San Polo passò il Tesino, e avendo trovato la terra di Biagrassa abbandonata ottenne per accordo la rocca; ed essendo, il dí davanti alloggiato San Polo a Gazano, in su il navilio grande, a otto miglia di Milano, parlorono di nuovo, il terzo dí di giugno, a Binasco. Nel quale luogo, essendo certificati che i viniziani non aveano la metà de' dodicimila fanti a' quali erano tenuti per i capitoli della confederazione, e querelandosene gravemente San Polo, fu deliberato di accostarsi con uno campo solo a Milano dalla banda del lazaretto; non ostante che il conte Guido dicesse che Antonio de Leva, il quale non teneva altro che Milano e Como, usava dire che Milano non si poteva sforzare se non con due campi. Ma pochi dí poi, congregati i capi dell'uno e l'altro esercito in Lodi, per consultare di nuovo, il duca di Milano e il duca di Urbino, benché prima avessino fatto instanza che si andasse a campo a Milano e dissuaso lo andare a Genova, consigliorono il contrario; allegando il duca di Urbino, per questa nuova deliberazione, molte ragioni, ma principalmente che, poiché Cesare si preparava a passare in Italia (per il quale condurre era partito con le galee il Doria, agli otto di giugno, da Genova), e che si intendeva che in Germania si faceva preparazione di mandare nuovi tedeschi sotto il capitano Felix non sapeva quello che fusse meglio, o pigliare Milano o non lo pigliare. Allegavansi da lui queste ragioni, ma si credeva che veramente lo movesse l'antica sua consuetudine di non fare né dell'animo né della virtú esperienza alcuna, o che forse, persuadendosi dovere succedere la pace che si trattava in Fiandra, avesse dimostrato al senato viniziano, il quale fortificava Bergamo, essere inutile, o ammesso o escluso che ne fussi, spendere per la recuperazione di Milano. La somma del suo consiglio fu che le genti de' viniziani si fermassino a Casciano, quelle del duca di Milano a Pavia, San Polo a Biagrassa, attendendo a vietare co' cavalli che vettovaglie non entrassino a Milano, dove si stimava fussino per mancare presto, perché era seminata piccolissima parte di quello contado. Non potette San Polo rimuovergli da questa sentenza, ma non approvò già il fermarsi col suo esercito a Biagrassa, allegando che ad affamare Milano bastava che le genti viniziane si fermassino a Moncia, le sforzesche a Pavia e a Vigevano, e che il re lo stimolava, in caso non si andasse a campo a Milano, di fare la impresa di Genova: la quale aveva in animo di tentare con celerità grande, sperando che, in assenza del Doria, Cesare Fregoso, che era accordato col re di Francia di esserne governatore lui e non il padre, la volterebbe con pochi fanti. I quali progressi, e il sapere quanto fussino diminuiti di fanti, aveva assicurato, in modo Antonio de Leva del pericolo di Milano che e' mandò Filippo Torniello, con pochi cavalli e trecento fanti, a ricuperare Novara e i luoghi circostanti, mentre che i franzesi e i viniziani erano tra il Tesino e Milano: il quale, entrato per la rocca che si teneva per loro, ricuperò Novara, e dipoi uscí fuora con le genti a predare e raccôrre vettovaglie. Ma accadde che essendo uscito della rocca e andando per la terra il castellano di Novara, due soldati sforzeschi e tre di Novara che erano nella rocca prigioni, ammazzati, con aiuto di alcuni che lavoravano nella rocca, e presi certi fanti spagnuoli, l'occuporono, sperando essere soccorsi da' suoi; perché il duca di Milano, come aveva inteso la partita del Torniello da Milano, dubitando di Novara, aveva mandato a quella volta Giampaolo suo fratello con non piccolo numero di cavalli e di fanti, che già era arrivato a Vigevano. Ma il Torniello, come seppe il caso della rocca, tornò subito a Novara, e con minacci e con preparazione di dare lo assalto spaventò in modo quegli soldati sforzeschi che, pattuita solo la sua salute senza curarsi di quella de' novaresi che erano con loro, arrenderono la rocca. Deliberossi adunque di infestare Milano con le genti de' viniziani e del duca di Milano: benché il duca di Urbino disse che, per essere piú vicino allo stato de' viniziani, non si fermerebbe a Moncia ma a Casciano; e San Polo, il quale era alloggiato alla badia di Viboldone, deliberò di tornare di là dal Po per andare verso Genova. Con questo consiglio andò ad alloggiare a Landriano, lontano dodici miglia da Milano tra le strade di Lodi e di Pavia. E volendo andare il dí seguente, che era ventiuno di giugno, ad alloggiare a Lardirago alla volta di Pavia, scrive il Cappella che mandò innanzi l'artiglierie e i carriaggi e la vanguardia, e lui partí piú tardi con la battaglia e col retroguardo; e che il Leva, avvisato dalle spie del ritardare suo e della partita dell'antiguardia, uscí di notte di Milano con la gente incamiciata (egli, perché aveva già lungamente il corpo impedito da dolori, armato in su una sedia, portato da quattro uomini); e giunto a due miglia di Landriano, andando senza suoni, avuto dalle spie San Polo non essere ancora partito da Landriano, accelerato il passo gli assaltò innanzi sapessino la sua venuta: essendo già il primo squadrone, sotto Gian Tommaso da Gallerà, camminato tanto innanzi che non era a tempo al soccorso de' suoi. E benché San Polo sperasse ne' tedeschi, che ne aveva dumila cinquecento, loro cominciorno a ritirarsi; ma furono sostenuti da Gianieronimo da Castiglione e da Claudio Rangone capi di dumila italiani, che combatterno egregiamente; ma al fine, voltando le spalle i cavalli e i tedeschi, gli italiani feciono il medesimo. E San Polo, volendo passare col cavallo una grande fossa restò prigione; e furno presi i cavalli e i carriaggi quasi di tutto lo esercito, e l'artiglieria; e quegli che fuggirono furono svaligiati, presso a Pavia, da' fanti del Piccinardo che vi erano a guardia. Ma il Martello scrive: che, essendo San Polo a mezzo il cammino tra Landriano e Lardirago, gl'imperiali assaltorno il retroguardo che gli fece piegare, ma scoprendosi una grossa imboscata di archibusieri incamiciati, assaltò la battaglia per fianco e la roppe; che San Polo, smontato a piè, combatté con la picca gagliardamente e restò prigione egli, Gianieronimo da Castiglione, Claudio Rangone, Carbone, Lignach e altri, e la vanguardia menata dal conte Guido, che era già alloggiata, si salvò in Pavia; che i franzesi si portorono vilmente e i tedeschi il medesimo, e anche gli italiani eccetto Stefano Colonna e Claudio, che restò ferito in una spalla; che le lance si salvorono quasi tutte, e si ridusseno a Pavia circa dumila fanti di varie nazioni col conte Guido e, al principio della notte de' ventitré, se ne andorno a Lodi, sí impauriti che furono per rompersi da loro medesimi, e ne restorno assai in cammino; e i capitani si scusavano per non essere pagate le genti, delle quali le franzesi se ne ritornorono tutte in Francia.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.11

                                                  

                                                 Pace di Barcellona fra il pontefice e Cesare; le condizioni della pace e gli accordi presi. Pace di Cambrai fra il re di Francia e Cesare; le condizioni della pace; contegno del re verso gli ambasciatori dei collegati.

                                                  

                                                 Cosí posate l'armi quasi per tutta Italia, per due rotte ricevute, nella estremità di quella, da' franzesi, i pensieri de' príncipi maggiori erano volti agli accordi. De' quali il primo che successe fu quello del pontefice con Cesare, che si fece in Barzalona, molto favorevole per il pontefice; o perché Cesare desiderosissimo di passare in Italia, cercasse di rimuoversi gli ostacoli, parendogli avere per questo rispetto bisogno dell'amicizia del pontefice, o volendo, con capitoli molto larghi, dargli maggiore cagione di dimenticare l'offese avute da' suoi ministri e dal suo esercito. Che tra il pontefice e Cesare fusse pace e confederazione perpetua, a mutua difensione; concedesse il pontefice il passo, per le terre della Chiesa, all'esercito cesareo se volesse partire del regno di Napoli: Cesare, per rispetto del matrimonio nuovo e per la quiete di Italia rimetterà in Firenze i nipoti di Lorenzo de' Medici nella medesima grandezza che erano innanzi fussino cacciati; avuto nondimeno rispetto delle spese farà per la detta restituzione, come tra il papa e lui sarà dichiarato: curerà, il piú presto si potrà, o con le armi o in altro modo piú conveniente, che il pontefice sia reintegrato nella possessione di Cervia e di Ravenna, di Modena di Reggio e di Rubiera, senza pregiudicio delle ragioni dello imperio e della sedia apostolica: concederà il pontefice, riavute le terre predette, a Cesare, per rimunerazione del beneficio ricevuto, la investitura del regno napoletano, riducendo il censo dell'ultima investitura a uno cavallo bianco per ricognizione del feudo; e gli conceda la nominazione di ventiquattro chiese cattedrali, delle quali erano in controversia, restando al papa la disposizione delle chiese che non fussino di padronato, e degli altri benefici: il pontefice e Cesare, quando passerà in Italia, si abbocchino insieme per trattare la quiete di Italia e la pace universale de' cristiani, ricevendosi l'uno l'altro con le debite e consuete cerimonie e onore: Cesare, se il pontefice gli domanderà il braccio secolare per acquistare Ferrara, come avvocato, protettore e figliuolo primogenito della sedia apostolica, gli assisterà insino alla fine con tutto quello che sarà allora in sua facoltà, e converranno insieme delle spese, modi e forme da tenersi, secondo la qualità de' tempi e del caso: il pontefice e Cesare, di comune consiglio, penseranno qualche mezzo che la causa di Francesco Sforza si vegga di giustizia, legittimamente e per giudici non sospetti, acciò che trovatolo innocente sia restituito; altrimenti Cesare offerisce che, benché la disposizione del ducato di Milano appartenga a lui, ne disporrà con consiglio e consentimento del pontefice e ne investirà persona che gli sia accetta, o ne disporrà in altro modo come parrà piú espediente alla quiete di Italia: promette Cesare che Ferdinando re di Ungheria, suo fratello, consentirà che, vivente il pontefice e due anni poi, il ducato di Milano piglierà i sali di Cervia, secondo la confederazione fatta tra Cesare e Lione, confermata nell'ultima investitura del regno di Napoli, non approvando perciò la convenzione fattane col re di Francia, e senza pregiudizio delle ragioni dello imperio e del re di Ungheria: non possi alcuno di loro, in pregiudicio di questa confederazione, quanto alle cose di Italia, fare leghe nuove né osservare le fatte contrarie a questa; possino nondimeno entrarvi i viniziani, lasciando quello posseggono nel regno di Napoli, e adempiendo quello a che sono obligati a Cesare e a Ferdinando per l'ultima confederazione fatta tra loro, e rendendo Ravenna e Cervia, riservate eziandio le ragioni de' danni e interessi patiti per conto di queste cose: faranno Cesare e Ferdinando ogni opera possibile perché gli eretici si riduchino alla vera via, e il pontefice userà i rimedi spirituali; e stando contumaci, Cesare e Ferdinando gli sforzeranno con le armi, e il pontefice curerà che gli altri príncipi cristiani vi assistino secondo le forze loro: non riceveranno il pontefice e Cesare protezione di sudditi, vassalli e feudatari l'uno dell'altro, se non per conto del diretto dominio che avessino sopra alcuno, né si estendendo oltre a quello; e le protezioni altrimenti prese si intendino derogate infra uno mese. La quale amicizia e congiunzione, perché fusse piú stabile, la confermorno con stretto parentado; promettendo di dare per moglie Margherita figliuola naturale di Cesare, con dote di entrata di ventimila ducati l'anno, ad Alessandro de' Medici figliuolo di Lorenzo già duca di Urbino, al quale il pontefice disegnava di volgere la grandezza secolare di casa sua; perché, nel tempo che era stato in pericolo di morte, aveva creato cardinale Ippolito figliuolo di Giuliano. Convennono, nel tempo medesimo, in articoli separati: concederà il pontefice a Cesare e al fratello, per difendersi contro a' turchi, il quarto delle entrate de' benefici ecclesiastichi, nel modo conceduto da Adriano suo predecessore; assolverà tutti quegli che, in Roma o in altri luoghi, hanno peccato contro alla sedia apostolica, e quegli che hanno dato aiuto consiglio e favore, o che sono stati partecipi o hanno avuto rate le cose fatte, approvatele tacitamente o espressamente o prestato il consenso; non avendo Cesare publicato la crociata, concessagli dal pontefice meno ampia che le altre concesse innanzi, il pontefice, estinta quella, ne concederà un'altra in forma piena e ampia, come furono le concedute da Giulio e da Leone pontefici. Il quale accordo, essendo già risolute tutte le difficoltà, innanzi si stipulasse sopravenne a Cesare l'avviso della rotta di San Polo; e, ancora si dubitasse che per vantaggiare le sue condizioni non volesse variare delle cose ragionate, nondimeno prontamente confermò tutto quello che si era trattato; ratificando il medesimo dí, che fu il vigesimo nono di giugno, innanzi all'altare grande della chiesa cattedrale di Barzalona piena di innumerabile moltitudine, e promettendo l'osservanza con solenne giuramento.

                                                 Ma con non minore caldezza procedevano le pratiche della concordia tra Cesare e il re di Francia. Per le quali, poi che furono venuti i mandati, fu destinato Cambrai, luogo fatale a grandissime conclusioni; nel quale si abboccassino madama Margherita e madama la reggente madre del re di Francia; studiandosi il re, con ogni diligenza e arte, e con promettere (ancora quello che aveva in animo di non osservare) agli imbasciadori de' collegati di Italia (perché il re di Inghilterra consentiva a questi maneggi) di non fare concordia con Cesare senza consenso e sodisfazione loro; perché temeva che, insospettiti della sua volontà, non prevenissino ad accordare seco, e cosí di non restare escluso dalla amicizia di tutti. Però si sforzava persuadere loro di non sperare nella pace, anzi avere volto i pensieri alle provisioni della guerra. Sopra le quali trattando continuamente aveva mandato il vescovo di Tarba in Italia, con commissione di trasferirsi a Vinegia al duca di Milano a Ferrara e a Firenze, per praticare le cose appartenenti alla guerra, e promettere che passando Cesare in Italia passerebbe anche nel tempo medesimo con esercito potentissimo il re di Francia; concorrendo per la loro parte alle provisioni necessarie gli altri collegati. E nondimeno si strigneva continuamente la pratica dello accordo, per la quale, a' sette dí di luglio, entrorono, per diverse porte, con grande pompa tutte due le madame in Cambrai; e alloggiate in due case contigue, che avevano l'adito dell'una nell'altra, parlorono il dí medesimo insieme, e si cominciorno per gli agenti loro a trattare gli articoli; essendo il re di Francia (a chi i viniziani, impauriti di questa congiunzione, facevano grandissime offerte) andato a Compiagni, per essere piú presto a risolvere le difficoltà che occorressino. Convenneno in quel luogo non solamente le due madame ma eziandio, per il re di Inghilterra, il vescovo di Londra e il duca di Soffolt, perché senza consenso e partecipazione di quel re non si tenevano queste pratiche; e il pontefice vi mandò anche l'arcivescovo di Capua, e vi erano gli imbasciadori di tutti i collegati. Ma a questi riferivano i franzesi cose diverse alla verità di quello che si trattava, essendo nel re o tanta empietà o sí solo il pensiero dello interesse proprio (che consisteva tutto nella ricuperazione de' suoi figliuoli) che facendogli instanza grande i fiorentini che, seguitando l'esempio di quel che il re Luigi suo suocero e antecessore aveva fatto l'anno mille cinquecento dodici, consentisse che per salvarsi accordassino con Cesare, aveva ricusato; promettendo che mai non conchiuderebbe l'accordo senza includervegli, e che si trovava preparatissimo a fare la guerra; come, anche nella maggiore strettezza del praticare, prometteva continuamente a tutti gli altri. Sopravenne a' ventitré di luglio l'avviso della capitolazione fatta tra il pontefice e Cesare, ed essendo molto stretta la pratica, si turbò in modo, per certe difficoltà che nacqueno sopra alcune terre della Francia Contea, che madama la reggente si messe in ordine per partirsi; ma per opera del legato del pontefice, ma piú principalmente dello arcivescovo di Capua, si fece la conclusione; ancora che, essendo già conchiusa, il re di Francia promettesse le cose medesime che aveva prima promesse a' collegati. Finalmente, il quinto dí di agosto, si publicò nella chiesa maggiore di Cambrai solennemente la pace. Della quale il primo articolo fu: che i figliuoli del re fussino liberati, pagando il re a Cesare per la taglia loro, credo, uno milione e dugento migliaia di ducati; e per lui al re d'Inghilterra, credo, dugentomila: restituire a Cesare, tra sei settimane dopo la ratificazione, tutto quello possedeva nel ducato di Milano; lasciargli Asti e cederne le ragioni; lasciare, piú presto potesse, Barletta e quel teneva nel regno di Napoli; protestare a viniziani che, secondo la forma de' capitoli di Cugnach, restituissino le terre di Puglia; e in caso non lo facessino dichiararsi loro inimico e aiutare Cesare, per la ricuperazione, con trentamila scudi il mese e con dodici galee quattro navi e quattro galeoni pagati per sei mesi: pagare quello che era in sua possanza delle galee prese a Portofino, o la valuta, defalcato quello che poi avessino preso Andrea Doria o altri ministri di Cesare; abolire, come prima erano convenuti a Madril, la superiorità di Fiandra e di Artois, e cedere le ragioni di Tornai e di Arazzo, il possesso di Nivers, per disobligare Cesare dello stato sopra Brabante: annullare il processo di Borbone, e restituire l'onore al morto e i beni a' successori (benché Cesare si querelasse poi che il re, subito che ebbe recuperati i figliuoli, di nuovo gli tolse loro): restituissinsi i beni occupati ad alcuno per conto della guerra o a' suoi successori (il che anche dette a Cesare causa di querela, perché il re non restituí i beni occupati al principe di Oranges): intendessinsi estinti tutti i cartelli, ed eziandio quello di Ruberto della Marcia. Fu compreso in questa pace per principale il pontefice, e vi fu incluso il duca di Savoia, sí generalmente come suddito dello imperio sí specialmente come nominato da Cesare; e che il re non si avesse a travagliare piú in cose di Italia né di Germania, in favore di alcuno potentato, in pregiudicio di Cesare; benché il re di Francia affermasse, ne' tempi seguenti, non essergli proibito per questa concordia di recuperare quello che il duca di Savoia occupava del regno di Francia, e quel che pretendeva appartenersegli per le ragioni di madama la reggente sua madre. Vi fu ancora uno capitolo che nella pace si intendessino inclusi i viniziani e i fiorentini in caso che, fra quattro mesi, fussino delle differenze loro d'accordo con Cesare (che fu come una tacita esclusione); e credo il simile del duca di Ferrara. Né de' baroni e fuorusciti del regno di Napoli fu fatto menzione alcuna. Di che il re, che, fatto l'accordo, andò subito a Cambrai a visitare madama Margherita, non essendo però al tutto di atto tanto brutto senza vergogna, fuggí per qualche dí, con vari sotterfugi, il cospetto e l'udienza degli imbasciadori de' collegati. A' quali poi finalmente, uditi in disparte, fece escusazione che, per ricuperare i figliuoli, non aveva potuto fare altro; ma che mandava l'ammiraglio a Cesare per benefizio loro, e altre vane speranze: promettendo a' fiorentini di prestare loro, perché si aiutassino dagli imminenti pericoli, quarantamila ducati; che riuscivano come l'altre promesse. E dimostrando farlo per loro sodisfazione, dette licenza a Stefano Colonna, del quale non intendeva piú servirsi, che andasse agli stipendi loro.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.12

                                                  

                                                 Nuovi progressi degli imperiali in Lombardia. Ordine di Cesare al principe d'Oranges di assaltare lo stato dei fiorentini, ed accordi fra il principe e il pontefice. Venuta di Cesare in Italia; i fiorentini inviano a lui ambasciatori; contegno dei veneziani, del duca di Ferrara e del duca di Milano. Preparativi dei fiorentini per la difesa. Occupazione di Spelle da parte del principe d'Oranges.

                                                  

                                                 Le quali cose mentre che si trattavano, Antonio de Leva aveva ricuperato Biagrassa; e il duca di Urbino, standosi nello alloggiamento di Casciano e attendendo con numero incredibile di guastatori a fortificarlo, consigliava si tenesse Pavia e Santo Angelo, allegando l'alloggiamento di Casciano essere opportuno a soccorrere Lodi e Pavia. Andò dipoi Antonio de Leva a Enzago, a tre miglia di Casciano, donde continuamente scaramucciava con le genti viniziane; e ultimatamente, da Enzago a Vauri, o per correre nel bergamasco o per essergli state rotte l'acque da' viniziani. Entrò il Vistarino in questo tempo in Valenza, per il castello, e roppe dugento fanti che vi erano; il marchese di Mantova era ritornato alla devozione imperiale; e già erano arrivati, di luglio, per mare, a Genova dumila fanti spagnuoli per aspettare la venuta di Cesare.

                                                 Ma Cesare, subito che ebbe fatto l'accordo col pontefice, commesse al principe di Oranges che, a requisizione del pontefice, assaltasse con l'esercito lo stato de' fiorentini: il quale, venuto all'Aquila, raccoglieva a' confini del regno le genti sue. Ricercollo instantemente il pontefice che passasse innanzi; perciò il principe, senza le genti, l'ultimo dí di luglio, andò a Roma per stabilire seco le provisioni. A Roma, dopo varie pratiche, le quali talvolta furno vicine alla rottura per le difficoltà che faceva il papa allo spendere, composeno finalmente che il pontefice gli desse di presente trentamila ducati, e in breve tempo quarantamila altri; perché egli, a sue spese, riducesse prima Perugia, cacciatone Malatesta Baglione, a ubbidienza della Chiesa, dipoi assaltasse i fiorentini per restituire in quella città la famiglia de' Medici; cosa che il pontefice reputava facilissima, persuadendosi che, abbandonati da ciascuno, avessino, secondo la consuetudine de' suoi maggiori, piú presto a cedere che a mettere la patria in sommo e manifestissimo pericolo. Però raccolse il principe le sue genti, le quali erano tremila fanti tedeschi, ultime reliquie di quegli che erano, e di Spagna col viceré e di Germania con Giorgio Fronspergh, passati in Italia, e [quattro]mila fanti italiani non pagati, sotto diversi colonnelli, Pieroluigi da Farnese, il conte di San Secondo e il colonnello di Marzio e Sciarra Colonna; e il pontefice cavò di Castel Santo Angelo, per accomodarlo, tre cannoni e alcuni pezzi di artiglierie; e dietro a Oranges aveva a venire il marchese del Guasto, co' fanti spagnuoli che erano in Puglia. Ma in Firenze era deliberazione molto diversa, e gli animi ostinatissimi a difendersi. La quale perché fu cagione di cose molto notabili, pare molto conveniente descrivere particolarmente la causa di queste cose [e] il sito della città

                                                 Le quali cose mentre da ogni parte si preparano, Cesare, partito di Barzalona con grossa armata di navi e di galee (in sulla quale erano mille cavalli e novemila fanti), poi che non senza travaglio e pericolo fu stato in mare quindici dí, arrivò il duodecimo dí di agosto a Genova; nella quale città ebbe notizia della concordia fatta a Cambrai: e nel tempo medesimo passò in Lombardia agli stipendi suoi il capitano Felix con ottomila tedeschi. Spaventò la venuta sua con tanto apparato gli animi di tutta Italia, già certa di essergli stata lasciata in preda dal re di Francia. Però i fiorentini, sbigottiti in su' primi avvisi, gli elesseno quattro imbasciadori de' principali della città, per congratularsi seco e cercare di comporre le cose loro: ma dipoi, ripigliando continuamente animo, moderorono le commissioni; ristrignendosi solo a trattare seco degli interessi suoi e non delle differenze col pontefice: sperando che a Cesare, per la memoria delle cose passate e per la piccola confidenza che soleva essere tra i pontefici e gl'imperadori, fusse molesta la sua grandezza, e però avesse a desiderare che e' non aggiugnesse alla potenza della Chiesa l'autorità e le forze dello stato di Firenze. Dispiacque molto a' viniziani che, essendo i fiorentini collegati con loro, avessino eletto al comune inimico, senza loro partecipazione, imbasciadori; e se ne lamentò anche il duca di Ferrara, benché seguitando l'esempio loro, ve ne mandò anche egli subitamente; e i viniziani consentirono al duca di Milano che facesse il medesimo: il quale, molto innanzi, aveva tenuto occultamente pratica col pontefice perché lo accordasse con Cesare, conoscendo, eziandio innanzi alla rotta di San Polo, potere sperare poco nel re di Francia e de' viniziani.

                                                 Fece Cesare sbarcare i fanti spagnuoli che aveva condotti seco a Savona, e gli voltò in Lombardia, perché Antonio de Leva uscisse potente in campagna; e aveva offerto di sbarcargli alla Spezie per mandargli in Toscana. Ma al pontefice, per la impressione che si aveva fatto, non parveno necessarie tante forze, desiderando massime, per conservazione del paese, non volgere senza bisogno tanto impeto contro a quella città. Contro alla quale e contro a Malatesta Baglione già procedendo scopertamente, fece ritenere nelle terre della Chiesa il cavaliere Sperello; il quale, spedito con danari, innanzi alla capitolazione fatta a Cambrai, dal re di Francia (il quale aveva ratificata la sua condotta), ritornava a Perugia. Fece anche ritenere, appresso a Bracciano, i danari mandati da' fiorentini allo abate di Farfa, condotto da loro con dugento cavalli, perché soldasse mille fanti; ma fu necessitato presto a restituirgli, perché avendo il pontefice deputati legati a Cesare i cardinali Farnese, Santa Croce e Medici, e passando quello di Santa Croce, l'abate avendolo fatto ritenere, non lo volle liberare se prima non riaveva i danari. Ma i fiorentini continuavano nelle loro preparazioni, avendo invano tentato con Cesare che, insino che avesse udito gli imbasciadori loro, si fermassino l'armi. Ricercorono don Ercole da Esti, primogenito del duca di Ferrara, condotto da loro sei mesi innanzi per capitano generale, che venisse con le sue genti, come era obligato loro. Il quale, benché avesse accettato i danari mandatigli per soldare mille fanti, deputati, quando cavalcava, per guardia sua, nondimeno, anteponendo il padre le considerazioni dello stato alla fede, recusò di andare, non restituiti anche i danari, benché mandò i suoi cavalli: donde i fiorentini gli disdissono il beneplacito del secondo anno. Ma già il principe di Oranges, il decimonono dí di agosto, era a Terni e i tedeschi a Fuligno, dove si faceva la massa: essendo cosa ridicola che, essendo fatta e publicata la pace tra Cesare e il re di Francia, il vescovo di Tarba, come imbasciadore del re a Vinegia a Ferrara a Firenze e a Perugia, magnificasse le provisioni potentissime del re alla guerra, e confortasse loro a fare il medesimo. Venne dipoi il principe, con seimila fanti tra tedeschi e italiani, a campo a Spelle: dove, appresentandosi con molti cavalli alla terra per riconoscere il sito, fu ferito in una coscia da quegli di dentro Giovanni d'Urbina, che, esercitato in lunga milizia di Italia, teneva il principato tra tutti i capitani di fanti spagnuoli; della quale ferita morí in pochi dí, con grave danno dello esercito, perché per consiglio suo si reggeva quasi tutta la guerra. Piantoronsi poi l'artiglierie a Spelle, dove, sotto Lione Baglione, fratello naturale di Malatesta, erano piú di cinquecento fanti e venti cavalli: ma essendosi battuto pochi colpi a una torre che era fuora della terra a canto alle mura, quegli di dentro, ancora che Lione avesse dato a Malatesta speranza grande della difesa, si arrenderono subito, con patto che la terra e gli uomini suoi restassino a discrezione del principe, i soldati, salve le persone e le robbe che potessino portare addosso, uscissino con le spade solo, né potessino per tre mesi servire contro al pontefice o contro a Cesare; ma nell'uscire furono quasi tutti svaligiati. Fu imputato di questo accordo non mediocremente Giovanbatista Borghesi fuoruscito sanese, che avendo cominciato a trattare con Fabio Petrucci, il quale era nello esercito, gli dette la perfezione con aiuto degli altri capitani: il che Malatesta attribuiva a infedeltà, molti altri a viltà di animo.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.13

                                                  

                                                 Risposta di Cesare agli ambasciatori dei fiorentini mandati a trattare con lui. Contegno del re di Francia verso Cesare e verso i collegati italiani. Trattative fra Cesare e il duca di Milano. Azione del pontefice per la concordia fra i veneziani e Cesare. Accordi del duca di Milano coi veneziani; resa di Pavia a Antonio de Leva.

                                                  

                                                 Ma gli imbasciadori fiorentini, presentatisi intanto a Cesare, si erano nella prima esposizione congratulati della venuta sua, e sforzatisi di farlo capace che la città non era ambiziosa, ma grata de' benefici e pronta a fare comodità a chi la conservasse; aveano scusato che era entrata nella lega col re di Francia per volontà del pontefice che la comandava, e avere continuato per necessità; non procedendo piú oltre, perché non aveano commissione [di conchiudere, ma] di avvisare quello che fusse proposto loro, ed espresso comandamento della republica che non udissino pratica alcuna col pontefice; visitare gli altri legati suoi ma non il cardinale de' Medici. A' quali innanzi fusse risposto, disse loro il gran cancelliere, eletto nuovamente cardinale, che era necessario satisfacessino al pontefice; e querelandosi essi della ingiustizia di questa dimanda, rispose che, per essersi la città confederata con gli inimici di Cesare e mandate le genti a offesa sua, era ricaduta dai privilegi suoi e devoluta allo imperio, e che però Cesare ne poteva disporre ad arbitrio suo. Finalmente fu risposto loro, in nome di Cesare, che facessino venire il mandato abile a convenire eziandio col pontefice, e che poi si attenderebbe alle differenze tra il papa e loro; le quali se prima non si componevano, non voleva Cesare trattare con loro gli interessi propri. Mandoronlo amplissimo a convenire con Cesare, ma non a convenire col pontefice: però, essendo Cesare (che partí da Genova a' trenta di agosto) andato a Piacenza, gli imbasciadori seguitandolo non furono ammessi in Piacenza poiché si era inteso non avere il mandato nel modo che aveva chiesto Cesare. Cosí restorono le cose senza concordia.

                                                 E aveva anche Cesare, ricevuti che ebbe rigidamente gli imbasciadori del duca di Ferrara, fattigli partire; benché ritornando poi con nuove pratiche, e forse con nuovi favori, furono ammessi. Mandò anche Nassau oratore al re di Francia, a congratularsi che con nuova congiunzione avessino stabilito il vincolo del parentado, e a ricevere la ratificazione: per le quali cause mandava anche a lui il re l'ammiraglio, e a Renzo da Ceri mandò danari perché si levasse con tutte le genti di Puglia; dove preparò anche dodici galee, perché vi andassino sotto Filippino Doria contro a' viniziani (contro a' quali Cesare mandò Andrea Doria con trentasette galee): benché, giudicando dovere essere piú certa la recuperazione de' figliuoli se a Cesare restasse qualche difficoltà in Italia, dava varie speranze a' collegati; e a' fiorentini particolarmente prometteva di mandare loro occultamente, per l'ammiraglio, danari, non perché avesse in animo di sovvenire o loro o gli altri ma perché stessino piú renitenti a convenire con Cesare.

                                                  

                                                 Praticavasi intratanto continuamente tra Cesare e il duca di Milano, per mano del protonotario Caracciolo, che andava da Cremona a Piacenza; e parendo strano a Cesare che il duca si piegasse manco a lui di quello che arebbe creduto, e il duca da altro canto riducendosi difficilmente a fidarsi, fu introdotta pratica che Alessandria e Pavia si deponessino in mano del papa, insino a tanto fusse conosciuta la causa sua. A che scrive il Cappella che gli imbasciadori del duca che erano appresso a Cesare non volleno consentire; ma credo che la conclusione mancasse da Cesare, non gli parendo potesse resistere alle forze sue, e tanto piú che Antonio de Leva era andato a Piacenza e (come era inimico dell'ozio e della pace), l'aveva confortato con molte ragioni alla guerra. Però Cesare gli commesse che facesse la impresa di Pavia; disegnando anche che nel tempo medesimo il capitano Felix, che [era] venuto co' nuovi lanzi e con cavalli e artiglierie verso Peschiera, e dipoi entrato in bresciano, rompesse da quella banda a' viniziani; avendo fatto il marchese di Mantova capitano generale di quella impresa.

                                                 Trattava intanto il pontefice la pace tra Cesare e i viniziani, con speranza di conchiuderla alla venuta sua di Bologna; perché avendo avuto prima in animo di abboccarsi a Genova con lui, avevano poi differito di comune consentimento, per la comodità del luogo, a convenirsi a Bologna; inducendogli a essere insieme non solo il desiderio comune di confermare e consolidare meglio la loro congiunzione, ma ancora Cesare la necessità, perché aveva in animo di pigliare la corona dello imperio, e il pontefice la cupidità della impresa di Firenze; e l'uno e l'altro di loro il desiderio di dare qualche forma alle cose d'Italia (che non poteva fare senza [comporre] le cose de' viniziani e del duca di Milano); ed eziandio di provedere a' pericoli imminenti del turco, il quale, con grande esercito entrato in Ungheria, camminava alla volta di Austria per attendere alla espugnazione di Vienna.

                                                 Nel quale tempo tra Cesare e i viniziani non si facevano fazioni di momento; perché i viniziani, inclinati ad accordare seco, per non irritare piú l'animo suo, avevano ritirato l'armata loro dalla impresa del castello di Brindisi a Corfú, attendendo solo a guardare le terre tenevano, e in Lombardia non si facendo per ancora se non leggiere escursioni. Però, intenti solo alla guardia delle terre, avevano messo in Brescia il duca d'Urbino, e in Bergamo il conte di Gaiazzo con seimila fanti. Il quale (non so se innanzi entrasse in Bergamo o poi), avendo fatto una imboscata presso a Valezzo, per avere inteso farsi una cavalcata da' cavalli borgognoni, essendo venuti grossi, lo ruppeno, preseno Gismondo Malatesta e Lucantonio; egli, fatto prigione da quattro italiani, persuasogli con grandi promesse che lo lasciassino fu da loro condotto a Peschiera e liberato. Erano i tedeschi mille cavalli e otto in diecimila fanti; i quali, stati dispersi qualche dí, si ritirorno a Lonata, disegnandosi che insieme col marchese di Mantova facessino la impresa di Cremona, dove era il duca di Milano. Il quale, vedendosi escluso dallo accordo con Cesare, e che Antonio de Leva era andato a campo a Pavia, e che già il Caracciolo andava a Cremona a denunziargli la guerra, convenne co' viniziani di non fare concordia con Cesare senza consentimento loro; i quali si obligorono dargli per la difesa del suo stato dumila fanti pagati e ottomila ducati il mese, e gli mandorono artiglierie e gente a Cremona; col quale aiuto confidava il duca potere difendere Cremona e Lodi. Perché Pavia fece contro a Antonio de Leva piccola resistenza, non solo perché non vi era vettovaglia per due mesi ma eziandio perché il Pizzinardo, proposto a guardarla, aveva mandato pochi dí innanzi quattro compagnie di fanti a Santo Angelo, dove Antonio de Leva aveva fatto dimostrazione di volersi accampare; e però, essendo restato dentro con poca gente, diffidatosi poterla difendere, non aspettata né batteria né assalto, come vedde prepararsi di piantare l'artiglierie, si accordò, salve le persone e la roba sua e de' soldati: con grande imputazione che avesse potuto piú in lui, e però indottolo ad affrettarsi, la cupidità di non perdere le ricchezze che aveva accumulate in tante prede che il desiderio di salvare la gloria acquistata per molte egregie opere fatte in questa guerra, e specialmente intorno a Pavia.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.14

                                                  

                                                 Proposte del principe d'Oranges a Malatesta Baglioni discusse fra questo e i fiorentini; accordi fra il principe e Malatesta per Perugia. Scarsissimi aiuti dei collegati ai fiorentini.

                                                  

                                                 Nel quale tempo era già accesa molto la guerra di Toscana: perché il principe di Oranges, preso che ebbe Spelle, e che il marchese del Guasto, il quale lo seguitava con fanti spagnuoli, di quegli che erano stati a Monopoli, cominciò ad appropinquarsi allo esercito suo, venne al ponte di San Ianni presso a Perugia in su il Tevere, dove si unirono seco i fanti spagnuoli; nella quale città erano tremila fanti de' fiorentini. Aveva il principe, innanzi si accampasse a Spelle, mandato uno uomo a Perugia a persuadere Malatesta che cedesse alle voglie del pontefice; il quale, per ritirare a sé in qualunque modo la città di Perugia e per desiderio che l'esercito procedesse piú innanzi, offeriva a Malatesta che, uscendosi di Perugia, gli conserverebbe gli stati e beni suoi propri, consentirebbe che liberamente andasse alla difesa de' fiorentini, e si obligherebbe che Braccio e Sforza Baglioni e gli altri inimici suoi non rientrassino in Perugia: e benché Malatesta affermasse non volere accettare partito alcuno senza consentimento de' fiorentini nondimeno udiva continuamente le imbasciate del principe, il quale poiché aveva acquistato Spelle gli faceva maggiore instanza. Comunicava queste cose Malatesta a' fiorentini: inclinato senza dubbio alla concordia, perché temeva alla fine del successo, e forse che i fiorentini non continuassino in porgergli tutti gli aiuti desiderava; e quando avesse ad accordare non sperava potere trovare accordo con migliori condizioni di quelle che gli erano proposte; stimando molto meglio che, senza offendere il pontefice e dargli causa di privarlo de' beni e delle terre che se gli preservavano, gli restasse la condotta de' fiorentini che, col volersi difendere, mettere in pericolo lo stato presente e le condizioni tollerabili che poteva avere dello esilio, e farsi esosi gli amici suoi e tutta la terra. Perseverava però sempre in dire di non volere accordare senza loro, ma soggiugnendo che volendo difendere Perugia era necessario che i fiorentini vi mandassino di nuovo mille fanti, e che il resto delle genti loro facesse testa all'Orsaia, lontana cinque miglia da Cortona, ne' confini del cortonese e perugino (il che non potevano fare senza sfornire tutte le terre), e nondimeno luogo sí debole che era necessario si ritirassino a ogni movimento degli inimici. Dimostrava che se non si accordava, e il principe, lasciata indietro Perugia, pigliasse il cammino di Firenze, sarebbe necessario gli lasciassino in Perugia mille fanti vivi e anche non basterebbeno, perché il pontefice potrebbe travagliarla con altre forze che con le genti imperiali; ma che accordando, i fiorentini ritirerebbeno a sé tutti i loro fanti, e lo seguiterebbeno anche dugento o trecento uomini de' suoi eletti; e che restandogli gli stati e beni suoi, ed esclusi gli inimici di Perugia, attenderebbe alla difesa con animo piú quieto. A' fiorentini sarebbe piaciuto molto il tenere la guerra a Perugia, ma vedendo che Malatesta trattava continuamente col principe, e sapendo anche che mai aveva intermesso di trattare col pontefice, dubitavano che egli, per gli stimoli de' suoi, per i danni della città e del paese e per sospetto degli inimici e della instabilità del popolo, alla fine non cedesse; e pareva loro molto pericoloso il mettere in Perugia quasi tutto il nervo e il fiore delle loro forze, sottoposte al pericolo della fede di Malatesta, al pericolo dello essere sforzate dagli inimici, e alla difficoltà del ritirarle in caso che Malatesta si accordasse. E consideravano ancora la mutazione di Perugia potergli poco offendere, restandovi gli amici di Malatesta e a lui le sue castella, né vi ritornando Braccio e i fratelli: donde il pontefice, mentre che la perseverava in quello stato, non poteva se non starne con continuo sospetto. Nella quale titubazione di animo, stimando sopra ogni cosa la salvazione di quelle genti, né si confidando interamente della costanza di Malatesta, mandorono segretissimamente, a' sei di settembre, uno uomo loro per levarle da Perugia, temendo non fussino ingannate se si faceva l'accordo: e inteso poi che per essere già vicini gli inimici non si erano potute partire, spedirono a Malatesta il consenso che accordasse. Ma aveva già, mentre che l'avviso era in cammino, prevenuto: perché Oranges, il nono di settembre, passò il Tevere al ponte di San Ianni; ed essendo alloggiato, dopo qualche leggiera scaramuccia, la notte medesima, conchiuse l'accordo con Malatesta, obligandolo a partirsi di Perugia, datagli facoltà che e' godesse i suoi beni, potesse servire i fiorentini come soldato, ritirare salve le genti loro: le quali perché avessino tempo a ridursi in su il dominio fiorentino promesse Oranges stare fermo con l'esercito due dí. Cosí ne uscirno a' dodici, e camminando con grandissima celerità si condusseno il dí medesimo a Cortona per la via de' monti, lunga e difficile, ma sicura.

                                                 Cosí si ridusse tutta la guerra nel terreno de' fiorentini. A' quali benché i viniziani e il duca d'Urbino avessino dato speranza di mandare tremila fanti, che per sospetto della venuta del principe a quelle bande avevano mandato nello stato di Urbino, nondimeno, non volendo dispiacere al pontefice, riuscí promessa vana: solamente dettono i viniziani al commissario di Castrocaro danari per pagare dugento fanti. E non ostante che quel senato e il duca di Ferrara trattassino continuamente di comporre con Cesare, nondimeno, perché questa difficoltà lo facesse piú facile alle cose loro, confortavano i fiorentini a difendersi.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.15

                                                  

                                                 Disegni dei fiorentini; perdita di Cortona e di Arezzo. Dichiarazione di Cesare di non voler udire gli ambasciatori fiorentini se non son rimessi i Medici in città. Richiesta del pontefice che Firenze si rimetta in suo potere. Dispareri in Firenze; decisione di resistenza. Il principe d'Oranges intorno a Firenze; le forze dei fiorentini. Prime scaramuccie sotto Firenze.

                                                  

                                                 Due erano allora principalmente i disegni de' fiorentini: l'uno, che l'esercito ritardasse tanto a venire innanzi che avessino tempo a riparare la loro città, alle mura della quale pensavano che finalmente si avesse a ridurre la guerra; l'altro, cercare di placare l'animo di Cesare, eziandio con l'accordare col pontefice, pure che non fusse alterato la forma della libertà e del governo popolare. Però, non essendo ancora successo l'esclusione de' loro imbasciadori, avevano mandato uno uomo al principe di Oranges, ed eletti imbasciadori al pontefice; instando, quando gli significorono la elezione, che insino allo arrivare loro facesse soprasedere lo esercito: il che ricusò di fare. Però il principe, fattosi innanzi, batté e dette l'assalto al borgo di Cortona che va a l'Orsaia, nella quale città erano settecento fanti; e ne fu ributtato. In Arezzo era maggiore numero di fanti; ma Antoniofrancesco degli Albizi, commissario, inclinato ad abbandonarlo per paura che il principe, presa Cortona, lasciato indietro Arezzo, non andasse alla volta di Firenze, e che prevenendo a quelle genti che erano seco in Arezzo, la città, mancandogli la piú pronta difesa che avesse, spaventata non si accordasse; però senza consenso publico, se bene forse con tacita intenzione del gonfaloniere, si partí da Arezzo con tutte le genti, lasciati solamente dugento fanti nella fortezza: ma giunto a Feghine, per consiglio di Malatesta, che era quivi e approvava il ridurre le forze alla difesa di Firenze, rimandò mille fanti in Arezzo perché non restasse abbandonato del tutto. Ma a' diciasette dí, Cortona, alla difesa della quale sarebbeno bastanti mille fanti, non vedendo provedersi per i fiorentini gagliardamente, e inteso anche forse la titubazione di Arezzo, si arrendé, ancora che poco stretta dal principe; col quale compose di pagargli ventimila ducati. La perdita di Cortona dette cagione a' fanti che erano in Arezzo, non si reputando bastanti a difenderlo, di abbandonare quella città: la quale, a' diciannove dí, si accordò anche ella col principe: ma con capitoli e con pensieri di reggersi piú presto da se stessa in libertà sotto l'ombra e protezione di Cesare che stare piú in soggezione de' fiorentini, dimostrando essere falsa quella professione che insino allora avevano fatto di essere amici della famiglia de' Medici e inimici del governo popolare.

                                                 Nel quale tempo Cesare aveva negato espressamente non volere piú udire gli imbasciadori fiorentini se non restituivano i Medici; e Oranges, benché con gli oratori che erano appresso a lui detestasse senza rispetto la cupidità del papa e la ingiustizia di quella impresa, nondimeno aveva chiarito non potere mancare di continuarla senza la restituzione de' Medici: e trovandosi avere trecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri dumila cinquecento tedeschi, di bellissima gente, dumila fanti spagnuoli tremila italiani, sotto Sciarra Colonna Piermaria Rosso Pierluigi da Farnese e Giovambatista Savello (co' quali si uní poi Giovanni da Sassatello, defraudati i danari ricevuti prima da' fiorentini, de' quali aveva accettata la condotta), e poi Alessandro Vitelli, che avevano tremila fanti, ma avendo poche artiglierie, ricercò i sanesi che l'accomodassino di artiglierie. I quali, non potendo negare allo esercito di Cesare gli aiuti chiesti, ma per l'odio contro al pontefice e per il sospetto della sua grandezza malcontenti della mutazione del governo de' fiorentini, co' quali per l'odio comune contro al papa avevano avuto molti mesi quasi tacita pace e intelligenza, mettevano in ordine l'artiglierie ma con quanta piú lunghezza potevano.

                                                 Aveva intratanto il papa udito gli oratori fiorentini, e risposto loro che la intenzione sua non era di alterare la libertà della città ma che, non tanto per le ingiurie ricevute da quel governo e dalla necessità di assicurare lo stato suo quanto per la capitolazione fatta con Cesare, era stato costretto a fare la impresa; nella quale trattandosi ora dello interesse dell'onore suo, non chiedeva altro se non che liberamente si rimettessino in potestà sua, e che fatto questo dimostrerebbe il buono animo che aveva al benefizio della patria comune. E intendendo poi che, crescendo a Firenze il timore, massime poi che avevano inteso l'esclusione fatta degli oratori loro da Cesare, avevano eletto a lui nuovi imbasciadori, pensando fussino disposti a cedergli, e desideroso della prestezza per fuggire i danni del paese, mandò in poste allo esercito l'arcivescovo di Capua: il quale, passando per Firenze, trovò disposizione diversa da quel che si era persuaso.

                                                 Fecesi intanto innanzi Oranges, e a' ventiquattro era a Montevarchi nel Valdarno, lontano venticinque miglia da Firenze, aspettando da Siena otto cannoni, che si mosseno il dí seguente; ma camminando con la medesima lunghezza con la quale erano stati preparati, furono cagione che il principe, che a' ventisette aveva condotto l'esercito insino a Feghine e l'Ancisa, soprastette in quello alloggiamento insino a tutto il dí quarto di ottobre: donde procedé la durezza di tutta quella impresa. Perché, perduto Arezzo vedendosi mancare le speranze e le promesse fatte loro da ogni banda, la fortificazione che si faceva della città dalla banda del monte non ancora ridotta in termine che, benché vi si lavorasse con grandissima sollecitudine, non paresse a' soldati che prima che fra otto o dieci dí potesse mettersi in difesa, e intendendo l'esercito inimico camminare innanzi, ed essendosi dalla banda di Bologna mosso per ordine del papa Ramazzotto con tremila fanti, saccheggiata Firenzuola ed entrato nel Mugello, e temendosi non andasse a Prato, i cittadini spaventati cominciorono a inclinarsi all'accordo, e massime che molti se ne fuggivano per timore: in modo che, nella consulta del magistrato de' dieci proposto alle cose della guerra, nella quale consulta intervenneno i cittadini principali di quel governo, fu parere di tutti di spedire a Roma libero e ampio mandato per rimettersi nella volontà del pontefice. Ma avendone fatta relazione al supremo magistrato, senza il consenso del quale non si poteva farne la deliberazione, il gonfaloniere, che ostinatamente era nella contraria sentenza, la contradisse; e congiugnendosi con lui il magistrato popolare de' collegi, che partecipava della autorità de' tribuni della plebe di Roma, nel quale per sorte erano molte persone di mala mente e di grande temerità e insolenza, potette tanto, fomentando anche la sua opinione l'ardire e le minaccie di molti giovani, che impedí che per quei dí non si fece altra deliberazione. E nondimeno è manifesto che se il dí seguente, che fu il vigesimo ottavo di settembre, il principe si fusse spinto piú innanzi uno alloggiamento, quegli che contradicevano all'accordo non arebbeno potuto alla inclinazione di tutti gli altri resistere: da tante piccole cagioni dependono bene spesso i momenti di cose gravissime. Il soprasedere vano di Oranges, interpretato da alcuni che per nutrire la guerra fusse fatto studiosamente, perché allo accostarsi presso Firenze non gli erano necessarie l'artiglierie, fu causa che in Firenze molti ripreseno animo; ma quel che importò piú fu che la fortificazione, continuata senza una minima intermissione di tempo con grandissimo numero d'uomini, si condusse in grado che, innanzi che Oranges si movesse da quello alloggiamento, giudicorono i capitani che i ripari si potessino difendere: donde cessata ogni inclinazione allo accordo, si messe la città ostinatamente alla difesa; essendosi anche aggiunto ad assicurare gli animi loro che Ramazzotto, che aveva condotto seco villani senza denari e non soldati, essendo venuto non con disposizione di combattere ma di rubare, saccheggiato che ebbe tutto il Mugello, si ritirò nel bolognese con la preda, dissolvendosi tutta la gente, la quale aveva venduto a lui la maggiore parte delle cose predate. Cosí di una guerra facile, e che si sarebbe finita con piccolo detrimento di ciascuno, risultò una guerra gravissima e perniciosissima, che non potette finirsi se non distrutto che fu tutto il paese, e condotta quella città in pericolo dell'ultima sua desolazione.

                                                 Mossesi, a' cinque di ottobre, Oranges da Feghine; ma camminando lentamente, per aspettare l'artiglierie di Siena che gli erano vicine, non ebbe condotte tutte le genti e l'artiglierie nel Piano di Ripoli, a due miglia di Firenze, prima che a' venti dí, e a' ventiquattro alloggiato tutto l'esercito in su i colli vicini a' ripari: i quali, movendosi dalla porta di Saminiato, occupavano i colli eminenti alla città, insino alla porta di San Giorgio; e movendosi anche una alia da Saminiato, che si distendeva insino in su la strada della porta di San Niccolò. Erano in Firenze ottomila fanti vivi; e la resoluzione era di difendere Prato, Pistoia, Empoli, Pisa e Livorno, nelle quali terre tutte avevano messo presidio sufficiente, e il resto de' luoghi lasciare piú presto alla fede e disposizione de' popoli e alla fortezza de' siti che mettervi grosse genti per guardargli. Ma già si empieva tutto il paese di venturieri e di predatori; e i sanesi non solo predavano per tutto, ma eziandio mandorono gente per occupare Montepulciano, sperando che poi dal principe fusse consentito loro il tenerlo; ma essendovi alcuni fanti de' fiorentini si difese facilmente: e vi sopragiunse poco poi Napolione Orsino, soldato de' fiorentini, con trecento cavalli, che non era voluto partirsi di terra di Roma insino a tanto che il pontefice non si fusse indiritto al cammino di Bologna.

                                                 Alloggiato Oranges l'esercito, e distesolo molto largo in su i colli di Montici, del Gallo e di Giramonte, e avuti guastatori e alcuni pezzi piccoli di artiglieria da' lucchesi, fece lavorare uno riparo, credevasi per dare uno assalto al bastione di Saminiato; e all'incontro, per offenderlo, furono piantati nell'orto di Saminiato quattro cannoni in su uno cavaliere. Arrenderonsi subito al principe le terre di Colle e di San Gimignano, luoghi importanti per facilitare le vettovaglie che venivano da Siena. Piantò, a' ventinove, Oranges in su uno bastione del Giramonte quattro cannoni al campanile di Saminiato per abbatterlo, perché da uno sagro che vi era piantato era molto danneggiato l'esercito; e in poche ore se ne roppeno due. Però, avendo il dí seguente condotto un altro, tratti che vi ebbeno invano circa cento cinquanta colpi, né potuto levarne il sagro, si astenneno dal tirarvi piú. E considerandosi per tutti la oppugnazione di Firenze, massime da uno esercito solo, essere difficillima, cominciorono le fazioni a procedere lentamente, piú tosto con scaramuccie che con maniera di oppugnazione. Fecesi, a' due di novembre, una grossa scaramuccia al bastione di San Giorgio e a quello di San Niccolò e della strada Romana; e a' quattro fu piantata in su il Giramonte una colubrina al palazzo de' signori, che al primo colpo si aperse. E a' sette, i cavalli che erano dentro scorseno in Valdipesa, e preseno cento cavalli la piú parte utili; e cavalli e archibusieri, usciti dal Pontedera, preseno sessanta cavalli, tra le Capanne e la torre di San Romano.

                                                  

                                                 Lib.19, cap.16

                                                  

                                                 Il pontefice e Cesare a Bologna. Accordi per continuare l'impresa contro Firenze. La questione di Modena e di Reggio. Discussioni per la pace coi veneziani e per il perdono di Cesare a Francesco Sforza. Continuazione della guerra in Lombardia. Pace di Cesare col duca di Milano e coi veneziani.

                                                  

                                                 Nel quale tempo essendo giunto il pontefice a Bologna, Cesare, secondo l'uso de' príncipi grandi, vi venne dopo lui; perché è costume che, quando due príncipi hanno a convenirsi, quello di piú degnità si presenta prima al luogo diputato, giudicandosi segno di riverenza che quello che è inferiore vadi a trovarlo: dove ricevuto dal papa con grandissimo onore, e alloggiato nel palazzo medesimo in stanze contigue l'una all'altra, pareva, per le dimostrazioni e per la dimestichezza che appariva tra loro, che fussino continuamente stati in grandissima benivolenza e congiunzione. Ed essendo già cessato il sospetto della invasione de' turchi, perché l'esercito loro, presentatosi insieme con la persona [di Solimanno] innanzi a Vienna, dove era grossissimo presidio di fanti tedeschi, non solo avevano dati piú assalti invano ma ne erano stati ributtati con grandissima uccisione, in modo che diffidandosi di potere ottenerla, e massime non avendo artiglieria grossa da batterla e stretti da' tempi che in quella regione erano asprissimi, essendo il mese di ottobre, se ne levorono, non ritirandosi a qualche alloggiamento vicino ma alla volta di Costantinopoli, cammino credo di tre mesi; però trovandosi Cesare assicurato di questo sospetto, che l'aveva prima inclinato, non ostante l'acquisto di Pavia, a concordare col duca di Milano, e però mandato a Cremona il Caracciolo, ma ancora indotto a persuadere al pontefice il pensare a qualche modo per la concordia co' fiorentini, acciò che spedito dalle cose di Italia potesse passare con tutte le genti in Germania a soccorso di Vienna e del fratello: ma cessato questo sospetto, cominciorono a trattare delle cose di Italia.

                                                 Nelle quali quella che premeva piú al pontefice era la impresa contro a' fiorentini; e in questa anche Cesare era molto inclinato, sí per sodisfare al pontefice di quello che si era capitolato a Barzalona come perché, avendo la città in concetto di essere inclinata alla divozione della corona di Francia, gli era grata la sua depressione. Però, essendo in Bologna quattro oratori fiorentini al pontefice e facendo anche instanza di parlare a lui, non volle mai udirgli, se non una volta sola quando parve al pontefice; da chi prese anche la sostanza della risposta che fece loro. Però si conchiuse di continuare la impresa e (perché la riusciva piú difficile che non era paruto al pontefice) di volgervi quelle genti che erano in Lombardia, se nascesse occasione d'accordo co' viniziani e con Francesco Sforza, le quali fussino pagate da Cesare, e che il papa pagasse ciascuno mese al principe d'Oranges (il quale per trattare queste cose venne a Bologna) ducati sessantamila, perché, non potendo Cesare sostenere tante spese, mantenesse quelle genti che erano già intorno a Firenze.

                                                 Parlossi poi dell'altro interesse del pontefice che erano le cose di Modena e di Reggio; nella quale [pratica] il papa, per fuggire il carico dell'ostinazione, avendo proposto quella cantilena medesima che aveva pensata prima e usata molte volte, che se si trattasse solo di quelle terre non farebbe difficoltà di farne la volontà di Cesare, ma che alienando Modena e Reggio restavano Parma e Piacenza in modo separate dallo stato ecclesiastico che venivano in conseguenza quasi alienate; rispondeva Cesare essere rispetto ragionevole, ma mentre che le forze erano occupate nella impresa di Firenze non si potere tentare altro che l'autorità. Ma in segreto sarebbe stato il desiderio suo che, con buona soddisfazione del papa, fussino restate al duca di Ferrara; col quale, nel venire a Bologna, aveva parlato a Modena, e datogli grande speranza di fare ogni opera col pontefice di comporre le cose sue. E aveva anche quel duca saputo conciliarsi in modo gli animi di quegli che potevano appresso a Cesare che non gli mancavano fautori grandi in quella corte.

                                                 Restavano i due articoli piú importanti e piú difficili, de' viniziani e di Francesco Sforza; la concordia de' quali, massime quella di Francesco, se bene non fusse secondo la inclinazione con la quale prima [Cesare] era venuto in Italia, nondimeno, trovando alle cose maggiore difficoltà che non si era immaginato in Spagna, e vedendo difficile ad acquistare lo stato di Milano, dopo la congiunzione che aveva fatto Francesco vo' viniziani, trovandosi in spesa grossissima per tante genti che aveva condotto di Spagna e di Germania, non era piú nella pristina durezza; massime che dal fratello e da molti era, per i tumulti de' luterani e per altri semi che apparivano di nuove cose, sollecitato a passare in Germania; dove ancora poteva credere che a qualche tempo ritornerebbero i turchi; massime che era notissimo che Solimanno, acceso dallo sdegno e dalla ignominia, aveva al partirsi da Vienna giurato che presto vi ritornerebbe molto piú potente. E parendo a Cesare non solo mal sicuro ma meno onorevole il partirsi di Italia, lasciando le cose imperfette, cominciò a inclinare l'animo a concordare non solo co' viniziani, ma eziandio di perdonare a Francesco Sforza; a che instava molto il pontefice, desideroso della quiete universale; e anche perché le cose di Cesare, disoccupate dall'altre imprese, si volgessino contro a Firenze. Riteneva Cesare piú che altro il parergli non fusse con sua degnità il credersi che quasi la necessità lo inducesse a perdonare a Francesco Sforza; e Antonio de Leva, che era con lui a Bologna, faceva ogni instanza perché di quello stato si facesse altra deliberazione, proponendo ora Alessandro nipote del papa ora altri: nondimeno, essendo difficoltà di collocare quello stato in persona di chi Italia si contentasse, né avendo il papa inclinazione a pensarvi per i suoi, non essendo cosa che si potesse spedire se non con nuove guerre e con nuovi travagli, Cesare, in ultimo, inclinando a questa sentenza, consentí di concedere a Francesco Sforza salvocondotto, sotto nome di venire a lui a giustificarsi ma in fatto per ridurre le cose a qualche composizione; consentendo ancora i viniziani alla venuta sua, perché speravano che in uno tempo medesimo si introducesse la concordia delle cose loro.

                                                 E nondimeno non cessavano però l'armi in Lombardia; perché il Belgioioso, il quale per l'assenza di Antonio de Leva era restato capo a Milano, andò con settemila fanti a campo a Santo Angelo, dove erano quattro compagnie di fanti viniziani e di Milano; e avendolo battuto con l'occasione di una pioggia continua che faceva inutili gli archibusi, che allo scoperto difendevano il muro, accostato i suoi, appoggiati agli scudi e con le spade e picche, dette l'assalto, accostandosi anche egli valentemente con gli altri: ma non potendo quegli di dentro tenere in mano le corde da dare il fuoco, ed essendo necessitati gittargli in terra e combattere con altre armi, sbigottiti cominciorono a ritirarsi e ad abbandonare le mura; in modo che, entrati dentro gli inimici, restorono tutti o morti o prigioni. Disegnò poi andare di là da Adda, e passata già parte dello esercito per il ponte fatto a Casciano, alcune compagnie de' nuovi spagnuoli si partirono per andare a Milano; ma lui prevenendogli, fece pigliare l'armi alla terra, in modo che non potendo entrare ritornorono indietro allo esercito.

                                                 Ma già, non ostante queste cose e lo essere i tedeschi ne' terreni de' viniziani, si strignevano talmente le pratiche della pace che raffreddavano tutti i pensieri della guerra. Perché Francesco Sforza, presentatosi, subito che arrivò in Bologna, al cospetto di Cesare, e ringraziatolo della benignità sua in avergli conceduto facoltà di venire a lui, gli espose confidare tanto nella giustizia sua che, per tutte le cose succedute innanzi che il marchese di Pescara lo rinchiudesse nel castello di Milano, non desiderava altra sicurtà o presidio che la innocenza propria; e che perciò, in quanto a queste, rinunziava liberamente il salvocondotto; la scrittura del quale avendo in mano la gittò innanzi a lui, cosa che molto sodisfece a Cesare. Trattoronsi circa a uno mese le difficoltà dell'accordo suo e di quello de' viniziani; e finalmente, a' ventitré di dicembre, essendosene molto affaticato il pontefice, si conchiuse l'uno e l'altro: obligandosi Francesco a pagargli in uno anno ducati quattrocentomila, e cinquecentomila poi in dieci anni cioè ogni anno cinquantamila, restando in mano di Cesare Como e il castello di Milano; quali si obligò a consegnare a Francesco come fussino fatti i pagamenti del primo anno. E gli dette la investitura, o vero confermò quella che prima gli era data. Per i quali pagamenti osservare, e per i doni promessi a' grandi appresso a lui, fece grandissime imposizioni alla città di Milano e a tutto il ducato, non ostante che i popoli fussino consumati per sí atroci e lunghe guerre e per la fame e per la peste. Restituischino i viniziani al pontefice Ravenna e Cervia co' suoi territori, salve le ragioni loro, e perdonando il pontefice a quelli che avessino macchinato o operato contro a lui: restituischino a Cesare, per tutto gennaio prossimo, tutto quello posseggono nel regno di Napoli: paghino a Cesare il resto de' dugentomila ducati, debiti per il terzo capitolo dell'ultima pace contratta tra loro, cioè venticinquemila ducati infra uno mese prossimo e dipoi venticinquemila ciascuno anno; ma in caso che infra uno anno siano restituiti loro i luoghi, se non fussino restituiti secondo il tenore di detta pace o giudicate per arbitri comuni le differenze: paghino ciascuno anno a' fuorusciti cinquemila ducati per l'entrate de' beni loro, come si disponeva nella pace predetta; a Cesare centomila altri ducati, la metà fra dieci mesi l'altra metà dipoi a uno anno. Decidinsi le ragioni del patriarca di Aquileia, riservategli nella capitolazione di Vormazia, contro al re di Ungheria; includasi in questa pace e confederazione il duca di Urbino, per essere aderente e in protezione de' viniziani. Perdonino al conte Brunoro da Gambara. Sia libero il commercio a' sudditi di tutti, né si dia ricetto a' corsali i quali perturbassino alcuna delle parti: sia lecito a' viniziani continuare pacificamente nella possessione di tutte le cose tengono: restituischino tutti i fatti ribelli per essersi aderiti a Massimiliano, a Cesare e al re di Ungheria, insino all'anno mille cinquecento ventitré; ma non si estenda la restituzione a' beni pervenuti nel fisco loro. Sia tra dette parti non solo pace ma lega difensiva perpetua per gli stati di Italia contro a qualunque cristiano. Promette Cesare che il duca di Milano terrà continuamente nel suo stato cinquecento uomini d'arme, e [egli stesso], per la difesa del duca e de' viniziani, ottocento uomini d'arme computativi i cinquecento predetti, cinquecento cavalli leggieri seimila fanti, con buona banda di artiglierie, e i viniziani il medesimo alla difesa del duca di Milano; ed essendo molestato ciascuno di questi stati, gli altri non permettino che vadia vettovaglie munizioni corrieri imbasciadori di chi offende, proibirgli ogni aiuto de' suoi stati e il transito a lui e alle sue genti. Se alcuno principe cristiano, eziandio di suprema dignità, assalterà il regno di Napoli, siano tenuti i viniziani ad aiutarlo con quindici galee sottili bene armate. Siano compresi i raccomandati di tutti, nominati e nominandi, non perciò con altra obligazione de' viniziani alla difesa. Se il duca di Ferrara concorderà col pontefice e con Cesare, si intenda incluso in questa confederazione. Per la esecuzione de' quali accordi, Cesare restituí a Francesco Sforza Milano e tutto il ducato, e ne rimosse tutti i soldati; ritenendosi solamente quegli che erano necessari per la guardia del castello e di Como; i quali restituí poi al tempo convenuto. E i viniziani restituirono al pontefice le terre di Romagna, e a Cesare le terre tenevano nella Puglia.

                                             

                                                 Lib.20, cap.1

                                                  

                                                 Firenze sola in guerra; il principe d'Oranges prende la Lastra; resa di terre dei fiorentini alle milizie imperiali e al pontefice. Trattative palesi e occulte di Malatesta Baglioni col pontefice. Disegni degli assedianti contro Firenze. Giuramento delle milizie in Firenze di difendere la città fino alla morte; infedeltà di Napoleone Orsini. Condotta ambigua del re di Francia per i maneggi del pontefice. Incoronazione di Cesare; come vien definita la questione fra il pontefice e il duca di Ferrara.

                                                  

                                                 Posto, per la pace e confederazione predetta, fine a sí lunghe e gravi guerre, continuate piú di otto anni con accidenti tanto orribili, restò Italia tutta libera da' tumulti e da' pericoli delle armi, eccetto la città di Firenze; la guerra della quale aveva giovato alla pace degli altri, ma la pace degli altri aggravava la guerra loro. Perché, come le difficoltà che si trattavano furono in modo digerite che non si dubitava la concordia dovere avere perfezione, Cesare, levate le genti dello stato de' viniziani, mandò quattromila fanti tedeschi, dumila cinquecento fanti spagnuoli, ottocento italiani, piú di trecento cavalli leggieri, con venticinque pezzi d'artiglieria, alla guerra contro a' fiorentini. Nella quale si erano fatte pochissime fazioni, né a pena degne di essere scritte: non bastando l'animo a quegli di fuora di combattere la città, né essendo pronti quegli di dentro a tentare la fortuna; perché, reputando d'avere modo a difendersi molti mesi, speravano che, o per mancamento di danari o per altri accidenti, gli inimici non avessino a starvi lungamente. Aveva perciò il principe mandato mille cinquecento fanti quattrocento cavalli e quattro pezzi di artiglieria a pigliare la Lastra, dove erano tre bandiere di fanti; e innanzi arrivasse il soccorso di Firenze la prese, ammazzati degli inimici circa dugento fanti. Succedé che la notte degli undici di dicembre Stefano Colonna, con mille archibusieri e quattrocento tra alabarde e partigiane, tutti in corsaletto e all'uso spagnuolo incamiciati, assaltorono il colonnello di Sciarra, alloggiato nelle case propinque alla chiesa di Santa Margherita a Montici, sforzoronle, con morte di piú di dugento uomini e molti feriti, e tutto il colonnello in sbaraglio, né perderono uno uomo solo. E andando Pirro da Castel di Piero per pigliare Montopoli, terra del contado di Pisa, i fanti che erano in Empoli, tagliatagli la strada tra Palaia e Montopoli, lo roppono, fatti molti prigioni. E da uno colpo di artiglieria fu morto, nell'orto di Saminiato, Mario Orsino e Giulio da Santa Croce. E nel Borgo da Sansepolcro entrò Napolione Orsino, soldato de' fiorentini, con cento cinquanta cavalli, perché Alessandro Vitelli, verso il Borgo e Anghiari, andava distruggendo il paese. Ma passate che ebbono l'Alpi le genti mandate nuovamente da Cesare, Pistoia e poi Prato, abbandonate dalle genti de' fiorentini, si arrendorono al pontefice: però l'esercito, non avendo alle spalle impedimento, non si andò a unire con li altri, ma fermatosi dall'altra parte di Arno alloggiò a Peretola presso alle mura della città, sotto il governo del marchese del Guasto, benché a tutti era superiore il principe di Oranges: essendo già ridotte le cose piú presto in forma di assedio che di oppugnazione. Arrendessi anche Pietrasanta al pontefice.

                                                 Nella fine di questo anno, il pontefice, ricercato da Malatesta Baglione che gli dava speranza di concordia, mandò a Firenze indiritto a lui Ridolfo Pio vescovo di Faenza; col quale furono trattate varie cose, parte con saputa della città in beneficio, parte occultamente da Malatesta contro alla città; le quali non ebbono altro effetto, anzi si credette che Malatesta, che era al fine della sua condotta, l'avesse tenute artificiosamente, acciò che i fiorentini, per timore di non essere abbandonati da lui, lo riconducessino con titolo di capitano generale; il che ottenne.

                                                 Seguitò l'anno mille cinquecento trenta la impresa medesima: dove benché Oranges, con cominciare nuovi cavalieri e nuove trincee, facesse dimostrazione di volere battere i bastioni piú d'appresso, e massime quel di San Giorgio molto gagliardo, nondimeno, parte per la imperizia sua parte per la difficoltà della cosa, non si messe a esecuzione disegno alcuno; appartenendo a Stefano Colonna la guardia di tutto il monte.

                                                 Nel principio di questo anno, i fiorentini, presa speranza dalle cose trattate col vescovo di Faenza, mandorono di nuovo oratori al pontefice e a Cesare; ma con precisa commissione di non udire cosa alcuna per la quale si trattasse di alterare il governo o diminuire il dominio: però, essendo discordi nello articolo principale, non avendo anche potuto ottenere udienza da Cesare, ritornorono presto a Firenze senza conclusione. Dove erano nove in diecimila fanti vivi, ma pagati di sorte che ascendevano a piú di quattordicimila paghe. Però i soldati difendevano la città con grande affezione e prontezza di fede: i quali per stabilire tanto piú, i capitani tutti, convocati nella chiesa di San Niccolò, dopo avere udita la messa, feciono, presente Malatesta, uno solenne giuramento di difendere la città insino alla morte. Solo in questa costanza e fedeltà de' fanti italiani si dimostrò incostante e infedele Napolione Orsino; il quale, ricevuti danari da' fiorentini, se ne ritornò a Bracciano, e composte le cose sue col pontefice e con Cesare, fece opera che alcuni capitani stativi mandati da lui si partissino da Firenze.

                                                 Ma il pontefice, non lasciando indietro diligenza alcuna per ottenere lo intento suo, operò che il re di Francia mandò Chiaramonte a Firenze a scusare l'accordo fatto, per la necessità di riavere i figliuoli, e lo essere stato impossibile lo includervi loro; confortandogli a pigliare gli accordi potevano, pure che fussino utili e con la libertà: offerendo quasi di volersi intromettere. Comandò ancora a Malatesta e a Stefano Colonna, come uomini del re, e protestò loro che partissino di Firenze; benché da parte segretamente dicesse il contrario. Ma quel che importò piú, per la perdita della riputazione e spavento del popolo, fu che, per sodisfare al pontefice e Cesare, levò monsignore di Viglí che ordinariamente risedeva suo oratore in Firenze, lasciatovi però come privato Emilio Ferretto per non gli disperare del tutto; e promettendo anche loro segretamente di aiutargli, come avesse ricuperato i figliuoli. E vacillò anche il re di fare partire l'oratore fiorentino dalla sua corte: aiutandosi il pontefice con tutte l'arti, perché per Tarbes mandò il cappello del cardinalato al cancelliere, e non molto dipoi la legazione del regno di Francia. Per il quale introdusse anche pratica di nuovo abboccamento, a Turino, tra Cesare il re di Francia e lui. Ma fu risposto a Tarbes, nel consiglio regio, che stando i figli in prigione era stoltizia che il re andasse cercando di entrarvi anche lui.

                                                 Statuirono poi il pontefice e Cesare andare a Siena, per dare piú dappresso favore alla impresa, e poi trasferirsi a Roma per la corona: ma essendo già in procinto di partirsi, o vera o simulata che fusse la deliberazione, sopravenneno lettere di Germania che lo sollecitavano a trasferirsi di là facendone instanza gli elettori e i príncipi per conto delle diete; Ferdinando per essere eletto re de' romani, gli altri per rispetto del concilio. Però, omesso il pensiero di andare innanzi, prese in Bologna, con concorso grande ma con piccola pompa e spesa, la corona imperiale, il giorno di san Mattia, giorno a lui di grandissima prosperità; perché in quel dí era nato, in quel dí era stato fatto suo prigione il re di Francia, in quel dí assunse i segni e ornamenti della degnità imperiale. Attese nondimeno, innanzi partisse, alla concordia del duca di Ferrara col pontefice; il quale a' sette di marzo venne a Bologna con salvocondotto. Né si trovando altro esito a questa differenza, fecieno compromesso di ragione e di fatto di tutte le loro controversie in Cesare: inducendosi il pontefice a farlo perché, essendo il compromesso generale, in modo che includeva ancora la controversia di Ferrara, la quale non si dubitava che seconda i termini giuridichi non fusse devoluta alla sedia apostolica, gli parve che Cesare avesse il modo facile, col porgli silenzio sopra Ferrara, a restituirgli Modena e Reggio; e perché Cesare gli impegnò la fede, trovando che avesse ragione sopra quelle due città, pronunziare il giudizio, trovando altrimenti lasciare spirare il compromesso. E per sicurtà della osservanza del laudo, convenneno che il duca deponesse Modena in mano di Cesare: il quale prima, a instanza di Cesare, [aveva] rimosso l'oratore suo di Firenze e mandato guastatori allo esercito. Partí dipoi Cesare da Bologna a' ventidue, avuta intenzione dal pontefice di consentire al concilio se si conoscesse essere utile per estirpare la eresia de' luterani; e con lui andò legato il cardinale Campeggio. Ma arrivato a Mantova, ricevuti dal duca di Ferrara sessantamila ducati, gli concedette la terra di Carpi in feudo perpetuo. E il pontefice partí, a' trentuno, alla volta di Roma; restando le cose di Firenze nelle medesime difficoltà.

                                                  

                                                 Lib.20, cap.2

                                                  

                                                 Scaramuccie sotto Firenze. Francesco Ferruccio riconquista Volterra arresasi al pontefice. Nuove scaramuccie tra fiorentini e imperiali. Speranza de' fiorentini nel re di Francia e scarsi aiuti avutine. Conquista della fortezza di Empoli da parte degli imperiali; ragioni per cui i fiorentini non possono piú sperare negli aiuti del re di Francia. Vani assalti degli imperiali a Volterra; sortita di assediati da Firenze. Strettezze del vivere in Firenze; battaglia di Gavinana; morte del principe d'Oranges e uccisione del Ferruccio. Stato d'animo in Firenze; come Malatesta Baglioni forza i fiorentini agli accordi; patti dell'accordo; mutamento del governo in Firenze. Persecuzioni, e tristi condizioni della città.

                                                  

                                                 Facevano [gli imperiali] molti segni di volere assaltare la città, però si lavorava la trincea innanzi al bastione di San Giorgio; dove essendosi fatta, a' ventuno di marzo, una grossa scaramuccia, riceverono quegli di fuora assai danno. Batté Oranges a' venticinque la torre di... a canto al bastione di San Giorgio verso la porta Romana, perché offendeva molto l'esercito; ma trovandola solidissima, dopo molte cannonate, se ne astenne. E accumulandosi ogni dí nuova gente, poiché in Italia non erano né altre guerre né altre prede, il Maramaus venne in quel di Siena, contro alla volontà del pontefice, con dumila fanti.

                                                 Erasi la città di Volterra arrenduta al pontefice; ma tenendosi la fortezza per i fiorentini, si batteva in nome degli imperiali con due cannoni e tre colubrine venute da Genova: la quale desiderando i fiorentini soccorrere, mandorono a Empoli cento cinquanta cavalli e cinque bandiere di fanti, i quali, usciti di notte, passorono per il campo tra Monte Uliveto e San Giorgio; ed essendo scoperti furno mandati dietro a loro cavalli, i quali gli raggiunseno, ma combattuti dagli archibusieri si ritirorono con qualche danno; e i cavalli usciti di Firenze, per altra via dietro al campo, si condusseno salvi. Entrorono adunque, a' ventisei di aprile a ventuna ora, nella fortezza di...; e rinfrescati i soldati, assaltò subito la terra: e prese, insino alla notte, due trincee; in modo che, la mattina seguente, la città si dette. E guadagnò il Ferruccio l'artiglieria venuta da Genova. E trovandosi in Volterra con quattordici compagnie di fanti, arebbe fatto rivoltare Sangeminiano e Colle e, interrompendo le vettovaglie che per quella via venivano da Siena, messo lo esercito in grave difficoltà: i capitani del quale non pensando piú se non allo assedio, il marchese del Guasto ritirò in Prato l'artiglierie. Ma essendo opportunamente sopragiunto in quelle bande il Maramaus, con dumila cinquecento fanti non pagati, soccorso venuto (tanto sono incerte le cose della guerra) contro alla volontà del pontefice, fermò l'impeto suo.

                                                 A' nove di maggio si fece una grossa scaramuccia fuora della porta Romana: morti e feriti di quegli di dentro cento trenta, di quegli di fuori piú di dugento; tra' quali il capitano Baragnino spagnuolo.

                                                 Speravano pure ancora i fiorentini dal re di Francia qualche sussidio, il quale continuava di promettere grandissimo soccorso recuperati che avesse i figliuoli; e per nutrirgli in questo mezzo con speranza, dette assegnamento a mercatanti fiorentini per ventimila ducati, dovuti loro molti anni innanzi, perché gli prestassino alla città; i quali furono condotti a Pisa da Luigi Alamanni, ma in piú volte, in modo che feceno poco frutto. Venne anche a Pisa Giampaolo da Ceri, condotto da' fiorentini per la guardia di quella città.

                                                 Ma l'acquisto di Volterra generò danno molto maggiore a fiorentini, perché il Ferruccio, contro alla commissione avuta, aveva, per andare piú forte a Volterra e per confidarsi troppo della fortezza di Empoli, lasciatovi sí poca guardia che, dato animo agli imperiali di espugnarlo, vi andorono a campo e lo preseno per forza e saccheggioronlo. La perdita del quale luogo afflisse, piú che altra cosa che fusse succeduta in quella guerra, i fiorentini; perché, avendo disegnato fare in quel luogo massa di nuove genti, speravano con l'opportunità del sito, che è grandissima, mettere in difficoltà grande l'esercito alloggiato da quella parte d'Arno, e aprire la comodità delle vettovaglie a' fiorentini che già molto ne pativano. E si aggiunse nuova cagione di privargli tanto piú delle speranze concepute, perché avendo il re di Francia, al principio di giugno, pagato, secondo le loro convenzioni, i danari a Cesare e riavuti i figliuoli, in luogo di tanti aiuti che aveva sempre detto di riservare a quel tempo, mandò a instanza del pontefice (il quale per gratificarsi totalmente i ministri suoi creò il vescovo di Tarba, oratore appresso a lui, cardinale) Pierfrancesco da Pontriemoli, confidente a lui in Italia, per trattare la pratica dello accordo co' fiorentini; che, per questo, al tutto perderono la speranza degli aiuti di quel re: il quale insieme col re di Inghilterra, essendo congiunti insieme, facevano ogni opera per conciliarsi in modo il pontefice che potessino sperare di separarlo da Cesare. E però il re di Francia si sforzava avere, nel fare venire Firenze in sua potestà, qualche grado e qualche partecipazione.

                                                 Preso che ebbe il marchese del Guasto Empoli, andò con quelle genti a unirsi col Maramaus nel borgo di Volterra; ed essendo circa seimila fanti cominciorono a battere la terra, ed essendo in terra forse quaranta braccia di mura detteno tre assalti invano, con la morte di piú di quattrocento uomini. Feciono poi nuova batteria, e detteno uno assalto gagliardo co' fanti italiani e spagnuoli ma con danno maggiore che negli assalti di prima; in modo che il campo si levò. E il medesimo dí, un'ora innanzi giorno, uscirono Stefano Colonna dalla porta a Faenza con una incamiciata di tremila fanti, e Malatesta dalla porticciuola al Prato, per assaltare i tedeschi che alloggiavano nel monasterio di San Donato, nel quale si erano fortificati. Passò Stefano le trincee e ne ammazzò molti, ma gli altri messisi in questo mezzo in battaglia si difeseno francamente; e Stefano ferito in bocca e nel membro virile, ma leggiermente, si ritirò, non potendo tardare molto per paura del soccorso, e lamentandosi gravemente di Malatesta che non l'avesse seguitato.

                                                 Cresceva continuamente in Firenze, dove non entrava piú vettovaglia da parte alcuna, la strettezza del vivere; e nondimeno non diminuiva la ostinazione. Ed essendo andato da Volterra a Pisa il Ferruccio e raccogliendo quanti piú fanti poteva, era ridotta tutta la speranza loro nella venuta sua: perché gli avevano commesso che, per qualunque via e con ogni pericolo, si mettesse a venire; disegnando, come fusse unito con le genti che erano in Firenze, di andare a combattere con gli inimici. Nel quale disegno non fu maggiore la felicità del successo che fusse grande la temerità della deliberazione, se temerari si possono chiamare i consigli spinti dall'ultima necessità. Perché avendo a passare per paesi inimici, e occupati da esercito molto grosso benché disperso in molti luoghi, il principe, levata una parte dello esercito e raccolte piú bande di fanti italiani, avuta (come i fiorentini sospettorono) fede occultamente da Malatesta Baglione, col quale aveva pratiche strettissime, che in assenza sua non assalterebbe l'esercito, andò a incontrarlo; e trovatolo presso a Cavinana, nella montagna di Pistoia (il quale cammino aveva preso passando da Pisa accanto a Lucca, per la confidenza della fazione Cancelliera affezionata al governo popolare), si attaccò con lui molto superiore di forze: dove, nel primo impeto, facendo il principe offizio di uomo d'arme non di capitano, spintosi temerariamente innanzi fu ammazzato. Nondimeno ottenuta da' suoi la vittoria, restò prigione insieme con molti altri Giampaolo da Ceri e il Ferruccio, che cosí prigione fu ammazzato da Fabrizio Maramaus, per sdegno, secondo disse, conceputo da lui quando, nella oppugnazione di Volterra, fece appiccare uno trombetto, mandato in Volterra da Fabrizio con certa imbasciata.

                                                 Cosí abbandonati i fiorentini da ogni aiuto divino e umano, e prevalendo la fame senza speranza alcuna che potesse piú essere sollevata, era nondimeno maggiore la pertinacia di quegli che si opponevano allo accordo: i quali, indotti dalla ultima disperazione di non volere che senza l'eccidio della patria fusse la rovina loro, né trattandosi piú che essi o altri cittadini morissino per salvare la patria ma che la patria morisse insieme con loro, erano anche seguitati da molti che avevano impresso nell'animo che gli aiuti miracolosi di Dio si avessino a dimostrare, ma non prima che condotte le cose a termine che quasi piú niente di spirito vi avanzasse. Ed era pericolo che la guerra non finisse con l'ultimo esterminio di quella città, perché in questa ostinazione concorrevano i magistrati, e quasi tutti quegli che avevano in mano la publica autorità; non restando luogo agli altri, che sentivano il contrario, di contradire per timore de' magistrati e minacci dell'arme: se Malatesta Baglioni, conoscendo le cose senza rimedio, non gli avesse quasi sforzati a concordare; movendolo forse la pietà di vedere totalmente perire, per la rabbia de' suoi cittadini, sí preclara città, e il disonore e danno che gli risulterebbe a trovarsi presente a tanta rovina; ma molto piú, secondo si credette, la speranza di conseguire dal papa, per mezzo di questo accordo, di ritornare in Perugia. Però, mentre che i magistrati e gli altri piú caldi trattano che le genti uscissino della città a combattere con gli inimici, molto maggiori di numero e alloggiati in luoghi forti, ed egli recusa, moltiplicarono in tanta insania che cassatolo del capitanato mandorono alcuni di loro de' piú pertinaci a denunziargliene, e fargli comandamento che partisse con le sue genti della città: alla quale esposizione concitato molto di animo, con uno pugnale che aveva a canto ferí uno di loro, che con fatica gli fu vivo tolto delle mani da' circostanti; di che spaventati gli altri, e cominciatasi a sollevare la città, repressa da quegli di minore insania la temerità del gonfaloniere che si armava, ora dicendo volere assaltare Malatesta ora uscire a combattere con gli inimici, finalmente l'ostinazione estrema di molti cedé alla necessità estrema di tutti. Però, mandati a' nove di agosto quattro oratori a don Ferrando da Gonzaga, che per la morte del principe teneva il primo luogo dello esercito, perché il marchese del Guasto molto prima si era partito, fu concluso il dí seguente l'accordo; del quale, oltre a obligarsi la città a pagare in pochissimi dí ottantamila ducati per levare l'esercito, furono gli articoli principali che il papa e la città detteno autorità a Cesare che infra tre mesi dichiarasse quale avesse a essere la forma del governo, salva nondimeno la libertà: e che si intendessino perdonate a ciascuno tutte le ingiurie fatte al papa e a' suoi amici e servitori; e che, insino a tanto venisse la dichiarazione di Cesare, restasse a guardia della città con dumila fanti Malatesta Baglione. Il quale accordo fatto, mentre si espediscono i denari per dare allo esercito, (bisognò si provedesse di somma molto maggiore, non essendo il papa molto pronto ad aiutare la città di denari in tanto pericolo), il commissario apostolico, che era Bartolomeo Valori, intesosi con Malatesta, intento tutto al ritorno di Perugia, convocato in piazza il popolo, secondo la consuetudine antica della città, a fare parlamento, cedendo a questo i magistrati e gli altri per timore, indusse nuova forma di governo; dandosi per il parlamento autorità a dodici cittadini che aderivano a' Medici di ordinare a modo loro il governo della città, che lo ridusseno a quella forma che soleva essere innanzi all'anno mille cinquecento ventisette. Levossi poi l'esercito, avendo ricevuto i denari; i quali i capitani italiani, per convertirgli in uso suo e non pagarne i soldati, con grande ignominia della milizia, si ritirorono con essi in Firenze, licenziati con pochissimi denari i fanti: i quali restando senza capo se ne andorono dispersi in varie parti; e lo esercito degli spagnuoli e tedeschi, pagati del tutto e lasciato vacue tutte le terre e dominio fiorentino, se ne andò in quel di Siena per riordinare il governo di quella città; e Malatesta Baglione, concedendogli il papa il ritornare in Perugia, non aspettata altra dichiarazione di Cesare, lasciò la città libera in arbitrio del pontefice.

                                                 Dove, come furono partiti tutti i soldati, cominciorono i supplizi e le persecuzioni de' cittadini: perché quegli in mano di chi era il governo, parte per assicurare meglio lo stato, parte per lo sdegno conceputo contro agli autori di tanti mali e per la memoria delle ingiurie ricevute privatamente, ma principalmente perché cosí fu (benché lo manifestasse a pochi) la intenzione del pontefice, interpretorono, osservando forse la superficie delle parole ma cavillando il senso, che il capitolo per il quale si prometteva la venia a chi avesse ingiuriato il pontefice e gli amici suoi non cancellasse le ingiurie e i delitti commessi da loro nelle cose della republica. Però, messa la cognizione in mano de' magistrati, ne furono decapitati sei de' principali, altri incarcerati e relegatine grandissimo numero. Per il che essendo indebolita piú la città, e messi in maggiore necessità quegli che avevano partecipato in queste cose, restò piú libera e piú assoluta e quasi regia la potestà de' Medici in quella città, restata per sí lunga e grave guerra esaustissima di denari, privata dentro e fuora di molti abitatori, perdute le case e le sostanze, e piú che mai divisa in se medesima: la quale povertà fece ancora maggiore la necessità di provedere, per piú anni, di paesi esterni alle vettovaglie del paese. Con ciò sia che quello anno non si fusse ricolto né dipoi seminato, e i disordini di quello anno trasfusi negli altri; in modo che piú denari uscirono di quella città, estenuata sopramodo e afflitta, in fare venire frumenti di luoghi lontani e bestiami fuora del dominio che non erano usciti per conto della guerra, sí grave e piena di tante spese.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.20, cap.3

                                                  

                                                 La questione religiosa in Germania e il desiderio generale d'un concilio; ragioni di avversione del pontefice al concilio, e condizioni poste per la convocazione di esso. Pratiche del re di Francia coi turchi.

                                                  

                                                 Cesare intanto, in Germania, convocata la dieta in Augusta, aveva fatto eleggere in re de' romani Ferdinando suo fratello. E trattandosi delle cose de' luterani, sospette eziandio alla potenza de' príncipi, e derivate, per la moltitudine e ambizione de' settatori, in diverse eresie e quasi contrarie l'una a l'altra e a Martino Luter, autore di questa peste (la vita e l'autorità del quale, tanto era diffuso e radicato questo veleno, non era piú di momento alcuno), nessuno occorreva a' príncipi di Germania migliore rimedio che la celebrazione di uno concilio universale; perché e i luterani, volendo coprire la causa loro con l'autorità della religione, instavano che questo si facesse, e si credeva che l'autorità de' decreti che facesse il concilio bastasse, se non a piegare gli animi de' capi degli eretici da' loro errori, almeno a ridurre una parte della moltitudine nella migliore sentenza. Senzaché in Germania, eziandio da quegli che seguitavano le opinioni cattoliche, era desiderato molto il concilio perché si riformassino i gravamenti e gli abusi trascorsi della corte di Roma; la quale, e con l'autorità delle indulgenze e con la larghezza delle dispense e con volere l'annate de' benefizi che si conferivano, e con le spese che nella espedizione d'essi si facevano negli uffizi tanto moltiplicati di quella corte, pareva che non attendesse ad altro se non a esigere, con questa arte, quantità grande di denari da tutta la cristianità; non avendo intratanto cura alcuna della salute delle anime né che le cose ecclesiastiche fussino governate rettamente: perché e molti benefizi incompatibili si conferivano in una persona medesima, né avendo rispetto alcuno a' meriti degli uomini si distribuivano per favori, o in persone incapaci per la età o in uomini vacui al tutto di dottrina e di lettere e (quel che era peggio) spesso in persone di perditissimi costumi. Alla quale instanza di tutta la Germania desideroso Cesare di sodisfare, e perché anche era a proposito delle cose sue in quella provincia sedare le cagioni de' tumulti e della contumacia de' popoli, instette molto col papa, ricordandogli i ragionamenti avuti insieme a Bologna, che indicesse il concilio, e promettendogli, acciò che non temesse di avere a mettere in pericolo l'autorità e la degnità sua, di trovarvisi presente per avere cura particolare di lui. Nessuna cosa dispiaceva piú al papa di questa, ma per conservare la esistimazione della buona mente sua dissimulava questa inclinazione: o causata da temere che, per moderare le abusioni della corte e le indiscrete concessioni de' pontefici, non si diminuisse troppo la facoltà pontificale; o per ricordarsi che, se bene quando fu promosso al cardinalato era stato provato con testimoni che i suoi natali fussino legittimi, e nondimeno essere in verità il contrario (il che se bene non si trovasse legge scritta che proibisse ascendere al pontificato chi fusse nato in questo modo, nondimeno era inveterata e comune opinione che chi non era legittimo non potesse eziandio essere creato cardinale) o temendo che non senza qualche sospetto di simonia, usata col cardinale Colonna, fusse stato assunto al pontificato, o dubitando che la acerbità grande usata contro alla patria, con tanti tumulti di guerra, non gli desse infamia indelebile appresso al concilio, massime essendo apparito per gli effetti averlo mosso non, come da principio publicava, il desiderio di ridurla a buono e moderato governo ma la cupidità di farla tornare nella tirannide de' suoi. Però, aborrendo il concilio, né avendo per sicurtà bastante la fede di Cesare, comunicando le cose con cardinali deputati alla discussione di questa materia, sospettosi ancora loro della correzione del concilio, rispondeva mostrando molte ragioni per le quali non era opportuno a trattarne, non si vedendo ancora stabilita bene la pace tra i príncipi cristiani, temendosi di nuovi moti del turco, i quali non sarebbe utile che trovassino la cristianità occupata nelle disputazioni e contenzioni del concilio: e nondimeno, mostrando rimettersene al parere di Cesare, conchiudeva essere contento che e' promettesse nella dieta la indizione del concilio, pure che si celebrasse in Italia e presente lui, assegnato tempo congruo a congregarlo, e che i luterani e altri eretici, promettendo di stare alla determinazione del concilio, desistessino intratanto dalle corruttele loro, e rimettendo la sedia apostolica nella possessione della sua obedienza vivessino come solevano prima, e come cattolici cristiani. Da che si difficultava tutta la pratica: perché i luterani non solo non erano per desistere dalle opinioni e riti loro innanzi alla celebrazione del concilio, ma si credeva comunemente che aborrissino il concilio non potendo aspettarne altro che reprobazione delle opinioni loro (conciossiaché la maggiore parte di quelle, e le piú principali, fussino state reprobate piú volte come eretiche dagli antichi concili), ma che dimandassino la convocazione di esso perché, sapendo essere cosa spaventosa a' pontefici, si persuadessino non avesse a essere concesso, e cosí sostentare con maggiore autorità appresso a' popoli la causa loro.

                                                 Finí in queste agitazioni l'anno mille cinquecento trenta e succedette il mille cinquecento trentuno, nel quale fu piccola materia di movimenti. Perché, se bene per molti segni si comprendesse il re di Francia essere malcontento degli accordi fatti con Cesare e cupidissimo di nuovi tumulti, e a questo medesimo inclinare anche il re di Inghilterra, sdegnato con Cesare che difendendo la sorella di sua madre oppugnava la causa del divorzio, nondimeno, essendo il re di Francia esausto di denari, né ancora riposato da' travagli di sí lunghe guerre, non era ancora il tempo opportuno a suscitare innovazioni; ma attendeva intratanto a praticare, cosí in Germania co' príncipi che erano d'animo alieno da Cesare come in Italia col pontefice, proponendogli, per farselo benivolo, pratiche di matrimonio tra il figliuolo suo secondogenito e la nipote di lui; e (quello che si trattava con maggiore offesa di Dio e con orribile infamia della corona di Francia, che aveva fatto sempre precipua professione di difendere la religione cristiana, per i quali meriti aveva conseguitato il titolo del cristianissimo) tenendo pratiche col principe de' turchi per irritarlo contro a Cesare, contro al quale era per l'ordinario mal disposto, sí per l'odio naturale contro al nome de' cristiani come per cagione delle controversie che aveva col fratello, che erano quistioni per il regno d'Ungheria col vaivoda di chi egli aveva preso la protezione, come eziandio perché la grandezza di Cesare cominciava a essere sospetta anche a lui.

                                                  

                                                 Lib.20, cap.4

                                                  

                                                 Movimenti politici in Siena. La forma di governo in Firenze stabilita da Cesare. Giudizio di Cesare riguardo alle controversie fra il pontefice e il duca di Ferrara; malcontento del pontefice; sua ostilità verso il duca.

                                                  

                                                 In Italia si levò l'esercito di quel di Siena per condurlo nel Piemonte; avendo rimesso in Siena, per sodisfazione del papa, a godere la patria e i beni loro quegli del Monte de' nove, ma non alterata la forma del governo, e messovi per sicurtà loro una guardia di trecento fanti spagnuoli, dependente dal duca di Malfi: il quale per aversi saputo poco conservare la sua autorità, ritornorno presto le cose ne' medesimi disordini; in modo che, quegli che erano stati rimessi, per timore, se ne partirono.

                                                 Dichiarò eziandio Cesare in questo tempo la forma del governo di Firenze, dissimulata quella parte dell'autorità concessagli che limitava salva la libertà: perché, secondo la propria istruzione mandatagli dal papa, espresse che la città si governasse con quegli magistrati e con quel modo che era solita governarsi ne' tempi che la reggevano i Medici, e che del governo fusse capo Alessandro nipote del pontefice e genero suo, e mancando lui succedessino di mano in mano i figliuoli e discendenti, e i piú prossimi della medesima famiglia. Restituí alla città tutti i privilegi concessigli altre volte da sé e da' suoi predecessori, ma con condizione che ne ricadessino ogni volta che attentassino cosa alcuna contro alla grandezza della famiglia de' Medici; inserendo in tutto il decreto parole che mostravano fondarsi non solo nella potestà concessagli dalle parti ma eziandio nell'autorità e degnità imperiale.

                                                 Nelle quali cose avendo sodisfatto al papa forse piú che alla facoltà concessagli nel compromesso, lo offese incontinente in cosa che gli fu molto grave. Perché, poi che da piú dottori, a' quali l'aveva commesso, fu udita ed esaminata la controversia tra il pontefice e il duca di Ferrara, sopra la quale erano stati per tutt'e due le parti prodotti molti testimoni e scritture e fatto lungo processo, pronunziò per consiglio e relazione loro, Modena e Reggio con quelle terre appartenersi di ragione al duca di Ferrara; e che il pontefice, ricevuti da lui centomila ducati e ridotto il censo al modo antico, lo rinvestisse della giurisdizione di Ferrara. Sforzossi Cesare fare capace al papa che se, contro alla promessa fattagli in Bologna (di non pronunziare in caso trovasse la causa sua non essere giusta), aveva pronunziato, doversi lamentare non di sé ma del vescovo di Vasone nunzio suo; al quale non aveva mancato di fare intendere che non voleva lodare per non essere costretto a dargli il giudizio contro, ma che egli, persuadendosi il contrario, e che questo si dicesse per scaricarsi dalla promessa fattagli di lodare se le ragioni erano per lui, aveva fatto tanta instanza che si pronunziasse che era stato necessitato di farlo per conservazione dell'onore suo: la quale scusa sarebbe stata piú capace se il giudizio non fusse stato in quel medesimo effetto nel quale Cesare aveva tentato molte volte di ridurre la cosa per concordia. Ma offese ancora molto piú il pontefice il vedere che Cesare, nel pronunziare sopra le cose di Modena e Reggio, aveva seguitato la via di giudice rigoroso; ma in quelle di Ferrara, nelle quali il rigore era manifestamente per sé, aveva seguitato l'uffizio di amicabile compositore. Però il papa non volle ratificare il lodo dato, non pigliare il pagamento de' denari ne' quali era condennato il duca; e nella prossima festività di san Piero non accettò il censo offertogli, secondo il costume antico, publicamente. Ma non restò per questo Cesare di consegnare al duca di Ferrara Modena, tenuta insino a quel dí da lui in deposito, lasciando poi decidere tra loro le altercazioni: donde, per molti mesi, né fu scoperta guerra tra il papa e il duca né sicura pace, essendo tutto intento il pontefice o a opprimerlo con insidie o ad aspettare occasione di potere, con appoggio di maggiori príncipi, offenderlo scopertamente.

                                                  

                                                 Lib.20, cap.5

                                                  

                                                 Impresa dei turchi contro l'Ungheria; loro ritirata e lentezza di Cesare; sedizione in Germania dei fanti italiani. Prigionia e liberazione del cardinale dei Medici e di Piermaria Rosso. Rinuncia dei re di Francia e d'Inghilterra a muover guerra a Cesare in Italia.

                                                  

                                                 Non ebbe questo anno trentuno altri accidenti; e si andò continuando anche la quiete nel futuro anno, il quale fu piú pericoloso per guerre esterne che per movimenti di Italia. Perché il turco, acceso dall'ignominia della ributtata di Vienna e inteso Cesare essere in Germania, preparò grossissimo esercito, magnificando gli apparati con publicare di volere fare la guerra per costrignere Cesare a fare giornata seco: per la fama delle quali preparazioni e Cesare si messe in ordine quanto poteva, facendo eziandio passare il marchese del Guasto in Germania con le genti spagnuole e con grossa banda di cavalli e di fanti italiani; e il papa gli promesse soccorrerlo con quarantamila ducati ciascuno mese, e mandò a quella espedizione per legato apostolico il cardinale de' Medici suo nipote; e i príncipi e terre franche di Germania preparorono, in favore di Cesare e per la difensione comune della Germania, uno esercito molto grosso. Ma riuscirono gli effetti molto dissimili alla fama e al terrore. Perché Solimanno, entrato tardi in Ungheria, non avendo potuto arrivarvi prima per la grandezza degli apparati e per la distanza del cammino, non andò dirittamente con l'esercito alla volta di Cesare, ma mostrata solamente la guerra e fatta una grossa scorreria se ne ritornò in Costantinopoli: né si dimostrò anche in Cesare maggiore prontezza, perché, inteso l'avvicinarsi de' turchi, non si fece loro incontro, e come intese la ritirata non ebbe pensiero di proseguire con tutte le forze l'occasione dell'acquistare per il fratello l'Ungheria; ma ardente di desiderio di ritornare in Spagna, ordinò che i fanti italiani con certo numero di tedeschi andassino alla impresa d'Ungheria. Ma gli fu disordinato anche questo disegno; perché i fanti italiani, sollevati da qualcuno de' capi loro che veddeno preposti altri capitani a quella impresa, ammutinati, non sapendo allegare cagione del loro tumulto, né bastando a placargli l'autorità di Cesare che andò in persona a parlare loro, preseno unitamente il cammino di Italia, camminando con grandissima celerità per timore di non essere seguitati, e per il cammino ardendo molte ville e case come terre degli inimici, in vendetta (secondo dicevano) degli incendi fatti da' tedeschi in Italia.

                                                 Era già anche Cesare voltatosi al cammino di Italia; e avendo disegnato con che ordine e in che alloggiamento dovesse procedere la sua corte e tutto il suo traino, il cardinale de' Medici, mosso da impeto giovinile, non volendo stare a quell'ordine che era dato, si spinse innanzi, e con lui Piermaria Rosso, a chi principalmente si attribuiva la colpa di quella sedizione: donde sdegnato Cesare, o perché attribuisse l'origine di quella cosa al cardinale o perché (secondo disse) temesse che il cardinale, che era malcontento che Alessandro suo cugino fusse proposto allo stato di Firenze, non andasse dietro a quegli fanti per condurgli a turbare le cose di là, fece in cammino ritenere il cardinale e con lui Piermaria; ma considerando poi meglio la importanza della cosa, scrisse subito che fusse liberato, e ne fece seco e col papa molte escusazioni. Restò prigione Piermaria ma non molto dipoi fu relassato, giovandogli, come si credette, appresso a Cesare assai la ingiuria che gli pareva avere fatto al cardinale.

                                                 La partita del turco alleggerí Italia dalla guerra imminente. Perché il re di Francia e il re di Inghilterra, pieni di odio e di sdegno contro a Cesare, si erano abboccati tra Cales e Bologna; dove, persuadendosi che il turco avesse a fermarsi quella vernata in Ungheria e cosí tenere implicate le forze di Cesare, trattavano che il re di Francia assaltasse il ducato di Milano; e disposti a tirare il papa nelle loro parti con asprezza e con spavento, poi che non era insino allora potuto succedere per altra via, trattavano di levargli l'ubbidienza de' regni loro in caso non consentisse a quello desideravano, che era, nel re di Francia volere lo stato di Milano, in quello di Inghilterra la sentenza per sé della causa del divorzio: e già avevano disegnato mandare a lui con acerbe commissioni i cardinali di Tornon e di Tarbes, grandi l'uno e l'altro di autorità appresso al re di Francia. Ma mollificò questi disegni lo intendere, innanzi partissino dallo abboccamento, la ritirata del turco; e interroppe anche, che il re di Inghilterra non facesse passare a Cales Anna, per celebrare publicamente in quel convento il matrimonio con lei, non ostante che la lite pendesse nella corte di Roma e che per brevi apostolici gli fusse proibito, sotto pena di gravissime censure, lo attentare cosa alcuna in pregiudizio del primo matrimonio: nondimeno il re di Francia, per dimostrare al re di Inghilterra il male animo contro alla Chiesa romana, ancora che la intenzione sua fusse cercare di guadagnarsi con modi dolci il pontefice, impose di sua autorità decime al clero per tutto il regno di Francia, ed espedí i due cardinali al papa, ma con commissione molto diversa da quelle che da principio erano state disegnate.

                                                  

                                                  

                                                 Lib.20, cap.6

                                                  

                                                 Nuovo convegno del pontefice e di Cesare a Bologna; ragioni di minore concordia. Politica dei delegati del pontefice; difficoltà di accordi coi veneziani e col duca di Ferrara; condizioni della nuova confederazione. Scarsi risultati della discussione fra il pontefice e Cesare sull'opportunità della convocazione del concilio. Pratiche pel matrimonio del figlio del re di Francia con la nipote del pontefice; soddisfazione del pontefice e sospetti di Cesare. Confederazione segreta fra il pontefice e Cesare.

                                                  

                                                 Venne Cesare in Italia, e desiderando parlare col pontefice fu statuito di nuovo tra loro il luogo di Bologna, accettato cupidamente dal papa per non dare occasione a Cesare, come era confortato da molti de' suoi, di andare nel regno di Napoli, e cosí dimorare piú tempo in Italia: il che era anche contro alla mente di Cesare, desideroso di andarsene in Spagna, e per altre ragioni; ma principalmente per desiderio di procreare figliuoli, essendovi restata la moglie. Però l'uno e l'altro di loro convenneno, alla fine dell'anno, in Bologna, dove tra loro furono servate le medesime dimostrazioni di amore e la medesima dimestichezza che era stata usata l'altra volta. Ma non erano piú corrispondenti gli animi, come era stato allora, nelle negoziazioni. Perché Cesare desiderava, per quiete e sodisfazione di Germania, sommamente il concilio; instava di volere dissolvere l'esercito, grave e a lui e agli altri, ma, per poterlo fare sicuramente, che si rinnovasse l'ultima lega fatta in Bologna per includervi dentro ognuno, e per tassare le quantità de' denari in che ciascuno avesse a contribuire, se Italia fusse assaltata da' franzesi; desiderava anche che Caterina nipote del papa si maritasse a Francesco Sforza, sí per necessitare piú il papa a attendere alla conservazione di quello stato, sí per interrompere la pratica del parentado che si era trattato col re di Francia. Delle quali cose nessuna piaceva al pontefice: perché il confederarsi era contrario al desiderio suo di mantenersi il piú poteva neutrale tra i príncipi cristiani, dubitando e degli altri pericoli e specialmente che il re di Francia, essendone massime istigato tanto dal re di Inghilterra, non gli levasse l'ubbidienza; il concilio, per l'antiche cagioni, gli era molestissimo; né gli piaceva il parentado col duca di Milano, per non pigliare quasi una aperta inimicizia col re di Francia, e perché ardeva di desiderio di congiugnere la nipote al secondogenito del re.

                                                 Trattossi di queste materie, principalmente quella della confederazione; alla quale pratica, di piú mesi, furono diputati, per la parte di Cesare, Cuovos comandatore maggiore di Leone, Granvela e Prata, suoi principali consiglieri, e per la parte del papa il cardinale de' Medici, Iacopo Salviati e il Guicciardino: i quali, non negando la confederazione (perché era uno scoprire troppo la intenzione del pontefice e dare causa a Cesare di avere giustamente gravissimo sospetto di lui), instavano che si facesse ogni opera per farvi condescendere i viniziani, allegando che e senza gli aiuti loro la difesa sarebbe debole, e che con piú riputazione si conservavano le cose comuni mantenendosi in su la fama della prima confederazione che, facendone un'altra senza loro, fare nascere per tutto opinione che tra Cesare il papa e i viniziani fusse discordia. Però furono ricercati di consentire a nuova confederazione per la difesa di tutta Italia; perché per la prima non erano tenuti ad altro che alle cose dello stato di Milano e del regno di Napoli; e desiderava sommamente Cesare che e' fussino anche obligati alla difesa di Genova, dove si pensava che, quando avesse a essere guerra, i franzesi facessino facilmente il primo assalto: perché pretendevano, per cagioni e interessi particolari, poterlo fare senza contravenire agli accordi di Madril e di Cambrai. Negò quel senato volere fare nuova confederazione o ampliare le obligazioni che in quella si contenevano, con grave sdegno di Cesare, non ostante che affermassino volere osservare inviolabilmente questa congiunzione. E nondimeno Cesare instette tanto piú col papa, ribattendo le ragioni che per la parte sua si allegavano in contrario, in modo che si entrò nel praticare gli articoli della confederazione, e si chiamorono tutti i potentati di Italia che mandassino imbasciadori a questa pratica; i quali furno ricercati che entrassino nella confederazione, contribuendo al caso della guerra secondo le forze e possibilità loro. A che non essendo fatta per alcuno difficoltà, ma solamente sforzandosi ciascuno dí alleggerire quello che gli era dimandato di contribuzione, solo Alfonso da Esti propose non potere entrare in lega per difendere gli stati di altri se prima non fusse assicurato del suo: perché, come essere conveniente che avesse a guardarsi dal pontefice e entrare in lega con lui? come potere contribuire co' suoi denari alla difesa di Milano o di Genova se era necessitato spendergli continuamente per tenere gente in Modena e in Reggio, e anche per essere sicuro di Ferrara? Da questa dimanda nacque nuova pratica di concordarlo col papa. Il quale, avendone l'animo alienissimo, né volendo cosí apertamente resistere alla instanza di Cesare, proponeva condizioni inesplicabili; perché, quando pure avesse a lasciare Modena e Reggio ad Alfonso (che altrimenti non era per convenire) voleva le riconoscesse in feudo dalla sedia apostolica: il che non si potendo fare, in modo che fusse giuridicamente valido, senza consenso degli elettori e príncipi dello imperio, metteva Cesare in una difficoltà che non aveva esito. Però si ridusse a pregare il pontefice che, almeno durante la lega, si obligasse di non offendere lo stato che teneva Alfonso: in che, dopo molte dispute, il papa consentí, di assicurarlo per diciotto mesi. E fu finalmente conchiusa la lega, la quale fu stipulata il giorno, tanto felice a Cesare, di san Mattia. Contenne la confederazione obligo, da' viniziani in fuora, di Cesare del re de' romani e di tutti gli altri potentati d'Italia, alla difesa d'Italia; non vi nominando però dentro i fiorentini, per rispetto di non turbare i loro commerci, se non nel modo che erano stati nominati nella lega di Cugnach. Fu espresso con che numero di gente avesse ciascuno di loro a concorrere, e con che quantità di denari a contribuire ciascuno mese: Cesare per trentamila ducati, il pontefice, che si disegnava pagasse per sé e per i fiorentini, per ventimila, il duca di Milano per quindicimila, il duca di Ferrara per diecimila, genovesi per [seimila], sanesi per [dumila], lucchesi per mille, e che, per trovarsi qualche preparazione a uno assalto improviso, tanto che con contribuzioni si potesse poi difendersi, si facesse allora uno deposito di somma quasi pari alle contribuzioni, che non si potesse spendere se non in caso che si vedesse in pronto le preparazioni di assaltare Italia. Ordinossi ancora una piccola contribuzione annuale per intrattenere i capitani che restavano in Italia, e per pagare certe pensioni a' svizzeri, acciò che non avessino causa di dare fanti al re di Francia: e di comune consenso fu dichiarato capitano generale di tutta la lega Antonio de Leva, con ordine si fermasse nel ducato di Milano.

                                                 Del concilio non fu conchiuso con sodisfazione di Cesare, che instava che il papa allora lo intimasse: il quale ricusava, allegando che in questa mala disposizione degli animi era pericolo non fusse ricusato da' re di Francia e di Inghilterra, e che facendosi senza loro non poteva introdurre né unione né riformazione della Chiesa, ma era pericolosissimo non ne nascesse lo scisma; essere contento mandare nunzi a tutti i príncipi per indurgli a opera sí santa. E replicando Cesare: che sarà adunque se essi dissentiranno senza giusta cagione? e volendo che in tale caso il papa gli proponesse di intimarlo, non potette disporlo. In modo che si diputorono e mandorono i nunzi con poca speranza di riportarne conclusione.

                                                 Ma non restò anche Cesare piú sodisfatto della pratica del parentado. Perché essendo venuti a Bologna i due cardinali, e introdotto di nuovo il ragionamento del parentado del re di Francia, il pontefice replicava a quello del duca di Milano, che avendogli il re molto prima proposto il matrimonio del suo figliuolo, ed egli udita la pratica con consenso di Cesare (che allora dimostrò di esserne contento), gli pareva fare troppa ingiuria al re di Francia se, pendenti questi ragionamenti, la maritasse a uno inimico suo: credere che questo fusse introdotto dal re artificiosamente, per intrattenerlo e non con animo di conchiudere, essendovi tanta disparità di grado e di condizione; ma che se prima non si escludeva del tutto questa pratica non voleva fare offesa sí grave al re. Né essendo capace a Cesare che il re di Francia volesse tôrre per uno suo figliuolo una tanto dissimile a lui, confortò il papa che per chiarirsi degli inganni del re, instesse co' due cardinali che facessino venire il mandato a poterlo contraere; i quali, dimostratisi prontissimi, lo fecieno in brevissimi dí venire in forma amplissima: donde non solo si escluse ogni speranza del parentado con Francesco Sforza, ma ancora si ristrinse la pratica col re di Francia; aggiugnendovisi ancora che, come molto prima si era tra loro ragionato, il papa e il re di Francia si convenissino insieme a Nizza, città del duca di Savoia e posta appresso al fiume del Varo, che è confine tra l'Italia e la Provenza. Le quali cose erano molto moleste a Cesare; sí per sospetto che tra il papa e il re di Francia non si facesse maggiore congiunzione in pregiudizio suo, sapendo quale fusse l'animo del re contro a sé, e dubitando che nel pontefice non risedesse ancora occultamente la memoria della sua incarcerazione, del sacco di Roma e della mutazione dello stato di Firenze; movendolo ancora lo sdegno che quello onore che gli pareva che il papa gli avesse fatto, di andare ad abboccarsi seco due volte a Bologna, si diminuisse, anzi si annichilasse, se andava a trovare per mare il re di Francia insino a Nizza. Né dissimulava questo dispiacere e le cagioni, ma invano: perché nel pontefice era fissa nell'animo, anzi ardente, la cupidità di questo parentado; movendolo piú presto l'ambizione e lo appetito della gloria, che essendo di casa quasi privata avesse conseguito per uno nipote naturale una figliuola naturale di sí potente imperadore, e ora conseguisse per una nipote sua legittima uno figliuolo legittimo del re di Francia: il che lo moveva piú che quello che gli era ricordato da molti che con questo parentado darebbe colore di ragione, benché non vero ma apparente, al re di Francia di pretendere, per il figliuolo e per la nuora, sopra lo stato di Firenze.

                                                 A queste male sodisfazioni di Cesare si aggiunse, quasi per cumulo, che facendo instanza che il papa creasse tre cardinali proposti da lui, ottenne con difficoltà solamente l'arcivescovo di Bari; scusandosi egli con la contradizione del collegio de' cardinali. Né si mitigò Cesare perché il papa concorresse molto prontamente a fare una confederazione segreta con lui, nella quale prometteva procedere giuridicamente alle censure e a tutto quello che fusse di ragione contro al re di Inghilterra e contro ad Anna Bolana, e si obligorono di non fare nuove confederazioni e accordi con príncipi senza consenso l'uno dell'altro.

                                                  

                                                 Lib.20, cap.7

                                                  

                                                 Ritorno di Cesare in Ispagna. Incontro del pontefice e del re di Francia a Marsiglia; matrimonio del figlio del re con la nipote del pontefice; desiderio del pontefice e del re che si conquisti lo stato di Milano per il duca di Orliens; nomina di cardinali francesi; ritorno del pontefice a Roma. Presagi del pontefice di prossima morte; triste fine de' suoi nipoti. Torbidi in Germania fomentati dal re di Francia; conquista di Tunisi da parte del Barbarossa e saccheggio di Fondi. Morte del pontefice; giudizio dell'autore. Elezione di Alessandro Farnese.

                                                  

                                                 Partí adunque Cesare da Bologna, il dí da poi che fu stipulata la confederazione, già assai certo in se medesimo che andrebbe innanzi il parentado e lo abboccamento col re di Francia, e dubbio ancora di maggiore congiunzione; e imbarcatosi a Genova passò in Spagna, con intenzione assai ferma (secondo si disse) che se si contraeva il parentado col re, che quello della figliuola con Alessandro de' Medici non avesse luogo.

                                                 Partí pochi dí poi il papa per Roma, accompagnato da' due cardinali franzesi, non turbati niente della nuova confederazione; perché il pontefice, come era eccellente nelle simulazioni e nelle pratiche nelle quali non fusse soprafatto dal timore, aveva dimostrato loro che il conchiudere la lega partoriva la dissoluzione dello esercito spagnuolo, il che faceva maggiore benefizio al re di Francia che non faceva nocumento il contrarsi la confederazione, massime che tra le obligazioni e la osservanza ed esecuzioni di esse potevano nascere molte difficoltà e diversi impedimenti. Continuoronsi adunque tra loro le pratiche cominciate; e desiderando il re, per onorarsene e per ambizione piú che per altro, l'andata sua a Nizza, prometteva, per tirarvelo, non lo ricercare di confederazione, non di tirarlo alla guerra, non di deviare da' termini della giustizia nella causa del re di Inghilterra, non di ricercarlo di nuova creazione di cardinali. E lo spigneva anche a questo assai il re di Inghilterra. Il quale, avendo occultamente ingravidato la innamorata, aveva, per celare la infamia innanzi si publicasse, contratto con essa il matrimonio solennemente; e avendo poco poi avutane una figliuola, l'aveva, in pregiudizio della figliuola ricevuta della prima moglie, dichiarata principessa del regno di Inghilterra, titolo che hanno quegli che sono nella prima causa della successione; per il che, non avendo potuto il papa dissimulare tanto disprezzo della sedia apostolica, né negare giustizia a Cesare, aveva co' voti del concistorio dichiarato quel re essere caduto nelle pene degli attentati: donde egli desiderava il parentado e lo abboccamento col re di Francia, sperando che il re fusse mezzo a medicare la causa sua, e che inducendosi il pontefice a trattare cose nuove, come sperava, contro a Cesare, avesse a desiderare di reintegrarlo e tirarlo nella congiunzione loro; e, quasi per dare legge alle cose di Italia, costituire uno triumvirato.

                                                 Conchiusesi finalmente l'andata, non a Nizza, perché il duca di Savoia, per non dispiacere a Cesare, fece difficoltà di concedere al pontefice la rocca, ma a Marsilia; cosa molto desiderata dal re, per essergli molto piú onore tirarlo ad abboccarsi seco nel suo regno, ma non molesta anche al pontefice, che desiderava sodisfarlo piú con le dimostrazioni e col compiacere alla sua ambizione che con gli effetti. E sforzavasi il pontefice di persuadere a ciascuno di andare là principalmente per praticare la pace e trattare la impresa contro agli infedeli, ridurre a buona via il re di Inghilterra, e finalmente solo per gli interessi comuni; ma non potendo dissimulare la vera cagione, mandò, innanzi che andasse egli, a Nizza la nipote, in su le galee che il re di Francia mandò col duca di Albania, zio della fanciulla, a levare lui. Le quali, poi che ebbeno condotto la fanciulla a Nizza, ritornate in porto Pisano, levorono, il quarto dí di ottobre, il pontefice con molti cardinali, e con navigazione assai felice lo condusseno in pochi dí a Marsilia; dove poiché ebbe fatto l'entrata solennemente, vi entrò poi il re di Francia, che prima l'aveva visitato, di notte; e alloggiati in uno medesimo palazzo, feciono dimostrazioni grandissime di amore. Ed essendo il re tutto intento a guadagnare l'animo suo, lo ricercò che facesse venire la nipote a Marsilia; il che fatto dal papa cupidissimamente (che non lo ricercava per mostrare di volere prima trattare delle cose comuni), come la fanciulla fu condotta, si fece lo sposalizio e quasi immediate la consumazione del matrimonio, con allegrezza incredibile del pontefice. Il quale, negoziando le cose sue col re medesimo e con somma arte, gli venne in somma confidenza e affezione; ancora che, contro a quello che hanno creduto molti e che credette Cesare, non si stabilisse tra loro capitolazione alcuna. Vero è che il papa se gli dimostrò sempre propenso nel desiderio che si acquistasse lo stato di Milano per il duca di Orliens, cosa molto desiderata dal re per l'odio e per lo sdegno contro a Cesare, ma molto piú perché, mettendo Orliens in quello stato, gli pareva spegnere le cause della contenzione tra' figliuoli dopo la morte sua; le quali, altrimenti, era pericolo che non nascessino per causa del ducato di Brettagna, il quale il re, l'anno precedente, aveva, contra alle convenzioni fatte dal re Luigi con quei popoli, unito alla corona di Francia, indottigli a consentire piú con l'autorità regia che con spontanea volontà. Né solo il re non ottenne da lui cosa alcuna nella causa del re di Inghilterra; ma per le inurbanità usate da' ministri di quel re, e perché gli trovò nella camera del papa che gli protestavano e appellavano da lui al concilio, mostratane indignazione, disse al papa che a lui non sarebbe offesa se proseguitasse quel che era di giustizia contro al re. Né offese in cosa alcuna l'animo del pontefice, eccetto che, per sodisfare piú a' suoi che a se medesimo, lo ricercò che gli creasse tre cardinali; cosa molto molesta al pontefice, non solo per la reclamazione che facea l'oratore cesareo ma perché gli pareva cosa di molto momento (e per la elezione de' futuri pontefici e per le inobbedienze che potessino nascere, in vita sua e poi) aggiugnere tanti cardinali alla nazione franzese che allora n'aveva sei: nondimeno, per minore male, acconsentí a questa dimanda; e oltre a questi creò uno fratello del duca di Albania, al quale prima l'aveva promesso. Per ogni altra cosa restati tra loro in grandissima fede e sodisfazione, e avendogli comunicato il re di Francia molti de' suoi consigli, e specialmente il disegno che aveva di concitare contro a Cesare alcuni de' príncipi di Germania, massime il langravio d'Alsia e il duca di Vertimbergh (i quali poi la state seguente si sollevorono), poi che furono dimorati a Marsilia circa uno mese, partí il pontefice in sulle galee medesime: con le quali, e con travaglio grande del mare, arrivato a Savona, non confidando né nelle provisioni delle galee né nella perizia degli uomini che le reggevano, rimandatele indietro, fu condotto da quelle di Andrea Doria a Civitavecchia. E ritornato a Roma con grandissima riputazione e con maravigliosa felicità, a quegli massime che l'avevano veduto prigione in Castel Sant'Angelo, godé molti pochi mesi il favore della fortuna; avendo già l'animo presago di quello che aveva a succedere. Perché è manifesto che, quasi incontinente dopo il ritorno di Marsilia, come certo della morte imminente, fece fare l'anello e tutti gli abiti consueti a' pontefici nel seppellirsi; e a' suoi famigliari affermava con l'animo sedatissimo dovere in breve spazio di tempo succedere la sua morte. E nondimeno, non deponendo per questo i pensieri e gli studi consueti, sollecitò che per maggiore sicurtà, come pareva a lui, della sua casa, si fabricasse una cittadella munitissima in Firenze; incerto quanto presto avesse a terminare la felicità de' nipoti; de' quali, inimicissimi l'uno dell'altro, Ippolito cardinale morí non senza sospetto di veleno, non finito ancora uno anno dalla sua morte e Alessandro, l'altro nipote il quale dominava a Firenze, fu, con grandissima nota di imprudenza, ammazzato in Firenze, occultamente di notte, da Lorenzo della medesima famiglia de' Medici. Ammalò adunque, nel principio della state, di dolori di stomaco; a' quali sopravenendo febbre, conquassato da quella e da altri accidenti lungamente, ora pareva quasi ridotto al punto della morte ora sollevato in modo che dava agli altri, ma non a sé, speranza di salute.

                                                 La quale infermità pendente, il duca di Vertimbergh, con l'aiuto del langravio di Alsia e di altri príncipi, e aiutato con danari dal re di Francia, recuperò il ducato di Vertimbergh posseduto dal re de' romani. E temendosi di maggiore incendio, convennono col re de' romani contro alla volontà del re di Francia, il quale aveva sperato che Cesare per questo moto si implicasse in lunga e difficile guerra, o forse che con l'armi vittoriose passassino a turbare il ducato di Milano. Passò anche in questo tempo Barbarossa, diventato bascià e capitano generale dell'armata di Solimanno, allo acquisto del reame di Tunisi; ma nel cammino scorse i liti di Calavria e passò sopra a Gaeta; donde alcuni de' suoi, posti in terra, saccheggiorono Fondi: con tanto timore della corte e de' romani che si crede che se fussino andati innanzi sarebbe stata abbandonata quella città; non sapendo di questo accidente cosa alcuna il pontefice.

                                                 Il quale finalmente, non potendo piú resistere alla infermità, si partí il vigesimo quinto dí di settembre della vita presente; lasciate in Castello Santo Angelo molte gioie e nella camera pontificale moltissimi offici ma, contro alla opinione universale, quantità piccolissima di danari. Pontefice, esaltato di grado basso con ammirabile felicità al pontificato, ma in quello provata fortuna molto varia; ma se si pesa l'una e l'altra, molto maggiore la sinistra che la prospera. Perché, quale felicità si può comparare alla infelicità della sua incarcerazione? all'avere veduto con sí grave eccidio il sacco di Roma? allo essere stato cagione di tanto esterminio della sua patria? Morí odioso alla corte, sospetto a' príncipi, e con fama piú presto grave e odiosa che piacevole; essendo riputato avaro, di poca fede e alieno di natura da beneficare gli uomini. Però, benché nel suo pontificato creasse trentuno cardinali, non ne creò alcuno per sodisfazione di se medesimo, anzi sempre quasi necessitato, eccetto il cardinale de' Medici; il quale, oppresso allora da pericolosa infermità, e in tempo che morendo lasciava i suoi mendichi e destituti di ogni presidio, creò piú tosto stimolato da altri che per propria e spontanea elezione. E nondimeno nelle sue azioni molto grave molto circospetto e molto vincitore di se medesimo, e di grandissima capacità se la timidità non gli avesse spesso corrotto il giudicio.

                                                 Morto lui, i cardinali, la notte medesima che si serrorono nel conclave, elessono tutti concordi in sommo pontefice Alessandro della famiglia da Farnese, di nazione romano, cardinale piú antico della corte; conformandosi i voti loro col giudicio e quasi instanza che n'aveva fatto Clemente, come di persona degna di essere a tanto grado preposta a tutti gli altri. Uomo ornato di lettere e di apparenza di costumi, e che aveva esercitato il cardinalato con migliore arte che non l'aveva acquistato; perché è certo che il pontefice Alessandro sesto aveva conceduta quella degnità non a lui ma a madonna Giulia sua sorella, giovane di forma eccellentissima. E concorsono i cardinali piú volentieri a eleggerlo perché, essendo già quasi settuagenario e riputato di complessione debole e non bene sano (la quale opinione fu aiutata da lui con qualche arte), sperorono avesse a essere breve pontificato. Le azioni e opere del quale se saranno degne della espettazione conceputa di lui, e della letizia immensa ricevuta dal popolo romano di avere, dopo [centotré] anni e dopo tredici pontefici, riavuto uno pontefice del sangue romano, ne faranno testimonio quegli che scriveranno le cose succedute in Italia dopo la sua assunzione. Perché è verissimo e degno di somma laude quel proverbio, che il magistrato fa manifesto il valore di chi lo esercita.

                                                  

                                                 FINE