HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Johann
Wolfgang Goethe
Faust
Questo e-book è stato
realizzato anche grazie al sostegno di:
E-text
Editoria, Web design, Multimedia
QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Faust
AUTORE: Goethe, Johann Wolfgang : von
TRADUTTORE: Scalvini, Giovita e
Gazzino, Giuseppe
CURATORE:
NOTE: I testi faustiani nelle
traduzioni ottocentesche di Giovita Scalvini (per la I parte, 1835) e Giuseppe
Gazzino (per la II parte, 1857).
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è
distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo
Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Faust",
di Johann Wolfgang Goethe;
introduzioni all'opera e alle scene
di Mario Apollonio;
note di Renato Maggi;
traduzione di G. Scalvini (per la I
parte)
e di G. Gazzino (per la II parte);
collezione "I classici
popolari";
Edizioni Bietti;
Milano, ca 1960
CODICE ISBN: informazione non
disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 29
dicembre 2005
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO
CONTRIBUITO:
Ferdinando Chiodo,
f.chiodo@tiscalinet.it
REVISIONE:
Marina Pianu, marina.pianu@gmail.com
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli,
paganelli@mclink.it
Alberto Barberi,
collaborare@liberliber.it
Informazioni sul "progetto
Manuzio"
Il "progetto Manuzio"
è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a
chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la
diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori
informazioni sono disponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/
Aiuta anche tu il "progetto
Manuzio"
Se questo "libro
elettronico" è stato di tuo gradimento, o se condividi le
finalità del "progetto Manuzio", invia una donazione a Liber
Liber. Il tuo sostegno ci aiuterà a far crescere ulteriormente la nostra
biblioteca. Qui le istruzioni: http://www.liberliber.it/sostieni/
Introduzione
L'edizione elettronica del Progetto
Manuzio segue fedelmente nell'ortografia l'edizione del Faust edita da Bietti,
se si eccettuano le seguenti modifiche:
* Parte I, capitolo "Studio
(I)"
Ohi, ohi! come vanno volo quelle
vispe ragazzotte.
modificato in:
Ohi, ohi! come vanno a volo quelle vispe ragazzotte.
* Parte I, capitolo
"Giardino"
Non abbiamo fantesca; e spetta a me
il far la cucina, spazzare, cucire, lavorar di calzette, e correre qua e
là a tutte l'ore [...]
"là" è stato
corretto poiché l'accento nell'originale non c'è.
* Parte II, Atto I, scena
"Giardino delizioso. Splendido mattino"
Un Altro Cameriere. Io sento i dadi
ballarmi in tasca, rò il doppio e del miglior vino.
Un Altro Cameriere. Io sento i dadi a
ballarmi in tasca.
modificato in:
Un Altro Cameriere. Io sento i dadi a
ballarmi in tasca.
* Parte II, Atto IV, capitolo
"La parte anteriore della montagna"
"combattimento" invece di
"combattimetno"
Johann Wolfgang Goethe
Faust
Traduzione di
G. Scalvini (per la I
parte)
e di
G. Gazzino (per la II parte)
PARTE I
Prologo sul teatro
Il Direttore, il Poeta del teatro, il Faceto.
Il Direttore. Voi due che
solete essere il mio consiglio e il mio ajuto, su ditemi: che sperate voi in
paese tedesco dalla nostra impresa? Io ho gran desiderio di dare nel talento
della moltitudine, da che in ultimo ella vive e lascia vivere. Le travi sono
confitte, inchiodate le tavole, ogni cosa in pronto, e ciascuno si promette una
lieta e magnifica festa. Già seggono cheti, con sopracciglia inarcate e
vogliosi di fare le maraviglie. Ben io so quello che ne rende benevoli i
più, e nondimeno io non sono mai stato in più dura irresoluzione.
Perché è il vero che costoro non sono gran fatto usi alle squisitezze,
ma hanno pur letto tanto che è uno spavento. Come ne usciremo adunque?
come troveremo alcuna cosa che abbia novità e nel tempo medesimo non sia
sciocca? Ché il vo' pur dire, a me il popolo piace oltremodo quando il veggo
traboccarsi a torrenti verso il nostro casotto, e urtando e sbuffando voler di
forza insaccarne la porta, come se la fosse quella del cielo. Bello è
vederlo nel pieno giorno, prima delle quattro, far serra intorno al botteghino,
e come nel dì della fame per pane allo sportello d'un fornajo, per poco
non fiaccarsi il collo per un biglietto.
E un sì gran miracolo sopra tanta varietà di animi sa
farlo il solo poeta. Oh! fammelo, amico mio! fammelo oggi.
Il Poeta. Deh, non mi
parlate di quel tuo volgo multiforme, dinanzi al quale fugge e si oscura
l'ingegno. Celami all'ondante moltitudine che nostro mal grado ne travolge
nella vorticosa sua piena. Oh, lungi da essa! ponimi nelle romite e serene
regioni, dove candida gioja può sol fiorire al poeta; dove l'amore e
l'amicizia gli vegliano intorno, e gli compartono tutto ciò che
più fa beato il nostro cuore.
Ahi, e quello che prorompeva dal
petto profondo e quello che mormoravi con timido labbro — quando riprovevole, e
quando forse non indegno di lode — egli ti è capricciosamente ingojato
dall'istantanea fortuna. E sovente
ancora è bisogno del volgere degli anni perché il nostro concetto appaja
splendido di bellissima forma. Ciò che subito sfavilla muore
rapidamente, ma il semplice e sincero si riserva alla posterità.
Il Faceto. Io vorrei
pur una volta non udir parlare della posterità; perché, poniamo ch'io
pure non avessi altro nel pensiero che i posteri, chi più darebbe
sollazzo a' presenti? ed ei pur vogliono e devono averne. Né mi par poi che un
giovane di bel garbo sia da stimarsi nulla perché vive oggi. Chi sa
gradevolmente compiacere agli animi altrui non avrà mai a dolersi dei
dispetti del volgo; anzi egli si desidera una gran raunanza perché gli
verrà meglio fatto di sollevarla. Però siate animoso: mettetevi
innanzi come modello; lasciate spaziare la fantasia col suo corteo del senno,
degli affetti, delle passioni; ma — date retta — vuoi esservi anche la pazzia.
Il Direttore. Sopra tutto
non siatemi scarso di eventi. Viensi per vedere; quello che importa è
vedere: date pascolo agli occhi, e quando giugniate a farli ben bene spalancare
alla moltitudine, voi siete sicuro del fatto vostro, siete l'amore, siete il
vezzo di tutti. Solo col molto attrarrete i molti, perché in una faraggine di cose
ciascuno ne raccapezza qualcuna che fa al caso suo. Chi porta molto porta per
tutti, e tutti se ne tornano a casa col contento nel cuore. Pagate in
ispiccioli; — mescete sapori d'ogni sorta, e un simil manicaretto andrà
ad ogni gusto, e voi sarete alzato in cielo. Subito immaginato e subito imbandito.
Che vi giova stillarvi il cervello per offerire alcun che d'intero? Il pubblico
ve lo mette tosto in minuzzoli.
Il Poeta. Voi non
v'accorgete quanto un sì fatto mestiere sia vile; quanto sconvenevole
all'artista che ha a cura il suo nome. Gl'imbratti di non so che odierni
guastamestieri sono ormai, ben veggo, i vostri modelli.
Il Direttore. Io non mi
piglierò a male i vostri rimproveri; che chi voglia fare buon'opera deve
pure scegliere gli istrumenti più acconci. Ora avvertite che son legne
fradice che vi bisogna schiappare, e considerate un po' per chi vi è
domandato di scrivere. Mentre gli uni son qui sospinti dalla noja, gli altri ci
vengono pieni zeppi di cibo, e, quel che è peggio, parecchi hanno pur
dianzi letto la gazzetta. Tutti tirano sbadati alla nostra volta come
n'andassero alle mascherate, e solo la curiosità dà ali ai loro
piedi. Le dame si assettano quanto più sanno, e sfoggiate fanno
spettacolo di sé per nulla. Ora, che vi state voi sognando in sulla cima del
vostro parnaso? E chi è,
secondo voi, che ci rallegrerà cotesta brigata? Miratali ben da presso
quei nostri mecenati: parte sono di gelo, parte son ceppi: e chi dopo la
commedia si promette una partita alle carte, e chi una cosa, chi l'altra; e voi
vorrete, poveri pazzi, tribolare le dolci muse per simile stampa di gente? Io
vel ridico, pascetela di maraviglie; dategliene giù e giù, e vie
più giù, che a questo modo ne verrete a capo. Gli uomini bisogna
stordirli, che contentarli è arduo. — Ma che è di voi? patite, o
vi agita l'estro?
Il Poeta. Va a
cercarti un altro schiavo! Sì, in vero che il poeta dovrà a tuo
beneplacito profondere le alte sue facoltà – il maggior dono di cui la
natura fosse provvida all'uomo! Ond'è ch'egli agita ogni petto?
Ond'è ch'ei regna sulle intrinseche virtù che informano le cose?
Non fosse per l'armonia ch'egli spande fuori di sé, e ne ravvolge il creato e
lo attira e ricompone nell'anima sua? Mentre la natura trae alla conocchia e
con indifferenza torce il perpetuo svolgersi dello stame; e mentre la confusa
moltitudine delle esistenze muove discorde in qua e là, e le une cozzano
dissonando contro dell'altre, — chi pone ordine in quel fastidioso, interminabile
succedersi loro, e le avviva e lega in geniale concordia? Chi richiama
l'errante e lo scompagnato ad affratellarsi cogli altri mortali? Chi scioglie
le procelle delle passioni? Chi rasserena il rigido pensiero dell'uomo nella
sera della vita? Chi sparge i soavi fiori della primavera sul cammino della
donna innamorata? Chi intreccia le inutili fronde e ne fa onorevol ghirlanda al
merito di ogni maniera? Chi preserva l'Olimpo? chi riconcilia gli Dei? La gran
possanza dell'uomo rivelatasi nei poeti.
Il Faceto. E usatele adunque sì belle
facoltà, e fate ire innanzi il lavoro poetico al modo di una ventura
d'amore. Ben sapete; ci avviciniamo per caso, proviamo non so che allettamento,
rimaniamo, e passo passo eccoci avviluppati: alle speranze si mescono le
ansietà, alle piene beatitudini seguono le ruine, e prima che ce
n'avveggiamo abbiam fatto un romanzo. Orsù, diamo noi pure uno
spettacolo su quell'andare. Sol fate di cercare ben addentro alle viscere della
vita: tutti la vivono; ma è nota a pochi, e di qualunque lato la
sappiate pigliare la è sempre interessante. Voglionci fantasie di ogni
colore e non troppa chiarezza; voglionci molti errori temperati da qualche
barlume di vero, e ne riesce, senza alcun fallo, un cordiale che ristora ogni
petto. E il bel fiore della
gioventù vi fa cerchio d'intorno e porge orecchio alle vostre
rivelazioni; e ogni tenera anima si sente stillar dentro una soave mestizia:
ora è commosso questi ed or quegli; ognuno si ricorda di sé in altrui o
scorge nelle vostre finzioni quel ch'egli porta nel cuore. E sono ad un tempo facili al ridere e
facili al piangere; ammirano il volo del vostro ingegno, e si dilettano sopra
ogni cosa degli apparimenti e degli sfoggi. Nulla contenta l'uom fatto, ma la
crescente gioventù piglia ogni cosa in buon grado.
Il Poeta. E tu rendi a me pure i miei anni
immaturi; quando il fiume del canto sgorgava rigoglioso e perenne; quando fra
me e il mondo era un velo di nubi, — e il calice ancor ravvolto in sul cespo mi
era presago di meravigliose fragranze; — quand'io coglieva gl'innumerevoli
fiori profusi per ogni valle. Io non aveva nulla, e non pertanto io aveva a
pieno; perché io avevo l'amore infaticabile del vero e la soavità
dell'illusione. Rendimi il mio selvaggio talento; l'affannata felicità,
la forza dell'odio e l'impeto dell'amore, — rendimi la mia giovinezza.
Il Faceto. Della
giovinezza, mio buon amico, tu avresti veramente bisogno, se tu fossi d'ogni
intorno incalzato dal nemico in battaglia; se la corona, premio della rapida
corsa, ti accennasse di lontano la meta o, se, dopo l'impeto vertiginoso della
danza, tu dovessi tutta notte gozzovigliare. Ma toccare con lena e leggiadria
le docili corde; muovere con piacevole errore verso un segno postoci innanzi da
noi a diletto, quest'è, miei dolci vecchi, l'ufficio vostro, e non
pertanto noi non vi onoriam meno. Ché la vecchiaja non ci ritorna, come suol
dirsi, fanciulli, ma ben ci fa rigodere veramente della fanciullezza.
Il Direttore.
Orsù, non più parole, ma fatti; ché mentre voi ve la passate. in
complimenti, puossi far cosa profittevole. Che rilevano i tanti cicalecci di
quel che si richiede a ben poetare? Nessun fervido estro agiterà mai il
petto degli irresoluti; e poiché volete pur dirvi poeti, vi è d'uopo
avere la poesia ai cenni vostri. Ormai vi è noto quello che ne bisogna:
noi vogliamo ber forte, però mesceteci conforme la voglia, e tosto!
Ciò che non si toglie a far oggi non è fatto domani, e mandare in
lungo è rare volte da savio. L'uomo risoluto piglia di tratto un partito
nel crine, e il tiene e seguita innanzi perchè non può
dismettere.
Voi sapete che sulle scene tedesche
ciascuno tenta ciò che gli viene in talento; laonde non vogliate oggi
perdonare né ad apparati né a macchine; giovatevi del maggiore e del minore
luminare del cielo, profondete le stelle; noi abbiamo in pronto e acqua e fuoco
e rocce e fiere ed uccelli; squadernate quindi in questa casipola di assi tutta
quanta la creazione, e con ponderata velocità calate dal cielo, e
attraversando per la terra, discendete all'inferno.
Prologo in cielo
Il Signore, le Legioni Celesti, indi Mefistofele. I tre Arcangeli precedono.
Rafaele. Il Sole
risuona, come da antico, fra l'emula armonia delle sfere fraterne, e compie il
prescritto suo viaggio coll'andamento della folgore. Il suo aspetto dà
vigore agli angeli, ma niuno può scrutare il suo profondo. Le alte,
incomprensibili opere del Signore sono splendide come nel primo lor giorno.
Gabriele. E veloce, incomprensibilmente veloce
si rivolve nella sua magnificenza la terra. Il luminoso sereno del cielo si
alterna coll'immenso orrore della notte; il mare leva spumando le sue larghe
correnti sul vertice inaccesso degli scogli; e gli scogli e il mare sono via
rapiti nell'eterno, infaticabile corso delle sfere.
Michele. E a gara le procelle fremono dal mare
alla terra e dalla terra al mare, e imperversando fecondano intorno intorno le
forze generatrici delle cose. Là giù il corrusco sterminio balena
innanzi le vie del fulmine. Ma i tuoi messaggieri, o Signore, adorano il
placido cammino del tuo giorno.
A Tre. Il tuo
aspetto dà vigore agli angeli, ma niuno può scrutare il tuo
profondo; e le grandi tue opere sono splendide come nel primo lor giorno.
Mefistofele. Poiché, o
Signore, ti ci fai un po' da presso, e domandi come vanno le cose di
laggiù, e solevi già un tempo star meco volentieri, — ecco, ti
appajo innanzi io pure fra la torma de' tuoi servidori. Scusami, io non saprei
dire alte cose; non se avessi a tirarmi addosso le beffe di tutto il corteggio. E il mio piagnisteo ti moverebbe certo
a riso, se tu non fossi già di lunga mano svezzato dal ridere. Di Soli e
di Mondi non so che me ne dire, e sol veggio come gli uomini stentino e
tormentino sè medesimi. Quel deicino del mondo si rimane perpetuamente
del medesimo conio, ed è oggidì quello stravagante ch'egli era
nel primo suo giorno. Forse ei vivrebbe un po' meglio se tu non gli avessi dato
non so che barlume della luce del cielo ch'egli nomina ragione, e non ne usa
che per imbestiarsi più di qualunque bestia. In vero egli mi somiglia,
con tua buona pace, una di quelle cavallette dalle gambe lunghe, che volano
sempre innanzi solo per querelarti? Non è, al parer mio, sepolte
nell'erba, cantano la loro vecchia canzoncina: e si giacesse egli pur sempre
nell'erba! Ei va a ficcare il naso in ogni letamajo.
Il Signore. Non hai tu
altro da dire? e mi verrai tu sempre innanzi solo per querelarti? Non è,
al parer mio, nulla in sulla terra che vada bene?
Mefistofele. Nulla,
Signore! Al parer mio, tutto ci va, come al solito, fieramente alla peggio. Gli
uomini nelle immense loro miserie mi fanno pietà; e invero ti dico che
non mi regge ormai più l'animo di tribolare quei meschini.
Il Signore. Conosci tu Faust?
Mefistofele. Il dottore?
Il Signore. Il mio
servo.
Mefistofele. Davvero!
Egli vi serve a un suo strano modo. Il bere e il mangiare di quel pazzo non
sono della terra; e il tumulto della sua mente lo incalza fuor della sua
frenesia. Egli dice al cielo: Dammi le tue più lucide stelle; e alla
terra: Profondimi le tue delizie; né le cose prossime, né le lontane contentano
mai il suo petto altamente affannato.
Il Signore. Se egli mi
serve, ancorché il faccia con qualche scompiglio, io non tarderò a farlo
camminare alla mia luce, ché quando l'arboscello germoglia ben sa il
giardiniero che ne' prossimi anni porterà ricca messe di fiori e di
frutti.
Mefistofele. Che ne va,
che perderete anche costui? Sol che vogliate darmi licenza di condurlo pian
piano per le mie vie.
Il Signore. Quanto egli
ha a vivere sopra la terra tanto è concesso a te di fare tue prove. Che
l'uomo svia finché va pellegrino.
Mefistofele. Ve ne so
grado, però ch'io non me la sono mai presa volentieri co' morti; e
specialmente io mi diletto delle guance lucenti e pienotte. Nel fatto di
cadaveri io non sono in casa mia; egli m'interviene quel che al gatto col topo.
Il Signore. Or via, ti
è lasciato fare. Rimovi quello spirito d'alta sua origine, e se ti
riesce di avvilupparlo, volgilo in giù teco per le tue vie. E rimanti vergognato quando tu abbi
pure a riconoscere che l'uomo da bene, ancorché paja starsi perplesso, è
pur sempre consapevole del buon cammino.
Mefistofele.
Egregiamente! solo che l'avrem tosto finita. Non ho un timore al mondo di
perdere questa gara; ma se riesco al mio intento, vogliatemi concedere che ne
meni trionfo di gran cuore. Polvere egli dovrà mangiare e con gusto,
come il famoso mio avolo il serpente.
Il Signore. Di
più: tu puoi liberamente apparire nel mondo; ch'io non ebbi mai in odio
i simili a te. Di tutti gli spiriti che negano, quegli che mi dà minor
noja è il beffardo. L'uomo agevolmente inchina a sonnolenza, e vorrebbe
di certo conseguire un perfetto riposo; perciò io gli metto volentieri
a' fianchi uno istigatore che lo solleciti, e lo cacci innanzi e lo tenga in
faccende con quella instancabilità che è propria de' demoni. — Ma
voi, prole purissima del cielo, godetevi beati delle bellezze che si spandono
dall'eterno mio fonte. Stringetevi in nodo d'amore coll'universo che sempre
vive e rinnova, e alle cose che vedete errare mal ferme nel vano, date norma
con pensieri sempre drizzati a un segno. (Il cielo si chiude, e gli
Arcangeli vanno a diverse parti.)
Mefistofele (solo).
Di tempo in tempo io veggo volentieri questo Antico, e mi guardo dal rompere
seco. È proprio bello a un sì gran signore il parlare così
alla buona anche col diavolo.
Notte. Stanza gotica a volta alta ed
angusta
Faust inquieto
sulla seggiola allo scrittoio.
Faust. Oimé, io ho
oramai studiato filosofia, giurisprudenza, medicina, e, lasso! anche la grama
teologia! e d'ogni cosa sono andato al fondo con cocente fatica. Ed ecco,
povero pazzo! ch'io ne so ora quanto innanzi. Mi chiamano maestro, chiamanmi
anche dottore, e già da dieci anni io meno, di su e di giù, e per
lungo e per traverso, i miei scolari pel naso; oh! veggo manifesto che noi
sapremo mai nulla! Ahi, io ne avrò rapidamente consumato il cuore! Per
verità io posso di dottrina tutti quanti i cianciatori, dottori,
maestri, scrivani o preti, né io sono tormentato da dubbi o da scrupoli; né
l'inferno, né il diavolo mi dà paura. Ma, e ogni gioja si è pure
partita da me: non più presumo di conoscere alcuna cosa di vero; non
più presumo d'insegnare alcuna cosa che mi valga a ravviare e condurre
gli uomini al bene. Oltre di che, io non ho né poderi, né oro, né onori, né
dignità nel mondo. — Un cane non potrebbe lungamente durare simil vita.
— E però io mi sono
gettato nella magìa per tentare se mai gli Spiriti volessero di lor
bocca rivelarmi alcuni segreti, tal ch'io cessassi una volta questa angoscia
d'insegnare quello ch'io non so; conoscessi pur una volta ciò che
più intimamente feconda e tiene insieme questo universo, le operose sue
forze, e le sementi di tutte le cose, e non facessi più un vergognoso
mercato di parole.
Oh, fosse questa l'ultima volta, o
Luna, che tu guardi sopra di me travagliato! quante volte dinanzi a questo
leggio io ho vegliato tardi nella notte aspettandoti: e tu, mesta amica, sei
pur sempre apparsa, a me su libri e su carte! Oh, potessi in sulle cime dei
monti aggirarmi per entro la tua amabile luce, starmi sospeso cogli Spiriti in
sui burroni, divagarmi, avvolto da' tuoi taciti albori, sui prati, e, sgombro
da tutte le vanità della scienza, bagnarmi e rinfrancarmi nella tua
rugiada.
Misero! e starommi ancora confitto in
questo carcere? in questa maledetta, fetida tana, dove anche il dolce lume del
giorno penetra torvo e interrotto per le colorate vetriere; vallato da questo
monte di volumi che i vermi rodono e copre la polvere; da questa carta
affumicata, stipata fin su sotto la vista: con vasi ed ampolle intorno
assettate, e stromenti accatastati, e masserizie de' miei avoli qui dentro
calcate! — E questo è il
tuo mondo! questo a te pare un mondo!
Su, fuggi! va fuori all'aperto! E non è scorta sufficiente per
te questo misterioso libro di mano propria di Nostradamo? Allora tu conoscerai
il corso delle stelle, e ammaestrato dalla natura, la tua anima si farà
udire potente dentro di te, simile a uno spirito che parli ad un altro spirito.
Indarno qui speri che i santi segni ti si rivelino per un torbido meditare. Voi
vi aggirate, o Spiriti, intorno a me: rispondetemi se mi udite! (Apre il
libro, e affissa il segno del Microcosmo). Oh, vista! Oh, di che viva
delizia sono subitamente innondati tutti i miei sensi! Sento corrermi per ogni
fibra di quel santo e soave ardore che faceva lieta la mia giovinezza. Fu egli
un dio che delineò questi segni? Essi serenano la tempesta della mia
mente, empiono di giubilo il mio povero cuore, e mi avvalorano a togliere il
velo alle forze arcane della natura. E sono
io pure un dio, poiché tanta luce mi folgora d'improvviso nell'intelletto? Miro
in queste nitide linee tutta aprirmisi dinanzi all'anima l'operatrice natura; e
conosco ora finalmente ciò che suona la parola del savio. “Il mondo
degli spiriti non è chiuso, ma sì la tua mente; il tuo cuore
è morto! Orsù, discepolo, irrora infaticabile dei raggi del
mattino il petto terrestre”. (Contempla il segno.)
Come tutte le cose cospirano ad
intessere un tutto; e si avvicendano l'opera e la vita! Come le intelligenze
celesti ascendono e discendono, e sporgonsi le auree secchie, e sovr'ali
spiranti benedizione calano di cielo in terra, e tutte penetrano e
armoniosamente risonano per entro il tutto!
Che spettacolo! Ma, oimé, non altro
che uno spettacolo! Dove mi spererò io di raggiungerti, infinita natura?
Dove cercherò voi sue mamme? Ubertose fonti di ogni vita, a voi il cielo
e la terra stanno sospesi, come due lattanti; e a voi ingordamente anela
l'esausto mio petto. Voi scaturite, voi inaffiate, ed io arderò sempre
di sete indarno? (Volge dispettosamente il libro, e mira il segno dello
Spirito della terra.)
Quai diversi effetti opra in me
questo segno! Spirito della terra, tu mi sei più da presso; e già
sento ampliarsi le mie forze; già ardo dentro come per vino recente. Mi
sento l'ardire di cimentarmi col mondo, di sostenere le gioje e gli affanni che
vengono dalla terra; di contrastare alle procelle e di non atterrirmi nello
scroscio del naufragio. — Egli si annuvola sopra di me, — la luna impallidisce
e si vela, — la lampa vien meno! Si leva un tetro vapore, — rubicondi raggi
tremolano intorno al mio capo; e mi piove giù dall'alto non so qual
ribrezzo che scuote tutte le mie ossa. Ben sento che tu ti aggiri intorno a me.
Spirito supplicato! Su, su, rivelati! — Ahi, che strazio si fa del mio cuore! e
che novità di affetti travolge tutti i miei sensi! Ecco l'anima mia si
abbandona pienamente a te. Uscirai! uscirai! avesse a costarmi la vita. (Piglia
il libro e pronuncia le misteriose parole del segno dello Spirito. Sorge una
fiamma rossiccia e lo Spirito apparisce nella fiamma).
Lo Spirito. Chi mi
chiama?
Faust (volgendo
la faccia). Oh, vista spaventevole!
Lo Spirito. Tu ardi e
supplichi di vedermi, di udire la mia voce, di affissare il mio aspetto: la
potente preghiera del tuo cuore mi ha vinto: io son qui! — Qual miserabile
tremito ti coglie ora, o tu che ti stimi più che mortale? Dov'è
il forte invocare dell'anima tua? dove il petto che si edificò dentro un
mondo e in sè lo crebbe e nudrì, e con trepida gioja si espanse
per sollevarsi sino a noi, — per agguagliare gli spiriti? Dove sei tu, Faust?
tu, la cui voce mi è pur risonata fin lassù! dov'è colui
che si è animosamente avventato sino a me? Sei tu quegli? tu che,
percosso dal mio alito, tremi in ogni tua viscera; timido verme che si storce e
si divincola tutto!
Faust.
Cederò io a te, forma di fuoco? Sì, io son desso: son Faust, —
sono il tuo pari.
Lo Spirito.
Nelle correnti
Fervide
della vita,
Nell'infinita
Procella
degli eventi,
Io
sorgo e affondo,
Spiro
qua e là!
Nascita
e morte; un mare
Senza
riva né fondo,
Un
eterno mutare,
Un
viver che riposo
Non
ebbe mai, né avrà.
Così
sul rumoroso
Telajo
del tempo di mia man contesta
È
di Dio la visibile
Inconsumabil
vesta.
Faust. O tu che
scorri l'ampio mondo, Spirito affaccendato, — quanto io mi sento simile a te!
Lo Spirito. (Sparisce.)
Faust (grandemente
abbattuto). Non a te? e a chi dunque? Io, immagine di Dio, non pur simile a
te? (Si ode picchiare.)
Oh, desolazione! So chi è
costui — egli è il mio coadiutore. Ecco mandatami a male la più
bella ventura ch'io mi avessi mai. Tanta intensità di visione mi ha da
essere distrutta da quest'arido stropiccione! (Wagner entra in veste da
camera, berretta da notte e una lucerna in mano. Faust si rivolge
dispettosamente da lui.)
Wagner. Scusatemi!
— Io vi ho udito recitare; state voi a fortuna leggendo una tragedia greca? Io
vorrei pur fare alcun profitto in declamazione, che oggidì è arte
di grande effetto sugli animi. Ho udito magnificarla a cielo, e non di rado
dire che un commediante potrebbe ammaestrare un parroco.
Faust. Sì
certo, quando il parroco fosse un commediante, come ben può alle volte
dare il caso.
Wagner. Oimé!
l'uomo che si sta perpetuamente intanato nel suo studiolo e a pena vede un po'
di mondo nei dì di feste, — e di lontano col cannocchiale; come potrebbe
farsi atto a condurre gli uomini con la persuasione?
Faust. Indarno vi
assottigliate per saper come, se nol sentite; se il vostro petto è
arido, se nulla ne scaturisce che, per certo qual nativo allettamento, faccia
forza agli animi degli uditori. Stillatevi a vostra voglia il cervello;
raccogliete le reliquie dell'altrui mensa, rimestatele, fatene un intingolo, e
tanto soffiate che dal mucchierello delle vostre ceneri si levi una povera
fiamma. I fanciulli e le scimie,
se assaporate simil sorta di onori, vi ammireranno, ma voi non porrete mai
nulla ne' cuori altrui se nulla è nel vostro.
Wagner. Ma egli
è pur vero che la bella elocuzione fa principalmente la lode dell'oratore;
e il sento io bene, e non sono tuttavia gran fatto innanzi.
Faust. Mirate a
buon profitto; e non vogliate imitare il giullare che si gode dello strepito
de' suoi sonagli. Poca arte si richiede a un dir sano e sincero. E quando vi sta fortemente a cuore
alcuna cosa, vi è forse bisogno di mettervi in cerca di parole?
Sì, in verità, quel vostro parlare dipinto, que' ricci, quelle
pompose frascherie sono vòte di ristoro come il vento nebuloso che
susurra l'autunno per l'aride foglie.
Wagner. O Dio! L'arte
è lunga e la vita è breve. Sovente le mie critiche investigazioni
mi hanno messo dei fieri spasimi in ogni midolla. Quanto è malagevole
l'impossessarsi delle vie per le quali salire alle fonti; e può ben
anche venir caso che un povero galantuomo debba andarsene fra que' più
prima che sia pur giunto a mezzo il cammino.
Faust. Forse la
pergamena è quella sacra sorgente il cui sorso possa ammorzare la nostra
sete per sempre? Tu non avrai mai nessun refrigerio se non ti scaturisce
dall'anima propria.
Wagner. Scusatemi!
egli è pur dolce l'ingolfarci nei secoli andati, rivolgere lo spirito
dei tempi, veder quel che un savio pensasse prima di noi, e come noi,
allargando la sua sapienza, abbiamo di poi steso un sì alto velo
sovr'esso.
Faust. Oh,
sì, alto sino alle stelle! Amico mio, i secoli andati sono per noi un
libro suggellato con sette suggelli; e quel che voi dite lo spirito dei tempi
non è, in ultimo, che lo spirito di alcuni ciarlatori, dal quale i tempi
hanno preso sembianza. Se sei sano di mente, non hai che a mettere lo sguardo
in quelle farragini per andartene pien di fastidio in ogni dì della tua
vita. Egli ti par di vedere un cestone di spazzature, un ripostiglio di
masserizie disusate e logore, o, se più vuoi, una commedia di regni e di
re, impinzata di pompose sentenze a lor uso, quali si converrebbero
maravigliosamente nelle bocche dei burattini.
Wagner. Ma e il
mondo? la mente, — il cuore dell'uomo? Ognuno vorrebbe pur conoscerne qualche
cosa.
Faust. Sì,
quel che gli uomini chiamano conoscere. Chi osa dir pane al pane? 1 pochi che
n'ebbero qualche conoscenza, e, stolti! non seppero contenere il loro cuore,
anzi sparsero nel volgo quello che delle cose sentivano e intendevano, furono
da tempo immemorabile crocifissi od arsi sui roghi. Amico, la notte è
molto innanzi, e ne giovi interrompere per ora, ve ne prego.
Wagner. Io avrei
pur volentieri vegliato più a lungo in sì dotti ragionamenti. Ma
domattina, poiché è domenica di pasqua, vogliate permettermi ch'io vi
faccia alcuni quesiti. Mi sono tuffato negli studj; e, nel vero, io ne so
molto, ma io vorrei tutto sapere. (Parte.)
Faust (solo).
Vedi, come la speranza non diserta mai quel povero cervello che non si nutre se
non di scempiezze. Costui scava con mano ingorda il terreno cercando tesori, e
giubila tutto se disseppellisce un vermicciuolo.
E la voce di un simil uomo ebbe
ardire di risonare qui dove poc'anzi era tutto pieno della presenza degli
spiriti? E nondimeno questa volta
io ti ringrazio, o miserabilissimo de' mortali, però che tu mi hai
sottratto dalla disperazione che già stava per sovvertire il mio
intelletto. Ahi, quella visione fu di tanta grandezza ch'io mi sentii tutto
rimpicciolire come un nano.
Io che, superbendo della mia divina
immagine, già credevo d'affacciarmi allo specchio dell'eterno vero: e
vestito il mio mortale ed immerso nello splendore del cielo, già
esultavo di me in me medesimo; — io che già sognava di essere da
più de' cherubini; ed entrato nelle vive correnti che alimentano
l'universo, già risaliva per esse alla prima lor fonte e vi attingeva
virtù di creare e godeva della vita degl'immortali, — ahi, che dura
ammenda io debbo ora fare della mia tracotanza! Una folgorata parola mi ha
impetuosamente ributtato indietro.
Oh, io non mi attenterò
più di pareggiarmi a te! Ché, se io ebbi forza di attrarti, io non ebbi
forza di ritenerti. In quel beato momento io mi sentiva sì piccolo, e ad
un tempo sì grande! — e tu mi hai tremendamente risospinto nella
fortunosa condizione dell'uomo. Ora chi mi ammaestrerà? Che
fuggirò, o che cercherò io? Obbedirò a quel primo impulso
del mio petto? Ahi! coi nostri fatti, non che coi nostri patimenti, noi
mettiamo inciampo al corso della nostra vita.
La nostra mente non sorge mai
tant'alto verso il suo eterno desiderio, che non porti sempre seco un duro e
straniero ingombro che la ritorce alla terra; ma se conseguiamo le
prosperità del mondo, allora diam nome d'illusione e di menzogna a
quanto val meglio di esse. I nobili
sensi che ne avevano levato a quel puro vivere intellettuale intorpidiscono
sotto la somma degli affetti terrestri.
Nella stagione delle speranze la
fantasia si stende con ali audacissime per l'immenso, ma un breve spazio le
è abbastanza, allorché tutte le venture, una dopo l'altra, se n'andarono
naufraghe nel gorgo del tempo. La cura vien tosto ad annidarsi nel fondo del
cuore, e vi genera segreti terrori; vi si dibatte senza riposo, e vi scompiglia
ogni conforto e ogni pace. Ella prende nuove forme continuamente; ed ora è
la casa e il podere, ora la donna e il figliuolo; e quando pare acqua, fuoco,
pugnale, veleno. Tu tremi di mali che non ti colgono mai; e lamenti del
continuo ciò che mai non ti avviene di perdere.
No, io non somiglio a' celesti! io il
sento troppo addentro nell'anima; io somiglio al verme che si volge
faticosamente nella polvere; e mentre va pascendo per la polvere, il viandante
lo calca col piede e lo seppellisce.
E non è forse polvere tutto
ciò che in cento spartimenti si addossa a quest'alta parete? non polvere
le anticaglie, le stravaganze di mille maniere che in questo regno delle
tignuole mi assiepano d'ogni intorno? E potrò
io qui trovare quello di cui ho manco? O vorrò forse leggere in mille volumi
che gli uomini si sono in ogni tempo tormentati fra loro, e che di quando in
quando è apparso qualche felice?
E tu, cranio vôto, a che stai tu
sgrignandomi così? Vuoi tu dirmi che un tempo il tuo cervello fu
scompigliato come il mio; che tu pure ardesti dell'amore del vero; tu pure
cercasti il lucido giorno, e andasti pur sempre aggirandoti in un doloroso
barlume? E per verità voi
ancora, stromenti, vi fate beffe di me, voi ruote e dentelli e cilindri e
manubri. Io stava alla porta, e toccava a voi farmi da chiave. Veramente sono
mirabili que' vostri ingegni, ma non sapete alzare il chiavistello. La natura,
misteriosa anche nel pieno del giorno, non patisce che alcun mortale tolga mai
il suo velo; né per forza di leve o di viti tu puoi condurla a discoprirti quel
ch'ella vuol nascondere al tuo intelletto.
Vecchie suppellettili, delle quali io
non ho mai fatto uso, voi non siete ora qui se non perché mio padre soleva
valersi di voi. E tu pure, antica
carrucola, — oh come se' tutta sozza del fumo della lucerna per tanti anni arsa
su questo scrittoio! Sarebbe stato pur meglio ch'io avessi sprecato il mio
poco, anzi che non averne altro pro che le noje di custodirlo. Indarno tu hai
accolta l'eredità de' tuoi padri se non sai goderne: quello di cui non
usi è un inutile ingombro, e non puoi nel momento giovarti se non di
quelle cose che conduce seco il momento.
Ma perché il mio sguardo si affissa
pur sempre a quel luogo? È forse in quell'ampolla qualche fascino per
gli occhi? Perché subitamente si sparge intorno a me un amabile sereno, simile
a raggio di luna che alita intorno al pellegrino smarrito per la foresta?
Salve, oh, salve tu sola, o ampolla!
Devotamente io ti levo di lassù, e ammiro in te il senno e l'arte degli
uomini. Essenza che infondi soave sapore: compendio di tutte le forze che
delicatamente uccidono, vieni ora in soccorso del tuo signore. Io ti guardo e
il mio dolore si disasprisce; ti stringo, e il procelloso fremito della morte a
poco a poco si acqueta. Io mi veggo di lunge far cenno di mettermi per l'alto
mare; il puro cristallo delle sue acque fiammeggia a' miei piedi, e un nuovo
giorno mi alletta a cercare nuove rive.
Un carro di fuoco cala su ali
leggiere verso di me. Ecco io mi apparecchio a solcare l'etere immenso, a
levarmi per incognite vie verso nuove sfere, verso regioni di attività
infaticabile. Ma tu — tu che pur dianzi eri un verme; meriti tu d'esser fatto
uno dei beati ed eterni? Sì, purché tu volga risolutamente le spalle a
questo amabile sole della terra, purché tu osi squarciare quelle porte, dalle
quali ognuno vorrebbe furtivamente ritrarsi. Giunta è stagione da
mostrare coi fatti che la dignità dell'uomo non cede alla grandezza
degli dei. Non tremare dinanzi a quell'oscuro baratro, sol pieno dei tormenti
da noi in nostro danno fantasticati: va franco verso quell'andito, dalla cui
bocca sgorgano le fiamme dell'inferno; risolviti con animo sereno al passo
tremendo, ancorchè fosse con pericolo di dissiparti nel nulla.
Ora vien giù, nitida,
cristallina tazza, alla quale io non ho da tanti anni pensato; esci dalla tua
vecchia custodia. Fu un tempo che tu splendevi nei giocondi banchetti de' miei
padri e rasserenavi gli ospiti pensosi che ti mandavano in giro con vicendevole
invito. Tu mi fai ricordare di assai notti della mia fanciullezza, quando
ciascun bevitore era in debito di svolgere in rima il vario e mirabile lavoro
delle tue immagini, e tutta vôtarti in un tratto. Ora io non ti porgerò
a nessun commensale; né le tue sculture metteranno a prova il mio ingegno. Qui è
un liquore che subito inebbria; egli stagna tetro nel tuo fondo. Orsù,
sia questa l'ultima mia bevanda! io l'ho preparata, io me la scelgo, e con
tutta l'anima la porto in solenne e festivo brindisi al nuovo mattino. (Si
pone la tazza alla bocca.)
Suono di campane e canto di Cori.
Coro di
Angeli. Cristo è risuscitato! Sia gioia a' mortali, allacciati
nell'affannosa, ereditaria, inevitabile colpa.
Faust. Qual cupo
tintinnio, quale allegro concento mi rimuove a forza il nappo dalla bocca? Annunziate
già voi, roche squille, la prima festiva ora della Pasqua? E voi, cori, cantate già voi la
consolante salmodia che un tempo si diffuse dal labbro degli angeli intorno la
notte del sepolcro, testimoniando la nuova alleanza?
Coro di
Donne. Noi l'abbiamo con amore sparso di aromati e quivi entro
coricato; noi, sue fedeli, l'abbiamo avvolto in mondissimi tessuti, e, lasse!
Cristo non è più qui.
Coro di
Angeli. Cristo è risuscitato. Beati quelli che hanno amato,
quelli che agguerriti sostennero il doloroso e salutare cimento.
Faust. Soavi,
angeliche note, a che venite a cercarmi nelle dolorose mie tenebre? Fatevi
udire là dove sono uomini meno indurati di me. Ben io intendo il vostro
messaggio, ma mi manca la fede; e il miracolo è il figliuolo prediletto
della fede. Io non oso levare la mia mente sino alle sedi donde mi viene la
propizia novella. E nondimeno,
avvezzo dai miei teneri anni a questi suoni, io mi sento riconciliare alla
vita. Un tempo, nell'austero riposo della domenica, scendeva sino a me il bacio
del divino amore. Dalla piena armonia delle squille mi uscivano non so che
incogniti presentimenti, e nell'orazione era un ardente diletto. Un fervore
incomprensibilmente santo m'invogliava d'uscir fuori a divagarmi per selve e
per prati, ed ivi versando dirottissime lagrime io mi sentiva entrare in un
mondo novello. Simili canti annunziavano gli allegri giuochi della
gioventù, i festosi diporti della primavera; ed ora queste rimembranze,
ravvivando in me il sentimento della fanciullezza, mi rimovono dall'ultimo,
irreparabile passo. Oh! tornate a risonare, inni soavi e benedetti! Ecco, le
mie lagrime scorrono, e la terra mi ripossiede.
Coro di Discepoli. Il sepolcro ha riassunto la
vita, e si è splendidamente levato in alto; egli si gode a lato
all'eterna letizia, che tutto sostiene e governa. Ma noi, miseri! rimaniamo in
dolore quaggiù in grembo alla terra. Ahi, poiché tu lasci indietro i
tuoi ad ardere in desiderio, noi lamentiamo, o maestro, la tua beatitudine.
Coro di
Angeli. Cristo è risorto dal seno della dissoluzione. Svelletevi
ilari dai vostri ceppi, o voi che operosi lo glorificate: voi che gli
testimoniate amore, convivendo da fratelli; che predicate viatori pel mondo la
sua parola e promettete la celeste beatitudine; — a voi il maestro è
vicino; egli è ivi con voi.
Dinanzi la porta della città
Gente di ogni condizione che escono a
diporto.
Alcuni
operai. E perché di
là?
Altri. Noi andiamo
alla Casa di caccia.
I primi. Noi,
vogliam ire al molino, noi.
Un operajo. Fate a mio
modo, venite al Cortile dell'acqua.
Un altro. La via non
è dilettevole per là.
I secondi
operai. E tu che fai?
Un terzo
operajo. Io vo cogli altri.
Un quarto. Venite su a
Burgdorfio, che vi troverete fior di fanciulle, birra squisita, e brighe a
vostra posta.
Un quinto. E non se' tu ancor sazio? ti prudono
per la terza volta le reni? Io non ci vengo; ho in orrore quel luogo.
Una fantesca. No, no! io
torno in città.
Un'altra. Noi lo
troveremo certamente fra quei pioppi.
La prima. Non
è gran fortuna per me. Egli ti starà sempre a lato: egli non
danza che teco in sull'aja. E che
fa a me il piacer tuo?
La seconda. Oggi, sta
sicura, non sarà solo. Mi ha detto che il ricciutello verrebbe seco.
Uno studente. Ohi, ohi!
come vanno a volo quelle vispe ragazzotte. Vien via lesto, che vedremo di
metterci seco. Birra che frizzi, tabacco che morda e una servetta in gala son
quanto va meglio al mio umore.
Alcune
signorine. Bel vedere che fanno que' giovani! È proprio una
vergogna. Potrebbero stare in compagnia onorevole, e vanno dietro a quelle
fantesche.
Secondo
studente (al primo). Non correr sì forte! Ne abbiamo due
costì dietro tutte leggiadre e attillate. Una è la mia vicina, ed
io ne sono tanto o quanto invaghito. Le vanno via chete chete con quei loro
passini, ma io so che all'ultimo ne terrebbero in lor compagnia.
Il primo.
Oibò! io non vo' stare in soggezione. Su presto che non perdiamo di
traccia quelle altre. Quella mano che gira la granata il sabato ti accarezza
più soave la domenica.
Un cittadino. No, il
nuovo podestà non mi quadra punto. Da che è in carica egli
diviene ogni dì più secco e più arrogante. E che ha egli poi fatto insino ad ora
per la città? Forse non vassi di male in peggio in ogni cosa? Bisogna
abbassar il capo più che mai, e pagare assai più che non fu mai
in usanza.
Un
Pezzente, cantando.
Cavalieri, e voi vezzose
Dame,
tutte ornate e belle,
Tutte
fresche come rose
E
lucenti come stelle;
Deh, attendete; deh, mirate!
Sono
un povero pezzente;
Qualche
aita, deh, mi date;
Deh,
non dite: Non ho niente.
Deh, non piacciavi che invano
Io
trimpelli il mio lamento;
Chi
sa dar con larga mano,
Prova
al core gran contento.
Deh, non dite: Un'altra volta;
Oggi
è dì che ognun festeggia.
Faccia
anch'io buona ricolta;
Anche
al pover si proveggia.
Un altro
cittadino. In quanto a me nulla mi è più soave nel
dì delle feste che lo andar conversando di guerra e di cose guerresche,
ora che là dentro in Turchia, lontano da noi, le genti si tagliano a
pezzi. E tu ne stai alla finestra
centellandone un bicchiere del buono, e guardando le barche che vanno
giù a seconda pel fiume; e la sera ti riponi in casa, e benedici la pace
di cui gode il paese.
Un terzo. Sì,
mio signore; avvenga che può altrove, si fendano pure il capo a lor bel
diletto, e mettano a soqquadro ogni cosa, purchè qui tutto continui ad
andare all'antica.
Una vecchia (alle
signorine). Corbezzoli! che gale! che fiore di gioventù! Chi non ne
perderebbe il capo? Su via, un po' men di alterigia! un po' più alla
mano, e ben io saprò procurarvi ciò che vi sta a cuore.
Una delle
signorine. Vientene, Agata, ch'io non vo' mostrarmi in pubblico con
simili streghe. Bene è vero che la notte di sant'Andrea ella mi fece
vedere il mio futuro amante.
L'Altra. E a me fece vedere il mio in uno
specchio, in abito militare, fra altri leggiadri soldati. Io mi guardo
d'attorno, e lo cerco qua e là, ma non mi vien fatto d'incontrarlo.
Soldati.
Sempre ho nell'animo
Ardui
castelli,
Altere
vergini
D'amor
ribelli.
Aspro è il travaglio
Della
tenzone,
Ma
bello e splendido,
Il
guiderdone.
Le trombe squillano;
E
sien di morte
Nunzie,
o di giubilo,
Non
cura il forte.
Il forte godesi
Nelle
procelle;
Castelli
cedono,
Cedon
donzelle;
Aspro è il travaglio
Della
tenzone,
Ma
bello e splendido
Il
guiderdone.
Ed i soldati
Sonsene
andati.
Faust e Wagner.
Faust. I ruscelli e i torrenti si disvolgono
sotto il soave, vitale sguardo della primavera. La valle ride del colore della
speranza; e il vecchio e debole inverno si va ritraendo sull'ispide cime dei
monti. Di lassù ci manda ancora, nella sua fuga, qualche spruzzaglia di
gelo sui teneri germogli dei prati. Ma il sole non comporta più alcuno
squallore, e tutto vuoi avvivare e abbellire: da per tutto la terra si
apparecchia ad aprire il fecondo suo seno. La costiera non è ancor
rivestita di fiori, ma in lor vece è quell'adorna varietà di
persona. Volgiti indietro da quell'altura a mirare verso la città; e
vedi il popolo brulicare in calca fuori dell'oscuro arco della porta. Tutti
escono a rifocillarsi al sole; tutti festeggiano la risurrezione del Signore,
perché essi pure sono risorti. Ora si sprigionano finalmente dalle grame stanze
de' loro abituri, dal tristo tenore de' mestieri e de' traffici, dalla pressura
de' soffitti e dalle acute tettoje, dall'angustia e lo storpio delle vie, e
dalla notte veneranda delle chiese, — e tutti tornano a rivedere l'amabile
luce. Guarda, oh! guarda come rapidamente si spargono per giardini e per campi:
come cento sollazzevoli barchette discorrono, quale al lungo e quale al
traverso, sul fiume, e come quell'ultimo schifo passa oltre, straccarico sino
ad affondare. Su pei lontani sentieri del monte si veggono errare qua e
là sfavillando i giocondi colori delle vesti; e già io odo il
trambusto del villaggio. Qui è veramente il paradiso del popolo; qui
poveri e ricchi giubilano amicamente insieme; e qui io son uomo, qui godo di
esser uomo.
Wagner. L'andare a
spasso con voi, signor dottore, torna ad onore e a profitto; ma invero io non
mi torrei di mescermi da me solo fra simil turba, stante che io sono nemico
capitale di tutto ciò che tiene del ruvido e del popolesco. Quel segare
de' violini, quello schiamazzare, quel dar ne' birilli, mi squarciano fieramente
gli orecchi. Costoro tempestano come se gl'invasasse il demonio, e s'immaginano
di cantare e darsi al buon tempo.
Contadini sotto il
tiglio.
ballo e canti.
Il pastorel pel ballo si fe' adorno;
La
ghirlanda de' fiori
Ei
mise al capo, e la nastriera attorno,
E
il giubboncel screziato a più colori:
Oh,
come egli era bello!
Già
sotto il tiglio era gran ragunata,
E
ballavano tutti all'impazzata.
Oh,
oh! ah, ah!
Lìrala
tàrala
Tìrala
là!
Ed
allegro strideva il violoncello.
Ei si cacciò nel circolo a gran
fretta.
E
del gomito colse
Ruvidamente
in una forosetta,
Che
subito stizzita gli si volse,
E
disse: Questi è snello!
Vien
tu pur mo dal monte che sì soffi?
A
me simil donzelli pajon goffi.
Oh,
oh! ah, ah!
Lìrala
tàrala
Tìrala
là!
Non
esser de' begli usi sì novello.
Faceasi un grande dimenarsi intanto;
A
destra si ballava,
Ballavasi
a mancina e da ogni canto!
E
di man si giocava, e ne volava
All'aria
ogni guarnello.
Soffiavan
forte, al viso avean gli ardori,
E
provavan di strani pizzicori.
Oh,
oh! ah, ah!
Lìrala
tàrala
Tìrala
là!
E
la tenea per l'ànche il cattivello.
Vergogna! via le mani a casa! O quanti,
Oimè,
già infinocchiate
Hanno
e diserte le credule amanti!
Con
parolette amorose e melate
Ei
la traeva bel bello
In
disparte, e già udivan di lontano
Sottesso
il tiglio fervere il baccano.
Oh,
oh! ah, ah!
Lìrala
tàrala
Tìrala
là!
E
gli strilli e il segar del violoncello.
Un vecchio
contadino. È pur bello, signor dottore, che non abbiate oggi a
sdegno di uscir fra noi: è bello il vedere un sì gran sapiente
prendersi diletto fra la calca del popolo. Toglietevi adunque questo bellissimo
boccale che abbiamo empito di fresco. Sporgendolvi, io vi desidero di gran
cuore che non vi accheti soltanto la sete; possiate ancora aggiugnere tanti
giorni ai vostri giorni quante son gocciole in esso.
Faust. Accetto la
cortese offerta, e, rendendone grazie, bevo alla salute di tutti. (Il popolo
gli fa cerchio intorno.)
Il vecchio
contadino. Da vero avete fatto assai bene ad apparire in così
lieto giorno. Voi foste, ben mi rimembro, l'amico nostro anche nei giorni
tristi: e molti che son qui vivi furono da vostro padre campati dall'infuriare
della febbre ardente, quand'egli mise un termine al contagio. Voi pure, tutto
che giovinetto, andavate per le case degli infermi; molti cadaveri n'erano
portati fuori, e voi n'uscivate sempre illeso. Siete stato a dure prove, ma al
soccorritore è venuto il soccorso da alto.
Tutti. Salute
all'uomo provato! Possa egli lungamente ancora soccorrerne!
Faust. Inchinatevi
dinanzi a Colui che è lassù, però ch'egli insegna
soccorrere, e manda il soccorso. (Egli passa oltre con Wagner.)
Wagner. Qual
sentimento debb'essere il tuo, o uomo grande, veggendoti ammirare da tanta
moltitudine! Beato colui il quale è sì bene rimeritato delle sue
doti. Il padre ti addita al figliuoletto; ognuno chiede di te, e accorre e si
affolla intorno a te; i violini ammutiscono e si riposa la danza. Tu te ne vai,
e tutti si ritraggono e ti fanno ala: le berrette volano in aria, e per poco
non si mettono in ginocchio come se passasse il Santissimo.
Faust. Vieni oltre
pochi passi sino a quel macigno, e quivi ci riposeremo della nostra via. Qui
spesso io mi sono seduto solo, pensoso, macero dai digiuni e dalle orazioni, e
qui, ricco di speranze e fermo nella fede io mi pensava di poter pure colle
lagrime, co' gemiti e lo storcermi delle mani impetrar dal Signore la fine di
quella mortalità. Ora il plauso di queste genti mi stride all'orecchio,
simile ad uno scherno. O potessi tu leggere nel mio animo quanto padre e figlio
siano indegni di sì fatto onore! Mio padre era un uomo da bene, ingegno
corto, il quale, a fine onesto, ma alla sua guisa, almanaccava, notte e
dì, intorno alla natura e l'eterno suo corso. Egli si chiudeva con
alcuni addetti nella sua nera officina, e quivi con la scorta di ricette senza
fine attendeva a mescere i contrari. Un lione rosso, amante senza ritegno, era
maritato al giglio entro un tepido bagno, e quindi ambidue a fuoco scoperto
tormentati e affaticati di talamo in talamo. Allora appariva nel vaso la
giovinetta regina pezzata di vivi colori, e quella era la medicina, e i
pazienti morivano, e niuno domandava chi fosse guarito; in tal modo, con
diabolici lattovari, noi abbiamo per valli e per monti fatto a gara con la
peste, e vintala di assai negli sterminii. Io medesimo ho dato da bere il
veleno alle migliaja. Ei se ne sono iti, e a me è toccato di
sopravvivere affinchè l'impudente omicida fosse esaltato.
Wagner. Come potete
voi dar luogo a simili affanni? Forse non basta che un uomo da bene eserciti in
buona coscienza, e senza preterirne un sol punto, l'arte che gli fu affidata?
Se da fanciullo onori tuo padre, tu hai caro di essere ammaestrato da lui; e se
da uomo allarghi la scienza, tuo figlio potrà sorgere ancor più
alto di te.
Faust. O fortunato
chi può sperare di non sommergere in questo pelago di errori! L'uomo
sente bisogno di ciò che non sa, e non può far uso di quello che
sa. Ma via, non turbiamo con sì tristi pensieri la soavità di
quest'ora. Guarda colà come quei casolari sfavillano di mezzo al verde
agli ultimi raggi del sole. Egli va oltre e vien meno; il giorno è
vissuto. Ma per di là si affretta a rallegrare altre vite. Oh, perché
non ho io ali da levarmi alto da terra e tenergli dietro, sempre dietro
infaticabilmente? Io vedrei sotto di me il tacito mondo continuamente saettato
dai raggi della sera; infocarsi ogni vetta, oscurare le valli, e l'argenteo
ruscello mutare in oro le sue correnti. Né la selvaggia montagna coi mille suoi
gioghi romperebbe la mia foga, instancabile come il volgersi delle sfere.
Già il mare scopre dinanzi ai miei attoniti sguardi i roventi suoi
golfi: il luminoso dio pare ormai presso a tuffarvisi, ma io mi sospingo
innanzi con maggior impeto, e seguo a bere l'eterna sua luce. Dinanzi a me
è il giorno, dietro a me la notte, sul mio capo il cielo, e sotto
l'oceano. Soave sogno! e, com'esso, il sole intanto si dilegua. Ahi, non
è la corporea che possa gareggiare coll'ali della mente. E nondimeno ogni uomo si sente nascer
dentro una naturale vaghezza di muovere in qua e in là, e rigirarsi per
l'aria, — quando la lodoletta, svagata per l'azzurra ampiezza del cielo, canta
la sua garrula canzone; quando l'aquila con l'ali dilatate va roteando sugli
aguzzi vertici dei pini che coronano i monti: e la grua, trasvolando su piagge
e su mari, muove desiderosa verso il sito natale.
Wagner. Ho avuto
anch'io qualche volta i miei ghiribizzi, ma di simili, in verità, non me
ne sono mai andati pel capo. I boschi
e i campi vengono leggermente in noja; né io invidierò mai le ali degli
uccelli. Ben altrimenti gode il nostro spirito quando va svolazzando di libro
in libro e di pagina in pagina. Le notti del verno son fatte dolci e dilettevoli;
ci sentiamo andare per la persona non so qual tepore pieno di vita; ed oh! se
tu giungi a svolgere una preziosa pergamena, egli par proprio che ti si
spalanchi innanzi il paradiso.
Faust. Tu conosci
sol uno degli impulsi del cuore, ed oh, non imparar mai a conoscere l'altro!
Misero, due anime albergano nel mio petto, e vi si guerreggiano continuamente,
e l'una vorrebbe pure svilupparsi dall'altra. L'una con intenso, indomabile
amore, si tiene alla terra, e vi si aggrappa duramente cogli organi del corpo;
l'altra si leva impetuosa su questo oscuro soggiorno verso le sedi dove abitano
gli alti nostri progenitori. Oh, se vi sono spiriti al governo dell'aria, i
quali errino fra il cielo e la terra, — deh! uscite dall'auree vostre nubi, e
calate a rapirmi seco voi nel giubilo di una nuova esistenza. Sì, in
vero! fossi io pur possessore di un mantello fatato, che potesse trasportarmi
in regioni sconosciute, ch'io non lo cangerei con più ricchi vestimenti;
non con le porpore dei re.
Wagner. Non
invocate, deh, quella ben cognita legione, che tempestando, discorre per
l'atmosfera e da tutti i lati prepara agli uomini dolori e ruine. Gli spiriti
escono addosso a te dal Settentrione, ed ora ti appuntano d'ogni intorno le
acute lor zanne, ora ti lambono con lingue rigide come strali: traggono fuori
da Levante, e sitibondi pascono il tuo polmone; e se quelli che il Mezzogiorno
invia dal deserto, ti addensano intorno al capo afa e bollori, un altro stormo
ne viene da Ponente, i quali pajono dapprima recarti ristoro, e poi sommergono
te, le tue biade e i tuoi pascoli. Lieti ti danno ascolto perché sempre
apparecchiati a mal fare; e lieti ti obbediscono perché godono d'ingannarti. E diconsi ancora inviati del cielo, e
bisbigliano con angeliche voci, quando appunto ti mentono. — Ma torniamcene,
che già incomincia ad annottare: l'aria fassi rigida, e si leva una
folta nebbia. A sera si conosce quanto sia dolce il ricettarsi in casa. — Ma perché stai tu, e riguardi
tutto attonito a quella volta?
Faust. Vedi tu
là quel cane nero che corre per le biade e le stoppie?
Wagner. Da un pezzo
io il veggo, né mi è parso che sia in esso nulla di singolare.
Faust. Guardalo
bene! per chi prendi tu quella bestia?
Wagner. Per un can
barbone che alla sua guisa va per la traccia del suo padrone.
Faust. Osservi tu
come ei muove in larghe giravolte a chiocciola, e ognora più se ne
accosta, proprio come se ci avesse tolti di mira? E s'io non erro, ei lascia dietro di sè sulla via una
striscia di fuoco.
Wagner. Io non
veggo altro che un barbone nero, io; se non che può darsi che sia fatta
qualche illusione ai vostri occhi.
Faust. A me pare
ch'egli ordisca intorno a noi come un sottilissimo nodo magico, per quindi
allacciarne.
Wagner. Ed io lo
veggo saltellarne dattorno tutto timido e sospettoso perché s'accorge d'averci
tolto in cambio.
Faust. Egli
ristringe più e più i suoi giri: ah, egli è già qui
presso.
Wagner. Tu vedi,
egli è un cane, e non un fantasma; egli mugola e dubita; si posa in sul
ventre e mena la coda: tutte costumanze di cane.
Faust. Te, te!
vientene con noi.
Wagner. Egli
è una faceta bestiola il can barbone. Stai fermo, ed egli si assetta ad
aspettarti; gli fai cenno, e corre da te; se perdi qualcosa ei te la reca; e se
butti il bastone nell'acqua, va a guazzo a raccortelo.
Faust. Tu hai
ragione; non veggo in lui alcun indizio di spirito, e tutto proviene da
addestramento.
Wagner. Quando un
cane sia ben addestrato, egli si acquista l'amore anche del savio: e cotesto
merita singolarmente la tua grazia; ché a quella sua compitezza ben si vede che
egli è creatura degli studenti.
(Entrano per la porta della
città.)
Studio (I)
Faust (entrando
col barbone). Ho lasciato le praterie ed i campi velati dall'ombre della
notte, la quale empie la nostra anima di una segreta riverenza e di non so
quali pii presentimenti. Ora veglia in me la parte migliore di mia natura; le
mie bieche voglie si riposano, e con esse ogni audacia alle male opere. Mi
riarde nel petto l'amore degli uomini; riardemi l'amore di Dio.
Sta cheto, barbone! non correre
così in qua e in là! E che
vai tu odorando costì presso il limitare? Ti adagia dietro la stufa; ed
ecco il più soffice de' miei cuscini. Poiché fuori sulla via del monte
ci hai ricreati con balli e con giravolte, sii ora il ben venuto; goditi le mie
cure, e sta cheto.
Ah, al soave riardere della lucerna
nella nostra povera cella, un dolce sereno si diffonde pure nell'anima nostra,
e l'uomo si raffronta con sé medesimo: la ragione ripiglia il suo discorso, e
torna a fiorire la speranza. Noi aneliamo di bere alle fontane della vita, —
oh, al gorgo profondo dal quale scaturisce ogni nostro refrigerio.
Barbone, non fare quegli urli! il tuo
bestiale guaire mal può accordarsi con la santa intonazione che ora mi
comprende tutta l'anima. Ben sogliono gli uomini schernire quello che non
intendono; e li udiamo mormorare contro il bello e l'onesto che spesse volte
son loro di noja: ora vuol forse anche il cane col suo schiattire imitarli? Ma,
oimé! che col miglior volere del mondo, io sento già esaurita la
contentezza del mio petto. Ah, perché dee così tosto inaridirsene la
fonte, prima che sia pur mitigata la nostra sete? Quante volte ho già
sperimentato il medesimo! E nonpertanto
questo difetto non è senza compenso, poichè, delusi delle cose
caduche, noi leviamo la mente alle eterne, e sentiamo bisogno della
rivelazione, la quale in niuna cosa splende così bella e mirabile come
nelle carte del Nuovo Testamento. Mi prende vaghezza di aprire il testo, e con
retto animo tradurre il santo originale nel mio dolce tedesco (apre il
volume e si dispone a ciò).
Egli sta scritto: “Nel principio era
la parola.” Ecco io sono già impacciato! E chi m'ajuterà ad uscirne? No, io non posso stimare
sì alto la parola, e se lo spirito degna illuminarmi mi bisogna tradurre
diversamente. Sta scritto: “Nel principio era la mente.” Bada bene al primo
verso ve', che la tua penna non precipiti! può egli la mente tutto
produrre e informare? Forse starà meglio così: “Nel principio era
la possanza.” Ed ecco pur nell'atto ch'io scrivo questo, io mi sento da non so
che avvertire che non devo contentarmene. Or sì il cielo mi aiuta da
vero! Io prendo per una volta consiglio, e animosamente scrivo: “Nel principio
era l'atto."
Barbone! se io devo ricoverarti nella
mia stanza, cessa oramai di ululare, cessa di abbajare. Io non so patire
intorno a me un tanto scompiglio; e l'uno di noi due ha da sgombrare la cella.
Di mal cuore vengo al partito di violare la ragione dell'ospizio; la porta
è aperta e sei libero di andartene. Ma che veggo? Son tali cose
possibili in natura? E ombra — o
è realtà? Ve' come il mio barbone diviene grande e grosso! Egli
si leva tremendo, e ornai non ha più forma alcuna di cane. Che razza di
spettro mi son io messo in casa! Già già uguaglia un ippopotamo
con occhi di fuoco e fauci spaventevoli. Oh, tu sei mio di certo! Per simili
spurie generazioni dell'inferno la chiave di Salomone è il caso.
Spiriti (nel
corridoio)
Uno
quiv'entro è preso!
Deh,
state fuor che non v'incolga male.
Come
volpe nel laccio
Che
al valico l'è teso,
Una
vecchia, infernale
Linee
sta sbigottita in grande impaccio.
Ma lesti, l'ale,
Spirti,
spiegate,
Su
svolazzate
In
qua e in là,
E scioglierassi.
Vuolsi
ajutarlo,
Veder
di trarlo
A
libertà.
Quel che a lui fassi
È
di dovere,
Che
anch'ei piacere
Sempre
ne fa.
Faust.
Primieramente per affrontare la belva mi convien adoperare lo scongiuro dei
quattro.
Salamandra ha da infocarsi,
Ondina
volversi,
Silfo
dissolversi
E
Coboldc affaticarsi.
Chi non conoscesse gli elementi, né
le virtù e qualità loro, non avrebbe nessun dominio sugli
spiriti.
Salamandra, t'accendi!
Ondina,
scorri in garrulo ruscello!
E
tu, Silfo, in un bello
Aerio
segno splendi!
Incubo!
Incubo, deh mi porgi aita!
Entrami
in casa e fammela spedita.
Nessuno dei quattro è nella
belva; giacesi immobile, e mi guarda digrignando i denti: non le ho ancora
torto un pelo. Or mi udrai scongiurare più forte.
Sei tu un de' demoni?
Un
disertor del maledetto regno?
Or
mira questo segno,
Che
paventano e inchinano
Le
nere legioni.
Già
gonfia tutto, ed ha irti i peli.
Spirito
riprovato,
Puoi
tu la vista affiggere
In
questo? Egli è il vivente,
L'eterno,
l'increato,
Il
diffuso per l'etere,
Quel
che spietatamente
Fu
dall'uom trapassato.
Riserratosi tra la stufa e il muro
egli continua a gonfiare simile a un elefante; già ingombra ogni spazio
e si risolverà tosto in nebbia. Oh, non andarmi ad urtare il soffitto!
Ponti a' piè del tuo signore; ben tu vedi ch'io non minaccio invano. Or
sì ch'io t'abbrutisco col fuoco sacro! Vien qui, dico: non aspettare la
rovente, triplice luce; non ch'io faccia la più terribile delle mie
arti.
Mefistofele (mentre la
nebbia si dissipa, egli esce di dietro alla stufa nella veste di uno scolastico
errante).
A che tanto fracasso? Che posso fare in vostro servigio?
Faust. Ora
è dunque il midollo del barbone questo? Uno scolastico errante! Io non
so tenermi di ridere a tanta stranezza.
Mefistofele. Buon
dì, mio dotto signore. In mia fé che mi avete fatto sudare.
Faust. Come hai tu
nome?
Mefistofele. Simile
inchiesta mi par frivola troppo in bocca di un sì gran disprezzatore
della parola, — di tale che, rifuggendo dalle apparenze, vuoi sempre penetrare
all'occulta essenza delle cose.
Faust. Coi
galantuomini pari vostri si può d'ordinario arguire dal nome l'essenza;
da che siete subito chiariti quando vi udiamo nominare diomosche, o corruttore,
o bugiardo. Alle corte: chi sei tu?
Mefistofele. Io mi son
parte di quella possanza che vuole continuamente il male, e continuamente
produce il bene.
Faust. Che vuol
dire questo arzigogolo?
Mefistofele. Sono lo
spirito che nega continuamente: ed è ragione; però che quanto
sussiste è degno che sia subissato: e sarebbe stato pur meglio che niuna
cosa fosse mai uscita ad esistenza. Or dunque tutto ciò che voi uomini
dite peccato, distruzione, quel che in somma chiamate male, è mio
special elemento.
Faust. Tu di' che
sei parte, e nondimeno mi stai innanzi intero.
Mefistofele. Io ti parlo
modestamente il vero. Se l'uomo, quella meschina congerie di pazzie, si da ad
intendere ch'egli sia un tutto; io son parte della parte che nel principio era
in ogni cosa: son parte delle tenebre che partorirono la luce: quella luce che,
salita in orgoglio, ora contende la prisca dignità e i campi dello
spazio a sua madre la notte. Ma indarno pur sempre, come che vi si affatichi; e
impedita lambe le forme dei corpi, scaturisce dai corpi, non abbellisce che i
corpi, ed è dai corpi attraversata nella sua via, laonde ho speranza che
non durerà lungamente e le bisognerà coi corpi perire.
Faust. Ora conosco
il tuo degno ministero. Tu non puoi annullare niuna cosa di grande, e
però te la pigli con le minuzie.
Mefistofele. E, per dir
vero, io non ho fatto gran lavoro insino a qui; questo non so che cosa, che si
oppone perpetuamente al nulla; questo massiccio mondo, per mille prove ch'io
abbia fatto, non ho ancor saputo in nessuna guisa azzannarlo. Vi ho adoperato e
tremuoti e procelle, e diluvi ed incendi; e terra e mare si ricompongono pur
sempre nella quiete di prima. E né
pure ho saputo dare alcuno storpio a questa dannata semenza degli uomini e de'
bruti! Quanti non ne ho io già seppelliti di costoro! e sempre circola
nuovo e prospero sangue; e tutto tira innanzi di modo, ch'io sono talvolta
sull'impazzire. E non pur dalla
terra, ma dall'acqua e dall'aria si svolgono continuamente migliaja di germi; e
dal secco e dall'umido, e dal caldo e dal freddo; e s'io non mi fossi riservata
la fiamma, io non potrei dire di nessuna cosa: Questa è mia.
Faust. In tal
guisa alla benefica virtù che muove e governa tutte le cose, tu opponi
il tuo rigido artiglio, e brancichi malignamente qua e là, e afferri pur
sempre il vano. Ponti a far altro, o stravagante figliuolo del Caos.
Mefistofele. Di questo
ragioneremo più distesamente con miglior agio. Poss'io andarmene ora?
Faust. Non so
perché tu me ne richiegga; ed ora che ho la tua conoscenza, vientene pure a me
ogni volta che vuoi. Or eccoti la finestra, eccoti la porta, e se più ti
piace, eccoti anche la gola del camino.
Mefistofele. Ho io a
dirlo? Evvi un ostacoletto che mi impedisce di uscire, ed è quel
piè di strega qua sulla soglia.
Faust. Quel
pentagramma ti dà affanno? Or dimmi, mala razza, se questo ora ti
attraversa l'uscita, come hai tu potuto entrare? come uno spirito par tuo ha
potuto dare nella rete da sé?
Mefistofele. Miralo
bene, e vedrai che egli è mal descritto: l'angolo che da in fuori
è tanto o quanto aperto.
Faust. Egli
è un bell'accidente questo! E tu
saresti quindi mio prigioniero? La fortuna me l'ha data in favore.
Mefistofele. Il barbone
nel saltar dentro non attese a nulla; ma ora sta di un altro modo; e il diavolo
non può andar via.
Faust. E perché non esci per la finestra?
Mefistofele. È
legge de' diavoli e degli spettri, che di dove e' si sono cacciati dentro, di
là sbuchino fuori. L'entrata è libera, ma l'uscita è
d'obbligo.
Faust. Laonde anche
l'inferno ha le sue leggi? Io ne son lieto; perocché, chi facesse patto con
alcuno di voi, n'andrebbe sicuro, non è vero?
Mefistofele. Tu godresti
largamente di quanto ti fosse promesso; non te ne sarebbe carpito un
menomissimo che; ma non è lieve cosa a comprendersi; e di ciò
pure si vorrà parlare in tempo più comodo. Ora io ti riprego
quanto so e posso che tu voglia mettermi fuori.
Faust. Rimanti un
altro poco, ch'io voglio che tu mi faccia la ventura.
Mefistofele. Deh,
scioglimi, ch'io tornerò fra breve, e tu potrai allora interrogarmi a
tua posta.
Faust. Io non ti
ho teso gli agguati; ti sei allacciato da te; e chi tiene il diavolo lo
custodisca, ché non gli verrà fatto di ripigliarlo così di
leggieri.
Mefistofele. Perché ti
piace, eccomi disposto a starmene teco; con tal patto ch'io potrò fare
le mie arti per tuo dolce passatempo.
Faust. Fa che
vuoi; ch'io sto volontieri a vedere: sol bada che coteste tue arti sieno
sollazzevoli.
Mefistofele. I tuoi sensi, amico, faranno maggior
tesoro in questa breve ora che non altrimenti nel pigro giro di un anno. Quanto
i leggiadri miei spiritelli ti canteranno, le belle visioni che ti porranno
innanzi non sono ombra e giuoco di magia. Tu t'inebbrierai di odori, delizierai
fra sapori e immestirai per dolcissimo struggimento. Non fa bisogno di
apparecchi, chè noi siamo già ragunati. Orsù,
incominciate.
Spiriti. Sparite, oscure vôlte,
Archi
tetri che velo
Fate
all'aerio giro!
E
tu, puro Zaffiro
Del
luminoso cielo,
T'apri
e qui entro invia
La
tua luce più dia.
O
fossero pur sciolte
Quelle
nuvole folte!
Sfavillan
delle stelle
Le
soavi fiammelle,
Ardon
benigni Soli;
E
il bello eterio coro
De'
celesti figliuoli
Move
tremoli giri,
Pende
sull'ali d'oro,
E
giù arridendo un riso
Ritorna
al paradiso.
Lo
stuolo genïale
Segue
de' bei diletti,
Che
sì dolci desiri
Accendono
nei petti. —
Tu
sgombra i pensier mesti
E
la leggiadra godi
Visione,
o mortale. —
I volubili nodi
Delle
discinte vesti
Son
per le fronde sparsi,
Velan
l'erba dei prati.
Fra
i cespugli a celarsi
Van
gli amanti beati,
E
come il dolce errore
Li
seduce del core
E
il desio li governa,
Si
promettono eterna
Fede
ed eterno amore.
Fresche
ombre, antri segreti,
Culte
colline, e lieti
Pampinosi
vigneti!
Bruni
turgidi grappoli
Si
stillano dai torcoli.
E,
odorosi, spumosi,
Lieti,
nettarei vini
In
ruscelli traboccano
Per
sassi prezïosi,
Per
topazi e rubini.
Fuggon
l'alte pendici,
E
alle verdi pianure
Si
dilagano intorno
Le
stanze de' viventi,
Di
alcune ore felici
Consolando
le cure
Assidue
delle menti.
E del lume del giorno
S'inebbriano
i volanti,
E
l'ali infaticate
Aprono
incontro al sole;
Volano
alle beate
Isole
che su l'onde
Fan
leggiadre carole.
Ivi
son suoni e canti
Di
festevoli cori;
Ivi
son gioconde
Danze
di danzatori.
Ognun
suo vario effetto
Segue,
ognun per l'aperto
Coglie
facil diletto.
E
qual move per l'erto
Alle
montagne vette,
Quale
a nuoto si mette
Nell'immenso
dei flutti.
Altri
per le correnti
Erra
dell'aria; e tutti
Della
vita nel giubilo:
Tutti
sotto i clementi
Astri,
onde piove amore,
Onde
piove favore.
Mefistofele. Egli dorme!
Assai bene, miei teneri aerei fanciulli; voi me l'avete bellamente sopito con
amabile cantilena, e ve ne so grado. — Tu non sei ancora uomo da tener legato
il diavolo. Volteggiategli ora d'intorno con giocose immagini di sogni:
sommergetelo in un mare d'illusioni. — Se non che per rompere l'incanto di
questa soglia io ho pur bisogno del dente di un topo. Ve' non mi occorre
scongiurar lungamente; già ne sgambetta uno a questa volta che mi
darà subito retta.
Il signore dei sorci e dei topi, delle
mosche, delle rane, de' cimici e de' pidocchi, ti comanda di farti in qua e di
rodere questo sogliare lì dov'egli te l'ha stropicciato con olio. — Ecco
già tu vieni a salti. Or animo al lavoro! La punta che mi dà
impaccio è codesto estremo lembo; su, dàlle di un altro morso;
ecco fatto. Ora, Faust, sogna a tua posta fino a che ci riveggiamo.
Faust (svegliandosi).
Sono io un'altra volta deluso? Dov'è lo stuolo degli spiriti? dove i
fantasmi? Fu un bugiardo sogno quel diavolo? ed era veramente un barbone colui
che si è trafugato?
Studio (II)
Faust e Mefistofele.
Faust. Picchiasi?
Avanti! chi viene ora a darmi nuova noia?
Mefistofele. Sono io.
Faust. Avanti!
Mefistofele. Tu devi
dirlo tre volte.
Faust. Orsù,
avanti!
Mefistofele. Così
mi piaci; e noi ce la intenderemo insieme, spero. E già, per cacciarti del capo le fantasticaggini,
eccomi a te razzimato come un gentiluomo; con un giubbone di scarlatto listato
d'oro, un mantello di rigida seta, la penna del gallo in sul cappello e un
aguzzo spadone al fianco; e senza più, ti consiglio che tu faccia il
medesimo, e svincolato e fuori d'impaccio, esca meco a sperimentare la dolce
vita.
Faust. In
qualsivoglia veste io proverò le noje e l'angustia di questo viver
mortale. Son troppo vecchio per attendere solo ai piaceri, e troppo giovane
perché tacciano in me tutti i desiderj.
E che potrà darmi il mondo? “Tu te ne asterrai! Tu ne farai senza!” Quest'è l'eterna canzone che introna
gli orecchi di tutti i mortali, stridevolmente ricantataci a tutte l'ore di
tutti i dì della vita. Io mi desto con terrore il mattino, e provo una
triste voglia di piangere veggendo apparire il giorno, — il quale nel suo corso
non adempirà nessuno de' miei desiderj, non uno! Anzi mi scemerà
con capricciose sofisticherie insino al presentimento del piacere, e con le
mille sue sconce necessità spegnerà nel mio vigile petto ogni
virtù di creare. E quando
cade la notte, ecco io devo tornare triste e miserabile al mio covile; ed ivi
pur nessun riposo mi sarà conceduto e fieri sogni mi spaventeranno. Il
dio che abita nel mio petto ben può profondamente agitare le segrete mie
viscere; egli signoreggia tutte le mie potenze, ma egli è impotentissimo
a nulla muovere che sia fuori di me; e però io incresco a me stesso; la
morte mi è desiderabile e odiosa la vita.
Mefistofele. E tuttavia la morte non è
sempre la benvenuta come taluno dice.
Faust. Beato
quegli al quale ella cinge le tempie di lauri sanguinosi nel giubilo della
vittoria; quegli che ella sopisce fra le braccia di una fanciulla dopo i
volubili tripudi della danza. Oh, si avvolgesse pur una volta intorno a me il
grande Spirito, e cadessi inebbriato ed esanime al suo fulgore!
Mefistofele. E tuttavia fu un tale una tal notte
che non seppe mandar giù certa negra bevanda.
Faust. Pare che tu
ti diletti dello spionare.
Mefistofele. Io non sono
onniscente, ma so assai cose.
Faust. Poiché una
soave, insueta armonia mi ha svelto a' miei crudeli proponimenti, e col senso
di giorni più lieti ha deluso in me quel poco che ancora mi avanza della
mia giovinezza, io quindi maledico tutte le cose che allacciano l'anima con
blandimenti e menzogne: e accecandola e adulandola la allettano a durare in
questo tristo fondo di miseria! E primieramente
sia maladetto il gran pregio nel quale la nostra mente tiene sé medesima.
Maladetti gl'inganni dell'apparenza che mai non cessano di sopraffare il nostro
intelletto. Maladetto tutto ciò che si maschera di bontà per
indurre in noi riverenza; — ciò che ne par bello e santo, — i sogni fallaci
del nome e il vento della gloria! Maladetto quanto ne par soave di possedere,
donna e figliuolo, servo ed aratro! Maladetto Mammone, che con tesori ne
stimola a fatti temerari, o ne adagia per pigre voluttà su morbidi
letti! Maladetto il balsamo dei grappoli! maladetti i favori supremi
dell'amore! Maladetta la speranza! maladetta la fede! e, sopra ogni cosa,
maladetta la pazienza!
Coro di Spiriti invisibili.
Ahi! ahi! con violento
Braccio
tu l'hai sovverso
Il
bel mondo: ei si squarcia, ei si
dissolve...
Un
semideo l'ha in polve —
Che
tanto un uomo non potea — converso
E
noi la brulla
Ruina
sua giù per le morte strade
Travolgiamo
del Nulla;
Noi
lamentiam lo spento
Fulgor
di sua beltade.
O tu, che i lassi
Mortali
tutti di possanza passi,
Ricomponi
il bel mondo;
Nel
tuo capace seno
Lo
ricompon più bello e più giocondo,
E
con sereno
Animo
al raggio
Di
più benigna stella,
Ricomincia
il vïaggio
D'una
vita novella;
Novelli
canti noi
Verrem
spargendo sui vestigi tuoi.
Mefistofele. Questi sono
i miei piccini. Giovani d'anni, ma di sapienza maturi, odili allettarti a un
vivere operoso e festevole; a uscire nell'ampio mondo, fuori di questa
solitudine ove i sensi intorpidiscono e il sangue ristagna.
Cessa di goderti nella tua tristizia,
la quale, simile a un avoltojo, si pasce nelle tue viscere. Fossi tu anche nel
consorzio dei pessimi, tu sentiresti pur sempre che sei uomo fra uomini. Né si
vuol già dire con ciò che tu abbi a rimescolarti colla
ciurmaglia. Io non mi annovero fra' grandi, ma se tu vuoi accompagnarti a me, e
meco muovere i tuoi passi nel cammino della vita, io son lieto di acconciarmi
teco immantinente; io mi ti fo compagno, o, se l'hai in miglior grado, mi ti fo
servitore, mi ti fo schiavo.
Faust. E che dovrò far io in iscambio
per te?
Mefistofele. Quanto a
ciò non ti si vorrà far fretta.
Faust. No, no; il
diavolo è un interessato, e non suol già fare leggermente l'utile
altrui per l'amore di Dio. Di' su netto e chiaro le condizioni, ché non
è senza pericolo il tirarsi in casa un simil servo.
Mefistofele. Odi: io mi
obbligo qui a' tuoi servigi, sarò a tutte l'ore al piacer tuo senza un
riposo al mondo; e allorchè ci rivedremo di là tu me ne ricambierai
col far meco il medesimo.
Faust. Il di
là non mi dà gran noja. Quando tu abbi mandato a rovina questo
mondo, venga pure l'altro a sua posta. Da questa terra scaturiscono le mie
gioje, e questo sole illumina i miei dolori, e dove io pur giunga a svilupparmi
da essi, avvenga allora che vuole e che può. Orsù, non più
di questo. Poco mi cale se anche altrove l'uomo ami ed odii, e se vi abbia pure
in altre sfere uno insù e uno ingiù.
Mefistofele. Poiché sei
di sì buona tempra, tu puoi fare questa prova. Legati a me, e vedrai con
quali arti io ti saprò far belli i giorni presenti. Io ti riserbo cose
da nessun mortale né vedute né sognate giammai.
Faust. E che puoi tu darmi, tu povero
diavolo? seppe mai un tuo pari comprendere l'uomo e gli alti intendimenti
dell'anima sua? Tu mi darai cibi che non saziano, fulvo oro che mi discorre
dalle mani come liquido mercurio; un gioco al quale non si vince mai; una
fanciulla che al mio fianco fa d'occhio al vicino e gli si promette: mi darai
la fama cne splende di celeste nume e si dilegua come meteora! — Ma su porgi di
codesti tuoi tesori, — frutti che marciscono prima cne sieno colti; alberi che
rinnovano e perdono ogni giorno le toglie.
Mefistofele. Io son
ricco di simil sorta di beni; né mi sgomenta l'incarico di procacciarteli; ma
verrà tempo ancora, mio buon amico, che noi ci staremo oziosamente a
godere di cose che non ti parranno ingannevoli.
Faust. Oh se
avvenga mai ch'io mi corichi neghittoso nelle morbidezze, sia allora a un
tratto la mia fine; se tu puoi tanto aggirarmi e ammaliarmi ch'io mi piaccia di
me medesimo, se sai trovare dolcezze che mi facciano inganno, io voglio allora
chiudere subitamente i miei giorni. Orsù, io scommetto teco.
Mefistofele. Vada!
Faust. Pon su la
mano! E s'io dirò mai al
fuggevole istante: "Oh, tu se' bello! dura, tu sei sì bello!"
allora tu mi cingerai di catene; allora io inabisserò teco volentieri;
allora la campana suoni a morte; allora tu sei sciolto d'ogni servitù;
non più il sole misuri il giorno per me; il tempo sia consumato.
Mefistofele. Pensaci
bene, perché noi l'avremo in memoria.
Faust. E sarà ragione. Non credere
ch'io abbia troppo presunto di me, né parlato spensieratamente. Poiché è
mio destino ch'io sia schiavo; che fa a me se tuo o d'altri?
Mefistofele. Or bene,
festeggisi oggi un sì bell'accordo, e, come tuo, io ti servirò di
mia mano alla mensa. Ma, di grazia, un sol motto! — Dalla vita alla morte, non
vorreste farmi una copia di righe?
Faust. Pedante! tu
richiedi anche uno scritto? Hai tu a conoscere ora l'uomo e il valore della sua
parola? Non ti è abbastanza ch'io abbia con la mia volontariamente
disposto dei giorni miei per i secoli dei secoli? Anche uno scritto! — Non
travolge il mondo tutte le cose nelle sue voraci correnti? Ed io sarò
tenuto in ceppi da una promessa! E, o lasso! questa vanità governa
nondimeno tutte le menti: e chi si attenterebbe di sottrarvisi? Felice chi
custodisce la fede nel mondo suo cuore; egli non avrà mai a dolersi di
alcun sagrificio! Ma una pergamena scritta e suggellata è uno spettro
dinanzi al quale non è chi non raccapricci; la parola va a morire nella
penna, e cera e cuojo signoreggiano... Che vuoi tu da me, anima infernale? vuoi
bronzo, vuoi marmo, vuoi pergamena, vuoi carta? scriverò con lo stilo,
con lo scalpello, con la penna? scegli qual più ti piace.
Mefistofele. Come puoi
tu dare in simili escandescenze? e che fa al fatto nostro sì gran
profluvio di parole? Basta un fogliuzzo qual che egli sia, e ti soscrivi con
una goccioletta di sangue.
Faust. Poiché t'ha
a contentare, sarà soddisfatto anche a questo capriccio.
Mefistofele. Il sangue
è un succhio di virtù singolare.
Faust. Via, non
temere ch'io ti disdica mai quello che ti ho promesso: però ch'io non ho
patteggiato teco se non ciò appunto che tu sempre il termine de' miei
smoderati desideri. Io mi son levato in tanta superbia, che oramai son tatto
uno della tua schiera. Più alti spiriti mi hanno sdegnato; la natura si
è chiusa dinanzi a me; il filo del pensiero è lacero, e da gran
tempo ho a schifo ogni scienza. Saziamo le nostre ardenti passioni nel golfo
delle sensualità; e l'inferno prepari i portenti che sa con le arcane
sue arti operare; battiamoci dove più incalza la corrente del tempo;
voliamo con la ruota della fortuna, e dolore e piacere, conseguimento e sazietà
si avvicendino quanto sanno senza riposo. L'uomo non dimostra la sua natura
fuorché in un perpetuo affaccendarsi.
Mefistofele. Né a voi
è posto termine alcuno. Piacciavi assaporare un po' di tutto: pigliatevi
al volo quel che vi si para innanzi, che è l'arte perché faccia buon
prò. Sol vuolsi uscire di timidezza e avere le mani pronte.
Faust. Ben sai
ch'io non miro già a darmi buon tempo. Io voglio l'ebbrezza, — la
vertigine; voglio le voluttà che generano tormento; l'odio che germoglia
dall'amore; gl'impedimenti che ne danno alacrità. Il mio petto, guarito
oramai dalla febbre della scienza, dee stare aperto a tutti gli affanni. Voglio
nel mio profondo sperimentare io solo quanto è ripartito fra tutti i
viventi; abbracciare con la mente quanto vi è d'infimo e di sommo
nell'umanità; godere di tutti i beni; patire tutti i suoi mali; tanto
distendermi da comprenderla tutta in me, farmi essa, insomma, e con essa
finalmente naufragare.
Mefistofele. Oh, credi a
me, che ho per più migliaja d'anni rimasticato questo duro cibo, credi a
me che nessun mortale dalla culla al feretro seppe mai digerire tal vecchio
lievito. Abbi fede in uno di noi; questa ampiezza di vita, questo tutto che tu
vuoi per te, non si appartiene che a Dio: egli si spazia nell'inestinguibile luce,
noi ha sommersi nelle tenebre, e, quanto a voi, umana semenza, — a voi si
confà il giorno alternato con la notte.
Faust.
Tant'è, io voglio.
Mefistofele. E questo è bello a udire. Se
non che sorge un dubbio a darmi noja; il tempo è breve, l'arte è
lunga. Or odimi: vuoi tu prendere il mio consiglio? Cercati un poeta il quale
con vagabonda fantasia accumuli sul tuo onorato cucuzzolo tutte le più
mirabili doti: il coraggio del lione, la velocità del cervo, il bollente
animo degl'Italiani e la longanimità de' settentrionali. Egli
vorrà studiare il segreto, acciocché tu sii ad un tempo magnanimo ed
astuto; e ti innamori coll'improvvido ardore della gioventù, e ti
disnamori a tua voglia. E anch'io
conoscerei volentieri un tanto personaggio, e gli porrei nome ser Microcosmo.
Faust. E che sono io dunque se non ho mai da
poter contentare quel mio lungo, affannosissimo desiderio di essere, come a
dire, la somma e la corona di ogni creatura?
Mefistofele. Tu sei alla
fin fine — quello che sei. Ponti in capo una parrucca con millantamila ricci, e
a' piedi degli zoccoli alti tre gran palmi, e tu rimarrai pur sempre quello che
sei.
Faust. Ahi, ben
m'avveggio che indarno ho sperato di tesoreggiare in me tutte le eccellenze
dell'umana natura: allorché, stanco, io desisto dalle mie ambizioni, sento che
non mi è nato dentro nessun novello vigore; io non sono ingrandito di un
capello, né più prossimo di un nonnulla all'infinito.
Mefistofele. Mio buon
signore, voi vedete le cose come si sogliono ordinariamente vedere da tutt'uomo:
ma a noi tocca di usare miglior senno prima che la dolce vita ne s'involi. Chi
ha arte ha parte. Che diavolo! mani e piedi e capo e t..., certamente son tuoi;
ma ogni cosa di cui io sappia lietamente godere non è forse mia? Se io
ho tanto da noleggiare sei cavalli, le forze loro non sono per avventura mie?
Io vado a corsa con essi, e sono un valent'uomo, giusto come se avessi
ventiquattro gambe io medesimo. Animo dunque: spiana quel tuo grave
sopracciglio, ed esci meco diritto nel mondo. Io tel dico: un semplice che
dassi alla contemplazione somiglia a una bestia che un cattivo spirito
costringe a volgersi in giro sopra una riarsa campagna, mentre d'ogni intorno
si stendono verdi e fertili praterie.
Faust. Che vogliam
dunque fare?
Mefistofele. Uscir tosto
di qui; dare le spalle a questa orribile segreta. Puoi tu dire che tu viva,
standoti ad annojare te e i tapini che ti ascoltano? Lascia simil fastidio a
messer Pancia che sta lì in sul canto. Perché vorresti affannarti a
trebbiare la paglia? Pensa che tu non osi pur dire a' ragazzi quel che meglio
ti par di sapere. — Ne odo appunto uno nel corridojo.
Faust. Non mi
è possibile accorlo.
Mefistofele. Il povero
fanciullo ha aspettato un buon pezzo, e non si vuol rimandarlo così
sconsolato. Via, dammi la tua zimarra e il tuo berretto. — Io debbo stare pur
bene immascherato da dottore. (Si traveste).
Fidati a me che ho senno. Me ne
spaccio in un quarticello d'ora; e tu intanto mettiti ad ordine per la nostra
gustosa scorribanda. (Faust esce).
(Mefistofele nella lunga roba di
Faust). Va, disprezza la ragione e la scienza, splendidissime fra tutte le
doti dell'uomo. Lasciati pigliare agli allettevoli prestigi dello spirito di
menzogna, e tu sei irremissibilmente mio. Costui ha sortito una mente che va
sempre innanzi irrefrenabile, e nell'impetuosa sua foga trascorre le gioje
consentite a' mortali. Io me lo strascinerò dietro per gli sterili
andirivieni della vita, e non lo pascerò mai d'altro che di scipitezze.
Egli ricalcitrerà, sbalordirà, s'invescerà vie più;
e cibi e bevande, ch'io terrò sospesi dinanzi all'avida sua bocca,
deluderanno mai sempre l'uomo insaziabile. Indarno egli pregherà per
refrigerio; e ancorché non si fosse già dato al Nimico, egli dovrebbe in
ogni modo andare a perdizione.
Uno Scolaro entra.
Lo Scolaro. Io son
giunto or ora in città, e vengo con la debita riverenza per udire e
conoscere un uomo del quale è sparsa sì onorevol fama nel mondo.
Mefistofele. La vostra
cortesia mi rallegra nell'animo. Voi vedete in me un uomo simile a tanti altri.
Siete già stato a studio altrove?
Lo Scolaro. Deh, voglia
ella darmi avviamento, la ne prego. Ho la migliore volontà del mondo;
una sommetta di danari, e vivezza di gioventù. Mia madre era tutta
accorata di vedermi partire: ond'io vorrei, ora che son fuori, fare alcun
profitto ne' buoni studj.
Mefistofele. E qui siete appunto in luogo da
ciò.
Lo Scolaro. Eppure, se
ho a dire il vero, io avrei già voglia di andarmene; ch'io non so s'io
potrei mai assuefarmi a queste mura e a quest'atrj. È un sito stretto e
senz'aria, di dove non si vede né un albero né un fuscello d'erba: e nelle
sale, su per le panche, io invero istupidisco, e non odo, non veggo, non
intendo più nulla.
Mefistofele. Tutto nasce
da abitudine. Così da principio il fantolino abbocca mal volentieri il
seno della madre, ma poi vi corre ingordamente, né sa spiccarsene: e tale
avverrà a voi inverso le mammelle della sapienza, che ogni dì le
appetirete con maggior desiderio.
Lo Scolaro. Oh, io mi
sospenderò deliziosamente al suo collo. Sol piacciale additarmi la via
ond'io arrivi ad essa.
Mefistofele. Prima che
veniamo ad altro, ditemi che facoltà vi siete scelta.
Lo Scolaro. Che so io?
io vorrei essere ben addottrinato in ogni cosa: abbracciare l'umano e il
divino, la scienza e la natura.
Mefistofele. E qui siete appunto sul buon cammino.
Se non che abbiate cura di non divagarvi troppo.
Lo Scolaro. Io non
riguarderò a fatiche di alcuna sorta; ma io vorrei pur anche godere
alcun poco di libertà, e rallentare alquanto lo spirito ne' bei
dì delle feste la state.
Mefistofele. Figliuolo,
fate buon uso del tempo, che, oimè, fugge sì rapido. Nondimeno
chi ha ordine ha tempo; e perciò io vi consiglio innanzi tutto lo studio
della logica. Per esso vi sarà ben addirizzato l'intelletto. Lo vi si
allaccerà in un pajo di stivali alla spagnuola affinchè vada
guardingo e pian piano per la via maestra del pensiero, e non a zonzo qua e
là, e per lungo e per traverso, al modo de' fuochi fatui. Di poi
bisognerà spendere parecchi giorni in insegnarvi che quegli atti che a
voi par di compiere in un sol tratto, con quella naturalezza onde si mangia e
si bee — uno! due! tre! sono in ogni modo necessari. E veramente la fabbrica del pensiero somiglia al telajo del
tessitore, dove è da vedersi che una sola spinta del piè fa
muovere mille fila; la spola guizza di su e di giù, gli stami
invisibilmente s'intessono e si generano infiniti collegamenti alla volta. Or
ecco farsi innanzi il filosofo a dimostrarvi che dee appunto esser così,
che poiché il primo è stato così e il secondo così, il
terzo ancora e il quarto ebbero ad esser così; e dove il primo e il
secondo non fossero, del pari non sarebbe mai né il terzo né il quarto; voi
intendete. Gli scolari d'ogni paese tengono gran conto di sì fatte
argomentazioni, ma niuno è ancora riuscito tesserandolo. Chi vuol
conoscere e descrivere alcuna cosa vivente si studia in primo luogo di metterne
fuori l'anima; allora egli tiene in mano ad una ad una le parti, e, oh lasso lui!
non gli manca se non il nodo vitale. Quest'è ciò che la chimica
chiama encheiresis naturae, e si beffa di sé medesima, e non sa come.
Lo Scolaro. Io non ho
afferrato bene.
Mefistofele. Tutto vi
riuscirà più chiaro, quando abbiate ben appreso a fare le
riduzioni e classificazioni convenevoli.
Lo Scolaro. Io sono
sì stordito da quanto ella mi dice, che mi par come di sentirmi girar
nella testa una ruota di molino.
Mefistofele. Appresso vi
converrà darvi immantinente alla metafisica. Per essa verrete alla piena
cognizione di cose che non capiranno mai in cervello umano. Se non che, e per
ciò che vi cape e ciò che non vi cape, avrete sempre in pronto un
parolone. Non perdete d'occhio che in questo primo semestre vi bisogna stare
sottilmente sulle regole. Avrete cinque lezioni il dì, e al tocco della
campana sederete al banco. Inoltre preparatevi prima ben bene di quello che
avete ad udire. Studiate di per voi il manuale a casa acciò veggiate che
nulla s'insegna in iscuola che non si legga in esso: e nondimeno scrivete a furia
come foste sotto il dettame dello Spirito Santo
Lo Scolaro. Non fa
bisogno ch'ella me lo raccomandi molto, ché ben penso quanto debba riuscir
profittevole. Chi ha messo il nero in sul bianco può andarsene a casa
sicuro come una rôcca.
Mefistofele. Ma su,
sceglietevi una facoltà.
Lo Scolaro. Io non
saprei accomodarmi alla giurisprudenza.
Mefistofele. Né io
saprei darvene gran biasimo, ch'io so il nuovo e il vecchio di questa scienza.
Le leggi, simili a un'incurabile pestilenza, si dilatano tacitamente di terra
in terra, e si continuano di generazione in generazione: la ragione si
trasforma in insensatezza, e il beneficio in tormento. Guai a te, perocché
discendi da chi fu prima di te! Della legge nata con noi, di quella, ahi
miseri! non è mai fatto parola.
Lo Scolaro. Il suo dire
raddoppia la mia avversione. Felice colui ch'ella fa degno de' suoi
ammaestramenti. Quasi quasi io torrei a studiare teologia.
Mefistofele. Io non
vorrei esservi cagione di errore; ché in sì fatto studio bisogna gran
cautela per non torcersi per male vie; ed è sì tutto sparso
d'insidie, e sì sottile è il veleno che nasconde, che a gran pena
si può discernerlo dal buon nutrimento. A ogni modo anche in teologia
date ascolto a un sol maestro, e giurate rigidamente nelle sue parole. In generale,
figliuolo, tenetevi alle parole, e senza alcun fatto entrerete per la porta
maestra nel santuario della certezza.
Lo Scolaro. Nondimeno
nelle parole dee trovarsi un concetto, per quanto io mi so.
Mefistofele. S'intende!
ma non bisogna troppo angustiarsene; perché appunto dove manca il concetto, le
parole tornano bellamente in acconcio. Per via di parole si disputa alla
distesa; con parole si edifica un sistema; le parole sono principal fondamento
della fede; e una parola non patisce che le sia levato un iota.
Lo Scolaro. Mi scusi se
la tengo a disagio, ma e di un favore ancora mi bisogna pregarla. Non
vorrebb'ella dirmi una breve parola anche della medicina? tre anni son
sì tosto passati, e il campo è sì vasto, Dio mio! Ma
talvolta un sol cenno del dito all'entrata della via, basta a farnela trovar
tutta da noi.
Mefistofele (da sé).
Io sono oramai infastidito di quest'arido fraseggiare, ed è meglio ch'io
torni a me e faccia apertamente da diavolo (Alto).
Facil cosa è penetrare
all'essenza della medicina. Voi studierete i piccioli e grandi, per lasciar
andare in ultimo ogni cosa come a Dio piace. Indarno vi affannereste per far
tesoro di scienza: ciascuno impara quel poco ch'ei può; ma quegli
è valente che sa porre le mani sull'occasione, né tardi piange la sua
sciocchezza. Voi siete bastevolmente ben piantato, né vi mancherà
ardire, credo; e sol che confidiate in voi stesso, ogni anima si
confiderà in voi. Imparate specialmente a ben maneggiare le donne: quei
loro eterni "ahi! ohimè!" esalati in tanti modi diversi, si
vogliono curare tutti in un modo solo; e purché sappiate mezzanamente parer
galantuomo, le terrete tutte nel carniere. Vi bisognerà avere un titolo
a farle persuase che l'arte vostra è la migliore d'ogni arte, e di primo
tratto saranno lecite a voi tutte quelle cosucce che ad altri costano anni ed
anni di preghiere e di lusinghe. Sappiate toccar loro il polsicino con bel
garbo; indi, con occhiata tra il tenero e il maliziato, avvolgete il braccio
intorno al loro agile fianco, come per vedere se fossero troppo stringate.
Lo Scolaro. Questo mi
entra meglio; e se ne vede netto il che e il perché.
Mefistofele. Fratello,
ogni teorica è sterile, ma lieto e florido l'albero della vita.
Lo Scolaro. Io lo giuro
che mi par di sognare. Potrei io venire un'altra volta a sturbarla, per nieglio
imbevermi delle sue dottrine?
Mefistofele. Dove io
valgo e posso, non sarò mai per mancarvi.
Lo Scolaro. Io non
saprei andarmene, se prima non le ponessi innanzi il mio libro de' ricordi. Mi
conceda un grazioso segno della sua benevolenza.
Mefistofele. Con tutto
'l cuore. (Scrive, e rende il libro.)
Lo Scolaro (legge).
Eritis sicut Deus, scientes bonum et
malurn. (Egli chiude rispettosamente il libro, e s'accomiata.)
Mefistofele. Segui solo
l'antico detto di mio avolo il serpente, e verrà giorno che il tuo voler
somigliare a Dio non ti angoscerà poco.
Faust entra.
Faust. Dove vassi
ora?
Mefistofele. Dove ti
aggrada. Visiteremo prima il piccolo mondo, indi il gran mondo. O, quanto ha a
riuscirti delizioso questo folleggiare in qua e in là!
Faust.
Ohimè! con la mia lunga barba, io non ho né destrezza né arte del
vivere. Vedrai che mi andrà ogni cosa al rovescio. Io non seppi mai
accomodarmi al mondo, e nell'altrui presenza mi sento così da poco,
ch'io sarò continuamente intricato.
Mefistofele. Mio buon
amico, non ti dare fastidio di ciò, ché tutto acquisterai coll'uso degli
uomini. Fa di avere fiducia in te, e tosto avrai l'arte del vivere.
Faust. Or bene,
come ci mettiamo noi in cammino? Hai tu carrozza e cavalli? Hai tu servitori?
Mefistofele. Non abbiamo
che a spiegare questo mantello, e ci porterà rapidi per l'aria. né tu
pensi già in tale rischioso volo di prender teco gran fardelli. Un
pocolino d'aria infiammabile, ch'io ora preparerò, ne solleverà
tosto da terra, e purché siamo leggieri, andremo velocemente all'insù.
Mi congratulo teco del bello e lieto vivere che ti si apparecchia.
La cantina di Auerbach in Lipsia
Allegra brigata di bevitori.
Frosch. Nessun bee?
nessun ride? V'insegnerò io a stare ingrugnati a quel modo. Voi solete
pigliar fuoco come zolfanelli, ed oggi mi somigliate paglia fradicia.
Brander. Ne hai
colpa tu; non intavoli nulla; non sai dire una goffaggine, non una porcheria!
Frosch (versandogli
un bicchier di vino sul capo). Eccoti l'uno e l'altro.
Brander. Porco
rifatto!
Frosch. Chi
così vuole, così abbia.
Siebel. Via di qua
gli accattabrighe. Su, canti, e bicchieri in ronda. Beete! Strillate quanto ne
avete nella gola! Oh! Uh! Oh!
Altmayer.
Ohimè, io sono spacciato! Qua cotone! Quel gaglioffo m'ha squarciate le
orecchie.
Siebel. Sol
dall'eco della vôlta si apprezza la forza del contrabasso.
Frosch. Senz'altro;
e via col diavolo i permalosi. Ah! tara lara
là!
Altmayer. Ah! tara lara
là!
Frosch. Le strozze
sono accordate. (Canta.)
Sacro
romano impero,
Che
mai sarà di te?
Brander. Poh! che
brutta canzone! oibò, una canzone politica! una nojosissima canzone.
Ringraziate ogni sacro romano impero. Per me non mi reputo poco fortunato ch'io
non sia né imperatore né cancelliere. E nullameno
noi pure non possiamo far senza un capo, e ci bisogna eleggerci un papa. Voi
sapete quale specialità dia il tratto alla bilancia, e balzi l'uomo su
la santa sede.
Frosch(canta).
Ser
rosignuolo vola e di' al mio bene
Ch'io
lo saluto: digli le mie pene.
Siebel. Al tuo bene
non un sol saluto; non vo' udirne parlare.
Frosch. Al mio bene
saluti e baci; tu non me ne impedirai. (Canta.)
Su
'l chiavistello! è bujo d'ogn'intorno!
Su
'il chiavistello! veglia l'amoroso.
Giù
'il chiavistello! allo spuntar del giorno.
Siebel. Sì,
canta, canta a tua voglia, ed amala e lodala! ché tu non tarderai a darmi di
che ridere. Ell'ha uccellato me, e farà a te quel medesimo. Io le
desidero per amante un folletto, il quale può sollazzarsi seco sur un
crocicchio. Un vecchio caprone, quando vien giù dal Blochsberga,
può nel suo galoppo darle incontro di cozzo e belarle la buona notte. Un
bello e ben creato giovane è troppo buon boccone per simile zitella. Io
non ho altro saluto da darle fuorché sassate nei vetri.
Brander (percuotendo
la tavola). Zitti, zitti, signori! date retta a me, eppoi dite s'io non
sono un uomo. Egli è qui alcuno che patisce d'amore, ed è giusto
che io gli dia la buona notte come si convien meglio al suo stato. Attenti! ché
la è una canzone nuova di zecca!
E cantate di gran lena il ritornello.
(Egli canta). Fu un topo che vivea
Di
lardo e di farina
Senza
affanni in cantina,
E
una pancetta avea
Tonda
e lustra che in vero
Parea
'l dottor Lutero.
Or
la cuoca ribalda
Gli
appiattò in una cialda
Un
velen traditore,
Che gli dié tal tormento,
Come
se avesse drento
La
rabbia dell'amore.
Coro (giubilando).
Come se avesse drento
La
rabbia dell'amore.
Brander. Di
qua, di là egli corse;
Dell'acqua,
ovunque n'ebbe,
E
bebbe e bebbe e bebbe;
E
graffiò e rose e morse,
Menando
l'ugna e il dente,
Ma
non giovò niente.
Fe'
capriole molte,
Dié cento giravolte;
Era
un foco, un furore,
Un
rimescolamento,
Come
se avesse drento
La
rabbia dell'amore.
Coro.
Come se avesse drento
La
rabbia dell'amore.
Brander. Miser! non trova loco,
E
di bel dì in cucina
Ecco
viene, e ruina
Capovolto
nel foco.
Oh,
pietà! sulle brace
Mette
un sibilo, e giace
E
la cuoca, che tratto
L'ha
a quel partito matto,
Pur
rise; ed, Oh romore!
Disse.
Egli manda un vento
Come
se avesse drento
La
rabbia dell'amore.
Coro. Come se avesse drento
La
rabbia dell'amore.
Siebel. Ve' come
que' ghiottoni se la godono! Bell'onore veramente attossicare i poveri topi.
Brander. Son tanto
nella tua grazia?
Siebel. Oh, il
pancione! la zucca pelata! il malanno lo fa dolce e manoso, ch'egli vede nel
topo sgonfiato il suo ritratto al naturale.
Faust e Mefistofele.
Mefistofele. Prima di
ogni altra cosa bisogna ch'io ti faccia entrare in una sollazzevole brigata,
affinchè tu veggia quanto sia facile il darsi lieta vita. Per costoro
ogni dì è festa; e con poco cervello e grande ilarità
ballano in giro entro un piccolo cerchio come gattini che giuocano con la lor
coda: e se non hanno il mal di capo, e l'oste fa loro credenza, ei sono senza
fastidi.
Brander. Son giunti
di poco in città, te ne avvedi subito da quella loro strana maniera. Non
è un'ora che son qui, scommetto.
Frosch. Tu di' bene
il vero. Viva la mia Lipsia! Ell'è un piccolo Parigi, e dá l'ultima mano
all'uomo.
Siebel. Che pensi
tu che siano que' forestieri?
Frosch. Lasciane la
cura a me, che con un bicchiere di vino io tiro lor di bocca ogni cosa, come
cavare un ragno d'un buco. Penso che sieno nobili, giacché hanno l'aria di
scontenti e di superbi.
Brander. Ed io
giocherei che son ciarlatani.
Altmayer. Fors'anche.
Frosch. Bada, bada
com'io li burlo.
Mefistofele. Queste
genterelle non hanno mai alcun sospetto del diavolo; ei le terrebbe pel collare
che non se n'avviserebbero.
Faust. Ben
trovati, signori.
Siebel. Grazie; e
voi siate i ben venuti. (Fra sé guardando di traverso Mefistofele.) Che ha costui che zoppica
d'un piede?
Mefistofele. Siete
contenti che ci mettiamo a sedere con voi? In cambio del buon vino, che qui
certo non è da sperare, noi godremo della buona compagnia.
Altmayer. Siete molto
dilicato, pare.
Frosch. Voi venite
pur ora da Rippach, non è vero? Siete forse rimasti a cena dal signor
Giannotto?
Mefistofele. Non oggi
che volevam tirare innanzi. Ma l'abbiam veduto, non ha guari, e ci parlò
a lungo de' suoi cugini, e molto ci raccomandò di salutarli in suo nome.
(S'inchina verso Frosch.)
Altmayer (piano).
Ci sei colto! Tanto sa altri quant'altri.
Siebel. È una
volpe vecchia.
Frosch. Sta a
vedere com'io gliela fo.
Mefistofele. S'io non
m'inganno, noi abbiamo poc'anzi udito cantare in coro molto maestrevolmente. E in vero sotto questa vôlta la voce
deve fare un bel rimbombo.
Frosch. Sareste a
fortuna un virtuoso?
Mefistofele. Oh, no! la
virtù è poca, ma grande il diletto.
Altmayer. Cantateci
una canzone.
Mefistofele. Mille, se
vi è in grado.
Siebel. Qualcosa di
non mai più udito.
Mefistofele. Noi veniamo
di Spagna, che è il bel paese del vino e delle canzoni. (Canta.)
V'era un re che aveva in corte
Una
pulce molto rara...
Frosch. Date
ascolto! una pulce! Avete voi ben afferrato ciò? Per me una pulce
è tanto o quanto una seccaggine.
Mefistofele (canta).
V'era un re che aveva in corte
Una
pulce molto rara;
E
quel re l'amava forte;
Come
un figlio ei l'avea cara.
Il re disse: Olà, il sartore!
Il
sartor venne a gran fretta.
Fa
una vesta a monsignore,
Fagli
brache e mantelletta.
Brander. Dite al
sartore che guardi bene quel ch'egli si fa; badi specialmente che le brache non
facciano una piega, che ne va il collo!
Mefistofele (canta).
E fu avvolto in seta e in belli
Drappi
ad oro ed in broccato;
Pien
di nastri ebbe gli occhielli,
E
una croce sul costato.
Fu ministro immantinente,
E
lo sprone ebbe e il tosone;
Trasse
in corte ogni parente,
Qual
fu conte e qual barone.
Ed in corte pelle pelle
Cavalier
mordeano e donne;
La
regina e le sue ancelle
N'avean
sempre pien le gonne
E nessun per buon rispetto
Ardia
pur grattarsi; noi,
Noi
mettiam l'ugne di netto
Su
ogni pulce che ci annoi.
Coro.
Noi mettiam l'ugne di netto
Su
ogni pulce che ci annoi.
Frosch. Bravo!
bravo! è graziosissima.
Siebel. Tal sia
d'ogni pulce.
Brander. Appunta le
dita e ghermiscile bellamente.
Altmayer. Viva la
libertà! Viva il vino!
Mefistofele. Berrei
volentieri in onore della libertà, se i vostri vini fossero un po'
migliori.
Siebel. Non
più, avete a ridircelo ancora?
Mefistofele. Se io non
temessi che l'oste l'avesse per male, esibirei a questa onorevole compagnia del
migliore della nostra cantina.
Siebel. Eh, date
pur qua, ch'io tolgo sopra di me la stizza dell'oste.
Frosch. Porgetecene
un bicchiere del prelibato, e diremo gran ben di voi. Solo non vogliate darcene
una misera mostra, che s'io ho a giudicare, bisogna che me n'empia ben bene la
bocca.
Altmayer (a parte).
Son del Reno, cred'io.
Mefistofele. Procurate
un succhiello.
Brander. Che ha a
fare il succhiello? Voi non avete già le botti alla porta?
Altmayer. Là
dentro l'oste tiene una sporta di stromenti.
Mefistofele (prende il
succhiello a Frosch). Dite su: che vino desiderate voi?
Frosch. Che
intendete di dire? Ne avete una gran varietà?
Mefistofele. Ognuno
può scegliere a suo talento.
Altmayer (a Frosch).
Ah, ah, tu te ne lecchi già le labbra.
Frosch. Or bene,
poiché ho a scegliere, voglio vin del Reno io; che i migliori doni son quelli
che ne vengono dalla patria.
Mefistofele (forando
l'orlo della tavola al posto di Frosch). Date qua un po' di cera per farne
tosto de' turaccioli.
Altmayer. Uh, le son
arti da ciurmatori.
Mefistofele (a Brander). E voi?
Brander. Io voglio
Sciampagna, e che salti e spumeggi.
Mefistofele (segue a
forare, e uno di essi vien turando i fori con turaccioli di cera). Non
sempre si possono evitare le cose forestiere: ché il buono ne sta spesso assai
discosto! Un pretto Tedesco non può patire alcun Francese, ma bee di
buon grado i lor vini.
Siebel (mentre
Mefistofele gli si accosta). Se ho a dire il vero, l'agro non mi
conferisce; datemene un bicchiere del dolce.
Mefistofele (forando).
Per voi scorrerà tosto Tokai.
Altmayer. Ehi,
galantuomo, miratemi in viso. Siete sul burlare, non è vero?
Mefistofele. Oh, oh!
sarebbe troppo arrischiare con signori di simil fatta! Su via, dite: di che
vino posso servirvi?
Altmayer. Di tutti! e
speditevi.
Mefistofele (con gesti
strani, dopo che ogni foro è fatto e turato).
La vite aspra di stecchi
Mette
l'uve gradite
Metton
le corna i becchi;
Mostoso
è il vino ed è legno la vite;
E
questo duro desco a chi lo fora
Ben
può dar vino ancora.
Molto
può al mondo
Chi
nel profondo
Sen
di natura vede:
Un
miracolo è questo: abbiate fede!
Ora
traete i turaccioli e sguazzate.
Tutti (traendo i
turaccioli e raccogliendo i vini ne' bicchieri). Oh, che bella fontana ci
scorre qui! (Bevono e ribevono.)
Mefistofele. Sol badate
di non versarne gocciola.
Tutti (cantando).
Quand'io
sguazzo qual porco nel brago
È
quel bene in che tutto m'appago.
Mefistofele. Ora han la
briglia sul collo, i mariuoli. Vedi come trionfano.
Faust. Io me
n'andrei volentieri ora.
Mefistofele. Rimani
ancora un poco, e vedrai il pieno scoppio della loro bestialità.
Siebel (beve
sbadatamente, il vino si sparge sullo spazzo e si muta in fiamma). Salva,
salva! fuoco! L'inferno leva fiamma!
Mefistofele (scongiurando
la fiamma). Sta cheto, amico elemento. (A Siebel.) Questa volta non
fu che una goccia del fuoco di purgatorio.
Siebel. Che
è questo? Prendete guardia! o vi costerà caro. Egli pare che non
ci conosciate.
Frosch. Fa ch'ei vi
si provi un'altra volta!
Altmayer. Per me,
direi d'invitarlo con le dolci ad andarsene.
Siebel. E che, signore, avete tanta faccia da
venir qui a farci il vostro Hocuspocus?
Mefistofele. Sta zitto,
vecchio barile di vino.
Siebel. Gambo di
segala! Ora ti fai anche villano!
Brander. Guarda quel
che tu di', pezzo di gaglioffo, che pioveranno legnate, sai?
Altmayer (trae
dalla tavola un turacciolo e ne zampilla fuoco contro di lui). Ohimè
abbrucio! Io abbrucio!
Siebel.
Stregoneria! dàgli addosso! Egli è un bandito che ha una taglia
sulla testa. (Traggono le coltella e si gettano sopra Mefistofele.)
Mefistofele (con atto
grave).
Fallaci immagini,
Fallaci
accenti,
I
lochi mutino,
Mutin le menti;
Siate qua e là.
(Essi stanno sbalorditi e si
guardano in viso l'un l'altro.)
Altmayer. Dove son
io? O, bellissima campagna!
Frosch. Un vigneto!
veggo io diritto?
Siebel. E grappoli alla mano!
Brander. Qui sotto
questi verdi pampini vedi che ceppo! vedi che grappolone! (Prende Siebel pel
naso. Gli altri fanno scambievolmente lo stesso, ed alzano le coltella.)
Mefistofele (come
sopra).
Fugga
l'errore, cada il vel dagli occhi!
Così
il diavol si burla degli sciocchi.
(Sparisce con Faust; i tavernieri
tornano in sé.)
Siebel. Che fu?
Altmayer. Come?
Frosch. Era il tuo
naso?
Brander (a Siebel).
Ed
io ho in mano il tuo!
Altmayer. Che tiro ne
ha fatto! io ne ho rotte tutte le ossa. Deh, una seggiola ch'io svengo.
Frosch. Eh via! su
dimmi, che avvenne?
Siebel.
Dov'è quel mascalzone? S'io lo trovo mai, ti so dire che non
m'uscirà vivo dalle mani.
Altmayer. Io l'ho
veduto con questi occhi andarsene per la porta della cantina, a cavallo a un
barile. Io ho i piè grevi come fosser di piombo. (Volgendosi verso la
tavola.) Cappita! non colerebbe forse ancor vino?
Siebel. Ogni cosa
fu inganno, bugia e barbaglio.
Frosch. A me parve
nullameno ber vino veramente.
Brander. Ma come la
fu con quell'uva?
Altmayer. Or venga
qualcuno a dirmi che non si dee credere ne' miracoli!
La cucina di una strega
Sopra un basso focolare sta bollendo
un gran calderone. Per mezzo il vapore che ne esala veggonsi andare
all'insù diverse fantasime. Una gattamammona siede presso il calderone,
lo schiuma e ha cura che non trabocchi. Il gattamammone coi gattini le è
seduto a canto e si scalda. Dalle pareti e dal soffitto pendono tutti quegli
strani arnesi che si convengono a una strega.
Faust e Mefistofele.
Faust. Io ho schifo
di questi pazzi arredi e queste stregherie. Che salute puoi tu promettermi fra
sì fatta congerie di frenesie e di sozzure? Ho io bisogno del consiglio
di una femmina decrepita? e potrà una sudicia broda levarmi di dosso
trent'anni? Oh, me misero se tu non sai altro partito! Io sono già fuori
di speranza. Non può la natura provvedere, o non saprebbe un nobile
Spirito trovare qualche balsamo?
Mefistofele. Tu torni al
tuo senno! Sì veramente, vi è un modo naturale di ringiovanire,
ma leggesi in altro libro, ed è uno strano capitolo.
Faust. Io vo'
saperlo.
Mefistofele. Or bene:
egli è un modo che non richiede né oro, né medico, né incantesimi. Esci
lesto alla campagna; datti a zappare e a spaccar legne: contieni te e il tuo
animo dentro la siepe del tuo podere; usa cibi semplici e parchi; vivi fra le
bestie come bestia, e non avere a sdegno d'ingrassare tu stesso il solco che
mieti. In questa guisa, credi a me, tu durerai giovane sino agli ottant'anni.
Faust. Io non sono
avvezzo a simil cosa: né mai saprei indurmi a torre la zappa in mano. Un vivere
stretto e uniforme non va alla mia natura.
Mefistofele. E perciò proprio questa
vecchiaccia! Non potresti lavorare la pozione tu stesso?
Mefistofele. Egli
sarebbe un bel passatempo! Per certo ch'io fabbricherei fra tanto mille ponti.
Simil pozione non richiede arte e sapere soltanto, ma pazienza ancora. Un
placido spirito mette anni e anni a prepararla, e il tempo solo dà
virtù a' suoi fermenti. Mirabili e rarissime son tutte le cose che la
compongono; e ben ha potuto il diavolo insegnare a costei come la si faccia; ma
il diavolo non la può fare. (Scorgendo gli animali.) Vedi
che leggiadra famiglia! Quest'è la fantesca; questi il servo. (Alle
bestie.) Or non è forse in casa la signora?
Le Bestie. Di casa fuora
Ad
un festino
Uscita
per la cappa del camino.
Mefistofele. E quanto duran poi.
Dite,
i bagordi suoi?
Le Bestie. Tanto che noi
Scaldianne
un poco
Le
piote al foco.
Mefistofele (a Faust).
Che ti pare di queste gioviali bestiuole?
Faust. Le mi
pajono la più sciocca cosa ch'io vedessi a' miei dì.
Mefistofele. A me anzi
un simil ragionare riesce gustosissimo.
(Alle bestie.) Or mi dite
anche, bertuccioni sciocchi,
Che
è quel che nel paiuolo rimestate?
Le Bestie. Egli
è una broda lunga da pitocchi.
Il Gatto (s'accosta
a Mefistofele e gli si stropiccia intorno).
Deh, i dadi fuora
Gitta,
o signore.
E
vincitore
Fammi
in buon'ora.
Ahi, poveretto,
Vivo
in martoro,
Ma
se avessi oro
Avre'
intelletto.
Mefistofele. O, quanto
la bertuccia si stimerebbe beata, sol che potesse mettere al lotto. (I
gattimammoncini stanno intanto giuocando con una grossa palla, e rotolandolasi
innanzi.)
Il Gatto.
Quest'è il mondo
Che
va ratto
Ratto
a tondo;
Ognor
tratto
Nanzi
e 'ndietro,
Scende
e sale;
E
risona come vetro.
Che
è sì frale!
Di
colori,
Di
splendori
È
di fuori
Luculento,
Ma
di drento
Pien
di vento,
Bugio
e cieco
Come
speco,
Muccin
bello,
Ti
ritrai;
Che
se in ello
Oimè,
intoppi, tu morrai.
Tutto
gajo
È
a vedello;
Ma
d'argiglia
Lo
fe' il sommo pentolajo,
E
va in cocci qual stoviglia.
Mefistofele. Che vuoi
dire quel crivello?
Il Gatto (levandolo
già).
Se tu se' ladroncello
Io
ti conosco, tosto ch'io ti squadro.
(Corre alla gatta e la fa guardare
per mezzo il crivello.)
Deh, mi squadra costui
Per
mezzo a' fori sui,
E
di' senza rispetti s'egli è ladro.
Mefistofele (accostandosi
al fuoco). E cotesto
calderone?
Gatto e Gatta.
O, lo sciocco! o, il gocciolone!
Non
conosce il calderone.
Non
conosce la pignatta.
Mefistofele. Che
bestial, villana schiatta!
Il Gatto. Nella seggiola ti assetta,
E
to' in mano la scopetta.
(Induce Mefistofele a sedere.)
Faust (il quale
in questo frattempo stava guardando in uno specchio, ora avvicinandovisi, ora
allontanandosene). Che miro? Che angelica forma mi si mostra in quel magico
specchio! O, dammi, Amore, le rapidissime tue ali, e ponmi nella dimora di
costei! Ahi, quand'io non rimango fermo qui, — quando tento di farmele
più da presso, io non la veggio più se non come velata da una
nebbia. Bellissima immagine di una donna!
E può la donna essere così bella? O in quel caro corpo mollemente
disteso vegg'io quanto di più leggiadro fosse mai figurato nel cielo?
Avvi nulla in terra che possa pareggiarsegli?
Mefistofele. Certo
allorché un Dio, dopo aver sudato sei dì, ha in ultimo detto bravo
a sé medesimo, ei non dee aver fatto una goffa cosa. Consola i tuoi occhi per
ora in quella vista; ed io ben so dove rintracciarti sì fatta
rarità. Beato chi ha la ventura di menarla sposa. (Faust guarda
tuttavia nello specchio. — Mefistofele, stendendosi nella seggiola, e agitando
la scopetta, segue a dire.) Io seggo qui propriamente come un re sul trono;
ho lo scettro in mano, e sol mi manca la corona.
Le Bestie (le quali
sinora sono state facendo fra loro ogni più strana gesticolazione,
portano con altissime grida una corona a Mefistofele).
E anch'ella ti è tratta
Innanzi,
o signore,
Di
grazia, la imbratta
Di
sangue e sudore
(Esse vanno sbadatamente qua e
là con la corona, la frangono in due pezzi, coi quali dannosi a saltare
attorno.)
È in pezzi! or vedere
N'è
dato e parlare;
La
vita godere,
Udire
e rimare!
Faust (dinanzi
lo specchio). Ahi, me misero! Io sto per insanire!
Mefistofele (accennando
le bestie). Ora quasi comincia a girare il capo anche a me.
Le Bestie. E quando per sorte
La
rima è a dovere,
Par
subito un forte,
Un
nobil pensiere.
Faust (come
sopra). Il mio petto s'accende! Deh, usciamo tosto di qui.
Mefistofele (nella
posizione suddetta). Si vuole almeno confessare che costoro sono preti
sinceri.
(Il calderone, al quale la gatta
non ha atteso, comincia a traboccare; di che nasce una gran fiamma che si volge
con impeto su per la gola del camino. La Strega scende a precipizio per mezzo
la fiamma, mandando urli spaventevoli.)
La Strega. Au! au! au! bestie insensate!
Brutti porci,
ite in mal'ora;
La
caldaja trascurate,
E
arrostite la signora!
Bestie!
(Accorgendosi di Faust e di
Mefistofele.)
Chi è lì?
Che
fate qui?
Chi
in casa, chi
Entrarmi
ardì?
Or
sì, or sì
Che
sin negli ossi
Vi
avrò coi rossi
Bollor
percossi!
(Ella immolla la schiumatoja nel
calderone, e spruzza fiamme sopra Faust, Mefistofele ed i Gatti. Questi
guaiscono.)
Mefistofele (menando
in giro la scopetta e percuotendone ogni vasellame).
In
pezzi ampolle,
Pentole
ed olle!
Ve'
la tua polta
Per
terra volta.
Con
gusto matto,
Brutta
carogna,
Viso
di fogna,
La
zolfa io batto.
Vuol
tal bordone
La
tua canzone.
(Mentre la Strega dà
indietro tutta stizzita e spaventata.) Mi riconosci ora? scheletro!
spaventacchio! Riconosci tu il tuo signore e maestro? Non so chi mi tiene ch'io
non suoni il bastone anche sulle tue vecchie ossa, e non isfracelli te, e i
bambocci tuoi spiriti, quei visi di gatto! Tieni tu oggimai sì poco conto
del farsetto rosso? Non hai tu più occhi in capo da conoscere la penna
del gallo? Ho io travisata la mia faccia? Ho io a dirlo da me il mio nome?
La Strega. O signore,
perdonatemi così villana accoglienza. Ma io non veggo il piè di
cavallo. E i vostri due cervi
dove son essi?
Mefistofele. A questa
volta ne esci netta, che per verità è un buon pezzo che non ci
siamo veduti. L'umana cultura, che liscia o lecca tutto il mondo, si è
stesa fin sul diavolo. I fantasmi
settentrionali son iti in fuga; e dove vedi tu ora corna e code e unghioni? E quanto al piè, com'io non
posso sbrogliarmene, e mi farebbe vergogna fra la gente, così da
più anni uso polpe posticce, a somiglianza di tanti giovinetti.
La Strega (ballando).
Dalla
gioja mi gira il cervello;
Oh,
che onore! Satan nel mio ostello!
Mefistofele. Donna, non
mi dire questo nome.
La Strega. Perché? Che
vi ha egli fatto?
Mefistofele. Da gran
tempo è registrato al libro delle favole; ma gli uomini non sono
pertanto migliori. Si sono disfatti del Maligno, ma i maligni sono rimasti.
Chiamami barone, e starà a dovere. Son cavaliere anch'io come altri; né
tu metti in forse la nobiltà del mio sangue. Guarda, quest'è la
mia arme gentilizia. (Fa un cenno indecente.)
La Strega (ridendo
smascellatamente). Ah! ah! le son delle vostre. Voi siete ancora quel
furfantaccio che foste sempre.
Mefistofele (a Faust).
Amico, tirane profitto. A questo modo si suol trattare con le streghe.
La Strega. Or mi dite
che vi bisogna?
Mefistofele. Un buon
bicchiere della felice pozione che sai. Ma chieggoti che ce ne dii della
più vecchia, chè gli anni raddoppiano la sua virtù.
La Strega. Di tutto
cuore. Ne ho qui un fiaschetto del quale gusto di tanto in tanto io medesima, e
che non getta più alcun lezzo. Di buon animo ve ne dò un bicchierino.
(Piano.) Ma ben sapete che se quest'uomo ne bee senza preparazione, egli
non può campare un'ora.
Mefistofele. Va, va;
ch'egli è un mio buon amico, e gli farà bel pro. Io gli consento
il migliore della tua cucina. Descrivi il tuo circolo: di' su le tue parole, e
dagliene un bicchier colmo.
(La Strega forma con atti
strambissimi un circolo nel pavimento, e pone in esso parecchie strane cose: i
bicchieri dànnosi a sonare, il calderone a mormorare, e fanno musica. In
ultimo ella reca un librone, e colloca nel circolo i gattomammoni, i quali le
servono di leggìo e tengono le fiaccole. Accenna a Faust di accostarsi a
lei.)
Faust (a Mefistofele). No: se tu non mi di'
che n'ha a riuscire. Quella robaccia, que' gesti arrovellati, quelle
sporcissime ciurmerie mi son note e odiose già troppo.
Mefistofele. Poh! egli
è sol per ridere! Non farmi ora lo schifiltoso. Ella dee come medichessa
fare un hocuspocus, ancorché la bibita faccia buona operazione. (Fa
entrare Faust nel circolo.)
La Strega (leggendo
nel libro e declamando con grand'enfasi).
Tu
capir dei!
Dieci
di un fanne,
Poi
tre via danne,
Indi
due tranne,
E
ricco sei.
Quattro
ne sega:
Di
cinque e sei.
Dice
la strega,
Fa
sette ed otto,
E
tu sei dotto.
Nove
son uno,
Dieci
nessuno.
E
questo delle Fate è l'un vie uno.
Faust. Mi pare che
la vecchia farnetichi.
Mefistofele. E a gran fatto non ne è in
fine; mel so io; ché il suo libro suona tutto a quel tenore. Vi ho speso sopra
gran tempo, perché una pretta contraddizione rimane un mistero inestricabile
non meno ai savi che ai pazzi. Amico mio, ell'è arte antica ed arte
nuova. In ogni tempo si è costumato nel mondo di spargere l'errore in
nome della verità per via di tre e uno, e di uno e tre. Questo si predica
imperturbabilmente: di questo si cicala senza fine. E chi vorrebbe attaccarla coi matti? L'uomo, quando ode
parole, si ostina a credere ch'esse coprano qualche intendimento.
La Strega (continua):
La gran potenza
Della
scienza
A
tutto il mondo è oscura.
E
a chi non pensa
Sol
si dispensa;
Quel
l'ottien senza cura.
Faust. Che
fandonie vuol venderne costei? Io ne ho mezzo rotto il capo. Egli è come
se io udissi centornila pazzi schiamazzare tutti quanti insieme.
Mefistofele. Basta,
basta, miserabile sibilla. Da' qua il tuo bevereccio ed empine il gotto sino
agli orli. Non può fare alcun danno all'amico mio, ch'egli è uomo
molto in là nei gradi, ed è già uso a ber grosso. (La
Strega presenta con gran cerimonie la pozione in una tazza, mentre Faust l'alza
alla bocca, n'esce una fiammella.)
La Strega. Animo,
giù tutta a un fiato. Ancora una gorgata! Ti sentirai tosto
ringalluzzare il cuore. Stai a tu per tu col diavolo, e ti fa paura una
fiammella? (La Strega scioglie il circolo. Faust ne esce.)
Mefistofele. Or fuori
più ratto che possiamo. Tu non devi star quieto.
La Strega. Desidero
che buon pro vi faccia quel centello.
Mefistofele. E s'io posso fare alcun servigio a te,
non hai che a dirmene un motto alla Valpurba.
La Strega. Togliete
questa canzone, e cantatela di quando in quando, che ne proverete effetti
singolari.
Mefistofele (a Faust).
Orsù, vientene, e lasciati condurre da me. È necessario che tu
traspiri affinchè il beveraggio ti faccia buon giuoco dentro e fuori.
T'insegnerò di poi a godere di un nobile ozio; e per una allegria che ti
sentirai germinare nel petto, conoscerai tosto come l'alato Cupido si agiti e
saltelli in qua e in là.
Faust. Deh,
lasciami gettare ancora uno sguardo nello specchio. Oh, era pur bella quella
immagine!
Mefistofele. No, no:
vieni, ché tu vedrai fra poco in carne e in ossa dinanzi a te il modello di
tutte le donne. (Fra sé.) Con quel beverone in corpo tu vedrai tosto
Elena in ogni femmina.
Una via
Faust, Margherita, passando.
Faust. Posso,
quella bella signorina, darvi il braccio, e accompagnarvi?
Margherita. Io non sono
né bella, né signorina, e so andare a casa da me. (Si scioglie da lui
e vassene.)
Faust. In fe' del
cielo, l'è una bella fanciulla colei! Non ne ho mai veduto una simile.
Ell'è sì modesta, sì ritrosa, ed ha nel tempo medesimo non
so che di saporito. Con quella sua boccuccia di rose, quelle sue lucide
gotuzze, — oh, io non me la scorderò in tutta la vita! E quel suo gittar gli occhi a terra mi
si è profondamente fitto nel cuore.
E come le è montata subito la collera! fu proprio una delizia. (Mefistofele
entra.)
Faust. Odi, tu mi
devi procurare quella fanciulla!
Mefistofele. Che
fanciulla?
Faust. Ella se ne
va per là or ora.
Mefistofele. Quella?
Ella si è spiccata testé dal suo pretonzolo, che l'ha assolta da ogni
peccato. Io m'era appiattato presso all'inginocchiatoio, e vi so dire
ch'ell'è una povera innocente che va a confessarsi di un nonnulla. Non
ho alcun potere su di lei.
Faust. Ell'ha
passato quattordici anni.
Mefistofele. Tu parli
proprio come Gianni Scapigliato, il quale pensa che il suolo non germogli fiori
che per le sue nari; e non vi abbia onore né favore ch'ei non debba
piluccarselo. Ma non si può sempre ciò che si vuole.
Faust.
Orsù, messer mett'impacci, non mi stia in sulle pedagogherie! — Sai tu
quel ch'io ti concludo? Se non mi poni questa sera con la giovane a mezzanotte,
io ti rompo il patto.
Mefistofele. Pensate un
poco s'egli è fattibile. Mi bisognano almeno quindici dì sol per
ispiare l'occasione.
Faust. S'io avessi
sole sett'ore a mia posta, io ne disgraderei il diavolo per ridurre al mio
piacere simil creaturella.
Mefistofele. Oramai voi
parlate quasi come un francese. Ma via, fate buon animo. E che rileva voler godere così di subito? Il godimento
non è mai sì bello e soave, come quando tu sii stato lungamente
in faccenda, raffazzonando la tua bambola, e rimutandole mille maniere di gale,
come si legge in molte novelle italiane.
Faust. Ho buon
appetito senza queste salse.
Mefistofele. Or,
lasciando il burlare, io vi dico che non si può così in fretta e
in furia venire al possesso di quell'amabile figliuola. In questa pratica non
è alcun guadagno coll'impeto, e ci bisogna usare scaltrezza.
Faust. Deh, almeno
procurami qualche cosa di quell'angioletta. Ponimi nella sua camera; trovami un
fazzoletto che sia stato sul suo seno; una sua legaccia; qualcosa insomma che
conforti il mio ardore.
Mefistofele. Perché
veggiate che il vostro affanno mi tocca nell'animo e che ho buon desiderio di
sollevarvene, noi non daremo alcun indugio; e vi metterò pur oggi in
camera sua.
Faust. E vedrolla? avrolla?
Mefistofele. No, in
vero! Ella sarà da una sua vicina; e tu intanto solo soletto, spirando
l'aura piena della sua presenza, assaporerai a tuo bell'agio il pensiero delle
tue future delizie.
Faust. Possiam noi
andare?
Mefistofele. È
ancora per tempo.
Faust. Provvedi
qualche regalo per lei (parte).
Mefistofele. Siam
già in sui regali? Ottimamente! egli riuscirà senza fallo. Io
conosco parecchi bei ripostigli, e molti tesori sepolti da antico, ed or viene
in acconcio ch'io dia loro un'occhiata (parte).
Sera. Una pulita cameretta
Margherita (rialzandosi
e rannodandosi le trecce). Io darei non so che per sapere chi è quel
signore di stamattina. Egli aveva assai bell'aria, e per certo egli è un
gentiluomo; lo porta scritto nella fronte. Oltre di che ei non sarebbe stato
così temerario (parte).
Mefistofele e Faust.
Mefistofele. Vien dentro;
pian piano! — su, vieni!
Faust (dopo
alcun silenzio). Lasciami solo, te ne prego.
Mefistofele (riguardando
qua e là). Non tutte le fanciulle son sì ben rassettate (parte).
Faust. Salve,
amabile raggio della sera, che penetri in questo santuario! E tu apprenditi al mio petto, soave
tormento d'amore; tu che, languendo, ti nutri della rugiada della speranza. Che
aura di pace e di contentezza spira d'ogni intorno! Che abbondanza in questa
povertà! che beatitudine in questa prigione! (Si getta in un
seggiolone di cuojo a canto al letto.) O, accogli me pure! tu che
già ricettasti nelle aperte tue braccia i buoni progenitori, nelle lor
gioje e nei loro affanni. Quante volte uno stormo di figliuoletti fece corona a
questo trono paternale! E qui
forse la mia diletta, grata dei doni del Natale, inclinò quella sua
florida guancia a baciare piamente l'arida mano dell'avo. Dove io giri gli
occhi m'innamora il bell'assetto di questa cameretta. Il puro contento del tuo
cuore, o fanciulla, guida la tua mano, e quando distendi il nitido tappeto in
sulla tavola, e quando spargendo l'arena descrivi questi bei fregi sul
pavimento. Non sei tu nata in cielo, o fanciulla? tu, che di questo tugurio sai
fare un paradiso! E qui! (alza
una cortina del letto). Che soave tremito mi assale! Io qui potrei volgere
lunghe ore... O natura! tu qui entro componevi quel nuovo angelo, e rallegravi
di soavi visioni i suoi riposi. Qui giacque la pargoletta, piena il tenero seno
dell'ardore della vita; e qui quella divina immagine svolse il purissimo e
santo suo tessuto.
E tu! perché sei tu qui? Ahi,
affanno! — Che vuoi tu qui? Perché il tuo cuore è aggravato? Povero
Faust! io non ti riconosco più.
Che aura è questa che mi spira
d'attorno? son io forse affascinato? Poc'anzi io anelavo impaziente al piacere:
ed ora mi lascio andare ai teneri vaneggiamenti dell'amore. Mutiamo noi d'animo
per ogni mutare dell'aria?
Ed oh, se tutt'a un tratto ella
entrasse qui! come ti precipiteresti a far ammenda del tuo oltraggio! Come ti
cadrebbe dall'animo ogni orgoglio, e giaceresti ridotto a nulla, a' suoi piedi.
Mefistofele. Presto! io
la veggio venire!
Faust. Fuggiamo!
fuggiamo! io non vi torno mai più.
Mefistofele. Io ho qui
una cassetta di non leggier peso, ch'io son ito a raccogliere so io dove:
presto, ponetela nell'armadio, e vi so dire ch'ella ne sarà fuori di sé.
Vi ho messo dentro alcune cosucce per guadagnarne altre. A' fanciulli i
trastulli.
Faust. Io non so,
— debb'io?
Mefistofele. Ne
domandate? Vi pensereste forse di serbarvelo per voi quel tesoro? S'ell'è
così, io vi consiglio che lasciate stare i dolci amori; serbate il
vostro tempo ad altro, che è prezioso, il sapete; e risparmiate a me le
inutili fatiche. Ma io voglio credere che non siate così misero! Io mi
dò mille impacci, meno le mani e i piedi — (Pone la cassetta
nell'armadio e lo riserra a chiave.) Andiamcene! — per porvi la fanciulla
nelle braccia: e voi state lì tutto di un pezzo come se aveste indosso
la toga del professore, e vi fossero innanzi in persona la fisica e la
metafisica. Su andiamo! (partono).
Margherita (con
lucerna in mano). Che arsura è qui dentro! come ci sa di chiuso! (apre
la finestra). Eppure fuori è fresco anzi che no. Non so, mi par
come... — Vorrei che mia madre tornasse tosto a casa. Io tremo tutta dal capo
a' piedi. — Oh, io son pur la pazza e timida donnicciuola! (ella si mette a
cantare intanto che si spoglia).
V'era in Tule un re che tenne
Sino al
cenere la fe';
La sua amante
a morir venne
E una tazza
d'or gli diè.
Nulla in pregio ebbe mai tanto
La votava a
mensa ognor,
E in votarla
avea di pianto
Gli occhi
gravidi e d'amor.
E quand'ei pur venne a morte
Le sue ville
numerò,
Agli eredi le
dié in sorte,
Ma la tazza
riserbò.
Ed a
splendido convito
Fe' i baroni
ragunar
Nella sala
dell'avito
Suo castello
sovra il mar.
Ivi l'ultime gioconde
Stille ei
bevve in mezzo a lor;
E dall'alto
giù nell'onde
Gittò
il sacro nappo d'or.
Ir giù il vide, e le
tranquille
Acque rompere
e sparir.
S'oscurâr le
sue pupille,
Più
non bevve il vecchio Sir.
(Apre l'armadio per riporre le
vesti e vede la cassetta.)
Com'è capitato qui questo bel
forzierino? Io son ben certa ch'io aveva serrato l'armadio. Egli è
strano! E che può esservi
dentro? Forse che qualcuno l'abbia impegnato a mia madre perché vi prestasse
sopra. Qui è un nastro con appesa una chiavicina, ed io son tutta
tentata di aprirlo. Che è ciò? Bontà del cielo! Ho io mai
veduto simili cose nella mia vita? Una guarnitura! e tale che ogni più
gran dama potrebbe metterlasi intorno nelle maggiori solennità.
Starebb'ella bene a me questa catenella?
E di chi mai saranno tante ricche cose? (se ne adorna e va innanzi lo
specchio). Se fossero miei pure gli orecchini! Che bell'aria mi danno! Io
pajo tutt'un'altra! Povere fanciulle, che vi giova la vostra bellezza? La
è una bella cosa senz'altro la bellezza, ma che conto se ne tiene? Par
che vi lodino per compassione; e tutti corron dietro a' danari: i danari solo
fanno miracoli. Ahi, noi altri poveretti!
Passeggio
Faust va e viene
pensieroso.
Mefistofele fassegli
innanzi.
Mefistofele. Per l'amore
ributtato! Per gli elementi infernali! Oh, sapessi io qualche più
terribile imprecazione!
Faust. Che hai tu?
qual dolore ti morde? Ch'io non ho mai veduto simil ceffo a' miei dì.
Mefistofele. Io mi
vorrei dar subito al diavolo se non fossi quell'io.
Faust. Sei tu fuor
di cervello? Sta bene a te di entrare in bestia così, simile a un
imperversato!
Mefistofele. Pensa un
po' tu, che quelle belle dorerie provvedute per Ghita son andate in bocca a un
prete. Sua madre ebbe, io non so come, a por gli occhi sovr'esse, e subito si
sentì tutta rimescolare. La è una buona donna che ha buonissimo
naso, poiché l'ha sempre penzolone sul libro delle orazioni. Ella si fece ad
annasare ad uno ad uno i giojelli per discernere se fosser cosa sacra o cosa
profana, e sentì chiaro all'odore che non portavano con sé gran
benedizione. Figliuola, diss'ella, la roba di mal acquisto avviluppa l'anima e
contamina il sangue. Consacreremo ogni cosa alla Madre del Signore che ne
ristorerà con la manna celeste. La Ghituccia arricciò il naso, e
diceva a mezza bocca: Egli è un caval donato; e certamente non dee
essere un nemico di Dio chi fa di sì bei regali. La madre mandò
per un prete, il quale, intesa quella storiella, e vedute le gioje, disse: Ben
pensato, buone donne; chi si astiene guadagna.
Così detto intascò
fermagli e collana e anelle e ogni cosa, giusto come fossero state bazzecole; e
non ringraziò più o meno di quel che avrebbe fatto d'un cestello
pieno di noci. Il cielo ve ne renda il merito, disse ed esse ne rimasero
grandemente edificate.
Faust. E Ghita?
Mefistofele. Ghita
è tutta sturbata; né sa che si faccia o si voglia. Pensa dì e
notte a' giojelli; e più assai a chi li ha recati.
Faust. Il
travaglio di quella poveretta mi passa il cuore. Va tosto, e procurale nuovi
ornamenti, e più ricchi, che quei primi, vedi, erano dozzinali.
Mefistofele. Oh,
sì certo! tutto è balocco da fanciulli per un tanto signore.
Faust. Va, va; fa
quel ch'io ti dico. Mettiti attorno alla vicina; cacciatale in casa; non essere
un diavolo di stucco, e reca nuovi regali.
Mefistofele. Sì,
magnifico signore, di tutto l'animo. (Faust parte.) Un pazzo innamorato
come costui farebbe volare in aria a modo di razzi e sole e luna e tutte le
stelle per dolce trastullo della sua diva.
La casa della vicina
Marta (sola).
Dio perdoni a mio marito; ma egli si è portato meco assai malamente. Se
ne va fuori a dirittura pel mondo, e lascia me sola a tribolare sulla paglia.
Ed io non gli ho propriamente mai dato un fastidio; e lo amavo, Dio il sa, di
cuore (piange). Forse è morto già da un pezzo! — O
miseria, miseria! — Avessi almeno la fede della sua morte! (Margherita entra).
Margherita. Signora
Marta!
Marta. Che
occorre, Ghituzza?
Margherita. A pena io
mi reggo sulle gambe! Ecco un'altra cassetta trovata or ora nell'armadio, — di
ebano, con entrovi cose preziosissime di più gran valore assai che non
fosser le prime.
Marta. Non si vuoi
dirlo a tua madre; ch'ella n'andrebbe a portare al confessore anche questa.
Margherita. Ah, vedete!
ah, mirate!
Marta (acconciandole
intorno le gioje). Va, che tu se' nata vestita.
Margherita. Povera me,
che non posso farmi vedere in sì bell'ornamento né per la via, né in chiesa.
Marta. Vientene
bene spesso da me, e qui in segreto ti porrai la guarnizione intorno;
passeggerai un'oretta su e giù innanzi lo specchio, e ce la godremo. Si
offrirà poi un'occasione; verrà una festa; e a passo a passo
mostrerai ogni cosa: prima una catenella, poi le perle negli orecchi, e via
via. Quella buona donna di tua madre non se ne avvedrà, credo; e potremo
anche a un bisogno darle ad intendere qualche filastrocca.
Margherita. Ma e chi
può mai aver portate le due cassette? Io temo non ci covi qualche trama
sotto. (Si ode picchiare.) Dio mio, sarebbe a caso mia madre?
Marta (spiando
dalla gelosia). — È un signore forestiero. — Passi!
Mefistofele (entra).
Prendo ardire di venir innanzi addirittura e ne chieggo perdono a queste
signore. (Si ritrae rispettosamente dinanzi a Margherita.) Avrei due
parole da dire alla signora Marta Schwertlein.
Marta. Son io
dessa. Che desidera, signore?
Mefistofele (piano a
lei). Ora la conosco, e basta. Ell'ha una visita di molto riguardo, e non
voglio sturbarla. Mi perdoni dell'ardimento; tornerò dopo desinare.
Marta. Tu non te
lo indovineresti in mille, figliuola; questo signore ti ha tolto per una
damigella di conto.
Margherita. Io sono una
povera fanciulla. Dio mio! la sua bontà è molta, signore. Questi
ornamenti non son miei.
Mefistofele. Oh, non
tanto per gli ornamenti, — quanto per quel suo bel portamento, quella nobile
sua guardatura. Quanto son lieto di poter rimanere!
Marta. Che reca
ella dunque? Son molto desiderosa.
Mefistofele. Io vorrei
recare più liete novelle. Spero nullameno ch'ella non me ne vorrà
male. Suo marito è morto, e le manda i suoi saluti.
Marta. È
morto? quella buon'anima! Ohimè, misera! Mio marito è morto! Io
vengo meno.
Margherita. Via, cara
signora, non disperatevi.
Mefistofele. Udite la
storia lamentevole.
Margherita. Però
io non vorrei mai amare ne' miei dì; ché una simil perdita mi
affliggerebbe a morte.
Mefistofele. Al piacere
sta a lato il dolore, e al dolore il piacere.
Marta. Su,
narratemi com'egli chiudesse la sua vita.
Mefistofele. Egli giace
in Padova sotterrato in sagrato, vicino a Sant'Antonio. Ivi è il freddo
letto nel quale egli dorme per sempre.
Marta. E, non
recate voi altro?
Mefistofele. Anzi una
grande e grave preghiera; piacciavi di far cantare trecento messe per l'anima
sua. Del resto le mie saccocce son vôte.
Marta. Che! non
una medaglia? non una gemma? Quel ch'ogni più meschino artigianello
salva nel fondo della valigia, in testimonio della sua fede, e vuol piuttosto
patirsi la fame, vuol pitoccare...
Mefistofele. Madama, io
ne sono dolente sino all'anima. Ma per verità egli non ha scialacquato a
sproposito i suoi danari; e inoltre si pentì amaramente de' falli suoi;
sì invero, e più ancora deplorò la sua nimica fortuna.
Margherita. È
possibile che gli uomini soggiacciano a tante miserie? Io gli dirò certo
molti requiem.
Mefistofele. Meritereste
proprio di maritarvi presto. Siete una deliziosa creatura.
Margherita. Oh no; egli
c'è tempo.
Mefistofele. O sì
o no che si usi, lo si fa nullameno.
Marta. Su
raccontate.
Mefistofele. Io gli sono
stato accanto al letto; ch'io non dirò che fosse propriamente letame,
era paglia mezzo fradicia; non pertanto egli finì da buon cristiano, e
né pure gli parve che egli pagasse troppo grave scotto. Oh, quanto, sclamava,
io devo odiare me medesimo dell'aver a quel modo disertato e moglie e
professione. Ohimè, questo pensiero è un coltello al mio cuore.
Mi avesse ella almen perdonato in questa vita!
Marta (piangendo).
Pover'uomo! sì, sì, io gli ho perdonato da un pezzo.
Mefistofele. Ma, lo sa
Iddio, fu più sua colpa che mia.
Marta. Egli mente!
Oh, cielo! ha cuor di mentire con un piè nella fossa!
Mefistofele. Sì,
certo; egli dava gli ultimi tratti, e narrava ancora fandonie, per quel ch'io
me n'intenda. Egli diceva: Io non ho avuto tempo, no, di stare a dondolarmi!
mai un'ora di requie io non ho avuto. E prima
ebbi a far de' figliuoli, e poi a provveder loro il pane; e pane a rigor di
termine, né mai ho potuto mangiarmi il mio boccone in pace.
Marta. A tal segno
egli aveva dimenticato la mia gran fede, il mio grand'amore, quel continuo
affaccendarmi il giorno e la notte!
Mefistofele. Oh, anzi,
egli se ne ricordava ad ogni ora. Egli proseguiva: Quand'io partii da Malta io
pregai caldamente per mia moglie e i miei figliuoli, e quindi anche il cielo ne
fu propizio in modo che il nostro brigantino prese un legno turco che portava
una preziosa mercanzia al gran Sultano. Il valore ebbe ampia ricompensa, e
partitosi il bottino fra noi, io n'ebbi, com'era di dovere, la mia bella
porzione.
Marta. Come? che
n'ha fatto? l'avrebbe forse seppellita?
Mefistofele. Chi
può dire quale ora se la porti dei quattro venti? Una vezzosa signorina
s'impossessò di lui mentre andava, come forestiero, baloccandosi qua e
là per Napoli, e gli portò tanto amore e tanta fede ch'egli se ne
sentì sino al beato suo fine.
Marta. Ribaldone!
ladro ai suoi propri figliuoli! né povertà, né miserie d'ogni sorta non
hanno dunque mai potuto rimoverlo da quella obbrobriosa sua vita!
Mefistofele. Così
è; e perciò è morto. Ora, s'io fossi voi, vorrei
decorosamente piangerlo un anno, e frattanto andrei guardandomi attorno per
vedere ove ricollocassi il mio amore.
Marta. Dio buono!
simile a quel mio primo io non ne troverò facilmente un altro nel mondo.
Non so se vi potrebb'essere un pazzo più sviscerato di lui; solo ch'egli
amava un po' troppo lo andare attorno, e le donne forestiere e i vini
forestieri, e quel maledetto giuoco dei dadi.
Mefistofele. Via via,
son difettucci che potevate ancora passarglieli, se dal canto suo egli chiudea
gli occhi ai vostri. Vi giuro che a simil patto io farei il cambio dell'anello
con voi.
Marta. Oh, ella
celia, mio signore!
Mefistofele (da sé).
Bisogna ch'io mi levi di qui in tempo, ché costei è tal femmina da
pigliare in parola anche il diavolo. (A Margherita.) Come sta il cuore?
Margherita. Che vuol
ella dire, signore?
Mefistofele (da sé).
Bella, innocente creatura! (Alto.) Stieno bene, signore.
Margherita. Stia bene.
Marta. Oh, mi dica
un po'. Io vorrei avere una testimonianza del come, del quando e del dove mio
marito è morto e fu sepolto. Sono sempre stata in ogni mia cosa
accuratissima, e avrei caro che la sua morte fosse annunziata nelle gazzette.
Mefistofele. Sì,
mia buona signora; due testimoni bastano in qualsivoglia caso e luogo a mettere
in chiaro la verità. Ho meco un accorto compagno ch'io produrrò
innanzi il giudice per voi. Lo condurrò qui, se permettete.
Marta. Deh, fate
la bontà!
Mefistofele. E saravvi anche la signorina? È
un bello ed elegante giovane, che ha molto viaggiato, e in corteggiare le
damigelle non ha il suo secondo.
Margherita. Io
arrossirò dinanzi a lui.
Mefistofele. Dinanzi a
nessun re della terra.
Marta. Vi
aspetteremo stasera nel mio giardino, qua dietro la casa.
Una via
Faust e Mefistofele.
Faust. Che
n'è? Avanzasi? ne verrem presto a capo?
Mefistofele. Bravo! io
vi trovo infervorato; e Ghita è vostra fra poco. Stasera la vedrete in
casa di Marta la vicina, che per una ruffiana e una strega la è dessa.
Faust. Egregiamente!
Mefistofele. Ma e da noi
pure si richiede qualche cosa.
Faust. Un servigio
vuole un servigio
Mefistofele. Faremo buon
testimonio che le ossa di suo marito riposano in Padova in luogo sacro.
Faust. Capperi, tu
se' accorto! avrem dunque da fare il viaggio prima.
Mefistofele. Santa
simplicitas! Nulla è da fare; testificate, e non vogliate saperne
più innanzi.
Faust. Se non sai
trovare altro partito, noi siamo spediti.
Mefistofele. O, uomo da
bene! Or cominciate a farvi scrupolo! Sarà forse questa la prima volta
nella vostra vita che voi attesterete il falso? E non avete già voi e di Dio e del mondo e dell'uomo
date formali definizioni con parole sicure, sfacciate, imperturbabili? quando
dicevate: Questo gira i cieli; questo muove la mente, questo il cuore. E nondimeno, a voler mirare un po' a
tondo, voi ne sapevate ancor meno di quelle materie — vol nol potete negare —
di quello che sappiate ora della morte del signor Schwertlein.
Faust. Tu sei e tu
sarai sempre un bugiardo e un sofista.
Mefistofele. Sì,
chi non ne sapesse più in là. Perché non andrai tu dimani, senza
un rimorso al mondo, a trarre di senno la povera Margherita, giurandole che
l'ami dalle viscere dell'anima tua?
Faust. E di cuore glielo giurerò.
Mefistofele. E sia pure! Indi verranno le parole di
amore eterno, di fede eterna; di un impulso, ordinato dai cieli, insuperabile,
onnipotente. Ora usciranno pur queste dal cuore?
Faust. Cessa...
usciranno! — Allorché io sento e al mio sentire, al tumultuare del mio petto io
vorrei pur dare un nome, e non gliene trovo alcuno; e allora trascorrendo
coll'ansia dell'anima il cielo e la terra, afferro ogni più alta parola;
e la fiamma che mi arde io la dico immensa ed eterna! forse ch'io mi trastullo
diabolicamente in menzogne?
Mefistofele. Io ho
pertanto ragione.
Faust. Odi, e nota
ben questo, — né voler più mungermi, te ne prego, il fiato dal polmone.
— Chi vuoi avere ragione, purché non gli muoja la lingua in bocca, egli
l'avrà indubitabilmente. Ma andiamo, che oramai tu mi hai tolto il capo.
Tu hai ragione, perch'io mi sto nelle tue mani.
Giardino
Margherita appoggiata al
braccio di Faust,
Marta con Mefistofele, passeggiando su e
giù.
Margherita. Ben veggo
ch'ella vuol usarmi cortesia; si umilia per farmi arrossire. I viaggiatori son soliti a mostrare
condiscendenza, e pigliar per bene ogni cosa; ma io so che il mio povero
discorso non può intrattenere un uomo di tanta esperienza.
Faust. Un tuo
sguardo, una tua parola, mia cara, mi son più soavi, che non tutta la
saviezza che può insegnare il mondo. (Le bacia la mano.)
Margherita: Deh, non
faccia! come può ella degnarsi di baciare la mia mano, che è
sì ruvida e brutta? Ma che non mi tocca fare in casa? E mia madre, per vero, è molto
sottile. (Vanno oltre.)
Marta. E voi, mio signore, voi seguitate
senza fine a viaggiare?
Mefistofele.
Ohimè, le faccende e gli obblighi nostri ci astringono a questo! —
Spesso egli è un dolor grande il doversi partire di alcuni luoghi, e
nullameno non vi è né via né modo di rimanere.
Marta. Nel fervore
degli anni debb'essere pien di diletto quell'andare qua e là senza
impacci pel mondo; ma l'età grave vien via a gran passi, e non è
finora tornato bene a nessuno il condursi celibe e solo verso il sepolcro.
Mefistofele. Ben dite: e
con terrore io veggo dinanzi a me in lontananza quel triste termine.
Marta.
Però, mio degno signore, consigliatevi in tempo. (Vanno oltre.)
Margherita. Sì,
Sì! lontano dagli occhi, lontano dal cuore. È vostra usanza il
corteggiare; ma voi avete amici in quantità che hanno assai miglior
senno e accorgimento di me.
Faust. Dolce anima
mia! credimi che quel che si vuol dire senno e accorgimento non è le
più volte che vanità e cortezza d'ingegno.
Margherita. Come?
Faust. Ah, il
candore e l'innocenza saranno sempre ignari di sé medesimi, e del santo lor
merito? Ed è pure strano che l'umiltà e la verecondia,
preziosissimi son fra i doni della benevole, dispensatrice natura.
Margherita. Pensate a
me alcuni istanti, ed io avrò ben tempo di pensare a voi.
Faust. Voi siete
sola sovente?
Margherita. Sì;
è una piccola famiglia la nostra; e non di meno richiede molta cura. Non
abbiamo fantesca; e spetta a me il far la cucina, spazzare, cucire, lavorar di
calzette, e correre qua e là a tutte l'ore; e mia madre guarda fil filo
ogni cosa. Non propriamente che ve la stringa il bisogno; ché anzi potremmo far
più che altri. Mio padre ha lasciato un bell'avere, una casetta e un
orticello pochi passi fuor della città. Ora per altro io ho giorni tanto
o quanto tranquilli: mio fratello s'è fatto soldato, e la mia sorellina
è morta. Io ebbi per quella creatura i miei begli impacci, e tuttavia me
gli piglierei ancora tutti di buon animo, tanto io le voleva bene.
Faust. Un angelo
ell'era, se somigliava a te.
Margherita. Io l'avevo
allevata, ed ella pure mi voleva bene. Mio padre era morto di poco quando ella
nacque; e tememmo allora di perdere ancora nostra madre, tant'era ridotta a mal
termine; e non si riebbe che passo passo a gran pena. E però dové dimettere il pensiero di allattare quella
povera bimba, e la trassi su io da me sola con latte ed acqua, e fu come mia.
Io l'aveva tutto 'l dì in braccio, e la trastullava sul mio grembo; e a
poco a poco si ravvivò, si abbellì, si fe' grande e briosa.
Faust. Certo tu
allora provavi un dolcissimo contento.
Margherita. Ma e assai
ore tristi ancora. La culla della piccina era accanto al mio letto, di modo
ch'ella non poteva pur muoversi, ch'io non mi destassi. Ed ora bisognava darle
a bere, or coricarlami a canto; e quando non voleva chetarsi, levarmi su, e
ballarla innanzi o indietro per la camera: e la mattina sul fare del dì
andarmene al lavatoio, e poi al mercato, indi correre a casa; e via via ciascun
giorno di un modo. A simil vita, caro signore, non si va sempre di buona voglia;
nondimeno se ne gusta meglio il mangiare e il dormire. (Vanno oltre.)
Marta. Le povere
donne ne capitano spesso assai male; ché ravviare un vecchio scapolo non
è cosa facile.
Mefistofele. Non so s'io
mi dica che solo una pari vostra potrebbe ridurmi a miglior senno.
Marta. Ditemi
schietto, signore; non vi ha mai dato nulla nel genio? non avete ancora
collocato in nulla il vostro cuore?
Mefistofele. Dice il
proverbio: Casa propria e donna savia valgono più che l'oro e le gemme.
Marta. Voglio
dire, se non vi sentiste mai nascer dentro qualche viva propensione.
Mefistofele. Io fui
accolto da per tutto assai cortesemente.
Marta. Io voleva
dire, se non vi entrò mai alcun serio proposito nel cuore.
Mefistofele. Con le
donne non si vuole scherzare.
Marta. Ah, voi non
m'intendete!
Mefistofele. Io ne son
dolente fuor di misura! Ma io intendo... che la vostra bontà è
grande. (Vanno oltre.)
Faust. E tu, mio bell'angelo, tu mi hai tosto
riconosciuto, quando io misi il piè nel giardino?
Margherita. Non
vedeste? Io chinai gli occhi in terra.
Faust. E tu mi perdoni, non è vero? Io
fui ben sfacciato di appressarmiti a quel modo allorché uscivi appena dal
duomo.
Margherita. Io rimasi
attonita; che mai non m'era occorso simil caso; e non ho mai dato che dire di
me. Oimè, io pensava, ha egli forse veduto nel tuo contegno alcun che di
sconvenevole, e di poco onesto? Gli è tocco a un tratto la fantasia,
proprio come se credesse di aver a fare con una fraschetta? Ma il dirò
io? Allora, allora cominciò a parlarmi nell'animo un non so che in favor
vostro; ed io era malcontenta di me sentendo ch'io non sapeva essere
malcontenta di voi.
Faust. Gioja mia!
Margherita. Via, state
un po' cheto! (Coglie un fiore a stella e ne spicca ad una ad una le foglie.)
Faust. Che n'ha a
riuscire? un mazzolino?
Margherita. No: egli
è un giuoco.
Faust. Come?
Margherita. Oh, andate!
Voi vi burlereste di me. (Sfoglia il fiore, e mormora sommessamente.)
Faust. Che vai tu
mormorando?
Margherita (con
più chiara voce). Egli mi ama — egli non mi ama!
Faust. Cuor
dell'anima mia!
Margherita (continuando).
Mi ama — non mi ama — mi ama — non mi ama — (spiccando l'ultima foglia con
soave gioja). Egli m'ama!
Faust. Sì,
mia fanciulla: la parola di quel fiore ti affidi, simile ad una voce che ti
scendesse dal cielo. Egli ti ama! E intendi
tu, fanciulla, che vuoi dire: Egli ti ama?
Margherita. Io sono
atterrita.
Faust. Oh, non
tremare! E questi nostri sguardi,
questo stringere delle mani ti dicano quello che da nessuna parola può
mai essere espresso. — Abbandonarsi pienamente all'amore; inebbriarsi delle sue
voluttà; e durare in eterna beatitudine! eterna! Oh, disperazione;
s'ella potesse mai aver fine! No, non avrà mai fine! mai fine! (Margherita
gli stringe le mani, sciogliesi da lui e fugge via. Egli sta un istante sopra
pensiero, indi la segue.)
Marta (venendo
innanzi). Si fa notte.
Mefistofele. Sì,
e noi ce n'andremo.
Marta. Io vi
richiederei di rimanere più a lungo; ma siamo in paese assai maligno.
Egli par che nessuno abbia altro da fare che spalancar gli occhi sui passi
altrui, e dire de' fatti del vicinato; e benché vi diportiate bene, non
c'è verso di scansare le male lingue!
E la nostra giovine coppia?
Mefistofele. Se ne son
iti a volo su pel viale di là. Sollazzevoli farfalle!
Marta. Pare
ch'egli ne sia invaghito.
Mefistofele. Ed ella di
lui. Così va il mondo.
Un casinetto nel giardino
Margherita sbalza nel
casinetto, celasi dietro la porta, e messasi la punta del dito sulle labbra
spia fuori per le fessure.
Margherita. Egli viene!
Faust. Ah,
birboncella! tu mi stuzzichi, eh! Ti ho pur colta. (La bacia.)
Margherita. Oh,
carissimo! io t'amo con tutta l'anima!
(Mefistofele picchia.)
Faust (dando de'
piè in terra). Chi è là?
Mefistofele. Un tuo
amico.
Faust. Un animale.
Mefistofele. È ben
tempo di andarcene, parmi.
Marta (sopraggiungendo).
Sì, mio signore, si fa tardi.
Faust. Mi
permettete ch'io v'accompagni?
Margherita. Mia madre
potrebbemi... Addio!
Faust. Devo dunque
andarmene? Addio.
Marta. Buona sera.
Margherita. A ben
rivederci presto. (Faust e Mefistofele partono.) Bontà divina!
che mente ha quest'uomo! E come
pensa a tutto a tutto! Ed io gli sto innanzi tutta vergognosa, e dico di
sì ad ogni suo detto. Sono una povera ignorante, e invero non so
intendere quel che egli si trovi in me.
Foresta e spelonca
Faust solo.
Mente
suprema! tu mi desti tutto, — tutto quanto io ti chiesi. E non indarno tu volgesti verso di me la tua faccia cinta di
fuoco. Mi desti in regno la splendida natura, e possanza di amarla e di
goderne. Né tu mi concedi soltanto di guardare sovr'essa con fredda e torbida
maraviglia, ma di mirare nel suo seno profondo come nel petto di un amico. Tu
schieri dinanzi a me l'infinita varietà dei viventi, e m'insegni a
conoscere i miei fratelli per entro i taciti cespugli, nell'aria e nell'acque. E quando la procella mugghia per la
foresta e prostende gli ardui pini, che rovinando, schiantano e spargono a
terra tutta la selva soggetta; e le valli cavernose rintronano orrendamente
della loro caduta, allora tu mi fai ricoverare nelle spelonche, e quivi riveli
me a me medesimo; qui tutte mi si disascondono le occulte maraviglie dell'anima
mia. E intanto la luna sorge
limpida nel cielo, che si riapre e serena, ed io veggo fuor degli umidi
cespugli e su per le ripide balze muovere le ombre argentee dell'età
andate, che tacite, aleggiandomi intorno, temperano l'austero diletto della
meditazione.
Ahi!
ed ora io sento che non ci è per l'uomo nessun bene scevro di amarezze.
Perché veramente tu mi hai dato quest'animo che mi leva a partecipare delle
gioje degli immortali, ma poi tu mi hai messo a' fianchi questo compagno, del
quale io non so oramai più far senza; costui che freddo e impudente mi
umilia dinanzi a me stesso, e coll'alito di una parola inaridisce e riduce a
nulla tutti i tuoi doni. Egli mi tiene accesa nel petto una torbida fiamma, che
affannosamente mi caccia verso quella soave bellezza; ond'io trascorro
insaziabile dal desiderio al godimento, e dopo il godimento, sospiro il
desiderio.
Mefistofele entra.
Mefistofele. Che
è di te? non ti viene ancora in noja cotesta sciocca tua vita? Come puoi
tu compiacerti in essa sì a lungo? Che si voglia una volta assaggiarne
non disapprovo; ma per passar tosto a cose nuove.
Faust. Io vorrei
che tu avessi altro da fare che molestarmi nelle mie ore buone.
Mefistofele. Ehi! se tu
dici da senno, io non sarò in gran fastidio per piantarti lì; ché
in vero c'è ben poco da guadagnare con un compagno così rustico e
lunatico e pazzo come sei tu. Ve', gli si sta tutto 'l dì innanzi con le
man piene, e non gli si caverebbe di bocca con le tanaglie quel ch'egli abbia o
non abbia in piacere.
Faust. Deh, come
la piglia bene pel suo verso costui! Sta a vedere ch'ei vuol essere ringraziato
della noia che mi dà.
Mefistofele.
Meschinissimo mortale! qual vita, dimmi, sarebbe stata la tua senza di me? Io
son quegli che ti ho guarito delle tue dolorose fantasie, e s'io non era, tu te
ne saresti già da gran tempo andato dal mondo. Che stai tu qui a
intorpidire, annidato nei fessi delle rupi e delle spelonche, come un allocco?
O che pastura vai tu aormando carpone sul putrido muschio, fra i sassi ed il
guazzo, come un rospo? Oh, bello e dolcissimo passatempo! Va, che pizzichi pur
sempre del dottore.
Faust. Un pari tuo
potrebb'egli mai comprendere qual nuova forza io mi derivi dall'andarmi
così aggirando per queste selvagge solitudini? Oh, se tu potessi solo
averne un leggier senso, tu saresti tal demonio da portar invidia alle mie
delizie.
Mefistofele. Delizie
più che umane! Giacersi a notte oscura sui monti, alla rugiada ed al
vento; trascorrere con mente elastica il cielo di giro in giro; gonfiarsi per
agguagliare un Dio; inabissare la mente giù nelle cupe viscere della
terra! covarsi in petto tutte e sei le giornate della creazione, orgogliosamente
godendosi di non so che; e uscito dell'umano, struggersi e risolversi per gran
dolcezza nell'immenso, — e allora conchiudere l'alta intuizione (con un
gesto) io non so dir come.
Faust. Vergogna!
Mefistofele. Questo non
ti va! Sta bene a te, uomo di buona creanza, l'empirti la bocca di quel vergogna.
Non si vogliano ai casti orecchi nominare quelle cose di cui i casti cuori non
sanno far senza. Ora, alle corte, io non t'invidio già il piacere di
vender menzogne a te stesso, di tempo in tempo; ma bada che tu non sei uomo da
goderti in ciò lungamente. Tu torni già a vaneggiare come un
tempo, e se non sai tosto rilevarti, tu impazzirai, o ti morrai fra breve di
affanno o di terrore. Ma basti di questo. La tua dolce amica è là
in casa, e tutto intorno a lei è mestizia e travaglio. Tu non le esci
mai dal pensiero, mai; e, misera, si strugge a occhi veggenti. Da principio il
tuo amore riboccava come un ruscello allo sciogliersi delle nevi; glie l'hai
versato nel cuore, ed ecco il tuo ruscello si è riseccato. Or pare a me,
che invece di star qui a fare il grande, intronizzato nelle boscaglie, tu
faresti assai meglio di andarne a consolare dell'amor suo quella travagliata.
Il tempo le par lungo, che è una compassione. E stassi alla finestra guardando le nubi che traggono sulle
antiche mura della città. "S'io fossi un uccellino!"
così canta tutto il dì, canta mezza la notte. Talvolta è
gaja; mesta per lo più; ora sfoga il cuore con dirotte lagrime, pare
alquanto acquetarsi; ed arde pur sempre.
Faust. Serpente!
serpente!
Mefistofele (da sé).
Non è il vero? E già
ti allaccio!
Faust.
Impudentissimo! levamiti dinanzi, e non nominare mai più quella soave
creatura. Non mi riardere nei sensi già mezzo affascinati il desiderio
della sua dolce persona.
Mefistofele. Che
sarà dunque? Ella crede che te ne sii fuggito, e il sei già in
parte.
Faust. Io le son
presso; e le fossi pur anche lontano, né io la dimenticherei, né la perderei
mai. Sì, io porto invidia al corpo del Signore, allorché le sue labbra
lo toccano.
Mefistofele. Egregiamente!
Ed io ho spesso invidiato a voi que' due gemelli che pascolano fra le rose.
Faust. Va via,
ruffiano!
Mefistofele. Per
eccellenza! voi mi svillaneggiate, ed io non so tenermi di ridere. Quel Dio che
creò il fanciullo e la fanciulla ben conobbe qual fosse il più
nobile di ogni ufficio, sino a cogliere il destro di praticarlo. Su via, gran
malanno è il vostro! dovete andare in camera della vostra innamorata, e
non per ventura alla morte.
Faust. E che son le delizie del paradiso
nelle sue braccia? Io mi riconforterò sul suo petto! — Ma non
sentirò io pur sempre la sua gran miseria! Non sono io fuggiasco? non
diseredato della mia casa? non un disumano senza scopo né riposo? il quale,
simile ad un torrente ha imperversato giù di balza in balza, anelando
all'abisso. In margine alla corrente, sul verde declivo dell'alpe, quella
infelice aveva posta la sua capanna; erano placidi i suoi sensi; era nel suo
cuore infantile innocenza; ed ogni sua cura raccolta nel suo povero ricetto. Ed
io che il Signore ha riprovato, io rosi e diradicai e rovinai il monte: io
divorai essa e la sua pace... Io la feci vittima all'inferno. Orsù,
togliti, o demonio, la tua preda, dammi ajuto a scorciare le mie angosce, e
ciò che deve avvenire avvenga subitamente. Aggrava il suo destino sopra
di me, e sia d'ambedue una medesima perdizione.
Mefistofele. Come e'
ribolle! come e' riarde! Va, e consolala, o gran pazzo che tu sei. Quando un
povero cervello non sa di subito ritrovare l'uscita, egli si abbatte, e dice:
Io sono spacciato! Viva colui che non cade mai d'animo! Io ti ho già
veduto bellamente indiavolato; e or pensa che non è al mondo più
sciocca cosa di un diavolo che dassi alla disperazione.
Stanza di Ghita
Ghita sola
all'arcolajo.
La
mia pace è ita; il mio cuore è angosciato; io non avrò mai
più bene, mai più.
Quand'io
non son seco, io son mesta a morte. Il mondo è squallido e pien
d'amarezza per me.
Il
mio povero capo è folle; travolto il mio povero senno.
La
mia pace è ita; il mio cuore è angosciato; io non avrò mai
più bene, mai più.
Sol
per vederlo io stanco gli occhi alla finestra; e per lui solo esco furtiva di
casa.
O
suo nobile portamento; o leggiadria della sua persona; o suo sorriso, o suoi
sguardi!
Ed
o fascino delle sue parole! o suo toccare di mano!
La
mia pace è ita; il mio cuore è angosciato; io non avrò mai
più bene, mai più.
Il
mio petto si avventa verso di lui. Oh, osassi gittargli intorno le braccia, e
morire!
Giardino di Marta
Margherita e Faust.
Margherita. Promettimi,
Enrico!
Faust. Tutto quel
ch'io posso!
Margherita. Or dimmi,
che stima fai tu della religione? Tu sei savio, buono, e pien d'affetto, ma
temo che tu pecchi nella fede.
Faust. Lasciamo
star questo, figliuola. Tu sai ch'io ti voglio bene. Io porrei la mia vita per
quelli ch'io amo; e per niun modo vorrei rimuovere chicchessia da ciò
che a lui par savio di credere.
Margherita. Non va
bene, deesi anche credere.
Faust. Deesi?
Margherita. Oh, s'io
avessi alcun potere sopra di te! Tu rispetti poco i Santi Sacramenti.
Faust. Io li
rispetto.
Margherita. Ma senza
frequentarli. Egli è un gran pezzo che non vai alla messa, e che non ti
se' confessato. Credi tu in Dio?
Faust. Anima mia!
chi osa dire: io credo in Dio? domandane i preti e i sapienti, e la loro
risposta ti parrà una derisione: diresti ch'ei volessero farsi giuoco di
te.
Margherita. Però
tu non ci credi.
Faust. Non mi
fraintendere, mio dolce amore! Chi osa nominar Dio, e dire: Io credo in esso? E chi può aver animo che sente,
e attentarsi di dire: Io non credo in esso? nel comprenditore e sostentatore di
tutte le cose? — E non comprende
e sostiene egli te, me, sé medesimo? Non s'inarca lassù il cielo? Non si
stende quaggiù salda la terra? E non
sorgono amicamente arridendoci dall'alto, le stelle immortali? Non raggia il
mio occhio nel tuo occhio? Non tutte le cose si traggono verso la tua mente e
il tuo cuore, e vivono e si rivolvono in eterno mistero — visibili od
invisibili — intorno a te? E tu
riempi di questo ineffabile portento il tuo petto, e se ti senti allora
pienamente beata, nominalo come tu vuoi: dillo felicità! dillo cuore!
Amore! Dio! Io non ho alcun nome per esso. Sentire è tutto; e non
è il nome altro che suono ed ombra che offusca lo splendore che ne viene
dal cielo.
Margherita. Belle e
savie cose son queste: e a un bel circa dice il medesimo anche il parroco,
benché in parte con altre parole.
Faust. Questo
dicono tutti i cuori, in tutte le contrade, sotto il vital raggio del giorno;
ciascuno in suo linguaggio; e perché non io nel mio?
Margherita. A intenderla
così, parrebbe in vero che tu non dicessi male, ma ci rimane pur sempre
non so che di torto, perché tu non sei buon cristiano.
Faust. Viscere
mie!
Margherita. E da un gran tempo anche mi accora il
vederti tener pratica con quell'uomo.
Faust. Che vuoi tu
dire?
Margherita. Quell'uomo
che hai sempre a lato, m'è odioso fino all'anima. Nessuna cosa a' miei
dì mi ha mai trafitta così a dentro nel cuore come il sinistro
aspetto di colui.
Faust. Bambola
mia, non averne paura.
Margherita. La sua presenza
mi rimescola il sangue. Se ne togli costui, io non voglio male ad uomo nato. Ma
così com'io sospiro sempre di veder te, così io rabbrividisco
tutta dinanzi a quell'uomo, talché ho nell'animo ch'egli sia un furfante. Dio
mi perdoni se gli fa torto.
Faust. Voglionci
anche di sì fatti nottoloni.
Margherita. Io non
saprei farmi con un simil uomo. Ogni volta ch'egli si affaccia alla porta, egli
guata subito dentro con non so che viso tra il beffardo ed il corrucciato, e
chiaro si vede che niuna cosa lo tocca nel mondo. Egli porta scritto nella
fronte che non sa amare anima viva. Io son si gaja al tuo braccio, sì
confidente, provo una così soave ebbrezza nell'abbandonarmi a te, e
nella sua presenza mi si chiude subito il cuore.
Faust (da sé).
O angelo! come tu sei presaga!
Margherita. E tanto io sono sopraffatta di
ciò, che quand'egli si raggiugne con noi, mi pare persino ch'io non ti
ami più; e al suo cospetto io non potrei di niun modo fare orazione; e
ciò mi consuma amaramente il cuore. Quel ch'io provo, tu pure lo provi,
di', Enrico?
Faust. Tu ci hai
antipatia.
Margherita. È tempo ch'io vada.
Faust. Deh, non
potrò io mai riposarmi una breve ora con te; stringere il mio cuore al
tuo cuore; mescere anima con anima?
Margherita. Ah, s'io
dormissi pur sola, io ti vorrei lasciar aperto l'uscio stanotte. Ma mia madre
ha il sonno sì sottile; e s'ella ci avesse a cogliere, io cascherei
morta sul fatto.
Faust. Non vi
è pericolo, mio bell'angelo! Togli quest'ampolletta; e sol tre gocciole
che gliene mesci nella sua bevanda, la sommergeranno in un placido e profondo
sonno.
Margherita. Che non
farei per l'amor tuo! Non le può far danno, non è vero?
Faust. Cuor mio,
vorrei io proportelo se potesse?
Margherita. Sol ch'io
ti guardi, mio caro, non so che mi persuade di consentire ad ogni tuo
desiderio, e tanto io ho già fatto per te, che ora mai mi rimane ben
poco da fare. (Parte.)
Mefistofele entra.
Mefistofele. La
babbuina! se n'è ella ita?
Faust. Tu hai
fatto la spia, eh?
Mefistofele. Ho teso un
poco gli orecchi, e ho udito ad un di presso ogni cosa. Il dottore fu
catechizzato, e gli farà buon frutto, spero. Sta molto a cuore alle
fanciulle che il lor caro giovane sia un semplice e dabbene all'antica, perché
elle pensano: S'egli condiscende in questo, sarà condiscendente anche
verso di noi.
Faust. Tu non
puoi, mostruosa creatura, comprendere come quella candida e soave anima, tutta
accesa della sua fede, che solo può condurla a salvazione, piamente
s'affanni in pensare ch'ella dee tenere per perduto l'uomo che le è caro
sopra ogni cosa.
Mefistofele. O
sensibile, strasensibile amante! una femminetta ti mena per il naso.
Faust. Sozzo
innesto di fango e di fuoco!
Mefistofele. E la è anche buona fisionoma: e
nella mia presenza ella prova, non sa ella che, io ho sul volto la maschera,
trappole e inganni covano sotto; io mi sono in sua fé qualche mal genio; e, Dio
la salvi, forse forse il diavolo. Orsù, stanotte...?
Faust. Che ne fa a
te?
Mefistofele. Ci ho il
mio divertimento anch'io.
Alla fontana
Ghita e Bettina con brocche.
Bettina. Hai udito
di Barbarina?
Ghita. Nulla ho
udito: sai ch'io non vado gran fatto fuori.
Bettina. Certo, me
l'ha detto oggi Sibilla. Ella ci è finalmente incappata. Ecco come
finiscono con la lor boria.
Ghita. Che
è ciò?
Bettina. È
pazza! Quando desina ella dà da mangiare a due.
Ghita.
Ohimè!
Bettina. Le sta
bene. Da sì gran tempo impazziva dietro quel rompicollo! Seco alle
passeggiate, seco a' diporti in contado, seco ai balli; e da per tutto voleva
essere da più dell'altre; ed egli la veniva ammorbidendo col regalarla
sempre a pasticcetti, vino e altro. Ella si paoneggiava stimandosi un gran che
di bellezza, ed era ita sì innanzi che non si facea punto vergogna di
accettare ogni suo presente. Ma dàlle, dàlle, moine, carezze,
baci, e il bel fiorellino fu colto.
Ghita. Povera
figliuola!
Bettina. Le ne hai
compassione tu! Quando la sera noi stavamo a filare, egli non c'era verso che
nostra madre ne lasciasse andar giù. Ma ella si stava soavemente col suo
bel giovane in sulla panca a lato alla porta, e le ore erano sempre corte
troppe per essi. Ora dovrà umiliarsi, e la vedremo andare alla chiesa
col camicione delle penitenti.
Ghita. Egli certo
la sposerà.
Bettina. Sarebbe un
bel pazzo! Per un giovane lesto com'egli è, è buona stanza per
ogni paese. Egli si è già dileguato.
Ghita (andando
verso casa). Ohimè, ed io ho potuto un tempo far tanti schiamazzi al
fallo di qualche povera fanciulla! ho potuto senza carità alzare la voce
contro! Io non finiva mai di dire de' peccati altrui; e per gravi che mi
paressero io li aggravava vie più, né sapeva darmene pace; — e beata me!
diceva e insuperbiva scioccamente; ed ora son io stessa nel peccato fin sopra i
capegli.
Luogo solitario a piè degli
spaldi
In
una nicchia della muraglia è una devota immagine della Mater dolorosa,
e dinanzi ad essa alcune ampolle di fiori.
Ghita (pone
fiori freschi nelle ampolle). Deh, inchina, o Addolorata, benignamente il
tuo aspetto sopra di me, e vedi il mio affanno.
Con
la spada nel cuore, e oppressa d'immense angosce, tu alzi gli occhi verso il
morto tuo Figlio.
E
li alzi al Padre su in cielo, e gli mandi i tuoi gemiti, perché soccorra al suo
e al tuo strazio.
Ahi,
chi comprende il dolore che mi trafigge addentro nell'anima? Tu sola, o Madre, conosci
le ansietà del mio povero cuore; e tu sola sai i miei terrori e il mio
struggimento.
Dove
ch'io vada, oh, me misera! io porto qui meco nel seno tutti i miei guai; e non
appena io son sola, io piango e piango, e piango che il cuore mi fende nel petto.
Ho
irrigato delle mie lagrime i vasi dinanzi la mia finestra, quando sull'alba io
colsi per te questi fiori.
Il
sereno raggio del mattino appariva nella mia camera, ed io già sedeva
sul letto travagliata da' miei gran mali.
Abbi
misericordia! salvami dall'ignominia e dalla morte. Deh, inchina, o Addolorata,
benignamente il tuo aspetto sovra di me, e vedi il mio affanno.
Notte. Via dinanzi la porta di Ghita
Valentino soldato,
fratello di Ghita.
Un tempo, quand'io mi trovava a far
gozzoviglia, fra gli schiamazzatori e i millantatori, e chi metteva in cielo
questa e chi quella fanciulla, inaffiando a prova di gran bicchieri le lodi, io
mi stava zitto ad udirli, e coi gomiti posati in sulla mensa lasciava sfogare
quelle loro spampanate. Indi lisciatami, sorridendo, la barba, e dato di mano a
un colmo bicchiere io dicevo: Bello è quel che piace! Ma avvi in tutta
la contrada una fanciulla che possa paragonarsi alla mia Ghituccia? che sia sol
degna di allacciare le scarpe a mia sorella?
E allora udivi un subito tintinnire di tazze, e grida di allegrezze.
Egli ha ragione: viva la Ghituccia; il fiore delle belle, lo specchio delle
fanciulle! E le tazze e i viva
andavano in volta, e quei primi spacciatori di lodi ammutolivano. Ed ora! —
ahi, è tal dolore da stracciarsene i capelli, da dare del capo nelle
muraglie! Ora, ogni mascalzone potrà farmi onta coi motteggi, e
arricciare malignamente il naso; ed io dovrò infingermene, e star cheto
come un fallito dinanzi il creditore; io dovrò sudare per una leggiera
parola pur detta a caso; e ancorché io sfracellassi a tutti costoro il capo di
mia mano, io non potrei dire a nessuno: Tu te ne menti.
Chi viene per di là? chi
quatto quatto rade il muro a questa volta? S'io non m'immagino sono in due. Oh,
se è desso, io lo concio pel dì delle feste; egli non mi
scapperà vivo dalle mani.
Faust e Mefistofele.
Faust. Quale tu vedi
lassù fuor della finestra della sagrestia spargersi il lume della
lampada eterna, e più più fioco venir meno, e le tenebre
addensarsi d'ogni intorno, tale si annotta nell'anima mia.
Mefistofele. Ed io anzi
muojo di voglia come il mucino che s'inerpica di nascosto su per la scala a
canto al fuoco, e poi va via stropicciandosi alla parete. Provo anch'io non so
che rimordimenti di coscienza, sol che non avessi addosso un po' del pizzicore
de' ladri, e un po' della fregola de' gatti. Io mi sento andare per tutte le
membra un soave solletico pensando alla magnifica notte della Valpurga. Essa
riviene posdomani, e si sa allora perché si veglia.
Faust. Quel luccichìo
ch'io veggo colà è forse il tesoro di cui mi dicevi? e
verrà su presto?
Mefistofele. Tu godrai
tosto di porre le mani sul forziere. Vi ho guardato dentro non è guari
con la coda dell'occhio, ed è pieno di bei talleri del leone.
Faust. E non un vezzo? non un anello? nulla
da ornarne l'amor mio?
Mefistofele. Sì,
bene; io vi ho visto ancora non so che cosa a modo di un fil di perle.
Faust. Ne son
lieto; ché mi piange il cuore quando vado da lei colle mani vôte.
Mefistofele. Non vi
dovrebbe increscere di godere qualche cosa a scrocco. Ora io voglio, sotto
questo bellissimo stellato, farvi udire un miracolo dell'arte. Zitto ch'io le
spippolo una canzone morale che la farà girare affatto. (Egli canta
sulla chitarra.)
Bella Cate, viso adorno,
Or
che spunta appena il giorno,
A
che vai girando attorno
Alla
porta del tuo amore?
Torna a casa, Cate bella;
Abbi
l'occhio alla gonnella;
Tu
là dentro andrai zitella,
Non
zitella verrai fuore.
State all'erta, o sempliciotte!
Oimè,
quando v'han sedotte,
Buona
notte, buona notte,
Ei
vi dan delle canzone.
Bella Cate, abbi cervello;
Chiuso
a' piè tienti il guarnello:
Niun
lo tocchi se l'anello
Pria
nel dito non ti pone.
Valentino (facendosi
innanzi). Che vai tu zimbellando costà? Poffare il cielo! maladetto
cacciatopi! Al diavolo prima lo stromento; poi al diavolo il cantore.
Mefistofele. La chitarra
è in pezzi! non vale più a nulla.
Valentino. Ora
sarà una spaccatura nel capo.
Mefistofele (a Faust).
Dottore, non date indietro. Animo! statemi a fianco, e lasciatevi guidare da
me. Fuori durindana, e menate di punta! Io paro.
Valentino. Para
questa.
Mefistofele. Perché no?
Valentino. E quest'altra!
Mefistofele. Messer
sì.
Valentino. In mia fe'
che qui combatte il diavolo. Che è questo mai? Io ne ho già il
braccio intormentito.
Mefistofele (a Faust).
Ferite!
Valentino (cade).
Ohimè!
Mefistofele. Il babbeo
è ammansato! Or diamla a gambe. Ci bisogna dileguarci in fretta, ch'io
odo già levarsi intorno un rumore spaventevole. Io son bene di qualche
autorità, ma in quanto alla corte di giustizia la è un'altra
minestra.
Marta (al
balcone). Fuori! fuori!
Margherita (al
balcone). Qua un lume!
Marta (come
sopra). S'ingiuriano, s'azzuffano, schiamazzano, combattono.
Popolo. Qui
n'è già uno morto.
Marta (uscendo
nella via). Son già fuggiti gli assassini?
Ghita (uscendo
nella via). Chi giace qui?
Popolo. Il
figliuolo di tua madre.
Margherita. O gran Dio!
che disgrazia!
Valentino. Io muojo;
quest'è presto detto, e più presto fatto. A che, o donne, state
lì a piangere e a strillare? Venitemi intorno, e ascoltatemi. (Tutti
gli fanno circolo.)
Vedi, Ghita mia! tu sei ancor
giovane, tu sei ancora poco accorta, e fai male i fatti tuoi. Io tel dico in
confidenza; tu sei oramai una sgualdrina, e però studiati a fare il tuo
mestiere come si dee.
Ghita. O fratello!
Dio mio! Che vuoi tu dire?
Valentino. Non trarre
ora in ballo il nostro signore Iddio. Pur troppo quel che è fatto
è fatto, e oramai ciò che dee essere sarà. Tu ti sei data
furtivamente ad uno e ti darai tosto a molti altri, e allorché avrai fatto il
piacere di una dozzina tu farai leggermente il piacere di tutta la
città.
Quando l'ignominia nasce,
ell'è da prima recata nel mondo nascosamente; le si avviluppa intorno al
capo e gli orecchi il velo della notte, anzi si vorrebbe poterla affogare. Ma,
poiché è cresciuta e s'è fatta grande, allora ella va attorno
nuda di bel mezzodì, e non è pertanto più bella. Quanto
più il suo aspetto divien brutto e abbominevole, tanto ella cerca
più sfacciatamente lo splendore del giorno.
Io ho già innanzi a me il
tempo nel quale ogni uomo da bene si scanserà, sguajata, da te come dal
cadavere di un appestato, e il cuore ti si smarrirà nel petto quando un
di loro ti guarderà pure negli occhi. Tu non porterai più
catenella d'oro; non più apparirai in chiesa dinanzi l'altare; non
più col bel collare delle trine ti compiacerai nella danza. Tu andrai a
rimpiattarti in qualche miserabile ospizio fra gli accattoni e gli storpi; e
ancorché Dio ti perdonasse lassù, tu sarai pur sempre maledetta sopra la
terra.
Marta.
Raccomandatevi alla misericordia del Signore. Volete aggravarvi l'anima anche
di questi improperj?
Valentino. Oh,
potess'io gittarmi su quel tuo vecchio carcame, mezzana svergognata, ch'io
spererei d'impetrarmi così il perdono d'ogni mio peccato.
Margherita. O, fratel
mio! Che inferno mi fai patire!
Valentino. Io tel
dico; rasciuga le lagrime. Quel dì che tu hai gittato dopo le spalle
l'onore, tu mi hai quel dì mortalmente ferito tu stessa. Or morendo io
salgo a Dio come si conviene a un soldato e a un valoroso. (Muore.)
Duomo. Messa solenne, organo e canti
Ghita fra la
moltitudine. Uno Spirito
Malefico dietro di lei.
Lo Spirito
Malefico. Dove sono andati, Ghita, quei giorni, quando piena d'innocenza
venivi innanzi l'altare, e in quel tuo libriccino, che ora contamini,
balbuzzivi le tue orazioni, col cuore parte a Dio e parte nei trastulli della
fanciullezza? Ghita! dov'è la tua mente? e quale de' tuoi misfatti ti
sta ora nel cuore? Preghi tu per l'anima di tua madre, che tu hai con sì
lunghi spasimi addormentata per sempre?
E di chi è quel sangue sparso là sulla tua soglia? E qui nelle tue viscere che è
ciò che vien crescendo, e si muove pur ora? Ahi, fieri presentimenti!
che sarà di lui? — Che sarà di te?
Ghita. Oh, misera!
misera! Potess'io sottrarmi dai pensieri, che mio malgrado mi vanno
tumultuosamente per l'anima!
Coro. Dies irae, dies illa
Solvet
saeculum in favilla.
(Suono d'organo.)
Lo Spirito
Malefico. Tu inorridisci! Le trombe squillano! i sepolcri rendono i
morti! E il tuo cuore, suscitato
dalla quiete delle ceneri ai tormenti dell'inferno, trema miseramente.
Ghita. Oh, foss'io
fuori di qui! Quell'organo par come che mi tolga il respiro! quei canti squarciano
profondamente il mio cuore!
Coro. Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet adparebit,
Nil inultum remanebit.
Ghita.
Ohimè, io affogo! I pilastri
mi si serrano contro; la vôlta mi pesa sul capo! — Aria!
Lo Spirito
Malefico. Nasconditi! Il peccato e l'ignominia non rimangono nascosti. Aria, tu dici? Luce? Guai, guai a te!
Coro. Quid sum miser tum dicturus?
Quem patronum
rogaturus?
Cum vix justus sit securus.
Lo Spirito
Malefico. I glorificati
ritorcono da te le loro facce; i mondi di cuore inorridiscono di stenderti la
mano. Ahi, te trista!
Coro. Quid sum miser tum
dicturus?
Ghita. Signora, la
vostra ampolletta da odore. (Sviene.)
La notte di Valpurga
Montagne dello Harz, paese di Scirke
ed Elend.
Faust e Mefistofele.
Mefistofele. Non ti vien
voglia di un manico di granata? Io per me mi desidero il più nerboruto
dei becchi; che da qui a lassù è da camminare ancor molto.
Faust. Finch'io mi
sento bene in gambe ho abbastanza di questo nocchioso bastone. E che giova voler accorciare la via?
Io godo dell'andarmi aggirando per le tortuosità della valle, e
inerpicarmi quindi su per le rupi d'onde si versano l'eterne sorgenti dei
ruscelli; questo mi alleggerisce la noja di una simile andata. Già le
betulle si ravvivano all'alito di primavera, e par che se ne senta anche il
pino; — e perché non ne verrebbe vigore anche alle nostre membra?
Mefistofele. In
verità io non ne ho un sentore al mondo; sono una natura invernale, e
vorrei piuttosto neve e ghiaccio sul mio cammino. Guarda come sorge lenta la
luna fra quegli infuocati vapori! Come è mesto il lume della sua logora
faccia! Fa sì poco chiaro che a ciascun passo vai a dare del capo in un
albero o in una rupe. Però non ti rincresca ch'io domandi in nostro
ajuto un fuoco fatuo. Ne veggo appunto uno colà che mena attorno
giocondamente la sua fiammella. Olà, amico, poss'io pregarti di venirne
verso di noi? Che vuoi tu starti colà ad ardere indarno? Vien qua, in
buon'ora, e fanne lume su per la salita.
Il Fuoco
Fatuo. Per buon rispetto io m'ingegnerò di correggere il mio
leggier naturale; ma ben sapete che noi abbiamo per costume di andare a zigzag.
Mefistofele. Eh, eh!
egli si studia di contraffare gli uomini. Va via dritto in nome del diavolo, o
ch'io ammorzo d'un soffio quel tuo picciol guizzo di vita.
Il Fuoco
Fatuo. Voi siete quassù il padrone, ben me n'avveggo, e
farò come saprò meglio il piacer vostro. Ma badate che in questo
dì la montagna ha addosso gl'incanti e la pazzia, e se un fuoco par mio
deve insegnarvi il cammino, non avete a guardarla troppo pel sottile.
Faust, Mefistofele e il Fuoco Fatuo, cantando a vicenda.
Nel
paese de' sogni, nel regno
Degl'incanti
or mettiamo i vestigi.
Fatti
onore, dimostra l'ingegno,
Ben
ne guida per l'ombre e i prestigi,
Sì
che ratto usciam fuori all'aperto
Su
lo sterile giogo deserto.
Ve' come rapidi
Indietro
fuggono
Arbor
dopo arbori
Ve'
come i vertici
De'
monti girano,
Come
traballano,
E
si dirupano!
Come
i lunghissimi
Nasi
degli orridi
Macigni
russano,
Come
trombettano!
Giù per sassi e verdi clivi
Si
devolvon freddi rivi.
Odo
io 'l fremer de' torrenti?
O
il rombar odo de' venti?
O
son gemiti d'amanti?
Son concenti di quei belli
Di
che il ciel spiegava l'ali
O
son giubili, o son canti?
Vêr
la terra, e da fratelli
Visser
gli angeli e i mortali?
Soave all'anima
Speme
m'infondono,
E
desir trepidi!
Mi torna il giovine
Tempo
nel cor;
Gli
spirti tremano
Ebbri
d'amor.
E le strane arcane note
L'eco
mesta ripercote
Via
per l'erta, come oscuro
Suon
de' secoli che furo.
Gufi! Allocchi! non odi? e pavoncelle.
E civette ogni intorno! E le ghiandaje
Son tutte deste anch'elle?
Son
salamandre qui per le prunaje?
O che pance! o che gambe!
E le radici in forma di serpenti
Su per gli scogli vanno
Vagando e per le ghiaje;
E ne annodan di strambe
Maravigliose, e danno
Subitani spaventi.
Giù dall'arbor viventi
Corron triboli e rovi,
E dov'è che il piè movi
T'avviluppi, t'impacci,
Sei colto in mille lacci.
Topi dipinti di color diversi
Van per le felci della landa in
frotte,
E luccioloni volan per la notte
Con tai folgori quai mai non
vedèrsi.
Ora dal vento spersi,
Or addensati sul cammin malvagio,
Ne addoppiano il disagio.
Ma su, dimmi: Stiam noi, o andiam noi?
Tutto tutto qui il monte si gira
Con le rupi e cogli arbori suoi.
O, che giochi ne fan! Mira mira
Immillarsi i volubili fochi
E gonfiare e scoppiare! O, che
giochi!
Mefistofele. Tienti
saldo al lembo del mio mantello. Qui su a mezzo la costa è una roccia da
dove vedrai con tua gran maraviglia come Mammone arda per tutta la montagna.
Faust. Che strano
chiarore si accende colaggiù alle falde, e s'interna fin entro le
più profonde gole del monte! Là sorge un fumo, colà
esalano pingui zolfi; e da quel lato balena fuori dai vapori una luce che,
trasformandosi, ora discorre per l'aria in sottili filamenti, ed ora prorompe a
guisa di grandi polle d'acqua. Ivi se ne va via serpendo per la valle, diramata
in cento rigagnoli, e là oltre, s'ingorga e frange giù tra i
macigni. Qui da presso piovigginano scintille, simili a sparnicciata arena
d'oro. — Ma guarda, come quella petrosa giogaja si affuoca tutta lunghesso la
cima!
Mefistofele. Non ti pare
che il nostro Mammone abbia superbamente illuminato la sua reggia per simil
festa? O tua gran ventura che hai veduto questo! Parmi già udire il
furibondo accorrere dei convitati.
Faust. Come
imperversa la procella per l'aria! e che fieri buffi mi da dietro nella coppa!
Mefistofele. Ghermisci i
vecchi scheggi di quella rupe, che il turbine non ti rovini giù nel
profondo. Una grossa nebbia raddensa la notte. Odi risonare di grandi scrosci
la foresta, e i gufi svolazzare di qua e di là pieni di spavento! Odi
scheggiarsi le colonne di questi palagi di eterna verdura; — odi il cigolare e
il frangersi dei rami; il violento squassarsi dei tronchi, lo svellersi e lo
squarciarsi delle radici! E rami
e tronchi e ceppi s'intralciano, si avviluppano, si dirompono, e mirando vanno
giù ad accatastarsi nei fondi declivi del monte, dove fra i loro rottami
ulula e sibila il vento. Odi tu voci su in alto? — di lontano? — da presso?
Sì certo tutta la montagna risona di un tempestoso magico canto!
Streghe in coro.
Traggono al Broken le Streghe in
masnade.
La stoppia è gialla ed è verde
la biada.
Sovra
la cima è il solenne ridotto;
Là
siede Uriano sul sasso dirotto.
Vassi
per greppe, per bronchi e per stecchi.
Le
streghe t-o, putano i becchi.
Voce. La vecchia Baùbo, vien sola
soletta;
Sur
una scrofa ella monta alla vetta.
Coro. Onore, onore a chi onor si conviene!
Onore
a Baùbo, a madonna che viene.
O,
che mirabil scrofa cavalca!
E
che codazzo di streghe! che calca!
Voce. Tu che via festi?
Voce. Passaimene presso
All'Inselstaino.
Ivi dentro d'un fesso
È
una civetta; — nessuno la tocchi!
Volli
guatarvi, e m'ha fatto un par d'occhi!
Voce. Perché
sì forte? Deh, va in tua mal'ora!
Voce. E m'ha graffiata che sanguino ancora!
Coro di
Streghe.
La
via è larga, per tutti v'è loco:
Questo
affollarsi è un orribile gioco!
Scopa
ti pettina, forca ti stroppia;
Affoga
il bambolo, la madre scoppia.
Stregoni— Semicoro.
Il
nostro andare è un andar di lumaccia;
Ve'
come innanzi ogni donna si caccia!
Che
quando a casa del diavolo vassi
Le
donne han sempre su noi mille passi.
L'Altro
Semicoro.
Cotesto
è grande sottilizzamento:
Se
in mille vanci le femmine drento,
Ancor
che vadan più ratte che sanno,
D'un
salto gli uomini drento ci vanno.
Voce (all'insù).
Vien
su! Ti sferra dai sassi se puoi.
Voce (all'ingiù).
Noi
volentier su verremmo con voi
Siam
lindi e lucidi, garbo abbiam molto;
Ma
tutto è indarno; il salire n'è tolto.
Ambo i Cori.
Le
stelle fuggono, l'aer s'abbonaccia,
La
luna vela la mesta sua faccia.
Ronzando
i magici festivi cori
Sprizzan
per l'ombre infiniti fulgori.
Voce (all'ingiù).
Aspetta,
aspetta! Deh, siimi cortese!
Voce (all'insù).
Laggiù
chi grida tra l'orride scese?
Voce (all'ingiù).
Teco
mi togli! deh, teco mi togli!
Da
trecent'anni vo su per gli scogli
Né
posso al sommo condurmi; e starei
Pur
volontieri lassù co' par miei!
Ambo i Cori.
Porta
la scopa, la forca, il bastone;
Per
l'aer valica ratto il caprone.
Se
per salir non sai oggi aver ali,
Tu
se' spacciato, in eterno non sali.
Semistrega (all'ingiù).
Io,
da gran tempo per sorger mi affanno
O
quanto gli altri già innanzi mi stanno!
Senza
riposo è la tresca de' piedi,
E
son pur sempre quaggiù, come vedi.
Coro di
Streghe.
Le
streghe tiran vigor dagli unguenti;
Per
vela un cencio puoi spargere ai venti;
E
buona barca di un truogolo fai.
Chi
non vola oggi non vola giammai.
Ambo i Cori.
E
quando sòrti sarem su l'altura
Radiam
col volo la vasta pianura;
Tutta
copriam la campagna via via
Col
nostro stormo di stregoneria. (Si calano.)
Mefistofele. Vedi
l'affollarsi, l'urtarsi, il rimescolarsi che costoro fanno. E strillano e mugolano e cinguettano e
ronzano e zufolano; e sfolgorano e sfavillano, e putono ed ardono! Oh, il
grandissimo indiavolio! Tienti bene stretto a me che non ci smarriamo nella
folla. Olà, dove sei tu?
Faust (di
lontano). Qui!
Mefistofele. Po'!
già trasportato fin là? Or via, qui mi convien fare da padrone di
casa. Largo! il cavalier Volante! su largo, graziosa marmaglia! Fate strada!
Qua, dottore, afferrami, e d'un salto vediam di gettarci fuori di questo
scompiglio, ch'io medesimo mal so reggere a tante mattezze! Quindi poco
discosto splende non so che cosa di un lume così nuovo, ch'io mi sento
trarre verso quel prunajo. Vientene, vientene! facciamo di guizzare fin
là.
Faust. O viluppo
di contraddizioni che tu se'! Ma va, fa di me il piacer tuo. Gran senno
è il nostro veramente! C'inerpichiamo sul Brocken per godere della
Valpurga, e nel bello dello spasso ne piace star soli.
Mefistofele. Eh via,
mira là quelle fiamme tutte screziate! Sono una briosa combriccola; e
ben sai che in piccola compagnia l'uomo non è solo.
Faust. Io
nondimeno n'andrei più volentieri lassù. Già veggo levarsi
la vampa, e avvolgersi il fumo; — ed oh, come tutti traggono in calca verso il
Maligno! Là certo vi si deono sciogliere molti enigmi.
Mefistofele. E del pari molti enigmi vi si
avviluppano. Or tu lascia fervere il gran mondo; e noi c'incantucceremo qui in
pace; che già per antico l'uomo gode di comporsi un suo piccolo mondo
nel gran mondo. Veggo colà alcune giovani stregoncelle tutte nude, ed
altre vecchie che fanno gran senno a coprirsi. Or tu sii cortese per amor mio,
e per poca fatica avrai gran diletto. Odo risonare non so che istrumenti. Che
maledetto baccano! Ma bisogna assuefarvisi. Vien via meco, vieni: egli non
c'è scampo. Io vo innanzi e t'introduco alla lor compagnia: e tu mi
avrai nuovo obbligo di nuovi servigi. Ehi, che ne dici, amico? Ti par egli un
picciol luogo questo? Tendi l'occhio in là, a pena ci vedi in fondo. Un
centinajo di fuochi ardono tutti in fila, e vi si balla, vi si ciancia, vi si
cuoce, vi si bee, vi si fa all'amore. Or mi di' se potremmo star meglio
altrove?
Faust. Come vogliam
noi introdurci a costoro? Pensi tu di darti per mago o per diavolo?
Mefistofele. Veramente
io ho per uso di andare incognito. Se non che ne' dì di gala ognuno sta
sull'onorevole, e mostra i suoi ordini. Io non ho la giarrettiera che mi
segnali, ma quassù è in gran riverenza il piè di cavallo.
— Vedi tu là quella lumaca? Ella vien via strisciando lenta lenta, e col
menare intorno delle corna ha già avuto qualche fumo di me; ond'io non
riuscirei a celarmi dove pure lo volessi. Su, vientene; andremo di fuoco in
fuoco; tu sei l'amoroso ed io il dimandante. (Ad alcune persone sedute
intorno a carboni mezzo spenti.) Che fate voi costì in un angolo,
miei vecchi signori? Molto vi loderei se vi vedessi darvi buon tempo nel bel
mezzo del trambusto e dell'allegra gioventù; ché ognuno ha tempo di
covar le ceneri in casa.
Un Generale.
Il
mondo è ingrato, e vivere in affanno
Per
l'util della patria è gran follia;
Il
popol fa quel che le donne fanno;
I
giovani vezzeggia e i vecchi oblia.
Un Ministro.
Il
mondo di dì in dì cade più in basso,
E
per me son co' vecchi: i vecchi onoro;
Che
quando noi facevam alto e basso,
I
popoli godean l'età dell'oro.
Noi
pur non fummo gonzi veramente,
Un Nuovo
Ricco.
E
del ladro anche avemmo un cotal poco;
Ma
la fortuna si mutò repente,
Allor
che più parea farne buon gioco.
Un Autore.
Da
chi, da chi i buon libri oggi son letti!
O
che crassa ignoranza! o che cervelli!
Quanto
ai leggiadri nostri giovinetti
Non
fur mai visti simil saputelli.
Mefistofele (apparendo
a un tratto un vecchione).
Il
nuovissimo dì certo è vicino:
Addio
bel monte! addio leggiadra corte!
Conciossiachè
io sono al lumicino,
Così
anche il mondo è vecchio e in fin di morte.
Strega
Rigattiera. Signori miei, non passino oltre a quel modo; non lascino
fuggire l'occasione. Veggano, veggano che fiore di mercante! Qui v'è di
tutto; e son nullameno tutte cose rarissime e senza eguali in terra; tutte
famose per qualche gran malanno recato, quando che fosse, agli uomini e al mondo.
Io non ho in bottega un pugnale dal quale non sia grondato sangue, non una
tazza che non abbia dato a bere un segreto veleno, e distrutte le più
robuste complessioni; non un ornamento che non lasciasse una donna da bene; non
una spada che non rompesse un'alleanza, o non trafiggesse l'avversario alle
spalle.
Mefistofele. Madonna,
voi conoscete male i tempi. Quelle cose vostre sanno dell'antico, e ciò
che è stato è stato. Provvedetevi, in buon'ora, di novità,
che le novità sole possono allettarci.
Faust. Io son mezzo
fuori di me. Questa in ultimo non è che una fiera!
Mefistofele. La turba
trae tutta insieme all'insù. Tu credi di sospingere e sei sospinto.
Faust. Dimmi, chi
è colei?
Mefistofele. Mirala
bene! Ell'è Lilith.
Faust. Chi?
Mefistofele. La prima
moglie di Adamo. Guardati dalla sua bella capigliatura, quell'unico ornamento
di cui faccia pompa; che dove ell'abbia allacciato con essa alcun giovane, nol
lascia andare così di leggieri.
Faust. Vedine qua
due a sedere: la vecchia con la giovine a canto; e par ch'ell'abbiano
già saltato ben bene.
Mefistofele. Stanotte
son senza requie; e già rientrano in ballo. Su, lesti! veggiam di
pigliarcele.
Faust (ballando
con la giovine).
Una volta un bel sogno fec'io:
Vedea
un melo, e sovresso due belli
Tondi
pomi; men venne desìo,
E
sul melo salii per avelli.
La Bella.
Il desio delle tonde pomelle,
Figli
d'Eva, in voi nasce con voi.
Molto
godo che anch'io d'assai belle
N'ho
in giardino; le cogli se vuoi.
Mefistofele (con la
vecchia).
Una volta un mal sogno fec'io:
Vedea
un'arbore fessa per mezzo;
E
nell'arbore...;
Benché...
gli feci buon vezzo.
La Vecchia.
Me le inchino umilissimamente,
Cavaliere
dal piè di cavallo.
Son
quell'arbore, ho... patente,
...,
se a schifo non ballo.
Proctofantasmista. Maledetta
ciurmaglia! Che pazze licenze son queste? Non ve l'abbiamo noi già
provato e riprovato le mille volte? Uno spirito non deve mai stare
compostamente in sui piedi; ed ecco voi ballate in tutto alla guisa di noi
uomini!
La Bella (danzando).
Che borbotta costui del nostro ballare?
Faust (danzando).
Eh, egli si ficca da per tutto. Quand'altri balla bisogna ch'egli lo commenti e
lo giudichi; e se non può bisbeticare su ciascun passo, egli è
come se il passo non fosse fatto. Sovra tutto poi gli monta la stizza, quando
ne vede ire innanzi. Se vi piacesse di volgervi continuamente in giro, come
suol fare egli nel suo vecchio molino, forse troverebbe che ogni cosa sta a
perfezione, specialmente se tratto
tratto voleste fargli un profondo salamelecche.
Proctofantasmista. E ancora siete lì? Egli
è insopportabile! Orsù, sparite! Noi abbiamo dilucidato ogni
cosa, noi! La plebaglia de' diavoli non vuol freno né regole. Noi siam pieni di
senno, e vanno attorno per Tegel non so che spettri. Quanti anni or sono che
noi ci travagliamo a dissipare sì fatti errori! e il mondo non è
ancor bene stenebrato. Egli è veramente insopportabile!
La Bella. Vattene
dunque, e non ci rompere più il capo con le tue ciance.
Proctofantasmista. Spiriti, io
ve lo dico in faccia; io non so patire uno spirito soverchiatore; il mio
spirito non soverchia mai. (Continua la danza.) Oggi, ben veggo, non ne
verrai a capo in nessun modo; ma io sono pur sempre disposto a fare un viaggio,
e spero ancora, prima ch'io sloggi dal mondo, di dare lo sfratto ai diavoli ed
ai poeti.
Mefistofele. Egli va
dritto dritto a sedersi in una pozzanghera, ché quest'è il suo
quotidiano refrigerio, e quando le mignatte si sieno ben bene sfogate in
succhiargli le natiche, egli è ad un tempo guarito degli spiriti e dello
spirito. (A Faust, che è uscito di ballo.) Perché hai tu lasciato
andare quella vezzosa fanciulla che danzando ti cantava sì dolcemente?
Faust. Ah! nel bel
mezzo del canto le è schizzato di bocca un topolino rosso.
Mefistofele. Egli
è assai semplice; e non bisogna stare così sulle sottigliezze:
bastiti che il topo non fosse bigio. Chi può darsi fastidio di simili
baje sul buono di appicare l'uncino?
Faust. Poi vidi...
Mefistofele. Che?
Faust. Mefisto,
vedi tu là lontano una bella e smorta fanciulla, che si sta tutta sola
in disparte? Ella si ritrae lenta lenta, e all'andare direbbesi che avesse i
piedi ne' ceppi. In verità a me pare ch'ella somigli alla buona
Margherita.
Mefistofele. Deh, lascia
andare! ché non ne esce alcun bene. La è una figura magica, inanimata,
un idolo. Male ne piglia a chi le si pone innanzi: quell'assiderato suo sguardo
assidera il sangue, e l'uomo n'è rapidamente convcrtito in sasso. Tu hai
certo udito narrare di Medusa.
Faust. Veramente
son gli occhi di un morto, che non furono chiusi da una mano benevola. Quello
è il seno che Ghita mi ha conceduto; quello il soave corpo di lei!
Mefistofele. Quello
è tutto stregoneccio, o pazzo che sei, da lasciarti così subito
affascinare! Sappi che a ciascuno ella sta innanzi in forma della donna ch'egli
ama.
Faust. Che
dolcezza! — ed oh, che struggimento! Io non so levarmi da quella vista. Ed
è pure strano quel nastricello rosso posto come per vezzo intorno al suo
bel collo, non più largo del dosso di un coltello.
Mefistofele. Tu di' il
vero; e il veggo io pure. Ella potrebbe anche portare il suo capo sotto
l'ascella, però che Perseo gliel'ha reciso. E tu andrai sempre così pazzo delle illusioni!
Orsù, vientene là in vetta a quel poggio, che ti ricreerai come
se tu fossi a Vienna nel Prater; e s'io non ho le traveggole, ivi è
veramente un teatro. Ehi! che è quel che si prepara costà?
Servibilis. Si
ricomincia subito. Una nuova farsa e l'ultima delle sette; ché tante appunto
noi sogliamo darne quassù. Essa fu scritta da un dilettante, e
sarà recitata da dilettanti. Signori, io mi vi scuso se sparisco, ma io
mi diletto di alzare il sipario.
Mefistofele. Piacemi di
trovarvi sul Blocksberg; che qui siete in luogo degno di voi.
sogno
della notte
di Valpurga
ovvero
le auree
nozze
di oberon e
Titania
intermezzo.
Il Direttore
del Teatro.
Noi
di Midingo siamo gli strioni
Ch'oggi
abbiam festa, e qui appariam da sezzo.
Acquosa
valle ed orridi burroni
L'unica
scena son dell'intermezzo.
Messaggiero.
Se cinquant'anni in tutti son rivolti
Auree le nozze diconsi fra noi;
Ma se son lieti i cor, sereni i
volti,
Io auree nozze dico e prima e poi.
Oberon.
Se meco siete, o spirti, orsù
scoprite,
Che giunto è tempo, il vostro
aerio coro;
Titania ed Oberon non han più
lite;
Novello amor li stringe a nozze
d'oro.
Puch.
Ecco vien Puche di traverso e a sesta
Gira nel ballo il piè radendo
il suolo.
Cent'altri spirti fan per l'aer
festa,
Ma il più bello è Ariel
del bello stuolo.
Ariel.
A' begl'inni Arïel la bocca
scioglie
E quai son note più sincere
avanza;
Qualche insoave fior talvolta ei
coglie,
Ma fior sovente d'immortal fragranza.
Oberon.
Sposi, che avete il cuor pien di
rancori,
Fate profitto dell'esempio nostro;
Se v'è in desio tornar ai
dolci amori,
Ite ver borea l'un, l'altro ver
ostro.
Titania.
La moglie ha il capo pien di grilli,
e forte
Sbuffa il duro marito? Ambo gli
afferra,
Quella al merigge, porta questo al
norte,
Ed interpon fra lor mezza la terra.
Orchestra. (T.)
Becchi di mosche e nasi di zanzare,
E pance di cicale allo scoverto;
Ranocchi in fronde e grilli per le
ghiare
Son le viole e i flauti del concerto.
Solo.
Come una bolla tonda di sapone,
La cornamusa or vien dal sacco
enfiato,
Odi il suo rantolar, bada al bordone
Che manda fuor dal naso rincagnato.
Spirito (che va
formandosi).
Ventre di botta e denti di tignuola
E pie' di ragno e alucce al
mammoletto;
Se mai fuor non n'uscisse una
bestiuola,
Fuor n'uscirà un rimbombo, un
poemetto.
Una coppia
amorosa.
Per la melata e i roridi fioretti
Sai dare un passettino, un
salterello.
In ver non senza garbo mi sgambetti,
Ma non ti levi mai per l'aria snello.
Viaggiatore
curioso.
Siam noi di carneval? son veri dei
Che per qui vanno o liete mascherate?
O gioia! io potrò dir: Cogli
occhi miei
Vidi il bello Oberon, re delle Fate.
Ortodosso.
Corna né branche egli non ha, né
coda!
E che fa questo a me? Che se gli Dei
Di Grecia eran demoni, ed ei li loda:
Io vi concludo ch'è un demonio
anch'ei.
Artista del
nord.
Or l'opre mie non son che esperienze,
Non son che bozze, e un far di
fantasia;
Ma quando visto avrò Roma e
Firenze,
Nessun mi andrà di par
nell'arte mia.
Purista.
Oimè, il malanno infra costor
mi ha messo
Mai tal pazzie non vidi! E delle Fate
In tanto innumerevole consesso
Non più di due ne scerno
incipriate.
Strega
giovane.
Cipria e gonnella molto stanno bene
A corpi attempatelli ed a crin
bianchi;
Nuda del capro mio premo le rene,
E mostro giovin petto e colmi
fianchi.
Matrona.
A noi, che dame siam, starebbe male
Contendere con voi di simil sfoggi.
Voi pure il tempo toccherà con
l'ale,
Diman sarete quel che noi siam oggi.
Maestro di
cappella.
Becchi di mosche e nasi di zanzare,
Non vi affollate a quelle nude
intorno;
Ranocchi in fronde e grilli per le
ghiare,
Su state in tuono in sì
mirabil giorno.
Banderuola
volta da un lato.
O bel consorzio che fa il cor
giocondo!
Qui vaghe spose son, qui garzonetti
De' quai non vede i più leggiadri
il mondo,
Illustre sangue tutti, e spirti
eletti.
Banderuola
volta dall'altro lato.
E se non s'apre il suolo e questa
sora
E vana gente tutta non ingoja,
Mi getterò in inferno in mia
malora.
Meglio l'inferno assai che tanta
noja.
Xenie.
Con forbicine taglienti e pungenti
Insetti siamo, accorsi a questo
spasso
Per rendere gli onor convenïenti
A nostro babbo sommo Satanasso.
Hennings.
Ve' quello stormo come s'affaccenda,
E punge e morde e assai fa del
dottore;
E di lor tresche usciti, per ammenda,
Anco verranti a dir c'hanno buon
core.
Musagete.
Grato m'è assai l'andar per le
confuse
Carole del Blosberg; che in veritate.
Anzi che i cori dell'aonie Muse,
Son abile a guidar quei delle Fate.
Ci-devant
Genio del Tempo.
Se qual cosa esser vuoi tienti alle
terga
Di quei che sanno. Nel mantel mi
piglia!
Per l'ampio suo cocuzzolo il
Blosberga
Al Parnaso alemanno s'assomiglia.
Viaggiatore
Curioso
Chi è costui che sta
così in sul grande
Con la testa alta e coi passi
spediti?
Ei fruga e annasa da tutte le bande.
“Gli è un che dà la
caccia ai gesuiti.”
Grua.
Io pesco volentier nell'acque chiare,
E nelle torbe pesco parimente;
Così tu vedi andarne a pare a
pare
Qui co' dimoni la devota gente.
Mondano.
Tutto a' devoti, io non vi dico baja,
Ne' lor andirivieni è buon
veicolo;
E sul Blosberga, senza che si paja,
Hanno fondato più d'un
conventicolo.
Ballerino.
Parmi, o di là sen vien per la
foresta
Novello coro? Odo da lunge il lieto
Tamburellare. Oh, state! egli
è la mesta
Canzon del monachino infra il
canneto.
Maestro da
ballo.
Ciascun mena le gambe a saltelloni,
E come meglio sa si disimpaccia:
Balla il bilenco, ballano i buzzoni;
Chi scuoter non sa i piè,
scuote le braccia.
Violinista.
Sol di quei salti il mascalzon
s'adira.
Che profittar vorria dell'aria bruna.
Tutte le bestie qui, come la lira
Solea d'Orfeo la cornamusa aduna.
Dogmatico.
Le mie opinïon non mi son smosse
Mai da sofisti, né da criticanti;
Se fosse ver che il diavol non vi
fosse,
Io non vedrei quassù diavoli
tanti.
Idealista.
Ben questa volta in me la fantasia
Ha preso il sopravvento alla ragione;
Perché, se è ver che tutto
quanto io sia,
Oggi son anche un pazzo da bastone.
Realista.
Ahi, l'entità s'è fatta
il mio tormento;
Ed oggimai m'è andata nelle
rene;
Quassù la prima volta ecco mi
sento
Tutto tremar su' piedi; — oh, chi mi
tiene!
Soprannaturalista.
Beato me che simil visïoni
Mi son concesse! Poi che da
quest'irti
Cipigli di fantasmi e di demoni
M'è dato argomentarne i buoni
spirti.
Scettico.
Seguendo le fiammelle ognuno estima
Che per la traccia v'ha di gran
tesoro.
Or poiché Zweifel con Teufel rima
Dove potrei me' star che infra
costoro?
Maestro di
cappella.
O di ranocchi matto gracidare!
O grilli, dilettanti senza onore!
Becchi di mosche, nasi di zanzare,
Far non sapete al canto altro tenore?
I Lesti.
Noi, turba grande sanssouci
Destri e faceti a tutti facciam
festa;
Or che sui piè star non
possiamo eretti.
Mirabilmente andiam sopra la testa.
I Goffi.
Oimè i bei desinari,
oimè le gaje
Cene, oimè il tempo che non fa
ritorno
Strutte danzando abbiam sin le
tomaje,
Ed a piè nudi or sgambettiamo
attorno.
Fuochi
fatui.
Noi siamo del padul novella prole,
A questa altezza sorti dalla gora;
E belli già splendiam nelle
carole;
Tanto avanzar si puote in poco d'ora.
Stella
cadente.
Simile a stella lucida ed accesa
Io caddi giuso dall'eteree vette;
E qui nell'erba sto lunga distesa.
Oh, chi sovra le gambe mi rimette?
I Massicci.
Largo, largo! su, fatevi da fianco!
Spianansi l'erbe sotto le gravi orme!
Spiriti e' sono, ma gli spiriti anco
Han goffe membra spesso e ventre
enorme.
Puch.
Via non andate attorno sì
panciuti!
Elefantuzzi mi parete al passo;
Il sollazzevol Puch fra tanti arguti
Spirti si paja il più milenso
e crasso.
Ariel.
Se a voi benevol diede ali natura,
Ed ali dié l'ingegno e il cor
gentile,
Meco poggiate al monte ove la pura
Olezza infra i roseti aura d'aprile.
Orchestra
pianissimo.
Squarciansi in ciel le nubi, e lento
lento
Alle valli la nebbia si raccoglie;
Nei rami l'aura, e nelle canne il
vento,
E la volubil vision si scioglie.
Tempo triste
Faust e Mefistofele.
Faust. Nella
miseria! Disperata! Lungamente tapina sovra la terra, ed ora prigioniera!
Quella soave anima, gettata come un malfattore in un carcere, è
riservata a tormenti spaventevoli! fin là! fin là! — Perfido,
indegnissimo spirito, e tu mi hai tenuto nascosto ogni cosa! — Sta, sta qui
ora! Torci minaccioso in qua e in là que' tuoi occhi diabolici! Statti,
e insultami della tua insoffribile presenza! Prigioniera! In rovina
irreparabile! Data in preda ai mali spiriti, e alla spietata giustizia degli uomini! E tu intanto mi allettavi a schifosi
dissipamenti, mi celavi le sue crescenti miserie, e la lasciavi priva di ogni
soccorso perire.
Mefistofele. Non
è la prima.
Faust. Cane! belva
abbominevole! Oh, mutalo, infinita sapienza, muta quell'abbiettissimo nella sua
prima! forma di cane; tornalo qual egli era, quando si dilettò di
saltarmi innanzi la notte; di
voltolarsi a' piedi del pacifico viandante, per gittarsegli di poi sulle
spalle, allorché lo avesse stramazzato. Travolgilo nella prediletta sua forma,
talché si strascini sul ventre dinanzi a me nella polvere, ed io lo pesti coi
piedi, il reprobo! Non è la prima! Oh, miseria! miseria! Nessun'anima
umana potrà mai concepire come più di una creatura sia cotesta in
tanta profondità di mali, — come la prima, contorcendosi negli spasimi
della morte, non bastasse a riscattare tutte le altre dinanzi all'infinita
misericordia. A me l'affanno di quest'unica strazia profondamente il cuore, e
tu sogghigni placidissimo sul destino delle migliaja.
Mefistofele. Ecco, noi
siamo di bel nuovo fuori dei gangheri. Quest'è il termine dove il senno
degli uomini si smarrisce, e dà in pazzie. Perché vuoi tu fare comunanza
con noi, se sei inetto a tenerci dietro? Vuoi volare e non sai se non ti
girerà il capo. Dimmi, ci siamo noi cacciati intorno a te, o tu intorno
a noi?
Faust. Non
digrignare così contro di me quegli ingordi tuoi denti! Mi fai ribrezzo!
— Eccelso, ineffabile Spirito, tu che hai degnato di apparirmi, tu che discerni
il mio cuore e l'anima mia, perché mi hai tu dato alle mani di questo
ignominioso, il quale si pasce di mal fare e giubila nello sterminio?
Mefistofele. Hai tu
finito?
Faust. Salvala, o
guai a te! Sul tuo capo la più spaventevole delle maledizioni per
migliaja d'anni.
Mefistofele. Io non
posso sciogliere i ceppi del Vendicatore, né disserrare i suoi chiavistélli —
Salvala — Or chi l'ha, dimmi, precipitata? Io o tu?
(Faust guarda torbidamente qua e
là.)
Vai tu cercando la folgore? Gran
fortuna che non fosse conceduta a voi miserabili mortali. Infrangere chi ti si
fa innocentemente incontro, è il modo con che i tiranni si disfogano ne'
loro frangenti.
Faust. Conducimi a
lei, e saprò io liberarla!
Mefistofele. E il pericolo al quale ti metti? Ben
sai che giace tuttavia sulla città il sangue che tu hai scelleratamente
versato di tua mano. Spiriti vendicatori si aggirano sul sepolcro del
trucidato, e spiano il ritorno dell'assassino.
Faust. Questo
ancora ho da udire da te? Mostro, sopra di te la morte e la perdizione di un
mondo! Guidami a lei, dico, e la libera.
Mefistofele. Io ti
sarò scorta, e quanto posso fare, odi. Ho io ogni podestà in
cielo ed in terra. Offuscherò i sensi del carceriere, e tu intanto
impossessati delle chiavi, e traggila fuori da te; ché non può esser
fatto che per mano dell'uomo. Io veglierò. I cavalli magici saranno in pronto, e vi rapirò meco
lontano ambidue. Tanto io posso.
Faust. Su, e via!
Notte. Campagna aperta
Faust e Mefistofele avventandosi innanzi su
neri cavalli.
Faust. Che
è ciò che si lavora colà intorno a quelle forche?
Mefistofele. Non so che
vi bolla, né che vi si macchini.
Faust. Vanno in
su, vanno in giù; si curvano, si gettano a terra.
Mefistofele. È un
ridotto di streghe.
Faust. Spargono e
consacrano.
Mefistofele. Innanzi!
innanzi!
Prigione
Faust con un mazzo
di chiavi e una lucerna, dinanzi una porticciuola di ferro.
Mi prende un insolito tremore; le
miserie dell'umanità si aggravano tutte sul mio petto. Ella abita qui, chiusa fra quest'umide mura, e il
suo delitto fu l'illusione di un
cuore innocente. Tu esiti accostandoti a lei! Tu tremi di rivederla! Su, entra!
Il tuo sgomento le tiene la mannaja sul collo.
(Pone la mano sul chiavistello. Si
ode cantare di dentro.)
Quella bagascia di mia madre mi ha
ucciso; quel manigoldo di mio padre mi ha mangiato; e mia sorellina piccina ha
deposte le mie ossa in un sito rimoto, al rezzo. Là io mi son mutato in
un bell'uccellino del bosco. Vola via, vola via!
Faust (schiudendo
la porta). Ella non presente che quegli ch'ell'ama sta ascoltandola;
ch'egli sente lo stridere delle sue catene e il fremito della paglia su cui
giace. (Egli entra.)
Margherita (nascondendosi
nel suo covaccio). Oimè! oimè vengono! Orribile morte!
Faust (sottovoce).
Taci! taci! io vengo a liberarti.
Margherita (traendosegli
innanzi). Deh, se tu sei uomo, abbi pietà della mia miseria!
Faust. Sta cheta!
Con le tue strida desterai i custodi. (Piglia le catene per iscioglierle.)
Margherita (in
ginocchioni). Carnefice! chi ti ha dato questo potere sopra di me? Tu vieni
a prendermi di mezzanotte. Abbi pietà, e lasciami vivere. Verrai domani
sull'alba; ahi, sarà già per tempo domani sull'alba! (Si leva
in piedi.) Sono ancora così giovane, così giovane! e
già devo morire! Ed io ero anche bella, e di qui è nata ogni mia
rovina! Allora l'amor mio era vicino a me, ma oh, adesso egli è lontano.
La mia ghirlanda è straziata, e i fiori ne sono sparsi.
— Non mi afferrare così
ruvidamente; deh, abbimi qualche riguardo! Che ti ho fatto io? Non voler che io
pianga e supplichi indarno! Sai ch'io non ti ho mai veduto nella mia vita!
Faust. Ahi, io non
so sostenere tanto affanno!
Margherita. Tu vedi, io
son tutta in tuo potere. Sol lascia ch'io allatti prima il mio figliuolino. Io
l'ho accarezzato e baciato tutta notte; poi me l'hanno tolto per tormentarmi,
ed ora dicono ch'io l'ho ucciso. Oh, io non sarò mai più lieta!
Essi cantano non so che canzoni sopra di me, il che non è da gente da
bene. Una vecchia novella finisce così, — chi ha insegnato loro ad
applicarla ad altri?
Faust (gittandosele
ai piedi). Quegli che ti ama sta ai tuoi piedi, per iscioglierti dalle tue
dolorose catene.
Margherita (gittandosi
a terra presso di lui). Sì, inginocchiamoci a pregare i Santi.
Guarda! sotto quegli scaglioni, lì sotto il limitare sobbolle l'inferno.
Odi con che orrendo furore strepita lo spirito maligno.
Faust (alto).
Ghita! Ghita!
Margherita (stando
attenta). Fu la voce dell'amico mio! (Sbalza in piedi. Le sue catene
cadono.) Dov'è? L'ho udito chiamarmi. Io son libera, e nessuno
potrà ritenermi! Voglio sospendermi al suo collo; voglio giacere sul suo
petto. Egli ha chiamato Ghita! e stava sulla soglia. Ho riconosciuto l'amabile
suono della sua voce fra gli urli furibondi dell'inferno e gli scherni atroci
dei demoni.
Faust. Sì,
son io!
Margherita. Sei tu! Oh,
dillo, dillo un'altra volta. (Afferrandolo.) È lui! è lui!
Tutti i miei dolori sono dissipati. Dov'è il carcere? dove i ceppi? Sei
tu! Tu vieni a salvarmi! — Sono salva! — Ecco la via dove ti ho veduto la prima
volta; quell'è il felice giardino dove Marta ed io ti abbiamo aspettato.
Faust (sforzandosi
di condurla fuori). Vien via! Vien
via!...
Margherita. Oh, statti!
ch'io sto pur volentieri dove tu stai. (Lo vezzeggia amorosamente.)
Faust. Ti
affretta! Ogni poco che tu indugi può costarne assai caro.
Margherita. E come? tu non sai più
baciarmi? Da sì poco tempo, amor mio, sei diviso da me, ed hai
già disimparato a baciarmi? Perché son io sì turbata nelle tue
braccia? E, fu un tempo che una tua parola, un tuo sguardo m'inondava l'anima
di celeste dolcezza; e tu allora mi baciavi come se tu volessi soffocarmi.
Baciami! o ti bacio io! (Lo abbraccia.) Ahi! ahi! le tue labbra son
fredde — mute! Dov'è l'amor tuo? Chi ti ha tolto a me? Chi mi ha
involato il tuo amore? (Si rivolge da lui.)
Faust. Vieni!
Seguimi! fatti animo, mia cara! Io ti accarezzerò e bacerò con
mille volte più di ardore che non ho mai fatto; ma seguimi, per
pietà! Di questo solo ti supplico.
Margherita (volgendosi
a lui). E sei tu adunque? Sei
tu da vero?
Faust. Son io,
sì! Vientene meco!
Margherita. Tu sciogli
i miei ceppi; tu mi riprendi nel tuo grembo.
E non hai tu ribrezzo di me? Sai tu, amor mio, chi tu vuoi liberare?
Faust. Vieni!
vieni! Già la notte si dirada.
Margherita. Ho ucciso
mia madre; ho affogato il mio figliuolo. Il mio! — non era egli dato a te ed a
me? a te pure. Sei tu da vero? A pena io mel credo. Dammi la tua mano! — non
è sogno — la tua cara mano! Ma oimè, ell'è umida!
asciugala. Mi par come che sia intrisa di sangue. Dio mio! che hai tu fatto?
Riponi la spada; te ne prego.
Faust. Lascia
stare il passato, Ghita, ché tu mi uccidi.
Margherita. No, bisogna
che tu sopravviva. E ti
dirò ora come tu hai a disporre le sepolture; ne avrai cura domattina
per tempo. Darai a mia madre il miglior posto, e stretto al suo fianco tu
porrai mio fratello; e porrai me un poco da parte, ma non troppo discosto! E il mio figliuolino Io porrai sul mio
seno, alla destra. Ahi, nessun altro vorrà giacere al mio lato! —
Coricarmi vicino a te, oh, era pur soave, era pur delizioso! Ma non mi
verrà mai più fatto. Ora mi par come di avventarmi a forza verso
di te, e che tu mi respinga indietro; e tuttavia sei tu, e a vederti pari sì
buono ed amoroso.
Faust. Poiché
conosci che son io, su vieni meco!
Margherita. Là
fuori?
Faust.
Nell'aperto.
Margherita. Là
fuori è la mia fossa, la morte sta in agguato — e tu dici, vieni? Per di
là vassi in luogo di eterno riposo; non un passo più lontano. —
Te ne vai tu, Enrico? Oh, potessi venir teco!
Faust. Tu lo puoi,
sol che tu voglia. La porta è aperta.
Margherita. Non oso
uscire; non ho più nulla da sperare.
E che giova il fuggire? Essi stanno spiandomi. Ed è pur
miserabile di dover mendicare, e sopra più con una triste coscienza!
È pur miserabile l'andare errando agli stranieri! E inoltre mi ripiglierebbero.
Faust. Io
sarò sempre teco.
Margherita. Presto!
presto! Salva il tuo povero figliuolo. Va! segui il sentiero lungo il ruscello,
all'insù — oltre il ponte, nel bosco — a sinistra, dov'è la
cateratta, — nello stagno. Presto afferralo! egli si ajuta per levarsi su;
vedi, si dibatte ancora! Salvalo, salvalo!
Faust. Torna in
te, infelicissima! Un sol passo e sei libera.
Margherita. O, fossimo
al di là del monte! Là mia madre siede su un sasso — mi prende un
gelo al capo! — là mia madre siede su un sasso, e crolla la testa. Ella
non accenna, né guarda, e il suo capo è aggravato. Lassa, ha dormito
tanto che non si sveglia più. Ha dormito perché noi potessimo godere.
Erano giorni beati quelli!
Faust. Poiché non
valgono né preghiere, né esortazioni, io vedrò di rapirti di qui a
forza.
Margherita. Lasciami!
No, non patirò che mi sia fatta violenza. Non pormi addosso così
quelle tue mani micidiali! Fu già un tempo ch'io feci tutto per l'amor
tuo.
Faust. Si fa
giorno! Mia cara! mia cara!
Margherita. Giorno!
Sì, fassi giorno! Sorge l'ultimo giorno. Doveva essere il giorno delle
mie nozze. Non dire a nessuno che tu sii già stato con Ghita. Povera mia
ghirlanda! Or tutto è finito! Noi ci rivedremo, ma non alla danza. Il
popolo si affolla silenzioso: e la piazza e le vie mal possono capirne la gran
moltitudine. La campana dà il segno; il giudice spezza la verga. Oh,
come mi afferrano e mi annodano! Già sono sospinta sullo scanno
insanguinato! e già tremola sul collo di ciascheduno il fendente che
tremola sul mio. Il mondo è tutto muto, simile ad un sepolcro.
Faust. Oh, non
foss'io mai nato!
Mefistofele (apparisce
dentro). Su! o siete perduti. Quante vane paure! quanto titubare e
taccolare! I miei cavalli
rabbrividiscono e già albeggia il mattino.
Margherita. Chi si leva
su dalla terra! Colui! colui! Mandalo fuori! che vien egli a fare nel luogo
santo? Egli mi vorrebbe seco!
Faust. Tu dei
vivere!
Margherita. Giudicio di
Dio! io m'abbandono in te.
Mefistofele (a Faust).
Vieni, vieni! o ch'io ti pianto lì con lei.
Margherita. Padre del
cielo, io son tua! Salvami! E voi
angeli! voi beate legioni, accampatevi intorno a me, e siate in mia custodia!
Enrico! io inorridisco di te.
Mefistofele. È
giudicata!
Voce (dall'alto).
È salvata!
Mefistofele (a Faust).
Via meco, tu! (Sparisce con Faust.)
Voce (nell'interno,
che si dilegua lontano). Enrico! Enrico!
PARTE II
ATTO PRIMO
Un luogo ameno
Faust, sdraiato
sull'erba fiorita, affranto, inquieto, avido di sonno.
crepuscolo.
Ronda di spiriti e di apparizioni
graziose che gli svolazzano intorno.
Ariele (canto
accompagnato dalle arpe eolie). Quando il cielo in primavera dona ai campi
la pioggia, e le bionde spiche allietano gli sguardi degli uomini, stuoli di
silfi gentili volano colà ove sono dolori da lenire, arrecando a tutti,
senza distinzione, il vigore e la vita. Ogni misero che gema oppresso dalla
sventura, sia esso reo od innocente, ha diritto alla loro pietà. Ecco, o
aerei silfi, che aleggiate intorno al suo capo, una bella occasione per fare
onore al vostro nome. — Calmate l'ardente inquietudine dell'animo suo; sviate
da esso l'acuto strale del cocente rimprovero che lo tortura, e sgombrate la
sua coscienza dai terrori onde s'affanna l'umana esistenza. Provvedete
solleciti affinchè i quattro periodi, che la notte beata attraversa sul
suo carro, scorrano soavemente per lui.
E dapprima adagiategli la fronte su guanciali di rose, poi la bagnate
nell'acqua di Lete; fate che le
sue membra intorpidite ritrovino la salute nella calma di questo sonno in
braccio al quale s'avvia verso la nuova aurora; indi compirete la più
cara delle opere vostre, riaprendogli le pupille alla santa luce del giorno.
Coro (a una, a
due, a diverse voci che s'alternano). Quando la sera s'avanza molle di
vapori, e profuma il fresco soffio dell'aria che bacia i fiori e fa ondeggiare
lievemente i prati, susurrategli gentili parole, e, cullandolo come un
fanciullo, addormentate i suoi sensi e la tristezza del suo cuore. Indi posando
amorosamente le vostre dita sulle sue palpebre abbassate, chiudete loro ogni
spiraglio alla morente luce del giorno.
Ma ecco la notte. Gli astri
scintillano gli uni accanto degli altri; l'etere è tutto soffuso di
splendori irradianti, di bagliori fosforescenti, che strisciano davvicino,
brillano allo zenit, si riflettono nelle acque trasparenti del lago, o
tremolano in seno all'oscurità. La luna si leva calma e serena,
distendendo il suo impero sulle valli e sulle acque; larga, luminosa, rotonda,
essa appare in cielo come suggello della felicità, della pace e della
voluttà del riposo che arreca al mondo. Ma anche le ore sono fuggite, e
con esse i dolori ed i piaceri. Fa core! rinasci alla vita, e attendi in pace
un nuovo giorno. Non vedi che il suolo verdeggia, che le colline ammantandosi
di folti cespugli preparano freschi ed ombrosi recessi a chi ha bisogno di
riposo, e che travolte come polvere si agitano nell'aria le sementi delle
messi?
Se vuoi che la vita ti si riveli in
tutta la sua magnificenza, volgi gli sguardi al sole. Coraggio! Tu non sei
avvinto che a mezzo; il sonno è una fragile scorza. Gettala, e
svegliati! Mentre l'uomo volgare sciupa il suo tempo a chieder consigli, e nel
far calcoli, colui che ha mente profonda e cuore magnanimo, che sa misurare le
difficoltà e cogliere il momento, può accingersi ad ogni
più ardua impresa.
(Uno scoppio fragoroso annuncia la
venuta del sole.)
Ariele. Attenti
tutti al sonoro rintocco! Già ai piccoli silfi dell'aria ogni rumore che
accompagna l'aurora appare più chiaro e distinto. Ecco un nuovo sole che
sorge; s'aprono cigolando davanti ad esso le porte delle rocce e dei monti.
Febo ha già ripreso la sua rapida corsa, ed il suo carro di luce traccia
solchi abbaglianti. Che fragori scoppiano da questo fuoco sfolgoreggiante!
È un rombo, un tuono che offende i sensi, fa socchiudere gli occhi e
stordisce gli orecchi, poiché il meraviglioso è incomprensibile! O
silfi, fuggite, rimpiattatevi in fondo in fondo alle rose madide di rugiada,
entro gli spechi, sotto il fogliame. Se questo scroscio vi rintrona d'appresso,
perdete l'udito.
Faust. Ti saluto,
eterno crepuscolo, con tutto il rinnovato mio vigore vitale che fa battere
sì forte i miei polsi. O terra, anche tu questa notte eri salda al
posto, ed ora respiri, tu pure rinvigorita, ai miei piedi. Già tu
cominci ad avvilupparmi di voluttà, e ridesti e ravvivi in me il forte
proposito di tendere sempre, senza posa, verso un'alta esistenza. — II mondo
già si sprigiona dai vapori da cui era ancora avvolto; la foresta freme
di una vita molteplice e sonora; la nebbia ora s'innalza in leggere nubi dalla
valle, ora vi si stende sopra in flutti ondeggianti. Intanto la celeste luce
penetra negli imi profondi; rami e tronchi ebri di rugiada, si slanciano fuori
dell'abisso vaporoso ove dormivano sepolti.
I colori spiccano un dopo l'altro sul fondo, ove dai fiori, dalle foglie
gocciolano tremule perle; il mondo intorno a me diviene un paradiso.
Alza la testa, e guarda lassù!
— Le vette gigantesche delle montagne annunciano già l'ora solenne; ad
esse è dato di godere prima di noi dell'eterna luce che scende
più tardi al basso. Un novello splendore invade i verdeggianti giardini
delle Alpi; a poco a poco si è infiltrato dappertutto, ha invaso ogni
cosa. — Ahimè! gli occhi sono vinti dal dolore, m'è forza
ritorcere lo sguardo.
Avviene così allorquando la
speranza ineffabile, dopo avere nell'intensità della sua forza raggiunto
il sublime del desiderio, trova spalancate le porte della sua realizzazione; ma
ecco che dagli eterni baratri irrompe un oceano di fiamme. Noi restiamo
stupefatti; venivamo per accendere la face della vita, e siamo avvolti da un
torrente di fuoco. E qual fuoco!
È fuoco d'amore o d'odio che ci avvince fra lacci di dolore e di
voluttà, e ci costringe ad abbassare di nuovo i nostri sguardi verso la
terra, per nasconderci nel velo della nostra primitiva innocenza?
Volgiamo dunque le spalle al sole! La
cascata che rumoreggia sulle rocce, io la contemplo con estasi sempre maggiore.
Precipitando di balzo in balzo, va a dipartirsi in mille torrenti, slanciando
nell'aria continui spruzzi di schiuma. Ma con quale stupenda vaghezza di mezzo
a questo frastuono sorge e si disegna la variopinta curva dell'arcobaleno! Ora
si stacca in tutta la sua purezza, ora si fonde nell'aria, spargendo
all'intorno una frescura vaporosa. Non è questa l'imagine dell'indole
umana? Mèditavi sopra, e capirai meglio: la rifrazione di quei colori ti
da l'idea della vita.
Il palazzo imperiale. La sala del
trono
Il Consiglio di Stato in attesa
dell'imperatore. — Fanfare.
Cortigiani in
abbigliamenti sfarzosi e svariati.
L'Imperatoresul trono; alla sua destra l'Astrologo.
L'Imperatore. Salute a'
miei cari e fedeli vassalli, che da presso o da lontano siete qui convenuti.
Veggo a' miei fianchi il saggio, ma non il matto. Che n'è del mio
buffone?
Un Giovane
Gentiluomo. Proprio dietro lo strascico del tuo manto, rotolò
giù dalla scala, sicchè si dovette trasportare di là
quella enorme massa di carne. Non si sa se era morto o ubbriaco fracido.
Un Secondo
Gentiluomo. Con una prontezza invero prodigiosa, un altro si è
subito presentato a surrogarlo, vestito d'abiti così ricchi, che ognuno
rimase stupito. Le guardie incrociando le alabarde si studiano impedirgli
d'entrare. Nondimeno, eccolo già qui quel folle temerario!
Mefistofele (inginocchiandosi
ai piedi del trono). Chi è colui che sempre maledetto è
sempre il benvenuto? Qual è la cosa che ardentemente desiderata, si
rifiuta sempre? Quale quella che ciascuno ama prendere sotto la sua protezione?
Che v'ha che sia oggetto di biasimo e di acerbe accuse? Quale nome tu devi
guardarti d'invocare, e quale ama ciascuno sentir proferire? Chi è che
si accosta ai gradini del tuo trono, e chi se ne allontana da se stesso?
L'Imperatore. Pel momento
bando alle parole; gli enigmi qui sono inopportuni; è affare per questi
signori. Spiegati chiaro e mi farai piacere. Il mio vecchio buffone se
n'è andato, io temo, pel gran viaggio. Prendi il suo posto e siedi al
mio fianco.
(Mefistofele sale i gradini del
trono, e va a collocarsi a sinistra dell'Imperatore.)
Mormorii
nella folla. Un nuovo buffone? Nuovo tormento! Da dove viene? Come mai
s'è introdotto qui? Quell'altro è bello e ito! Era una ruina! Una
botte! Questi è un zolfanello!
L'Imperatore. Così
dunque, diletti vassalli, partiti da lontane o da vicine contrade, siate i
benvenuti. Una stella benefica vi ha guidati; gli astri ci promettono felicità
e salute. Ma, ditemi, come mai noi stiamo qui a tener consiglio in questi
giorni che, liberi d'ogni cura, noi dovremmo passare nei più dolci
gaudii? Tuttavia, poiché avete creduto bene di farlo, sia pure così!
Il
Cancelliere. La più sublime virtù circonda d'un sacrato nimbo
la fronte dell'imperatore; v'è cosa ch'egli solo sa esercitare
degnamente: la giustizia! È ciò che tutti gli uomini amano,
desiderano, esigono, di cui non possono senza danno essere privi, ed a lui solo
spetta accordarla al popolo. Ma, ahimè! A che serve l'intelligenza, la
mente, la bontà del cuore, la prontezza della mano, se lo Stato è
consumato da una febbre ardente, se il male genera il male? Chiunque dall'alto
di queste vette abbassa lo sguardo sopra questo vasto reame, quasi sognasse
penosamente, lo scopre in balia di mostri schifosi, vi vede regnare legalmente
l'illegalità, e svolgersi una continua sequela di errori. Questi invola
un armento, quegli una donna, altri il calice, la croce, i candelabri
dell'altare, e sano e salvo ne mena vanto per anni ed anni. I querelanti s'affollano nella sala di
udienza del tribunale, ove il giudice si pavoneggia impettito, mentre
rumoreggia il torrente della rivolta che ingrossa ed irrompe con crescente
furore. Chi fa a fidanza con complici, può davvero gloriarsi della sua
infamia e de' suoi delitti; e là dove l'innocente è solo a
difendersi, si sente proclamare colpevole. È così che tutti
cercano di dilaniarsi e di distruggere ogni sorta di diritto. Dopo ciò, come
è possibile che si sviluppi quel senso che ci dovrebbe solo guidare
verso il bene? L'uomo di buone intenzioni finisce quasi sempre per lasciarsi
sopraffare dall'adulazione e trascinare alla corruzione; un giudice che non
può punire, diventa l'alleato del colpevole. Il quadro è dipinto
in nero, eppure mi duole di non aver potuto trovare tinte ancora più
tetre (pausa).
I colpi di Stato sono inevitabili,
poiché in quell'atmosfera di delitti e di sofferenze, la stessa Maestà
finirebbe ad essere a sua volta vittima di tale jattura.
Il gran mastro
dell'esercito. Quale tramestio in questi giorni tumultuosi! Si ammazza e si
è ammazzati; non v'è chi ascolti il comando. Il borghese
trincierato in casa, il cavaliere nel suo nido di roccia sembrano, congiurati
contro di noi, tenere in serbo le forze per loro stessi. Il soldato mercenario,
perduta la pazienza, reclama irosamente la sua paga, e se noi non gli dovessimo
più nulla, se la svignerebbe immediatamente. Rifiutare ciò che
tutti domandano è come frugacchiare in un nido di vespe. Il regno
intanto di cui dovrebbero esser il sostegno, è deserto e devastato.
È loro permesso di farvi gazzarra e di smaniarvisi furiosamente; mezzo
il mondo è spacciato. Vi sono ancora dei re laggiù, ma nessuno
vuole accorgersi che si tratta precisamente di loro.
Il Tesoriere. Andate
dunque a fidarvi degli alleati! Gli ajuti che ci erano stati promessi, ci sono
mancati, come l'acqua che abbandona il rigagnolo; e ahimè; sire, in
quali mani è ne' tuoi Stati caduta la proprietà! Ovunque vi
rechiate, voi trovate nuovi ospiti i quali intendono vivere indipendenti, e cui
bisogna contentarsi di guardare e lasciar fare a loro talento. Abbiamo abdicato
tanto, che non ci resta più un solo dei nostri diritti. Ormai non si
può più contare nemmeno sui partiti di qualunque specie sieno; alleati
o nemici, la loro simpatia o il loro odio ci tornano egualmente indifferenti. I Guelfi al pari dei Ghibellini per
non essere molestati si nascondono. Chi mai oggi pensa a venire in ajuto al suo
vicino? Ognuno ha abbastanza da fare per sé. Le miniere d'oro sono franate, si
raspa la terra, si fanno risparmi, si raggranellano gruzzoli, e le nostre casse
rimangono sempre vuote.
Il
Maresciallo. Io pure, ahi lasso! sono colpito dal flagello! Noi ci
proponiamo ogni giorno delle economie, ed ogni giorno spendiamo dippiù.
Intanto la mia inquietudine va sempre crescendo. Manco male che finora il cuoco
non ha sofferto. I cinghiali, i
cervi, le lepri, i capriuoli, i tacchini, i polli, le oche e le anitre, la
nostra parte dei balzelli e le rendite sicure, si riscuotono ancora
discretamente; ma il vino ci fa difetto. Una volta nelle nostre cantine
s'ammonticchiavano le botti riempite delle migliori qualità, ma la sete
insaziabile dei nostri signori ne ha succhiato fino l'ultima goccia. Anche il
consiglio municipale ha dovuto aprire le sue sale; gl'invitati diedero
l'abbrivo al nappo, all'orciuolo di stagno... ed eccoli sotto la tavola..E sono
io che paga, che debbo soddisfare tutti. Coll'ebreo non si può trattare;
egli mette in campo ogni sorta di usuraje pretese, le quali ci fanno divorare
anticipatamente le risorse delle annate future; i majali non ingrassano
più; tutto è impegnato, persino la materassa del nostro letto, ed
il pane che ci si ammannisce è un pane mangiato in erba.
L'Imperatore
(a
Mefistofele, dopo un momento di riflessione). E tu, buffone, non conosci miserie da spifferarmi a tua
volta?
Mefistofele. Io? no, di
certo. Come potrei vederne in mezzo all'aureola di gloria che circonda te e i
tuoi? Potrebbe venir meno la fiducia là dove la Maestà impera
assolutamente, ove il potere è sempre all'erta per disperdere i nemici,
ove la buona volontà rinvigorita dal senno e da una molteplice
attività è sempre pronta? Chi mai là dove splendono simili
astri, si periterebbe a cospirare in favore del male e dell'oscurantismo?
Mormorii. È un
furfante che sa assai bene il suo mestiere; — s'insinua col mentire; — indovino
già ciò che vi sta sotto; — salterà fuori un progetto.
Mefistofele. V'è
alcuno a questo mondo a cui non manchi o questa o quella cosa? Qui ciò
che manca è il denaro. A dire il vero il pavimento non ne è
seminato, ma la sapienza sa scovarlo dal seno delle montagne, dalle più
grandi profondità, dai fondamenti delle muraglie ove è riposto
dell'oro vergine e monetato. Chi lo trarrà fuori alla luce del sole?
Sarà la forza della natura e dello spirito in un uomo eletto.
Il
Cancelliere. Natura, spirito! — Parole da non usarsi con cristiani, perché
sono ciò che v'ha di più pericoloso al mondo; per simili discorsi
si abbruciano gli atei. La natura è peccato, e demonio lo spirito; da
essi nasce il dubbio, loro deforme ermafrodito! Finiamola adunque con queste
eresie! — Dagli antichi Stati imperiali due sole caste sono uscite che hanno
degnamente difeso il trono: i santi e i cavalieri. Essi resistono ad ogni
procella, e per ricompensa si dividono tra loro la Chiesa e lo Stato. Una
resistenza è prodotta dai volgari sentimenti di taluni che hanno
smarrito l'intelletto, e cioè gli eretici e gli stregoni. Sono essi che
corrompono le città e le campagne. A te piacciono questi cuori corrotti
che hanno affinità coi pazzi! Ed ecco la gente che vorresti introdurre
in questa nobile assemblea colle tue celie svergognate!
Mefistofele. Io qui
fiuto il dottore. Ciò che non toccate è per voi lontano cento
leghe; ciò che non possedete, è come se non esistesse per voi;
ciò che sfugge alla vostra mente lo chiamate falso; ciò che voi
non pesate, non ha peso; e la moneta se non è battuta da voi non ha
valore.
L'Imperatore. Con tutto
questo non si ripara ai nostri bisogni. A che miri tu colle tue omelie
quaresimali? Ne ho abbastanza dei se e dei ma. Ci manca il
denaro, trovacelo!
Mefistofele.
Troverò ciò che chiedi, ed anche più. Per me è
facile di certo; ma ciò che è facile si ottiene con
difficoltà. Quanto brami dorme riposto; tutto il talento sta nel saperlo
dissotterrare. Come bisogna adoperarsi? Riflettete che al tempo del flagello,
quando turbe d'uomini invadevano come un torrente il paese, e s'imponevano alla
popolazione, tutti presi dallo spavento nascondevano, chi qua, chi là, i
loro oggetti preziosi. È quanto accadde ai bei tempi della potente Roma,
e che continuò sino ai nostri giorni. Tutti questi tesori giacciono
sepolti sotto al suolo, e il suolo è proprietà del sovrano; a lui
spetta adunque il bottino.
Il Tesoriere. Per un
pazzo non si esprime tanto male. Affé, che è questo il diritto
dell'antico imperatore.
Il
Cancelliere. Satana vi circuisce con lacci d'oro. È un affare
sospetto!
Il
Maresciallo. Purché la corte acquistasse la sospirata ricchezza, sarei disposto
a chiudere un occhio su di molte cose.
Il gran
mastro dell'esercito. Il matto non è sciocco, promettendo a ciascuno
ciò che ciascuno desidera; il soldato non domanda donde viene.
Mefistofele. E se credete che io voglia ingannarvi,
ecco un uomo a cui rivolgervi. Consultate l'astrologo; ei sa leggere nei
pianeti la sorte riservata ad ogni ora. Or bene, parla; svelaci ciò che
il cielo annunzia.
Mormorii. Sono due
furfanti. — Se la intendono fin d'ora. — Un pazzo e un chiaroveggente accanto
al trono. — Canzone vecchia e ripetuta. — Il pazzo suggerisce — il saggio
espone.
L'Astrologo
(ripetendo ciò che Mefistofele gli susurra all'orecchio). Il sole
stesso non è che oro puro e Mercurio è il suo messaggiere
stipendiato. Madonna Venere vi ha tutti abbindolati colle sue eterne moine. La
pudica Diana ha i suoi capricci. Marte non colpisce alcuno, ma vi minaccia
tutti, e Giove sarà sempre il più splendido. Saturno è
grande, ma sì lontano, che appare piccolo all'occhio; ha molto peso, ma
poco valore, sicché, come metallo, ne facciamo poco conto. Ma quando la luna si
congiunge al sole, l'argento all'oro, oh! allora sì il mondo diventa
bello! Tutto il resto si ottiene facilmente. Palazzi, giardini, candidi seni,
rosee guancie, tutti questi tesori ci procura l'uomo sapiente, che ha tal
potere come nessuno di noi.
L'Imperatore. Le parole
di costui m'hanno un senso ambiguo che non riesce a persuadermi.
Mormorii. A noi che
importa di ciò? — Ciarlatanismo, alchimia, vecchie buffonate — non
riusciranno mai, l'ho inteso a dire sì spesso. — E quand'anche riuscissero! — Burletta!
Mefistofele. Tutti
compagni! Si stupiscono, non vogliono credere alla grande scoperta! L'uno
vaneggia cianciando di mandragore, l'altro vantando un cane nero. Scommettiamo
che appena si sentiranno a prendere il piede, o a incespicare, si metteranno
chi a lanciarmi sarcasmi, chi a vituperarmi come stregone! — Voi tutti sentite
il segreto fermento della natura eternamente attiva, e come dalle sue profonde
latebre sgorghi la vita in cerca della luce. Che se l'inquietudine v'agita le
membra e non vi lascia star fermi al posto, oh allora scavate, vangate
risolutamente; colà avvi il tesoro nascosto.
Mormorii. Ho del
piombo nelle piante, e le braccia aggranchiate. — È la gotta. — II dito
grosso del piede è rattrappito. — Ho rotte le spalle. — Tutti indizii
che noi calpestiamo il suolo più ricco di tesori.
L'Imperatore. Presto
all'opera!... Tu non puoi più svignartela. Prova la verità de'
tuoi detti col farci vedere sull'istante queste preziose miniere. Quanto a me
depongo scettro e spada e m'accingo al lavoro che voglio eseguire colle stesse
mie imperiali mani. Se tu hai mentito io ti mando all'inferno.
Mefistofele. Quanto a
questo, saprei da me solo trovarne la strada. Io non mi stancherò mai
dall'indicarvi quali e quanti tesori giacciono ovunque, attendendo di essere
dissepolti. Il contadino che scava il suo solco coll'aratro solleva insieme
alla zolla di terra un vaso d'oro. Egli non sperava cavare che un po' di
salnitro, e meravigliato, raggiante di gioja, trova nelle sue mani bisognose
dei rotoli d'oro. Quanti strati bisogna forare! In quali abissi, in quali
profonde voragini deve penetrare sino a toccare i mondi sotterranei, colui che
fiuta istintivamente i tesori!... In vasti antri asserragliati da ogni parte,
egli vede schierato in bell'ordine tutto un attiraglio di vasellame, di coppe
antiche ornate di rubini; e se vuole servirsene trova il tutto ricoperto di una
vecchia melma. Tuttavia, fidatevi di un provetto conoscitore. Da lungo tempo il
legno delle dove è infracidito, e il tartaro ha rinnovato le pareti
della botte. Non sono le sole essenze di vini così sublimi, non soltanto
l'oro e le gemme che si avvolgono nell'orrore dell'oscurità. Il sapiente
fruga senza posa; strappare il segreto delle cose alla viva luce del giorno
è una corbelleria; i misteri hanno per elemento le tenebre.
L'Imperatore. Quanto alle
tenebre, io te le abbandono. A che serve l'oscurità? Tutto ciò
che ha pregio deve mostrarsi in piena luce. Come si potrebbe discernere un
birbante in mezzo ad un bujo profondo? Tutte le mucche in questo modo son nere,
ed ogni gatto è bigio. Via! Vediamo questi vasi nascosti e pieni di
masse d'oro! Spingi l'aratro, e che veggano il sole!
Mefistofele. Prendi la
zappa e la marra, e scava tu stesso; il lavorar la terra ti farà grande.
Ne uscirà un branco di vitelli d'oro; rapito di gioja, affrettati allora
ad adornare te e la tua diletta, poiché un diadema sfolgorante di gemme mette
in rilievo tanto la bellezza che la maestà.
L'Imperatore. AI lavoro,
adunque! A che indugiamo ancora?
L'Astrologo
(ripetendo come prima ciò che Mefistofele gli suggerisce.) Sire,
modera un desiderio così ardente! Lascia che prima abbia fine la festa,
e i suoi tripudi. La distrazione non giova mai a raggiungere l'intento.
Raccogliamoci, siamo calmi. Chi vuole il bene, sia anzi tutto buono; chi ama la
gioja, freni gl'impeti del sangue; chi brama aver del buon vino, pigi grappoli
maturi; e chi vuol vedere dei miracoli, rinvigorisca la sua fede.
L'Imperatore. Ebbene!
Passiamo questi giorni nell'allegrezza aspettando il mercoledì delle
Ceneri che verrà molto a proposito! Frattanto, checché ne sia,
festeggiamo il carnevale con foga e tripudio ancora maggiori. (Squilli di tromba. — Escono.)
Mefistofele. I pazzi non arriveranno mai a capire a
qual punto la fortuna si associ al merito; se venisse loro fatto di avere la
pietra dei saggi, non vi sarebbero saggi per la pietra.
Vasta sala e locali d'accesso
addobbati per la mascherata
L'Araldo. Non
crediate già di trovarvi sul suolo alemanno, nel paese ove hanno luogo
le danze dei matti, dei diavoli, e dei morti. No; qui godrete d'una festa tutta
allegria. Il padrone, andando in pellegrinaggio a Roma, ha pel suo meglio e pel
vostro piacere valicato le alte Alpi, e conquistato per sé un dominio, ove ha
sede la gioja. L'imperatore dopo avere invocato dalle sante pantofole la
consacrazione del suo diritto e del suo potere, ed essere andato in cerca di
una corona, ha portato con sé anche la cappa del buffone. Ed eccoci tutti, dal
primo all'ultimo, rigenerati. Ogni uomo di mondo se la tira con disinvoltura
sulla fronte e sugli orecchi. Essa lo eguaglia ai pazzi, ed egli così
imbacuccato fa quel che può per parere un saggio. Io li veggo già
questi personaggi aggrupparsi, separarsi, poi accoppiarsi con piena e
scambievole fiducia. Un coro è sollecito di unirsi ad un altro coro:
tutti sono in moto, entrano, escono senza mai stancarsi. Proprio vero che oggi
come per l'addietro, il mondo colle sue centomila chiappole non è esso
pure che un gran matto.
Alcune
Giardiniere (canto con accompagnamento di mandolini). Per cattivarci
il vostro favore, ecco che noi pure, donzelle di Firenze, ci siamo questa notte
riccamente abbigliate per unirci allo splendido seguito della corte alemanna.
Vedete quanti fiori dai gai colori
sono intrecciati nelle brune ciocche dei nostri capelli, che gale e che flutti
di seta ci adornano e ci ondeggiano intorno.
Poiché ciò che noi teniamo in
gran pregio e meritevole d'elogi egli è lo splendore artificiale de'
nostri fiori, che fioriscono tutto l'anno.
Vedete come abbiamo disposto in
bell'ordine simmetrico nei nostri panieri ogni sorta di frastagli e d'ogni
colore; voi li potete criticare in dettaglio, ma l'insieme, convenitene,
è molto attraente.
Giardiniere e galanti, possiamo essere
più gentili a vedersi? Nelle donne l'arte è così vicina
alla natura!
L'Araldo. Mostrate i
ricchi panieri che pompeggiano sulla vostra testa e sulle vostre braccia. Che
ciascuno scelga ciò che più gli piace. Suvvia! Lungo i viali,
sotto il fogliame, sorga tosto un giardino; la folla vi accorrerà
attirata dalla mercanzia e più dalle venditrici.
Le
Giardiniere. Avanti, avvicinatevi
a questi ridenti posti, ma non istate a mercanteggiare! Un motto di spirito vi
farà sapere che cosa vi toccherà.
Un ramo
d'olivo in fiore. Io non porto invidia alle ajuole fiorite; non ho l'indole
piagnona né battagliera. Non sono io forse preziosa essenza de' campi ed il
simbolo della pace? Io spero che oggi avrò la fortuna di ornare una
bella fronte.
Una corona
di spighe d'oro. Cerere con questi doni soddisferà le vostre
aspirazioni. V'auguro che l'utile — ossia ciò che v'ha di più
desiderabile fra tutti i beni della terra — diventi pure bello dal momento che
ve ne adornerete.
Una corona
fantastica. Una quantità di fiori variati, che pajono malve,
smaltano in modo mirabile i tappeti d'erba! Ciò non ha a che fare colla
natura, ma... è un portato della moda.
Un mazzo di
fantasia. Lo stesso Teofrasto non vi saprebbe dire il mio nome; pure ho
la speranza di piacere, se non a tutte, almeno a qualcuna a cui vorrei
appartenere, e che intrecciandomi ne' suoi capelli, m'accordasse un posto nel
suo cuore.
Provocazione. Che le
più screziate fantasie, per favorire la moda, inventino strani prodigi
ignorati dalla natura; verdi steli, campanule d'oro dondolatevi fra le ricche
capigliature. — Ma noi...
Bottoni di
rosa.
Noi ci teniamo nascosti; fortunato colui che ci scopre quando siamo freschi! Al
giungere dell'estate il bottone di rosa s'infiamma; chi potrebbe non aspirare a
tanta ventura? Nel regno di flora col promettere e mantenere si signoreggiano
al tempo stesso lo sguardo, i sensi ed il cuore.
Un
Giardiniere (canto accompagnato da tiorbe). Guardate con qual grazia
i fiori serenamente sbocciati adornano le vostre teste; le frutta stesse non
hanno una eguale seduzione; è d'uopo assaggiarne per poterne godere.
Esse vi mostrano i loro bruni
aspetti; ecco ciliege, pesche e prugne regali: comperate! La lingua ed il
palato sono giudici assai migliori dell'occhio.
Avanti! assaporate voluttuosamente le
frutta le più mature. Si può far del lirismo sulle rose; ma
bisogna metter fra i denti le mele.
Ci sia concesso d'emulare il fiore
rigoglioso della vostra gioventù, e di sfoggiare accanto a voi
l'abbondanza della nostra succulenta mercanzia.
Sotto la volta frondosa, entro i
recessi di verdi boschetti voi trovate ad un tempo bottoni, foglie, fiori e
frutta.
(Mentre si cantano queste strofe
alternate, ed accompagnate da mandolini e tiorbe, i due cori continuano ad
ammonticchiare le loro mercanzie e ad offrirle ai passanti).
Una madre e
sua figlia.
La madre. Quando,
piccina mia, tu sei venuta al mondo, io ti ho messa una cuffietta nuova; avevi
un visino così vezzoso e un corpo sì delicatamente leggiadro, che
io sognavo già di fidanzarti al giovane più ricco; mi figuravo
che tu fossi sua sposa.
Ahimè quanti anni sono
trascorsi senza che il sogno si verificasse! La schiera de' diversi sposi
è sparita rapidamente; cogli uni tu ballavi agilmente, a un altro di
soppiatto toccavi il gomito col tuo.
Avevamo un beli'affannarci ad
inventare divertimenti; era inutile; i giuochi innocenti non approdavano a
nulla. Al dì d'oggi i matti sono libertini: provati a mostrare il tuo
seno, qualcheduno si lascerà cogliere al laccio.
(Altre donne giovani e belle
s'uniscono a loro e si mettono a chiacchierare).
Pescatori ed
Uccellatori (entrano portando reti, vischio, ed altri arnesi di caccia e
si mescolano coi crocchi delle giovani. Succede una mischia, ove gli uni
inseguono gli altri; alcuni fuggono di mano, altri sono agguantati, e questi
reciproci tentativi producono il più aggradevole scambio di motti).
Taglialegna (con modi
rozzi e villani). Largo! Largo! fateci posto, abbiamo bisogno di spazio,
noi! Noi atterriamo gli alberi che cadono rumorosamente; attenti quindi alle
teste, quando passiamo portando grossi carichi! — Proclamatelo a nostra lode;
poiché se i villani non si dessero attorno nel paese, come farebbe la gente
delicata con tutto il suo spirito a trarsi d'impaccio? Tenetelo bene a mente,
se a noi non venisse fatto di sudare, voi tremereste dal freddo.
Pulcinella (melenso,
scipito). Voi siete i pazzi — nati col gobbo; — noi siamo i saggi — che non
portiamo mai nulla — fuorché giacche, cappucci, e i nostri cenci così
facili a portarsi. — Sempre in ozio — calzati di pantofole, — ce la godiamo —
correndo di qua, di là — pei mercati e per le fiere — attraverso la
calca — scivoliamo come anguille, — balliamo, facciamo un diavoleto, — urli e
fischi ci accompagnano — ma noi ce ne ridiamo. — Lodateci, biasimateci, per noi
già fa lo stesso.
Parassiti (adulatori
ingordi). Bravi taglialegna — e bravi carbonai, vostri cugini, — voi siete
gli uomini che fanno per noi; noi non sappiamo che farne d'inchini, —
d'approvazioni, di frasi contorte, — e di equivoci; tutto ciò non ci fa
né caldo né freddo, a meno che non lo si voglia. Se non ci fossero legna e
carbone per riempire il camino e farlo fiammeggiare, bisognerebbe che torrenti
di fuoco scendessero dal cielo. Il fuoco arde, — la zuppa bolle, — la carne
cuoce, — l'arrosto è a buon punto; il vero ghiottone, — il parassita —
sente l'odore dell'arrosto, — e del pesce, — e gli vien l'acqua in bocca
pensando al pranzo del cliente.
Un
ubbriacone fuor di sé. Che tutto mi vada a seconda oggi, — mi sento così forte
ed indipendente! Aria fresca, ed allegre canzoni, — le intono io stesso, e
bevo, e trinco, e trinco. Bevete voi altri, tin, tin, tin. E tu pure laggiù, vien qua, —
tocca, trinca, e la è finita.
La mia sposina andava in collera, e
faceva in pezzi questo bell'abito; — e se mi risentivo sul serio, — mi trattava
da pupattolo; ma io bevo, bevo, bevo, — al tintinnio de' bicchieri. Voi altri
pupattoli trincate; quando i bicchieri tintinnano, non c'è di meglio a
fare.
Non istate a dire che io vo fuori di
carreggiata; sto bene ove sono; se l'oste non mi fa credito, me lo fa
l'ostessa, od alla fine me lo farà la servente. Io bevo, bevo, io bevo
sempre! Suvvia, voi altri, tin, tin, tin, tutti d'accordo! e sempre di seguito.
Mi pare che non si può dir meglio.
Io me la spasso, come e dove, non
monta; lasciatemi dormire a questo posto, giacché non posso più tenermi
in piedi.
Il Coro. Coraggio,
amici, beviamo, bevete tutti! qua, un brindisi spigliato, tin, tin, tin.
Reggetevi saldi sul banco, o sullo scanno. Per chi rotola sotto la tavola, la è
finita.
L'Araldo (annunzia
poeti d'ogni specie: naturalisti, di corte, cavallereschi, gli uni ispirati,
gli altri sdolcinati. In questa gara di concorrenti, ognuno impedisce al suo
vicino di farsi avanti. Uno di loro passa dicendo solamente alcune parole).
Un Satirico. Volete
sapere qual è la cosa di cui io poeta godrei più d'ogni altra al
mondo? Sarebbe di dire e cantare ciò che nessuno vorrebbe sentire.
(I poeti della notte e delle tombe
si fanno scusare, adducendo che sono impegnati in una conferenza delle
più interessanti con un vampiro recentemente risuscitato, conferenza che
potrebbe dare origine ad una nuova Poetica. L'Araldo non potendo respingere le
loro scuse, evoca intanto la mitologia greca, la quale sotto la maschera
moderna non perde nulla del suo carattere e della sua attrattiva.)
Le Grazie.
Aglae. Noi
infondiamo grazia alla vita; mettetene anche voi nel donare.
Egemone. Mettetela
nel ricevere; è così dolce il veder soddisfatti i nostri
desideri!
Eufrosina. E mentre i vostri giorni scorrono
placidi e felici, la vostra riconoscenza s'informi alla grazia.
Le Parche.
Atropo. Questa
volta sono stata invitata anch'io, la più anziana delle filatrici.
Quanti pensieri, quante riflessioni vi suggerisce la fragilità del filo
della vita! — Affinchè esso vi riesca elastico e morbido l'ho scelto del
più fino lino; l'abilità di questo dito saprà renderlo
liscio, dolce, eguale. — Se in mezzo al vortice dei piaceri e delle danze vi
accorgete d'essere sul punto di traviare, fate senno, riflettete alla
qualità di questo filo, pensate che è soggetto a rompersi!
Cloto. Pochi
giorni sono, sappiatelo, la condotta della nostra sorella maggiore era
così poco soddisfacente, che mi vennero rimesse le cesoje. Essa ordiva
continuamente i più inutili tessuti con trame fatte d'aria e di luce; e
spezzandoli uccideva le speranze d'ogni più nobile facoltà. — Non
è meno vero che anch'io nella foga giovanile mi sono molte volte
ingannata; cosicché presentemente per moderare il mio ardore ho rinchiuso le
forbici nel loro astuccio.
E mentre io sorrido di contentezza
trovandomi così vincolata, voi approfittate di queste ore di
libertà per abbandonarvi ai tripudii ed all'orgia.
Lachesi. A me, la
sola ragionevole, è stato affidato il compito di mantenere ordinato il
lavoro; ed il mio arcolajo, sempre in moto, non si è ancora sconnesso
una sola volta. — I fili
scorrono, s'inaspano, seguono la strada che io indico loro, affinchè
s'avvolgano regolarmente intorno al fuso. — Se io avessi ad essere per un solo
momento disattenta, tremerei pel mondo; le ore suonano, gli anni passano, e le
matasse passano continuamente fra le mani del tessitore.
L'Araldo. Guardate
chi viene ora; foste anche cento volte più versato nelle antiche
scritture, voi non riconoscereste quelle figure. Esse fecero tanto male, eppure
voi le direste le benvenute,
(entrano Le Furie)
tanto sono giovani, avvenenti, e
graziose! Provatevi a trattarle, e vedrete che queste colombe morsicano come
serpi. — In fondo fanno le sornione; ma oggi che ogni pazzo fa pompa de' propri
errori, esse non hanno più ragione di volersi far credere degli angeli,
e si proclamano veri flagelli delle città e delle campagne.
Aletto. Che
importa? Voi vi fiderete di noi che siamo giovani, gentili, e ci mostriamo
così dolci. Se alcun di voi ha in qualche luogo la ganza, noi gli
mettiamo una puntura nell'orecchio, sino a che sarà venuto il momento di
dirgli a viso aperto, che dessa fa dei segni al tale od al tal altro, che
è scapata, gobba, e zoppa; e, se gli è fidanzata, che non
è donna da sposarsi. — Noi poi non lasciamo di tormentare anche la
fidanzata. Il suo promesso, le diciamo, conversando con un'altra ha parlato
male di lei e mostrato di averla a sdegno.
E così quand'anche facessero la pace, rimane sempre un poco
d'astio fra loro.
Megera. Inezie son
queste! Lasciate prima che si congiungano e m'incarico io di loro; io
saprò in ogni emergenza avvelenare, col farli accapigliare, la loro
più dolce felicità. L'uomo è mutabile, e variano le ore. —
Nessuno sta soddisfacendo un suo desiderio, senza struggersi per un altro
più vivo, da cui si sente invaso quando ha raggiunto l'apice d'una
felicità sognata, alla quale finisce per avvezzarsi. Ei fugge il sole,
vorrebbe dare calore al ghiaccio. — Io so bene come bisogna comportarsi con
questa gente: chiamo meco il mio fedele Asmodeo perché semini la iattura a
tempo debito, ed ecco così distrutta la genia umana a due a due.
Tesifone. Io preparo
stocco e pugnale, e sotto forma di lingue malediche me ne servo contro il
traditore. — Ama il tuo simile, e presto o tardi ti toccherà darti in
braccio alla disperazione. — È necessario che il miele si cangi da un
momento all'altro in fiele ed assenzio; bando ai riguardi ed alla pietà;
ha commesso l'atto, deve pagarlo. — Perdona, o mia canzone! Io getto i miei
lamenti alle rupi, e l'eco, ascolta, ripete: vendetta! Colui che è
mutabile non deve durare in vita.
L'Araldo. Vogliate
tirarvi un poco da parte, poiché ciò che viene a questa volta non ha
alcuna somiglianza con voi. — Ecco avanzarsi una montagna coi fianchi ricoperti
di lussureggianti e variati tappeti, la testa armata di lunghe corna, e d'una
tromba che si muove come fanno i serpenti. È un mistero e ve lo spiego.
— Una donna delicata e gentile, seduta sulla nuca di essa la dirige abilmente
col mezzo di una sottile bacchetta; un'altra posata maestosamente sul vertice
è circondata da uno splendore che abbaglia. Alcune nobili dame camminano
incatenate ai loro fianchi; l'una inquieta, l'altra tutta lieta; questa tormentata
da desideri, quella libera di cure. Orsù che ciascuna dichiari l'esser
suo.
La Paura. Le faci
fumanti, le lampade, i candelabri spargono una luce tremolante attraverso
l'armeggio della festa; i miei ceppi, ahimè, mi trattengono immobile in
mezzo a queste parvenze ingannatrici!
Via di qua, o voi che ridete e siete
voi stessi ridicoli! Il vostro sghignazzare sveglia i miei sospetti. Questa
notte tutti i miei antagonisti mi assalgono. Un amico s'è cangiato in
nemico, — m'è nota la sua maschera. — Un altro voleva assassinarmi! Ora
che è stato scoperto, se la svigna. — Oh! come bramerei fuggirmene dal
mondo, per andar altrove, non importa in che posto! — Ma laggiù vi
è il nulla che mi sgomenta; ed io pendo incerta tra le tenebre e
l'orrore.
La Speranza. Vi saluto,
amate sorelle! Jeri ed oggi avete passato il vostro tempo in divertimenti, in
mascherate; ma a me consta indubitamente, che voi pensate a deporre la
maschera. E se il fiammeggiare
dei doppieri non ha per noi uno speciale prestigio, andremo alla luce del giorno
guidate unicamente dalla nostra volontà, ora a drappelli, ora sole,
percorrendo le belle praterie, riposandoci o movendoci a nostro talento,
menando una vita senza pensieri e senza privazioni, e fisse ad una meta.
Benvenute dovunque, entriamo qui arditamente; in qualche posto deve trovarsi il
bene supremo.
La Prudenza. Io tengo
imprigionati lontani dalla moltitudine due dei più grandi nemici
dell'uomo: La Paura e la Speranza. Fate largo! e siete salvi. — Quel colosso
animato, vedete come io lo conduco caricato di torri; egli cammina passo passo
senza attriti a traverso sentieri scoscesi. — Ma là in alto sul pinacolo
sta codesta dea dalle ampie ali vigorose ch'essa spiega per volare alle
conquiste nelle quattro parti del mondo. — Cinta di splendore e di gloria che
s'irradia da tutte le parti e brilla da lontano, regina della più grande
operosità, si chiama la Vittoria.
Zoilo-Tersite.
Olà,
olà, son qui a proposito per malmenarvi tutti. Ma quella che mi sono
proposto di prender di mira è lassù, è monna Vittoria! Con
quelle sue ali bianche s'illude d'esser un'aquila, e s'imagina che le basti
volgersi da una parte qualunque perché tutto, popolo e paese, diventi sua
proprietà. Pazienza! Io già mi sento trasportar dalla collera
ogni volta che assisto a qualche glorioso avvenimento. Vedere portato in alto
ciò che deve strisciare al basso, ed abbassato ciò che deve stare
in alto, veder la curva svolta in linea retta, e la retta in curva, ecco
ciò che soltanto mi va a sangue, e che desidero si faccia su tutta la
terra.
L'Araldo. Che la
santa sferza ti flagelli, malvagio mascalzone, e le tue membra si contorcano
sotto uno spasimo convulso! — Guardatelo, questo doppio nano s'aggomitola su se
stesso trasformandosi in una massa schifosa! — Oh! prodigio! — La massa diventa
uovo, l'ovo si gonfia, s'apre, e n'escono due gemelli: la vipera e il
pipistrello. L'una striscia sull'arena, l'altro prende il volo verso la
soffitta. Ambedue hanno premura d'andarsene fuori per stringere amicizia; io
non vorrei essere il terzo socio!
Mormorii. Attenti,
che già si balla laggiù! — In fede mia, vorrei essere lontano. —
Non t'accorgi come ci avvolge ne' suoi lacci questa capricciosa genia? Io me li
sento scivolare ne' capelli e attorno ai piedi. — Nessuno di noi è
offeso, ma siamo tutti atterriti. — Ogni allegria è abbujata. — Quelle
due bestie hanno raggiunto il loro intento.
L'Araldo. Dal giorno
che fui investito delle funzioni di araldo, io veglio con sollecitudine
all'ingresso di questo luogo di piaceri, affinchè nulla di funesto vi
succeda e possa colpirvi. Malgrado che io sia severo ed inesorabile, temo che
gli spiriti dell'aria riescano a sgattajolare dentro, giacché dagli incantesimi
delle stregonerie io non saprei garantirvi. Se prima era il nano che vi faceva
terrore, ora è quella folla che s'agita furibonda là in fondo. Io
amerei per debito d'ufficio darvi spiegazioni sul carattere e sulle forme di
costoro, ma come definire ciò che non si capisce? Venite adunque tutti
in mio ajuto. Vedete quel magnifico carro a quattro cavalli che scivola entro
la folla, penetra dappertutto, senza fendere la calca, senza che alcuno si
scansi? Guardate che faville colorate esso slancia tutto intorno, in mezzo a
mille stelle tremolanti; lo si direbbe una lanterna magica. Eccolo che
s'avvicina collo scroscio d'un uragano furioso. Largo, largo! io rabbrividisco!
Un fanciullo
(che
guida il carro). Fate alto, o corsieri! ripiegate l'ali, obbedite al solito
freno; rallentate la corsa, quando io v'avverto di moderarla; slanciatevi
velocemente quando vi eccito. — Rendiamo omaggio a questi luoghi. — Vedete come
cresce intorno a voi la folla meravigliata! All'opera, adunque, o araldo! e
prima che fuggiamo di qui manifesta a tuo modo i nostri nomi e l'esser nostro.
— Tu devi conoscerci, poiché noi siamo le allegorie.
L'Araldo. Non saprei
come chiamarti; potrei piuttosto descriverti.
Il Fanciullo. Provati.
L'Araldo. Prima di
tutto, giova confessarlo, sei giovane e bello, un adolescente che le donne
vorrebbero fosse già adulto; tu mi sembri un vagheggino in erba, della
razza dei seduttori.
Il Fanciullo. S'intende!
Continua, svela il brillante senso dell'enigma.
L'Araldo. Come
splendono le tue nere pupille, e come spicca sul bruno della tua capigliatura
quello sfolgorante diadema! Con qual grazia quel tuo mantello con fregio di
porpora e d'oro ti scende dalle spalle ai talloni! Ti si prenderebbe facilmente
per una fanciulla, eppure scommetterei che tu saresti già capace di far
loro dar volta al cervello; sei stato alla loro scuola.
Il Fanciullo. E quegli che, personificando la
magnificenza, pompeggia sul carro come un re in trono?
L'Araldo. Ei m'ha
l'aria di un re possente e grazioso. Fortunato colui che sa cattivarsi il suo
favore! A che ormai potrebbe egli aspirare? Il suo sguardo discerne e previene
il bisogno; e la gioja che prova nel donare è più pura e
più grande di quella che gli procura il possedere una tanta fortuna.
Il Fanciullo. Non
limitarti a questo; pensa che ti si appartiene il descriverlo esattamente.
L'Araldo. La
dignità non può essere descritta, bensì il suo viso fresco
e rotondo come la luna piena, le sue guance dai vivi colori, e rigogliose di
sotto al turbante, e il ricco drappeggiare della sua veste! Che dire poi della
sua prestanza? Io credo ravvisare in lui un monarca.
Il Fanciullo. Desso
è Plutone, il dio della ricchezza, che si reca qui in tutta la sua
pompa, chiamato dai più caldi voti del grande imperatore.
L'Araldo. Ed ora
informaci minutamente de' fatti tuoi.
Il Fanciullo. Io sono la
Prodigalità, sono la Poesia, sono il poeta che scialacqua i suoi tesori
soddisfacendo se stesso. Io pure sono immensamente ricco, e mi credo l'eguale
di Plutone. Sono l'anima, l'onore delle sue feste ai suoi banchetti, e
ciò che gli manca glielo do io.
L'Araldo. Riesci
assai bene nella parte del fanfarone; ma vediamo un poco ciò che sai
fare.
Il Fanciullo. Guardate,
basta che io faccia scoppiettare le dita perché lampi e scintille guizzino
intorno al carro. Ecco una collana di perle (facendo sempre scoppiettare le
dita). A voi i fermagli, a voi parimenti gli orecchini, i monili d'oro; a
voi i pettini, i diademi, le gemme preziose, incastonate negli anelli; io getto
delle piccole fiamme, e sto a vedere ove vadano ad appiccarsi.
L'Araldo. Come
acchiappa ed afferra ogni cosa quella cara moltitudine, dando l'assalto al donatore. I giojelli piovono come in sogno, e
ciascheduno vuole avere la sua parte. Ma vedete stranezza! Ciò ch'essi
agguantano con tanta avidità non arreca loro alcun profitto; quei tesori
sfuggono loro dalle mani. Il vezzo di perle si rompe, ed il povero diavolo non
si trova stringere che un pugno di scarafaggi, i quali si dibattono nelle sue
mani; egli le scuote, ed essi si mettono a ronzargli intorno alla testa. Gli
altri invece di oggetti di valore non hanno acchiappato che farfalle. Ah! che
furfante! Promette tesori e non da che orpello!
Il Fanciullo. Sì,
lo veggo: tu sai cogliere il significato delle maschere; ma andare al fondo e
scoprire l'essenza degli esseri non è impresa da araldo di corte;
è questo un compito per gente di maggior finezza e penetrazione. Ma io
voglio evitare ogni disputa ed è a te, mio signore, (volgendosi verso
Plutone) che io rivolgo le mie domande. Non m'hai tu affidato l'incarico di
guidare le tue quattro focose cavalle? Non le ho io manovrate felicemente a
seconda de' tuoi voleri, e non arrivo io sempre al punto che mi indichi? Non ho
io saputo, librandomi sulle rapide ali, conquistarti la palma? Per quante volte
io abbia combattuto, per te non ho sempre vinto? Gli allori che ti cingono la
fronte non ti furono procurati dal mio senno, ed intrecciati dalla mia mano?
Plutone. Se è
necessario, io lo attesto volontieri: tu sei la mente della mia mente,
l'esecutore de' miei voleri, e più ricco di me; ed in omaggio ai tuoi
servigi io tengo in maggior pregio questo verde ramo di tutti i miei diademi.
Lo proclamo qui davanti a tutti e dal fondo del cuore; mio diletto fanciullo,
io sono contento di te.
Il Fanciullo
(alla
folla). La mia mano ha sparso d'ogni parte i più ricchi doni. Io
veggo di qua, di là, delle teste su cui brilla una fiamma che io vi ho
fatto divampare, che guizza dall'uno all'altro, attaccandosi a questi,
sfuggendo a quelli. Di rado essa si alza, s'avviva e riluce splendidamente nel
suo breve passaggio; ma su molti, prima ancora che si siano accorti della sua
presenza, essa si consuma e si spegne tristamente.
Chiacchierio
di donne. Quello là, poggiato in alto sul carro, è un
ciarlatano. Dietro lui sta accovacciato Hanswurst così magro e sfinito
per fame e sete, da non parer più lui; non sente nulla nemmeno a
pizzicarlo.
Il Dimagrato. Un canchero
alle schifose carogne! So che per esse sono sempre il mal capitato. Quando la
donna era ancora la buona massaja mi chiamavano l'Avarizia; allora la casa era
ben governata; vi entrava molta roba, non ne usciva nulla. Io facevo la guardia
allo scrigno ed all'armadio; locché per certo era una cattiva abitudine. Ma
dacché in questi ultimi anni la donna ha disimparato l'economia, e che al pari
d'ogni cattivo pagatore si trovò avere più desiderii che scudi,
all'uomo non rimase che soffrire, e debiti da ogni parte. Se guadagna qualche
cosa, lo spende per adornarsi o per il ganzo.
E così essa mangia bene e beve ancora meglio insieme a quel
maladetto branco di drudi.
Una Donna (la
più distinta). Vada al diavolo il dragone, e tutti i dragoni del
mondo! In fin dei conti tutto questo non è che trufferia e menzogna.
Egli viene ad aizzare gli uomini, come se non fossero già abbastanza
uggiosi anche senza codesto.
Le Donne in
massa. Vile fantoccio! Che lo si schiaffeggi! Come può saltare
in mente a questa rozza da strapazzo di minacciar noi? Davvero che ci cale
molto delle sue smorfie! I dragoni
sono di carta o di legno. Dalli! dalli! piombategli sul carcame.
L'Araldo. In nome del
mio bastone! chetatevi! Ma è inutile ch'io vi aiuti; guardate come i
mostri furiosi spaziando nell'aria spiegano le duplici ali, e come i dragoni
adirati s'agitano vomitando fuoco dalle scagliose gole. La folla fugge, la
piazza è sgombra. (Platone discende dal carro).
L'Araldo. Eccolo che
viene; quale maestà regale! Dietro un semplice suo segno i dragoni sono
in moto; essi hanno levato dal carro lo scrigno colmo di danaro e di avarizia,
e l'hanno messo a' suoi piedi: davvero che tutto ciò ha del prodigio!
Plutone (al
Fanciullo). Eccoti alleggerito di questo pesante fardello; ora sei libero
di prendere il volo verso la tua sfera. Essa non è certo qui, ove
grotteschi fantasmi ci assediano, la confusione e il rumore ci attorniano.
Vanne colà ove puoi contemplare l'ambiente sereno e puro al pari di te,
ove tu senti di essere padrone di te stesso, e di te solo fiducioso; là
ove solamente hanno pregio il Bello e il Buono. Alla solitudine! In questa va a
creare il tuo mondo.
Il Fanciullo. È
così che io mi stimo un degno messaggero, è così che io ti
amo come il mio più prossimo parente. Ove tu risiedi regna l'opulenza,
ove son io, ognuno nuota in un mare di tesori. In questa vita assurda, l'uomo
pende sovente incerto se deve darsi a te o a me. Coloro che ti seguono possono
a dir vero acquietarsi nell'ozio; ma chi corre sulle mie orme ha sempre qualche
cosa a fare. Io non agisco nel segreto; solo che mi faccia a respirare, e
ciò basta per essere tradito. Addio, dunque! tu m'abbandoni alla mia
felicità! Ma appena avrai proferito sommessamente il mio nome, tu mi
vedrai ritornare. (Esce come è venuto).
Plutone. È
ormai tempo di tirar fuori i tesori. Basta che io tocchi le serrature colla
bacchetta dell'araldo, perché esse si schiudano. Mirate! Un sangue d'oro
circola entro i forzieri di bronzo. Qual pompa di diademi, di catene, di monili
sfarzosi! Qual massa d'oro! Potrebbe struggersi ribollendo!
Diversi
clamori nella folla. Guardate, guardate che rilucente fusione! essa riempie il
forziere sino all'orlo. I vasi si
cambiano in un liquido d'oro, i rotoli di ducati scorrono come appena usciti
dalla zecca. Oh come mi batte il cuore! Ho una vertigine di desideri. Vi si
offrono tesori, accettateli subito; non avete che ad abbassarvi per diventar
ricchi. Noi, ratti come il baleno, c'impossessiamo del forziere.
L'Araldo. Che fate,
insensati? Non c'è in tutto questo che una commedia da mascherata, e non
si chiede di più per questa sera. Vi siete forse immaginati che vi
sarebbe stata regalata copia d'oro e di valori? Ma delle marche da giuoco
sarebbero anche troppo per voi in questa congiuntura. Malaccorti! che vorreste
convertire uno scherzo grazioso nella schietta verità. A che vi
gioverebbe la verità? Voi vi gettate a corpo perduto nell'errore
grossolano. O Plutone da carnevale, o eroe da mascherata, cacciami via di qui
tutta questa gente.
Plutone. Mi
servirà egregiamente il tuo bastone; prestamelo un momento, ch'io
l'immerga nella liquida fiamma. Ed ora, o maschere, state in guardia. Che
lampi, che scoppii, che razzi sfavillanti! Vedete, il bastone è
già tutto in fiamme! Guai a chi gli viene troppo vicino. Orsù, io
comincio il mio giro.
Strida e
confusione. Ahi! ahi!... Siamo perduti. Si salvi chi può! Indietro,
indietro, tu che mi stai troppo dappresso! Il mio viso è spruzzato di
scintille! Come mi pesa questo bastone di fuoco! Indietro, maschere insensate.
Largo, largo! Ah se avessi delle ali per volarmene via!
Plutone. Già
il cerchio s'è allargato, e nessuno, io credo, s'è scottato; la
folla cede, si disperde presa da spavento. Nonostante, come garanzia dell'ordine
che si è fatto, io voglio tracciare un cerchio invisibile
L'Araldo. Tu hai
compiuto un'opera esimia; grazie infinite sien rese alla tua possanza!
Plutone. Non siamo
ancora alla fine, nobile amico; un po' di pazienza! Nuovi tumulti ci minacciano.
L'Avaro. Con della
buona volontà, non è difficile stare a contemplare questo
cerchio, e provarne piacere, poichè le donne quando si tratta di
esercitare la curiosità, o di carpire qualche cosa, sono sempre al primo
rango. Quanto a me, io non sono ancora così male in arnese; una bella
donna è sempre appetibile; e poiché oggi non costa nulla voglio farne
una spanciata. Ma siccome però in un luogo che rigurgita di gente, non
tutte le parole sono intese a dovere, così tenterò di esprimermi
il più chiaramente possibile colla pantomina e spero di riescirvi. Se le
mani, i piedi, i gesti, non sono sufficienti, ebbene, ricorrerò a
qualche gherminella: mi servirò dell'oro come se fosse umida creta, a
cui si dà la forma che si vuole.
L'Araldo. Che cosa
salta adunque in mente a questa stupida mummia? Quell'affamato pitocco vorrebbe
forse fare dello spirito? Tutto l'oro diviene nelle sue mani una pasta molle.
Come la rimesta e la spappola! E ciò
malgrado non riesce a dargli che una forma ignobile. Ed ecco che si volta alle
donne; ed esse strillano, si dimenano ignobilmente, e cercano di fuggire. Il
mariuolo ha una brutta accoglienza, ed è facile che usi modi
sconvenienti, e tali che io non potrei tacermi. Dammi adunque il mio bastone,
ché io voglio scacciarlo.
Plutone. Non
sarà lui che affretterà i malanni che ci minacciano di fuori.
Lascialo pure sbizzarrirsi da quel pazzo che è; gli mancherà il
posto per le sue pasquinate. La legge è potente, ma più ancora la
necessità.
Tumulto e
canto. Drappelli di gente silvestre accorrono dall'alto dei monti,
dal folto dei boschi, per festeggiare il loro gran dio Pane. Sanno dessi
ciò che nessun altro sa; e si slanciano nel cerchio vuoto.
Plutone. Io vi
conosco, voi, il vostro gran dio Pane e le forti imprese che avete compiuto in
sua compagnia! Io so benissimo ciò che non è noto a tutti e ben
volentieri v'apro l'accesso a questo stretto cerchio. Che la fortuna li
assista! Possono far senza del meraviglioso; non sanno ove vanno; davvero che
non sono accorti.
Canto
selvaggio. Genia imbellente, massa di lustrini! bruti, brutali arrivano a
salti arditi, lanciati a corsa furibonda; eccoli tutti forti e gagliardi.
I Fauni.
La schiera dei Fauni dalla danza lasciva, coi crespi capegli coronati di rami
di quercia, un viso largo, un nasino camuso, un orecchio sottile ed aguzzo che
spunta fuori dalle ciocche, incontrano ciò malgrado il favore delle
donne. Quando il fauno porge loro la zampa, la più bella di loro non fa
la schizzinosa.
Un Satiro. A noi che
abbiamo il piede di capra e la gamba sottile, s'addicono membra asciutte e
nervose. Come fanno i camosci sulle vette dei monti, il satiro si diletta a
spingere lo sguardo da tutte le parti e baldo di libertà deride il
fanciullo, l'uomo, la donna, che laggiù nelle nebbie delle bassure
credono ingenuamente di vivere anch'essi, mentre egli solo, là in alto,
in quell'aria pura, e scevro di pensieri, vive davvero, e può credersi
padrone del mondo intero.
I Gnomi.
Ecco venire trotterellando la tribù dei Pigmei, che non sa camminare per
due. Coperti d'un abito di muschio, si dimenano dinoccolati colle loro piccole
lanterne, ciascuno a suo modo, formicolando come lucciole, con un moto
incessante, per dritto e per traverso. Prossimi parenti dei sacri tesori,
rinomati come anatomisti del granito, noi facciamo salassi alle montagne e
spilliamo dalle ricche loro vene. Noi caviamo fuori i metalli, animandoci al
lavoro col grido: Che la sorte ci sia favorevole! un grido che sgorga dal
cuore, perché noi siamo gli amici della brava gente. Frattanto noi esponiamo alla
luce l'oro pei ladri e pei mezzani, ed abbiamo cura di non lasciar mancare il
ferro all'uomo riottoso che inventò l'assassinio su larga scala. Colui
che disprezza i tre comandamenti, non tiene alcun conto degli altri. Di tutto
questo noi non abbiamo colpa; e perciò abbiate pazienza.
I Giganti.
Gli uomini selvaggi, — è questo il loro nome, — sono assai conosciuti
là sui dirupi dell'Harz. Nudi e fieri della loro forza antica, camminano
a schiere con un incedere da veri giganti, con un tronco d'abete nella mano
destra, una grossolana cintura intorno al corpo, e i fianchi coperti da
fogliami. Sono guardie tali che il papa stesso non ha l'eguali.
Coro di
Ninfe (circondano il dio Pane). Ecco qua anche lui, il sublime
Pane, il simbolo di tutto quanto v'ha nel mondo. Le più graziose fra voi
intreccino a lui d'intorno le danze più spigliate; benché buono e grave
egli ama l'allegria. Sempre desto sotto l'azzurra volta del cielo, si compiace
del dolce mormorio dei ruscelli, e delle brezze che lo cullano soavemente invitandolo
al riposo; e quando s'assopisce verso il meriggio, le foglie cessano di
stormire, e l'aroma delle piante fiorite gl'imbalsama l'aria silente; la ninfa
interrompe i suoi trastulli, s'arresta, e si addormenta sul punto stesso ove si
trova. Ma se ad un tratto risuona la sua voce, poderosa al pari del rombo del
tuono o del muggito del mare, nessuno sa più da qual parte volgersi, la
forte armata si sperde, e nella confusione i brividi assalgono l'eroe. Onore
adunque a chi spetta! salute a colui che qui ci adduce.
Deputazione
di Gnomi (al gran dio Pane). Se lo splendente e supremo bene
s'annida e scorre nelle vene del granito, e non rivela i suoi tortuosi meandri
che al magico potere della bacchetta divinatrice, — noi edifichiamo nelle
oscure grotte la nostra casa di trogloditi, mentre alla pura luce del sole,
dispensi generosamente i tesori. Ed ecco che qui presso noi abbiamo or ora
scoperto una sorgente meravigliosa, che promette darci senza lavoro ciò
che appena si potrebbe sperare da una fortunata conquista. Da te solo dipende
la piena riuscita di questo affare; prendila, o sire, sotto la tua protezione!
Nelle tue mani ogni tesoro diventa retaggio dell'universo.
Plutone (all'Araldo).
Sappiamo comportarci con grandezza e lasciamo che si compia ciò che si
sta preparando. A te il coraggio non è mai mancato. Ora sta per
succedere qualche cosa di sì orribile che né il mondo né la
posterità non vorranno prestarvi fede; prendine nota esatta ne' tuoi
protocolli.
L'Araldo (afferrando
la bacchetta che Plutone tiene in mono).
I nani conducono adagio adagio il dio Pane presso la sorgente del fuoco
che scaturisce gorgogliando dalle viscere della terra, poi ricade nella
voragine, la cui bocca rimane spalancata ed oscura, ed ove il gorgoglio
ondeggia ancora bollente e fumante. Il gran dio Pane assiste di buon umore a
uno spettacolo che lo entusiasma. Una schiuma di perle spruzza da ogni parte.
Egli si china per guardare; ma ecco che gli casca dentro la barba. Chi è
mai costui con quel mento raso? La sua mano ce lo nasconde. Sopra viene un
grande malanno: la barba prende fuoco e in un momento una striscia di fuoco
incendia la corona, il capo ed il petto; la gioja è convertita in
tormenti. La schiera dei gnomi accorre a spegnere le fiamme, e più
quelli s'affannano per soffocarle, più queste avvampano e si
moltiplicano. Avviluppato dall'elemento ardente un drappello intero di maschere
arrostisce. Ma che ascolto? Quale novella le bocche susurrano agli orecchi? O
notte eternamente terribile, quanti malanni ci hai arrecato! nella giornata di
domani si udrà quello che nessuno vorrebbe udire. Da ogni parte si grida
che è l'imperatore che soffre codeste torture! L'imperatore brucia co'
suoi fidi. Sia maledetto colui che lo ha spinto a circondarsi di fascine
resinose ed a venir qui a fare tanto strepito, per riuscire alla distruzione
generale! O gioventù! o gioventù! non saprai mai mettere un freno
alla tua gioja! — O grandi! o
grandi! non saprete mai conciliare nei vostri atti la ragione al potere che
esercitate?
Già tutto è preda delle
fiamme; già montano a lambire l'armatura del tetto; un incendio generale
ci sovrasta. La desolazione ha colma la misura; chi mai ci salverà?
Domani si vedrà la grande magnificenza imperiale giacere al suolo,
ridotta durante la notte in un mucchio di cenere?
Plutone. Bando allo
spavento! è tempo di arrecar loro
soccorso. O potere di questa bacchetta! Che il suolo frema e rimbombi al suo tocco! e tu, o
etere infinito, riempiti di un tiepido vapore! Voi, nebbie, posatevi qui! O
nembi gravidi di pioggia, ammassatevi su questa fornace romoreggiante; o
piccole nubi, stendetevi, condensatevi in acquazzoni, fate ogni sforzo per
ispegnerla, cangiate in una procella questo vano tramestio di fiamme. Quando gli
spiriti congiurano a nostro danno spetta alla magia a scendere in campo.
Giardino delizioso. Splendido mattino
L'Imperatore
e
la sua corte, Dame e Signori, Faust, Mefistofele
vestito decentemente, alla moda, ma senza affettazione. Entrambi piegano il
ginocchio a terra.
Faust. Ci perdoni
tu l'incendio carnevalesco?
L'Imperatore
(facendo
loro segno d'alzarsi). Mi auguro d'avere spesso simili commedie. Vi fu un
momento in cui mi sono visto in mezzo ad un cerchio di fuoco, a talché credetti
quasi d'essere Plutone. Una vera voragine di tenebre e di carbone, il quale
tutto ad un tratto divampasse! ove turbinavano migliaia di fiamme stravaganti
che andavano ad unirsi formando un'alta cupola ognora in piedi e ognora
crollante. In mezzo a quel vortice ardente io vedevo muoversi da lontano la
lunga fila dei popoli, che si precipitavano nel largo cerchio, e come sempre,
mi rendevano omaggio. Ebbi a riconoscere fra essi parecchi de' miei cortigiani,
per cui sembravo il re delle salamandre.
Mefistofele. Tu lo sei,
sire! dal momento che ciascun elemento riconosce la tua sovranità
assoluta. La fiamma, tu n'hai avuta poc'anzi la prova, ti è sottomessa.
Ora tuffati nel mare in quel punto ove si scatena con maggior impeto e furore,
e appena il tuo piede avrà toccato il fondo seminato di perle, che
subito si formerà gorgogliando un cerchio risplendente. Da cima a fondo
vedrai i flutti verdi, spumeggianti, sollevarsi intorno a te e formarti una reggia
superba. Ad ogni passo che muovi dei palagi t'accompagnano. Le mura stesse,
dotate di vita, si muovono, vanno e vengono colla rapidità della
freccia. I mostri marini
accorrono in folla a contemplare questo spettacolo nuovo, prodigioso; essi
fanno ala, e non lasciano che cosa alcuna vi penetri. Colà si spassano i
draghi variopinti, e dalle squame dorate; il pescecane guaisce e tu gli ridi
sul muso. Per quanti spettacoli t'abbia offerto la tua corte incantata, tu non
hai mai visto nulla di simile. Non ti mancano neppure le imagini graziose;
vedi, le Nereidi curiose s'avvicinano al magnifico palazzo immerse nell'eterna
freschezza: le più giovani timide e lascive come pesci; le altre, caute.
Teti diggià informata, porge mano e labbra al novello Peleo, indi gli
offre un seggio nel beato Olimpo.
L'Imperatore. Quanto agli
spazi aerei, te ne faccio grazia; si salgono sempre abbastanza presto i gradini
del trono di lassù.
Mefistofele. E la terra? Non è già
tua, eccelso sire?
L'Imperatore. Quale
avventurato destino ti ha portato qui di sbalzo dalle Mille ed una notte? Se tu
arrechi l'abbondanza al pari di Sceherazade, tu avrai, te ne dò la mia
parola, il più ambito fra i regali favori. Perciò, tienti a mia
disposizione pel caso che il mondo, come accade sovente, mi venisse in uggia
colla sua monotonia.
Il
Maresciallo (accorrendo frettoloso). Non avrei mai sperato, grazioso
sovrano, di avere la ventura di annunciarti un avvenimento sì fausto
qual è quello che ora mi riempie di gioja alla tua presenza: il debito
è estinto, i creditori pagati, attutita la voracità degli usurai.
Eccomi liberato da quegli incubi d'inferno; non credo che in cielo si gusti una
gioja maggiore.
Il Gran
mastro dell'esercito (frettoloso esso pure). Tutto l'esercito ha ricevuto la
paga, ed è pronto a rinnovare la ferma; il lanzichenecco si sente in
lena, e di ciò godono l'oste e le sue figlie.
L'Imperatore. Come, il
vostro petto si solleva, come si è rasserenata la vostra fronte non
più corrugata! Perché accorrete con tanta furia?
Il Tesoriere
(sopravvenuto).
Interrogate coloro che hanno fatto tutto questo.
Faust. Spetta al
cancelliere l'esporre la cosa.
Il
Cancelliere (facendosi avanti a passi lenti). Quale fortuna pe' miei
vecchi giorni! Morrò contento. — Ascoltate adunque, e considerate
ciò che sta scritto sul gran libro del destino che ha convertito tanto
male in bene (legge). "Sia noto a chi lo vuol sapere che questo
foglio vale mille corone. A garanzia si dà una quantità
stragrande di tesori sepolti entro il suolo dell'impero. Tutte le misure sono
prese perché tanta copia di valori, che già entrano nelle casse dello
Stato, serva al pagamento della carta."
L'Imperatore. Io sospetto
che vi sia qui qualche delitto, qualche mariuoleria mostruosa! Chi dunque ha
contraffatto la sigla imperiale? Un crimine siffatto non è stato punito?
Il Tesoriere. Consulta la
tua memoria. Tu stesso vi hai apposto la tua firma, e non più tardi
della scorsa notte. Tu rappresentavi il gran dio Pane. Io ed il cancelliere ti
abbiamo parlato in questi termini: Poni il colmo alla gioja di questa festa, e
consacra la salvezza del popolo con un tratto di penna. Tu l'hai fatta questa
firma, e molto chiaramente. Quindi migliaja d'artisti l'hanno riprodotta a
migliaja. Ed affinchè tutti potessero godere di tanto beneficio, non
abbiamo indugiate a bollare gran numero di biglietti d'ogni valore, da dieci,
da trenta, da cinquanta, da cento. Voi non arrivate a farvi un'idea del bene
che ne risente il paese! Guardate la vostra città, non ha guari ancora
sì scombussolata, e già presso alla ruina, come rinasce d'ogni
parte alla vita, ed esulta ebra di piacere! Quantunque si sappia che il tuo
nome forma da tanto tempo la felicità del mondo, esso non attirò
mai come ora l'ammirazione e l'amore. Oramai non v'è più bisogno
dell'alfabeto; quella firma basta a rendere tutti felici!
L'Imperatore. I miei sudditi le accordano il valore
dell'oro puro? L'esercito, la corte acconsentono a riceverla in pagamento? Per
quanto ne sia stupito, debbo lasciare ch'essa abbia corso.
Il
Maresciallo. Sarebbe impossibile d'arrestare il corso della carta, che
vola, si sparge colla rapidità del baleno. La bottega degli incaricati
del cambio è spalancata, e fa onore a qualunque effetto, ricevendolo con
qualche ribasso, è vero, contro oro ed argento, di cui tutti si servono,
presso il macellajo, il panattiere, e l'albergatore. La metà della gente
non sogna che feste, l'altra si pavoneggia in nuove acconciature. Il merciajo
taglia, il sartore cuce. Il vino zampilla nelle taverne al grido di: Viva
l'imperatore! Fumano le marmitte, girano gli spiedi, rumoreggiano le stoviglie.
Mefistofele. Chi
passeggia nei punti appartati sugli spalti v'incontra la bella delle belle
splendidamente abbigliata, che coprendosi un occhio col ventaglio di piume ci
guarda coll'altro e ci sorride... Non v'è bisogno di spirito o
d'eloquenza per ottenere più presto e più largamente i favori
dell'amore, né di presentarsi col borsellino o coi sacchi ricolmi; un piccolo
foglio di carta si porta così facilmente in seno, e s'accoppia
così bene coi biglietti amorosi. Il prete lo ripone piamente nel
breviario; il soldato rimane più agile ne' suoi movimenti, e la sua
cintura è più leggera. Mi perdoni Vostra Maestà, e non
creda che io voglia attenuare il merito della grande opera, coll'enumerarne i
più piccoli beneficii.
Faust. L'immensa
copia di tesori che dorme sepolta entro la terra de' tuoi Stati, rimane senza
profitto. Tale sterminata ricchezza non può imaginarsi dal pensiero il
più vasto; la fantasia non vi arriva per quanto alto e sublime sia il
suo volo. Ma gli spiriti cui è dato di scandagliare il fondo delle cose,
concepiscono per l'infinito una confidenza infinita.
Mefistofele. Quella
carta è assai più comoda che l'oro e le perle. Si sa precisamente
ciò che si possiede senza bisogno di pesare né di cambiare, e si può
godersela e scialare colle donne e col vino. — Si vuole dell'oro? C'è
lì presso chi fa il cambio; e se mancasse il metallo, non si ha che a
scavare alcun poco il terreno, si mettono all'incanto coppe e monili, ed ecco
subito ammortizzata la carta, e svergognati gl'increduli che si beffavano
insolentemente di noi. Una volta che se n'è fatta l'abitudine, non si
vuole altro. Ed oramai in tutti gli Stati dell'imperatore basterà
stendere la mano per avere oro, giojelli e carta a bizzeffe.
L'Imperatore. Voi avete
ben meritato del nostro impero. Voglio adunque che la ricompensa sia il
più possibilmente adeguata al servizio reso. Noi vi confidiamo i tesori
rinchiusi entro il suolo dello Stato; voi ne siete i più degni custodi.
Voi che conoscete in quali profondi nascondigli giacciono riposti, vegliate a
che gli scavi non si facciano che per ordine vostro e colla vostra guida.
Adempite adunque, o padroni dei nostri tesori, con alacrità ed accordo i
doveri del vostro ministero, nel quale si riunisce il mondo superiore e
l'inferiore, ambedue felici di trovarsi insieme.
Il Tesoriere. Non deve
più esistere tra noi neppur l'ombra della discordia; io mi congratulo
con me stesso di avere per collega l'incantatore (esce con Faust).
L'Imperatore. Poiché io
colmo tutti della mia corte di regali, che ciascuno dichiari l'uso che intende
farne.
Un paggio (ricevendo
il dono). Quanto a me, io vivrò lieto, contento, e sempre di buon
umore.
Un altro
paggio. Io vado subito a comperare anelli e catene d'oro per la mia
bella.
Un altro cameriere. Io sento i
dadi a ballarmi in tasca.
Un signore
porta bandiera (con circospezione). Io pago i debiti che gravano sul mio
castello e sui miei poderi.
Un altro
simile. Un tesoro! Corro a sotterrarlo accanto ad altri!
L'Imperatore. Io speravo
trovare in voi cuore ed ardore per nuove imprese; ma chi vi conosce vi apprezza
facilmente. Lo veggo pur troppo: in mezzo allo splendore delle ricchezze, voi
rimanete quali foste sempre; siete ora quelli di prima.
Il buffone (sopravvenendo).
Voi dispensate favori: lasciate ch'io pure ne partecipi.
L'Imperatore. Come! Sei
ancor vivo? Tu andresti difilato a berli!
Il buffone. Quei vostri
famosi biglietti! Io non ci capisco nulla!
L'Imperatore. Lo credo
io; gli è che tu li impieghi sì male.
Il buffone. To', ecco
pioverne altri! Io non so che debbo farne.
L'Imperatore. Prendili,
è la tua parte (esce).
Il buffone. Cinquemila
corone in mano mia!
Mefistofele. E per dippiù, un pajo di gambe,
eccoti di nuovo rialzato!
Il buffone. Ciò
mi succede di sovente, senza che per questo io mi sia mai trovato meglio che
ora.
Mefistofele. Tu esulti
siffattamente che sudi da capo a piedi.
Il buffone. Ma
guardate, e ditemi: vale proprio tanto oro tutto questo?
Mefistofele. È
tanto vero, che puoi procurarti con esso tutto quanto solletica la tua gola e
il tuo ventre.
Il buffone. Posso anche
comperare campi, casa e bestiame?
Mefistofele. Certamente! Non hai che ad offrire, ed avrai tutto.
Il buffone. E un castello, con boschi, caccia e
vivajo?
Mefistofele. Ti venga il
malanno! Mi piacerebbe assai vederti diventare mio padrone.
Il buffone. Da questa
sera io credo signoreggiare nei miei dominii (esce).
Mefistofele (solo).
Ed ora si può ancora porre in dubbio la sana mente di quel pazzo?
Una galleria oscura
Faust e Mefistofele.
Mefistofele. Perché mi
trascini per questi oscuri corridoi? Non si tripudia abbastanza laggiù,
e in mezzo a quella folla sì grande e sì screziata di cortigiani
manca forse l'alimento al motteggio ed all'impostura?
Faust. Non tenermi
un simile linguaggio che per me è troppo vecchio e sfruttato. Queste
scappatoje continue ti servono a dissimulare il proposito di non rispondermi.
Eppure il maresciallo ed il ciambellano m'incalzano, mi tormentano talmente per
eccitarmi ad agire, che mi tolgono il respiro. L'imperatore vuole che sieno
tratti al suo cospetto Elena e Paride; egli è inflessibile in questa sua
bramosia di contemplare davvicino e sotto forme sensibili questi due capilavori
del tipo uomo e donna. All'opera, adunque! Io gli ho promesso di soddisfarlo, e
non voglio mancare alla mia parola.
Mefistofele. Fu una
follia il darla così leggermente.
Faust. Tu non hai
pensato, camerata, a che ci avrebbero condotto i tuoi stratagemmi. Noi
l'abbiamo fatto ricco, ora dobbiamo divertirlo.
Mefistofele. Ti par
facile questo? T'illudi. Ci stanno davanti altri gradini da salire, e ben
più ardui: ti si da facoltà di attingere a piene mani in uno
strano tesoro, e tu da vero insensato finisci col contrattare nuovi debiti! Tu
t'immagini ch'Elena sia così facile ad evocare come quel simulacro
dell'oro che è la carta monetata. — Se si trattasse di spettri, di
streghe, di nani dalla gola pelosa, alla buon'ora! Sono pronto a servirti; ma
le comari del diavolo, sia detto senza far torto — non possono esser tenute per
eroine.
Faust. Ci siamo
colla tua vecchia canzone! Con te si naviga sempre nel dubbio; tu sei eterno
fattore di ostacoli, e per ogni gherminella vuoi un nuovo premio. — Tu brontoli
un poco, e il colpo è fatto, lo so, in un batter d'occhio.
Mefistofele. Col popolo
pagano io non ho a che fare: ei sta a dimora nel suo speciale inferno...
Tuttavia mi balena in mente un mezzo.
Faust. Parla,
parla, t'ascolto.
Mefistofele. È un
alto mistero, e te lo rivelo a malincuore. — Vi sono auguste dive il cui regno
è la solitudine; intorno ad esse non v'è né spazio né tempo, e
non si può parlare di esse senza sentirsi turbati. Sono le Madri.
Faust (sbigottito).
Le Madri!
Mefistofele. Tu tremi!
Faust. Le Madri! le
Madri! Che strano suono ha codesta parola!
Mefistofele. E pure esistono, codeste dee, ignote a
voi mortali, e che noi nominiamo peritosi. Tu andrai in cerca della loro dimora
per entro i profondi abissi. È colpa tua se abbiamo bisogno di loro.
Faust. Qual
è la strada?
Mefistofele. Non ne
esiste di tracciata; bisogna avventurarsi verso l'inaccessibile e
l'impenetrabile per sentieri non ancora percorsi e che non lo saranno mai. Sei
pronto? Non vi sono né serrature né catenacci da scassinare. Hai tu qualche
idea del vuoto, della solitudine?
Faust. Potresti,
mi pare, risparmiare simili discorsi che mi puzzan di streghe, e accennano a un
tempo che non è più. Non mi fu forza aver commercio colla gente,
apprendere che sia questo vuoto, ed istruirne alla mia volta gli altri? Se io
parlavo allora assennatamente, e come la mente mi suggeriva, la contraddizione
saltava doppiamente agli occhi; e perciò dovetti, per sottrarmi a colpi
sì ributtanti, cercare un rifugio nella solitudine, nel deserto; e per
non vivere così romito, così completamente obliato, darmi alfine
al diavolo.
Mefistofele. Ti affida
in balia dell'oceano, immergiti nella contemplazione dell'infinito; là
almeno vedrai l'onda accavallarsi sull'onda, e nel momento in cui l'abisso si
spalancherà davanti a te, sarai invaso dallo spavento. Vedrai almeno
qualche cosa. In seno alla verde profondità del mare calmo vedrai
guizzare i delfini; e in alto, il sole, la luna, le stelle, le nubi mosse dal
vento; ma nell'eterno lontano vuoto non iscorgerai più nulla, non
sentirai più il rumore de' tuoi passi, non troverai alcun che su cui
posarti.
Faust. Tu mi parli
come il più saccente mistagogo che
abbia mai ingannato un fido neofita; ma riesci all'opposto. Tu mi mandi nel
vuoto affinchè la mia arte ed il mio senno si rinvigoriscano; tu mi
tratti un poco alla stregua del gatto, affinchè io ti tragga le castagne
dal fuoco. Non importa! io ho ferma speranza di trovar nel tuo nulla il tutto.
Mefistofele. Lascia che
io mi congratuli con te prima di separarci! Veggo che ormai conosci bene il tuo
diavolo. Prendi questa chiave.
Faust. Come!
codesta?
Mefistofele. T'affretta
a prenderla, e guarda bene dal disconoscerne il potere.
Faust. O
meraviglia; essa ingrandisce nelle mie mani, s'accende, e getta lampi.
Mefistofele. Tu
t'accorgi fin d'ora quanto sia prezioso e potente quest'arnese. Esso ti
sarà di guida per iscoprire il luogo; seguila, e ti troverai presso le
Madri.
Faust (trasalendo).
Le Madri! Questa parola mi colpisce sempre come un fulmine. Come mai non posso
tollerarne il suono?
Mefistofele. Sei tu
così dappoco da turbarti per una parola? Non vorresti mai più
udire che ciò che hai già udito? Tu hai visto siffatti prodigi
che per quanto ti riesca strano il suono di tale parola, non devi
commuovertene.
Faust. Io non
cerco la mia salvezza nell'indifferenza; ciò che freme nell'uomo
è la parte migliore di lui. Il mondo, è vero, fa pagar cara
all'uomo la virtù del sentire; ma gli è quando si è
commossi che si arriva a comprendere l'infinito.
Mefistofele. Discendi
adunque... o sali, giacché il dirti l'una cosa o l'altra torna lo stesso.
Sfuggi al reale, slanciati nei vuoti spazii dell'ideale, per godere lo
spettacolo di ciò che non esiste più da lungo tempo. La ruota
gira come le nubi. Agita quella chiave nell'aria e tienila discosta da te.
Faust (con
trasporto). A meraviglia! A misura che la stringo nelle mie mani, io sento
nascere in me un nuovo vigore, ed il petto dilatarsi per la grande impresa.
Mefistofele. Un tripode
fiammeggiante ti farà accorto che sei arrivato nell'imo degli abissi; e
ad un tale chiarore scorgerai le Madri: le une sedute, altre in piedi e vaganti
così come si trovano. Forme, continuo cambiamento di forma, eterna
presenza del senso eterno! Imagini di tutte le creature, esse ti circonderanno,
ma non ti vedranno, poiché non veggono che le idee. Coraggio allora, ché il pericolo
sarà grande! Va diviato al tripode, e toccalo colla tua chiave.
Faust (leva in
alto la chiave d'oro con un atteggiamento risoluto e di comando).
Mefistofele (standolo
a guardare). Benissimo! il tripode allora ti si mette a fianco, e come un
fido satellite non t'abbandona più. Tu risali tranquillo, portato dalla
fortuna, e prima che le Madri se n'avveggano, sei di ritorno col tripode che
sei andato a conquistare. Appena l'avrai qui deposto, evocherai dal seno delle
tenebre l'eroe e l'eroina della notte. L'impresa è compiuta da te, il
primo che abbia avuto l'ardire di accingersi a tanto! Quindi per virtù
magica, i fumi dell'immenso saranno trasformati in numi.
Faust. Ed ora?
Mefistofele. Ora,
l'essere tuo deve tendere al suo scopo, mirare a sprofondarsi. Discendi
battendo i piedi, e poi battendo i piedi rimonta.
Faust (batte il
suolo co' piedi e si sprofonda).
Mefistofele. Purché la
chiave abbia davvero il potere di farlo riuscire nell'impresa! Sono curioso di
vedere se ritornerà.
Sale splendidamente illuminate
L'Imperatore, i Principi, Mefistofele, e Cortigiani
in movimento.
Il
Ciambellano (a Mefistofele). Voi ci dovete ancora la scena dei
fantasmi. Lesto, all'opera. Il nostro sire n'è impaziente.
Il
Maresciallo. Il nostro grazioso monarca ce ne richiese appunto poc'anzi.
Sarebbe un mancar di riguardi a Sua Maestà l'indugiare ancora.
Mefistofele. Il mio
collega è partito precisamente per questa bisogna; egli sa in qual modo
deve destreggiarsi, e lavora nel silenzio. È necessario ch'ei si adoperi
colla maggiore diligenza, poiché chiunque ricerca l'oro e il Bello deve
chiamare in suo ajuto la più sublime fra le arti, la magia de' savii.
Il
Maresciallo. Qualunque sieno le arti che adoperate, poco importa, purché si
soddisfi la volontà dell'imperatore, e lo spettacolo abbia luogo.
Una bionda (a
Mefistofele). Una parola, signore. Il mio viso ha un colorito abbastanza
chiaro, voi lo vedete; ma pur troppo non si conserva così quando viene
l'ingrata estate! Allora il candore della mia pelle si chiazza di cento brutte
macchie rossastre; è un orrore. Quale il rimedio?
Mefistofele. Affé, che
gli è proprio un peccato: un tesoretto sì vezzoso che in
primavera si macchia come la pelle d'una pantera! Prendete fregolo di ranocchi
e lingue di rospi, e distillateli con somma cura durante la luna piena. Quando
questa comincerà a decrescere, applicate al viso tale cosmetico. Al
giunger della primavera, le macchie saranno sparite.
Una bruna. Poiché
tutti ricorrono a voi, permettete che io vi consulti alla mia volta. Questo
piede intorpidito m'impedisce di correre, di ballare, e mi rende persino goffa
nel fare la riverenza.
Mefistofele. Soffrite
che io prema un poco il mio piede sul vostro piede malato.
La bruna. Sia pure;
è quello che si fa tra innamorati.
Mefistofele. Il premere
del mio piede ha ben altra virtù: similia similibus: è il
rimedio per tutti i mali: il piede guarisce il piede, e così dicasi
delle altre membra. Avvicinatevi... attenzione! non istate a rendermelo...
La bruna (gridando).
Ahi! ahi! Che bruciore! Che terribile pestata! Si direbbe l'unghia d'un
cavallo.
Mefistofele.
Sarà; ma voi siete guarita; ed ora potete ballare a vostro bell'agio, e
manovrar di piede sotto la tavola col damo.
Una signora (fendendo
la folla). Lasciatemi, vi prego, arrivare sino a lui; io non ne posso
più; mi sento ribollire il sangue in fondo al cuore. Jeri ancora egli
cercava la sua felicità nei miei occhi, ed oggi mi volge le spalle, e
chiacchiera con lei!
Mefistofele.
Ahimè! la cosa è grave, certamente. Ma ascolta: avvicinati a lui
sulla punta dei piedi, prendi questo carbone e con esso traccia una riga sulle
sue maniche, sulle spalle, sul mantello, a casaccio; ed esso sentirà il
pentimento pungergli il cuore e ti tornerà fedele. Quanto a te,
bisognerà che tu ingoi all'istante questo carbone senza umettar le
labbra né d'acqua né di vino. Segui i miei consigli, e questa sera stessa lo
sentirai sospirare davanti alla tua porta.
La signora. In ogni
caso, non sarà veleno?
Mefistofele (sdegnato).
Parlate con più rispetto! Dovreste andare ben lontano, prima di trovare
un carbone simile; esso proviene da un rogo, che un tempo si attizzava da noi
colla massima cura.
Un paggio. Signore, io
amo e sono trattato da ragazzo.
Mefistofele (a parte).
Non so più a chi dar retta. (Al paggio). Non v'indirizzate alle
più giovani; le matrone sapranno bene apprezzarti! (Altri fanno ressa
intorno a lui). Nuove richieste ancora! Il compito è duro!
Ricorrerò alla verità; il mezzo è disperato, ma il
pericolo è grande. — O Madri! o Madri! lasciate venir Faust. (Guardandosi
intorno). Già la luce dei doppieri languisce. Tutta la corte si
muove, e sfila lungo i viali e le lontane gallerie. Eccoli che si riuniscono
nell'antica spaziosa sala dei Cavalieri che li contiene a stento; le sue mura
sono coperte di tappeti, negli angoli e nelle nicchie s'aggruppano splendidi
trofei. A mio avviso, qui si potrebbe far senza di scongiuri per evocare gli
spiriti; vi vanno da sé soli.
La sala dei cavalieri
Luce incerta.
L'Imperatore
e
la corte hanno preso posto.
L'Araldo. Il
misterioso dominio degli spiriti compromette il mio antico incarico
d'annunciare lo spettacolo. Indarno si ricorre alla ragione per trovare
spiegazione alla confusione che regna. Sedie e seggioloni a bracciuoli sono
disposti in bell'ordine; all'imperatore è riservato il posto davanti al
parato steso sul muro, affinchè possa osservare a suo bell'agio le
battaglie dei grandi secoli trascorsi. Eccoli tutti collocati; la corte in
semicircolo, ai due lati dell'imperatore. Le dame si pigiano nel fondo della
sala, e come nelle ore misteriose della visione, l'innamorata ha saputo trovar
posto presso il damo, e sedergli accanto in atto amoroso. Ed ora eccoci pronti
noi pure. Fuori gli spettri! (Fanfare).
L'Astrologo.
Si dia immediatamente principio al dramma; il sovrano lo. vuole. O mura,
apritevi! L'ora della magia è giunta. Le tappezzerie ondeggiano, come se
fossero travolte dalle fiamme. La parete si fende e si scompiglia; un grande
teatro pare elevarsi davanti a noi, su cui s'irradia una luce misteriosa, — ed
io salgo sul proscenio.
Mefistofele (sporgendo
il capo fuori del buco del suggeritore). Da questo posto io spero
conciliarmi il favore generale; ché gli è nel suggerire che si fa
manifesta l'eloquenza del diavolo. (All'Astrologo.) Tu che conosci la
legge che regola il corso degli astri, capirai da quel maestro che sei le
parole che ti suggerirò.
L'Astrologo.
Oh prodigio! Ecco un tempio antico ed abbastanza massiccio, che ci sorge
davanti! Simile ad Atlante che un tempo sosteneva il cielo, numerose colonne lo
reggono all'ingiro, più che bastevoli per una sì enorme massa di
granito, giacché due sole di esse porterebbero un monumento di smisurata
grandezza.
L'Architetto. Voi
chiamate questo antico? Ditelo piuttosto massiccio e pesante. Sento
chiamar nobile ciò che non è che comune, e grandioso ciò
che non è che goffo. A me piace la colonnetta svelta, e nello stesso
tempo slanciata e maestosa. L'arco acuto ti sublima lo spirito, e l'edificio quale
io lo concepisco, soddisfa assai più al nostro gusto.
L'Astrologo.
Salutate rispettosamente le ore che gli astri vi concedono; la parola magica
vinca la ragione, e la superba e vagabonda fantasia prenda l'abbrivo; osservate
con tutta l'attenzione di cui sono suscettibili i vostri occhi, ciò che
avete ardentemente desiderato; e che è tanto più degno di fede in
quanto che impossibile.
Faust (sbuca
dalla parte opposta al proscenio).
L'Astrologo.
Vi annunzio un uomo prodigioso che in abiti sacerdotali, e la fronte cinta di corona,
viene ora a compiere qui l'impresa a cui si era accinto. Un tripode sorto dal
fondo degli abissi sotterranei lo accompagna. Io già fiuto gli effluvi
d'incenso ch'esso esala. Ei viene a benedire la grand'opera, dalla quale non
può produrre che un felice risultato.
Faust (solennemente).
Io vi scongiuro, o Madri, che signoreggiate assise sul trono dell'infinito, —
eternamente sole, eppure socievoli, — la fronte cinta delle imagini ideali
della vita attiva, ma prive di vita! Ciò che una volta ha esistito
s'agita laggiù in una splendida parvenza, poiché mira ad essere eterno. E voi, o potenze supreme, sapete
assegnarne una parte al padiglione del giorno e un'altra alla vôlta della
notte. L'una è trascinata negli allettamenti della vita, dell'altra
s'impadronisce il mago ardito, il quale nella sua generosa prodigalità
lascia che ciascuno contempli i misteri di cui ha vaghezza.
L'Astrologo.
Appena la chiave infuocata ha toccato il bacino del tripode, che un vapore
simile a nebbia se ne sprigiona, sale e riempie lo spazio, ora dilatandosi, ora
condensandosi e fluttuando per l'aria. Ed ora, attenti all'intermezzo degli
spiriti, un vero capolavoro! Essi camminano avviluppati da onde armoniche dalle
quali spira un non so che di aereo che diviene una melodia. Ne echeggiano il
colonnato e il triglifo; si direbbe che tutto quanto il tempio risuona
d'armonia. La nebbia s'abbassa, e dal suo seno vaporoso e trasparente, esce un
giovane vezzoso che si avanza a passi cadenzati. Ma qui finisce il mio cómpito.
Ho io bisogno di nominarlo? chi non riconosce in lui il leggiadro Paride?
Prima Dama. Oh! quale
splendido fiore di gioventù rigogliosa!
Seconda Dama. Fresco come
una pesca appena colta, e piena di succo!
Terza Dama. Come sono
fini e voluttuosi i contorni delle sue labbra!
Quarta Dama. Tu berresti
volentieri a quella coppa, non è vero?
Quinta Dama. Delizioso
davvero! Riguardo all'eleganza vi sarebbe a dire.
Sesta Dama. Un po'
più d'eleganza nelle membra non gli farebbe male.
Un Cavaliere. Per quanto
lo osservi, non veggo in lui che il pastore: nulla che rammenti il principe, o
le maniere della corte.
Un Altro. Mezzo nudo
com'è, appare un bel giovane, ne convengo; ma bisognerebbe vederlo
vestito.
Una Dama. Vedete con
quale molle abbandono si siede.
Un Cavaliere. Vi sarebbe
gradito sedere sulle sue ginocchia, non è vero?
Un'altra
Dama.
Come è grazioso quando posa sul capo il suo bel braccio!
Un
Ciambellano. Che villano! Può essere più sconveniente questo
suo atteggiamento?
La Dama. Voi altri
uomini trovate sempre qualche cosa da criticare!
Il
Ciambellano. Sdrajarsi in quel modo davanti all'imperatore! Che vergogna!
La Dama. È un
atteggiamento qualunque: egli crede di essere solo.
Il
Ciambellano. Che importa? Anche le consuetudini del teatro devono qui
piegarsi all'etichetta.
La Dama. Un dolce
sonno s'impadronisce di quella vaga creatura.
Il
Ciambellano. Bravo! aspettiamoci a sentirlo russare. Non ci mancherebbe
altro! Benissimo!
Una giovane
dama (entusiasmata). Ma qual fresco profumo di rosa e
d'incenso mi scende nell'anima e ne invade le fibre più profonde?
Un'altra
più attempata. È vero! Un soffio tutto speranza penetra nei cuori, e
spira da lui!
Una Vecchia. È il
fiore d'ambrosia, che s'apre rigoglioso e si sviluppa nel suo petto giovanile
profumando l'atmosfera intorno ad esso. (Elena comparisce.)
Mefistofele. È
questa dunque? Davvero che non temerei di perdere la pace per lei. È
bellissima, ma non mi fa grande impressione.
L'Astrologo.
Quanto a me, non ho più nulla a dire, — lo confesso da uomo d'onore —
quand'anche avessi lingua di fuoco!... La diva or viene... In ogni tempo fu
molto decantata la sua bellezza. Quegli a cui essa appare è rapito in
estasi; colui che la fe' sua fu troppo felice!
Faust. Ho ancora
gli occhi? Non è la sorgente della pura bellezza che qual torrente
impetuoso m'invade tutti i sensi? O premio avventuroso alla mia terribile
corsa! Come potrei io comprendere ad amare la vita lontano da te? La dolce
imagine che un tempo mi ha deliziato, non era che l'ombra d'una simile
bellezza. Ora è a te che io consacro le mie forze vitali, i miei
affetti; a te tutto l'amore, l'adorazione, il delirio!
Mefistofele (dalla
buca del suggeritore). Contienti, e non andar fuori di strada.
Una donna
matura d'età. È grande e di belle forme. La testa soltanto è
un po' piccola.
Una dama
più giovane. Ma osservate il piede; davvero che non potrebbe essere
più mal fatto.
Un
Diplomatico. Ho visto delle principesse che le rassomigliavano; io la trovo
bella dal capo ai piedi.
Un
Cortigiano. Ella s'avvicina in atto soave e malizioso al giovane
addormentato.
La Dama. Come sembra
brutta presso a quella cara e pura imagine di gioventù!
Un Poeta. La
splendida bellezza di lei s'irradia su lui.
La Dama. Endimione e
Luna! Un quadro stupendo!
Il Poeta.
Precisamente! sembra che la dea si chini su di lui per bere il suo alito. Oh!
momento invidiabile Un bacio! Che cosa divina!
Una Vecchia
Matrona. Davanti a tutti? Oh questo è troppo!
Faust. Favore
terribile per quel giovinetto!
Mefistofele. Silenzio
adunque! Lascia che lo spettro faccia quello che gli piace.
Il
Cortigiano. Essa si allontana sulla punta de' piedi, ed egli si sveglia.
La Dama. Essa si
guarda intorno. Lo sapevo bene io.
Il
Cortigiano. Esso rimane stupito: ciò che gli succede è
davvero prodigioso.
La Dama. Quanto a
lei, non si stupisce di quanto vede, ve lo assicuro.
Il
Cortigiano. Ora essa gli si avvicina di nuovo, ma con decoro.
La Dama. Io credo
che vuoi fargli la lezione. In simili occasioni tutti gli uomini sono sciocchi;
ed esso pure pensa essere il primo!
Un Cavaliere. Permettetemi
di grazia che io alla mia volta l'ammiri. — Elegante e maestosa!
La Dama. Oh! la
svergognata! Oramai la cosa passa ogni limite!
Un Paggio. Ah! come
vorrei essere al posto del giovanetto.
Il
Cortigiano. Chi non si lascerebbe prendere in una rete simile?
La Dama. Il giojello
è passato in tante mani, che l'oro è un po' sciupato.
Un'altra
Dama.
Dall'età di dieci anni essa ha perso ogni valore.
Un Cavaliere. Ciascuno
prende a suo piacere ciò che trova di meglio, — io m'appagherei di quei
sì belli avanzi.
Un Pedante. Io l'ho
davanti agli occhi, la veggo assai bene, eppure ardisco dubitare ancora della
sua autenticità. La realtà è strana. Anzitutto io sto a
ciò che è scritto, e cioè ch'essa ha fatto realmente
girare tutte le teste grigie di Troja. E
infatti ciò calza al caso. Io non sono giovane, eppure la mi
piace.
L'Astrologo.
Il giovane, divenuto ardito eroe, la stringe fra le braccia, ed ella si difende
a stento. Egli la solleva da forte; vorrebbe forse rapirla?
Faust. Folle
temerario! tu ardisci tanto? Ma non mi odi? fermati! è troppa tracotanza
la tua!
Mefistofele. Eppure sei
tu stesso l'autore della fantasmagoria.
L'Astrologo.
Una sola parola. Dopo ciò che è avvenuto io chiamo questo
intermezzo il Ratto d'Elena.
Faust. Che parli
di rapimento? Son io dunque per nulla costì? E non tengo in una mano quella chiave che in mezzo allo
spavento, attraverso solitarie e fluttuanti distese, mi ha condotto su questo
fermo terreno? Io ho preso piede qui, ove ha stanza la realtà. Da qui lo
spirito può combattere gli spiriti e prepararsi alla conquista del
duplice regno. Partita così da lontano, in qual modo adunque avrebbe
ella potuto venirmi così vicino? Io voglio salvarla; essa è due
volte mia! Orsù, o Madri, o Madri, m'esaudite! Chi l'ha conosciuta non
può più vivere senza di lei.
L'Astrologo.
Faust! Faust! che fai? — Ecco che l'abbraccia strettamente... e la bella
imagine perde i contorni e si confonde; egli muove colla sua chiave verso il
giovanetto... e lo tocca! O sventura, sventura per noi! (Scoppio; Faust sul
suolo; i fantasimi sì dileguano fusi in vapore.)
Mefistofele(si prende
Faust sulle spalle). Ecco che cosa vuol dire prendersi pensiero d'un pazzo!
Vi trovereste in guai, quand'anche foste il diavolo! (Tenebre, tumulto.)
Fine
dell'atto primo.
ATTO
SECONDO
Una camera gotica a volta alta e
ristretta
(quella già abitata da Faust e
nel medesimo stato)
Mefistofele fa capolino
da una tenda. Quando la solleva si scorge Faust sopra un letto di
epoca antica.
Riposa là, o sciagurato,
avvinto nei nodi inestricabili dell'amore. Quando Elena ha paralizzato la
ragione di qualcheduno, questi assai difficilmente la può riavere come
prima. (Osservando intorno.) Per quanto osservi da ogni parte, non veggo
nulla né di carnbiato né di guasto. Solo i vetri variopinti mi sembrano
alquanto appannati, le ragnatele cresciute, l'inchiostro essiccato e la carta
ingiallita. Ma del resto tutto è al suo posto... anche la penna con cui
Faust ha firmato il patto con me. Sì; ecco pure nel fondo della
cannuccia la piccola goccia di sangue che gli ho cavata, un giojello unico nel
suo genere e degno del primo fra gli antiquarii! La vecchia pelliccia è
sempre là attaccata al vecchio uncino, e mi rammenta il tiro che ho
fatto e le teorie che ho insegnato a quell'adolescente, il quale, divenuto un
giovanotto, vi affatica sopra ancora il pensiero. Davvero, che mi sento la
velleità d'indossare di nuovo quella vecchia mia zimarra, e di
pavoneggiarmi in atteggiamento da dottore che è persuaso della propria
infallibilità. Non vi sono che gli scienziati che sappiano darsi un tal
sussiego; il diavolo ne ha da molto tempo perduta l'abitudine. (Distacca e
scuote la pelliccia; n'escono fuori cavallette e scarabei d'ogni specie.)
Coro
d'insetti. Salve! salve, patrono! Noi t'abbiamo conosciuto e veniamo a
svolazzare a miriadi e a ronzare intorno a te, che ci hai seminati ad uno ad
uno nel silenzio. La perfidia si nasconde talmente nel cuore, che è
più facile scoprire i pidocchi entro questa pelliccia.
Mefistofele. Quale aggradevole
sorpresa mi da questa nuova razza! Basta seminare, e col tempo si raccoglie. Ho
un bello sbattere questo vecchio arnese, qualcuno ancora ne scappa sempre
fuori. Volate, miei piccini! andate ad annidarvi in ogni buco... entro le
vecchie scatole, nelle pergamene annerite, ne' rottami de' vasi, nelle occhiaje
di que' teschi. In un tale ammasso di frantumi e di sudiciume i grilli prendono
dimora per l'eternità. (Indossa la pelliccia.) Vieni un'altra
volta a coprirmi le spalle! Oggi sono di nuovo dottore. Sì, ma non basta
farmi chiamare così; nessuno mi riconoscerebbe. (Tira la corda del
campanello che manda un suono acuto e stridente; le mura tremano, le porte si
spalancano violentemente.)
Il Famulus (arriva
barcollando dal corridojo profondo e bujo). Che fracasso! Che spavento! La
scala dondola, le mura tremano! A traverso il fremito dei vetri colorati, veggo
guizzare i lampi della procella. Il pavimento traballa, la calce delle pareti
si sgretola e cade a ruscelli, la porta benché chiusa da solidi catenacci,
è sfondata da un potere soprannaturale. Oh terribile vista! un gigante
s'è messa la vecchia pelliccia di Faust! A quell'aspetto, a quello
sguardo le ginocchia mi tremano sotto. Che fare? Debbo rimanere o fuggire?
Mefistofele (facendogli
cenno). Venite qua, amico mio, vicino a me, Nicodemo; non è questo
il vostro nome?
Il Famulus. Sì,
è questo, sublime e degno signore, oremus.
Mefistofele. Lascia
ciò.
Il Famulus. Come son
lieto di essere conosciuto da voi!
Mefistofele. Lo credo,
vecchio maestro impastojato, e tuttora studente! Uno scienziato studia sempre,
poiché non sa far altro. In questo modo egli si fabbrica una casuccia di carta,
ma nessun genio per quanto grande è capace di finirla. Il vostro
maestro, quello è un uomo meraviglioso! Chi non conosce l'esimio dottor
Wagner, il primo fra i sapienti di questo mondo, — il solo che ora mantenga,
anzi aumenti i tesori della scienza? Una folla di studiosi avidi di sapere
s'accalca intorno a lui, che solo sostiene l'onore della cattedra. Egli dispone
delle chiavi di san Pietro, e vi schiude sì l'alto che il basso mondo.
È tale lo splendore del suo ingegno, che nessuna fama, nessuna gloria lo
eguaglia, che al suo paragone si eclissa lo stesso nome di Faust. Egli solo ha
trovato il gran segreto.
Il Famulus.
Perdonatemi, alto signore, se oso contraddirvi; ma non si tratta di questo; la
modestia è un suo pregio. Egli non può abituarsi all'idea
dell'incredibile scomparsa del gran maestro, e non ispera conforto o salvezza
che nel di lui ritorno. Questa camera è quale era al tempo del dottor
Faust, ed attende il suo antico padrone. Io ardisco appena mettervi il piede.
Quale evento è in questo momento annunciato dagli astri? Mi sembra che
le mura tremolino; le porte furono sconnesse, ed i chiavistelli scassinati; senza
di che voi stesso non avreste potuto entrar qui.
Mefistofele. Dove si
è dunque cacciato costui? Guidatemi verso di lui, oppure conducetelo a
me.
Il Famulus. Il divieto
di lasciare entrare alcuno da lui è così formale, che non mi
sento il coraggio di trasgredirlo; occupato com'è da lunghi mesi alla
grande opera, egli ha vissuto nel silenzio e nella solitudine la più
assoluta. Quest'uomo, il più avvezzo fra i sapienti alle delicatezze
della vita, vi sembrerebbe ora un carbonajo. Col viso annerito sino alle
orecchie, gli occhi infiammati dal calore del fornello, assetato di scienza, ei
si consuma senza posa, beandosi dello stridore delle molle come d'un'armonia.
Mefistofele. Io sono
tale uomo da facilitargli il successo della sua impresa; come potrebbe rifiutare
di ricevermi? (Il Famulus esce; Mefistofele si siede con aria grave.) Mi
sono appena messo al mio posto, che là dietro si muove un ospite da me
ben conosciuto; e che è invaso da tale smania del nuovo, che il suo
ardire non avrà più limiti.
Un Baccelliere
(entra
impetuosamente dal corridojo).
Trovo aperti peristilio e porta!
C'è da sperare che il dottore non persista, mentre è vivo, a
seppellirsi come un morto, nella polvere, e continuare a consumarsi, ad
ammuffirsi come ha fatto sinora, a morire così nel fiore della vita.
Queste mura pendono da una parte,
minacciano ruina, ci schiacceranno, se non ci facciamo attenzione. Io sono
animoso al pari di chiunque, eppure nulla mi farebbe avanzare d'un sol passo.
Ma che scopo mai? Non è questo
il luogo, ove tanti anni sono, pauroso, trattenendo il respiro, io venivo,
gentile sbarbatello, ad ascoltare fiducioso le lezioni di quel vecchio
barbogio, ed a far tesoro delle sue chiappole?
Seppelliti nei loro volumacci, quei
parabolani me le spacciavano grosse, mentivano sapendo di mentire, sciupando
così la mia vita e la loro. Ma che veggo? Là in fondo, seduto su
quel seggiolone, c'è ancora uno di quei messeri!
Però, più m'avvicino, e
più cresce il mio stupore. È proprio lui, ancora seduto a quel
posto ed avviluppato nella sua grossolana pelliccia! In quel tempo, a dire il
vero, l'avevo in conto d'un grande sapiente, perché non lo capivo ancora. Ma
oggi non m'acchiappa più! All'erta, adunque, e andiamo a parlargli!
Vecchio signore, se i torbidi flutti
di Lete non hanno ancora sommersa la vostra testa aggravata e calva, vedete in
me uno studente che ha passato l'età delle discipline accademiche. Io vi
ritrovo lo stesso come allora; ma io ritorno affatto cangiato.
Mefistofele. Sono ben
lieto che il mio scampanellare vi abbia attirato qui. Non è mediocre la
stima che in quel tempo ebbi di voi concepito; il bruco e la crisalide facevano
presagire una brillante farfalla. Menavate vanto delle ricciute ciocche della
vostra capigliatura da fanciullo, e del colletto di trine. Se non isbaglio,
anzi, voi non avete mai portato coda. Oggidì vi veggo in berretto
svedese, con un aspetto gagliardo e risoluto; soltanto mi sembrate fuori di
casa!
Il
Baccelliere. No, vecchio signore, noi siamo al posto di prima; credetelo e
riflettete che i tempi si sono rinnovati; vi prego inoltre di risparmiare le
parole a doppio senso; poiché sono ora divenuto diversamente suscettibile.
Altre volte vi piaceva beffarvi della gente leale e dabbene; ma se ciò
vi riusciva facile in allora, nessuno oserebbe tentarlo in oggi.
Mefistofele. Quando si
dice la verità vera ai giovani, si può essere certi di spiacere a
chi è ancora sbarbatello. Ma poi, dopo qualche anno, quando l'hanno
imparata a proprie spese, e con dura esperienza, essi s'imaginano di averla
inventata loro, e sentenziano che il maestro è un imbecille.
Il
Baccelliere. O un furfante, forse! Avvegnachè, dove trovare un
maestro che ci dica in faccia il vero? Ciascuno l'aumenta o lo diminuisce, ora
con sapiente sussiego, ora con dolce gravita, come s'usa coi fanciulli ingenui.
Mefistofele. A dire il
vero, per imparare una sola età è adatta; quanto all'insegnare,
m'accorgo che fin d'ora voi vi credete da tanto. Molte lune e alcuni soli
furono sufficienti per procacciarvi la più ampia esperienza.
Il
Baccelliere. L'esperienza? Fumo e schiuma!
E chi non si crede nato un genio? Dite che tutto quanto non si è
mai saputo non vale la pena di essere imparato.
Mefistofele (dopo una
pausa). Questa è pure da un pezzo la mia opinione. Io ero un pazzo;
ed ora mi pare di essere uno sciocco, un imbecille.
Il
Baccelliere. Ne godo! Finalmente sento parlare ragionevolmente. Questo
vecchio è il primo in cui io trovi del buon senso!
Mefistofele. Io era in
cerca di tesori nascosti, e non ho cavato dal suolo che orribili carboni.
Il
Baccelliere. Confessate che la vostra testa calva non vale guari meglio di
quei vuoti teschi che sono là.
Mefistofele (con
accento cordiale). Tu al certo non sai, o amico, quanto tu sii malcreato.
Il
Baccelliere. Essere cortese, in tedesco equivale a mentire.
Mefistofele (spingendo
la sua seggiola a rotelle sino al proscenio e rivolgendosi alla platea).
Qui mi si toglie l'aria e la luce; vi sarà bene qualcuno di voi che
vorrà ospitarmi, non è vero?
Il
Baccelliere. Io trovo una strana presunzione in chi giunto all'età
più meschina s'arroghi ancora d'essere qualche cosa allorché l'uomo non
è più nulla. Ciò che fa la vita in lui è il sangue;
ora è possibile che il sangue circoli come nella gioventù, quando
scorrendo con tutta la sua forza e freschezza, crea una vita novella nella vita
stessa? Così la fiacchezza si dilegua, e la forza s'avanza. Mentre noi
abbiamo conquistato la metà del mondo, che avete dunque fatto voi altri,
se non sonnecchiare, riflettere, pensare, sognare: progetti e non altro che
progetti! Decisamente la vecchiaja è una febbre fredda che assidera.
Passati i trent'anni, un uomo farebbe bene a morire; il meglio a farsi sarebbe
quindi di ammazzarlo a tempo.
Mefistofele. Su questo
punto il diavolo non ha nulla a dire.
Il
Baccelliere. Il diavolo non c'entra che se ed in quanto mi piaccia di
permetterglielo.
Mefistofele (fra sé).
Bada che il diavolo non ti dia un gambetto quando meno te l'aspetti!
Il
Baccelliere. O gioventù! o slanci arditi! Cómpito sublime! Prima di
noi, prima di me, il mondo non era; Io trassi il sole dal mezzo dell'abisso;
col mio compasso segnai il corso della luna. Il sole si fece bello sul mio
cammino; la terra si adornò di fiori e di verzura, e la sacra falange
delle stelle d'oro, quando cade la notte, a un cenno della mia mano apparve
splendida nel divino firmamento. Chi dunque, se non io, ha infranto i vincoli
di miserabili leggi che inceppavano la terra? Io vado libero, ove il cuore mi
spinge, e come verbo mi ragiona, corro arditamente verso l'avvenire, seguendo
la luce, dando le spalle alle tenebre (esce).
Mefistofele. Va,
originale arrogante! Come ti affliggerebbe il pensiero che nessuno può
avere un'idea stupida o saggia, che un altro nel passato non abbia avuto prima
di lui! Badiamo però a non lasciarci ingannare, fra pochi anni le cose
andranno diversamente; per quanto stranamente proceda la fermentazione del
mosto, essa dà sempre un vino qualunque. (Ai giovani della platea che
non applaudiscono.) Voi rimanete freddi alle mie parole, bravi ragazzi, —
ed io vi sento. — Riflettete che il diavolo essendo vecchio, bisogna
invecchiare per comprenderlo.
Un laboratorio
nel gusto del medio evo; diversi
apparecchi di forme strane, e messi alla rinfusa, destinati ad esperimenti
fantastici.
Wagner (presso il
fornello). La campana risuona terribilmente al punto che scuote le pareti
annerite dalla fuliggine. Un'aspettativa sì solenne in mezzo a tanta
incertezza non può tollerarsi più a lungo. Già il chiarore
caccia le tenebre dalla fiala; nel fondo riluce qualche cosa come un carbone
ardente, no! come uno splendido carbonchio che getti sprazzi di fiamme. Una
luce calma e pura ora appare! Purché questa volta non mi sfugga! Ahimè!
qual fracasso alla porta in questo momento!
Mefistofele (entrando).
Vi saluto! È un amico che viene.
Wagner (con
angustia). Sia benvenuta la stella della giornata. (Sottovoce.)
Trattenete almeno nella vostra bocca il fiato e le parole; una grande opera
è sul punto di compiersi.
Mefistofele (più
piano). Quale?
Wagner. Un uomo sta
per nascere.
Mefistofele. Un uomo?
Avete dunque rinchiuso una coppia d'amanti nel camino?
Wagner. Iddio me ne
guardi! Sarebbe l'antico modo di generare, e noi l'abbiamo riconosciuto come
una vera piacevolezza. Quella delicata origine della vita, la dolce forza che
si sprigionava dall'interno, che era destinata a formarsi da sé sola
alimentandosi ora di sostanze proprie, ora di sostanze straniere, tutto questo
ha ora perduto ogni dignità! Se il bruto vi trova ancora il piacere, è
bene che l'uomo dotato di nobili qualità abbia un'origine più
pura e più alta. (Si volta verso il fornello.) Guardate che
luccichio! Ormai possiamo sperare davvero che se colla miscela di cento materie
— e tutto dipende da questa miscela — noi arriviamo a comporre la materia
umana, ad imprigiornarla nell'alambicco, a renderla aderente, a distillarla a
dovere, l'opera si compirà nel silenzio. (Volgendosi ancora al
fornello.) Riesce. La massa si agita sempre più rilucente, ed io
sono più che mai convinto. I nostri
esperimenti si fanno con criterio sui così detti misteri della natura.
Ciò ch'essa produceva d'organizzato, noi lo facciamo cristallizzare.
Mefistofele.
L'esperienza s'acquista coll'età; per chiunque ha vissuto lungo tempo,
nulla di nuovo succede in questo mondo. Io mi ricordo d'avere sovente
incontrato durante i miei viaggi molta gente cristallizzata.
Wagner (che
avrà sempre tenuto fissi gli occhi sulla fiala). Ecco che monta, che
risplende, che gorgoglia! fra poco l'opera sarà terminata! Un progetto
grandioso, a prima vista sembra una follia; ma noi vogliamo ormai sfidare il
caso; e così un pensatore saprà in avvenire comporre un cervello
ben pensante. (Contemplando estatico la fiala.) Una forza incantevole scuote il
cristallo e ne cava un tintinnio vibrante. Vedi, s'intorbida, si rischiara;
tutto va bene. Io veggo un omettino di forme eleganti il quale gesticola. Che
possiamo desiderare di più? Ecco che tutto si rivela il mistero;
ascoltate, quel tintinnio si trasforma in una voce, e parla!
Homunculus (dalla
fiala, a Wagner). Buon giorno, babbo! Ebbene, era dunque vero? Vieni,
stringimi teneramente al seno, ma non troppo fortemente, chè il vetro
potrebbe andare in pezzi. Ogni cosa ha la sua proprietà. Per le naturali
l'universo è appena sufficiente; per le artificiali si richiede uno
spazio limitato. (A Mefistofele.) Sei qua, mariuolo? caro cugino, il
momento è buono, ed io ti ringrazio. Una buona stella t'ha condotto qui.
Poiché son venuto al mondo, voglio agire immediatamente e mettermi all'opra; tu
che sei tanto abile m'accorcerai la strada.
Wagner. Una parola
ancora! Fino ad ora, quando giovani e vecchi mi tempestavano di problemi, mi
accadde sovente di sentirmi turbato. Per esempio, nessuno ancora ha potuto
capire come mai l'anima e il corpo che sono sì solidamente collegati
l'una coll'altro da parere inseparabili, si osteggiano senza posa al punto
d'avvelenarsi l'esistenza; e poi...
Mefistofele. Un momento!
Io preferirei domandare per qual ragione l'uomo e la donna vanno così
poco d'accordo. Ecco una domanda alla quale ti sarà difficile trovare la
risposta. Ciò ti darà da fare; ed è appunto quanto
desidera il piccino.
Homunculus. Che
c'è da fare?
Mefistofele (indicando
una porta laterale). Ecco l'occasione di far mostra del tuo talento.
Wagner (fissando
sempre la fiala). Tu sei davvero il più caro birbantello!
(La porta laterale si apre e
lascia vedere Faust disteso sopra un letto.)
Homunculus (stupefatto).
Quale spettacolo! oh prodigio! (La fiala scappa di mano a Wagner, si tiene
sospesa sul capo di Faust e l'illumina.) Oh il delizioso recinto! Sotto
alberi frondeggianti, ed al coperto dagli ardenti raggi del sole, limpide
acque. Sulla riva, donzelle discinte. — Ah, le belle creature! — Una di esse
(andiam di bene in meglio) porta più alta la fronte graziosissima,
mostrando l'eroica, anzi divina sua origine! Posa il piede sull'umida
superficie e rinfresca le nobili membra spegnendo nelle acque cristalline il
sacro fuoco onde esse ardono. Ma silenzio! Udite! Quale rumore di ali che
battono in seno a quell'onda sì tersa! Le donzelle si rifugiano seminude
sotto il folto degli alberi. La regina, rimasta sola, si china per osservare
coll'occhio tranquillo e superbo di donna, il bel cigno reale, che s'avvicina
in atto melanconico e dolce, e triscia timidamente a' suoi ginocchi. Pure il
suo occhio s'accende, le sue penne si stendono! Uccello lussurioso, esso tutto
ardisce... Ahimè! un denso vapore che s'alza dallo stagno ed imbalsama
l'aria, avvolge il cigno, la vergine e il suo seno, e toglie a' miei sguardi la
più incantevole scena.
Mefistofele. Che mai ci
racconti? Così piccolo di corpo e così grande visionario! Io non
veggo nulla.
Homunculus. Lo credo
io. Tu nato al nord, cresciuto fra le nebbie di altra età, nel gretto
ambiente della cavalleria e del monachismo, come potresti avere acuto lo
sguardo? Il tuo posto è fra le tenebre. (Si guarda intorno.) Una
massa di pietra nera, muffita, ributtante, una volta ad arco acuto e basso!...
Svegliandosi, costui ritroverà nuovi motivi di angustia, egli è
capace di rimanere morto sul posto. Sognava vivaci sorgenti in fondo ai boschi,
cigni, nude beltà, — sogni pieni di presentimenti! Ed ora come potrebbe
avvezzarsi a questo luogo! Io, di così facile accontentatura, mi vi
posso appena vedere. Coraggio! entriamo in campagna con lui!
Mefistofele. La
spedizione mi alletta.
Homunculus. Guida il
guerriero al combattimento, la donzella alla danza; così tutto
s'accomoda. Or che ci penso, viene appunto la classica notte di Valpurga; e non
poteva darsi niente di meglio per trasportarlo nel suo elemento.
Mefistofele. Non intesi
mai a parlare di questo.
Homunculus. E come avrebbe potuto giungere ai
vostri orecchi! Voi altri non conoscete che fantasimi romantici; un vero
fantasma deve essere classico.
Mefistofele. Da qual
parte si va? Sento già ripugnanza pe' miei vecchi colleghi.
Homunculus. La tua
regione prediletta, o Satana, è al nord-ovest, ma questa volta è
verso il sud-est che noi facciamo vela. In una vasta pianura scorre liberamente
il Peneo, per seni umidi e silenziosi, circondati da cespugli e boscaglie; la
pianura si stende sino ai primi dirupi dei monti sulla cui cima sorge Farsaglia
antica e moderna.
Mefistofele.
Ahimè! Lasciate in disparte questi dibattimenti tra la tirannia e la
schiavitù. È una cosa che mi ammazza di noia; appena finiti
ricominciano da capo e nessuno fra quelli che discutono s'accorge che Asmodeo
piantato dietro loro se ne prende giuoco. Essi combattono, a quel che si dice,
pel diritto e la libertà, e tutto ben considerato, è un combattimento
di schiavi contro schiavi.
Homunculus. Lascia
all'uomo la sua indole ribelle; ch'ei si difenda come può; il fanciullo
si farà uomo. Sì tratta ora di guarire quell'infermo. Se hai un
rimedio, facciamone qui l'esperimento; se no, lasciane la cura a me.
Mefistofele. Ci sarebbe
qualche piccolo tentativo da fare sul Brocken, ma i catenacci del paganesimo
sono tirati e me l'impediscono. Il popolo greco non valse mai gran cosa: esso
però vi abbaglia colla licenza dei piaceri sensuali ed attrae il cuore
dell'uomo verso i peccati pieni di ridenti lusinghe, mentre i nostri sono
sempre tetri. Ed ora che facciamo?
Homunculus. Tu non sei
d'indole così ingenua, e quando io ti parlo di maghe di Tessaglia, credo
di dirti qualche cosa.
Mefistofele. Le maghe di
Tessaglia! Da lungo tempo mi sono informato di esse. Non credo che mi
piacerebbe troppo di passare una notte dopo l'altra in loro compagnia; tuttavia
tento una visita.
Homunculus. Qua il
mantello, mettilo addosso al cavaliere. Questo cencio vi porterà
ambedue, come ha fatto fin qui; ed io vi precedo per servirvi di guida.
Wagner (angosciato).
Ed io?
Homunculus. Eh! tu
resti a casa per compiere un'impresa ben più importante. Percorri le
vecchie pergamene, riunisci a seconda delle regole gli elementi della vita e
classificali con prudenza. Non omettere di meditare sulle cause e
più ancora sui mezzi. Mentre attraverso una piccola parte del
mondo, saprò bene trovare il punto sull'i. Da quel momento un
grande intento sarà raggiunto. Una siffatta impresa ha diritto alla
seguente ricompensa: ricchezza, onore, gloria, vita lunga e salute, e
fors'anche scienza e virtù. Addio!
Wagner (addolorato).
Addio; mi si spezza il cuore; io temo già di non più rivederti.
Mefistofele. Ora, presto
in cammino pel Peneo; il nostro signor cugino non è a sprezzarsi. (Volto
agli spettatori.) Noi finiamo sempre col farci signoreggiare da coloro che
abbiamo noi stessi creati.
La notte classica di Valpurga.
I campi di Tessaglia. Tenebre
Eritto. Non
è la prima volta che mi reco alla festa di questa notte spaventosa, io,
la cupa Eritto, meno orribile però di quella dipinta dalla calunniatrice
immaginazione di quei miserabili poeti... che non la finiscono mai coi loro
elogi né colle loro censure... Parmi già scorgere entro la valle un
ammasso di tende biancastre, su cui si riflette una notte d'angoscia e
d'orrore. Quante volte si è rinnovata questa lotta! Si rinnoverà
essa per tutta l'eternità... Nessuno vuol cedere l'impero ad altri.
Colui che l'ha conquistato colla forza e colla forza lo tiene, non lo vuol
cedere ad alcuno; poiché ciascuno incapace di governarsi da sé è
divorato dal desiderio di dominare il suo vicino, secondo gli detta l'alterigia
del suo spirito... Un grande esempio s'ebbe qui in un conflitto, in cui si vide
come il potere si opponga ad un potere più forte, come si spezzi la
fiorita corona della libertà, come il rigido alloro cinga le tempia del
dominatore. Costì, prima di questa notte, Magno sognò prosperi
giorni di grandezza; colà Cesare vegliò spiando le oscillazioni
della bilancia. Il livello si ristabilirà. Eppure è noto a tutti
qual fu il principio che allora trionfò.
Fiammeggiano fuochi notturni,
spandendo un rosso splendore; il suolo assorbe il riflesso del sangue sparso,
ed attirata dallo strano e meraviglioso spettacolo della notte, la legione
della tradizione ellenica si raccoglie. Attorno a tutti quei fuochi s'aggira
incerta, o si accoccola un'imagine favolosa dei tempi antichi... La luna, non
ancora del tutto piena, ma splendida, si leva irradiando soavemente ogni cosa;
l'illusione delle tende si dissipa, i fuochi impallidiscono.
Ma quale meteora brilla
improvvisamente al disopra del mio capo! Essa illumina un globo umano. Io fiuto
in esso delle creature viventi, alle quali non mi s'addice di avvicinarmi, non
volendo recar loro pregiudizio; mi farei una cattiva nomina, e senza profitto.
Ecco che il globo si abbassa. Io mi ritiro prudentemente. (Si allontana.)
(I viaggiatori aerei nello spazio.)
Homunculus. Librati
ancora una volta sopra quello spaventoso turbinio di fiamme; laggiù nel
fondo della valle non si vede che fantasmagoria.
Mefistofele. Io scorgo,
come dal vano di un'antica finestra, dei fantasmi schifosi, guazzanti nella
fuliggine e nelle macerie del nord. Costì io mi trovo benissimo al pari
di laggiù.
Homunculus. Guarda
quell'alta figura che cammina a grandi passi davanti a noi.
Mefistofele. Si direbbe
che le rincresce vederci volare nell'aria.
Homunculus. Lascia che
se ne vada. Deponi intanto il tuo cavaliere e vedrai che ritornerà immediatamente
alla vita, ch'egli va cercando nel regno della favola.
Faust (che ha
toccato la terra). Dov'è dessa?
Homunculus. Non sapremmo
dirtelo; ma assai probabilmente puoi informartene qui. — Lesto, prima che
spunti il giorno, va da una fiamma all'altra in cerca della sua traccia; non
v'è nulla d'insormontabile per chi ha saputo avventurarsi sino a
giungere presso le Madri.
Mefistofele. Anch'io ho
le mie idee in testa. Epperò ciò che abbiamo di meglio a fare
sarebbe che ciascuno di noi se n'andasse per proprio conto in mezzo ai fuochi
in cerca della sua ventura. In seguito, affinchè ci sia dato di
ritrovarci, tu avrai cura, o piccino, di additarci la via collo splendore
sonoro della tua lanterna.
Homunculus. Ecco come
ella deve splendere e suonare. (Il vetro rumoreggia e splende.) Ora
state attenti! in breve succederanno nuovi miracoli.
Faust (solo).
Dov'è dessa? Ma non chiederlo più... Quando non te lo additi la
terra che la sorregge, l'onda che viene ad infrangersi contro di lei, te lo
dica almeno l'aria che trasporta i suoi detti. — Qui! per opera di un prodigio,
qui, sul suolo della Grecia, ho tosto riconosciuto qual fosse la terra che io
calpestava! Appena addormentato, uno spirito m'infiammò, in guisa che
sentii suscitarsi in me la forza di un Anteo; e quand'anche dovessi incontrar
qui i più strani eventi, esplorerei con passo solenne questo labirinto
di fiamme. (Egli si allontana.)
Mefistofele
(gironzando
qua e là). Vagando attraverso questi piccoli fuochi, mi sento sempre
più sviato. Per ogni dove scorgo gente ignuda, e qui e là solo
pochi incamiciati. Le Sfingi impudiche, i Grifoni senza vergogna, e quanti
altri, privi d'ali e di capigliatura, si lasciano vedere per davanti e per di
dietro!... A dire il vero, noi siamo osceni nell'intimo del cuore, ma
l'antichità mi sembra troppo ardita; si dovrebbe sottometterla all'uso
moderno, e farle adottare abiti a seconda dei diversi costumi. Un popolo
antipatico, in verità! eppure ciò non deve impedire a me, nuovo
arrivato, di salutarli come si conviene... Buon giorno, belle donne, buon
giorno, saggi grigioni!
Un Grifone (gracchiando).
Non siamo grigioni, ma grifoni! A nessuno piace di sentirsi chiamare grigione.
Le parole, dopo tutto, hanno il senso che proviene dalla loro origine. Grigio,
grigione, gretto, grossolano, consonanze etimologiche, discordanti per noi in
tutto e per tutto.
Mefistofele. Eppure
senza abbandonare il soggetto, grifagno non sconviene all'onorevole titolo di
grifone.
Il Grifone (continuando
a gracchiare). È semplicissimo! la parentela è stata
sottoposta alla prova; spesso biasimata, è vero, ma assai frequentemente
lodata. Purché il grifo serva per afferrare leggiadre fanciulle, corone ed oro,
la fortuna arride al grifagno.
Una Formica (di una
razza colossale). Voi parlate d'oro; ne avevamo raccolto una grande
quantità, e sotterrato in segreto nelle rocce e nelle caverne; la razza
degli Arimaspi l'ha scoperto. Guardate laggiù come essi ridono per il
modo col quale sono riusciti a rubarcelo!
I Grifoni.
Bisogna costringerli a confessare.
Gli Arimaspi. Purché non
sia durante la festa notturna. Da qui a domani tutto sarà messo al
coperto; questa volta riusciremo nel nostro intento.
Mefistofele (il quale
s'è posto fra le Sfingi). Io mi sono avvezzato a stare qui
facilmente e volontieri, perché capisco ognuno.
Una Sfinge. Noi
spingiamo fuori le nostre voci di spiriti, e voi, in seguito, date loro un
suono sensibile. Ora pronunzia il tuo nome, intanto che attendiamo di
conoscerti meglio.
Mefistofele. Io sono
conosciuto sotto vari nomi. Vi sono inglesi qui? Essi viaggiano tanto
facilmente per esplorare campi di battaglia, cascate, muri cadenti, pittoresche
e classiche antichità! La visita qui sarebbe degna di loro. Essi
potrebbero anche affermare di avermi veduto laggiù a figurare nei vecchi
spettacoli nella parte di old iniquity?
La Sfinge. In qual
modo giunsero essi a tanto?
Mefistofele. Lo ignoro
io stesso.
La Sfinge. Ciò
può darsi benissimo! Hai tu alcuna conoscenza delle stelle? Che cosa
potresti dire dell'ora presente?
Mefistofele (alzando
gli occhi). La stella vola dietro alla stella; la luna sebbene non si veda
intiera, brilla con splendore, ed io sto benissimo in questo buon luogo e mi
scaldo colla tua pelle di leone. Sarebbe un peccato smarrirsi volendo
arrampicarsi troppo in alto. Lascia a parte gli enigmi, ed accontentati di far
sciarade.
La Sfinge. Proponi te
stesso, e quello sarà già un grande enigma. Cerca di spiegarti
una buona volta: utile al buono come al cattivo; per quello un bersaglio dove
lancia stoccate nel suo ascetismo, per questo un compagno di follie, per tutti
lo zimbello della divinità.
Primo
Grifone (gracchiando). Costui mi dispiace.
Secondo
Grifone (gracchiando più forte). Che cosa vuole egli da
noi?
Tutti e due. Il brutto
ceffo non ha nulla da fare qui.
Mefistofele (brutalmente).
Credi tu forse che le ugne del convitato non graffino al pari dei vostri aguzzi
artigli! Provate un po'!
La Sfinge (con
dolcezza). Puoi restare, ma fra poco cercherai tu stesso di fuggire la
nostra compagnia. Nel tuo paese ti trovi a tuo bell'agio, e qui, se non erro,
provi un certo fastidio.
Mefistofele. Veduta
dall'alto la tua ciera è assai piacevole; ma se guardo dal basso, la
bestia mi fa orrore.
La Sfinge. Ipocrita,
tu vieni qui per tua penitenza; perché le nostre zampe sono sane; ed il tuo
piede da cavallo dall'unghia dura, non è a suo posto nella nostra
compagnia.
(Le Sirene cominciano un preludio
dall'alto).
Mefistofele. Quali
uccelli sono questi che svolazzano fra i rami dei pioppi dalla parte del fiume?
La Sfinge. Sta in guardia!
quelle canzoni hanno già vinto i più valorosi.
Le Sirene. Oh! perché oblivïosi
Ristarvi
qui, fra tanti
Mostri
abbietti, schifosi?
Queste
voci amorose,
Questi
udir non vi gravi,
Nostri
accenti amorosi;
E
questi sì soavi
Vi
dilettino almeno
Teneri
accordi di che l'aere è pieno
Ecco
a voi presso viene
Il
coro delle armoniche sirene.
Le Sfingi (deridendole
colla stessa melodia).
A
forza le cacciate
Del
giorno al vivo lume!
E
quali e' sian mirate.
In
fra' rami celate
Hanno
le adunche, orrende
Ugne,
e ciascuna intende
Lo
sguardo, e a farvi in brani s'apparecchia,
Se
a' lor canti d'amor porgete orecchia.
Le Sirene. Onta
allo sdegno! — sprezzo al livore!
D'aure
serene — facciam tesoro;
Tra
bei diletti — quanti ne foro
Di
sotto al cielo — godiamci l'ore!
Che in terra, e sovra — l'onde spumose
Non
altro d'ogni — parte si miri
Che
il mover libero — di graziose
Forme
che destino — plausi e desiri!
Mefistofele. Ecco come
sono gaje queste nuove e belle invenzioni: un suono della laringe o delle corde
che si confonde con un altro suono. Il gorgheggio non fa effetto su di me;
tutt'al più mi solletica un po' l'orecchio, ma non arriva fino al cuore.
Le Sfingi. Non parlare
del cuore! è inutile; una vescica di pelle raggrinzata si confarebbe
meglio al tuo viso.
Faust (inoltrando).
Oh meraviglia! lo spettacolo corrisponde ai miei desiderii; questi esseri sono
ributtanti e nello stesso tempo di fattezze grandi e ben spiccate! Prevedo
già che il mio destino sarà prospero. Dove mi trasporta dunque
questo colpo d'occhio solenne? (Indicando le Sfingi.) Dinanzi a costoro
si trovò un giorno Edipo; (indica le Sirene) Ulisse si
fermò un giorno dinanzi ad esse contorcendosi fra i suoi vincoli di
canapa; (mostra le Formiche) questa razza seppe accumulare i più
rari tesori; (accenna i Grifoni) i loro pari seppero custodirli
fedelmente e senza meritare il più piccolo rimprovero. Mi sento invaso
da uno spirito virile. O grandi
figure! o memorie famose!
Mefistofele. In altro
tempo la tua bocca non avrebbe potuto proferire maledizioni sufficienti contro
una simile genia; ma ora ti trovi benissimo qui.
È naturale, quando si cerca la
diletta, i mostri stessi diventano i benvenuti.
Faust (alle
Sfingi). Voi, immagini di donne, rispondetemi: una di voi vide ella Elena?
Le Sfingi. Non
risaliamo fino alla sua epoca: Ercole ha ucciso l'ultima di noi. Potresti
chiederlo a Chirone; egli galoppa all'intorno in questa notte di fantasmi;
s'egli si ferma per te, il tuo affare andrà a gonfie vele.
Le Sirene. Ciò
non ti farà difetto... Quando Ulisse si fermò fra di noi, egli
seppe narrarci moltissime cose; noi non ti potremo dire tutto se tu persisti a
vagare verso le sponde del mare verdeggiante.
La Sfinge. Uomo nobile
e generoso, non lasciarti sedurre; che il nostro buon consiglio ti preservi dal
legame dal quale Ulisse fu avvinto. Se puoi trovare il sublime Chirone saprai
quanto ti ho promesso. (Faust s'allontana.)
Mefistofele (con
dispetto). Che animali sono questi che battono continuamente le ali, e
volano con tanta rapidità che l'occhio appena li vede passare in lunga
fila, l'uno dietro l'altro? Essi stancherebbero il più infaticabile
cacciatore.
La Sfinge. Pari
all'uragano invernale, le frecce d'Alcide li colpirebbero a stento; essi sono
le veloci Stinfalidi; il loro operare è amichevole. Col loro becco
d'avoltojo e colle zampe d'oca, esse vorrebbero mostrarsi in mezzo a noi come
consanguinee.
Mefistofele (spaventato).
Qualche altra cosa sibila ancora laggiù, sotto le foglie.
La Sfinge. Non temere,
sono le teste del serpente di Lerna; separate dal tronco, esse credono ancora
di essere qualche cosa. — Ma dite, che cosa pensate di fare? Perché gesticolate
con inquietudine?
Dove volete andare? Partite dunque di
qui! Me ne accorgo, quel coro laggiù vi fa torcere il collo. Non vi fate
violenza, andate a salutare quei graziosi e leggiadri visini. Esse sono le
Lamie, spudorate, col sorriso errante sulle labbra, dalla fronte ardita, tali
insomma che i Satiri le amano; un piede di capra può andar là
senza ritegno.
Mefistofele. Ma voi
restate qui però? Fate che io vi ritrovi al mio ritorno.
La Sfinge. Sì!
va a mischiarti collo sciame vagabondo. Noi venute dall'Egitto, siamo da lungo
tempo avvezze a veder ciascuna di noi restare ferma durante secoli e secoli.
Purché si rispetti almeno la nostra sede, noi continueremo a regolare il corso
dei giorni e delle notti, sedute dinanzi alle piramidi, guardando i popoli, le
inondazioni, le guerre e la pace, — immobili ed impassibili ora come fummo
sempre.
(Il Peneo circondato da acque e da Ninfe.)
Il Peneo.
Ondulate
— fremete — strepitate,
Stormite
— sospirate —
Salci,
pioppi, canneti al margo appresso
Col
murmure sommesso
Di
vostre dolci note
Le
interrotte mie estasi molcete!
Ma
una scossa profonda,
Un
tremito improvviso or mi percote,
E
dal fresco mi toglie asil dell'onda.
Faust (vagando
in riva al fiume).
Da
que' fitti cespugli, e da' festoni
Di
foglie e rami fluttuanti al modo
Di
tesa vela, s'io ben odo — un suono
Spandesi,
un non so che, poco diverso
Da
umana voce. — In lor lascive tresche
Pajon
scherzare, mescersi le ondate,
Mentre
che l'aura intorno intorno pregna
Di
balsamici odor lene susurra.
Le Ninfe (a Faust).
Tuffati in seno all'onda;
Del
chiaro e fresco umor
La
quiete alma e gioconda
Ritempri
il mesto cor.
Il cristallino argento
Ridarti
sol potrà
La
calma — ed il contento
Che
l'alma — più non ha.
Vieni, e fia nostro vanto
Dare
al tuo duol mercé;
Per
te sciorremo il canto;
Aliterem
per te.
Faust. Sì,
son desto! — Continuate a danzarmi intorno, deliziose immagini, care creazioni
dei miei occhi, sogni o memorie! Gioje ineffabili! Così fui felice altra
volta!
Attraverso i rami dolcemente agitati,
l'acqua scorre silenziosa; da ogni parte sorgenti cristalline, onde d'argento
invitano al bagno. Membra piene di gioventù e di vita, il mobile
specchio in doppia imagine riflette agli sguardi incantati. O sogni! O gioje!
Giovani fanciulle s'immergono nelle onde, lascive ed allegre, e nuotano
coraggiosamente o sulle umide sabbie corrono paurose, fuggenti! — Chi
può ridire le loro grida, le follie, le contese! — Queste fanciulle
dovrebbero rendermi felice, io credo.
Il
mio occhio dovrebbe qui trovare le sue gioje. Sempre, sempre più
lungi si slancia il mio desiderio. Il mio sguardo si spinge, acuto, nei
più folti cespugli. La ricca vegetazione colle sue foglie nasconde
l'alta regina: ed ecco sulle mobili onde uscire dallo scuro fogliame cigni
reali, che si avanzano a nuoto, calmi nel loro procedere, dolci, amorosi, ma
superbi della loro bellezza. Guardateli, essi piegano sulle onde il loro collo
d'avorio!... uno di essi sopra tutti emerge, nuota, si pavoneggia e pare si
compiaccia di spiegare alla luce le sue penne orgogliose. Ecco si affretta, e
spingendo con calma sdegnosa onda sopra onda, entra nel santuario. Gli altri
nuotano qua e là sulle limpide acque, spiegando tranquillamente le loro
ali. Improvvisamente, eccoli tutti agitati assalire con simultaneo impeto le
confuse donzelle che d'ogni parte van cercando i loro reconditi rifugi
dimentiche del loro servizio attorno il verde padiglione.
Una Ninfa.
Bocconi
sull'erba — sorelle, alla riva
Ben
tesa in ascolto — l'orecchia ponete.
Chi
turba repente — la nostra quiete?
Corsiero
a galoppo — gli è questo che arriva
D'udire
qual porti — del vento sull'ale
Notturno
messaggio — gran voglia m'assale.
Faust. Mi sembra che
la terra frema sotto i passi sonanti di un veloce corsiere. Laggiù
volgerò il mio sguardo! La fortuna vuole ella favorirmi così
presto? Oh prodigio senza pari! Un cavaliere si avanza a gran corsa, e sembra
dotato di molto coraggio; egli è portato da un corsiero di un candore
abbagliante... No, non m'inganno, lo riconosco già; è il celebre
figlio di Fillira! Ferma, Chirone, ferma! ho bisogno di parlarti
Chirone. Che
c'è? che c'è?
Faust. Rallenta la
tua corsa.
Chirone. Non mi
fermo.
Faust. Allora, te
ne prego, portami con te!
Chirone. Sali a tua
posta! Dove desideri di andare? Eccoci sulla spiaggia: sono disposto a
trasportarti attraverso il fiume.
Faust (salendo
sul dorso del centauro Chirone). Portami dove vuoi; io ti sarò per
sempre riconoscente... Uomo grande e generoso, nobile pedagogo, che a maggior
tua gloria allevasti un intero popolo di eroi, la bella falange dei nobili
Argonauti, e tutti coloro che crearono il mondo dei poeti.
Chirone. Non ne
parliamo. Pallade stessa sotto le sembianze di Mentore, avrebbe torto di
vantarsene; essi finiscono per fare a modo loro, come se nessuno li avesse
educati.
Faust. Il medico
che sa nominare ciascuna pianta, che conosce i semplici fino nei loro
più profondi misteri, che reca la salute all'ammalato, sollievo al
ferito, io abbraccio qui con tutta la forza dello spirito e del corpo.
Chirone. Se qualche
eroe cadesse ferito vicino a me saprei porgergli sollievo e consiglio; ho
però finito per abbandonare l'arte mia alle vecchie ed ai preti.
Faust. Sei proprio
il vero grand'uomo che non può prestar ascolto alle lodi, le sfugge con
modestia, e si contiene, come se i suoi pari abbondassero nel mondo!
Chirone. Tu mi
sembri un ipocrita destro nell'adulare i principi ed il popolo.
Faust. Tu
ammetterai però di aver conosciuto gli uomini più illustri del
tuo tempo, seguito nelle tue azioni quanto si ha di più nobile, e scorsi
i giorni della tua vita nelle gravi occupazioni di un semidio. Ora, fra tutte
queste eroiche imprese, quale giudichi tu la più valorosa?
Chirone.
Nell'augusta falange degli Argonauti, ciascuno era prode a modo suo, e, secondo
la forza che lo animava, poteva bastare dove gli altri erano impotenti. I Dioscuri hanno sempre avuto il
sopravvento colà dove la floridezza della gioventù e della
bellezza trionfava. Pronti e risoluti correre al soccorso degli altri, tali
erano i Boreadi. Riflessivo, potente, prudentissimo, destro nel dar consigli,
distinguevasi fra tutti Gia'sorie, gradito dalle donne; indi Orfeo, tenero e
sempre discreto, il quale non aveva pari nell'arte di far vibrare la cetra;
l'ingegnoso Linceo infine che giorno e notte guidò la sacra nave in
mezzo agli scogli. Il pericolo si affronta in comune e se uno solo agisce,
tutti gli altri partecipano alle lodi.
Faust. Non dirai
tu nulla d'Ercole?
Chirone. Ahi,
sventura! non esacerbare la mia ferita... Non avevo mai veduto Febo, né Arete,
né Hermes, come vengono chiamati, quando contemplai là dinanzi a me
ciò che tutti gli uomini onorano qual dio. Un real giovinetto, di
armoniose forme, sommesso ai suoi fratelli maggiori, e devoto alle avvenenti
donne, tale che Gea non generò mai altro a lui eguale e che Ebe non
condurrà altri più di lui degno nell'Olimpo. Invano gli si
cantano inni, invano si tormentano le pietre per rappresentarne l'effige.
Faust. Gli
statuari hanno un bel tormentare i loro marmi: giammai una figura così
maestosa fu riprodotta. Tu mi hai parlato del più bello di tutti gli
uomini, ora parlami pure della più bella di tutte le donne.
Chirone. Che chiedi
tu?... La bellezza delle donne è un nulla, non è per lo
più che un'imagine ghiacciata; dal canto mio non apprezzo che quell'essere
che è felice di vivere. La bellezza si ammira per se stessa: ma la
grazia è irresistibile. Tale era Elena, quando io la portavo.
Faust. Tu l'hai
dunque portata colei?
Chirone. Sì,
Su questa groppa.
Faust. L'ebrezza
mia aumenterà ella ancora! O gioja!
Sedere dove ella sedette!
Chirone. Ella mi
teneva per la criniera appunto come fai tu.
Faust. Oh delirio!
il mio cervello si smarrisce! narrami come... Io non desidero che lei. Dove
l'avevi tu presa? Dove la portavi tu? Ah! parla...
Chirone. Posso
facilmente rispondere alla tua domanda.
I Dioscuri avevano a quell'epoca sottratta la fanciulla ai suoi
rapitori; ma costoro, poco avvezzi a lasciarsi vincere, si fecero animo e li
inseguirono precipitosamente. Le paludi eleusine arrestarono nella loro rapida
corsa i fratelli, i quali si dibattevano nel fango; io traversai a nuoto. Elena
saltò a terra, e, carezzando la mia criniera umida mi ringraziò
con gentilezza e civetteria. Quanto era avvenente! Sul fiore dell'età,
delizia del vegliardo.
Faust. Sette anni
appena!...
Chirone. Riconosco
in ciò i filologi; essi ti hanno ingannato come hanno ingannato se
stessi! La donna mitologica è una cosa a parte. Il poeta la produce come
meglio gli conviene; essa non è mai maggiorenne, non è mai
vecchia, sempre di forme seducenti; la si rapisce giovane; vecchia, la si
desidera: in una parola, il poeta non fa calcolo alcuno del tempo.
Faust. Ah! ch'ella
non sia soggetta al tempo! Achille l'incontrò bene in Fere in un'epoca
non sua. Strana felicità, conquista amorosa, a dispetto del destino! non
potrei io dunque, per la sola virtù del mio potente desiderio,
richiamare alla vita l'unica bellezza? La creatura eterna e divina, sublime ed
affettuosa, degna di riverenza e d'amore, tu la vedesti già; io oggi
l'ho veduta tanto bella quanto vezzosa e desiderata. Tutti i miei sensi, tutto
l'essere mio ne sono oramai posseduti; io non posso più vivere, se non
la raggiungo.
Chirone. Mio buon
straniero, ciò che tu uomo credi una beatitudine, sembra agli spiriti un
vero delirio. Non importa, tutto va a seconda dei tuoi desiderii per la tua
felicità. Ogni anno ho per abitudine di passare qualche tempo da Manto,
la figlia d'Esculapio; raccolta nel silenzio, ella implora suo padre affinché
egli voglia finalmente illuminare lo spirito dei medici, onde cessino
dall'essere sfrontatamente omicidi. Colei ch'io stimo maggiormente fra tutte le
Sibille, non si dà in preda a folli contorsioni: essa è dolce e
benevola; essa riuscirà, purché tu ti fermi alcun poco, a guarirti
radicalmente in virtù di certe erbe medicinali.
Faust. Non voglio
cure! il mio spirito è possente! Non diverrò abbrutito come gli
altri.
Chirone. Non
trascurare la salute della nobile sorgente! Scendi presto! siamo giunti.
Faust. Dimmi, dove
mi hai tu condotto nelle tenebre della notte, attraverso le umide sabbie? Quale
spiaggia è questa?
Chirone. Qui Roma e
la Grecia si disputarono colle anni il primato: il Peneo è a destra,
l'Olimpo a sinistra e l'immenso regno che si perde nella sabbia. Il re fugge,
il cittadino trionfa. Guarda: qui vicino, a rammentare quel fatto, il tempio
eterno s'innalza rischiarato dalla luna.
Manto (pensando
fra sé). L'ugna d'un destriero fa risuonare il sacro atrio; sono semidei
che si avanzano.
Chirone. Benissimo!
Vorrei solo che aprisse un po' gli occhi!
Manto (svegliandosi).
Sii tu il benvenuto! Si vede che non manchi mai.
Chirone. Il tuo
tempio è dunque sempre in piedi?
Manto. Vai tu
sempre a zonzo per la campagna?
Chirone. Mentre tu
abiti nel silenzio e nel riposo, io andrò continuamente girando per il
mondo.
Manto. Aspetto, il
tempo mi circonda. E costui?
Chirone. Questa
notte malaugurata l'ha spinto da questa parte nel suo turbinio. Egli cerca
Elena nel suo delirio. Elena! Ei vorrebbe conquistarla, e non sa né come né per
dove cominciare; la sua cura è fra tutte degna d'Esculapio.
Manto. A me piace
colui che sogna l'impossibile.
Chirone (fugge al
galoppo ed è già molto lontano nella campagna).
Manto. Or va,
temerario, tu devi rallegrarti! il tenebroso viale fa capo alla sede di
Persefone. Nelle viscere sotterranee dell'Olimpo ella spia segretamente la
contesa felicità. Qui, ho altre volte introdotto Orfeo; possa tu trarne
miglior profitto! All'erta! coraggio! (Scendono sotto terra.)
(Il Peneo, come sopra.)
Le Sirene. Tuffatevi
nelle onde del Peneo! là bisogna nuotare ed intonare canzoni dopo
canzoni per divertimento della razza maledetta. Senza acqua non vi è
salvezza. Partiamo presto colla nostra schiera luminosa, per il mare Egeo;
là dove i godimenti ci attendono. (Il terremoto fa traballare il
suolo.) L'onda si ritira spumando dal suo letto, la terra freme, l'acqua
ribolle, il suolo della spiaggia si fende e fuma. Fuggiamo! Venite via tutte,
venite! il prodigio non reca profitto a nessuno. All'erta! nobili e gioviali
ospiti, all'erta alla festa serena del mare, laggiù dove le onde
tremanti scintillano, e vengono, dolcemente rigonfie, a carezzare la riva;
laggiù ove la Luna raddoppia la sua luce e ci bagna di una santa
rugiada. Laggiù la vita è animata e libera: qui invece un orribile
terremoto; tutte quelle dotate di prudenza affrettino la loro partenza! lo
spavento regna in questi luoghi.
Seismos (brontolando
e strepitando nel fondo). Ancora una potente scossa, ancora un vigoroso
spintone, e noi avremo raggiunto quell'altura dove tutto deve farci posto.
Le Sfingi. Oh
l'increscevole sconquasso! terribile e spaventevole tempesta! quale scossa,
quale convulsione! Qua e là tutto vacilla! Insoffribile noja! Ma
quand'anche si scatenasse l'inferno, noi staremo qui immobili. Repentinamente
vediamo sorgere un volto al disopra di noi per opera di un prodigio. Non
è lo stesso, quel vegliardo da lungo tempo incanutito, che costrusse
l'isola di Delo e la fece sorgere dalle onde, per amore di una femmina
vagabonda? Spingendo, fremendo, con sforzi inauditi, colle braccia tese, col
dorso incurvato, nell'atteggiamento di un Atlante egli solleva il suolo, le
zolle erbose, la terra, la ghiaja, la sabbia, e l'alveo delle nostre placide
riviere; egli squarcia del pari a zigzag il molle tappeto della vallata. Sempre
all'opera, instancabile, colossale cariatide, egli porta un enorme cumolo di
pietre, ancora sepolto nel suolo fino al petto; egli non andrà
però più lungi: le Sfingi ferme al loro posto non lo
permetteranno.
Seismos. Sono io, io
solo che feci tutto ciò; si finirà, io spero, per ammetterlo, e
senza le mie scosse ed i miei sconquassi, questo mondo sarebbe egli cosa bella?
— Come s'inalzerebbero le vostre montagne nello splendido e puro azzurro
dell'etere, se non le avessi spinte in su per uno spettacolo pittoresco,
incantevole, allora quando al cospetto dei nostri più grandi antenati,
la Notte ed il Caos, io mi comportai da prode, e associato ai Titani lanciai in
alto come palle Pelio ed Ossa? Noi continuammo così nel bollore della
nostra giovinezza, fino a che stanchi finalmente, posammo sul Parnaso, come un
doppio berretto, le due montagne... Apollo si trova colà in festa,
circondato dal coro delle Muse tranquille. A Giove stesso, alle sue folgori, ho
portato nell'aria il trono; ora con sforzi straordinari mi sono sollevato dal
fondo dell'abisso, e chiamo ad alta voce allegri abitanti per cominciare una
vita nuova.
Le Sfingi. Si direbbe
che questo novellino sia di remota data, se non l'avessimo veduto noi stesse a
sbucar dal suolo. Una fitta boscaglia si stende ai suoi fianchi, roccia sopra
roccia pesa su di lui; una sfinge non si svia per sì poca cosa, noi non
ci lasciamo distrarre dalla nostra sacra immobilità.
I Grifoni.
Vedo brillare, attraverso i crepacci, dell'oro in fogli, ed in pagliuzze. Non
vi lasciate rubare un simile tesoro; all'erta, Imsi! Affrettatevi a portarlo
via.
Coro di
Formiche. Poiché i giganti — l'hanno innalzata, — voi dai piedi
scalpitanti, presto salitevi su pronti! — Siate agili — dentro, come fuori! —
In simili crepacci — ogni, particella — è degna di essere posseduta. —
Voi dovete scoprire — la minima cosa — al più presto — in tutti gli
angoli. — Siate diligenti — esseri brulicanti! A noi l'oro! a noi l'oro! —
Sloggiate dalla montagna!
I Grifoni.
Qui! qui! vi è dell'oro a mucchi! Noi v'immergeremo dentro i nostri
artigli, sono questi gli scrigni migliori. Il magnifico tesoro è ben
custodito.
I Pigmei.
Noi ci troviamo proprio al nostro posto; come mai? lo ignoriamo. Non ci
domandate da dove veniamo, giacché siamo qui! Per passare una vita allegra,
qualunque paese è adatto; tosto che s'apre un crepaccio nella roccia, il
nano si trova pronto. Il nano e la nana presto all'opera! Ogni coppia mostri la
sua valentia! non so se nel Paradiso le cose procedessero così! In
quanto a noi, qui pensiamo che tutto va per il meglio, e benediciamo la nostra
stella con gratitudine perchè a levante come a ponente la madre terra si
mostra assai produttiva.
I Dattili.
Se in una notte ella ha prodotto i piccoli, ella genererà pure i minimi,
i quali troveranno i loro pari.
Il
più vecchio dei Pigmei. Presto! preparatevi — a prender posto! Presto
all'opera! L'agilità sostituisca la forza! — La pace regna ancora;
preparate la fucina — per fare all'armata corazze e scudi.
E voi, Imsi tutti, — attivo
brulicame, — procurateci i metalli! A voi, Dattili, — piccoli senza numero, si
ordina di provvedere la legna! — Riunite assieme le misteriose fiamme,
somministrateci del carbone.
Il
Generalissimo. Colla freccia e coll'arco, presto in campagna! — Su questo
stagno uccidetemi gli aironi — che nidificano a migliaja, — pettoruti ed
orgogliosi, con un colpo solo! uccideteli tutti come fossero uno solo, affinché
possiamo comparire con elmo e pennacchio.
Gl'Imsi ed i
Dattili.Chi ci salverà? Noi provvediamo il ferro, — essi
ribadiscono le catene. Per la nostra emancipazione non è ancora giunta
l'ora, e perciò, siate docili.
La Gru
d'Ibico. Grida omicida e gemiti di morte — dolorosi fremiti d'ali! —
Quai singhiozzi, quai gemiti, s'innalzano fino a noi? — Sono già tutti
trucidati, il lago è rosso del loro sangue. — Una rabbia febbrile e
mostruosa strappa all'airone le nobili sue piume; esse s'agitano già
sull'elmo di quei furfanti. Voi, alleati della nostra armata, — aironi
viaggiatori del mare, — noi vi chiamiamo alla vendetta, — in una causa per voi
sì importante. — Che nessuno risparmii né la sua forza né il suo sangue;
guerra eterna a quella genìa! (Si disperdono gracchiando nell'aria.)
Mefistofele
(nella
pianura). Ben io sapevo farmi obbedire dalle streghe del nord, ma con
questi spiriti stranieri non è più per me precisamente la stessa
cosa. Il Blocksberg offre una dimora assai comoda; in qualunque parte uno si
trovi. Madonna Ilse ci aspetta sulla pietra; sulla sua altura Enrico
è sempre allegro; i Russanti, è bensì vero,
brontolano un poco sulla miseria; ma ciò succede da migliaja d'anni.
Chissà qui dove sta e dove si
reca? Chissà se il suolo non si solleverà sotto di lui? Io
cammino placidamente attraverso una pianura liscia, e dietro a me s'innalza
repentinamente un monte: è vero ch'esso merita assai poco di chiamarsi
monte, ma è però abbastanza elevato per nascondermi le mie
sfingi. — Laggiù, nella vallata, più di un fuoco scoppietta e
arde alla ventura... dinanzi a me salta e fugge, deridendomi con gesti
maliziosi, uno sciame di civette. Adagio, e avanti! Avvezzo a ricercare la
più ghiotta selvaggina ovunque essa si trovi, procuriamo qui di
provvederci qualche cosa.
Le Lamie (attirando
a sé Mefistofele). Presto! più presto! — Via, via, più lungi!
— Poi titubando un poco, chiacchierando; ciaramellando... — E una ben dolce cosa — di trascinare il
vecchio peccatore — dietro di noi! — Egli viene con pesante passo, — zoppicando
— al severo castigo; — trascina la gamba — dietro a noi — mentre noi fuggiamo
di corsa.
Mefistofele
(fermandosi). Maledetto
destino! O uomini ingannati! Zimbelli eterni dal tempo di Adamo! La razza umana
invecchia, ma chi diventa saggio? Non sei tu stato abbastanza ammalato, o uomo?
Si sa già che non val nulla in
sostanza quella genìa che s'allaccia il busto, e si imbelletta il viso;
esse non hanno nulla di sano da comunicarti, dovunque le tocchi, le troverai
fracide in tutte le membra.
Ciò si sa e si vede, lo si
può anche sperimentare, eppure, oh carogne! con un solo zufolo
attraggono a sé gli adoratori.
Le Lamie (fermandosi).
Ferma! egli riflette, egli esita, e resta immobile. Correte dinanzi a lui, per
tema ch'egli ci sfugga.
Mefistofele (continuando
la sua strada). Avanti! non voglio lasciarmi cogliere nella rete del
dubbio, perché, dopo tutto, se non vi fossero streghe, chi vorrebbe essere
diavolo?
Le Lamie (con voce
lusinghiera). Danziamo intorno a quest'eroe; l'amore si desterà
certamente nel suo cuore per una di noi.
Mefistofele. In
verità, alla dubbia luce, voi mi sembrate femmine gentili, e non voglio
essere sgarbato con voi.
Empusa (uscendo
dalla schiera). Io neppure! Come tale, permettete ch'io mi unisca al vostro
seguito.
Le Lamie. Ella è
di sopravanzo nel nostro circolo, e non fa altro che sconcertare i nostri
giuochi.
Empusa (a
Mefistofele). Ricevi il saluto di Empusa, tua cugina, la comare dal piede
d'asino! Tu non hai che un piede di cavallo, eppure, messer cugino, salve!
Mefistofele. Credevo di
non trovar qui che esseri sconosciuti, e trovo, ohimè! prossimi parenti.
Gli è un vecchio libro da sfogliare. Dall'Harz all'Ellade, sempre dei
cugini!
Empusa. Sono
disposta ad agire, e potrei trasformarmi in cento modi diversi; ma in onor
vostro però, oggi ho preso la testa d'asino.
Mefistofele. Questa
gente è ambiziosa del parentado. Vorrei però rinnegare la testa
asinina.
Le Lamie. Lascia
stare quella schifosa; ella rende laido e sozzo tutto ciò che sembra
bello e gentile; al suo avvicinarsi, la grazia e la bellezza si disperdono.
Mefistofele. Le piccole
cugine, avvenenti, affusolate, mi sono tutte sospette, e sotto le rose di
quelle guance, temo qualche metamorfosi.
Le Lamie. Ad ogni
modo, prova! Siamo in tante. Prendi, se sei fortunato al giuoco, prendi il
miglior premio! Perché quei languidi sospiri? Non sei che un miserabile
cascamorto; ti pavoneggi, tu fai il bello! Ora egli si mischia alla nostra
schiera. Levatevi la maschera l'una dopo l'altra, e mostratevi a lui quali
siete.
Mefistofele. Mi sono
scelto la più bella... (Abbracciandola.) Ah! disgraziato me! Che
orrida scopa! (Ne prende un'altra.)
E questa!... Oh che orribile figura!
Le Lamie. Meriti tu
dunque qualche cosa di meglio! Non crederlo.
Mefistofele. Voglio
prendere la piccina... il suo braccio è una lucertola che mi scivola
dalle mani, e le sue morbide trecce mi sfuggono come un serpente. Per prendere
la mia rivincita, ghermirò quella d'alta statura... Misericordia! non
è altro che un tirso con un frutto di pino a mo' di testa... A che
riuscirà mai tutto questo?... Eccone ancora una grassoccia colla quale
potrò consolarmi. Arrischio l'impresa per l'ultima volta! sia!... Molle,
floscia; gli Orientali pagano carissimo simili tesori... Ah! la vescica
è scoppiata.
Le Lamie. Scomponete
le vostre file; girate, svolazzate; circondate coi vostri sciami tenebrosi il
figlio importuno delle streghe!... circolo vagante, orribile! pipistrelli dalle
ali taciturne!... Ei se ne cava ancora a troppo buon mercato.
Mefistofele (scuotendosi).
Non sono guari diventato più saggio, da quanto mi sembra! Qui, come nel
nord, tutto quanto succede è assurdo; qui, come laggiù, gli
spettri sono schifosi, il popolo ed i poeti insipidi; la mascherata è
come dappertutto la tregenda dei sensi! Ho preso alla ventura alcuna fra quelle
graziose maschere, e le mie mani hanno afferrato degli esseri che mi fecero raccapricciare!... E mi lascerei ancora ingannare
volontieri, purchè la gherminella durasse più a lungo. (Si
smarrisce fra le rocce). Dove sono io dunque? Dove vado? Vi era dianzi un
sentiero, ed ora c'è un caos; ho percorso per venir qui una via piana e
battuta, ed ora eccomi smarrito fra le macerie. Invano cerco di aggrapparmi,
invano ridiscendo; dove potrò io ritrovare le mie Sfingi? Oh! oh! non
avrei mai immaginato cosa sì prodigiosa!... Una montagna come questa
sorgere nella notte! Io l'appello un'allegra cavalcata di streghe, le quali
portano dietro di sé il loro Blocksberg.
Oreade (roccia
della natura). Vieni qui! La mia montagna è vecchia e conserva la
sua forma originale. Onora questi malagevoli sentieri di granito, ultime
ramificazioni del Pindo. Così io stava già immobile quando Pompeo
fuggitivo corse precipitosamente sul mio dorso. Presso di me, l'opera
dell'illusione rovina al primo canto del gallo. Io vedo spesso simili storielle
nascere e svanire repentinamente.
Mefistofele. Onore a te,
cima venerabile che la forza delle querce incorona! Il più puro raggio
di luna non penetra nelle tue tenebre; ma lungo i cespugli trapela un chiarore
la cui scintilla tremola. Quale incontro! Non m'inganno, è Homunculus!
Dove vai, caro camerata?
Homunculus. Vo volando
di luogo in luogo, e non mi dispiacerebbe l'esistenza nel senso più
complesso, ben inteso. Non mi reggo più la impazienza, vorrei quasi
spezzare il mio vetro; ma tutto quanto vidi finora non mi tenta guari a farlo,
e non saprei avventurarmici. A dirtela schiettamente, io cerco due filosofi. Io
li ho uditi, essi dicevano: Natura! Natura! Non voglio più separarmi da
loro; essi devono però conoscere l'essere terrestre, ed io finirò
per sapere qual via la saggezza vuole che io prenda.
Mefistofele. Riguardo a
tutto ciò, fa come meglio ti piace; nel regno degli spettri, il filosofo
è benvenuto. Affinchè si gusti l'arte sua ed i suoi favori, egli
li crea subito a dozzine. Se non ti smarrisci, non troverai mai la via della
ragione. Vuoi tu essere? sii per virtù delle tue proprie forze, non
altrimenti.
Homunculus. Non si deve
disprezzare un buon consiglio.
Mefistofele. Va dunque!
ed io continuerò le mie esplorazioni. (Essi si separano.)
Anassagora (a Talete).
Il
tuo spirito ostinato non vuole dunque sottomettersi! Occorre ancora altro per
poterti convincere?
Talete. L'onda
s'increspa facilmente ad ogni brezza, ma resta lontana dai massi dirupati.
Anassagora. Se quella
roccia si trova là, lo si deve all'emanazione del fuoco.
Talete. La vita
nasce nell'umidità.
Homunculus (fra i due).
Permettete ch'io cammini al vostro fianco; io pure desidero ardentemente di
esistere.
Anassagora. Hai tu mai,
o Talete, tratto dalla melma in una notte sola, un monte come questo?
Talete. La natura,
con le sue correnti vitali, non opera mai nulla a giorno, a notte, ad ore
determinate: essa crea con ordine ogni forma, e dirò pure che nei suoi
più grandi fenomeni la violenza non vi ha nessuna parte.
Anassagora. Qui
tuttavia, si può dire che avvenne in altra guisa! Il terribile fuoco
plutonico, la spaventevole esplosione dei vapori eolii fecero scoppiare la
vecchia crosta del suolo unito, e dovette nascere immediatamente una nuova
montagna.
Talete. Insomma,
che cosa prova ciò? La montagna è là, e non vi è
più nulla da aggiungere. In simili litigi si perde tempo e fatica;
tutt'al più si può menare per il naso quel buon popolo.
Anassagora. Già
la montagna formicola di Mirmidoni, che vengono ad abitare i crepacci del
granito, di Pigmei, di Imsi e di altri piccoli esseri faccendieri. (Ad
Homunculus.) Tu non hai mai ambito le grandezze, vivendo sempre come un
recluso nella tua cella; se puoi avvezzarti all'impero, io ti faccio coronare
re.
Homunculus. Che ne dice
il mio Talete?
Talete. Non saprei
consigliartelo. Coi piccoli, si fanno azioni piccole e di poco conto; coi
grandi, il piccolo stesso diventa grande. Vedete lassù il nero stormo di
gru; esso minaccia il popolo ammutinato, e minaccerebbe ugualmente il re. Coi
loro becchi aguzzi, colle loro zampe armate di artigli, esse piombano sui
piccoli e li fanno a brani; la tempesta fatale scoppia già. Un misfatto
rapì la vita agli aironi sparsi intorno al lago dormente e tranquillo.
Eppure questa pioggia di dardi mortali generò l'espiazione di una
sanguinosa vendetta, accendendo fra i confederati della loro razza la sete del
sacrilego sangue dei Pigmei. A che servono ora gli scudi, gli elmi e le lande?
A che serve ai nani lo splendore degli eroi? Vedete come essi fuggono, Dattili
ed Imsi! Ecco l'armata vacilla già, fugge, ed è sconfitta.
Anassagora (dopo una
pausa e con voce solenne). Ho riverito finora le potenze sotterranee; ma
per ora, mi volgo verso le regioni superiori... O tu che regni lassù, in
un'eterna giovinezza, o dea che ai tre nomi unisci tre aspetti diversi; io ti
scongiuro in nome delle miserie della mia razza: Diana, Luna, Ecate! tu che
allarghi il petto e porti i tuoi pensieri in seno dei profondi abissi, tu, la
cui luce è tranquilla, tu possente ed impenetrabile, apri l'orrendo abisso
delle tue ombre, e che l'antica potenza si riveli senza il soccorso della
magia! (Pausa.)
Sarei io forse così presto
esaudito? La mia preghiera innalzata verso quelle alte regioni avrebbe ella
turbato l'ordine della natura?
Il trono circolare della dea si
avanza sempre più grande, formidabile a guardarsi! mostruoso! Il suo
fuoco s'infosca nel diventare rosso... Fermati! cerchio largo e minaccioso, tu
ridurresti a nulla, noi, la terra ed il mare! Sarebbe egli dunque vero che le
donne di Tessaglia, fidenti in una colpevole magia, ti abbiano fatta scendere
dalla tua via mediante i loro incantesimi; ch'esse ti abbiano strappato i
più perniciosi segreti? Il disco luminoso è impallidito, — di
repente si squarcia, fiammeggia e scintilla! Che fracasso! Che sibili! il tuono
accompagna l'uragano! Prosternato ai piedi del trono, — perdonami! ho provocato
tutto ciò. (Egli si getta colla faccia a terra.)
Talete. Quante cose
quell'uomo non vede e non comprende egli! Non so precisamente in che modo
ciò sia accaduto, e non provai nessuna delle sue sensazioni.
Confessiamolo pure, questa è un'ora stravagante, dappoiché la luna si
culla mollemente nel suo posto ora come in passato.
Homunculus. Guarda il
luogo in cui i Pigmei si erano stabiliti! la montagna era tonda ed ora è
aguzza. Ho notato una scossa straordinaria; la roccia era caduta dalla luna, e,
di nulla curandosi, uccideva, schiacciava, tutti, amici e nemici. Eppure non ho
potuto tralasciare di ammirare simili talenti, i quali, colla loro potenza
creatrice, hanno potuto in una notte sola, dall'alto e dal basso ad un tempo,
compiere finalmente l'edifizio di questa montagna.
Talete. Sta
tranquillo! Quella non era che un'invenzione. Sgombri una volta la schifosa
genìa! Non avrei voluto che tu fossi re. Ora, andiamo all'allegra festa
del mare! là si attendono ed onorano ospiti meravigliosi. (Essi si
allontanano.)
Mefistofele (arrampicandosi
dal lato opposto). Mi è giuocoforza di trascinarmi attraverso questi
grandi macigni dirupati di granito, attraverso alle ispide radici delle vecchie
querce! Sul mio Brocken i vapori dell'Harz spandono un certo odore di bitume
che mi piace assai, dopo lo zolfo... Ma qui fra questi Greci, non se ne sente
il più piccolo profumo. Sarei curioso di sapere con che cosa essi
attizzano i fuochi dell'inferno.
Una Driade. Che tu sia
saggio e prudente a casa tua, può darsi, ma lo sei pochissimo
all'estero. Non dovresti rivolgere il tuo pensiero verso la tua patria, ma
bensì onorare qui la maestà della sacra quercia.
Mefistofele. Si pensa a
quanto si è abbandonato; ciò che da lungo tempo fummo avvezzi a
vedere, resta per noi un paradiso. Ma dimmi: in quell'antro laggiù, al
chiarore di una debole luce, qual triplice forma si vede accoccolata?
La Driade. Sono le Forcidi! Avventurati fino a quel luogo e rivolgi loro la
parola se hai animo bastante.
Mefistofele. Perché no?
— Vedo qualche cosa e lo ammiro! Per quanto altero io sia, devo confessare a me
stesso di non aver mai veduto nulla di simile. Esse sono ben peggio delle
Mandragore... È egli possibile che si trovi una qualche
schifosità nel peccato dannato fin da principio, quando si vede questo
triplice mostro? Noi non lo potremmo tollerare neanche sul limitare del
più spaventevole dei nostri inferni. Qui invece esso mette radice sulla
terra del bello; e lo chiamano con orgoglio antico... Esse si muovono; si
direbbe che fiutano il mio avvicinarmi. Esse garriscono fischiando,
pipistrelli-vampiri.
Una Forcide. Datemi,
sorelle mie, datemi voi l'occhio ond'io cerchi di conoscere il temerario che
viene sì vicino al nostro tempio.
Mefistofele. Oh
reverendissime, permettete che io mi avvicini e riceva la vostra triplice
benedizione. È vero che io mi presento a voi come uno sconosciuto, ma se
non erro, come lontano parente. Ho già contemplate le auguste
divinità antiche, mi sono prosternato dinanzi ad Opi e Rea; — le Parche
stesse, sorelle del Caos, e vostre, le ho vedute jeri... o jeri l'altro; ma no
ben peggio delle Mandragore... È egli possibile che taccio perché mi
sento commosso.
Le Forcidi. Questo
spirito sembra avere un certo buon senso.
Mefistofele. Desta in me
meraviglia che nessun poeta vi abbia mai celebrate. Ditemi, ve ne prego, come
ciò accadde? Non ho mai veduto le vostre statue, reverendissime mie.
Eppure lo scalpello non cerca egli di riprodurre Giunone, Pallade, Venere ed
altre simili?
Le Forcidi. Sepolte
così nella solitudine e nel silenzio delle tenebre, nessuna di noi tre
vi ha ancora pensato.
Mefistofele. E l'avreste voi potuto, vivendo qui
lontane dal mondo; qui dove non vedete nessuno e nessuno vi contempla?
Dovreste stabilirvi in quei luoghi
ove il lusso, la magnificenza e l'arte regnano del pari, dove ogni giorno massi
di marmo entrano nella vita sotto le sembianze di eroi; dove...
Le Forcidi. Taci, non
suscitare in noi nuovi desiderii! A che cosa ci servirebbe dar più a
lungo ascolto ai tuoi detti, noi nate nella notte, consanguinee delle tenebre,
affatto sconosciute a tutti e quasi a noi stesse?
Mefistofele. In questo
caso non vi è nulla da dire: ma si può trasfondere in altri il
proprio essere. A voi tre, un'occhio, un dente vi basta. Sarebbe assai
mitologico compendiare in due l'essere di tre, e cedermi, per qualche tempo, le
sembianze della terza.
Una Forcide. Che cosa ve
ne pare? sarebbe egli possibile?
Le Altre. Proviamo, —
ma senza l'occhio ed il dente.
Mefistofele. Ma che! voi
avete precisamente tolto tutto quanto vi era di meglio. Come sarebbe allora
possibile una perfetta rassomiglianza?
Una Forcide. È
presto fatto, chiudi un occhio, sporgi fuori il tuo graffio, e, di profilo,
perverrai a rassomigliarci perfettamente, come fratello e sorella.
Mefistofele. Troppo
onore! Dunque sia così!
Le Forcidi. Sia!
Mefistofele (sotto il
profilo di una Forcide). Andiamo! Ora mi spaccio per un figlio prediletto
del Caos!
Le Forcidi. Noi siamo
senza alcun dubbio sue figlie.
Mefistofele. Ora mi
trattano, oh vergogna, come un ermafrodito.
Le Forcidi. Quale
bellezza nella nuova triade delle sorelle! Abbiamo due occhi e due denti.
Mefistofele. Bisogna che
io mi nasconda a tutti gli sguardi, per andare a spaventare il diavolo nel
baratro infernale. (Esce.)
Baia fra le rupi del mare Egeo
La luna immobile allo zenit.
Sirene (accampate
qua e là sulle rocce mormorano e cantano). Vi fu un tempo in cui
nello spavento notturno, le maghe tessale ti hanno sacrilegamente attratta
verso la terra. Dall'alto delle volte della tua notte, getta un placido sguardo
sullo sciame dolcemente luminoso delle tremanti onde, e rischiara questi
scompigliati flutti. Luna, o bella dea, sii propizia a noi tue premurose
ancelle.
Le Nereidi e
Tritoni (in forma di mostri marini). Echeggi il vasto mare al
suono fragoroso delle vostre voci! chiamate intorno a voi il popolo
dell'abisso! — Vedendo spalancarsi gli orrendi vortici della tempesta, noi ci
eravamo nascosti nella più silenziosa profondità; le vostre dolci
canzoni fanno sì che torniamo alla superficie. Guardate! rapiti da tanta
dolcezza ci siamo ornati d'aurei monili; alle corone, alle pietre preziose,
aggiungendovi i fermagli e le cinture. Tutto ciò è opera vostra,
tesori inghiottiti dai naufragi. Le vostre voci incantevoli ci hanno sedotti, o
demoni della nostra baja!
Le Sirene. Sappiamo
benissimo, che nella marina, i pesci si appagano della loro vita vagante e
spensierata; ma da voi, che la gioja commuove, oggi ci sarebbe caro apprendere
che l'essere vostro è assai superiore a quello dei pesci.
Le Nereidi
ed i Tritoni. Prima di venir qui, abbiamo avuto quest'idea; ma ora,
all'erta! o sorelle e fratelli! Oggi il più breve tragitto basta per dimostrare
pienamente che siamo pesci in tutto e per tutto. (Essi s'allontanano.)
Le Sirene. Sono
partiti in un batter di ciglio! difilato verso la Samotracia; scomparvero per
virtù di un vento propizio. Che cosa vorranno mai tentare laggiù
nel regno dei potenti Cabiri? Quali divinità strane e singolari! esse
generano se stesse eternamente e non sanno mai nulla del loro essere. Resta in
alto, o dolce Luna! diffondi su di noi le tue grazie. Oh! duri a lungo la
notte, affinchè il giorno non venga a disperderci!
Talete (sulla
riva, ad Homunculus). Io ti condurrò volentieri dal vecchio Nereo;
perché, a dire il vero, non siamo lontani dalla sua grotta; ma ti avverto che
lo sgarbato pensieroso dio ha la testa assai dura. Il genere umano intiero non
fa nulla che sia approvato da quel fantastico brontolone. Egli ha però
il dono di leggere nell'avvenire; e perciò, ognuno lo rispetta e
l'onora. Anzi più d'uno gli è debitore di qualche benefizio.
Homunculus. Tentiamo la
sorte e picchiamo! Non mi costerà certo il vetro e la fiamma.
Nereo. Sono esse
voci umane quelle che colpiscono il mio orecchio! Oh! come la rabbia m'agita
nel più profondo del cuore! Fantasmi anelanti senza posa alla
sublimità degli dei, e ciò nonostante condannati a non essere
altro che quello che sono. Da tempo immemorabile avrei potuto riposarmi nella
pace dei numi, ma il mio istinto mi traeva a soccorrere i buoni; a fatti
compiuti però mi avvidi che tutto era accaduto come se non vi avessi
preso parte alcuna.
Talete. E nondimeno, o vecchio del mare, si ha
fiducia in te; e tu che sei saggio, non scacciarci di qui! Vedi codesta fiamma
che somiglia ad un uomo? essa si abbandona intieramente ai tuoi consigli.
Nereo. Che parli
tu di consigli! furono essi mai apprezzati dagli uomini? Una saggia parola
muore intorpidita nel loro orecchio sordo ed ottuso; e se gli stessi fatti sono
riusciti a contraddirli e biasimarli, non per questo simile razza desiste dalla
sua ostinatezza. Quali paterne ammonizioni non ho io dato a Paride, prima che
la sua libidine lo allacciasse ad una donna straniera! Egli si tenne
arditamente sulla spiaggia greca, ed io gli rivelai ciò che vedeva nella
mente: l'aere pieno di densi vapori, invasi da onde sanguigne; gli edifizi in
preda all'incendio, e lungo le vie l'omicidio e la morte; l'ultimo giorno di
Troja consacrato poi nel canto, e, dopo migliaja d'anni, altrettanto terribile
quanto famoso. La parola del vegliardo sembrò allo sfrenato giovane un
giuoco; egli appagò i suoi desideri, ed Ilio cadde. — Cadavere
gigantesco, irrigidito dopo lunghe convulsioni! magnifico pasto per le aquile
del Pindo! Ad Ulisse non dissi io anticipatamente gli artifizi di Circe, la
crudeltà dei Ciclopi, la sua propria lentezza, la volubilità
delle sue genti, e che so io ancora? Qual profitto ne ricavò egli, infino
a che dopo innumerevoli traversie le onde propizie lo portarono sopra una
spiaggia ospitale?
Talete. Una simile
condotta inquieta l'uomo esperimentato; ma l'uomo dabbene non si scoraggia per
ciò, e ritorna alla carica. Una sola dramma di riconoscenza forma la sua
felicità, e pesa assai più nella bilancia che cento libbre
d'ingratitudine. Ora, ciò che noi imploriamo non è certo cosa di
poco conto; il fanciullo che ti sta dinanzi desidera giudiziosamente di
esistere.
Nereo. Lasciatemi
in pace, ora che sono di buon umore più del consueto! ben altro mi sta a
cuore oggi: ho convocato qui tutte le mie figlie, le Grazie del mare, le
Doridi. Né l'Olimpo, né il vostro suolo vantano una bella creatura che si muova
con tanta eleganza. Adorabile è il loro portamento, esse balzano dal
drago marino sui corsieri di Nettuno; mollemente unite all'umido elemento, le
crederesti fiotti che s'innalzano in spuma. Nel prisma della conchiglia
screziata di Venere, Galatea si avanza, lei, oggi la più bella di tutte;
lei che da quando Ciprigna ci ha lasciati, riceve a Pafo gli onori divini. E perciò questo raro fiore di
grazia impera già da lungo tempo sulla città, ed occupa l'ara, il
trono ed il carro. Indietro! nell'ora della gioja paterna mal s'addice sentir
odio nel cuore ed avere l'invettiva sulle labbra. Andate da Proteo! pregate il
mago affinchè egli vi dica come si esista e come si possa operare la
metamorfosi. (Egli si allontana dalla parte del mare.)
Talete. Questo
abboccamento non ci ha giovato a nulla. Si potrebbe forse raggiungere Proteo,
ma egli si dilegua tosto; e se acconsente a sentirti, finisce per risponderti
cose che destano la tua meraviglia e confondono le tue idee. Eppure il suo
consiglio ti è necessario, proviamoci, e continuiamo il nostro cammino.
(Essi s'allontanano.)
Le Sirene (dal'alto
delle rocce). Che cosa vediamo noi guizzare lontano attraverso il regno
delle onde? Come bianche vele che si avanzano spinte dal vento, mostransi
così abbaglianti le ninfe del mare. Scendiamo; ne udite voi le voci
soavi?
Le Nereidi
ed i Tritoni. Ciò che noi portiamo deve piacere a tutte. Il guscio
gigantesco di Chelone riflette immagini arcigne: vedete in costoro altrettanti
dei. Intuonate sublimi cantici.
Le Sirene. Piccoli di
statura, grandi per potenza, salvatori dei naufraghi, numi adorati da tutta
l'antichità.
Le Nereidi
ed i Tritoni. Noi portiamo i Cabiri, augurio di una pacifica festa; perché
là ove essi regnano saltamente, Nettuno si mostra favorevole.
Le Sirene.Noi vi
cediamo il luogo; quando una nave si spezza, voi proteggete con forza
irresistibile l'equipaggio.
Le Nereidi
ed i Tritoni. Tre soli ci seguirono, il quarto non volle venire; pretendendo
essere egli solo il buono, colui che pensa per tutti gli altri.
Le Sirene. Un dio
può dar la baja ad un altro dio. Si facciano onoranze a tutte le Grazie,
e temete tutto quanto può nuocere.
Le Nereidi
ed i Tritoni. Essi devono essere sette.
Le Sirene. E dove sono rimasti gli altri tre?
Le Nereidi
ed i Tritoni. Non sapremmo dirlo; bisogna informarsene nell'Olimpo.
Là ne esiste un ottavo al quale nessuno aveva pensato! Essi ci
aspettavano gentilmente; eppure non erano tutti pronti. Questi impareggiabili
vogliono sempre andar più lontano; poveri infelici, smaniosi di riescire
inesplicabili.
Le Sirene. Siamo
avvezze a pregare là ove ha trono il Divino, nel Sole e nella Luna;
ciò porta fortuna.
Le Nereidi
ed i Tritoni. Quanto splendore accrescerà alla nostra fama la festa
che celebriamo ora!
Le Sirene. Questa
gloria manca agli stessi eroi dell'antichità; per quanto gloriosi essi
siano. S'essi hanno conquistato il Vello d'oro, voi avete conquistato i Cabiri.
(A ritornello, come una vecchia canzone.)
Se
l'aureo tosone
Hann'essi
predato,
E
noi de' Cabiri
Abbiam
trionfato.
(Le Nereidi ed i Tritoni si
allontanano.)
Homunculus. I mostri deformi io li rassomiglio a
vecchi orci; i sapienti vi urtano contro, e si rompono il loro duro cocuzzolo.
Talete. Ecco
appunto ciò che si vuole: è la ruggine che dà prezzo alle
monete.
Proteo (non visto).
Una simile avventura fa ringalluzzire un vecchio barbogio come me! Più
vi è del meraviglioso e più ne tengo calcolo.
Talete. Dove sei,
Proteo?
Proteo (con voce
da ventriloquo, or lontana or vicina). Qui e là.
Talete. Ti permetto
questo vecchio scherzo; ma per un amico, tregua alle parole inutili! Io so che
tu parli da un luogo in cui non ti trovi.
Proteo (come in
lontananza). Addio.
Talete (nell'orecchio
ad Homunculus). Egli è qui vicino. Ora manda il tuo vivo chiarore,
egli è curioso come un pesce; e in qualunque sito ch'egli sia
trasformato, la fiamma lo trascinerà qui.
Homunculus. Io spando
senza indugio vivi sprazzi di luce; ma con una certa moderazione, per tema che
il mio vetro scoppi.
Proteo (sotto la
forma di una tartaruga gigantesca). Che è ciò che brilla con
tanta grazia e splendore?
Talete (nascondendo
Homunculus). Oh bella! se ne hai il desiderio, vieni a vedere più
davvicino. Non risparmiarti un così piccolo disturbo, e lasciati vedere
su due piedi in forma d'uomo. E così
in grazia nostra e mediante il nostro consenso, potrai vedere quello che ti si
nasconde.
Proteo (in
dignitoso aspetto). Rammenti tu ancora le malizie del mondo?
Talete. E tu, non hai ancora smesso la smania
di mutar forma? (Scorge Homunculus.)
Proteo (meravigliato).
Un piccolo nano sfolgorante di luce!... Non ho mai veduto nulla di simile!...
Talete. Egli chiede
consiglio, e sarebbe ben contento di esistere. Egli è, come me lo disse
lui stesso, venuto al mondo in modo strano, e solo per metà.
L'intelligenza non gli fa difetto: ciò che gli manca affatto, è
il solido, il palpabile. Finora il vetro solo gli dà un po' di gravita,
e non gli dispiacerebbe di prendere corpo al più presto.
Proteo. Vero figlio
di una vergine, prima che tu deva esistere, esisti già.
Talete (a voce
bassa). Egli mi sembra sospetto sopra un altro punto: io lo credo un
ermafrodito.
Proteo. Egli
riuscirà perciò più presto nel suo intento; in qualunque
modo egli nasca, l'affare si aggiusterà. Ma ora non si tratta di
deliberare. Tu devi prendere origine nel vasto mare! Là s'incomincia da
piccolo, pigliando gusto nell'inghiottire i più piccoli, si cresce a
poco a poco, e si prende forma per più alti destini.
Homunculus. Qui spira
una dolce brezza, il prato s'infiora, e l'olezzo mi piace.
Proteo. Lo credo,
adorabile fanciullo, e laggiù ti piacerà maggiormente, su quella
stretta lingua di terra dove le delizie dell'atmosfera sono ineffabili:
là dinanzi a noi scorgesi il corteggio, che ondeggia appunto assai
vicino. Venite dunque meco laggiù.
Talete. Io vi
accompagno.
Homunculus. L'andare
degli spiriti è oltre ogni dire meraviglioso!
(I Telchini di Rodi sugli ippocampi o cavalli marini tenendo
in pugno il tridente di Nettuno.)
I Telchini
(in coro). Noi abbiamo fatto il tridente di Nettuno, col quale egli calma
i flutti tempestosi. Se il signore del fulmine aggruppa i gonfi e neri
nuvoloni, Nettuno risponde al terribile rombo, e, mentre i lampi serpeggiano
lassù, onda sovr'onda si accavalla spumando al disotto, e tutto quanto
vi si frappone, in balia della tempesta, a lungo bersagliato, viene finalmente
inghiottito dall'abisso. E per
ciò egli ci affidò oggi lo scettro, e noi voghiamo a quest'ora in
pompa, calmi e leggieri.
Le Sirene. Salvete,
sacri ministri d'Helios, prediletti del giorno splendido e sereno; salvete in
quest'ora di commozione, consacrata alla festa della Luna!
I Telchini.
O dea amabile fra tutte! dalla tua volta superna, tu ascolti giubilante le lodi
rivolte a tuo fratello; tu porgi orecchio alla fortunata Rodi; da dove
s'innalza per lui un canto eterno. Sia ch'egli cominci, o termini il suo corso,
egli ci guarda sempre con occhio scintillante di fiamme. Le montagne, le ville,
le spiagge e le onde sono care al dio, e sembrano graziose e splendide. Non una
nube erra sul nostro capo: e se per avventura alcuna se ne mostra, splende un
raggio, spira un soffio d'aria, e tosto l'isola ne è purificata!
Là l'Immortale si rimira in cento fogge, ora come giovinetto, ora come
gigante, sempre maestoso ed affabile. Siamo noi che per i primi abbiamo rappresentato
la potenza degli dei sotto la degna forma degli uomini.
Proteo. Lasciamoli
cantare, lasciateli insuperbire nella loro jattanza! Al vitale chiarore del
Sole divino le opere morte non sono più che scherzi; costoro modellano e
fondono il metallo, e appena lo hanno versato nella forma cretacea, essi
credono di aver fatto portenti! Che cosa avviene finalmente a quei vanitosi? Le
imagini degli dei si tenevano erette in tutta la loro grandezza; una scossa
terrestre le ha rovesciate; e da lungo tempo si dovettero rifondere. L'opera
della terra, qualunque essa sia, non è mai che una miseria; l'onda
è ben più propizia alla vita; Proteo-Delfino ti porterà
nel grembo dell'onda eterna. (Si trasforma.) Ecco fatto! Là ti
attendono i più belli destini; ti prendo sul mio dorso e ti sposo
all'Oceano.
Talete. Acconsenti
al suo lodevole desiderio di cominciare la creazione dal principio! Sii pronto
ad agire con sveltezza! Là, secondo le norme eterne, ti muoverai fra
mille e mille forme; e prima di arrivare all'uomo trascorrerà lungo
tempo.
(Homunculus
monta in groppa di Proteo-Delfino.)
Proteo. Vieni con
me a volo nell'umida distesa; là godrai ben tosto la pienezza della
vita, potrai muoverti a tuo talento; ma non aspirare a più alti destini,
perchè se arrivi ad essere uomo, tutto è finito per te.
Talete. Non si sa
ancora: l'essere un uomo rispettabile è pure già qualche cosa.
Proteo (a Talete).
Sì, un uomo della tua tempra! Ecco chi resiste al tempo; perchè
fra le smorte legioni di spiriti, io ti vedo andare già da lunghi secoli.
Le Sirene(sulla roccia). Qual
gruppo di nuvolette forma intorno alla luna un sì splendido circolo?
Sono colombe amorose, dalle ali candide come la luce. Pafo manda qui lo sciame
dei suoi augelli innamorati; la nostra festa è completa, la dolce
voluttà è perfetta e serena!
Nereo (andando verso
Talete). Un viaggiatore notturno chiamerebbe questo corteggio della
luna una visione dell'aria; ma noi, spiriti, abbiamo un'opinione ben diversa,
la sola che sia giusta. Quelle sono colombe che accompagnano mia figlia nei
lucenti sentieri, colombe dal volo strano e meraviglioso, sconosciute fin dai
più remoti tempi.
Talete. Quanto
piace al nobile vegliardo è pure l'oggetto della mia predilezione: un
nido tiepido e silenzioso dove la vita sacra si mantiene.
I Psilli ed
i Marsi (a cavallo ai tori, ai vitelli ed agli arieti marini).
Negli antri profondi e selvaggi di Ciprigna, al sicuro dallo spavento inspirato
dagli dei del mare, dalle scosse di Seismos, carezzati dalle eterne brezze,
come nei tempi antichi, nella coscienza di una pacifica giocondità, noi
custodiamo il carro di Ciprigna, e durante il mormorio delle notti attraverso
il grazioso agitarsi delle onde, noi conduciamo, invisibili, la più
avvenente fanciulla alla nuova generazione. Agili compagni, non temiamo né
l'Aquila, né il Leone alato, né la Croce, né la Luna, né quanti abitano e
regnano lassù, ondeggiano e si muovono nelle loro rivoluzioni, cacciano,
sterminano, distruggono messi ed atterrano città. Insomma, noi conduciamo
qui la più graziosa sovrana.
Le Sirene. Dolcemente
commosse, con discreta sollecitudine formando cerchio su cerchio intorno al
carro, e allacciandovi come serpenti alla fanciulla, avvicinatevi, robuste
Nereidi, donne vigorose, e piacevolmente selvagge; portate, o tenere Doridi, a
Galatea l'imagine di sua madre: severe e tali che si creda mirare le dee, come
conviene alla vostra immortalità, e nello stesso tempo scorgere le dolci
compagne degli uomini la cui benevolenza attira e seduce.
Le Doridi (in coro
dinanzi a Nereo, sedute sopra i delfini). O Luna, prestaci la tua luce e la
tua ombra. Viva questo bel fiore di giovinezza! poiché noi presentiamo i nostri
prediletti sposi a nostro padre, che noi preghiamo. (A Nereo.) Guarda,
sono giovinetti che abbiamo salvato alle voraci fiamme dell'incendio, stesi sui
giunchi e sul muschio, riscaldati dai raggi del sole, e che ora con ardenti
baci devono dimostrarci la loro riconoscenza. Volgi a questi cari giovinetti un
propizio sguardo.
Nereo. È un
doppio guadagno del quale si dee tenere calcolo: mostrar compassione e
dilettarsi ad un tempo.
Le Doridi. Padre, se
mai abbiamo ben meritato di te, se vuoi appoggiare un desiderio ben sentito,
permetti di tenerceli immortali sul nostro seno e forniti di un'eterna
gioventù.
Nereo. Potete
rallegrarvi della bella conquista, e scorgere l'uomo nell'adolescente; ma non
posso concedere ciò che Giove solo può permettere. L'onda che vi
culla e vi agita non vi lascia essere costanti in amore, e se la passione vi ha
ingannate, deponeteli dolcemente sulla spiaggia.
Le Doridi. Graziosi
giovani! Quanto ci siete cari; ma pur troppo bisogna separarci. Desideravamo
esservi eternamente fedeli, ma gli dei non ce lo consentono.
I Giovinetti.
Continuate a rassicurarci così, noi, arditi figli del mare, non fummo
mai tanto felici, e non lo saremo in avvenire.
(Galatea si
avanza sopra un carro di madreperla.)
Nereo. Sei tu, mia
diletta!
Galatea. O padre! O me felice! Fermatevi, o delfini! Lo sguardo m'incatena.
Nereo. Sono
già scomparsi! Essi si allontanano nel vortice delle onde! Che importa a
loro la profonda emozione del cuore? Oh! perché non presero me pure con essi!
Ma un solo sguardo t'inebria per un anno intero.
Talete. Gloria!
Gloria! sempre gloria! Come mi sento felice! rapito dal bello, dal vero!...
Tutto è venuto dall'acqua; l'acqua conserva ogni cosa! Oceano, prestaci
l'eterna tua virtù! Se tu non esalassi le nubi, se non facessi scorrere
i vivi ruscelli, se non spargessi qua e là i fiumi e non formassi i
torrenti, che cosa sarebbero i monti, le pianure ed il mondo? Tu, tu solo serbi
la vita nella sua potenza e nella sua freschezza.
Eco (coro di
suoni che si diffondono intorno). Da te solo scaturisce la fresca e florida
esistenza.
Nereo. Essi
ritornano, in lontananza, cullati dalle onde! i nostri sguardi non s'incontrano
più; secondo l'ordine della festa le innumerevoli schiere s'intrecciano
in ampie ghirlande. Ma io vedo ancora e sempre lo splendido trono di Galatea;
esso brilla come una stella attraverso la moltitudine. Il caro oggetto splende
in mezzo alla folla! Per quanto lungi egli sia, esso brilla chiaro e puro,
sempre vicino e reale.
Homunculus. In questa
serena umidità, tutto ciò che io rischiaro appare bello e
attraente.
Proteo. In questa
umidità vitale, la tua lanterna splende di un magnifico splendore.
Nereo. Qual nuovo
mistero in mezzo alle falangi, si rivela ora ai miei occhi? Che è mai
ciò che io vedo sfolgorare intorno alla conchiglia di madreperla, ai
piedi di Galatea? Ora esso fiammeggia vivamente, ora teneramente, ora con
dolcezza; si direbbe che le arterie dell'amore vi palpitano dentro.
Talete. È
Homunculus sedotto da Proteo... Ecco tutti i sintomi di un sommo ardore. Io ne
temo le angoscie del doloroso commovimento. Egli sta per spezzarsi contro
l'abbagliante trono... Fiammeggia.... scintilla... è già in
fusione.
Le Sirene. Qual
prodigio incandescente illumina le onde che si frangono le une contro le altre
scintillando? Esso brilla e tremola spandendo un sereno chiarore. I corpi s'infuocano attraverso gli spazii
notturni, e tutto all'ingiro, è circondato di fuoco. Così regna
Eros, principio di ogni cosa.
Gloria
del mare ai ceruli
Flutti
sonanti invoco.
In
fiamma accesi — luccicante e pura!
Gloria
de' fiumi ai tremuli
Cristalli!
e gloria al fuoco.
Tutti. Gloria a questa mirabile
ventura!
Gloria
alle aurette tiepide, sottili!
Agli
ombrosi recessi ove ridutti
Veggonsi
a meditar spirti gentili,
Tale,
o elementi, ardete ognor voi tutti!
fine
dell'atto secondo.
ATTO TERZO
Prospetto del palazzo di Menelao in
Sparta
Prospetto del palazzo di Menelao in
Sparta.
Elena si avanza,
attorniata da un coro di prigioniere trojane. Pantalide, corifea.
Elena. Io, Elena,
tanto ammirata e tanto vituperata, qui giungo dalla spiaggia ove siamo
sbarcate, — ancora sconvolta dall'ondeggiare dei marosi che dai campi di
Frigia, sul loro dorso spumoso e sublime, col favore di Poseidon e colla forza
di Euro, ci portarono nel golfo della patria. Laggiù, a quest'ora, il re
Menelao si rallegra del ritorno, circondato dai suoi più prodi
guerrieri. Ma tu, accoglimi come un'ospite a te gradita, palazzo sublime che
Tindaro, mio padre, ritornando dalla collina di Pallade, innalzava secondo il
suo gusto, e ch'egli teneva arredato con magnificenza fra tutti i palazzi di
Sparta, quando io cresceva insieme a Clitennestra amandola come una sorella, ed
in compagnia di Castore e di Polluce passavo i miei giorni nei più
allegri divertimenti. Salvete o voi battitoi della gran porta di bronzo, che
nell'aprirsi ospitaliera, fu cagione che il prescelto fra tutti, Menelao, mi
apparisse splendido sotto le sembianze del fidanzato. Apriti un'altra volta
dinanzi a me, che io adempia fedelmente un messaggio del re, come conviene alla
sposa. Lascia che io penetri! che ogni cosa rimanga dietro di me; tutto quanto
fino a questo giorno mi colpì con triste fatalità! Poiché dal
momento in cui, fiduciosa, io abbandonava questi luoghi per visitare il tempio
di Citerea, come era mio sacro dovere, colà ove l'uomo di Frigia stese
su di me la sua mano rapace, successero tante di quelle cose che gli uomini
raccontano molto volontieri, ma che non sono udite con piacere da colui che
sente la sua storia, sempre più alterata, e che finisce poi in una favola.
Il Coro. Non
sdegnare, o nobile donna, il glorioso possesso del più grande di tutti i
beni! perché a te sola è concessa la più grande felicità,
la gloria della bellezza sopra tutte meravigliosa. L'eroe è preceduto
dal famoso suo nome, e perciò egli cammina superbo. Ciò nondimeno
l'uomo più inflessibile sente il suo spirito soggiogato dinanzi alla
bellezza che tutto doma.
Elena. Or bene! Io
approdai qui col mio sposo, ed ora per ordine suo lo precedo nella sua
città. Eppure da qual sentimento è egli animato? Non lo posso
indovinare. Vengo io qui come sposa? come regina? come vittima destinata ad
espiare l'acerbo dolore del principe, i rovesci dei Greci sofferti da sì
lungo tempo? Sono io sua conquista o sua prigioniera? lo ignoro, perché gl'immortali
mi hanno serbata una fama, un destino equivoco, fatali satelliti della
bellezza, che colla loro presenza cupa e minacciosa mi tormentano fino su
queste soglie. E già, dal
fondo della nave, lo sposo non mi guardava che a rari intervalli; nessuna
parola benevola usciva dalla sua bocca. Egli sedeva dinanzi a me, come se la
sventura fosse l'oggetto dei suoi pensieri; e al nostro arrivo nella profonda
baja dell'Eurota, appena che le prue delle navi salutarono la spiaggia, egli
disse, come inspirato dalla divinità: "Qui scendano con ardire
perfetto i miei guerrieri, ond'io li passi in rassegna sulla riva del mare. Ma
tu, va più lungi; segui la riva abbondante di frutti del sacro Eurota,
avviando i corsieri sui prati rugiadosi, fino a che tu raggiunga la ricca pianura
ove Lacedemone, — un tempo campo vasto e fertile circondato da un vicino
cerchio di aspre montagne; — ove Lacedemone, dico, fu costrutta. Entrerai
quindi nella casa reale fortificata, e passerai in rassegna le ancelle che io
vi lasciai, come vecchia e prudente massaja. Là tu vedrai i ricchi
tesori che tuo padre ed io stesso, sia in guerra come in pace, aumentandoli
sempre, vi abbiamo accumulati. Troverai ogni cosa in bell'ordine perché
è prerogativa del principe ritrovare al suo ritorno ogni cosa nel luogo
ove egli l'aveva lasciata: non avendo il servo facoltà di effettuare da
sé il più piccolo cambiamento.
Il Coro. Appaga or
dunque gli occhi in questo magnifico tesoro, sempre accresciuto, e dilata il
cuore. Poiché le guarniture delle catenelle e il bagliore della corona, stanno
là vantandosi di essere pur qualche cosa. Entra e li provoca, e saranno
ben presto in armi. Io gioisco nel vedere la bellezza scendere in campo
coll'oro, colle perle e colle pietre preziose.
Elena. Così
continuò il signore con voce imperiosa: "Quando avrai, secondo il
mio ordine, visitato ogni cosa, prendi tanti tripodi quanti ne crederai
necessari, ed i diversi vasi di cui il sacrificatore ha bisogno di avere alla
mano, per compiere il sacro rito; le caldaje e le coppe, come pure il cilindro.
Che l'onda la più pura delle sacre sorgenti sia chiusa in grandi anfore;
oltre a ciò, non lasciate che manchi legna secca, che la fiamma
rapidamente possa divorare. Sia pure pronto un coltello ben affilato; lascio
poi a te la cura del rimanente." Così disse, spingendomi alla
partenza; ma nel suo comando non fece cenno della vittima da immolarsi in
onoranza agli Olimpiadi. Questo merita che vi si pensi; eppure non voglio
pensarvi più; e che ogni cosa accada secondo il volere degli dei! Che
gli uomini percorrano la buona o la cattiva via, noi mortali dobbiamo
rassegnarci. Già parecchie volte il sacrificatore alzò nel
momento del sacrifizio la pesante scure sulla testa ricurva dell'animale, senza
ch'egli potesse compiere l'atto augusto, perché trattenuto dall'intervento del
nemico incalzante o da qualche divinità.
Il Coro. Quanto deve
accadere non puoi imaginarlo, o regina; avviati là coraggiosamente! Il
bene ed il male giungono inattesi all'uomo; e quand'anche fosse avvisato, egli
non vi presterebbe fede. Troja andò in fiamme; abbiamo veduto la morte
dinanzi a noi, morte ignominiosa ed infame. Ed ora non siamo noi qui tue
compagne; felici di servirti non miriamo noi forse lo splendido sole del cielo
e quanto havvi di più bello sulla terra, tu, vogliam dire, con nostra
grande felicità?
Elena. Avvenga
ciò che vuole! Qualunque sia il destino che m'aspetta, devo senza
indugio ascendere nella casa reale che da lungo tempo deserta, rimpianta e
quasi perduta, s'innalza ancora non so come, dinanzi ai miei occhi. I miei piedi non salgono più
sì leggeri gli alti gradini sui quali io volava nella mia ardente
fanciullezza.
Il Coro. Scacciate,
o mie sorelle, voi, infelici prigioniere, scacciate ogni triste pensiero!
Dividete la gioja della vostra sovrana, la rara ventura d'Elena che s'avanza
verso il focolare paterno con passo lento e tardo, ma però fermo e
risoluto! Ringraziate i santi numi, propizi riparatori, i numi protettori del
ritorno! Chi riacquista la libertà sormonta a volo le più ardue
vette, mentre il prigioniero in preda ai suoi desiderii si strugge e stende
invano le braccia dall'alto delle mura della sua cella. Ma un dio prese l'esule
e dalle rovine d'Ilio la portò qui nell'antica casa degli avi,
nuovamente adornata, affinchè dopo indicibili gioje ed angosce,
riavutasi, ella rammentasse i bei giorni dell'età primitiva.
Pantalide (corifea).
Lasciate i canti festosi, e volgete il vostro sguardo alle imposte della gran
porta! — Che vedo, sorelle? La regina non ritorna ella verso di noi, con passo
celere e tutta sbigottita? Che fu, grande regina? Che hai tu dunque trovato di
spaventoso nelle vaste sale del tetto paterno invece dell'affettuoso saluto dei
tuoi? Non potresti nasconderlo, perché leggo sulla tua fronte l'affanno, la
sorpresa mista alla nobile ira che ti accende.
Elena (commossa,
lasciando la porta spalancata). La tema volgare mal s'addice alla figlia di
Giove, e l'ala di uno spavento passeggiero la sfiora appena; ma il terrore che
uscito fin dal principio dal seno dell'antica notte, irrompe sotto mille forme,
come le nubi infuocate irrompenti dall'infiammato abisso della montagna; — un
simile terrore scuote il petto dell'eroe. Per questo le terribili potenze dello
Stige mi hanno oggi designato la soglia della casa, affinchè pari
all'ospite che si scaccia, io fossi ridotta ad allontanarmi con gioja da un
limitare spesso varcato, e verso il quale erano diretti i miei sospiri. Ma no!
io me ne fuggii in pieno meriggio, e voi non mi scaccerete più oltre,
potenze, qualunque voi siate! Voglio tentare un sacrificio, affinché dopo la
purificazione, la fiamma del focolare saluti la sposa, come saluta lo sposo e
monarca.
Il Coro. Rivela, o
nobile donna, rivela alle tue ancelle che ti circondano rispettose, ciò
che ti è accaduto.
Elena. Ciò
che io vidi, lo vedrete coi vostri occhi stessi, a meno che la notte non abbia
tosto inghiottito l'opera sua nel seno dei suoi abissi, da dove sfuggono i
prodigi; ma affinchè lo sappiate, ve lo dico ad alta voce: mentre io
attraversava con passo solenne l'austero vestibolo della casa reale, pensando
ai miei nuovi doveri, il silenzio di quel religioso e deserto revinto mi
sorprese. Né lo strepio sonoro di gente che va e viene colpì il mio
orecchio, né l'affaccendarsi sollecito e vigilante si presentò ai miei
occhi; non un'ancella m'apparve, non una massaja, di quelle che nei giorni
andati salutavano affabilmente ogni straniero. Intanto, mentre io mi avvicinava
al focolare, scorsi, vicino ad un tizzo riarso e ridotto in cenere, seduta sul
suolo, non so qual donna alta di statura e velata, nell'atteggiamento della
meditazione piuttosto che del sonno. La mia voce sovrana l'invita al lavoro,
stimandola dapprima una fantesca posta là dalla previdenza del mio
sposo; ma ella rimane impassibile, avviluppata nel panneggiamento della sua tunica.
Da ultimo, ella alza in seguito alla mia minaccia, il suo braccio destro, come
per scacciarmi dall'atrio e dalla sala. Irritata, mi volto e salgo i gradini
del palco sul quale posa il talamo sontuosamente guernito, vicino alla stanza
del tesoro. La visione si alza anch'essa, e, attraversandomi il passo con gesto
imperioso, si mostra a me nella sua gigantesca statura, scarna, cogli occhi
infossati, livida e sanguinante, come un truce fantasma che turba la vista e lo
spirito... — Ma io parlo invano, ché la parola non è capace di
descrivere un simile aspetto. — Guardate voi stesse! essa non teme la luce! Noi
solo possiamo regnare qui fino all'arrivo del nostro signore e sovrano. Febo,
l'amico della bellezza, ricaccia ben lungi nelle tenebre gli schifosi fantasmi
della notte, o li soggioga e sottomette.
(Una Forcide si avanza sul
limitare, in mezzo ai battenti della porta.)
Il Coro. Io vissi
lunghi anni, sebbene la mia bionda capigliatura ondeggi intorno alle tempie; io
vidi molte scene d'orrore, le desolazioni della guerra, e la notte in cui Ilio
cadde. In mezzo ai nembi di polvere ed al feroce scontro dei guerrieri, udii
gli dei gridare con voce terribile; e lo strido della Discordia rimbombare
lungo la pianura dalle parti dei bastioni.
Ahimè! le mura d'Ilio erano
ancora in piedi; ma la vorace fiamma si avvicinava stendendosi qua e là,
portata dall'infuriare del vento sulla trista città.
Vidi fuggenti, attraverso il fumo e
le brage, attraverso i turbini dalle cento e mille lingue di fuoco, avanzarsi i
corrucciati numi; vidi camminare forme strane, gigantesche, in mezzo a densi
vapori illuminati da ogni parte.
Se io abbia veduto tanta confusione,
o se il mio spirito in preda alle più vive angustie, se la sia figurata,
non lo potrei dire; ma ora che io contemplo questo mostro coi miei propri
occhi, oh! non posso dubitare. Lo toccherei colle mani se la paura non mi
trattenesse! Quale delle figlie di Forco sei tu dunque? perchè suppongo
che tu appartenga a quella razza. Saresti tu mai una di quelle Graie nate
decrepite, che hanno fra tutte e tre un sol occhio ed un sol dente che va da
una all'altra per torno?
Ardisci tu, o mostro, di comparire
vicino alla bellezza, di mostrarti alla vista di Febo che ti smaschera? Non
importa, vieni pure avanti, egli non vede la deformità, come appunto il
suo sacro sguardo non vide mai ombra di sorta.
Ma noi, nate mortali, pur troppo!
siamo condannate a vedere inaudite sconcezze che l'ignobile e maledetto
dall'eternità svela ai cuori amanti della bellezza. Ascolta dunque tu,
che ci sfidi arrogantemente, odi la maledizione, odi l'invettiva e la minaccia
uscire dalla bocca nemica delle felici creature formate dalla mano degli dei!
La Forcide. È
vecchia sentenza, il cui senso resta sempre oscuro quanto verace, che la
Pudicizia e la Bellezza non vanno mai assieme, tenendosi per mano, attraverso i
verdi sentieri della terra. In entrambe dura un odio inveterato che ha profonde
radici. Qualunque sia il luogo ove esse s'incontrano, ognuna volge le spalle
all'altra, e prosegue dopo la sua strada, afflitta la Pudicizia, la
Beltà superba e tracotante, finché la notte tenebrosa dell'Orco le
avvolge finalmente, se non furono domate prima della vecchiaia.
In quanto a voi, sfacciate, piene
ancora della baldanza dei paesi stranieri, mi sembrate uno sciame strepitoso e
rauco di gru che vola in lunghe file nell'aria, e fa sentire dall'alto il suo
crocidare, i cui suoni costringono il tacito viaggiatore ad alzar la testa; le
gru proseguono il loro viaggio, lui segue la sua via: e così sarà
di noi.
Chi siete voi dunque, voi che pari a
furibonde Menadi, pari a donne ubbriache, ardite suscitare il disordine nel
sublime palazzo del re? Chi siete voi dunque, voi che abbajate alla fantesca
della casa come la muta di cani alla luna? Credete voi che io ignori a qual
razza appartenete? — Tu, giovane creatura generata nelle guerre, cresciuta nei
combattimenti, lussuriosa, sedotta e seduttrice ad un tempo, fiacchi volta a
volta la forza del guerriero e del cittadino! Nel vedervi in gruppi, sembrate
uno stormo di cavallette cadute sulle bionde messi! — Voi sciupatrici del
lavoro straniero, ghiotte, e flagello della nascente prosperità; e tu,
merce involata, venduta al mercato, e cangiata!
Elena. Sgridare le
ancelle al cospetto della loro signora, è usurpare i diritti della casa;
perché alla sola sovrana compete di distribuire lodi e castighi. Io sono
soddisfatta dei servizi ch'esse mi resero quando la sublime rocca d'Ilione fu
assediata e cadde, e quando sopportammo i comuni travagli della vita errante,
dove ciascuno pensa a sé. Qui faccio ancora calcolo sul vigile drappello. Il
padrone non chiede ciò che sia lo schiavo, ma solo come egli è
capace di servire; e perciò t'impongo di tacere e di non farti beffe di
loro più a lungo. Hai tu ben custodito la casa reale invece della
sovrana? Ciò ti porterà fortuna; ma ora ella ritorna, ed è
tuo dovere cedere il passo, affinchè tu non deva ricevere il castigo
invece della meritata ricompensa.
La Forcide. Minacciare
gli ospiti della casa rimane un illustre diritto che la nobile sposa del
sovrano amato dagli dei si è acquistato con molti anni di saggio
governo. Dacché riconosciuta solo da oggi, vieni di nuovo ad occupare il tuo
antico grado di regina e di padrona, afferra le redini da lungo tempo
abbandonate; mettiti ora al governo, e prendi possesso del tesoro e di noi. Ma
prima di tutto proteggi me, la più attempata, contro questo gregge di
fanciulle, che vicino al cigno della bellezza, non sono guari più che
oche spennate e ciarliere.
La Corifea. Oh! come la
bruttezza riesce orribile vicino alla beltà!
La Forcide. Oh! come la
sciocchezza riesce sciocca vicino alla ragione!
(Da questo punto ciascuna delle
donzelle replica, uscendo fuori dal drappello.)
Prima del
Coro.
Parlaci dell'Erebo tuo padre, e di tua madre la Notte.
La Forcide. E tu parla di Scilla, tuo cugino
germano.
Seconda del
Coro. I mostri popolano il tuo albero
genealogico.
La Forcide. Va! cerca
nell'Orco la tua parentela.
Terza del
Coro.
Coloro che abitano colà sono tutti troppo giovani per te.
La Forcide. Va ad
amoreggiare col vecchio Tiresia.
Quarta del
Coro.
La nutrice d'Orione è tua pronipote.
La Forcide. Immagino
che le Arpie ti hanno allevata nelle immondezze.
Quinta del
Coro.
Con che cosa nutrì quella magrezza sì ben conservata?
La Forcide. Non
è certo colla carne di cui sei tanto ghiotta.
Sesta del
Coro.
Tu non puoi essere avida che di cadaveri, cadavere tu stessa ributtante.
La Forcide. Denti di
vampiro brillano nella tua arrogante boccaccia.
La Corifea. Io chiuderò
la tua se dico chi sei.
La Forcide. Pronunzia
per la prima il tuo nome, e non vi saranno più enimmi.
Elena. Io mi
avanzo fra di voi senza collera, ma afflitta, e vi ordino di terminare un
simile alterco. Nulla è più fatale al sovrano che la collera dei
suoi fidi servi, alimentata in segreto: l'eco dei suoi ordini non gli torna
più così armonico nell'azione rapidamente compita; molte voci
ribelli brontolano intorno a lui, che smarrito, rimprovera invano. V'ha di
più: nella vostra collera sfienata, voi avete ridestato delle funeste
immagini, le quali mi circondano sì tenaci, che a dispetto delle verdi
pianure della mia patria mi sembra di essere trascinata verso l'Orco. È
forse un ricordo? Fu essa un'illusione? sarei io dunque il sogno, il fantasma
di questi sovvertitori di città? Le fanciulle fremono; ma tu, la
più attempata di tutte, tu che non hai perduta la calma, rispondimi e fa
in modo che le tue parole siano intelligibili.
La Forcide. A chi
rammenta le varie gioje per lunghi anni godute, il favore dei numi sembra un
sogno; ma tu colmata oltre misura non hai trovato nel corso della tua vita che
amanti trascinati dal desiderio alle più temerarie imprese. Teseo,
acceso di lubriche vampe, ti adocchiò ben presto, Teseo, potente come
Ercole, giovane, bello e nobile!
Elena. Egli mi
rapì, svelta cervetta di dieci anni, e la borgata d'Afidna, nell'Attica,
mi accolse fuggitiva.
La Forcide. Salvata
poco dopo da Castore e Polluce, fosti corteggiata da una scelta schiera di
eroi.
Elena. Eppure il
mio segreto favore, lo confesso di buon grado, fu ottenuto da Patroclo, che
tanto rassomiglia al Pelide.
La Forcide. Ma la
volontà di tuo padre ti unì a Menelao, ad un tempo ardito
navigatore e savio custode del focolare domestico.
Elena. Il genitore
gli affidò sua figlia e l'amministrazione del proprio regno; il rampollo
di quest'imeneo fu Ermione.
La Forcide. Ma mentre
il tuo sposo andava lontano a conquistare con valore l'eredità di Creta,
t'apparve un ospite nella tua solitudine, un ospite dotato di troppa bellezza!
Elena. Perché
rammentarmi un tempo scorso in una mezza vedovanza, e le atroci sciagure che ne
risultarono per me?
La Forcide. A me pure,
che ebbi i natali in Creta, quell'impresa fu cagione di una lunga
schiavitù.
Elena. Lo sposo ti
elesse nello stesso tempo massaja qui, confidando non poco in te: la borgata ed
il tesoro conquistato colle armi.
La Forcide. Che tu
abbandonavi, rivolta verso le mura d'Ilio, ed alle gioje inesauste
dell'amore...
Elena. Non
rammentarmi quelle gioje: immense ed atroci angosce m'oppressero il cuore e la
mente.
La Forcide. Ma corse
allora la voce che tu apparisti come doppio fantasma in Ilio ed in Egitto.
Elena. Non
accrescere il turbamento dei miei desolati sensi; già fin d'ora io non
so chi io sia,
La Forcide. Si dice
inoltre che Achille, fuggito dall'impero delle ombre, venne contro tutte le
leggi del destino, ad unirsi focosamente a te ch'egli aveva tanto amata.
Elena. Io,
fantasma, mi congiungo a lui, fantasma esso pure; era un sogno, le parole
stesse lo affermano; io svengo e divento un fantasma per me stessa.
(Ella cade fra
le braccia delle ancelle.)
Il Coro. Taci, taci,
gelosa calunniatrice dalla bocca schifosa, provveduta di un sol dente! Che
può mai uscire di buono da quelle fauci spalancate?
Il tristo che si finge buono, il lupo
rabbioso sotto la pelle della pecora, mi spaventano assai più che il
furore del cane dalle tre teste. Noi siamo inquiete, e ci domandiamo quando,
come e dove ci venne quest'orribile mostro che veglia nelle tenebre.
Perché ora, invece di recarci
conforto, e di spandere su di noi un fiume di dolci ed amichevoli parole, vai
frugando nel passato, ricercando a preferenza il male che il bene, e lo
splendore del presente si va oscurando insieme alla dolce luce della speranza
dell'avvenire. Taci, taci! che l'anima della regina presso a fuggire, rimanga
ancora, e conservi le più belle forme che il sole abbia mai rischiarato!
(Elena va rinsensando, e si
rifà in piedi in mezzo al coro.)
La Forcide. Esci dai
lievi vapori, splendido sole di questo giorno, tu che ci rapivi sebbene fossi
velato, ed ora regna nella tua gloria sfolgoreggiante! Guarda tranquillo e
sereno il mondo dilatarsi dinanzi ai tuoi occhi! Esse hanno un bel chiamarmi la
schifosità, io però riconosco la bellezza.
Elena. Io esco
fuori vacillando dal vuoto che mi circondava nella vertigine; vorrei ancora
abbandonarmi al riposo; le mie membra sono stanche; ma le regine e gli uomini
devono farsi animo e ricuperare le forze qualunque sia l'evento che li ha
colpiti.
La Forcide. Tu ci stai
dinanzi in tutta la tua maestà e bellezza; il tuo sguardo dice che hai
comandato; che cosa comandi tu? Parla.
Elena. Si
riacquisti il tempo perduto in arroganti litigi, e si compia con premura il
sacrifizio ordinato dal re.
La Forcide. Ogni cosa
è pronta, la coppa, il tripode, la scure aguzza; l'acqua lustrale,
l'incenso: indicaci la vittima.
Elena. Il re non
l'ha indicata.
La Forcide. Non te l'ha
detto? O che pena!
Elena. Quale
affanno ti stringe il cuore?
La Forcide. Regina, la
vittima sei tu stessa!
Elena. Io?
La Forcide. E tutte costoro.
Il Coro. O sventura
e disperazione!
La Forcide. Tu cadrai
sotto la scure.
Elena. Orrore! Ma
io l'ho presentito, me infelice!
La Forcide. Ciò
mi sembra inevitabile.
Il Coro. Oh noi
infelici! E qual è il
nostro destino?
La Forcide. Ella
morrà di nobile morte; ma voi, come fringuelli presi nelle reti del
cacciatore, vi dibatterete sospese intorno all'alto balcone che sorregge la
compagine del tetto. (Elena e le ancelle in atto di stupore e di
raccapriccio, formano un gruppo armonicamente disposto.)
Fantasmi! Simili a statue immobili,
voi state là, spaventate di dovervi separare dal giorno che non vi
appartiene. Gli uomini, questi spettri che vi rassomigliano, non rinunziano
volontieri all'augusta luce del sole; non una sola voce intercede per essi,
nessun potere li può salvare dal destino. Essi lo sanno tutti; sono ben
pochi coloro che vi si sottomettono. Non importa, voi siete condannate. Dunque,
all'opera! (Batte palma a palma, ed entrano tosto parecchi nani colla
maschera sul viso, che si affaccendano ad eseguire gli ordini.) Vieni qui,
tu, mostro tenebroso, e dalla forma sferica! Va a rotolarti da questa parte!
Coraggio! Vi è qui molto male da operare; satollatevi pure; fate posto
all'altare dai corni d'oro! Che la scintillante scure sia deposta sulla sponda
d'argento; riempite d'acqua le anfore per lavare l'orribile macchia del sangue
nero, e spiegate sulla polvere il prezioso tappeto, affinchè la vittima
s'inginocchi regalmente, e sia deposta — col capo, è vero, spiccato dal
busto, — ma sempre con dignità!
La Corifea. La regina sta
pensosa; le giovani donzelle si abbattono come l'erba mietuta dalla falce. A me
dunque, a me, la maggiore di tutte, spetta il sacro dovere di scambiare la
parola con te, vecchia decana. Tu hai l'esperienza e la saggezza; sembri pure
essere ben disposta verso di noi, sebbene questa spensierata schiera ti abbia a
tutta prima provocata. Io ti chiedo dunque se ci rimane una qualche via di
salvezza.
La Forcide. Ne resta
una sola e praticabilissima. Sta in mano della regina di salvare se stessa e
noi tutte assieme; ma bisogna decidere senza indugio.
Il Coro. Oh la
più rispettabile delle Parche! la più saggia delle Sibille! tieni
aperte le forbici d'oro. Annunziaci subito lo scampo e la salvezza,
perchè sentiamo già i brividi scorrerci per le ossa, e già
spinte dai venti ci sembra che le nostre delicate membra ondeggino, mentre ben
più dolce sarebbe rallegrarci nella danza, per riposarci dopo sul seno
del nostro amante.
Elena. Lasciate
fremere. Io sono afflitta, ma non spaventata. Ma se tu conosci un mezzo di
salvezza, esso sarà accolto con gratitudine. All'anima saggia e
perspicace, l'impossibile si rivela talvolta possibile; parla e manifesta il
tuo pensiero.
Il Coro. Oh!
sì, parla, mostraci presto come potremo sfuggire a questi orribili
capestri che già sembra ci circondino il collo, pari a funesti collari.
Ci manca già il respiro, o noi disgraziate, e moriremo soffocate anzi
tempo, se tu, augusta madre di tutti gli dei, o Rea! non avrai pietà di
noi.
La Forcide. Sarete voi
abbastanza pazienti per sentire in silenzio svolgere la tela di lungo discorso?
Vi ha più di una storia da raccontare.
Il Coro. Sì,
saremo pazienti! Mentre ascoltiamo noi vivremo.
La Forcide. Per chi
rimasto a casa a custodire il ricco tesoro, assoda gli alti muri della sua
dimora, assicura il tetto contro l'uragano, per costui tutto andrà bene
durante i lunghi giorni della vita; ma colui che varca facilmente con passo
fuggitivo la sacra soglia della sua abitazione, egli trova al suo ritorno
l'antico luogo, è vero, ma tutto cambiato, se non forse distrutto.
Elena. Dove vanno
esse a parare codeste ben note sentenze? Tu dicevi di voler raccontare; non
ridestare dunque alcun doloroso ricordo.
La Forcide. Quanto io
dico è storia, e non un rimprovero. Menelao è corso da vero
pirata di golfo in golfo; le spiagge, le isole, tutto fu da lui invaso,
ritornando carico del bottino accumulato in questo palazzo. Egli rimase dieci
lunghi anni dinanzi ad Ilio. Ignoro quanti ne impiegasse per il ritorno. Ma che
si fa ora nel sublime palazzo di Tindaro? In quali condizioni si trova ora il
regno?
Elena. L'invettiva
è essa dunque così incarnata in te, che tu non possa muovere le
labbra senza che il biasimo le sfiori?
La Forcide. Per molti
anni ancora rimarrà deserta la montuosa vallata che si stende al nord di
Sparta, — col Taigete a tergo, — dove, come un allegro ruscello scorre l'Eurota
e viene in seguito, attraverso i canneti della nostra pianura a nudrire i
nostri cigni. Nondimeno laggiù, dietro la montuosa vallata, prese stanza
una razza avventuriera, uscita dalla notte cimmeria; sorse colà un borgo
fortificato, inaccessibile, da dove quella razza domina a suo grado, la terra e
gli abitanti.
Elena. Essi hanno
potuto compiere una simile impresa? Ciò sembra impossibile.
La Forcide. Non
è il tempo che fece loro difetto; essi ebbero circa vent'anni.
Elena. Hanno essi
un capo? Sono forse masnadieri numerosi ed uniti?
La Forcide. Non sono
masnadieri; ma essi sono diretti da un capo. Non ne dico del male, sebbene egli
mi abbia già fatto soffrire. Egli poteva prendere tutto eppure si accontentò
di lievi presenti, ai quali egli diede il nome di tributo.
Elena. Chi
è costui?
La Forcide. È un
uomo vivace, ardito, ben fatto, insomma un uomo saggio come ben pochi se ne
vedono fra i Greci. Quel popolo viene chiamato barbaro; ma io penso che non vi
si troverebbe un solo uomo crudele al pari di più di un eroe che fu
veduto comportarsi come un antropofago sotto le mura d'Ilione. Io feci calcolo
sulla sua grandezza d'animo, e mi diedi in sua balia. E il suo castello! Bisogna vederlo! È ben diversa
cosa da queste massicce mura fabbricate alla meglio dai vostri padri, con
informi massi ciclopici, ammucchiati gli uni sopra gli altri. Là tutto
è artistico e simmetrico. Guardatelo dal di fuori; egli si slancia verso
il cielo, dritto, fortemente costrutto, levigato come l'acciajo! Al solo
pensare di arrampicarsi su quelle mura si sentono le vertigini. All'interno,
ampi cortili circondati di opere architettoniche di ogni genere, e per
qualunque uso. Là, colonne, colonnine, volte, archi acuti, balconi e
gallerie dalle quali si vede ad un tempo l'interno e l'esterno, — non che i
blasoni.
Il Coro. Che cosa
intendi di dire con questi blasoni?
La Forcide. Ajace aveva
dei serpenti attorcigliati, sul suo scudo; voi stesse l'avete veduto. I sette, dinanzi a Tebe, portavano,
ognuno sul proprio scudo, ricche
figure scolpite e tutte simboliche. Là scorgevansi la luna e le stelle
sul firmamento notturno, dee, eroi, scale, faci e giavellotti, e tutto quanto
serve per minacciare una città. Dal tempo dei suoi antenati, la nostra
schiera di eroi porta nello splendore dei colori simili imagini; leoni, aquile,
artigli, becchi, indi corna di buoi, ale, rose, piume di pavone; ed anche
strisce d'oro e d'argento, rosse, nere ed azzurre. Simili immagini pendono in
fila nelle sale vaste, immense come il mondo! Là voi potreste danzare a
vostro bell'agio.
Il Coro. Di' un po',
vi sono pure colà i ballerini.
La Forcide. I più leggiadri! Drappelli con
roseo volto, con biondi capelli inanellati, olezzanti di gioventù. Da
Paride soltanto emanava quel profumo di giovinezza, quand'egli venne troppo
vicino alla regina.
Elena. Tu vai
fuori di carreggiata: dimmi l'ultima parola.
La Forcide. Tocca a te
di pronunziarla, proferisci solennemente un sì, ed io farò
in modo che questo castello ti circondi all'istante.
Il Coro. Oh,
proferiscila, questa breve parola, e salvati salvando noi pure!
Elena. Come! devo
io credere che il re Menelao si mostri abbastanza crudele per farmi soffrire?
La Forcide. Hai tu
dunque dimenticato come egli abbia mutilato il tuo Deifobo, il fratello di
Paride, ucciso nel combattimento; Deifobo che ti conquistò, tu, vedova,
dopo tanti sforzi, ed ebbe la fortuna di sposarti? Egli gli tagliò il
naso e le orecchie, e ne mutilò più d'uno nella stessa guisa. Era
cosa orribile a vedersi.
Elena. Lo
trattò così per cagion mia.
La Forcide. Egli ti
tratterà del pari. La bellezza è indivisibile. Chi l'ha posseduta
intera, l'annienta maledicendo piuttosto che di condividerla. (Trombe
festive da lungi. Il coro è colto da spavento.) Come il suono acuto
della tromba lacera l'orecchio e scuote le viscere, così la gelosia
s'aggavigna al cuore dell'uomo, il quale non dimentica mai quanto ha posseduto,
e quanto ha perduto.
Il Coro. Non odi tu
un echeggiar di trombe? Non vedi tu da lungi un luccicar d'armi?
La Forcide. Sii tu il
benvenuto, mio signore e mio sovrano! Eccomi pronta a darti conto del mio
operato.
Il Coro. Ma noi!
La Forcide. Lo sapete
bene; voi vedete la sua morte dinanzi ai vostri occhi, e nella sua morte
presentite la vostra. No, non vi è salvezza per voi. (Pausa.)
Elena. Ho pensato
a quanto conviene di tentare. Tu sei un demonio, pur troppo lo conosco, e temo
che tu non volga il bene in male. Anzi tutto voglio seguirti al castello; io so
quanto mi resta a fare, e so pure che i segreti che la regina custodisce in
seno restano impenetrabili a chicchessia. Vecchia, precedi i miei passi!
Il Coro. Oh! come
camminiamo volentieri con passo leggiero, — colla morte alle spalle, e dinanzi
a noi le inaccessibili mura del castello; — ch'esso ci protegga — come un tempo
la rocca d'Ilione, — che dovette soccombere — per l'infamia di un tradimento! (Fitte
nubi si dilatano a destra ed a sinistra, velano il fondo, ed occupano ad un
tratto il proscenio.) Ma che? — O sorelle, guardate all'ingiro! — II giorno
non era egli sereno? — Le nubi si accavallano, — uscite dalle sacre onde
dell'Eurota. — Già s'invola al nostro sguardo — la deliziosa riva
coronata di canneti, — ed i cigni pure, i cigni — liberi, alteri, graziosi, —
che scorrono mollemente insieme — in gruppi amorosi sulle acque, —
ahimè! gli stessi cigni sono scomparsi! Eppure, eppure — io li odo
ancora, — odo in lontananza i loro rauchi gridi; — essi annunziano la morte! —
Ah, purchè a noi pure — ahimè! essi non l'annunzino, — invece
della promessa salvezza, — a noi candide sorelle dei cigni — dal niveo collo
flessibile, — come alla figlia del cigno. Guai a noi! guai a noi! Le tenebre
hanno già invaso — tutto lo spazio. — Noi ci vediamo a stento. — Che
cosa succede? Camminiamo noi forse? — scivoliamo noi con rapidità? — Non
scorgi tu nulla sul suolo? — Sarebbe forse Hermes quegli che ci precede? — Non
vedi tu brillare il suo scettro d'oro, — che ci fa cenno e ci ordina — di
rientrare in seno alle Iadi — triste e cupo soggiorno dove si trovano — fantasmi
impalpabili, luoghi sempre pieni, sebbene siano sempre vuoti?
Sì, l'aria si oscura
repentinamente, il vapore denso e grigio si dissipa senza lasciare che si
manifesti la luce, e lo sguardo libero s'imbatte contro aspre mura. È
forse un cortile? è forse un fosso profondo? In ogni luogo io non vedo
che oggetti di spavento. Ohimè, sorelle! noi siamo prigioniere, or
più che mai.
Corte interna del Castello
cinta di ricchi e fantastici edifici,
secondo il gusto del medio evo
La Corifea. Pazze e
balorde, vere femminucce! zimbelli dei capricci della felicità e della
sventura, che non sapete sopportare l'una e l'altra con impassibilità!
Bisogna sempre che ve ne sia una che si opponga all'altra; voi non siete mai
dello stesso parere; la gioja ed il dolore possono soli farvi ridere e piangere
sullo stesso tono. Silenzio! e si aspetti sommesse ciò che la magnanima
sovrana delibererà per sé e per noi!
Elena. Dove sei tu
dunque, o pitonessa? qualunque sia il nome col quale sei designata, esci dal
seno delle volte di questo cupo castello! Sei tu forse andata ad annunziare il
mio arrivo al misterioso signore di questi luoghi, ed a prepararmi una buona
accoglienza? Allora io te ne ringrazio, e ti prego di condurmi senza indugio al
suo cospetto; io sospiro il termine dei miei errori, e non desidero vivamente
altro che un po' di riposo!
La Corifea. Tu lo
cerchi invano, intorno a te, o regina, lo schifoso fantasma è scomparso;
forse egli è rimasto nella nube in seno alla quale noi siamo qui venute,
non so come, celeri come lampo e senza pur muovere un passo. Forse egli erra,
smarrito nel labirinto di questo meraviglioso castello tanto vario e molteplice
nella sua armonia, cercandone il signore perché si disponga a renderti gli
omaggi dovuti ai principi. Ma guardate lassù, nelle gallerie, sui
balconi, sotto i porticati, s'agita tutta affaccendata, una schiera numerosa di
paggi! tutto ci dà l'indizio di un ricevimento nobile ed ospitale.
Il Coro. L'animo mio
si rallegra. Oh! guardate con quanta grazia, e come con passi lenti e
cadenzati, il giovane e dolce drappello conduce il ben ordinato corteggio! Come
e per ordine di chi questo popolo reale di adolescenti è egli
così ben disposto? Non so cosa io ammiri maggiormente, se i loro
movimenti dignitosi, od i loro capelli inanellati intorno alla loro splendida
fronte, o le rosee gote sparse di lanugine e come pesche morbide e vellutate.
Vi morderei dentro volontieri, ma non so decidermi; perché in simile caso, la
bocca si riempie, cosa orribile a dirsi, di cenere. Ma questi bei giovinetti si
avanzano; che cosa portano essi? I gradini
per il trono, i tappeti, il cuscino, gli arazzi e gli addobbi per la tenda; la
quale si spiega formando ghirlande sul capo della nostra regina; perché Elena a
ciò invitata si è già seduta sul real seggio. Salite
lassù gradatamente; disponetevi con solennità! Oh benedetta,
benedetta, per la terza volta sia benedetta una così dignitosa
accoglienza! (Quanto va cantando il coro, si compie appuntino.)
(Faust, dopo che i giovinetti e
gli scudieri ebbero sfilato, mostrasi all'alto della scala, sfarzosamente
vestito del cavalieresco abito di corte del medio evo, e discende lentamente e
con maestosa dignità.)
La Corifea (osservando
con attenzione). Se gli dei, come usano spesso di fare, non diedero in
prestito per pochi giorni a quest'uomo la forma degna di ammirazione, l'aria
sublime e l'amabile aspetto, tutto quanto sarà da lui intrapreso gli
deve riuscire, sia nella guerra cogli uomini, sia nelle lievi lotte amorose
colle belle donne. Lo trovo veramente superiore a molti altri che i miei occhi
mi fecero vedere assai pregevoli. Con passo lento e solenne che t'inspira la
venerazione, io lo vedo avanzarsi, il principe. Volgiti a lui, o regina!
Faust (s'inoltra,
avendo da fianco un uomo in catene). Invece di salutarti riverente qual si
converrebbe, invece di dirti solennemente: benvenuta, io ti traggo dinanzi,
carico di catene, questo servo indegno che mancando al suo dovere, m'impediva
di compiere il mio. — Gettati ai piedi di quest'augusta donna, e a lei confessa
la tua colpa. Eccoti, o nobile principessa, l'uomo dall'occhio di lince
incaricato di vigilare dall'alto della torre; egli deve percorrere con occhio
vigilante lo spazio del cielo e la distesa della terra, spiando qua e là
quanto si riveli o si muova dai colli vicini e nella valle che protegge la
nostra rocca. Appare talvolta un branco di agnelli, tal altro una legione di
armati; noi proteggiamo gli uni, e piombiamo sugli altri. Oggi, o fatale
trascuranza! tu vieni, ed egli non ti annunzia, e l'accoglienza di un sì
glorioso ospite ne soffre, accoglienza che fra di noi deve essere solenne e
sacra fra tutte. Egli ha temerariamente posto la sua vita in pericolo, e
dovrebbe già essere immerso nel proprio sangue; ma tu sola devi punire o
far grazia secondo il tuo beneplacito.
Elena. Per quanto
grande sia la dignità da te conferitami, dignità di giudice, di
sovrana, e quando anche fosse solo tuo desiderio di mettermi alla prova,
adempio al primo dovere del giudice, che è quello di sentire l'accusato.
Parla adunque!
Il Custode
della torre, Linceo. Lascia che io m'inginocchi, — ch'io ti contempli, — lasciami
morire, lasciami vivere, — perché oramai sono tutto, anima e corpo, di questa
donna, scesa dai cieli. Io aspettavo la luce mattinale; spiavo all'oriente lo
spuntare dell'alba, quando repentinamente io vidi, o miracolo! Vidi il sole
spuntare dal mezzodì. Mi volsi tosto da quella parte per contemplare
lei, invece delle valli e delle montagne, invece degli spazi della terra e del
cielo. Ho, è vero, gli occhi di lince in agguato sulla cima di una
pianta; ma in quell'ora mi convenne lottare per uscire da una profonda visione.
Come poteva io dunque riconoscermi? piattaforma, torre, porta chiusa, e vaganti
vapori, si dileguano e solo questa dea mi sta dinanzi. L'occhio ed il cuore
rapiti in lei, io aspirava il suo dolce splendore; questa sfolgorante bellezza
abbagliava completamente me povero infelice! Dimenticai così i doveri
del guardiano, il corno, ed i miei giuramenti. Or va, minaccia pure di
annientarmi; la bellezza doma ogni impeto di collera.
Elena. Il male da
me cagionato, non lo potrei punire. Misera me! Qual fatale destino mi
perseguita, io porto ovunque lo scompiglio in seno agli uomini, di guisa che
essi non tengono più conto alcuno di se stessi, né di nulla! Per via di
rapimenti, di seduzioni, di combattimenti, i semidei, gli eroi, gli dei,
sì anche i demoni, mi hanno fuorviata qua e là nelle tenebre.
Unica e semplice forma posi a soqquadro il mondo, sotto duplice aspetto, feci
peggio ancora; ora, sotto una triplice e quadrupla sembianza, reco danni su
danni. Ch'egli s'allontani, e sia libero; l'obbrobio non deve pesare sul capo
dell'uomo allucinato dagli dei!
Faust. Io vedo con
meraviglia, o regina! qui il vincitore insieme col vinto; vedo l'arco che ha
lanciata la freccia e ferito l'uomo; i dardi si seguono e mi colpiscono, li odo
fischiare tutto all'ingiro nel castello e nello spazio. Che sono io? Tu ribelli
i miei vassalli e rendi le mie mura impotenti; io temo già che il mio
esercito obbedisca alla donna trionfante ed invincibile. Che cosa mi resta a
fare, se non di rimettere nelle tue mani il mio destino e tutti i beni che io
credevo di possedere? Lascia che io mi prostri ai tuoi piedi, libero e fedele
voglio riconoscerti come sovrana, tu che al solo mostrarti sapesti farti
signora del trono e del paese.
Linceo (di
ritorno con in mano un cofano, seguito da uomini che recano dei presenti).
Tu mi vedi di ritorno, o regina! Il ricco va mendicando uno sguardo; egli ti
contempla, e tosto si sente povero come un mendicante, e ricco come un
principe.
Che cosa ero io prima? che cosa sono
io ora? Che si ha da volere? Che cosa bisogna fare? il lampo dello sguardo si
ammorza vicino al tuo trono.
Noi siamo venuti dall'Oriente, ed i
paesi dell'Occidente furono sottomessi. Tra un lungo corteggio di popoli il
primo non sapeva nulla dell'ultimo. Il primo cadde, il secondo restò in
piedi, il terzo rimase colla lancia in resta. Ognuno ne aveva cento dietro di
sé; e migliaja caddero inosservati.
Scagliandoci, precipitandoci sul
nemico noi eravamo sempre vincitori. Là ove io comandava oggi, un altro
saccheggiava e rubava il domani.
La rassegna del bottino era presto
fatta: l'uno s'impadroniva della più bella donna, l'altro del toro
più saldo sulle zampe, e chi si trascinava dietro tutti i cavalli.
In quanto a me, molto mi dilettava di
oggetti rari e preziosi, e ciò che un altro poteva possedere era un
nulla per me.
Andavo in cerca di tesori; guidato
da' miei sguardi penetranti, vedeva chiaro in tutte le tasche, tutti i forzieri
erano trasparenti per me. Ebbi quindi dei mucchi d'oro, e specialmente molte
pietre preziose; ma lo smeraldo solo è degno di verdeggiare sul tuo
seno. Ora poi, fra le tue orecchie e la tua bocca, tremola la goccia cristallina
del fondo dei mari. I rubini
restano confusi, lo splendore delle tue guance li vince.
Così, io depongo dinanzi a te
i più grandi tesori, e metto ai tuoi piedi il bottino di tanti
sanguinosi combattimenti.
Per quanto numerosi siano i forzieri
che io trascino dietro di me, io ne possiedo ben altri; permetti che segua i
tuoi passi ed io colmerò con essi i sotterranei della tua reggia.
Appena tu ponesti il piede sui
gradini del trono, l'intelligenza, la ricchezza e la forza s'inchinarono
dinanzi alla più grande bellezza.
Questi tesori che io teneva prima
sotto chiave, ora io li abbandono: essi ti appartengono. Io li credeva
preziosi, rari e veraci, ed ora m'accorgo che essi sono un nulla.
Quanto io possedeva è andato
in fumo; è un'erba falciata, avvizzita. Oh! tu sola, con uno sguardo
sereno, puoi rendere a tutto ciò l'antico pregio!
Faust. Porta
presto via quella roba arditamente conquistata; portala via senza biasimo, ma
pur senza compenso. Ella possiede già tutto quanto havvi di prezioso in
questo castello; dargliene una parte sarebbe superfluo ed inutile. Va,
ammucchia con simmetria tesoro su tesoro! Fanne concepire una sublime immagine
di splendore inaudito; scintillino le volte come il puro firmamento! Disponi un
paradiso di di vita inanimata! stendi dinanzi a lei tappeti tempestati di
fiori! il suolo offra ai suoi piedi una molle superficie! il suo sguardo
s'immerga nei vivi splendori dai quali i soli dei non sono acciecati!
Linceo. Quanto mi
comanda il padrone è ben poca cosa; il servo lo compie in un batter di
ciglio. Colei che dispone dei nostri beni e del nostro sangue è codesta
superba bellezza. Già tutto l'esercito è domato; le lance ed i
giavellotti arrugginiscono; vicino alla forma sublime, il sole stesso diventa
smorto e freddo; in confronto colla ricchezza di quel volto, ogni ricchezza del
mondo è un nulla. (Esce.)
Elena (a Faust).
Vorrei parlarti; vieni, sali qui vicino a me! Questo posto vuoto reclama il
padrone e m'assicura il mio.
Faust. Lascia
prima, o donna sublime, lascia che io m'inginocchi, e degnati di accettare i
miei fedeli omaggi; lascia che io baci la mano che m'innalza al tuo fianco.
Dividi con me la reggenza del tuo regno infinito; ed abbiti così in un
sol uomo l'adoratore, il servo ed il guardiano.
Elena. Non vedo e
non odo che prodigi. La meraviglia s'impadronisce dell'animo mio, le domande
s'incalzano, ma, anzi tutto, rispondi a questa: perché la parola di quell'uomo
mi sembrò ella sì strana e sì dolce? il suono si sposava
al suono e appena una parola colpivami l'orecchio che un'altra veniva ad
accarezzarlo.
Faust. Se l'idioma
dei nostri popoli ti riesce già tanto gradito, oh allora il loro canto
ti sedurrà certamente, e rapirà il tuo orecchio e l'animo tuo con
diletto mille volte più grande.
Per convincertene meglio facciamo
l'esperimento; il dialogo attira e provoca simili cadenze.
Elena. Quel grato favellar come far mio?
Faust. Farai pago il desio, — se a mezzo il
core
S'informi
l'armonia; quando nel petto
Si
desta arcano un sentimento, un moto;
Allor
la mente a rintracciar si guida...
Elena. Chi le gioje, i piacer con noi divida.
Faust. Passato ed avvenir! Tutto, un istante
Comprenda,
questo che in parlar mi fugge...
Elena. E d'estasi beata il cor ne strugge!
Faust. Tesoro, gioja n'è il presente, e
certa
Felicitade;
ma la man qual fia
Che
m'assecuri un tanto ben?
Elena. La
mia.
Il Coro. Chi
ardirebbe biasimare la nostra principessa di mostrarsi gentile col padrone del
castello? perché confessate che siamo prigioniere come lo siamo già
state pur troppo spesso dopo la fatale caduta di Troja e le nostre vaganti
avventure. Le donne avvezze all'amore degli uomini accettano senza scegliere;
ma esse hanno un buon discernimento, e, come ai biondi pastorelli, così
ai fauni bruni e dai capelli cresputi, secondo l'occasione che si presenta,
esse concedono senza riserva alcuna un uguale diritto sulle loro membra
palpitanti.
Uniti assieme, essi si avvicinano
sempre più; appoggiati l'uno sull'altro, spalla contro spalla, ginocchio
contro ginocchio, colla mano nella mano, essi si cullano nel molle splendore
del trono. La loro maestà non invola agli occhi della folla la
dimostrazione ardita delle loro intime gioje.
Elena. Mi sento
sì lungi, eppure mi sento sì vicina, e dico con tutta l'anima
mia: Sì, io sono veramente qui.
Faust. Io respiro
appena, la mia voce trema ed è titubante: è un sogno: il giorno e
il luogo sono scomparsi!
Elena. Mi sembra
di aver vissuto e di rivivere, immedesimata con te, fedele a chi prima non
conobbi.
Faust. Non cercare
di analizzare questo destino unico al mondo: l'esistenza consiste nel vedere,
non fosse che per un istante.
La Forcide (entra a
passi precipitati). Voi compitate nell'alfabeto dell'amore, sfiorate i
sentimenti e vi perdete in queste fanciullaggini; ma non è questa l'ora.
Non sentite l'avvicinarsi di un uragano? non udite voi lo squillar delle
trombe? la vostra rovina si avanza. Ecco Menelao che arriva in mezzo ad
un'immensa turba di popolo; preparatevi a sostenere un fiero assalto!
Circondato da uno stuolo di vincitori, mutilato come lo fu Deifobo, tu pagherai
ben caro questo corteggio di donne! Tutta questa folle genìa si
vedrà penzoloni e la scure sarà pronta sull'altare per la sua
padrona.
Faust. Temeraria!
questa schifosa m'interrompe. Anche nel pericolo il villano impeto mi dispiace.
Per quanto bello sia il messaggiere, s'egli ti porta notizia di sciagure esso
si mostra brutto allo sguardo; e tu, sciagurata ti senti solo felice quando
porti tristi messaggi.
Ma questa volta non riuscirai. Riempi
l'aria dei tuoi vani stridori! Qui non vi è pericolo, e lo stesso
pericolo non sarebbe che una vana minaccia. (Segnali, esplosioni dalle
torri; squillo di trombe e romor di timballi; musica militare; vedesi passare
un imponente esercito.)
Faust. No, tu
vedrai immediatamente radunata la falange invincibile degli eroi; colui solo
merita il favore delle donne che sa proteggerle gagliardamente. (Ai capi che
uscendo dagli squadroni, vanno appressandosi.) Voi, ai quali la forza, la
fermezza ed il valore rendono la vittoria sicura, voi, fiore giovanile del
nord, voi simpatico nerbo dell'oriente, coperti di ferro, d'armi scintillanti,
voi siete militi che riduceste in polvere imperi sopra imperi! Eccoli, si
avanzano, la terra trema; passano, e la terra continua a tremare.
Tocchiamo appena le spiagge di Pilo,
ed il vecchio Nestore già non è più. Tutte queste misere
alleanze di re furono spezzate dall'indomito nostro esercito. Respingete tosto
Menelao da queste mura, e scacciatelo verso il mare! Ch'egli vada errando e
saccheggiando da vero corsaro! Tale fu sempre il suo gusto ed il suo destino.
La regina di Sparta mi comanda di
salutarvi duchi; sia ella sovrana della valle e della montagna; a noi la gloria
e la letizia del regno!
Tu, o Germano, va a difendere fortificandole,
le baje di Corinto; a te, o Goto, io affido la salvezza dell'Acaja dalle cento
voragini. Che l'esercito dei Franchi si diriga verso Elide; Messene sia
affidata ai Sassoni; il Normanno purghi i mari ed investa l'Argolide!
Ciascuno avrà così il
proprio regno, e potrà volgere al di fuori le sue forze ed i suoi
fulmini. Ciò nonostante Sparta vi dominerà tutti, Sparta,
l'antica città della regina.
Ella sarà felice di vedervi
godere gli uni e gli altri quel paese nel quale nessun bene fa difetto. Venite
a cercare fiduciosi ai suoi piedi l'investitura, il diritto e la luce! (Faust
discende; ed i capi lo circondano per ricevere i suoi ordini, e udirne i
consigli e le istruzioni.)
Il Coro. Chi
pretende possedere la più bella deve anzi tutto tenersi prudentemente
armato; la cortesia di costui gli valse il più dolce tesoro della terra,
ma egli non può godere in pace la sua conquista; gli adulatori gliela
contendono colle lusinghe, i rapitori colla violenza; ch'egli diffidi degli uni
e degli altri.
Così noi cantiamo al nostro
principe, e lo stimiamo assai più di tutti, lui che seppe circondarsi di
alleati così imponenti che i potentati stessi aspettano rispettosamente
i suoi cenni, e li eseguiscono fedelmente con loro gran vantaggio. Essi possiedono
la riconoscenza del principe e ne dividono la gloria.
E poi chi ardirebbe di rapirgliela?
essa gli appartiene, noi la riconosciamo; la riconosciamo doppiamente a colui
che seppe circondarsi con essa, all'interno da spessi bastioni, ed all'esterno
con un potente esercito.
Faust. I beni che abbiamo loro assegnati — a
ciascuno una ricca provincia, — sono grandi e magnifici. Partano dunque, e noi
restiamo al centro dei nostri Stati.
Ed essi ti proteggano a gara, o
penisola che le onde accarezzano da ogni parte, attaccata da una leggiera
catena di colline agli ultimi rami granitici dell'Europa. Questo paese, primo
fra tutti sia eternamente fortunato per ogni razza; il dominio di esso era
nelle mani della mia regina che qui ebbe i natali. Tra i canneti dell'Europa,
ella uscì luminosa dall'uovo di Leda, abbagliando la sua nobile madre ed
i suoi fratelli. Codesto paese, rivolto verso te sola, ti offre i suoi
più preziosi doni. Ah! preferisci la patria alle contrade che ti
appartengono.
Fa che un raggio di sole illumini
appena la vetta aguzza del monte, fa che un filo d'erba spunti sulla roccia, e
vedrai la ghiotta capra inerpicarsi in cerca di quel magro nutrimento.
La sorgente zampilla, i ruscelli
divallano frangendosi in cascate. I burroni,
i declivi ed i prati verdeggiano già, e lungo la pianura interrotta da
cento colline puoi vedere sparsi qua e là i greggi coperti di
morbidissima lana.
L'uno discosto dall'altro,
circospetti e con passo lento e misurato, i cornuti tori vanno sull'orlo dei
burroni; là è preparato un asilo per tutti, la roccia presenta
mille recessi in forma di caverne.
Il dio Pane protegge quelle
località e le Ninfe della vita abitano gli spazii freschi e luminosi dei
chiomati crepacci; elevandosi verso le sublimi regioni, ogni albero contro altri
alberi stende ed innalza i suoi rami.
O antiche foreste! La quercia
s'innalza potentemente ed il ramo nodoso s'intreccia capricciosamente con altro
ramo: e l'acero svelto e leggiero, pieno di un dolce succo, levasi in alto
superbo scherzando coi venti.
E nell'ombra silenziosa scorre
maternamente un tiepido latte preparato per il bambino e per l'augello. I frutti non sono lungi, cibo saporito
della pianura, e dai tronchi incavati stilla il miele.
Qui il benessere è ereditario;
ciascuno è immortale al suo posto; essi sono felici e pieni di vita!
Così s'incammina, sotto questo
cielo sempre puro, l'amabile fanciullezza verso la forza virile.
Da ogni parte s'alza una voce che
chiede con maraviglia; sono dei o sono uomini costoro?
Apollo aveva preso in prestito la sua
forma dai pastori, ed il più bello di essi gli rassomigliava; perché ove
la natura si agita in tutta la sua purezza, tutti i mondi s'incatenano. (Va
a sedersi vicino ad Elena.) Così la ventura ci ha riuniti; sia
dimenticato il passato; oh! ravvisa in te la figlia della divinità, tu
appartieni al mondo primitivo. No, tu non sarai prigioniera fra le mura. Vi
è ancora per noi un beato soggiorno, un'Arcadia eternamente giovane si
trova vicina a Sparta. Attratta verso questo suolo avventurato, ti ricovererai
nelle braccia del più sereno e tranquillo destino. Ivi diventano troni i
fronzuti boschetti; e come in Arcadia saremo felici e liberi!
Lunga prospettiva di grotte
(Mutasi la scena. Lunga
prospettiva di grotte da spesso fogliame ombreggiate e coperte; folte boscaglie
che si stendono fin sulla cima delle rupi ergentisi all'intorno. Faust ed Elena
non si vedono più. Il coro dorme sdraiato qua e là.)
La Forcide. Da quanto
tempo queste donzelle dormono, non so. Hanno esse sognato ciò che io
vidi chiaramente coi miei occhi, lo ignoro del pari, ed ecco perché voglio
destarle. La giovane razza sarà certo sorpresa, e voi del pari,
barbassori, che state seduti laggiù aspettando la spiegazione del
prodigio. Su, su, alzatevi! scuotete le vostre trecce, scacciate il sonno dai
vostri occhi, non li socchiudete ed ascoltatemi!
Il Coro. Parla,
narra, narra qual prodigio si è compiuto. Noi ascoltiamo con speciale
diletto ciò che non possiamo credere; perché la continua vista di queste
rocce ci annoja.
La Forcide. Avete
appena aperto gli occhi, o fanciulle mie, che già vi annojate.
Ascoltate: queste profondità, queste grotte, questo fogliame porsero
asilo e protezione ad una coppia amorosa, da idillio, cioè al nostro
signore ed alla nostra dama.
Il Coro. Come mai?
In questo luogo!
La Forcide. Separati
dal mondo, essi chiamarono me sola per compiere per essi uffizi affatto
pacifici. Così onorata, io stavo vicino a loro non occupandomi d'altro,
come si conviene ad una confidente. M'aggiravo qua e là; cercavo radici,
muschio, cortecce, essendomi note tutte le loro virtù; e così
essi rimasero soli.
Il Coro. Tu parli
come se in queste grotte vi fosse un intero mondo, boschi, praterie, ruscelli e
laghi; quali favole ci vai tu narrando?
La Forcide. Infatti, o
creature senza esperienza, sono queste profondità inesplorate; io
scopersi camminando pensierosa sale, cortili dopo cortili. Quand'ecco, uno
scoppio di risa echeggiò repentinamente nei profondi spazi. Io guardo,
un bambino balza dal seno della donna verso l'uomo, dal padre alla madre; le
carezze, gli scherzi, le moine di un pazzo amore, le grida festevoli, gli
slanci di viva gioia mi assordano volta a volta. Un genio nudo senza ali, un
fauno senza brutalità, balza sul suolo di granito, ma il suolo reagendo,
lo manda all'aria in modo che al secondo, al terzo salto, egli tocca il cielo
della grotta. Sua madre gli grida con sollecitudine: "Salta pure quanto ti
piace, ma bada di non prendere il volo! Il libero varco ti è
interdetto." Ed il padre pietoso e clemente lo ammonisce in questi
termini: "Dentro la terra risiede la rapida forza che ti spinge verso le
regioni dell'aria. Tocca il suolo solo colla punta del tuo pollice, e come
Anteo figlio della Terra, sentirai rinascere in te una nuova energia." Lui
però s'esercita sul masso di questa roccia; d'una estremità passa
all'altra, e va per ogni dove come un pallone cacciato dal vento. Tutto ad un
tratto egli scompare nel crepaccio di un orribile abisso. Noi lo crediamo
perduto: sua madre si dispera, suo padre cerca di consolarla, ed io alzando le
spalle, sto in angoscia. Ed ora quale spettacolo! Vi erano forse dei tesori
sepolti colà? Vedete, egli esce tutto azzimato con eleganti vestiti
trapunti a fiori di vari colori, con fiocchi pendenti dalle sue braccia, con nastri
ondeggianti sul suo petto. Con in mano la cetra d'oro, come un vero piccolo
Apollo, egli s'avvia lesto ed allegro sull'orlo estremo. Rimanemmo attoniti a
questa vista ed i suoi genitori, tripudianti, caddero nelle braccia uno
dell'altro.
Ma qual splendore brilla sulla sua
fronte? Non si potrebbe dirlo. È forse una corona d'oro? Sarebbe mai la
fiamma di un genio soprannaturale? Ed egli gestisce; egli che fanciullo
dimostra già d'essere col tempo padrone di ogni bellezza, egli che sente
commuoversi nelle sue membra le eterne melodie, ed è così che lo
sentirete, così che lo vedrete ed ammirerete forse voi sole.
Il Coro. Tu chiami
ciò un prodigio, tu, figlia di Creta! non hai dunque mai udito il
racconto del poeta? Non hai dunque mai imparato nulla dalle tradizioni dei
nostri padri?
Tutto quanto succede oggi non
è che un tristissimo eco dei giorni gloriosi dei nostri avi, ed il tuo
racconto non può essere posto in paragone a ciò che un'amabile
menzogna, assai più verosimile della verità stessa, ci va narrando
del figlio di Maja.
La schiera delle custodi ciarliere,
secondo uno sciocco costume, lo ravvolge, lui sì delicato e forte ad un
tempo, appena nato, in fasce di preziosi lini sulle molli piume della sua
culla. Ma, delicato e forte, il bricconcello sprigiona abilmente le sue membra
pieghevoli e destre, e lascia al suo posto la preziosa corteccia che lo
riteneva prigioniero, simile alla farfalla che spogliandosi dall'ignobile
crisalide, spiega con giubilo le sue ali nell'etere inondato dal sole.
Egli così, agile più
d'ogni altro, dimostra già con tratti perfidi e maliziosi che
sarà il patrono dei ladri, dei truffatori e di tutti quanti gli
avventurieri. Quindi sottrae con destrezza il tridente a Nettuno, a Marte il
giavellotto, ad Apollo l'arco e le frecce, a Vulcano le molle; ed involerebbe
pure la folgore a Giove se non avesse paura del fuoco; egli lotta coll'Amore e
lo atterra; rapisce il cinto a Ciprigna mentre lo sta accarezzando. (Un
tintinnire d'arpe dolce e melodioso, sale dal fondo della grotta; il Coro tutto
sta in ascolto, e mostrasi tantosto sommamente commosso. Da questo punto fin
là dov'è segnata la pausa, continua la sinfonia.)
La Forcide. Udite
questi graziosi suoni! sbrigatevi presto dalle vostre favole; la vecchia razza
dei vostri numi, condannatela all'oblìo; essa già non è
più. Nessuno oramai vuole comprendervi; vogliamo una moneta di maggior
valore; bisogna che esca dal cuore quanto deve agire sui cuori. (Si ritrae
verso le rocce.)
Il Coro. Se tu,
schifosa creatura, cedi a quei sogni lusinghieri, noi di fresco rigenerate, ci
sentiamo commosse fino alle lagrime.
Lo splendore del sole può
scomparire, quando spunta il giorno nell'anima. Noi troviamo nei nostri cuori
ciò che l'universo non può dare.
(Elena, Faust, Euforione
raffazzonato, secondo la Forcide ebbe esposto più sopra.)
Euforione. Appena voi
udite le mie canzoni infantili, che tosto ne fate vostra delizia; vedendomi
saltare in cadenza, le vostre viscere paterne ne esultano.
Elena. L'amore,
come felicità terrestre, congiunge una coppia gentile; come gioja
divina, forma una triade felice.
Faust. Oramai
tutto è trovato. Io sono tuo e tu mi appartieni. Noi siamo uniti. Non
potrebbe essere diversamente!
Il Coro. Sotto il
dolce aspetto di questo fanciullo, le delizie di tanti secoli si congiungono in
questa coppia felice, Oh! quanto mi commuove quest'unione!
Euforione. Lasciatemi saltellare, lasciatemi balzare e spingermi lassù a
tutti i venti! questo è il mio desiderio, già me ne sento
struggere.
Faust. Frenati! —
Non commettere folli imprudenze! — Che la caduta e la disgrazia potrebbero
caderti addosso e precipitare noi nell'abisso, nostro diletto figlio!
Euforione. Non voglio
più a lungo stare sulla terra; lasciate andare le mie mani, lasciate
stare i miei ricci, non mi tenete per le vesti, esse sono mie.
Elena. Oh! pensa,
pensa a chi tu appartieni, pensa alle nostre angosce! Considera che tu
distruggi un prezioso bene acquistato per te, per me, per costui.
Il Coro. Io temo che
fra breve l'unione si spezzi.
Elena e
Faust. Reprimi e modera per l'amore de' tuoi genitori questi slanci
impetuosi, sovranaturali; con un carattere dolce e pastorale, rallegra la
campagna.
Euforione. Per voi
soli mi trattengo (fuggendo in mezzo al Coro e costringendolo a danzare).
Scorro volontieri in mezzo a voi, — allegra schiera. — Ed ora la melodia, il
moto, va bene?
Elena. Sì,
va bene; guida le belle schiere in armonici balli.
Faust. Quando
sarà finita! Le facezie non mi rallegrano punto.
(Euforione ed il Coro intrecciano
danze svariate, cantando nel tempo stesso.)
Quando ripieghi — con grazia le tue
braccia: quando nel tuo splendore lasci ondeggiare la tua capigliatura; quando
il tuo piede, così leggiero, scorre sulla terra, e che qua e là
le membra si allacciano, il tuo scopo è raggiunto, adorabile fanciullo,
e tutti i nostri cuori volano verso di te. (Pausa.)
Euforione. Siete voi
tutte quante svelte cervette. A nuovi giuochi veniamo ora tutti assieme! Io son
cacciatore, voi la selvaggina.
Il Coro. Vuoi tu
prenderci? Non occorrono tanti sforzi; ché tutte, a dire il vero, desideriamo
di abbracciar te, — te, bella creatura!
Euforione. Ma sia
attraverso ai boschi, agli alberi ed alle rocce! — Il bene acquistato senza
stenti, mi ripugna; quello che bisogna acquistare colla forza, quello solo mi
fa contento.
Elena e
Faust. Oh sfrontatezza! Oh delirio! — Non vi è speranza di
poterlo frenare. — Ma che è ciò? mi sembra di udire un corno
minaccioso rintronare per la valle e nei boschi. — Quale accidente! quali
grida!
(Il Coro. Le giovinette una dopo
l'altra entrano correndo.)
Egli ci ha presto oltrepassate; e
beffandosi sdegnosamente di noi, trascina ora qui la più selvaggia della
nostra schiera.
Euforione (recandosi
fra le braccia una fanciulla). Io trascino con me la bricconcella, per i
miei piaceri di conquista. Quale delizia, quale gioja, stringere il suo petto
ribelle, baciare quella bocca proterva! È un atto questo di forza e di
volontà.
La Fanciulla. Lasciami!
sotto queste spoglie avvi pure coraggio e forza d'animo; la nostra
volontà vale quanto la tua, non si può domarla così
facilmente. — Tu mi credi dunque tua prigioniera? Tu fai dunque gran calcolo
del tuo braccio! — Se mi trattieni ancora, io ti brucio, insensato, per mio
diletto. (Ella divampa e fiammeggia nello spazio.) Seguimi nell'aere
leggiero, sotto le stalattiti delle grotte. Insegui la tua preda che ti sfugge.
Euforione (scuotendo
le ultime scintille). Rocce ammontate su rocce sono qui fra i boschi ed i
cespugli. Perché questo spazio, ove mi sento soffocare? Eppure sono giovane e coraggioso. I venti ed i flutti rumoreggiano
laggiù. Odo i venti ed i flutti da lunge; vorrei avvicinarmi a loro. (Sbalza
sempre più in alto lungo la rupe.)
Elena, Faust e il Coro. Vuoi tu dunque
rassomigliare ad un camoscio? La tua caduta ci spaventa.
Euforione. Devo
portarmi sempre più in alto, devo vedere sempre più lontano. Ora
so dove mi trovo! In mezzo all'isola, in mezzo al paese di Pelope, che
abbraccia la terra ed il mare.
Il Coro. Se nei
boschi, sulla montagna non puoi fermarti in pace, andiamo a quest'ora a cercare
i verdi pampini sui poggi, fichi ed aranci. Ah! almeno in così ameno
paese mostrati quieto e gentile.
Euforione. Sognate voi
il giorno della pace? Sogni chi può sognare! Guerra è la parola
d'ordine! Vittoria è la canzone!
Il Coro. Colui che
in pace sospira la guerra, rinunciò per sempre al bene della speranza.
Euforione. Questo
suolo ne generò più d'uno nel pericolo e fuori del pericolo, —
d'un coraggio libero, senza limiti, — prodigio del proprio sangue, d'una mente
divina, inaccessibile alle tenebre; — ne traggano profitto i combattenti!
Il Coro. Guardate
lassù come egli s'innalza senza che sembri rimpicciolirsi, tutto in
arme, pronto alla vittoria, luccicante di bronzo e di acciajo!
Euforione. Non di
mari, non di bastioni, ma ciascuno si faccia schermo da sé! — II ferreo petto
dell'uomo è una fortezza inespugnabile. Volete essere invincibili?
armatevi alla leggera, e coraggio, all'erta sul campo! Le donne diventano
amazzoni — ed ogni fanciullo un eroe.
Il Coro. O diva arte de' vati! o santa! o degna
D'aver
seggio lassù fra gl'immortali!
Eterna
fiamma, or sali
Alto,
più alto ancora, e di tua luce
L'immenso
azzurro delle sfere accendi!
Indarno,
oh indarno ascendi!
Nel
sublime tuo vol fino all'empiro;
Che
sempre e sempre il miro
Suon
della sacra voce,
E
quel che vien da te vivo fulgore.
Seduce,
avvampa a noi mortali il core.
Euforione. No, non
sono un fanciullo; il giovane si avanza armato! unito ai forti, ai liberi, ai
prodi, egli ha già operato molto nel suo pensiero. Ed ora, avanti! ora
laggiù sta per aprirsi il campo della gloria.
Elena e
Faust. Appena chiamato alla vita, appena venuto al giorno sereno, tu
aspiri, per gradini vertiginosi, verso lo spazio pieno di angosce. — Siamo noi
dunque un nulla per te? — il dolce imeneo è egli forse un sogno?
Euforione. Non udite
voi uno strepito sul mare? Gli echi delle vallate propagano il rombo del tuono.
— Nei flutti e sulla polvere combattono legioni contro legioni; ferve la
mischia, sempre più! Martirio e dolore; e la morte vi è
imperatrice. — Questo è ben chiaro.
Elena, Faust e il Coro. Quale orrore! Qual
spavento! — la morte è essa dunque la tua legge?
Euforione. Devo forse
vederla da lungi? — No; bisogna che io divida l'ansietà ed i pericoli.
I precedenti. Spavento e
pericolo! Fatal destino!
Euforione. Ma due ali
si spiegano! laggiù! vi corro, vi corro. — Lasciate che io prenda il
volo! (Lanciasi nello spazio: le sue vestimenta lo portano un tratto
svolazzando; raggiante ha il capo; una striscia di fuoco splende sulla sua
traccia.)
Il Coro. Icaro!
Icaro! non più sciagure!
(Un leggiadro garzone precipita
appiè di Elena e di Faust; il suo volto mostra fattezze sconosciute;
poco stante il corpo svanisce per aria; e l'aureola s'innalza pari ad una
cometa verso il cielo, non rimanendo sul terreno che la tunica, il mantello e
la lira!)
Elena e
Faust. Alla gioja succede tosto un dolore straziante e mortale.
Euforione (voce che
vien di sotterra). Oh madre! non lasciarmi solo, o madre, nel regno delle
tenebre! (Pausa.)
Il Coro (canto
funebre). Solo, ah no! — qualunque siano i luoghi da te abitati, perché
crediamo di conoscerti. Ahi lasso! se tu diserti la luce del sole, nessun cuore
vorrà perciò separarsi da te. Ci manca perfino la forza di
gemere; noi cantiamo il tuo destino invidiandolo; nei giorni sereni e nei
giorni foschi, il tuo canto ed il tuo cuore furono grandi e belli.
Oh! nato per la felicità della
terra, da illustri avi, tu di una forza singolare fornito, ahi! troppo presto
rapito a te stesso e nel fiore degli anni mietuto! Sguardo profondo per
contemplare il mondo, simpatia per tutte le angosce del cuore, passione ardente
per le migliori donne avevi tu e canto del quale tu solo possedevi il segreto!
Ma negli indomiti tuoi trasporti, tu
ti precipitasti nel laccio fatale levandoti in aperta guerra contro i costumi e
la legge. Se non che finalmente il tuo sublime spirito diede impulso alla tua
nobile coscienza e fu allora che volesti conquistare la gloria suprema, ma la
fortuna ti tradì.
A chi sorride ella mai? — Oscura
quistione, di fronte alla quale il destino si vela quando, nei giorni di
sciagura, i popoli sanguinanti restano silenziosi. — Ma intuonate nuovi canti,
rialzate le vostre fronti abbattute, — il suolo ne genererà altri, come
fece in tutti i tempi. (Pausa generale; la musica cessa.)
Elena(a Faust).
Il
mio esempio, ahimè! giustifica quest'antico detto: Fortuna e bellezza
non stanno per lungo tempo congiunte. Il legame della vita e quello dell'amore,
sono spezzati; io rimpiango l'uno e l'altro, dico loro un doloroso addio, e
cado nelle tue braccia un'ultima volta. Prendi, o Persefone, il fanciullo e
prendi pure con esso la madre. (Abbraccia Faust; la spoglia terrena
svanisce; le sole vestimenta ed il velo rimangono tra le braccia dello sposo.)
La Forcide. Tieni bene
ciò che ti rimane di essa; procura che almeno le vesti non ti sfuggano.
Già i demoni se le strappano di mano, e vorrebbero trascinarle nel mondo
sotterraneo. Tien saldo! esse non sono più la dea che tu perdesti; sono
però qualche cosa di divino. Tira profitto del favore sublime,
inapprezzabile, e ti solleva in alto; finché potrai reggere, esse ti
trasporteranno in aria, al disopra delle cose basse e volgari. Ci rivedremo
lontano, ben lontano di qui! (Le vesti di Elena si sciolgono in nebbia, e
circondano Faust; passano oltre, trasportandolo per le regioni dello spazio. La
Forcide leva di terra la tunica d'Euforione, il mantello e la lira, s'avanza
verso il proscenio, e spargendo quelle spoglie, dice:)
Benissimo! Ho almeno guadagnato
questo. La fiamma, a dire il vero, è andata in fumo. Ma ben poco mi curo
io dei rimpianti del mondo. Eccone abbastanza per consacrare dei poeti, e per
eccitare la gara del mestiere e della consorteria, e se non potrò
concedere l'ingegno potrò almeno darne in prestito l'abito. (Va a
sedere sul proscenio, appiè di una colonna.)
Pantalide. Ora
all'erta, ragazze! siamo finalmente libere dagl'incantesimi, — libere dagli
schifosi legami fantastici della vecchia sgualdrina di Tessaglia, come anche
dallo squillo confuso di quei suoni discordanti ed aspri che straziano
l'orecchio e ancor più l'anima e l'intelletto. Scendiamo dalle Iadi! La
nostra regina vi si è recata con passo solenne; ed è giusto che le
sue ancelle seguano immediatamente le sue tracce! la troveremo vicino al trono
dell'Impenetrabile.
Coro. Le regine,
a dire il vero, stanno bene ovunque, ed anche in seno alle Iadi esse occupano
alti seggi, — in orgoglioso consorzio coi loro pari, in grande confidenza con
Persefone. — Ma noi, in fondo ai campi di asfodilli, nella monotona compagnia
degli alti pioppi e dei salici infecondi, quale passatempo abbiamo mai? nostro
passatempo è nicchiare come i pipistrelli con rumore increscevole e
fantastico!
La Corifea. Chi non si
è fatto un nome e non aspira a nulla di nobile e grande appartiene agli
elementi. — Dunque, andate! mi struggo d'essere colla mia regina. Non è
solo il merito, ma anche la fedeltà che salva le persone
dall'oblìo. (Esce.)
Tutte. Noi siamo
ritornate, è vero, alla luce del giorno, ma non siamo più persone
od enti; — lo sentiamo, e ben lo sappiamo. In quanto a ritornare dalle Iadi non
lo faremo né ora, né poi. La natura, eternamente viva, ha il suo pieno diritto
su di noi e noi su di lei ne abbiamo altrettanto.
Una parte
del coro.
Noi
sotto al fresco mormorìo soave
E
al lene susurrar di questi mille
Rami,
e di queste spesse frondi, un riso
Diffondiam
pel creato, e nelle frasche,
Ne'
talli che di fior tutti coverti
Mostransi,
e ne' polloni e nelle gemme,
Di
mezzo al nostro folleggiar, le fonti
Vitali
aprendo, i flessüosi velli
Orniam,
qual più ne giova, onde rigoglio
Abbia
maggiore il bel regno dell'erbe.
Cadono
i frutti, ed ecco uomini e belve
Assembrarsi,
sospingersi, di loro
Esistenza
beati. Ecco, gelosi
Di
spiccarlo e gustarne, il roseo pomo
Contendersi
a vicenda, ed a vicenda
Urtarsi,
e grande insorger lite, quale
Arder
già si mirò fra' prischi numi.
Altra parte
del coro.
Tutta
al nostro poter serve la terra.
Noi
nel cristallo gelido di queste
Rupi
scoscese i nostri molli fiati
Dolcemente
rompiam, qual sia più leve
Rumor
spiando, e degli augelli il canto,
E
quel che dai canneti esala a sera
Blando
sospir. Di Pan la voce, a cui
Tutta
di sacro orror freme natura,
Odesi
appena, e a replicar non tarde
Siam
noi; se un mormorio mandi, com'eco,
Di
ricontro mettiamo un mormorio;
Se
tuona, spaventevole di retro
Ben
dieci fiate il nostro tuon rimbomba.
Terza parte
del coro.
Noi
più commosse, discorriamo in rivi,
Ché
di codesti fertili poggetti
L'infinita
ne trae bella catena; —
Noi
con celere corso in grazïosi
Meandri,
o suore, serpeggiando, i verdi
Prati,
la pésta, il pian, la valle e il breve
Orto
irrighiamo al casolar da canto.
La
bigia de' cipressi acuminata
Estrema
punta della scena al fondo
L'addita;
— de' cipressi che da lunge
Torreggiano
ne' campi, e dalla riva
Specchiansi
dentro a' limpidi cristalli.
Quarta parte
del coro.
Itene,
o suore, ove il desìo vi mena,
Itene
pure! — A noi vagar pe' gai
Vigneti
è in grado ove sottesso il carco
De'
grappoli maturi il tralcio antico
Piegasi.
Noi di contemplar diletta
Come
solerte s'affatichi il fido
Vignajuolo,
e veder ch'egli cotanto
Per
mal certo avvenir sudi e s'affanni.
Or
impugna la falce ed or la pala;
Svelle,
rimonda, addossa e lega, miti
Gli
dei pregando a sue fatiche e 'l sole
Ma
di sì forte amor l'effemminato
Bacco,
e de' voti suoi meno curante,
Nelle
siepi si cela, o nel secreto
Di
opache grotte ove in trastulli mena
L'ore
col giovin suo fauno amoroso.
Ogni
gioja, ogni cura, ogni diletto,
E
tutte care visioni in fondo
Covan
pel nume di ben cento e mille
Urne
capaci vagamente a cerchio
Nella
sua chiostra gelida riposte.
Tutti
gli dei frattanto, e primo il sole,
D'äer,
di piova e d'infocati raggi
Dolce
stemprano umor dentro a' racemi.
Quanto
la man del vignajuolo industre
Potava
un giorno, svegliasi repente,
E
si scote, e s'avviva: un insüeto
Giù
pe' filari fremito trascorre;
E
qua e colà di mille gridi un grido
Fuor
de' commossi pampini si spande.
Gemon
le corbe, il secchio stride, e delle
Uve
ammontate sotto il grave pondo
Le
bigonce si sfondano. Robusti
Garzoni
poscia vér l'immensa tina
Frettevoli
si traggono, col piede
I
vendemmiati grappoli pigiando,
Mentre
il licore porporin compresso
Goccia,
spuma, gorgoglia, e i cori adempie
Di
dolcezza e piacer. Attendi or quale
Di
crotali e di fistole d'intorno
Alto,
incessante strepito si desti.
Ne
rintronan gli orecchi, e alfin da' suoi
Misteriosi
recessi al baccanale
Dïonisio
s'avanza, e a lui di retro
Il
fauno insiem colla sua turba, cui
Brancica
l'ebbro dio con man lasciva.
Ardito
uno di lor per via cavalca
Il
pazïente dalle lunghe orecchie
Animal
di Sileno. Il biforcuto
Piede
al ventre puntella, e fuor di senno
Crolla,
ondeggia, vacilla — e pur cioncando
Batte
al muro coll'anca e giù stramazza,
Pinzo
di vin dal capo alla ventraja. —
S'evvi
ancor chi resista, uh! che stridio!
Misericordia!
che rombazzo! — Onore
Perché
al mosto novel meglio si faccia,
Anfora
abbocca, ciotole, guastade;
Sin
che stilla ve n'ha, tutto il tracanna.
(Cade il sipario. — La Forcide
levasi su in forma gigantesca sul proscenio, togliesi il coturno, la maschera
ed il velo, rivelandosi per Mefistofele, ad epilogar l'atto e a commentarlo per
quanto è necessario.)
fine
dell'atto terzo.
ATTO Quarto
Alta montagna
(Vertici di rupi frastagliate,
gigantesche; passa una nube, si ferma, cala giù su un olmo sporgente: da
ultimo si dirada.)
Faust esce dalla
nebbia.
Cogli sguardi fissi sui profondi
abissi, percorro solitario queste aride giogaje, mentre per l'aria si dilegua
il carro che mi condusse alla pura luce, cullandomi dolcemente sulla terra e
sul mare. Fugge il carro senza sciogliersi in nebbia: esso s'incammina verso
l'oriente con lento volgere di ruote, così che lo sguardo lo segue
meravigliato. Ora ecco che durante il suo corso la nube si discioglie e si agita
come onda mobile e variopinta.
Essa prende forma! oh spettacolo! oh
meraviglia! oh sorpresa! Sopra cuscini dorati, inondati di luce, si agita
un'immagine gigantesca, ammirabile e serena. Ben io la vedo: è Giunone,
è Leda, è Elena! Oh visione celeste! Ma infelice me, ecco
è svanita.
Già l'informe massa si
raccoglie a guisa di un manto di ghiaccio nel quale vedo riflettersi i bollenti
affetti della mia giovinezza. Un dolce vapore sale dal colle e tiepido mi
accarezza la fronte: scivola leggiero leggiero e prende forma a suo capriccio.
Volto incantevole e dolce, prima gioja della mia prima giovinezza, solo bene
che io rimpianga, suprema voluttà perchè ti prendi giuoco di me?
Io sento tutti i tesori degli anni giovanili agitarmi il petto. Amica
dell'aurora, nei tuoi dolci vapori io vedo quegli sguardi vivaci, ahimè!
appena compresi e tuttavia i soli che io ricordo e che irradiino i tesori
dell'anima umana coi loro vivi splendori. Come uno spirito immortale per la
immensa distesa dei cieli, in una nube di fiamma e d'oro la splendida visione
si dilegua portando seco la miglior parte di me.
(Uno stivale di sette teghe entra
a balzi, un altro stivale gli tiene dietro subito. Mefistofele salta in terra.
Gli stivali lesti lesti si allontanano.)
Mefistofele. In fede
mia, ecco che cosa intendo io per camminare! Ma, dimmi un po' qual ghiribizzo
ti viene ora in mente? Tu discendi nel bel mezzo di questi orrori, in
quest'abisso di pietre spalancato. Io conosco perfettamente questo terreno
sebbene esso non sia al suo posto; perché, a dire il vero, questo era il fondo
dell'inferno.
Faust. Tu non hai
mai finito colle tue leggende; eccoti di nuovo a spacciarne delle altre strane
e facete.
Mefistofele (con tono
serio e grave). Allorché Dio, il Signore — so benissimo il perché — ci
scacciò dalle regioni aeree nei profondi abissi, là dove in mezzo
ad una fornace la fiamma eterna si consuma da se stessa, noi ci trovammo in una
luce troppo viva, calcati gli uni sopra gli altri, ed in una posizione assai
incomoda. Allora i diavoli cominciarono a tossire ed a sternutare dall'alto in
basso; l'inferno si empì di puzze e di acidi solforosi. Quali
esalazioni! era una cosa prodigiosa! In brevissimo tempo la crosta della terra,
per quanto spessa e dura fosse, dovette scoppiare con gran fracasso. D'allora
in poi tutto fu capovolto: ciò che un tempo era al basso, forma oggi la
sommità. Da ciò alcuni tolsero la loro dottrina d'innalzare
quanto è basso e di abbassare quanto è in alto, perocchè
noi passammo allora dalla soffocante schiavitù dell'abisso all'assoluta
sovranità dell'aria libera, mistero evidente e che fu così ben
custodito, che non venne rivelato ai popoli se non molto tardi.
Faust. La massa
delle montagne resta per me in nobile silenzio, non cerco né il come, né il
perché. Quando la natura prese forma da sè stessa, essa arrotondò
semplicemente il globo terrestre e si compiacque d'innalzare qui un picco, di
scavare là un abisso, di appoggiare roccia contro roccia, monte contro
monte; indi ordinò le facili colline, mitigandone il pendìo che
digrada nella vallata. Tutto è verzura e vegetazione, e per dimostrarsi
contenta la natura non ha certo bisogno di sobbalzare come un insensato.
Mefistofele. Tu credi
ciò! ti sembra chiaro come il giorno; ma colui che fu presente al fatto
spiega le cose ben altrimenti. Io ero là quando dalle ime
profondità l'abisso bollente si gonfiò, schizzando fiamme; quando
il martello di Moloch, fabbricando la catena delle rupi, lanciava in alto le
schegge di granito; il suolo ne geme ancora tutto coperto di quelle pesanti
masse eterogenee. Come spiegare una simile eruzione? Il filosofo non ne
comprende nulla. La roccia è là, bisogna lasciarla; e noi
perdiamo in fin dei conti la bussola. — II popolo ingenuo e grossolano è
quello che solo comprende e resta irremovibile nelle sue idee. Da lungo tempo
non vi sono più dubbi su questo soggetto: ammesso il miracolo, se ne
renda onore a Satana! il mio pellegrino, appoggiato sulla gruccia della fede,
visita zoppicando, la pietra del diavolo ed il ponte del diavolo.
Faust. Bisogna
però confessare, essere oltremodo interessante il vedere come i diavoli
rendono conto a se stessi della natura.
Mefistofele. Canchero
della natura! ch'essa sia pure ciò che le piace, poco importa! È
questo per me un punto d'onore: il diavolo era presente! Noi siamo gente capace
di operare grandi cose: scompigli, forza brutale, stravaganze! ecco ciò
che lo attesta. — Insomma, per spiegarmi chiaramente, non havvi nulla che ti
piaccia sulla nostra superficie? I tuoi
sguardi, vagando negli spazi infiniti, hanno veduto "i regni del mondo e
la loro magnificenza." Ma,
diffìcile ad accontentare come tu sei, non avrai forse provato alcuna
sensazione!
Faust. Eppure,
qualche cosa di grande mi ha sedotto; indovina!
Mefistofele. È
presto fatto. Dal canto mio, ecco la capitale che mi sceglierei. Nel cuore
della città, fondachi di commestibili per i borghesi, viottoli stretti,
pinacoli aguzzi, mercato limitato, cavoli, rape, cipolle; banchi da beccaio ove
le mosche s'accalcano per divorare le carni polpose. Là trovi ad ogni
istante fetore ed operosità. Poi grandi piazze, strade spaziose, per
darsi una cert'aria di grandezza; e infine dove non vi è più
alcuna porta a limitare lo spazio, sobborghi a vista d'occhio. Mi divertirebbe
il rumoreggiare delle carrozze, il tumulto della gente che va e viene, l'eterno
movimento confuso di questo sparpagliato formicolaio, e sempre, sia a cavallo,
sia in carrozza, sarei io il punto centrale, onorato e riverito dalle miriadi.
Faust. Ciò
non potrebbe soddisfarmi! Si prova un bel diletto a vedere un popolo
moltiplicarsi, vivere a suo modo nel benessere, formarsi ed istruirsi, e
crescere intanto alla ribellione.
Mefistofele. Poscia mi
fabbricherei, in un luogo ameno, un castello di stile grandioso, quale a me si
conviene, per andarvi a diporto, con boschi, colline, pianure, prati e campi
messi a giardino con grande magnificenza. Lungo i tappeti dei muri
verdeggianti, vorrei vi fossero sentieri allineati, ed ombrie condotte con
arte, cascate cadenti di rocca in rocca e getti d'acqua di ogni specie. In
seguito, per le donne, per le belle donne, fabbricherei piccoli casini comodi e
maestosi; vorrei passar colà ore infinite in una solitudine bellissima e
socievole. Io dissi donne perché, sia detto una volta per sempre, in fatto di
belle io aspiro alla pluralità.
Faust.
Cattivissimo gusto d'oggidì! Sardanapalo!
Mefistofele. Si
può forse indovinare la meta alla quale tu aspiri? Qualche cosa di
sublime senza dubbio. Tu che in questo tragitto ti sei innalzato così
vicino alla luna, vorresti forse sollevarti fino ad essa?
Faust. Niente
affatto. Questo globo terrestre offre ancora uno spazio sufficiente per le
grandi opere. Qualche cosa di grande sta per compiersi. Sento in me le forze
necessarie per una temeraria impresa.
Mefistofele. Desideri
dunque ardentemente la gloria? Si vede che ti sei fregato colle eroine.
Faust. Voglio
conquistare una corona, voglio uno stato! Il concreto è tutto, la gloria
un nulla.
Mefistofele. Eppure vi
saranno poeti per annunziare ai posteri la tua grandezza, per infiammare la
follia colla follia.
Faust. Ciò
non ti riguarda. Conosci tu forse i desiderii dell'umanità? La tua
natura ingrata, piena di amarezza e di fiele, sa ella forse ciò che
all'uomo abbisogna?
Mefistofele. Sia come tu
desideri! Confidami dunque tutti i tuoi capricci.
Faust. Il mio
sguardo vagheggiava la distesa dei mari che sollevati in montagne i flutti
impetuosi, schiudevano sotto di sé orribili caverne: indi racchetatisi
spingevano le loro onde ad invadere le basse spiagge e le adiacenti pianure. E ciò m'irritava come
l'arroganza irrita lo spirito libero che rispetta i diritti di tutti,
così che divampandogli il sangue entro le vene sente un malessere
mortale. Dapprima lo credetti un accidente, e guardai con maggior insistenza;
l'onda si fermava, indi si riversava ancora e si allontanava dalla meta
raggiunta con orgoglio; ora ecco che ritorna, e sta per ricominciare l'assalto.
Mefistofele (agli
spettatori). Finora non imparo nulla di nuovo; lo so tutto questo da
più di centomila anni.
Faust (proseguendo
con enfasi). L'onda si avanza strisciando e per ogni dove, sterile ella
stessa, porta la sterilità: ella si gonfia e cresce, ed oltrepassa i
limiti della sabbia incolta. Là, flutti su flutti regnano sovrani; essi
si ritirano senza aver fecondato nulla. Ah! ecco ciò che mi tormenta e
mi dispera! Forza sprecata degl'indomiti elementi! Allora il mio spirito spiega
le sue ali per sollevarsi al disopra di se stesso. Là vorrei lottare,
là vorrei vincere!
E ciò è possibile! —
Per quanto burrascosa sia l'onda, essa si piega dinanzi ad ogni prominenza.
Ella ha un bel muoversi con orgoglio, la più piccola altura le mostra
una fronte superba, la minima cavità l'attira irresistibilmente. Quindi,
nel mio spirito, piano succede a piano: pervenire alla suprema gioja di
scacciare dalla spiaggia il prepotente mare, di restringere i limiti dell'umida
pianura, e di ricacciarla alla lontana entro se stessa, ecco il mio desiderio.
Poco alla volta mi sono ciò fitto in capo. Cerca tu ora di appagarmi! (Tamburi,
e musica guerriera dietro gli spettatori, in lontananza da man dritta.)
Mefistofele. Sono
bagattelle! — Odi tu strepito di tamburi laggiù?
Faust. Sempre la
guerra! essa ripugna al saggio.
Mefistofele. Guerra o
pace! Gli è da saggio il trar profitto da ogni circostanza. Si sta
spiando il momento propizio. Ecco l'occasione, o Faust; or sappi afferrarla.
Faust. Ti
ringrazio di simili enimmi! Insomma, di che cosa si tratta? Spiegati.
Mefistofele. Nel mio
viaggio, nessuna cosa mi è rimasta celata. Il buon imperatore si trova
nel più grande imbarazzo, tu lo sai. Da quel giorno in cui ci divertimmo
e versammo nelle sue mani delle false ricchezze, il mondo intiero sembrò
essere suo. Egli era giovane quando gli toccò il trono, ed egli concluse
pazzamente che ciò poteva accordarsi a meraviglia, ed essere cosa
invidiabile e bella il regnare e gioire ad un tempo.
Faust. Profondo
errore! L'uomo destinato a regnare deve trovare la suprema felicità nel
governo, il suo petto deve albergare una sublime volontà; ma ciò
che egli vuole nessuno deve saperlo. Ciò ch'egli susurra all'orecchio
dei suoi confidenti si compie immediatamente, ed il mondo ne è sorpreso.
Di modo che egli sarà sempre il primo fra tutti, il più degno. Il
godimento abbrutisce.
Mefistofele. Il caso
nostro è ben diverso. Egli si diede in braccio al godimento, e come!
Intanto, il regno cadde nell'anarchia: grandi e piccoli, qua e là si
mossero guerra; i fratelli si spodestavano, si sgozzavano, feudo contro feudo,
città contro città, i popolani alle prese colla nobiltà,
il vescovo col capitolo e colla parrocchia; quanti s'incontravano nemici; nelle
chiese, omicidi; dinanzi alle porte, mercanti e viaggiatori, malmenati e
ridotti a mal termine. E in tutti
cresceva a gara l'ardire; vivere voleva dire combattere per difendersi. — Ma,
via! le cose andavano avanti.
Faust. La cosa
andò, zoppicò, si rialzò, cadde, e finì per fare un
capitombolo, e andar tutto a soqquadro.
Mefistofele. In
verità nessuno aveva il diritto di lagnarsi di uno stato simile di cose;
ognuno voleva aver credito e l'otteneva; l'uomo il più abbietto si dava
l'aria di un personaggio importante. Intanto, per venire alla conclusione, i
migliori trovarono che la demenza diventava troppo grande; i valorosi si
levarono con stizza e dissero: sovrano è colui che ci dà calma e
riposo; l'imperatore non può darne e non vuole, scegliamo dunque un
nuovo signore, facciamo risorgere l'impero; e mentre egli porgerà
sicurezza a ciascuno, sposeremo la pace alla giustizia in un mondo rigenerato.
Faust. Ecco una
tirata da sagristia.
Mefistofele. Erano
appunto i preti che volevano mettere al sicuro il loro grosso ventre; essi
erano più interessati degli altri. La ribellione rumoreggiava, e dopo
aver posto buone radici scoppiò così che il nostro imperatore,
che tempo fa abbiamo tanto divertito, si ritira in questi luoghi, per
combattere forse la sua ultima battaglia.
Faust. Mi fa
compassione, lui così buono e schietto!
Mefistofele. Vieni,
osserviamo; chi vive deve sperare. Se lo cavassimo fuori da questa stretta
vallata! Sia salvo questa volta, e lo sarà mille altre. D'altronde si sa
forse come possano cadere i dadi? Che la fortuna gli sia propizia, ed egli
avrà di nuovo vassalli.
(S'inerpicano sulla montagna di
mezzo, e contemplano l'ordinarsi delle truppe nella valle. Uno strepito di
tamburi e di musica militare fossi intendere dal basso.)
La posizione, da quanto vedo,
è ben presa; passiamo dalla loro parte e la vittoria è assicurata.
Mefistofele. Stratagemmi
per vincere battaglie. Fatti coraggio e pensa al tuo scopo. Conserviamo
all'imperatore il suo trono ed i suoi stati, e tu piega un ginocchio a terra e
ricevi a titolo di feudo un territorio senza confini.
Faust. Hai
già fatto molte cose. Ebbene, vediamo, vinci una battaglia.
Mefistofele. No, sei tu
che vincerai! Questa volta sei il generale in capo.
Faust. Onore in
verità legittimo: comandare da qui donde io non sento nulla!
Mefistofele. Lascia fare
allo stato maggiore, ed il Feld Maresciallo è salvo. Le calamità
della guerra mi sono note da lungo tempo; ed ho preparato da lunga pezza un
accordo tra la forza primitiva dell'uomo e quella delle montagne; felice chi
seppe congiungerle.
Faust. Che
è ciò che io vedo laggiù coperto d'armi? Hai tu sollevato
il popolo della montagna?
Mefistofele. No, ma ad
imitazione di mastro Pietro Squenz, di tutta la moltitudine, ho saputo trarre
la quintessenza.
i tre
campioni (s'avanzano).
Mefistofele. To', ecco i
miei sozi! Tu li vedi, di età diversa, di armature e di vestiti
differenti; non ne sarai malcontento. (Agli spettatori.) Tutti sono oggi
frenetici per le armi e per le gorgiere; ed, allegorici come essi sono, questi
mascalzoni piaceranno maggiormente.
Raufebold (giovine
armato alla leggiera, assisa a più colori). Se qualcuno mi guarda
nel bianco degli occhi, gli caccio il mio pugno nella gola; ed il vile che
volesse fuggire, lo afferro per i capelli della nuca.
Habebald (corporatura
maschia, armamento convenevole, uniforme di gala). Le sterili querele non
sono che ciance, tempo sprecato. Mostrati solo infaticabile nel far bottino; in
quanto al resto avrai sempre il tempo per informartene dopo.
Haltefest (vecchio,
armato fino ai denti, senza assisa). Col saccheggio non si va molto lungi.
Una gran fortuna svanisce presto, portata via dai flutti rumorosi della vita.
In verità, il prendere è una buona cosa, ma il conservare
è assai meglio. Lascia fare al vecchio prode, e nessuno ti
prenderà mai la più piccola cosa. (Calano tutti insieme
giù nella valle.)
La parte anteriore della montagna
Strepito di tamburi, e
suoni di musica guerriera che vengono dal basso. — La
tenda dell'imperatore è spiegata.
L'Imperatore, il Generale
in capo, Lanzi.
Il Generale
in capo. La risoluzione mi sembra assai prudentemente presa,
cioè di avere ristretto tutto l'esercito in questa valle; spero che una
simile scelta ci porterà fortuna.
L'Imperatore. Ciò
che dovrà succedere, lo vedremo fra poco. Eppure questa specie di fuga,
questa ritirata mi addolora.
Il Generale
in capo. Guarda, o mio principe, alla nostra destra. Un terreno come
questo mi sembra prestarsi egregiamente al nostro piano di guerra: alture poco
ripide, senza essere però troppo accessibili, vantaggiose ai nostri,
pericolose per il nemico; noi, mezzo nascosti sopra un piano ondulato, dove la
cavalleria non ardirà avventurarsi.
L'Imperatore. Non ho che
a lodarmi d'ogni cosa; qui braccia e petti potranno cimentarsi.
Il Generale
in capo. Là nell'aperta pianura vedi tu la falange nemica
animata al combattimento? Le picche scintillano alla luce del sole, attraverso
i vapori del mattino. Vedi muoversi i neri flutti di quel potente quadrato!
Migliaja e migliaja d'uomini si struggono qui per desiderio di fatti grandi e
generosi. Riconosci da ciò quale sarà la forza dell'esercito; io
confido in esso per disperdere la forza dei nemici.
L'Imperatore. È la
prima volta che io godo un simile colpo d'occhio; un tale esercito vale il
doppio del suo numero.
Il Generale
in capo. Non ho nulla da dire della sinistra; valorosi eroi difendono
la rocca massiccia. Quel picco di granito, luccicante d'armi protegge il
passaggio importante della stretta. Là, io lo prevedo, verranno
imprevidenti a rompersi nel sanguinoso conflitto le forze nemiche.
L'Imperatore. Eccoli che
si avanzano laggiù, quei falsi alleati che mi chiamavano zio, cugino e
fratello e che fatti sempre più arditi nei loro feudi tolsero allo
scettro la sua forza, il credito al trono, indi, divisi fra di loro,
devastarono l'impero, ed, ora riuniti, si sono sollevati contro di me! La
moltitudine ondeggia indecisa, e finisce per andare dove il torrente la
trascina.
Il Generale
in capo. Uno dei tuoi fidi, mandato ad esplorare, scende a gran passi
dalla montagna. Ah! che la sorte gli sia propizia!
Primo Messo. Con
destrezza e coraggio usammo le arti nostre e siamo riusciti ad insinuarci qua e
là, ma ne abbiamo ricavato poco profitto. Molti sono disposti a giurarti
omaggio e fedeltà, come già fanno le tue truppe, ma non scorgiamo
in tutto ciò che un pretesto per ottenere una tregua e suscitare un
fermento interno, e lo scompiglio nel popolo.
L'Imperatore. Il
principio dell'egoismo non è né la riconoscenza né la simpatia, né il
dovere, né l'onore, ma bensì la conservazione di se stessi. Eh! non
pensate forse, quando la misura è colma, che l'incendio del vicino
può consumarvi?
Il Generale
in capo. Ecco il secondo messo; egli scende a lenti passi, stanco e
spossato; egli trema da capo a piedi.
Secondo
Messo. Dapprima abbiamo scoperto con vivo contento un gran
parapiglia. Repentinamente, inaspettato si avanza un nuovo imperatore. Sui
sentieri che percorre la moltitudine si slancia dalla pianura; tutti seguono i
menzogneri stendardi che sventolano: proprio come le pecore.
L'Imperatore. Un
imperatore rivale si avanza per mio vantaggio; ora, per la prima volta, io
sento che sono imperatore. Mi sono messo l'assisa del soldato, ed eccomene
rivestito per grandi disegni. In ogni festa, in mezzo alla pompa ed allo
splendore, una cosa sola mancava a me: il pericolo. Voi tutti mi avete
consigliato i giuochi cavallereschi; il mio cuore batteva, non sognavo che
tornei, e, se non m'aveste sviato dalla guerra, un'aureola di gloria cingerebbe
già la mia fronte. Dall'istante in cui mi vidi laggiù nell'impero
del fuoco, ho sentito nel mio petto il marchio dell'indipendenza; l'elemento mi
assalse con tutti i suoi orrori; non era che un'illusione, ma un'illusione
sublime. Ho sognato confusamente vittoria e fama. Io riprendo ciò che ho
indegnamente trascurato. (Gli Araldi partono per recarsi a provocare il
pseudo Imperatore.)
(Faust coperto di un'armatura,
colla buffa calata, e seco i tre Campioni equipaggiati e vestiti come fu detto.)
Faust. Noi ci
avanziamo senza tema di essere biasimati; anche all'infuori della
necessità, l'antiveggenza porta i suoi frutti. Tu lo sai, il popolo
delle montagne medita incessantemente, decifrando le note della natura e del
granito. Gli spiriti, da lungo tempo ritirati dalla pianura, sono più
che mai infervorati delle montagne. Essi agiscono in silenzio nel labirinto
degli abissi, fra le esalazioni dei ricchi vapori metallici; analizzando senza
tregua, esaminando, combinando, tutti i loro sforzi tendono a scoprire qualche
cosa di nuovo. Colla mano leggiera delle potenze sovranaturali, essi dispongono
di forme trasparenti e poscia nel cristallo, tenendosi in silenzio, contemplano
gli avvenimenti di un mondo superiore.
L'Imperatore. Ascolto e
voglio crederti; ma dimmi, bravo uomo, come entra qui tutto ciò?
Faust. Il
Negromante di Norcia, il Sabino, è tuo fedele e rispettoso servo. Un
giorno, un'orribile disgrazia lo minacciava; le fascine crepitavano già;
la fiamma levava in alto le sue lingue voraci, lo zolfo e la pece si
mischiavano alla legna ammonticchiata intorno a lui; né uomo, né Dio, né
diavolo, potevano salvarlo; e tu, sire, spezzasti quelle ardenti catene. — II
fatto accadde a Roma. Ora egli che ti è infinitamente riconoscente e che
osserva senza posa i tuoi passi con ansietà; egli che da quell'ora
dimenticò se stesso; per interrogare per te solo le stelle e gli abissi,
ci ha incaricati della missione di assisterti al più presto mercé le
forze della montagna che sono imponenti. Colà la natura agisce con una
libertà sì esuberante che la stupidità dei sagrestani
taccia le sue opere di stregonerie.
L'Imperatore. Nei giorni
di gala, quando salutiamo gli ospiti che, allegri, vengono a dividere la nostra
gioja, gli è per noi un piacere vedere ognuno affrettarsi, spingersi,
rendere stretto il vasto spazio delle nostre sale; ma, prima di ogni cosa,
benvenuto riesce l'uomo di cuore, che spontaneo, viene ad assisterci sul
mattino del giorno gravido di avvenimenti, e quando la bilancia del destino
è sospesa su in alto. Ciò nonostante ritirate in quest'ora
solenne la vostra mano dall'impaziente giavellotto; onorate l'istante in cui
migliaia di uomini si avanzano per me o contro di me. L'uomo. sta tutto in se
stesso. Chi vuole il trono e la corona sia personalmente degno di un tanto
onore, e respingiamo colla nostra propria mano nell'impero dei morti il
fantasma che si è alzato contro di noi, che si chiama imperatore,
signore dei nostri Stati, duce del nostro esercito, feudatario dei nostri
distinti vassalli.
Faust. Per quanto
glorioso possa essere il compiere la grande impresa, tu hai però torto
di esporre così il tuo capo. La criniera ed il cimiero non coprono essi
l'elmo? Esso ripara la testa che accende il nostro valore. Senza capo che cosa
potrebbero compiere le membra? Esso si addormenta e tutte si accasciano tosto;
egli è ferito, tutte ne soffrono; tutte rinvigoriscono se egli si rialza
sano e salvo. Il braccio sa usare con destrezza del suo diritto energico, egli
alza lo scudo per proteggere il cranio; la spada consapevole del suo dovere
svia ben presto il colpo, e risponde ai colpi. Il piede entra a parte della
loro fortuna, e si posa arditamente sulla nuca del nemico atterrato.
L'Imperatore. Tale
è il mio furore; così vorrei trattarlo e farmi uno sgabello della
sua testa superba.
Gli Araldi (si
ritirano). Laggiù abbiamo trovato scarse onoranze e poco credito.
Risposero con beffe e motteggi alle nostre energiche e vive insinuazioni. Il
vostro imperatore, dicevano, ha cessato di esistere! Egli non è
più che una vana eco laggiù nella valle! Se facciamo ancora motto
di lui, è solo per dire come al principio d'un racconto: — C'era una
volta...
Faust. Il tutto
è disposto come piacque ai migliori che, fermi e fedeli stanno al tuo
fianco. Eppure il nemico si avvicina, i tuoi aspettano con impazienza; ordina
l'attacco, il momento è propizio.
L'Imperatore. Io mi
spoglio qui del comando. (Al generale in capo.) Principe, tutto sta
nelle tue mani.
Il Generale
in capo. L'ala destra si avanzi adunque! L'ala sinistra del nemico che
cerca ora di inerpicarsi sull'altura, deve cedere, prima di aver mosso l'ultimo
passo alla provata fedeltà della nostra valorosa gioventù.
Faust. Permetti
dunque che questo giovane eroe entri immediatamente nelle tue file, e sia
aggregato ai tuoi battaglioni e vi porti il nerbo del suo robusto braccio. (Accenna
a destra.)
Raufebold (si avanza).
Chi mi guarda in faccia lasci la speranza del ritorno, o si prepari ad avere le
mascelle spaccate! Chi mi volge le spalle sentirà tosto il collo, la sua
testa ed il suo ciuffo cadergli giù per la nuca! E se, vedendo come io mi adopro, i tuoi guerrieri colpiranno
colla spada e colla mazza come faccio io, il nemico cadrà, uomo sopra
uomo, sommerso nei flutti del proprio sangue. (Esce.)
Il Generale
in capo. La falange del centro segua da vicino, ed affronti
prudentemente il nemico, ma con tutta la sua forza. Un poco a destra,
laggiù, guardate! l'inasprito valore dei nostri soldati sventa tutti i
piani del nemico.
Faust (additando
l'uomo di mezzo). E questo
segua pure i tuoi ordini!
Habebald (si avanza).
Al valore delle legioni imperiali deve unirsi la sete del bottino. Ecco lo
scopo che io propongo a tutti: la ricca tenda del pseudo-imperatore. Egli non
starà lungo tempo nel suo trono vacillante, se mi metto alla testa della
falange.
Eilebeute (vivandiera,
facendogli vezzi). Sebbene io non sia maritata con lui, io lo preferisco a
tutti i fantaccini. Ecco i frutti che si maturano per noi! La donna è
terribile quando prende, senza pietà quando ruba.
Alla vittoria, dunque! e tutto
è per bene. (Escono.)
Il Generale
in capo. La loro destra, come si poteva prevedere, si precipita
furiosamente sulla nostra sinistra. I nostri
si opporranno corpo a corpo al suo disperato tentativo di prendere d'assalto lo
stretto passaggio della gola.
Faust (indicando
a sinistra). Io ti consiglio, o signore, di por mente a costui. Non
è male che i prodi siano afforzati.
Haltefest(si avanza).
Non vi prendete pensiero dell'ala sinistra! Là dove io sono il possesso
è assicurato; la fermezza non fa difetto al vegliardo. Non vi è
folgore che possa strapparmi quanto tengo nella mia mano. (Esce.)
Mefistofele (scendendo
dalle alture della montagna). Ora voi vedete come in fondo ad ogni gola gli
armati si accalcano, occupando gli stretti sentieri! Coi loro elmi, armature,
spade e scudi, essi formarono un muro dietro di noi aspettando il segnale per
combattere. (Con voce bassa agli iniziati.) Da dove proviene ciò
non me lo chiedete. In fede mia non ho perduto il mio tempo; ho saccheggiato
tutte le sale d'armi dei dintorni. Essi stavano là ritti, a cavallo; si
sarebbe creduto ch'essi erano sempre i signori della terra. Un tempo cavalieri,
re, imperatori ed ora gusci vuoti di gamberi, dentro ai quali più di uno
spettro si è cacciato risuscitando così il medio evo. Qualunque
siano i diavoletti che vi si sono cacciati dentro, per questa volta essi non
mancheranno di fare il loro dovere. (Forte.) Ascoltate come si irritano
e s'urtano producendo un rumore metallico! Sui tuoi stendardi sventolano
bandiere lacere e cenciose che sospiravano un soffio d'aria pura. Pensate
esservi qui un popolo antico ben preparato, e che prenderebbe volontieri parte
al moderno combattimento. (Bande clamorose ed assordanti dall'alto; gran
confusione e disordine nell'esercito nemico.)
Faust. L'orizzonte
si è coperto; solo qua e là splende una luce rossastra e che
presagisce grandi cose. Le rocce, il bosco, l'atmosfera, il cielo intiero,
tutto si confonde.
Mefistofele. L'ala
destra si mantiene salda e ferma, ma io scorgo nella mischia, sorpassando
tutti, Hans Raufebold, il gigante spedito, vivamente occupato a picchiare
secondo il piacer suo.
L'Imperatore. Sulle prime
non ho veduto che un sol braccio ad alzarsi; ora ne vedo già una dozzina
che battagliano. Ciò non è naturale.
Faust. Non hai tu
mai udito parlare di quelle strisce di nuvole che vagano sulle coste di
Sicilia? Là appariscono delle visioni strane, erranti nella pura
atmosfera, portate verso gli spazi intermedi, riflesse in vapori strani;
là città che vanno e vengono, giardini che salgono e discendono,
secondo che l'imagine è frastagliata dall'etere.
L'Imperatore. Eppure,
ciò mi diventa sospetto! Vedo le picche lampeggiare, vedo sulle armi
scintillanti della nostra falange danzare vivissime fiamme. Tutto ciò mi
sembra un po' troppo strano e fantastico.
Faust. T'inganni,
o signore; quelle sono vestigia di enti ideali perdute, un riflesso dei
Dioscuri scongiurati da tutti i navigatori. Essi radunano qui le loro ultime
forze.
L'Imperatore. Ma dimmi; a
chi siamo noi debitori se la natura si colma di prodigi?
Mefistofele. A chi
dunque se non a quel sublime Signore che porta il tuo destino nel suo petto? Le
violenti minacce dei tuoi nemici lo hanno commosso. Per sua bontà ti
vuol salvo a qualunque costo.
L'Imperatore. Essi si
rallegravano nel condurmi attorno con grande pompa. Allora io aveva assai
credito e volli farne l'esperimento; senza pensarvi molto sopra deliberai di
dare un po' di brio alla mia barba grigia. Una simile novità
mandò a male una certa festa del clero, ed in verità, non mi sono
conciliato la loro simpatia. Come è mai possibile che ora, dopo tanti
anni io ne sia favorito in guisa così segnalata?
Faust. Un generoso
benefizio porta i suoi frutti con usura. Volgi il tuo sguardo in alto! Mi pare che
un augurio debba scendere di lassù. Guarda, ciò si spiega
immediatamente.
L'Imperatore. Un'aquila
vola nelle regioni celesti ed un grifone la insegue con accanimento.
Faust. Pondera
bene tutto! l'enimma mi sembra propizio. Il grifone è un animale
favoloso; come può egli aver l'audacia di misurarsi con un'aquila vera?
L'Imperatore. Ora essi si
osservano descrivendo circoli spaziosi. Repentinamente si scagliano l'uno
sull'altro per lacerarsi il petto ed il collo.
Faust. Osserva
come quel tristo grifone, battuto, rabbuffato, non trova scampo; colla sua coda
di leone riabbassata, si slancia nella foresta che corona la vetta della
montagna e scompare!
L'Imperatore. Che
l'enimma si compia così, io l'accetto con grande maraviglia.
Mefistofele (volgendosi
a destra). I nostri nemici
cedono ai nostri colpi moltiplicati, e, pur combattendo all'impazzata si
precipitano verso la destra, portando così la confusione nell'ala
sinistra del loro corpo principale. La testa compatta della nostra falange si
porta a destra, e simile alla folgore piomba sul lato debole. Ed ora come
un'onda commossa dalla tempesta, le due eguali potenze s'agitano con rabbia nel
doppio combattimento. Non si vide mai nulla di più bello. Abbiamo vinto
la battaglia.
L'Imperatore
(rivolto
a sinistra parla a Faust). Guarda! Io sento inquietudine su questo punto:
la nostra posizione è pericolosa. Non vedo rotolare i massi, il nemico
occupa i picchi inferiori, e quelli superiori sono già abbandonati.
Ecco, il nemico in massa si avvicina sempre più; forse egli ha preso
d'assalto lo stretto. Quale esito a questo sacrilego tentativo! Le vostre
astuzie non hanno prodotto nulla di buono. (Pausa.)
Mefistofele. Ecco, i
miei due corvi arrivano; quale notizia possono essi recarmi? Temo assai che tutto
vada male per noi.
L'Imperatore. Che cosa
vogliono questi funesti uccelli? sfuggiti dall'ardente mischia, essi vengono
verso di noi portati dalle loro ali nere.
Mefistofele (ai due
corvi). Venite vicino al mio orecchio. Colui che voi proteggete non
è perduto grazie al vostro saggio consiglio.
Faust (all'Imperatore).
Avrai già inteso parlare dei volatili che dal fondo di lontane contrade
vengono a deporre qui le uova e a pascere dentro i nidi i loro pulcini. Lo
stesso accade qui, colla grave differenza però che la fermata dei
volatili è indizio di pace, mentre in guerra ci vogliono dei corvi per
corrieri.
Mefistofele. Tutto
ciò mi annoja. Guardate quale difficile posizione i nostri eroi sono
andati a prendere sopra quella roccia dirupata! Le alture vicine sono invase, e
se i nemici forzassero il passo, ci troveremmo in cattive acque.
L'Imperatore. Eccomi
dunque corbellato da voi! voi mi avete preso nelle vostre reti; io tremo
dall'istante in cui vi fui preso.
Mefistofele. Coraggio!
il caso non è ancora disperato. Pazienza ed astuzia ti leveranno da
questi ultimi impacci! Di consueto è verso la fine che le cose si
complicano. Ho qui i miei instancabili messaggeri; dammi i tuoi ordini
affinchè io possa trasmetterli a loro.
Il Generale
in capo (sopravvenuto in quel mentre). La tua alleanza con
costoro non ha fatto finora che tribolarmi. La fantasmagoria non genera un bene
duraturo. In quanto a me, non so in qual modo cangiare le sorti del
combattimento. Essi l'hanno cominciato, ed ora lo finiscano; io depongo il
bastone del comando.
L'Imperatore. Conservalo
per gl'istanti migliori che la fortuna ci può portare. Questo orrido
compare mi fa abbrividire lui e la sua famigliarità coi corvi. (A
Mefistofele.) Non posso affidarti il bastone del comando; non mi sembri uomo
che possa convenire. Comanda però e procura di salvarci! Avvenga
ciò che può! (Si ritira nella tenda col Generale in capo.)
Mefistofele. Che il suo
bastone di legno lo ajuti! in quanto a noi, egli ci avrebbe portato un ben
mediocre soccorso. Vidi sulla sua cima qualche cosa di simile ad una croce.
Faust. Che fare?
Mefistofele. Tutto
è già fatto. — Su, miei neri cugini, siate pronti a servirci! al
gran lago della montagna! Salutate a nome mio le Ondine, domandate loro
l'apparenza dei loro flutti. Esperte in ogni specie d'artifizi femminili
difficili a conoscersi, esse sanno separare l'apparenza dalla realtà, ad
un punto tale che tutti sono tratti in inganno. (Pausa.)
Faust. I nostri messaggieri hanno dovuto fare
in tutta regola la loro corte alle ninfe delle acque; perché laggiù i
flutti cominciano già a scorrere.
Qua e là, sul granito arido e
nudo, si riversò una massa d'acqua abbondante e viva. La vittoria del
nemico è andata in fumo.
Mefistofele. Ecco una
strana accoglienza: i più intrepidi all'assalto se la danno a gambe.
Faust. Già
il ruscello si congiunge ai ruscelli, e le acque ingrossate si slanciano dalle
fessure della roccia. Vedi ora quel torrente sul quale ondeggia l'arcobaleno;
dapprima esso si ripiega sullo spianato della roccia, gorgoglia e spumeggia da
ogni parte, e si getta gradatamente nella valle. A che pro una valorosa,
un'eroica resistenza? La possente onda si slancia per sommergerli; io stesso
sono spaventato da questo spaventevole scompiglio.
Mefistofele. In quanto a
me, non vedo questo rovinìo d'acque; gli occhi umani soli possono essere
ingannati in simile modo, e la strana avventura mi diverte assai. Queste acque
rovinano giù in masse trasparenti. Gli imbecilli credono di annegarsi
mentre respirano liberamente sulla terra ferma e corrono nel modo più
ridicolo con gesti da nuotatori. Ora poi la confusione regna in ogni luogo. (I
corvi sono ritornati.) Io parlerò del vostro operato al re nostro
signore, ed ora se volete fare un colpo da maestro, volate premurosamente verso
l'ardente fornace dove il popolo pigmeo batte senza posa il metallo e la pietra
finché se ne levino vivissime scintille. Chiedete loro con belle e dolci
parole, un fuoco che splenda, scintilli e fiammeggi un fuoco tale che a stento
si possa immaginare. Lampi di calore in lontananza, stelle cadenti guizzanti
colla rapidità dello sguardo, ciò si vede in ogni notte d'estate;
ma folgori tra i secchi cespugli, ma stelle guizzanti sul suolo umido, è
quanto non si può trovare così facilmente. Suvvia, senza
insistere troppo, pregate dapprima e poscia comandate. (I corvi partono e
quanto fu detto succede appuntino.)
Avvolgere il nemico di profonde
tenebre, rendergli incerto ogni passo, circondarlo di fuochi fatui, abbagliarlo
con un repentino splendore, tutto questo è magnifico; ma ci occorre
ancora un rumore assordante che getti lo spavento.
Faust. Le armature
vuote, uscite dal sepolcro delle sale, si sentono rivivere all'aria aperta.
È lungo tempo che in alto havvi uno scricchiolìo, un fracasso, un
frastuono prodigioso, discordante.
Mefistofele. A
meraviglia! Non c'è più mezzo di trattenerli; già quelle
schiere cavalleresche fanno echeggiare l'aria come al buon tempo antico.
Bracciali e cosciali, a modo dei Guelfi e dei Ghibellini, rinnovano con
gagliardia l'eterna querela. Saldi nei sentimenti ereditari, essi si mostrano
irreconciliabili. Il baccano echeggia già da lontano. Insomma, in tutte
le grandi feste dell'inferno, è l'odio dei partiti che porta il più
bel contingente di orrori. Il fracasso rincalza spaventevole e ad un tempo
penetrante, acuto, indiavolato, e getta lo spavento nella vallata.
(Tumulto militare nell'orchestra,
che poi si cangia in allegre guerresche sinfonie.)
La tenda del pseudo imperatore
Ricchi addobbi: trono
Habebald e Eilebeute.
Eilebeute. Eccoci per
i primi!
Habebald. Non vi
è corvo che voli ratto come noi.
Eilebeute. Oh! quanti
tesori ammucchiati qui! Per dove dobbiamo cominciare? Dove dobbiamo finire?
Habebald. La tenda ne
è colma! Non so dove mettere le mani.
Eilebeute. Quel
coltroncino farebbe bene per me, il mio letto è spesso assai male
provveduto.
Habebald. Vedo
pendere qui una mazza d'acciajo; è da lungo tempo che io desidero di
averne una simile.
Eilebeute. Questo
mantello di porpora, bordato d'oro, è tale quale lo avevo sognato.
Habebald (brandendo
la mazza). Con questo si fa presto, si uccide l'avversario e si va avanti.
Tu hai già raccolto moltissime cose, eppure non hai messo nel sacco
nulla che valga. Lascia stare tutti questi orpelli e prendi una di queste
cassette! Dentro c'è il soldo destinato all'esercito; sono piene zeppe
d'oro.
Eilebeute. Il loro
peso è enorme! Non posso sollevarla, non posso portarla.
Habebald. Su presto,
chinati! curva le spalle, e io la carico sul tuo dorso.
Eilebeute. Oi! oi!
sono spacciata. (La cassetta batte sul terreno e va in pezzi.)
Habebald. Che bel
mucchio di zecchini! Presto, all'opera, e muovi le mani.
Eilebeute (accosciandosi).
Presto nel grembiale! Ne avrò ad ogni modo abbastanza.
Habebald. Basta
così! Fa presto, sbrigati dunque! (Eilebeute rizzasi in piedi.)
Misericordia! il grembiale si è sfondato! Ad ogni tuo passo, tu spargi
l'oro a profusione.
I Lanzi
(del nostro Imperatore). Che fate voi qui nel santuario? Che frugate voi
nel tesoro imperiale?
Habebald. Abbiamo
messo in pericolo la nostra vita e prendiamo la nostra parte del bottino nelle
tende del nemico, secondo l'usanza; noi siamo soldati.
I Lanzi.
Soldato e mariuolo non è cosa consueta. Colui che sta a fianco del
nostro imperatore deve essere un soldato onesto.
Habebald.
Onestà! la conosciamo benissimo; essa si chiama contribuzione. Voi
zoppicate tutti d'un piede: date qua, canaglia! ecco la parola d'ordine del
mestiere. (A Eilebeute.)
Fuggi e porta via il tuo gruzzolo! Non siamo ospiti benvenuti qui! (Escono.)
Primo Lanzo. Dimmi un
po', perchè non hai tu schiaffeggiato quell'insolente mariuolo?
Secondo
Lanzo. Non lo so; mi mancò il coraggio: essi avevano una
cert'aria da fantasmi.
Terzo Lanzo. Avevo gli
occhi invischiati; mi tremolava dinanzi un certo lume, non potevo vedere ben
chiaro.
Quarto Lanzo. È
strano, non so come spiegarmi la cosa; ha fatto così caldo tutto il
giorno, l'atmosfera era pesante, angosciosa, l'uno resisteva, l'altro cadeva,
s'inciampava e si combatteva ad un tempo. Ad ogni colpo un avversario cadeva.
Si sentiva come una nebbia dinanzi agli occhi. S'udivano oltre a ciò
zufolamenti, tintinnii e fischi dentro le orecchie, continui, incessanti. Ora
eccoci salvi, e non sappiamo comprendere neppure noi come ciò abbia
potuto accadere.
(L'Imperatore
e quattro principi s'avanzano. I Lanzi
si ritirano.)
L'Imperatore. Che
importa! la vittoria è nostra, ed il nemico sbaragliato e disperso
scompare nell'aperta campagna. Qui sorge il trono abbandonato; il seducente
tesoro coperto di tappeti, ingombra tutto lo spazio. Noi colmi d'onori,
circondati dai nostri bravi lanzi, aspettiamo con maestà gl'inviati del
popolo; giungono da ogni parte buone notizie; oh! scenda la pace su
quell'impero che riconosce con gioja la nostra sovranità! Se la
stregoneria vi prese anche parte, noi l'abbiamo pagato colla nostra persona. Il
caso si dichiara favorevole ai combattenti; grosse pietre cadono dal cielo,
piove sangue sul nemico, e dal seno delle caverne gridano voci strane, voci
potenti, fatte per dilatare il nostro petto e per stringere il cuore del
nemico. Il vinto è caduto a sua vergogna eterna; il vincitore, nella sua
gloria, canta un inno alla propizia divinità, e tutti cantano con lui,
senza ch'egli abbia bisogno di comandarlo, Te Deum laudamus, per
miriadi, a squarciagola! Intanto, per sublime omaggio, io volgo verso la mia
propria coscienza un pio sguardo, ciò che altre volte mi accadeva ben di
rado di fare. Che un giovane principe felice di vivere sciupi follemente i suoi
giorni; gli anni s'incaricheranno di fargli conoscere l'importanza di un
istante. E perciò, senza
indugiare, vi congiungo a me, voi i quattro più degni, affinché mi
possiate ajutare a reggere la famiglia, la corte e l'impero. (Al primo.) A te, o principe,
noi siamo debitori della saggia direzione dell'esercito e dell'ardire ed
eroismo ch'esso dimostrò nell'istante decisivo. Continua a fare durante
la pace ciò che le circostanze renderanno necessario; io ti nomino
maresciallo ereditario e ti conferisco la spada.
Il
Maresciallo Ereditario. Quando il tuo fedele esercito fino ad ora occupato
all'interno, si spingerà verso le frontiere per consolidare la tua
potenza ed il tuo trono, ci sia consentito, in mezzo all'immenso concorso di
gente raccolta per le feste nelle vaste sale del castello de' tuoi avi, il dar
ordine alla cerimonia. Dinanzi a te, ai tuoi fianchi, voglio portare questa
spada sguainata, eterna salvaguardia della più grande maestà.
L'Imperatore
(al
secondo). Tu che congiungi la delicatezza e la cortesia al valore, tu sarai
gran ciambellano; la dignità che ti conferisco non è poi cosa di
poca importanza. Tu meriti la precedenza fra tutta la gente della mia corte, la
quale divisa dalle discordie intestine, si è convertita in un'accolta di
servi cattivi e traditori; serva il tuo esempio d'ora in poi a dimostrare qual
sia il modo che si deve adottare per acquistarsi il favore del signore, della
corte e di tutti!
Il Gran
Ciambellano. L'eseguire i grandi concetti del mio signore, mi mette in
grado di ajutare i buoni e di non nuocere ai cattivi, di mostrarmi sicuro senza
artifizio, calmo senza astuzia. Se il tuo sguardo legge nella mia coscienza,
sire, ciò mi basta. L'imaginazione può ella rappresentarsi una
simile festa? Quando ti siedi alla mensa, sono io che ti presento la coppa
d'oro, io che tengo gli anelli, onde in quel voluttuoso istante la tua mano si
rinfreschi, intanto che un tuo sguardo mi rallegra.
L'Imperatore. Io mi
sento, a dire il vero, troppo preoccupato per poter pensare a comandar delle
feste; ma sia; la gioja porta anch'essa fortuna. (Al terzo.) Io ti
scelgo per grande scalco! La caccia, l'uccelliera, i nostri tenimenti, siano da
ora in poi sotto la tua ispezione, ed abbi cura che mi sieno serviti in ogni
tempo le mie pietanze favorite, secondo la stagione e preparate con grande
cura!
Lo Scalco.
Che un austero digiuno sia per me il più gradito dovere fino a che sia
posto dinanzi a te un piatto gustoso e succulento! Gli ufficiali delle cucine
dovranno unire i loro sforzi ai miei per ravvicinare le distanze ed affrettare
le stagioni. Non sono i piatti ricercati, né le primizie colle quali si copre
la tua mensa che ti piacciono, tu preferisci i cibi semplici e sostanziosi.
L'Imperatore
(al
quarto). Poiché si tratta qui di feste, tu, mio giovane eroe, trasformati
in coppiere. Arcicoppiere dell'impero, abbi cura d'ora innanzi che le nostre
cantine siano riccamente provviste di squisiti vini, e tu stesso sii sobrio e
non lasciarti trascinare dalla tentazione di sorpassare nel bere i limiti di
una conveniente allegria.
L'Arcicoppiere. Sire, gli
adolescenti, purché si abbia fiducia in loro, diventano uomini assai più
presto di quanto si pensi. Ed io mi vedo in mezzo a questa gran festa; io
dispongo con magnificenza la credenza imperiale, la copro con vasellame di gran
prezzo, d'oro e d'argento; ma io scelgo per te la coppa incantatrice di un puro
cristallo di Venezia in fondo alla quale è riposta ogni felicità,
coppa che dà al vino un sapore più piccante e ne tempra i
principii inebbrianti. Spesso fidiamo troppo nel potere di simili talismani; la
tua sobrietà, sire, è però la miglior garanzia.
L'Imperatore. A quali
cariche io vi abbia destinati in quest'ora solenne, voi l'udiste in confidenza
dalla mia bocca infallibile. La parola dell'imperatore è potente e vi
assicura il benefizio; e ciononostante, perché all'atto autorevole nulla
manchi, occorre ancora il titolo uffiziale, la firma. Per redigerla colla
voluta forma, ecco l'uomo indispensabile che viene a proposito. (Entra l'Arcivescovo.)
Ciò che una volta fu commesso alla tua chiave, resta incrollabile per
secoli e secoli. Tu vedi qui quattro principi! Noi abbiamo testé concertato
insieme la costituzione della nostra casa imperiale. Ora poi, tutto ciò
che questo impero comprende nel suo seno, voglio che si appoggi su cinque
personaggi con forza e potenza. Voglio ch'essi siano primi fra tutti per
possessi, e per ciò io aumento da quest'istante la distesa dei loro
dominii col patrimonio di coloro che si sono separati da noi. A voi, o miei
fidi, assegno belle borgate, aggiungendovi il sovrano diritto di stendervi
più lontano ancora, secondo l'occasione, sia per eredità,
acquisto o scambio. Inoltre abbiate facoltà di esercitare pacificamente
i diritti di signoria che vi spettano. Come giudici voi pronunzierete sentenze
assolute; nessuno potrà appellarsi contro questo tribunale supremo.
Saranno pure di vostra spettanza le imposte, i censi, i diritti d'omaggio e di
scorta, i pedaggi, i monopolii delle miniere, delle saline, delle zecche;
perché a provarvi appieno la nostra riconoscenza, vi abbiamo dato il primo
grado dopo la nostra maestà.
L'Arcivescovo.
A nome di tutti, abbiti i nostri più vivi ringraziamenti! tu ci fai
forti e potenti, consolidando la tua potenza.
L'Imperatore. Voglio
ancora elargire a voi tutti cinque dignità più elevate di queste.
Io vivo ancora per il mio impero, ed ho vivissimo desiderio di vivere; ma la
catena dei miei avi fa sviare il mio sguardo pensieroso da questo turbinio di
faccende che mi suscita in mente idee cupe e sinistre. Io pure, quando ne
sarà giunto l'istante, mi separerò dai miei fidi. Che il vostro
dovere vi chiami allora a nominare il mio successore. Quando egli sarà
coronato, guidatelo vicino al santo altare, e possa in quei giorni finire nella
pace l'uragano al quale abbiamo ora assistito!
L'Arcicancelliere.
Coll'orgoglio in seno, ma umili nel gesto, i principi, che godono il primato
sulla terra s'inchinano dinanzi a te. Infino a tanto che il nostro sangue
fedele circolerà nelle nostre vene, noi saremo il corpo che la tua
volontà fa muovere a suo piacere.
L'Imperatore. Ora per
conchiudere, quanto abbiamo deliberato fino ad ora con atti ufficiali firmati
da me, sia attestato per tutti i secoli a venire! Voi avete dunque il possesso
intero e libero, a patto però ch'esso resterà indivisibile, ed in
qualunque modo voi accresciate i beni da me ricevuti, al solo primogenito
sarà dato di ereditarli.
L'Arcicancelliere.
Vado tosto, tutto lieto ad affidare alla pergamena questo decreto importante,
per la felicità dell'impero e per la nostra. Il farne la copia e
l'apporvi il suggello imperiale sarà il compito della cancelleria. E tu, o sire, ti degnerai di
confermare l'atto colla sacra tua firma.
L'Imperatore. Ed ora vi
do' commiato, affinché ognuno di voi possa nel raccoglimento meditare su questo
grande giorno. (I principi temporali si allontanano.)
Il Principe
della Chiesa (parlando con enfasi). Il cancelliere si allontana, il
vescovo rimane, un grave presentimento lo spinge vicino al tuo orecchio, per avvertirti
del pericolo; il suo cuore paterno trema ansioso ed affannato per te.
L'Imperatore. Quali
angosce possono dunque straziarti in quest'ora di gioja? Parla!
L'Arcivescovo.
Con quanta amarezza e dolore non vedo io in quest'ora, il sacro tuo capo in alleanza
con Satana! Assicurato è vero, da quanto pare, sul trono; ma
ahimè! a dispetto di Dio nostro signore, a dispetto del santo padre. Se
lo sapesse il papa, egli t'imporrebbe subito un terribile castigo, e la sua
santa folgore annienterebbe il tuo impero, impero del peccato; perché egli non
ha ancora dimenticato come nel giorno della tua incoronazione, tu salvasti lo
stregone. Il primo raggio di grazia, splendente dal tuo diadema, andò a
posarsi a danno della cristianità su quella testa maledetta! Ma ora
batti il tuo petto, e rendi di questa fortuna illegittima una parte onesta al
santuario. L'ampio territorio sparso di colline dove s'ergeva la tua tenda,
dove gli spiriti maligni vennero in tuo soccorso, dove hai prestato un facile
orecchio al principe della menzogna, sia da te in uso pio convertito
destinandolo a qualche santa opera. Aggiungivi per dote la montagna e la fitta
boscaglia per tutta la loro estensione, le alture verdeggianti di un eterno
pascolo, i laghi limpidi e ricchi di pesci, gl'innumerevoli ruscelli che
serpeggianti con rapidità, si precipitano nella vallata; ed
altresì quella vallata coi suoi prati, le sue pianure, ed i suoi
burroni: tutto ciò dirà abbastanza chiaro quanto sei pentito, e
la grazia scenderà su di te.
L'Imperatore. L'immensità
della mia colpa mi empie di spavento! Indica tu stesso i confini; io me ne
rimetto al tuo senno.
L'Arcivescovo.
Prima di tutto questo spazio profanato dove venne consumato il peccato sia fin
d'ora votato al culto dell'Altissimo. Nel mio spirito, già vedo elevarsi
forti e potenti mura; lo sguardo del sole che sorge illumina già il
coro; l'edifizio in costruzione si allarga prendendo la forma di una croce; la
nave si prolunga, s'innalza, con viva gioia dei fedeli. Già tutti
infervorati, essi fan ressa come flutti dinanzi all'augusta porta. Il primo
rintocco delle campane echeggia attraverso i monti e la valle, ed il suono si
propaga dall'alto delle torri che s'innalzano verso il cielo. Il peccatore si
avanza per rinascere alla vita. Al giorno sublime dell'inaugurazione — oh possa
egli spuntar presto! — la tua presenza sarà il più bello
ornamento della festa.
L'Imperatore. Un'opera
così grandiosa attesti la nostra pia volontà di rendere omaggio
al signore e di espiare i nostri peccati!
E ciò basti! Sento già il mio spirito sollevarsi.
L'Arcivescovo.
Come cancelliere, io m'incarico dei decreti e delle formalità.
L'Imperatore. Un
documento in buona forma, per il quale la chiesa sia investita di questi
dominii! Tu me lo farai vedere, ed io lo firmerò con vivissima gioja.
L'Arcivescovo
(dopo essersi congedato, torna indietro). È inteso, che l'assegno
al nuovo santuario, di tutte le rendite del luogo, dei censi, delle decime,
sarà perpetuo. Occorrono grandi somme per provvedere convenientemente ad
una fondazione come questa, ed una scrupolosa amministrazione costa assai caro.
Per affrettare l'erezione del monumento sopra un terreno incolto come questo,
tu ci darai un poco d'oro del tuo ricco bottino. — Inoltre, non posso fare a
meno di parlare di ciò, bisognerà che tu ci provveda il legname
che manca completamente in questi dintorni, la calce, le ardesie ed altri
simili materiali. Il popolo s'incaricherà dei trasporti, tosto che
sarà informato dal pulpito che la chiesa benedice colui che lavora per essa.
(Esce.)
L'Imperatore. Enorme ed
orribile il peccato di cui mi sono macchiata l'anima! Quel maledetto popolo di
stregoni mi ha messo in gravi impicci.
L'Arcivescovo
(tornando un'altra volta ed inchinandosi profondamente). Perdonami o
sire: quell'uomo triste al quale hai dato in feudo le spiagge del regno,
farà andar male ogni cosa se non conferisci, tutto compunto, le decime,
i censi e le rendite di quel dominio alla chiesa.
L'Imperatore
(impazientito).
Ma quelle borgate non esistono ancora; esse riposano tuttora in fondo al mare.
L'Arcivescovo.
A chi ha diritto e pazienza non manca di spuntare il suo giorno. Che la tua
parola sia per noi inviolabile. (Esce.)
L'Imperatore
(solo).
S'io continuo a dar retta a costui, sarò costretto a firmare l'atto di
donazione di tutto quanto l'impero!
fine
dell'atto quarto.
ATTO
QUINTO
Aperta campagna
Un
Viaggiatore. Sì! quelli sono gli opachi tigli, in tutta la vigoria
della loro vecchiaja; e doveva pur finalmente ritrovarli dopo un sì lungo
cammino! Ed ecco l'antico recinto, la capanna che mi ricoverò il giorno
in cui le onde tempestose mi gettarono su queste aride sabbie. Vorrei poter
benedire i miei ospiti, così pronti a soccorrermi, una coppia eccellente
già troppo avanzata negli anni allora però perché io possa
ritrovarli ora. Erano proprio gente buona e caritatevole! Busserò io? li
chiamerò? — Salvete, voi apostoli dell'umanità, se oggi ancora
gustate l'invidiabile e rara dolcezza di far del bene!
Bauci (donna di
piccola statura, estremamente decrepita). Piano, mio caro forestiere,
piano! zitto! Lascia riposare mio marito; un lungo sonno porge al vegliardo
l'attività necessaria alla sua breve vigilia
Il
Viaggiatore. Dimmi, o madre, sei tu qui per ricevere ancora i miei
ringraziamenti, in riconoscenza di ciò che facesti in altri tempi col
tuo sposo, per la mia vita? Sei tu Bauci, le cui premurose cure richiamarono la
vita sulle mie labbra già livide? (Lo sposo si avanza.)
Tu, sei tu Filemone il cui nerboruto braccio strappò il mio tesoro ai
flutti furiosi? Il vivo chiarore del vostro faro, l'armonioso tintinnio della
vostra campana posero un termine alla mia crudele sciagura. Ed ora lasciate che
io m'avanzi, che io contempli il mare infinito; lasciate che io mi prostri e
preghi, perché il cuore mi si spezza! (Si avanza verso la spiaggia.)
Filemone (a Bauci).
Là presto ad apparecchiare la tavola nel giardinetto, nel luogo
più allegro e fiorito. Lascialo pur correre e spaventarsi, perchè
egli non può certo credere a ciò che vede. (Si dà a seguirlo.)
Filemone (sulle
tracce del viaggiatore). Ciò che vi maltrattò in altri tempi
con furore, flutti accavallati su flutti, spumanti, irrefrenabili, lo vedete
convertito in un giardino, che vi dà l'idea di un paradiso. Giunto alla
vecchiezza, le mie membra si anneghittirono; non ero più come altre
volte, sempre pronto a portar soccorso alla gente, e, mentre le forze mi
abbandonavano le onde si ritirarono. I robusti
famigli di saggi padroni scavarono fosse, alzarono argini, respinsero i diritti
del mare per diventare sovrani in sua vece. Guarda intorno, vi sono prati,
pascoli, giardino, villaggio e boschi. Ora vieni a godere il delizioso
spettacolo, perchè il sole ci abbandonerà fra poco. Eppure si
scorgono in lontananza delle vele! esse cercano per la notte un asilo sicuro; —
gli uccelli conoscono il loro nido, — perché ora vi è un porto
laggiù. Così puoi contemplare nell'ampio orizzonte, prima la
fascia azzurra del mare, e a destra ed a sinistra ed in giro, uno spazio in cui
di giorno in giorno crescono e si affollano gli abitatori.
Nel giardinetto
A tavola in tre.
Bauci (allo
straniero). Tu stai silenzioso ed immobile senza portare il boccone alla
tua bocca aperta!
Filemone. Egli
vorrebbe sapere qualche cosa del prodigio; tu che parli così volontieri,
narragli l'accaduto.
Bauci. Sì,
fu proprio un prodigio! ed oggi ancora ne sono tutta commossa ed affannata;
perché dal modo col quale tutto ciò accadde non mi può
pronosticar nulla di bene.
Filemone.
L'imperatore ha egli forse commesso un delitto assegnandogli questa spiaggia?
Non venne forse un araldo a proclamare pubblicamente il suo decreto? Le prime
tracce furono prese non lungi dalla nostra duna, — e là furono elevate
tende e capanne! — ed in breve tempo fu fabbricato un palazzo in mezzo al
fogliame.
Bauci. Durante il
giorno gli operai si affannavano invano, con pale e picconi, raddoppiando
rumorosamente colpi su colpi; durante la notte poi si vedevano serpeggiare qua
e là vive fiammelle e l'indomani ecco vi era un argine bell'e fatto. Il
sangue umano era senza dubbio sparso in sacrifizi; tanto e così forti
grida angosciose si udivano. L'onda incandescente scorreva verso il mare ed
allo spuntar dell'alba vi era un grande canale. Gli è un empio; la
nostra capanna il nostro boschetto gli fanno gola, e li adocchia con tanta
avidità che lo vedi aggirarsi a noi vicino ed a noi poveretti ci tocca
sottometterci.
Filemone. Egli ci ha
però offerto una bella terra nel nuovo paese!
Bauci. Non aver
fiducia nel suolo rubato alle acque: conserva la tua casetta sull'altura.
Filemone. Andiamo
alla cappella a contemplare l'ultimo raggio del sole. Andiamo a suonare la
campana, ad inginocchiarci e ad abbandonarci con ferventi preghiere alla santa
custodia del Dio antico.
Un palazzo. Parco spazioso: canale
navigabile
Faust, cadente
per età, va passeggiando soprapensieri.
Linceo (guardiano
della torre, parla colla tromba marina). Il sole tramonta, le ultime navi
entrano sollecite nel porto. Una gran lancia sta per arrivare qui sul canale; i
pennoncelli di vari colori ondeggiano allegramente; gli alberi si alzano in
tutta la loro magnificenza; il pilota è giubilante pensando a te a cui
tutti augurano la felicità per lunghi anni. (S'odono i rintocchi
della campanella sulla duna.)
Faust (infuriato).
Maledetto scampanìo, che mi ferisce vergognosamente nel cuore come un
colpo di fucile nei cespugli! Il mio regno si stende dinanzi a me senza
confini, e consentirò io che il nemico mi derida alle spalle, e mi
rammenti con questa invidiosa campana che il mio territorio è illegittimo!
Lo spazio occupato dai tigli, quella scura capannuccia, e la cappella coperta
di muschio, non mi appartengono. Se per distrarmi, voglio rivolgere i miei
passi verso quella parte, mi sento preso da uno strano spavento. Dure spine mi
feriscono gli occhi, e spine trafiggono i miei piedi. Ah! fossi io ben lontano
di qui!
Il Guardiano
della Torre (parlando colla tromba marina come sopra). Oh! come la
variopinta lancia viene sollecita ed allegra verso di noi, spinta dalla brezza
della sera! Essa è tutta ingombra di casse, di forzieri e di sacchi! (Compare
una lancia magnifica ed elegante, con carico ricco e svariato di prodotti dei
paesi lontani.)
Mefistofele
e i tre campioni (suoi compari).
Coro. Già presso è la riva,
Sul
lido scendiam.
Di
salve e d'evviva
Al
donno e signore
Onore
rendiam!
(Scendono dalla lancia e sbarcano
tutte quelle ricchezze.)
Mefistofele. Ci siamo
comportati da prodi; felici se il padrone ci approva! Alla nostra partenza non
avevamo che due navi, ed ora entriamo nel porto con una ventina; il nostro
operato si può giudicare dal nostro carico. Il libero mare emancipa lo
spirito: chi può sapere ciò che sia la prudenza, quando si
solcano le onde? La poca gente ma ardita: ecco quanto occorre per far fortuna:
ora si prende un pesce, ora una nave; e quando si arriva ad averne tre, la
quarta ti viene in mano facilmente; in quanto alla quinta, guai per essa!
purché si abbia la forza, questa dà il diritto. Si domanda il perché e
non il come. Non voglio punto intendermi di navigazione, se la guerra, il
commercio e la pirateria non sono una trinità indivisibile.
I tre
Campioni Compari. Né grazie né saluti, né saluti né grazie! come se noi
portassimo delle immondizie! Egli ci fa una brutta accoglienza; il bottino
reale non lo soddisfa.
Mefistofele. Non
aspettate perciò nessuna ricompensa; ma prendete ciascuno la vostra
parte.
I Compari.
Tutto ciò non è che per l'incomodo; — noi pretendiamo tutti una
parte uguale.
Mefistofele. Mettete in
ordine, sala per sala, quanto avete di prezioso con voi e quando egli
verrà a contemplare il ricco spettacolo, e a rendersi conto di tutto
ciò con maggiore esattezza, voi vedrete ch'egli non farà il
pitocco, e darà alla flotta regali e feste sopra feste. Gli uccelli dal
manto variopinto arriveranno domani; io avrò cura ch'essi siano
provveduti nel miglior modo. (Il carico è interamente trasportato.)
Mefistofele (a Faust).
Colla fronte accigliata, con guardo cupo e melanconico, ascolti tu dunque la
notizia della tua suprema felicità. L'alta saggezza è coronata,
la spiaggia si è riconciliata col mare che di buon grado prende le navi
dalla riva per portarle velocemente nel loro lungo cammino. Confessa dunque che
da questo tuo palazzo, il tuo braccio si stende sul mondo intero. È da
questo luogo che ogni cosa cominciò: qui fu costrutta la prima nave, fu
scavato un piccolo fosso là ove il remo laborioso rompe oggi le profonde
e spumanti acque. L'eccelso tuo senno e l'operosità dei tuoi hanno
saputo conquistare la terra ed i mari. Da qui...
Faust. Il maledetto
è qui! mi opprime. A te, essere al quale gli spedienti non fanno
difetto, debbo confessarlo, ho l'anima sempre più esulcerata, mi
è assolutamente impossibile di andar più oltre così! Solo
a parlarne ne provo confusione e rossore. Bisognerebbe che quei due vecchi
laggiù si allontanassero; vorrei quei tigli per la mia residenza; quei
pochi alberi che non mi appartengono mi guastano il possesso del mondo. Vorrei,
perché nulla all'ingiro m'impedisse la vista, appiccare il fuoco laggiù
a quegli arbusti, e schiudermi così un vasto orizzonte per poter
contemplare tutto quanto ho fatto e con un solo sguardo abbracciare il
capolavoro dello spirito umano, popolando col pensiero, tutti quest'immensi
dominii.
Non è forse la più
aspra tortura sentire nella ricchezza, ciò che ci manca? Il tintinnio
della campanella, l'odore di quei tigli, mi stringono il cuore come se io fossi
in chiesa oppure già nella tomba. Il volere dell'Onnipotente si fa
strada anche su questi sabbioni: ho un bel farmi animo, la campanella manda un
suono ed io sono subito in preda ad una forte rabbia.
Mefistofele. È
affatto naturale che un fastidio mortale avveleni la tua vita. Chi lo potrebbe
negare? A qualunque orecchio delicato, il rintocco delle campane è
noioso e ripugnante. È quel maledetto din don din dirin don, che
agita sempre la serena atmosfera della sera, si frappone ad ogni accidente,
dalla prima abluzione fino alla sepoltura, come se fra din e don
tutta quanta la vita non fosse che un sogno vano ed inutile.
Faust. La
resistenza, la testardaggine, amareggiano la più ricca possessione;
è solo per tuo danno e per la tua tortura che lavori a metterti sulla
strada della giustizia.
Mefistofele. E ciò ti dà fastidio?
Fra tutti i tuoi progetti non vi è forse anche quello di stabilire delle
colonie?
Faust. Va, dunque,
e procura di farli sgombrare! Tu sai qual bel poderetto io abbia destinato a
quella vecchia coppia.
Mefistofele. Si levano
via di qui, si posano laggiù; e prima che abbiano potuto voltarsi
indietro, essi sono al loro posto. La violenza che sarà loro fatta
sarà dimenticata di fronte alla bellezza della loro nuova abitazione. (Manda
un fischio forte ed acuto. i tre
si avanzano.)
Mefistofele. Prendete
gli ordini del padrone, e domani vi sarà festa navale.
I Tre.
Il vecchio signore ci ha ricevuti male; e bisogna che in compenso la festa sia
magnifica.
Mefistofele (agli
spettatori). Accade ora qui ciò che accadde da lunghissimo tempo: la
vigna di Naboth esisteva già.
Notte oscura e profonda
Linceo (guardiano
della torre, cantando mentre sta alla vedetta). Nato per vedere, messo qui
per osservare, inchiodato alla torre, il mondo mi piace. Spingo lo sguardo alla
lontana, e vedo come se fossero a me vicini la luna le stelle, il bosco ed il
cerbiatto. Così io vedo in tutto la magnificenza eterna, e nella stessa
guisa che ciò mi piacque, ciò mi piace sempre. O fortunate
pupille, tutto ciò che vedeste, qualunque cosa essa sia, è
però magnifico. (Pausa.)
Non è solo per il mio diletto
che mi collocarono in questo luogo così elevato. Quale orribile spavento
mi minaccia dal seno di questo mondo di tenebre! Vedo lampi fiammeggianti
attraverso la doppia oscurità dei tigli; l'incendio si ravviva e divampa
sempre più attizzato dal vento. Ah! la capanna brucia all'interno, essa
che sorgeva umida e coperta di muschio. Si sente chiamare soccorso ma invano!
Ah buoni vecchi, che un tempo vegliavano vicino al fuoco con tanta cura
alimentato e custodito, diventano ora preda dell'incendio! Qual orribile caso!
la fiamma divampa, il cupo mucchio di muschio non è più che un
braciere di porpora. Possa almeno quella brava gente salvarsi da quell'inferno
incandescente e furioso! Vivi lampi s'accendono, fra i cespugli, fra il
fogliame; i rami secchi che ardono scintillando, si accendono in un batter di
ciglio e vanno in cenere. Toccava dunque a voi, o miei occhi, di fare una
simile scoperta! Perché mi fu dato di spingere lo sguardo così lontano?
La piccola cappella crolla ad un tempo sotto la caduta ed il peso dei rami;
acute fiamme serpeggiano già intorno alla cima degli alberi. I ceppi vuoti e scavati s'infiammano
fino alla radice, mostrando una tinta rossastra. (Lunga pausa. Canto.)
Il paesello così bello allo
sguardo si è dileguato coi secoli.
Faust (alla
finestra che dà sulla duna). Quali lamentevoli accenti scendono
dall'alto! grida e gemiti giungono troppo tardi qui. La mia sentinella si
duole, e questo dolore mi conturba il fondo dell'anima. La piantagione dei
tigli è annientata, non ne rimane altro che un orribile mucchio di rami
riarsi e consunti; ma noi avremo fra poco un belvedere dal quale l'occhio si
spingerà nell'infinito; da quella parte vedrò pure la nuova
dimora di quella vecchia coppia, che nel sentiménto della mia magnanima
clemenza, passerà in pace i suoi ultimi giorni.
Mefistofele
ed i Tre (dal basso). Noi ritorniamo di gran corsa. Perdonate! le
cose non riuscirono troppo bene.
Abbiamo bussato a quell'uscio, ma non
venivano mai ad aprire: allora abbiamo atterrato l'uscio, il quale tutto
rosicchiato dai tarli cadde sul pavimento. Abbiamo avuto un bel chiamare,
minacciare, ma o non ci udivano o facevano mostra di non sentire; noi allora
senza perder tempo te ne abbiamo liberato. La coppia non ha opposto una gran
resistenza; essi caddero estinti e ciò fu cagionato dallo spavento. Un
forestiere che si trovava colà e che cercò di resisterci, fu da
noi freddato, e durante il breve intervallo scorso nel furioso combattimento, i
carboni accesero la paglia sparsa intorno. Ora tutto ciò brucia
liberamente come un rogo preparato per tutti e tre.
Faust. Ho io dunque
parlato a sordi? Voleva una permuta e non già uno sperpero ed un
devastamento. Quest'atto sciagurato e brutale, io lo disapprovo e lo maledico!
Abbiatene ciascuno la vostra parte.
Coro. L'antica
parola dice: obbedisci volonteroso alla forza! e se tu sei deciso, se vuoi
sostenere l'assalto, metti a repentaglio la tua casa, il tuo focolare. — e te
stesso. (Escono.)
Faust (dalla
finestra). Le stelle velano i loro raggi ed il loro chiarore. Il fuoco
diminuisce; un venticello che fa fremere lo attizza e mi porta qui il fumo ed
il vapore. Fu un ordine dato in un attimo, ed eseguito troppo presto! — Chi
è che svolazza così vicino a me coll'aspetto di uno spettro?
Mezzanotte
Quattro Donne s'avanzano vestite a bruno.
La Prima. Io sono la
Colpa.
La Seconda. Io la
Penuria.
La Terza. Ed io sono
chiamata l'Affanno.
La Quarta. Io porto il
nome di Miseria.
A Tre. L'entrata
è chiusa, e sarebbe affatto inutile sperare che l'ospite ce l'apra. Qui
abita un ricco, non vogliamo andar dentro.
La Penuria. Ricco?
Là dentro io non sarei che un vuoto fantasma.
La Colpa. Io vi sarei
ridotta al nulla.
La Miseria. L'uomo
amico della fortuna distoglie con orrore lo sguardo da me.
L'Affanno.
Voi, o sorelle, non potete certamente varcare quella soglia — né ardireste di
farlo; l'Affanno solo saprà entrarvi dal buco della serratura. (L'Affanno
scompare.)
La Penuria. O mie
livide sorelle! Fuggiamo di qui.
La Colpa. Io
camminerò al tuo fianco nella deserta pianura.
La Miseria. La Miseria
non si separò mai da voi.
A Tre. Le nubi
girano nel cielo e col loro velo nero nascondono il tremante fulgore delle
stelle. Avanti, avanti dunque! Ecco laggiù, laggiù compare da
lontano la nostra sorella: la Morte viene.
Faust (nell'interno
del palazzo). Ne vedo fuggire tre sole, eppure esse arrivarono qui in
quattro. Le loro voci mi erano sul principio sconosciute, mi sembrava ch'esse
dicessero: — Miseria — Affanno, e che gridassero più forte: — Morte,
Morte! Si udivano tenebrose e profetiche parole, e perciò tento invano di
calmare il mio spirito sconvolto. E tu,
o magia, ti avrò dunque sempre sui miei passi? tu che mi segui come
un'ombra? Oh! quando potrò io dimenticare le tue innumerevoli formole e
quegli scongiuri in cui ebbi tanta fiducia? O natura, fossi io un uomo dinanzi
a te; la vita sarebbe per me una suprema voluttà. (Pausa.)
Un uomo! Ah! me infelice! Non lo era
io forse un tempo prima che io avessi maledetto con orribile bestemmia la
terra, il mondo e me stesso? prima di aver tentato di scrutare nelle tenebre?
L'aria è così piena di terrori e di forme insensate che sarebbe
vana ogni speranza di fuggirle. Se durante il giorno i tuoi pensieri trovano
una breve calma, la notte si affretta a giungere coi suoi mille e mille
fantasmi. Nella serena notte d'aprile al raggio amico della luna, tu ritorni
gajo e felice dai campi. Si ode l'uccello cantare fra i rami ed ora che canta
egli mai? Pianto e sventura! La superstizione ci circonda senza posa, ci
avverte e ci parla in segreto! E l'uomo
resta triste e spaventato... la porta stride sui cardini, e nessuno comparisce.
(Spaventato.) Olà c'è qualcheduno?
L'Affanno.
Precisamente.
Faust. E chi sei tu?
L'Affanno.
Sono io.
Faust. Va via di
qui!
L'Affanno.
Devo rimaner qui.
Faust (sdegnato
sulle prime, indi comprimendo la bile). Rimani dunque, ma procura che io
non oda proferire una sola parola di magia.
L'Affanno.
Se l'orecchio non sente la mia voce, io parlo sommesso, sommesso al pensiero; e
cangiando spesso forma dimostro quanto sia grande il mio potere. Cupo e pallido
io vengo ad ogni istante senza essere invitato e sto al vostro fianco; e nel
giorno stesso in cui l'uomo mi ha maledetto, lo vedo pure a vezzeggiarmi. Non
conosci tu ancora l'affanno?
Faust. Io percorsi
il mondo intero, soddisfacendo i miei tanti desideri; tutto quanto mi
sembrò inutile al bisogno della mia vita fu da me respinto e
disprezzato; lasciando sfuggirmi di mano tutto ciò che non fui capace di
trattenere. Il desiderio, l'azione, poi ancora il desiderio, ecco quale era la
mia vita, ahi lasso! Allora essa era florida, maschia, possente ed attiva, ed
ora invece essa è pigra, pensosa ed incapace di soddisfare i suoi mille
desiderii. — Io conosco tutta la terra, e so pure che i miei rimpianti avranno
un fine coll'estremo orizzonte. Folle è colui che cerca la luce colle
ciglia offese, colui che si tormenta e sogna il suo simile oltre le nubi, oltre
il sole! Insensato! volga egli lo sguardo intorno e si fermi; la terra non
è mai muta per il saggio. Perché vuol egli errare nell'eterno vuoto?
Ciò ch'egli sa, egli lo apprende senza rapirlo al cielo. Ch'egli cammini
così durante il breve tempo chiamato vita, e se egli scorge nell'aere
sereno degli spiriti vaganti prosegua egli la sua via senza meravigliarsene; egli troverà così la felicità ed il dolore, lui i
cui istanti sono già anticipatamente condannati.
L'Affanno.
Se condanno un mortale agli strazi, egli non si cura più del mondo; la
notte lo circonda, ed egli ignora le meraviglie dell'aurora, la porpora e l'oro
dell'occaso. Mentre l'anima esulta di una suprema felicità la notte
terribile, affannosa e prepotente scende, s'impossessa di quel povero cuore.
Infelice, la sua vita intiera è un eterno sospiro. Egli non può
godere i tesori della terra; la felicità e la sventura lo importunano
del pari; nei conviti egli resta mal sazio; rimette all'indomani il duolo e la
festa; l'avvenire solo lo preoccupa. Egli corre e caccia notte e giorno e
l'occasione che passa non lo trova mai pronto.
Faust. Basta!
basta! — Non potrai farti vanto di avermi preso al laccio, gioja mia! — Esci! —
Non voglio udire più oltre la tua canzone! — Parti! La tua ingrata
litania è tale da turbare il più sano cervello.
L'Affanno.
Egli non m'intende; che fare? devo io camminare più presto? oppure tocca
forse a lui di fermarsi? Egli mi sembra indeciso. Dubita, teme ed il coraggio
gli fa difetto, l'abisso si spalanca dinanzi a lui; vede il male che lo
travolge; egli riconosce distintamente le sue angosce e le altrui, il respiro
gli muore nella strozza. L'infelice non sa e non può dire se in questo
martirio l'anima sua dispera o crede ancora. L'indolenza, il rimorso, lo
stento, la schiavitù, la libertà, breve sonno, amaro risveglio;
così scorre per lui la vita, e compita la catena dei guai egli si
vedrà cadere nell'averno.
Faust. E che? Spettri schifosi! è
dunque fatal destino che voi tormentiate così la povera razza umana? che
perseguitiate la nostra povera esistenza con tante orribili sciagure!
Abbominati demoni che ci state sempre dinanzi, l'uomo cerca invano di
difendersi da voi: ché lo avvinghiate sempre più forte, e non vi
è forza né ardire che possano spezzare i vostri crudeli lacci. Eppure, o
Affanno, per quanto grande possa essere il tuo potere, il mio spirito non vuoi
riconoscerlo.
L'Affanno.
Non vuoi riconoscerlo? — E partendo
io ti colpisco colla mia maledizione; essa ti sta già tremenda sul capo.
Fra i ciechi mortali dovrai vivere cieco tu pure, o Faust. (Gli soffia nel
viso.)
Faust (diventa
cieco). La notte si fa sempre più scura e più profonda, ma la
luce si spande sempre più viva sul cuore; ora sia il mio segreto palese
al mondo, la parola ha solo senso per colui che l'ha concepita. Suvvia, su!
miei servi, — all'opera! È giunta l'ora in cui si deve mostrare tutto
quanto io volgevo nella mia mente. Olà, mano alla vanga! alle pale! alle
picche! coraggio! siate solleciti ad obbedirmi, e ne avrete un giusto premio.
Perché si veda compiuta la più grande e la più sublime delle
imprese basta una mente ed un braccio solo per mille.
Il grande cortile nel palazzo
Fanali.
Mefistofele, sul
proscenio in tuono d'ispettore.
Venite, o Lemuri! o corpi sciancati,
ignudi scheletri mostri che siete; venite qui, ibride larve formate d'ossa, di
tendini e di nervi.
I Lemuri
(in coro).
Al lavoro con teco moviam;
Che
si voglia già in parte sappiam;
Questo
largo paese ove siam,
Occupar,
dominare dobbiam.
D'aguzzi pali — la terra è piena;
Là
pel livello — v'è la catena.
Chi
n'appella e scongiura, in sì ridente
Soggiorno
omai più non abbiam in mente.
Mefistofele. Qui non si
tratta di sforzi straordinari; ciascuno di noi proceda secondo le regole. —
Qual è più lungo, si distenda per tutta la sua lunghezza; e voi
altri strappate l'erba; come si fece per i nostri padri, scavate in quadro! Dal
palazzo alla fossa così va ingenuamente il mondo.
I Lemuri
(scavando la terra, con gesti maliziosi).
Mentre
ch'io vissi, gioventude, amore
Eran
cose per me soavi e belle:
E
dovunque rosai erano in fiore,
O
s'udieno cantar vispe donzelle;
Così
tutto prendeami un pizzicore,
Che
il lascivo mio piè correva ad elle:
Poscia
a smorzar l'impetuoso ardore
Repente
mi segnò colle stampelle
La
vecchiaja importuna, e il dì fu quello
Che
spalancossi l'uscio dell'avello.
Faust (uscendo a
tentoni dal palazzo, mostrasi fra i pilastri della porta d'ingresso). Il
rumore delle vanghe mi rende felice! Ecco la moltitudine che si affanna per me.
La terra alleata con se stessa, segna un limite ai flutti, e contiene il mare
con brevi ripari.
Mefistofele (in
disparte). È per noi che tu lavori colle tue dighe e coi tuoi
canali; e prepari un gran festino a Nettuno, il demone delle acque. In ogni
modo voi siete perduti; — gli elementi sono contro di voi; tutto cammina verso
la distruzione e la rovina.
Faust. Ispettore!
Mefistofele. Eccomi!
Faust. Procura che
si accrescano gli operai per quanto è possibile; assegna ricompense,
infliggi castighi, sii generoso nelle mercedi, attira la gente ed eccitala al
lavoro! Voglio che ogni giorno mi si dica come procedono i lavori del nostro
fossato.
Mefistofele (a mezza
voce). Da quanto intesi dire, non si tratta di fossati, ma bensì di
fossa.
Faust. Uno stagno
ai piedi della montagna m'infetta colle sue esalazioni gli acquisti già
fatti; l'asciugarlo è per me un affare del massimo interesse. Io apro
uno spazio per miriadi d'uomini che verranno ad abitarlo, se non rassicurati
con certezza che non ammette dubbio, almeno colla speranza di goderci la libera
attività dell'esistenza. Dalle verdeggianti e feconde campagne, uomini e
greggi vengano a bell'agio sul nuovo terreno e stanzino luogo la collina dove
formicola una popolazione ardita ed industriosa. Nel centro c'è qui un
paradiso. Imperversi pure il tempestoso flutto là fuori fino alla riva:
ma se gli saltasse il ticchio di rompere violentemente gli argini, allora la
folla si precipita per rinforzarli. Sì, io mi sento votato a quest'idea,
ultimo fine di ogni saggezza. È solo degno della libertà e della
vita colui che sa conquistare ogni giorno. Così in mezzo ai pericoli che
lo circondano, qui il fanciullo, l'uomo ed il vegliardo vedano passare
bravamente i loro anni. Oh! perché non mi è concesso di vedere una
simile attività, di vivere in terra libera, in mezzo ad un popolo
libero! Allora non tarderei ad esclamare: Sii lenta a scorrere, o vita, bella
come ti mostri! La traccia della mia giornata terrestre non può essere
inghiottita dall'Eunoè. — Nel presentimento di una simile e sublime
felicità, io assaporo ora la gioja di quell'ora ineffabile. (Cade
bocconi; i Lemuri lo prendono e lo coricano sul terreno.)
Mefistofele. Nessuna
voluttà lo sazia, nessuna felicità può soddisfarlo; egli
insegue nella sua demenza forme impalpabili; l'ultimo istante, misero ed
abbietto, l'infelice vorrebbe abbrancarlo perchè non passi: ma colui che
parve sì coraggioso nel resistermi, vien trascinato dal tempo; il
vegliardo giace là sulla nuda terra, — l'orologio si ferma.
Il Coro. L'orologio
si ferma! egli è silenzioso come l'ora di mezzanotte! L'ago cade.
Mefistofele. Cade, e
tutto è consumato.
Il Coro. Tutto
è finito.
Mefistofele. Finito!
stupida parola! Perché finito? finito e nulla sono la stessa cosa. — Che cosa
significa dunque l'eterna creazione, se tutto ciò che venne creato deve
ridursi nel nulla! — Là tutto è finito! — Che cosa si deve concludere
da ciò? che è né più né meno come se non fosse mai stato,
eppure ciò s'agita e si muove come se fosse qualche cosa. In fede mia,
io preferisco il mio eterno vuoto.
Canto
funebre.
Un Lemure (solo).
Chi mi preparò una casa sì malsana a gran colpi di vanga?
I Lemuri
(in coro). Questo asilo è ancora troppo bello per chi fu fasciato
nel ruvido lino.
Un Lemure (solo).
Quale atmosfera densa e muta! dove sono gli arnesi domestici?
I Lemuri
(in coro). Erano d'altri; e quando il fitto fu scaduto, il padrone venne
a riprenderli.
Mefistofele. La salma
giace, e se lo spirito cerca di fuggire, io gli presento il mio titolo scritto
col sangue. Ma vi sono oggi tante arguzie per rapire le anime al demonio!
L'antico giuoco non va più, e del nuovo abbiamo pochissima pratica.
Altre volte avrei potuto trarmi d'impaccio da me solo, ma ora mi occorrono
compagni nell'opera. — Oh miseria! Tutto va male, tutto va alla peggio! — Chi
potrà mai fidarsi ancora all'usanza ed all'antico diritto? In altri tempi
l'anima sfuggiva nell'ultimo sospiro, io la spiavo e, come il gatto fa col
sorcio, l'afferravo coi miei artigli. Ma ora essa rimane nel suo covo schifoso,
s'avvinghia al cadavere e non finisce mai colle sue incertezze; essa attende
che gli elementi che si odiano la scaccino finalmente con onta ed ignominia.
Invano cercherei di calcolare il giorno e l'ora; quando? dove? e come? Ecco una
questione difficile! La morte non avrebbe più il suo potere subitaneo?
Il sì stesso è dubbio da lungo tempo; chi lo sa?... Ho
spesso guardato con ansia delle membra intirizzite sul suolo; — apparenza! esse
si muovevano ad un tratto e palpitavano di nuovo! (Gesti di fantastici
scongiuri al modo di un capofila.) Ora, signori, in guardia! di grazia, voi
dalle corna dritte e dalle corna a chiocciola, veri diavoli di antica tempra,
schiudete tosto un baratro dell'inferno; all'inferno non mancano i baratri e le
celle; egli sa inghiottire ciascuno secondo il suo rango; l'avvenire
avrà meno scrupoli a questo proposito. (La gola dell'inferno s'apre
orribile a sinistra.) L'immenso gorgo si spalanca; le vampe traboccano
fuori a torrenti, ed il mio sguardo vede attraverso a densi vapori il ribollire
continuo della città del fuoco. L'incendio ondeggia, tuona e sibila. I dannati sperando il perdono si
alzano nuotando fino all'orlo della voragine emettendo urla e rantoli orribili.
Ma essa si rinchiude e li stritola, ed essi allora scendono il doloroso
sentiero gridando e gemendo. Oh! quanti sono i dolori in quest'andito in cui mi
tuffo! Oh! quante onde infuocate e quanti martiri in breve margine! Voi fate
veramente bene a destare un vivo sgomento nell'animo dei peccatori che chiamano
tutto ciò menzogne e gherminelle. (Ai diavoli corpacciuti dal corno
breve e dritto.) E voi, melensi
dalla gran ventraja, dalle gole tumide, o porci stupidi, grassi per il
soverchio cibo di bitume e di zolfo! o vive fiaccole il cui grosso collo
s'incaverna nelle spalle, non tralasciate di spiare laggiù, perché se
qualche cosa splende, scintilla, fuma, od un palpito di fosforo vi si palesa,
è l'anima, intendete! Psiche
è colei che batte le ali, raggiante farfalla, aggraziata fanciulla;
incarnate in essa le vostre ugne, ed essa sarà repentinamente un lurido
verme. Io voglio segnarla col mio incancellabile marchio: indi si corra intorno
ad essa in mezzo ai turbini di fiamme! E
voi, ventracci, otri, infocate il fondo della voragine e sorvegliate
bene, è vostro dovere. Se l'anima si trova là dentro, lo si
saprà forse un giorno. Ma l'umbilico mostrerà ch'essa si trova
bene laggiù. Olà! ora siate guardinghi e badate che non esca
dalla fessura. (Ai diavoli sciancati dal corno lungo ed attorto.) E voi, caporioni, manuali
dell'inferno, attenti allo scandaglio! Stendete le vostre braccia, tirate fuori
gli unghioni, e se la vedete dibattersi nell'aria afferratela al volo! io ve lo
comando! ella sta certamente addolorata nel vecchio bugigattolo; ma essa ne
fuggirà ben presto, perché il genio è impaziente di spiccare in
alto il volo.
(Spiriti celesti che scendono dalle
regioni superiori a dritta.)
Coro.
Falangi beate,
Arcangeli
santi,
Essenze
leggére
Di
ben messaggere,
Sollecita
aita
Recate
— a' mortali,
Che
oppressi da' mali
Gementi
— preganti,
Trascinan
la vita!
Giù
rapidi a volo
Scendete
accorrete!
Al
gelido frale
Rendete
— o celesti
Lo
spirto immortale!
E
al vostro passaggio
Lo
sguardo s'accenda
Di
vampe d'amor;
E
amica discenda
La
grazia nei cor.
Mefistofele. To', quali
stridule grida e quali voci di mal agurio scendono da lassù! Spiacevole
cinguettìo, canti d'ermafrodita che potrebbero solo rallegrare un
sagrestano! Voi sapete che laggiù nelle nostre ore dannate il nostro
cuore è invaso dal desiderio di struggere l'universo, e più
inventiamo cose sfrenate, più la vostra pietà se ne rallegra.
Ecco che si avanzano quatti quatti! Canaglia!
E dire che io lavoro spesso per loro e che mi strapparono dalle mani la
già ghermita preda! Noi abbiamo per agire lo stesso ingegno e le stesse
arti, e ci facciamo la guerra colle stesse armi; essi sono demoni come noi, ma
demoni incappucciati. Non possiamo indietreggiare senza vergogna; dunque alla
fossa! e saldi all'opera.
Coro d'Angeli (spargendo rose a piene mani).
Rose purpuree,
Candide
rose,
Che
i venti aggirano
Vaghe,
odorose,
Immacolate,
Di
verdi gemme
Rose
adornate;
Rose
di fiamma
Per
che lo spirito
Forte
s'infiamma;
Per
che si destano
I
bei desir;
Il vago calice
Un
po' schiudete,
E
in larga piova
Quivi
traete,
Rose,
a fiorir.
Fresco, gentile
Spunti
l'aprile;
Chiuse
a beato
Sonno
ha le ciglia!
Di
sparse foglie
La
terra veggasi
Tutta
giuncata.
Tutta
vermiglia:
E
gl'ineffabili
Gaudi
ed il riso
Che
l'alme godono
In
paradiso
Trovi al destarsi
D'intorno
sparsi!
Mefistofele (ai
diavoli). Perché vi vedo io a tremare da capo a piedi? È forse
questa un'abitudine dell'inferno? Oh stupidi! restate immobili nei vostri
ranghi ed affrontate i nemici con intrepidità. I chiericucci credono veramente di provocarci: e si vantano
già di vincerci con quei fracidi fiori ch'essi gettano sulla terra!
Vincere noi diavoli avvezzi a resistere al fuoco! Attenti! Attenti! Mandate
colle gote un forte buffo, tale da sparpagliare tutti questi nonnulla! — Basta!
basta! basta! I giovinetti hanno
impallidito. Ora chiudete le vostre orride boccacce, e state tutti quieti! —
Avete soffiato troppo forte, imbecilli! Non saprete dunque voi mai contenervi
nei limiti? Maledizione! tutto quanto doveva essere sperso, arde e divampa, e
la fiamma eterea pronta ad innondarci, turbina nell'aria. Andate al vostro
posto e facciamo buona guerra!... I demoni
privi di forze e di coraggio sono ormai ebri sotto l'influsso di questo intenso
e carezzevole fuoco.
Gli Angeli. O fiori lucenti,
O
fiamme felici,
In
queste pendici
Recate
l'amor!
Di
gioja languenti
Si
mostrano i cor.
Del giorno la luce
Per
tutti riluce;
De!
Verbo si spandano
Sull'alme
i tesori
Mefistofele. Oh bile! Oh
scandalo! Essi volteggiano sgominati sulla mia testa, fanno la ruota per aria e
piombano giù nell'inferno! Andate, o maledetti, e che il diguazzarvi
nelle fiamme sia per voi un piacere. Io solo resto impavido al mio posto, io
solo combatterò. (Dibattendosi fra un denso nuvolo di rose.) O
fuoco fatuo, indietro! va pure! potrai risplendere a tuo piacere; queste
fiammelle si provino a scintillare più vivide per quanto lo consente il
loro potere! Alfin sei mio, capoccino! Ah! tu vorresti svincolarti e ritornare
nell'aria! ma no... Misericordia! Ahi! il folletto s'incolla al mio cocuzzolo,
ahi! ahi! è pece! è zolfo!... Inferno! oh spasimo!
Gli Angeli (Coro.)
All'astro
felice,
Fratello
ten vai
Ché
sol si consente
Non
prendati mai
Vaghezza
di quanto
Di
pianto — è cagione
A
lui che ripone
Sua
speme lassù.
E allora,
se accada
Che
tedio t'invada,
Noi
spirti celesti,
Apostoli
santi,
Farem
che si desti,
Correndo
a' tuoi pianti
L'antica
virtù.
Che sol si consente
L'eterno
splendor
All'anima
ardente
Nel
foco d'amor!
Mefistofele. Tutto il
cervello è in fiamme, il sangue mi bolle nelle vene; questo elemento
è veramente assai più che diabolico! le vampe stesse dei dannati
sono assai meno ardenti! Ora comprendo gli spasimi dell'amore. Poveri amanti!
ora mi è dato di conoscere il martirio che vi strazia; o voi il cui
cuore sanguina ad una parola, ad un atto od un sorriso di colei che idolatrate;
voi che turbati e melanconici, implorate torcendo il collo il perdono e la
grazia di colei nell'istante in cui ella vi disprezza maggiormente. Ed io per
qual destino sono congiunto alla vostra misera schiera? O Amore, non ti giurai
io forse un odio implacabile? Quel tuo sguardo svenevole non è forse per
me un atroce supplizio? Quale incognita dolcezza invade ora l'animo mio! Da che
cosa proviene il piacere che provo, guardando il nobile aspetto, il volto, le
venuste e candide membra di questi garzoncelli dai capelli d'oro? Perché non
saprebbe ora il mio labbro proferire una bestemmia? — Ma se oggi sono
così fatto ludibrio dell'arte magica, chi dunque sarà più
pazzo in avvenire? Non importa; sono troppo belli quei bricconi che ho odiato
finora! (Agli angeli.) O miei vaghi giovani, non vi spiaccia rispondermi.
Ditemi, non siete voi pure della razza di Lucifero? or via! venite più
vicino, più vicino ancora, perché io voglio stringere fra le braccia voi
così freschi e belli. Al diletto che provo nel solo vedervi mi sembra di
aver già vissuto in vostra compagnia! Più il mio occhio vi
contempla e più esso vi trova amabili, aggraziati, teneri e seducenti, e
le polpute e morbide vostre forme io ammiro e vagheggio sempre più: e
più le mie ardenti vene divampano dei segreti desiderii del gatto che va
in amore. Di grazia! avvicinatevi e volgete verso di me uno sguardo almeno dei
vostri vividi occhietti! (Gli angeli si sparpagliano da ogni parte nell'aria.)
Gli Angeli.
Or
come va, che tu ci chiami, e poi
Fuggi
il nostro drappel che ti circonda,
E
vieppiù ti si accosta? Or sta, se puoi!
(Gli angeli si avvicinano
occupando tutto quanto lo spazio.)
Mefistofele (in
dietreggiando fin sul palcoscenico). Ah! fattucchieri, voi siete avvezzi a
chiamarmi demone mentre siete così furbi e pratici a tessere sortilegi,
o incantatori d'uomini e di donne! Oh! maledetta avventura! — Sarebbe forse
questo il solletico dell'amore? D'amore? tutto il mio corpo è in fiamme.
Io sento appena quell'indiavolato tizzo cadutomi sulla nuca da lassù. —
Ahi! infame tradimento! — esso d'allora in poi non finisce di ardere. Voi
gironzate qua e là per i1 candido fulgore, ma abbassatevi un poco, come
l'uccello scende sui rami. Oh! come siete belli e perfetti, o angioli di
voluttà! Vorrei solo vedervi prendere atteggiamenti più mondani e
più languidi. Quel severo contegno ben si confa colle vostre rosee
membra, non lo nego; ma in fede mia, un bel sorriso vi starebbe assai meglio, e
ne proverei un'estasi tale ch'essa non avrebbe più termine. Intendo per
sorriso quell'allegra smorfia fatta dagl'innamorati quando si guardano
sottocchi, corrugando lievemente la bocca senza che lo studio vi abbia alcuna
parte perché si forma da sé. Ohe! ohe! tu mi sembri un vagheggino pretto e
consumato, tu, mio gran furbaccio! E quanto
più si avanzano le tue legioni, più ti vedo fatto a mio genio:
sebbene io abbia in uggia quel tuo fare da chierico. Guardami con sguardo un
po' più maliziato! Potresti certamente senza offendere le leggi del
pudore, o mio bel zanzero, denudarti un po' più e sbarazzarti dell'impaccio
di questa immensa tunica che ti avvolge e ti soffoca. Essi si voltano...
Benissimo! Si trattenga chi può... l'amore mi dà una tanta
smania... I cattivelli mi
accendono col loro atteggiamento in guisa che vado in solluchero!
Coro di
Angeli. Viva
fiammella
Di
puro ardor,
L'ala
tua bella
Volgi
al soggiorno
Del
santo amor!
Per quanto il mondo
Girasi
a tondo,
Del
giusto sola
Può
la parola
I
lacci sciogliere
D'un
tristo cor.
Del
tentatore
Sfugga
agli agguati
Chi
anela vivere
In
fra' beati!
Mefistofele (rientrando
in sé). Ora donde proviene questo? che m'avvenne? ahi misero! Ora sono
tutto una piaga, e le ulceri pullulano come fiori d'acero. Io, come Giobbe un
giorno, faccio schifo a me stesso. Non importa! io solo trionfo e sono ancora
diavolo! Quest'orribile spettacolo mi richiama alla ragione... e saprò
trarre profitto della lezione, o sciagurati: d'ora in poi staremo in guardia.
Ho salvato la miglior parte di Satana; questa febbre d'amore colpisce la sola
cute; io vedo già spegnersi l'atroce fiamma di quest'esecrabile
flagello, e possa, come lo meriti, o razza d'ermafroditi lanciarti il vituperio
e la bestemmia in faccia.
Coro d'Angeli. Mirabil estasi!
Chi
in te s'accende
Già
in Dio s'inebria,
Già
Dio comprende.
A
schiere a schiere
Riedasi
al ciel!
In
laudi e cantici
L'ardor
disfoghisi
Che
il gaudio inspira;
Azzurro
è l'etere:
Alfin
respira
L'alma
fedel!
(S'ergono a volo, seco recando la
parte immortale di Faust.)
Mefistofele (volgendo
intorno lo sguardo). Ed ora, dove sono essi? — O sciocco, o zotico! che ti
lasci sorprendere così da un piccolo drappello di fanciulli! guarda!
essi fuggono!... e portano lassù quel tesoro che tu, o folle, non
sapesti difendere. Ti è alfine chiaramente palese ch'essi vennero
dall'oriente tratti dall'odore di questo ghiotto boccone. L'anima legata a te
con un patto ti fu da essi rapita silenziosamente, e così tu perdi il
maggiore dei tuoi beni! E lo
perdi per sempre! Oh! chi, chi potrebbe renderti il tuo diritto, o miserabile?
Sebbene inoltrato negli anni, o Satana, essi ti hanno ingannato e deriso! E ben ti sta... confessa chiaro e
tondo che in quest'impiccio il tuo contegno fu quello di uno stupido! O fatiche
inutilmente fatte! Cure e fastidi inutili!
E tutto, oh mia vergogna! tutto il mio presente danno proviene da uno
scempio desiderio, da un amorazzo inconcepibile che entrò nel cuore, a
me, intonacato e lurido di pece e di ragia! Ora si può arguire da
ciò, che l'uomo accorto se si lascia un bel giorno sedurre da questi
stupidi, dovrà finalmente piangere la sua stoltezza.
Dirupi, boschi, rocce, luoghi
solitari
Santi anacoreti, dispersi qua e
là sulle alture dei monti
e ricoverati nei crepacci del granito
Il Coro e
l'Eco.
De' turbini a seconda
Sui
massi di granito il bosco ondeggia,
Ove
stan le radici abbarbicate;
E
spessa in fino al ciel bella corona
D'alberi
annosi intorno lo circonda.
Un'onda
mormorando un'altra incalza,
Nel
sen d'orrida balza
Si
schiude ampia caverna,
Ed
il lion tacente
S'aggira
intorno solitario e cheto
Portato
dal desio che lo governa
Di
questo asil segreto
Quasi
al sacro mistero ei renda onore,
Mister
tutto d'amore!
Pater
Extaticus (vagando or sulle alture, or al basso).
Dive fiamme cocenti,
D'amor
vincoli ardenti,
Doglia
atroce che il petto ange e martira
Anelante
a quel Dio e che a sè mi tira!
O
folgori, o catene, o lance, o strali
Me colpite!
Me stringete!
Me ferite!
Me pungete!
Ma
di colpi e di punte aspri e mortali,
Così
che il periglioso
Fral
nella tomba alfine abbia riposo:
né
altro resti di me, che il dio fulgore
Ove
s'imperna l'eternale amore!
Pater
Profundus (da una regione al basso). Come la rocca eterna che passa
sul profondo abisso, come l'onda che all'onda si mesce nell'orribile
inondazione, come la magnifica quercia che si solleva repentinamente nell'aria
per forza arcana, così l'amore possente, che tutto informa e nutre, al
cielo ci guida. Odo un immenso e selvaggio fragore intorno come se le foreste e
gli enormi massi di granito a somiglianza dell'oceano, vagassero per il cielo!
In mezzo allo strepito si avanza la
piena degli agitati flutti per fecondare gli aperti campi. La cascata che di
balza in balza si frange spumeggiando, e la divina folgore che percorre lo
spazio e purifica l'atmosfera dei pesanti vapori che ci velavano il giorno, che
cosa sono essi se non messaggeri d'amore? Essi annunziano a tutti questi forza
profonda che sempre operosa, abbraccia l'universo. Oh! arda ella dunque nel mio
seno dove il mio spirito, triste, inquieto e gelido soffre e si accascia,
imprigionato nella chiostra dei sensi e oppresso dalle catene della terra! Oh
Signore, dà pace ai miei pensieri! ed a questo cuore che geme risplenda
la sospirata tua luce!
Pater
Seraphicus (regione media). Qual nebbia porporina ondeggia in mezzo
ai rami degli abeti? Ah! il core ben lo indovina: sono queste le beate schiere
dei fanciulletti portate dal desio della viva luce; il giovine coro degli spiriti
eletti!
Coro di
Fanciulli beati.
Dinne,
chi siamo? o a quale
Parte
drizzato, o padre, è il nostro volo!
Felice
ed immortale
È
ognun di noi; che solo
Dell'esser
nostro vaghi,
Nulla
ha il mondo oggimai che più n'appaghi!
Pater
Seraphicus. Usciti appena alla luce del giorno, saliti al cielo dal grembo
della madre a mezzanotte, ed aggiunti alle schiere degli angioletti; sentite
voi dunque l'appressarsi di un Ente pieno d'amore? Andategli incontro e che il
vostro cuore non sia turbato dal timore, o voi felici fanciulli morti innanzi
tempo. Voi, affatto ignari dei guai della terra, scendete tutti nelle mie
pupille e mettetevi a contemplare questa regione dal luogo dove più vi
aggrada! Ecco dinanzi a voi montagne e piante; eccovi rupi coperte di neve; ecco
un torbido torrente che spumando affretta il suo corso per aspri dirupi.
I Fanciulli
beati (dal fondo del suo cervello).
Bello a veder, ma di mestizia pieno
Luogo
ne pare orribile, selvaggio!
Trema
di freddo e di paura il seno;
O
buon padre, ne dà che il bel viaggio
Ricominciam
per l'etere sereno!
Pater
Seraphicus (ridonando ai pargoli il volo). Andate verso più
sublimi vertici fino ai cerchi estremi della luce, crescete sempre attoniti del
come, ignoto a tutti, come avviene fra i celesti. Andate sempre più
rapidi per l'azzurrino vuoto attratti dalla somma virtù della
divinità che è pascolo dell'anima! essa è colei che vaga
nell'etere; essa è colei che apprende i santi pensieri alle menti ottuse
dei mortali; essa è colei che sola prepara la tazza nella quale si
diffonde l'estasi del primo vero.
Coro dei
Fanciulli beati (che sorvolano a tondo le alture più sublimi).
Ridutti a cerchio,
O
garzonetti.
Delle
manine
Formiam
catena!
E
senza fine
Da'
nostri petti
Escan
divote
Celesti
note.
Noi
di supreme
Gioje
beati!
Noi
dalla speme
Rassicurati!
Il Re de' santi
Sempre
si celebri,
Fin
che gli piaccia
Al
beatifico
Della
sua faccia
Eterno
riso
Noi
pure raccogliere
In paradiso!
Gli Angeli (aggirandosi
in un'atmosfera superiore, seco traendo la parte immortale di Faust).
Osanna, e gloria! alfin ritorna in vita
Chi
già stette agli spiriti in balìa;
Sol
questa a chi l'età non ha compita
Noi
rechiam di salvezza unica via
E
se la grazia di lassù lo invita,
Di
beati ver' lui schiera s'avvia;
E
scioglie all'alta sua ventura un canto
Colla
gioja nel cor, negli occhi il pianto.
Gli Angeli
Novizi.
Le rose — rugiadose
Che
vostra man cogliea,
O
eletti, a cui l'amore
Il
cielo un dì schiudea,
Ben
fur mezzi possenti
Per
noi cherubi ardenti
Onde
al supremo Amore
Quest'alma
sollevar.
Dell'anime tesoro
Che
ci rechiamo a vanto
Dei
Santi innanzi al Santo
In
coro — accompagnar.
Elle vincean le squadre
Degli
angioli rubelli:
Che invece dell'eterno
Foco
che li divora,
I
luridi demóni
Sentîr,
ma per brev'ora,
Gli
spasimi d'amor.
Satana che superbo
S'infinge
indifferente.
Non
resse al primo assalto,
E
divampò repente.
Or
nel perpetuo orrore,
Negl'infiniti
pianti
Lo
ricacciò il Signore.
Alleluja!
si canti;
Ei
solo, il vincitor.
Gli Angeli
Primitivi.
Dura
impresa è la nostra a trar codesto
Velo
mortal su per l'eterea via;
Foss'ei
pure d'asbesto,
Impuro
tuttavia.
Quando
la possa arcana
Dello
Spirto immortal che fonda e crea
Gli
elementi d'un mondo a sè rappella,
Rotte
mandar le anella
Di
loro stretta e duplice natura
Agli
angioli del ciel non è concesso
Chè
solo all'increato
Perfetto
amor di svincolarle è dato.
Gli Angeli Novizi.
Di mezzo alla leggiera
Nebbia
e a' vapori onde ricinte sono
Codeste
rocce di granito, un suono
Parte,
qual d'una schiera
Di
spirti che qui presso errando vada.
Ma
vie più si dirada
Il
vel frapposto, e a noi l'avventuroso
De'
beati fanciulli eletto stuolo
Rivelasi,
che a volo
Si
distende pel liquido sereno.
D'ogni
affanno terreno
Francato
il gentil coro
Mostra
i lucidi e tersi
Vanni,
e il bel manto di rugiada aspersi;
E
già delle superne
Sfere
pregusta le dolcezze eterne,
Or
che pronto è a salir, lasciam, fratelli,
Che
il suo cammin, misto agli eletti, imprenda
E
le prime con lor rote trascenda.
(Trasmettono la parte immortale di
Faust ai Fanciulli Beati, i quali s'incaricano d'iniziarla.)
I Fanciulli
Beati.
E a
noi questa crisalide
Raccogliere
non pesa,
Che
a gloriosa e splendida
Opra
miriamo intesa;
Essa
ne fia mirabile
Pegno
del vostro amor.
Ma perchè in tutto sciolta
Non
si palesa ancora,
Togliete
via que' bioccoli,
Strappateli
una volta;
Che
dell'eterna aurora
Le
arrida lo splendor.
Doctor
Marianus (nell'interno della cella più elevata e più
pura). Di qui lo sguardo spazia intorno e lo spirito ondeggia fra l'Eterno
ed il mondo. Ma nel seno delle nubi accese, scorgo uno stuolo di sante donne
che volano in cielo. Ne vedo una in mezzo coronata di astri fulgidissimi.
È la regina dell'impero, il mio cor ben l'indovina a quel vivido raggio.
O immacolata Donna dell'universo, sotto la stellata volta del cielo, lasciami
leggere nella luce del cielo infuocato il tuo divino mistero, o Madre
dell'Eterno Vero.
Consacra l'austera tenerezza che
agita ed illumina i più gelidi cori e li trascina dinanzi a te
nell'estasi e nella preghiera. Quando regni nel nostro seno il nostro coraggio
è indomabile. Alla tua voce, o Dea, ineffabile, la nostra collera si
addormenta repentinamente come l'onda sulla sabbia. Vergine, nel tuo seno prese
stanza l'Onnipotente, egli scelse te fra tutte per un tanto onore! Prima di te
sulle stellate sfere non vedi altri che Dio. — Intorno a lei s'aggirano senza
posa, per onorarla, vaghe fiammelle: sono anime penitenti spiranti l'odorosa
aura che parte da lei, e che intente ed assorte nelle belle pupille chiedono
umilmente grazia e salute.
Regina di purità! Vergine
immacolata e santa, tu puoi lasciare senza tema venire vicino a te le
peccatrici che ti si accostano con amore e fede! Cedendo alle prave voglie
scorsero i loro giorni nel piacere; nessuno può resistere da sé al
seducente invito della soave voluttà; l'umano desiderio corre
ahimè troppo facilmente il lubrico pendìo. Uno sguardo od un
sorriso sfavillante sul viso di una vaga donna lega ed incatena l'uomo; e tosto
l'ebbro suo cuore arde alla vampa di lascivo amore. (Mater Gloriosa si
aggira per l'atmosfera.)
Coro di
Penitenti. Dall'alto
empireo
Ove
risplendi,
Vergin
sovrana, i nostri voti intendi;
Eletto
giglio,
Rosa
gentile,
O
tu cui non fu mai par né simile!
Magna
Peccatrix. Per l'amore che con pure lagrime come eletto balsamo
bagnò i piedi divini di Gesù Cristo, a dispetto della farisaica
rabbia; per l'urna profonda che versò soavi essenze d'ambra; per la
bionda capigliatura che asciugò le sue sante membra; —
Mulier
Samaritana. Per la profonda e fredda cisterna dove in altri tempi il
vecchio Abramo guidava il suo armento a pascolare; per il vaso che porse
ristoro alle labbra del Figlio; per la viva sorgente che appena uscita di
là versò poscia perenni acque di vita sull'umana razza;
Maria
Aegyptiaca. Per la sanguinosa e fredda pietra che raccolse un giorno le
membra del divino martire; per il poderoso braccio che si alzò
minaccioso e mi respinse dal santo luogo; per quell'acerbo dolore sofferto da
me dolente e pentita stando per quarant'anni in guerra con me stessa e colla
prima colpa, di che io ringrazio il Sommo Fattore; per quell'addio che lasciava
in terra prima di partire; —
A Tre. O tu che non negasti mai alle anime
peccatrici di varcar la soglia del cielo; tu che concedi al sincero pentimento
la forza sufficiente per lottare collo spirito maligno, o Maria, tu non
negherai il tuo perdono a noi che in mezzo ai contrasti del mondo smarrimmo la
retta via inconscie di fallire, e che ora piangenti imploriamo il tuo ajuto.
Una Pœnitentium
(altre
volte per nome Gretchen, in
atto umile). Degnati, o Immacolata, di rivolgere a me i tuoi pietosi e
divini occhi, a me santa e beata in quel giorno, scevro di ogni dolore in cui
ritornò a Dio colui che amai in terra.
I Fanciulli
Beati (intanto che si accostano lievemente roteando).
Già di quella virtude
Cui
nessun uomo mortale
Ad
intender non vale
Ei
tanto in sé racchiude,
Che
ciascuno in fra noi di troppo avanza.
Di
zelo e di costanza
Premio
daranne al certo
Qual
conviensi a fratel fedele e degno.
Noi
del terrestre regno
Presto,
ben si può dir, fummo rapiti:
Ma
questi, ch'è del mondo
assai più esperto,
Di
quanto ei vide e sa
Notizia
ne darà.
La
Peccatrice (detta prima d'ora Gretchen).
Circondato dal coro degli Spiriti angelici il felice Novizio non può
comprendere se dorme o veglia. Egli batte salendo rapide le ali; appena tocca
col piede il sacro limitare lo si vede tramutarsi in Arcangelo. Come si sveste
tosto dalle sue terrene spoglie! Egli è ringiovanito, splende di una
bellezza celestiale, ed un fiammante velo cinge le sue sante membra. Oh! dolce
madre, concedi che io gli apprenda il tuo santo e puro nome, perchè il
vivo raggio del giorno abbaglia già la sua pupilla!
Mater
Gloriosa. Egli vola più in alto verso le divine sfere; se
t'indovina egli ti seguirà ben tosto.
Doctor
Marianus (boccone sul suolo pregando). Ricerchiamo in quei soavi e
cari sguardi dai quali viene solo la grazia e la salute, la virtù che
meglio ci prepari il cuore a ricevere con gratitudine le eterne fiamme della
beatitudine; onde gli umani affetti si rivolgano con viva fede a te, Vergine,
Madre, Imperatrice e Dea. Dal sublime e stellato tuo seggio mostrati a noi
propizia.
Chorus
Mysticus.
Ciò
che trapassa e muore
Altro
non è che simbolo e follia;
Del
celeste, immortale
Soggiorno
a chi men vale
Pentimento
e dolor schiude la via;
L'inesplicabile
Compiuto
fu;
L'Eterno-femmina
Ci
trae lassù!
fine
dell'atto quinto.