HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli            

 

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Pietro Giannone

IL TRIREGNO

(SCELTE)

INDICE

LIBRO PRIMO.      DEL REGNO TERRENO. 1

LIBRO SECONDO.  DEL REGNO CELESTE. 26

LIBRO TERZO.      DEL REGNO PAPALE. 29

 

 

 

LIBRO PRIMO. DEL REGNO TERRENO

 

PARTE I. IN CUI SI CONTIENE LA DOTTRINA DEGLI EBREI, PALESATACI NE' LIBRI DEL VECCHIO TESTAMENTO

 

CAP. IV

Come in tutta la posterità di Noè, donde si vuole empìta la terra di abitatori, si fosse mantenuta la stessa credenza e concetto che si ebbe per l'uomo di regno terreno, solo di felicità o miserie mondane e lo stesso concetto del suo essere e morire.

 

Se gli uomini avessero seriamente atteso ai successi che si narrano dopo questa dispersione delle genti e princìpi di tanti regni ed imperi sopra la terra stabiliti, a quella religione che fu da Noè tramandata a' suoi figliuoli e da questi a' loro posteri, alle loro leggi e costumi, ed a' premi che speravano ed a' castighi che temevano; certamente che saremmo ora fuori di tante vane larve e di tanti errori ed illusioni e di tanti vani timori e pregiudizi che abbiamo succhiato col latte delle nostre madri. Ci han dipinta quest'infausti e malaventurosi indovini tutta la posterità di Noè per una massa perduta e dannata, e che tutti gli uomini dopo il peccato d'Adamo per propria natura ed original vizio fossero destinati alla perdizione e ad eternamente penare nel Tartaro ne' più profondi e ciechi abissi dell'inferno, dove in compagnia de' neri e tristi diavoli che furon scacciati come ribelli dal cielo, miseramente dovran essere tormentati ed afflitti; che l'essere stati alcuni sottratti dal comune flagello, come gl'antichi patriarchi Noè, Abramo, Isaac, Giacobbe, e tutti coloro che furono a Dio cari, ciò gli avvenne per ispecial sua grazia e privilegio e fuori del natural corso della loro condizione, che gli porta tutti all'inferno come a suo centro ed ultimo fine; che perciò niuno ha ragione di dolersi perché fu riposto fra l'infinito numero de' reprobi e non in quello assai corto degl'eletti, poiché niun torto od ingiustizia se gli fa, avvenendo ciò per proprio e natural istinto; e siccome niuno si maraviglia perché l'acqua corre all'ingiù, così non dobbiamo maravigliarci, e molto meno dolerci, se tutti come massa dannata corriamo alla perdizione; né dev'esser tocchi d'invidia se Iddio alcuni pochi sottraga da questa fatal rovina, avvenendo ciò per suo special favore  grazia, che dispensa gratuitamente a suo arbitrio ed a chi gli piace, valendosi della parabola dell'Evangelio e di quelle parole: «Amice, non facio tibi iniuriam, tolle quod tuum est et vade». E se gli dimandate dov'essi han letto sentenza sì terribile e crudele e scritta con sì fieri caratteri di sangue? Essi presto si mettono in bocca quelle parole di S. Paolo: «Omnes in Adam peccaverunt et per peccatum in mundum intravit mors». Tutti adunque peccammo in Adamo, e per conseguenza tutti siamo condannati a perdizione ed irreparabil morte.

Ma se costoro avessero ben letta in Dio questa faccia e considerata attentamente la divina sua parola e specialmente questi primi capitoli del Genesi, non avrebbero certamente trovata scritta sì terribile e fiera sentenza. La maledizione che Iddio dopo la trasgressione di Adamo diede all'uomo, non fu che di dover passare la sua misera vita fra travagli ed angoscie, in tribolazioni, stenti e dure fattiche: che la terra gli porterà spine, ortiche e triboli, e che nel sudore della sua fronte gli converrà mangiar il suo pane; che finalmente dovrà morire e ridursi in polvere e terra, donde ebbe sua origine e principio. Da questa maledizione ne derivò ancora che la sua natura fosse più inclinata al male che al bene, quindi Iddio pentissi d'averlo fatto, siccome egli chiaramente ce lo spiegò quando disse a Noè, Gen., 8,21: «Sensus enim et cogitationes humani cordis in malum prona sunt ab adolescentia sua». Questi furono i perniciosi effetti della trasgressione d'Adamo, e questa fu la sorgiva donde derivarono nell'uomo tante calamità e miserie che chiamansi effetti del peccato di Adamo e maledizione di Dio trasfusa a tutta la sua posterità. Questa natural propensione al male l'espose a mille e spesse trasgressioni a' divini precetti, e per conseguenza a doverne riportare altrettanti castighi, flagelli, desolazioni e morti; ma tutto ciò non oltrepassava l'istessa sua natural condizione. Egli fu fatto mortale; mortali per conseguenza doveano essere non meno i suoi premi che i suoi castighi e suplizi. La trasgressione ed il peccato d'Adamo introdusse nel mondo all'uomo le miserie, i travagli e la morte, ultimo de' mali, ma morte nella quale per lui tutto finiva, e lo riduceva in quell'esser nel qual era prima che fosse nato. Questo era il concetto che costatamente si teneva della morte dell'uomo, e non altro.

Falsissima adunque, crudele e che fa somma ingiuria ad un Dio cotanto giusto, sapiente e misericordioso, è la fiera idea che si vuol far concepire agl'uomini, che tutta la posterità di Noè fosse massa perduta e dannata: anzi è apertamente contraria alle benedizioni che Iddio gli diede quando gli salvò dalla comune sciagura del diluvio e quando, serenato il cielo, usciti dall'arca, gli diede la dominazione sopra la terra e sopra gl'animali e sopra quanto in quella si muove e cresce. Né ad altro fine, come si è veduto, Iddio avea fatto gli uomini, a' quali non altro regno che terreno fu promesso e con effetto dato. Questa istessa dominazione confermò a' figliuoli di Noè ed ai loro posteri e discendenti, loro dicendo che crescessero, moltiplicassero ed empissero la terra. «Et terror vester ac tremor sit super cuncta animalia terrae et super omnes volucres coeli; cum universis quae moventur super terram, omnes pisces maris manui vestrae traditi sunt, et omne quod movetur et vivit erit vobis in cibum: quasi olera virentia tradidi vobis omnia», Gen., 9, 1.

Se si riguardava poi le benedizioni che partitamente furon date a ciascheduno de' figliuoli di Noè e loro particolare progenie, ecco quelle che si diedero a Iafet, figliuol primogenito: ch'egli colla sua discendenza dilaterà i confini della dominazione sopra la terra assai più dell'altre due famiglie, anzi che abiterà negli stessi paesi destinati a Semo ed alla di lui posterità: «Dilatet Deus Iaphet et habitet in tabernaculis Sem», Gen., 9,27. Alla numerosa discendenza di Iafet però si attribuiscono tante ampie e vaste regioni, non meno in tutta Europa che nelle parti settentrionali d'Asia. Quindi leggiamo nel Genesi, cap. 10,5: «Ab his divisae sunt insulae gentium in regionibus suis, unusquisque secundum linguam suam et familias suas in nationibus suis».

Chi potrà ancor dubitare delle benedizioni date a Semo, altro figliuolo di Noè, ed a tutta la sua progenie, quando da questa razza dovea sorgere un popolo a Dio cotanto caro e diletto quanto fu l'ebreo da lui trascelto, e di cui dichiarossi doversi essere proprio e particolar Dio, siccome colui era proprio suo popolo? Alla costui posterità furono pure destinate in Asia ampie regioni da dominare, ch'era la marca più distinta della divina affezione e beneficenza verso coloro ch'eran a Dio più cari; onde della medesima pur leggiamo, Gen., 10, 31: «Isti sunt filii Sem secundum cognationes et linguas et regiones in gentibus suis». Riputino ora questi infelici ed infausti indovini tutta la posterità di Iafet e di Sem massa perduta e dannata?

Ma che diremo di quella di Camo, minor figliuolo di Noè? almanco questa sarà perduta? Questa certamente che fu da Noè maledetta per l'obbrobrio che Camo gli fece di non coprire le vergognose sue membra. Così è: Noè la maledisse dicendo: «Maledictus Canaam». Ma che cosa importavano gli effetti di questa maledizione? non altro che vil servigio e perdita di signoria; dover esser scacciati dalla dominazione delle terre dove avean posto piede e servire alle due altre famiglie dei suoi fratelli: «Maledictus Canaam: servus servorum erit fratribus suis. Benedictus dominus Deus Sem. Sit Canaam servus eius. Dilatet Deus laphet, et habitet in tabernaculis Sem; sitque Canaam servus eius», Gen., 9,27. Ecco fin dove s'estendevano le imprecazioni ed i flagelli minacciati nella maledizione di Canaam.

Ma perché riputare tutta la posterità di Noè per massa perduta e dannata? Forse, serbando quella religione che appresero da Noè, tutta facile e semplice, quella morale e quelle leggi di natura ch'avevano scritte ne' loro cuori, non potevano piacere a Dio e divenire a lui cari ed amici? Tutta la sacra istoria è piena di documenti i quali convincono che tutte le nazioni, contenendosi nel vero culto di Dio pratticato da Noè, non abbandonandosi nell'idolatria e serbando solo le leggi di natura, che dettavano di fare o non fare ad altri ciò che per te vuoi o non vuoi, questo solo bastava per piacere a Dio ed esser suo amico. E gli effetti che a riguardo dell'uomo provenivano dalla sua amicizia o inimicizia, non eran nei buoni che prosperità mondane, imperi, fecondità, ricchezze, abbondanza, sapienza ed altre terrene felicità; nei cattivi, non altro che desolazione, servitù, miserie e stoltizia, calamità e morte; siccom'è chiaro da quest'istessi sacri libri e si dimostrerà più innanzi fino all'ultima evidenza. Essendo questo il concetto che s'avea dell'uomo e della sua felicità o miseria, quindi per conseguir l'una e sfuggir l'altra tutta la posterità di Noè, serbando quella pura e semplice religione che gli tramandò e quelle leggi di natura che avevano scritte nei loro cuori, potevano piacere a Dio ed essere suoi amici; siccome moltissime nazioni del mondo, che non furono né della razza di Semo, né della stirpe d'Abramo o d'Isaac, lo furono con effetto; e l'istoria sacra istessa ce ne soministra infiniti esempi.

I
DELLA RELIGIONE NOETICA

La religione che tramandò Noè a' suoi posteri non fu certamente molto operosa, sottile e difficile, sicché tutti non potessero capirla e praticarla. Ella era tutta pura, semplice, senza riti, senza cerimonie, senza sacerdoti, senza tempii e senza altari; ella non ricercava altro, che si riconoscesse in tutto l'ampio universo un solo unico ed onnipotente Iddio, il quale avesse creato e cielo e terra e sole e luna, uomini ed animali, e quanto si vede, nutre e cresce in tutto il mondo aspettabile. Questo Dio non esser circoscritto da alcun termine o confine, non aver alcun proprio nome, non forma umana, e molto meno d'animale o d'altra cosa creata. Essere invisibile ed eterno, e colla sua presenza tutto empie e regge. Perciò non aver bisogno di tempii, né di altari dove rinchiuderlo o collocarlo. Tutto il cielo, tutta la terra, tutto infine l'ampio universo esser suo tempio, essere suoi altari. Gli uomini, per gratitudine d'avergli creati e data la dominazione della terra e di tutti gli animali e di quanto sopra e dentro di quella si nutre e cresce; per espiazione de' loro falli e per placare il suo sdegno perché non gli avvenga male, e per pregarlo che gli siegua il bene, devono prestargli sacrifici ed immolargli vittime, ma schietti, puri e semplici, senza molti apparecchi e pompa. Immolar le vittime a ciel scoverto, in campagna, senza celebrità e cerimonie, seguendo l'esempio di Noè stesso, il quale, uscito dall'arca, in rendimento di grazie al Signore per averlo colla sua famiglia scampato dalla commune sciagura, prese degli animali mondi e ne fece a Dio olocausto. Sol avvertì, che fu il suo primo divin commando intorno a prestargli culto, che si guardasse mangiar colla carne insieme il sangue degli animali. E Mosè, rinnovando quest'istesso commando agli Ebrei, ce ne spiegò la cagione, dicendo che il sangue di quelli dovea serbarsi per offerirlo ne' sagrifici e per espiazione e mondezza delle loro anime; poiché riputandosi l'anima de' bruti essere nel sangue, giusto era offerire a Dio il sangue di quelli per espiazione delle loro anime. Non più di questo ricercava dagl'uomini la religione di Noè; e coloro che l'osservavano erano a Dio cari e meritevoli della sua benedizione. Donde ne seguiva che coloro che, ciò tralasciando, si davano all'idolatria e ad altri culti moltiplicando numi, riti e superstizioni, erano detestabili e per conseguenza degni di maledizioni, flagelli, calamità e morti.

Se i nostri scrittori, i quali hanno posto tanto studio e cura di andar notando ne' gentili i loro riti, leggi e costumi, anzi le scienze ed arti tutte per derivarle dai nostri libri sacri, se da' posteri di Noè fanno popolar tutta la terra, e di più sono andati investigando i cammini che tennero, i viaggi che intrapresero, e qual razza avesse popolato l'Asia, quale l'Europa, e quale l'Affrica; perché non s'hanno voluto poi prendere la pena e metter attenzione che in molti antichi popoli e nazioni si ravvisava anche quell'istessa religione che Noè tramandò a' suoi posteri? perché non far avvertiti gli uomini con aditarle i fonti onde quelle attinsero la loro religione e culto? E che quanto più si va indietro all'antichità, tanto più chiari vestigi s'incontrono, ne' più vetusti popoli de' quali è rimasa a noi memoria, della religione istessa che fu professata da Noè e suoi discendenti?

Certamente che la più rimota antichità non conobbe nome alcuno proprio di Dio. Narra Erodoto, lib. 2, c. 4, ch'essendo egli nella città di Dadone, gli fu riferito da que' savi che anticamente si facevano le immolazioni ed i sagrifici degli dei senza nome proprio, come quelli che alcuno non ne conoscevano, e che molto tempo dapoi d'Egitto furono portati i nomi divini; da chi gli presero i Pelasgi, e da questi i Greci. Ed altrove, lib. 2, c. I,ci rende pur testimonianza che i nomi dei dodeci dii furono primieramente dagli Egizi trovati, e che i Greci da essi gli aveano presi; siccome gli Egizi essere stati i primi inventori de' simulacri, degli altari, e di tutti gli altri divini onori. Ma gli Etiopi contrastavano questa prerogativa, i quali si davano il vanto esser stati essi gli primi a venerar con simulacri e pompe esterne i dii e con magnifiche e splendide celebrità; sicché a ragione Omero gli preferì in ciò a tutte l'altre nazioni. Anzi Erodoto fu di sentimento che quasi fino ai suoi tempi, che furon quelli di Xerse, non si erano saputi tanti nomi di dii e tante loro genealogie, imperoché, ei dice al lib. 2, c. 4, Esiodo ed Omero, i quali da 400 anni e non più furono avanti a questo tempo, sono coloro che hanno introdotto la progenie de' dii in Grecia, ed a lor modo gli hanno dato figure, onori e diverse possanze. Dall'essere l'introduzione di dar nomi a' dii nova e recente, a riguardo della più rimota antichità, quindi derivò la tanta varietà de' loro nomi presso tante e sì diverse nazioni. Gli Egizi gli chiamavano d'una maniera ed i Caldei d'un'altra. Quest'istessa varietà osservaremo negli Sciti, ne' Fenici ed in tanti altri popoli e regioni; e presso gl'Ebrei stessi non se non a' tempi di Mosè acquistò proprio nome di Ieova il Dio d'Abramo, che i Greci chiamavano Iao.

Per questa caggione leggiamo essersi da' più vetusti popoli sacrificato vittime a Dio in campagna ed a cielo scoperto, e che molti non intendessero per Dio che il cielo, il sole, la terra e tutto l'ampio universo; onde sopra gl'altissimi monti sagrificavano, non avendo né tempii né altari e molto meno simulacri o statue, riputando mal convenirsi di restringere in sì brevi chiostri e dar forma e figura a chi non può essere circonscritto da alcun termine, né è capace d'esser effigiato o dipinto. Quindi narra Erodoto istesso, lib. I, cap. 9, che i Persiani anticamente non edificavano né tempii né altari, né avevano statue, anzi si beffavano di coloro che simili cose facevano. Che perciò immolavano le loro ostie nelle cime de' monti altissimi a Giove, il quale però non intendevano che fosse altro se non che tutto il giro del cielo, e secondo quest'istesso concetto sacrificavano ancora al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, alli venti ed alle acque: ciò che fu anche avvertito da Strabone, lib.15 Geogr., dicendo: «Persae nec statuas nec aras erigunt; sacrificant in loco excelso. Coelum Iovem putant; colunt Solem, quem Mithram vocant, item lunam et Venerem et ignem et tellurem, et ventos, et aquam». E ciò ch'è notabile, rapporta che ne' loro sacrifici, della vittima che imolavano non lasciavano a' dii porzione alcuna: «Nulla parte diis relicta; dicunt enim» soggiunge Strabone «Deum nihil velle praeter hostiae animam». Ch'era appunto quello che Noè impose alla sua famiglia, e Mosè agli Ebrei, di lasciare a Dio l'anima degli animali, cioè il loro sangue ne' loro sagrifici, e perciò che si astenessero dal sangue de' medesimi. Gli Sciti, secondo il loro credere primi uomini che abitarono le parti settentrionali dell'Asia e dell'Europa, non d'altra maniera rendevano a' loro dii sagrifici: Strabone stesso narra de' settentrionali Celtiberi, lib. 7: «innominatum quemdam Deum noctu in plenilunio ante portas cum totis familiis choreas ducendo totamque noctem festam agendo venerari». E Diodoro Siciliano rapporta nel lib. 2 della sua Biblioteca Istorica che i Trabolani, popoli insolani dell'Oceano Indico orientale, la stessa religione avevano e gli stessi sagrifici e culto praticavano co' loro dii, dicendo: «Pro diis colunt primo coelum, quod omnia continet; deinde solem et cuncta denique coelestia».

Da ciò nacque che Strabone, Diodoro e gli altri scrittori exotici, i quali, osservando in molti antichi popoli questa religione e culto verso i loro dii, e scorgendo che Mosè al suo popolo ebreo aveva severamente proibito simulacri e statue, e ch'egli non fabricò tempio alcuno al dio Ieoin, ma i sagrifizi si facevano in campagna, od al più sotto lor tende e tabernacoli, scrissero che Mosè e gli Ebrei per questo loro Dio non intendessero altro che l'ampio cielo, e che non lo distinguessero dall'universo, facendolo una medesima cosa; onde alcuni moderni scrittori vogliono perciò far passare Mosè per panteista, ed alcuni non si sono ritenuti chiamarlo anche spinosista, perché così lo reputarono Strabone e Diodoro. E non vi è dubbio che costoro questo concetto ebbero della dottrina di Mosè, scrivendo di lui Strabone al cap. 16 Geogr. che credesse: «Id solum esse Deum, quod nos omnes continet et terram et mare, quod coelum et mundum et rerum omnium naturam appellamus, cuius profecto imaginem nemo sanae mentis alicuius earum rerum quae penes nos sunt similem audeat effingere. Proinde omni simulacrorum effictione repudiata, dignum ei templum ac delubrum constituendum, ac sine aliqua figura colendum». E Diodoro, in quel frammento del lib. 40 che ci conservò Fozio, chiaramente pur di Mosè scrisse: «At nullam omnino deorum imaginem statuamve fabricavit: quod in Deum minime cadere formam humanam; sed coelum hoc quod terram circumquaque ambit, solum Deum esse, cum cunctaque in potestate habere iudicaret». Ma non è maraviglia che tali scrittori avessero attribuito a Mosè ed agl'Ebrei ciocché in altri popoli osservarono, poiché costoro delle cose dei Giudei non ne furon molto curiosi, né se ne prendevano cura, deridendole come fanatiche e pazze, e sovente si fermavano a' rapporti volgari che da incerta fama pervenivano a loro notizia; siccome si vede in Diodoro istesso, il quale in questo libro scrisse Mosè avere stabilito il regno degl'Ebrei, fondato Gerusalemme e costrutto quivi il tempio, attribuendo a lui ciocché a' tempi posteriori dovea attribuirsi a Davide ed a Salomone. E la dottrina di Mosè fu tutt'altra che di confondere Iehova coll'ampio universo e farlo una cosa istessa, anzi di separare il creatore dall'universo, sua fattura, sebbene si voleva ch'egli empisse e regesse il tutto, siccome fu eziandio il sentimento degli altri profeti, e specialmente d'Isaia, il quale nel cap. 40,18 a ragione disse: «Cui ergo similem fecistis Deum? aut quam imaginem ponetis ei?», ed al num. 22: «Qui sedet super gyrum terrae», ed al cap. 66,1: «Haec dicit Dominus: "Coelum sedes mea, terra autem scabellum pedum meorum. Quae est ista domus, quam aedificabitis mihi?"»; e di Geremia, il qual pur disse, cap. 23, 24: «"Numquid non coelum et terram ego impleo?" dicit Dominus». Sicome ad altro proposito sarà da noi più ampiamente dimostrato.

Intanto, se la posterità di Noè che popolò la terra avesse voluto serbar quella religione che gli fu tramandata da Sem, Cam ed Iafet suoi figliuoli, non era altra che questa tutta schietta, tutta pura e tutta semplice, niente operosa e che non avea bisogno né di tempii, né di sacerdoti, né di altari. Ma in discorso di tempo, essendo gli uomini per proprio istinto inclinati al male e portati naturalmente alla superstizione ed a dar facile credenza a' sorprendenti e favolosi rapporti degl'indovini ed impostori, siccome con verità disse Lucrezio, lib. 4, v. 598: «Ut omne humanum genus est avidum nimis auricularum»; quindi fu facile da questa schietta e semplice religione passare all'idolatria ed a fingersi tanti dii e semidii. E cominciata la faccenda in Egitto, trapassata poi dagli Egizi a' favolosi Greci, quindi si viddero nel mondo propagati tanti dii, fingersene progenie e genealogie, e tanti altri portenti e chimere: gli Egizi in quali frenesie non diedero? sino a formar simulacri di bestie ed attribuirle a Dio; talché Strabone, il quale credette Mosè esser uno de' sacerdoti di Egitto, scrisse, lib. 16, che Mosè, non potendo soffrire tanta sciempiaggine, facendosi capo d'un numeroso popolo uscì fuor d'Egitto, cercando altra regione. «Affirmabat enim» disse Strabone di Mosè «docebatque Aegyptios non recte sentire, qui bestiarum ac pecorum imagines Deo tribuerent, itemque Afros, et Graecos, qui diis hominum figuram affingerent». Si vidde perciò i sagrifici, che prima erano tutti puri e semplici, contaminati per tanti riti e superstizioni, ed infine profanarsi a segno, che si arrivò sino a render olocausti ed ostie di vittime umane. Sacrificarsi le mogli sopra i roghi de' loro mariti; i figli da' padri ed i sudditi ne' funerali de' loro re, e tanti altri mali ed abominazioni che la corrotta religione introdusse negli animi umani.

II

Non si annoverava certamente fra i pochi articoli della religione noetica quello dell'immortalità dell'anime umane; anzi i dettami di Dio sopra la caducità dell'uomo, il quale, siccome di terra era fatto, così dovea risolversi in polvere, e l'esperienza che ne avea dato il diluvio, che uguagliò la morte degl'uomini con quella de' bruti, «universi homines et cuncta in quibus spiraculum vitae est in terra, mortua sunt», dimostrò a tutti il contrario, sicché la credenza d'essere mortali fu comune presso tutta la posterità di Noè, e quanto più vassi indietro nelle età più vetuste, tanto maggiore troveremo in ciò conforme il sentimento di tutte le più antiche nazioni, le quali sopra ciò non vi ebbero dubbio alcuno; e non fu che nei secoli posteriori che dalla celebrità delle pompe funebri e dagli onori che rendevano gli Egizi a' defonti sorse l'opinione di finger altra vita negl'uomini dopo morte, come si vedrà chiaramente più innanzi. La credenza antica delle più vetuste nazioni, delle quali è a noi rimasa memoria tramandatagli da' posteri di Noè, fu che colla morte tutto si finiva, mortale fosse la condizione dell'uomo, siccome di tutti gl'altri animali ne' quali era lo spirito delle vite.

Il regno d'Egitto per antichità e durata non vi è dubbio che fosse il primo stabilito sopra la terra, e che avesse più ampi e dilatati confini, più colto degli altri, e dove la mondana sapienza ebbe suoi princìpi e natali donde l'altre nazioni la derivarono. Si è veduto che l'imperio degl'Assiri fu posteriore, poiché a' tempi che l'Egitto era già stabilito in ampio regno diviso in quattro dinastie, l'Assiria era divisa in piccioli e minuti regni, e non se a' tempi di Nino e di Semiramide cominciò ad acquistare nome d'imperio. Quindi a ragione gl'Egizi vantano maggior antichità, culto, civiltà, e più sapienza nelle discipline e nelle arti; ed i Caldei forse potranno pregiarsi della sola astronomia, nella quale furono i primi ed i più eccellenti. Or presso gl'antichi Egizi la credenza che si teneva dell'anime umane fu che fossero mortali, e che ugual fosse in ciò la condizione degl'uomini e degli animali, non altrimenti che ci vien manifestata da questi primi capitoli del Genesi, e per ciò chiamavano alla rinfusa uomini e bruti «mortale genus». Quindi Erodoto, lib. 2, cap. 6, ci rapporta un antico costume de' più colti e doviziosi Egizi, che usavano ne' loro conviti, i quali nel fine della cena facevan portare intorno a' convitati un morto fatto di legno, ma dipinto e lavorato in maniera che somigliasse ad un morto dadovero; e colui che lo portava diceva cantando: «Bevete, rallegratevi e datevi diletto, dopo la morte questo somigliarete».

La dottrina che dapoi cominciò fra essi ad allignare per le pompe de' funerali ed onori che rendevano a' loro defonti, venne molto tardi, quando i loro sacerdoti, sopra il trasporto che si faceva con gran pompa e celebrità de' cadaveri all'altra sponda del fiume, cominciarono a finger inferno ed a favoleggiare sopra Cerere e Bacco, a cui diedero il principato di questo regno infernale; ma secondo ch'Erodoto istesso ci rende testimonianza nel lib. 2, c. 9, in questi princìpi i sacerdoti istessi non credevano che in quest'inferno andasse anima alcuna umana, siccome nemeno in cielo; ma furono i primi a fantasticare che l'anime fossero immortali, sulla vana e pazza credenza che passassero da uno in l'altro corpo dopo la morte del primo, aggiungendo altre pazzie, cioè che dovevano trapassare per tutte tre le sorti corporee, terrestri, acquatili e volatili; e dopo aver compìto questo giro entravano di nuovo ne' corpi degl'uomini nuovamente formati, e questa circuizione dicevano farsi in termine di 3000 anni.

Questa fu la prima e nuova dottrina degl'Egizi intorno all'immortalità dell'anime umane, la quale, per la natural inclinazione degli uomini alla novità ed al portentoso, fu da alcuni avidamente abbracciata e trasportata ad altre più rozze ed incolte nazioni; e si sa che Pitagora questa dottrina l'avesse appresa dagl'Egizi e trasportata a' Greci siccome scrisse Diodoro, lib. I, pag. 88: «Et quod Pythagoras . . . animarum in quodvis animal transmigrationem ab Aegyptiis acceperit». Ed Erodoto, loc. cit., non niega che alcuni de' Greci l'usurparono come da sé questa invenzione che fu degli Egizi, i nomi de' quali ei soggiunge non voler palesare; ma ben si comprende che voglia intendere di Pitagora, celebre non meno sofista tra' filosofi che famoso impostore. Costui eziandio narrasi che avesse portata questa nuova dottrina ai Geti, fra tutti i Traciani valentissimi, i quali perciò si stimavano immortali, perché credevano che le loro anime uscite dai corpi andassero a Salmosin, ch'era un loro dio, chiamato d'alcuni di loro anche con altro nome di Beleizim, al quale, siccome rapporta Erodoto, lib. 4, cap. 6, brutalmente sacrificavano uomini vivi, e lo collocavano sotto terra. Ed Erodoto stesso dice aver egli inteso da' Greci in Ponto che questo Salmosin fu un vilissimo uomo e grand'impostore, il quale visse servo di Pitagora nell'isola di Samo, e fatto poi franco e ad un tratto divenuto ricchissimo, ritornò in Tracia sua patria, dove tra quelle rozze genti e bestiali prese in breve grandissimo credito, come colui che lungamente tra' Greci era conversato, e con Pitagora. Questi imposturava così quella rozza gente, affermando che né esso, né alcuni di loro ch'erano con lui morirebbero mai, ma che con seco, dopo la presente vita, goderebbero eterni beni; e facendosi sotterra un'abitazione vi stette tre anni, credendolo i Traciani morto ed amaramente piangendolo. Al quarto anno ritornò nel cospetto degl'uomini, e con questo fece credibili quelle cose che detto avea. Soggiunge Erodoto che sebbene i Greci così dicessero, egli però credea che molti anni avanti a Pitagora fosse costui ed in tal guisa imposturasse i Traciani. Che che ne sia, certamente che al mondo non mancarono mai impostori; e da Pitagora ne uscirono valentissimi, poiché da costoro e dalla di lui falsa dottrina fu corrotta la pura e semplice credenza di alcune antiche nazioni, e peggior male nelle seguenti età portarono al mondo i suoi settari pittagorici, non inferiori a quei che poi si portarono i platonici. Degl'Indi brach[m]ani e di altri popoli rozzi pur si narra che fossero stati contaminati di questa fantastica dottrina. Strabone, parlando nel lib. 15 di questi bracamani filosofi, non poté negare che i medesimi, siccome in molte cose convenivano co' Greci, così pure essi tessevano delle favole, come Platone, intorno all'immortalità dell'anima, all'inferno e cose simili, dicendo: «Texere etiam fabulas quasdam, quemadmodum Plato, de immortalitate animae et de iudiciis quae apud inferos fiunt, et alia huiusmodi non pauca». E Diodoro ci rende testimonianza al lib. 5, pag. 306, che insino alcuni popoli della Gallia ne fossero stati corrotti, dicendo: «Pythagorae enim apud illos opinio invaluit, quod animae hominum immortales, in aliud ingressae corpus, definito tempore denuo vitam capessant». E Strabone, lib. 4 Geogr., pur rapporta che nella Gallia i Druidi pur ebbero tal credenza, dicendo: «Cum hi, tum alii (intendendo de' bardi e de' vati) animam interitus expertem statuunt et mundum; tamen aliquando ignem et aquam superatura».

Ma tutte l'altre nazioni più vetuste, nelle quali non penetrò questa contagione, mantennero l'antica e pura credenza de' loro maggiori, e quindi in alcune leggiamo essersi introdotto costume di piangere quando nasceva loro un fanciullo e far festa quando si moriva, riputando la morte per ultimo porto e placido sonno e quiete, che liberava l'uomo da tutti i mali e disaventure di questa misera vita. Narra Erodoto, lib. 5, cap. I, che i Trausi, popoli ancor essi della Traccia, aveano questo costume differente dagli altri Tracciani, che quando nasceva un fanciullo i parenti standogli attorno lo piangevano tutti quanti, e lamentandosi raccontavano tutte le miserie che sarà necessario patire, essendo entrato nella sorte dolente della vita umana. Ma qualunque di loro moriva, con suoni e canti l'accompagnavano alla sepoltura, e con gran feste raccontavano di quanti mali e disavventure fosse per la morte liberato. Quest'istesso costume narra Filostrato, rapportato da Boccarto in Canaam, lib. I, cap. 34, avere avuto i Gaditani, popoli antichissimi di Spagna, li quali «festis cantibus (ei dice) hominum mortem celebrant». Ed Eliano, presso Eustazio, de' medesimi pur disse che riputavano la morte «communis quies et ultimus portus».

 

PARTE II.  DELL'ORIGINE DEL MONDO E FORMAZIONE DELL'UOMO: SUA NATURA E FINE, SECONDO IL SENTIMENTO DE' PIÚ GRAVI E SERI FILOSOFI

CAP. II

In che gl'Egizi, i. Fenici, i Greci ed altri filosofi facessero consiste re la natura dell'uomo, e come fossero di conforme sentimento con Mosè che uno spirito animava l'universa carne sì degl'uomini come degli animali.

 

Diodoro Siciliano, nel primo libro della sua Biblioteca istorica, sebbene, come s'è veduto, in sentenza degl'Egizi e de' Greci istessi, come d'Anassagora e d'Euripide, ci rappresenti una nova dottrina intorno alla formazione del mondo e dell'uomo e dell'origini delle cose diversa da quella che Mosè insegnò ai suoi Ebrei, specialmente in ciò che riguarda il facitore dell'universo; con tutto ciò, per quel che s'appartiene alla natura di questo spirito vivificante, par che que' filosofi fossero stati conformi a' sentimenti di Mosè palesatici nel lib. del Genesi. Mosè fece Iddio creatore del tutto. Gli Egizi davano alla natura l'istesso potere ed efficacia che Mosè attribuisce ad Iddio, facendo Iddio e la natura una cosa stessa, riputandola perciò insieme coll'universo eterna e non creata. Ma rapporta che questi istessi filosofi ammettevano anche essi nell'universo uno spirito vivificante, il quale, secondo la qualità e la disposizione della materia alla quale s'unisce, ha tanta forza e vigore di dargli vita, moto e senso, sicché possa produrre e piante ed animali e uomini istessi: in brieve che l'universa carne possa sorgere «in animam viventem». Disse perciò al cap. 2 del primo libro che gl'Egizi la generazione di tutto ciò che si vede nell'universa natura principalmente l'attribuivano al sole ed alla luna, da' quali sublimissimi corpi, ch'essi aveano per dii, ne derivava tutto ciò ch'essi riputavano essere principalmente necessario alla generazione, siccome all'altre parti onde si compone il mondo, le quali somministravano la materia, l'umido ed il gravoso; onde dai primi ne derivavano questo spirito ch'essi chiamavano Giove ed il fuoco che dissero Vulcano, poiché il caldo molto conferisce alla perfezione della generazione; e dai secondi il secco, intendendo della terra, che, come vaso ove tutto si fa e si riceve, prese il nome di madre, detta ancora la dea Cibelle; l'umido, intendendo dell'acqua, onde l'Oceano lo riputavano anche padre delle cose e perciò anche dio, e l'aria chiamata anche la dea Pallade e figlia di Giove. Chiamavano questo spirito Giove, ch'era Dio maggiore ed il primo fra tutti i dei, poiché questo è il principio e la cagione onde tutte le cose animate ricevono moto, vita e senso: «Sicut spiritus Iuppiter» dice Diodoro «si interpreteris, nominetur; quod vis animalis in viventibus ab eo tanquam auctore proficiscatur; ideoque omnium quasi parens existimetur; clarissimo quoque inter Graecos poetarum suffragante ubi de hoc deo loquitur: Parens hominumque deumque».

Sanconiatone di Berito, di cui fa memoria Filone Biblio allegato da Eusebio, lib. I Praepar. evangel., cap. 10, rapportando la teologia dei Fenici, della quale ne fa maestro ed autore Taauto, che eziandio da alcuni si vuole che fosse lo stesso che Mosè, siccome i Greci lo dicono Mercurio, dice che costui fece pure la medesima ipotesi della formazione del mondo, cioè che nel caos vagava questo spirito che fecondò l'universo: «Principium huius universitatis ponit aërem tenebrosum ac spiritu fetum, seu mavis tenebrosi aëris flatum ac spiritum, caosque turbidum altaque caligine circumfusum etc. Is quidem rerum omnium procreationis principium fuit».

I Fenici non può dubitarsi che portarono ai Greci, non meno che gl'Egizi, le prime nozioni di filosofia e delle lettere; e Boccardo fa vedere che Omero molte cose dai Fenici apprese e trasportò ne' suoi poemi, dai quali VIrgilio fu mosso nell'Eneide di valersi di questa istessa dottrina, e per farla apparire antichissima, qual'era in verità, fa che il padre Anchise l'esponga ad Enea suo figliuolo, dicendogli al lib. 6:

Principio coelum ac terras camposque liquentes

lucentemque globum lunae titaniaque astra

spiritus intus alit, totamque infusa per artus

mens agitat molem et magno se corpore miscet.

Inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum

et quae marmoreo fert monstra sub aequore pontus.

I Greci che, come si è detto, dagli Egizi e dai Fenici presero i semi della filosofia, ammisero ancora essi questo spirito per principio, onde tutte le cose animate ricevono senso e vita; ed Anassagora, che sopra Talete, Anassimandro, Anassimene e tutti gli altri suoi predecessori spinse le ricerche e le conoscenze: e Pericle, Archelao ed Euripide suoi discepoli, che empirono la Grecia di filosofi, non ne dubitarono punto.

Eusebio istesso, lib. 10 Praeparat. Evangel., cap. 14, rapportandoci la successione dei filosofi greci, dice che Anassagora, maestro di Euripide, «de principiis distincte primus et enucleate disputavit; neque enim de universi tantum natura uti priores illi (cioè Talete Milesio, il quale «princeps inter Graecos de rebus naturalibus philosophari coepit», Anassimandro suo discepolo, ed Anassimene maestro, ed Anassagora), sed etiam de ipso motus eius auctore philosophatus est. "Cum enim res omnes, inquit, confusae simul permixtaeque ab initio forent, mens penitus eas permeans, ab illa perturbatione in ordinem elegantiamque vindicavit"». E così appunto Giuseppe Ebreo, lib. I, cap. I Antiq. iud., in sentenza di Mosè, aveva pur detto di questo spirito, che la vulgata Scrittura, che «ferebatur super aquas», «spiritu superne permeante». Ma nello spiegare la natura di questo spirito che negli uomini poté produrre tanto discorso ed accorgimento, così i riferiti filosofi come i di loro successori Pitagora, Democrito, Platone, Aristotile, Epicuro e tanti altri, furono fra di loro molto vari e discordi. Né minore fu la discrepanza tra i nostri più moderni filosofi, come vedremo più innanzi, dopo aver riferito le opinioni degli antichi. Aristotile nel lib. 2 De generat. anim., cap. 3, attribuisce a questo spirito diffuso ne' semi di tutte le cose natura celeste, simile alla natura delle stelle. «Inest in semine omnium» ei dice «quod facit ut foecunda sint semina, videlicet quod calor vocatur, idque non ignis, non talis facultas aliqua est, sed spiritus qui in semine spumosoque corpore continetur, et natura (idest anima) quae in eo spiritu est, proportione respondens elemento stellarum». Aristotile adunque non si contenta solo di questo spirito, ma vuole che in esso vi sia qualche altra cosa di più che chiama natura, cioè anima, perché qualunque spirito per se stesso, per proprio vigore ed efficacia, non potrebbe ordinare e disporre le figure, i numeri, il sito, la grandezza e picciolezza e quanto bisogna per fare sorgere un corpo «in animam viventem», se non abbia un altro principio attivo per cui si produchino tutti questi effetti, e che gli somministri tutta questa virtù ed efficacia: quindi egli nell'addotto luogo distingue questo spirito o sia calore del seme dalla natura nella quale dice essere questa virtù architettonica, in guisa che la natura ch'è in questo spirito somministra al medesimo tutta quella virtù ed efficacia, dicendo: «Virtutem architectonicam esse naturam quae in spiritu seminis est».

Ippocrate nel lib. De aliment. riconosce ancora nello spirito del seme questa natura, la quale perciò disse «illam eruditam esse», perché somministra a questa spiritosa parte del seme la virtù ed efficacia di disporre e formare il corpo organico, sicché possa sorgere «in animam viventem»: con tutto ciò Galeno questa virtù o forza architetonica la chiama ora «nativum calorem», ora «insitum temperamentum», sovente «spiritum», che, nel lib. De trem. et rigore, dice essere «substantiam per se et mobilem».

Quindi fu data occasione ai successori filosofi e medici, non altrimenti che fecero i loro maestri, di darci nuove spiegazioni sopra ciò. Le quali finalmente non si riducano che a vane parole e nuovi vocaboli che niente significano, tanto è lontano che spiegano la natura di questo spirito. Deisingio, lib. 2 De gener. foet., definisce questo spirito non essere altro che «substantia quaedam immaterialis e materia emergens de summo Deo, sic ad materiam determinata ut sine ea nec esse, nec subsistere, nec operari queat».

Altri con Avicenna chiamarono la virtù architetonica racchiusa in questo spirito «intelligentiam». Alcuni altri con Averroe e Scoto «vim coelestem» ovvero «divinam virtutem». Giacomo Schegkio, lib. I De plast. sem. fac., mostra di dirci qualche cosa di più, ma in realtà niente c'insegna di nuovo, dicendo che per questo spirito, o forza «plastica», non deve intendersi altro che «formam substantialem, quae nullo sensu, sed dumtaxat mente et ratione percipitur».

Li platonici dissero essere «animam generalem per totum mundum diffusam», la quale, per la diversità delle materie e dei semi, produce diverse generazioni; nulla di meno il gran platonico Plotino, lib. Ennead. 3, questa virtù architettonica la distingue dalla platonica «anima del mondo», siccome il prodotto dal producente, chiamando quella virtù «natura che dall'anima del mondo» deriva ad essere atto essenziale di quella e vita da lei dipendente. Temistio, Com. De anima et 12 metaphisic., dice questa virtù architettonica essere formatrice, essere «animam in semine potentia animato inclusam». E Deusingio, lib. De ortu animae, chiama quella ch'è nel seme «naturam», cioè, com'egli stesso insegna e spiega: «animam potentia in semine subsistentem, ac principium et causam motus per se existentem»; ma nel corpo già formato la chiama «animam actu existentem»: e così senza necessità alcuna una cosa istessa la distingue in due, ponendogli due nomi distinti secondo ch'è o in quiete o in moto, o secondo la diversità del soggetto, o da formarsi ovvero già formato. Quando una sol cosa è che nel seme sin da principio può formare il corpo organico e che in atto lo forma e così da poi continuando rimane forma e vita. Mostra Deusingio aver tirata questa sua sentenza dagli istituti' dei platonici, i quali distinguono tra «animam» ed «esse animam», cioè «inter animae substantiam», la quale sotto il nome di natura è nascosta nel seme, «et animam quae iam actu agit»e che rimane poi ferma dal corpo organico a cui dà moto, senso e vita. Fernelio, lib. 4 Phisiol., cap. 2, chiama questo «spirito» forza «plastica», non intendendo per ciò di quel commune spirito che i medici fanno sorgere dagl'umori e dalle viscere per la concozione e preparazione, ma d'un altro assai più nobile e di maggior vigore: «Est igitur spiritus corpus» e' dice «aethereum, caloris facultatumque sedes et vinculum primumque obeundae functionis instrumentum»: e nel lib. I De abdit., cap. 10, crede essere una virtù che dal cielo s'influisce, poiché ei dice: «Coelum nullo semine multos profert tum animantes tum stirpes, at semen nihil quidpiam sine coelo generat. Semen gignendi rebus materiam concinne duntaxat et convenienter apparat et instruit. Coelum in apparatam illam speciem summamque perfectionem immittit vitarnque suscitat in omnibus». Soggiungendo poco da poi: «Animantium, stirpium, lapidum et metallorum omnium quaecunque et fuerunt et esse possunt formas, una coeli forma potestate comprehendit, et innumerabilibus illa quasi gravida formis, omnia gignit et fundit ex sese» In brieve tutti concordano ne' semi essere questo spirito in cui è quella efficacia chiamata da alcuni anima, da altri natura e da alcuni intelligenza o virtù divina o celeste o architettonica, ovvero formatrice o plastica; e Virgilio, lib. 6 Eneid. non ne dubitò punto dicendo:

Igneus est ollis vigor et coelestis origo

seminibus ...

Ma non sono concordi in spiegare la natura e l'essenza i più moderni, come Giuseppe Scaligero, Subtil. exercit., cap. 5 usque ad II, Ludovico Mercati, tom.I, lib. I, qu. 9, 8, ed altri tutti difendono acremente ne' semi essere quest'anima, le di loro orme calcando il Gassendo, tom. 2, Phis. Sect. 3, membr. post., lib. 3, cap. 3, e Daniele Sennerto: ebbe costui molta ragione di dire, Instit. med., lib. I, cap. 10, che andavano di gran lunga errati coloro i quali credevano nel seme non essere anima, poiché non si può negare l'anima essere la causa della formazione del feto e della sua vivificazione. «Etenim» e' dice «cum vim formatricem in semine esse ab omnibus concedatur, animam etiam in eo esse concedendum est. Nam cum potentiae non sint separabiles ab anima, cuius sunt potentiae, impossibile est potentiam aliquam alicui propriam esse in subiecto, in quo non est forma a qua fluit potentia. Et cum ex operationibus ad latentis essentiae notitiam perveniamus, quid causae est cur semini animam non tribuamus quae suis in eo operationibus satis se prodit? Sunt autem illae duae: seminis et conceptus vivificatio et partium omnium, quae ad vitae actiones edendas necessariae sunt, efformatio. Quodvis enim semen, ut in plantis manifestum est, vegetante anima conservatur et aliquandiu prolificum permanet, et quandiu integrum et incorruptum est in loco idoneo, et praesente alimento, ut vivens operatur et exercet suas actiones in eam, quae praesto est, materiam, non secus ut ipsum vivens integrum omnibus partibus; quod non solum in animalibus in actione et partium nonnullarum regeneratione, sed praecipue in plantis videre est. Nam eaedem operationes in semine et in planta omnibus numeris integra conspiciuntur: quae propterea idem in utroque principium et movens indicant. Eadem enim est omnino operatio, quum anima in semine latens ex attracta materia corpus plantae fabricat, et cum eadem postea singulis annis amissa folia et flores instaurat, novos surculos, ramos, radices protrudit; et propterea eiusdem omnino facultatis eiusdemque animae indicium est. Neque hoc solum in plantis, sed in animantium perfectorum seminibus idem fieri concedendum est. Nam, si non fit ex sanguine caro, nisi caro ipsa animata sanguinem in carnem mutet, multo minus fiet ex sanguine animal, si semen anima careat». Soggiungendo poco da poi: «Nam animatum corpus cum sit praestantius et perfectius, sequitur non animatum non esse principalem animati corporis causam, sed animatum ab animato, ut principali causa, produci». E non vi è dubbio gli argomenti di Sennerto essere vigorosi e convincenti per prova evidente ne' semi essere questo spirito vivificante, o sia anima.

Siccome bisogna eziandio confessare che i medici più moderni, avendo in questi ultimi tempi ad una soda filosofia accoppiata una esatta notomia, ridotta da essi quasi nell'ultimo punto di perfezione, hanno sopra di ciò non pur stese le investigazioni e le ricerche, ma con buon successo è sovente lor riuscito stendere anche le cognizioni; ed alcuni si sono ingegnati spiegare fino le maniere come dal solo vigore ed efficacia di questo spirito vivificante, unito a' corpi organici, possano sorgere non pur gli animali e le piante, ma gli uomini istessi, senza esserci bisogno di ricorrere ad altre sognate idee di sostanze cogitanti, immateriali ed incorporee, che le riputano non senza ragione vere imposture di infelici ed astratti filosofi. I medici inglesi negli ultimi nostri tempi vi si applicarono con fervore e non senza successo: in fra gli altri Covardo, medico di Londra, fu sì ardito che, nel 1704, essendosi esposto a pubblico cimento sostenne uno essere il principio naturale e fisico nell'uomo che lo fa muovere, vivere, sentire e ragionare, e che fu una solenne impostura filosofica la giunta di una nuova sostanza che ci venga di fuori come raggio di sole, che non può affatto concepirsi; ed oltrecciò, ne diede fuori alle stampe una difesa col titolo Vindicationes rationis et religionis contra imposturas philosophiae. Giovanni Tolando pur lo stesso sostenne nella seconda epistola ad Severum, onde in Inghilterra venne questa materia a disputarsi acremente fra' diversi e contrari partiti. Fu primieramente sopra di ciò combattuto tra Giovanni Lockio e Stillingfleto; indi fu rinovata la disputa da Dodivelo, il quale pure acremente sostenne l'anima negli uomini essere un principio naturale, fisico e corporeo, contro il quale sorsero, impugnandolo, Samuele Clarchio, Tomaso Millio, Giovanni Turpero ed Emondo Chishullo; passarono da poi le dispute da Londra in Amsterdam, dove dallo Hoschio, discepolo di Spinosa, fu difesa la stessa dottrina, la quale negli ultimi tempi passò ne' medici di Germania, per lo più evangelici, fra' quali si distinse Petermano. Gio. Adamo Hoffstettero medico d'Aala, alquanti anni prima insegnò pure il medemo, e lo stesso ultimamente fece Israele Conrado medico gedanense, siccome può vedersi presso Deilingio, part. 2, p. 32-33.

Ma con tutto che le speculazioni di tanti preclari ingegni fossero assai penetranti e sottili in ispiegare la natura ed efficacia di questo spirito, o sia principio delle vite, commune non meno agl'animali che agli uomini; pure, chi attentamente considera i loro argomenti, non può non ricadere nelle medesime difficoltà, anzi, per meglio dire, sempre torniamo nella istessa oscurità: come e da chi questo spirito riceve tanta virtù ed efficacia, sicché possa disporre con tanto magistero ed arte le parti del seme, onde si formi un corpo sì maravigliosamente organizzato, sicché lo faccia sorgere «in animam viventem», che vuol dire lo faccia capace di senso e d'imaginazione, e negli uomini anche di discorso? Tutti fin qui non ci danno se non che parole ed idee vaghe e confuse, e, come si vedrà più innanzi nel cap. 4°,Cartesio fu il primo che ce ne additò la più verisimile e probabile maniera.

S. Agostino, ed assai meglio il P. Malebranche, ruppero, non già disciolsero il nodo, dicendo il primo che questo spirito tutta la sua efficacia l'ebbe da Dio, dal giorno che lo creò, e per questa sua infallibile virtù fu chiamato specialmente «spirito di Dio». Così egli lo diffenì nel lib. De Gen. ad lit., cap. 4, essere «vitalem creaturam, qua universus iste visibilis mundus et omnia corporea continentur et moventur; cui Deus omnipotens tribuit vim quandam sibi serviendi ad operandum in iis quae gignuntur».

Il P. Malebranche, nelle Illustrazioni al lib. 6 De inquir. verit., argum. 7, dice di più, che tutta l'efficacia che volgarmente si crede essere nelle cause seconde, debba attribuirsi a Iddio solo che gliela diede nel principio e di continuo gliela dà e conserva, non essendo per lui altro la conservazione che una perenne e continua creazione. Così quando leggiamo nel Genesi, cap. 1, «Germinet terra herbam virentem; producant aquae reptile animae viventis et volatile; producat terra animam viventem», e quando nel Vangelo di S. Marco Cristo S. N., favellando della semenza che cade in terreno buono, disse: «Et terram ultro producere primo herbam deinde spicam deinde plenum frumentum in spica», non deve sentirsi che per se stessa la terra, l'acqua e la semenza avessero tale virtù ed efficacia, o ch'Iddio l'avesse loro data nel principio, e che per anco in quella ora la suscita, ma che Iddio sempre operando gliela conservi, sicché a lui come sola cagione debbano attribuirsi tutti gli effetti delle cose create; esse non somministrano, siccome non somministrarono, che la sola materia, ma la virtù ed efficacia è tutta di Dio, ci dice. La divina Scrittura istessa, anzi Dio medesimo ci rende testimonianza che egli fa tutto: «Ego sum Dominus» ei dice «faciens omnia, extendens coelos solus, stabiliens terram, et nullus mecum», Isaia, cap. 44, v. 24. Giobbe pur disse, 10, 16: «Manus tuae fecerunt me, et plasmaverunt me totum in circuitu»; e la savia e coraggiosa madre dei Maccabei, ispirata dal Signore, così parlò ai cari suoi figliuoli: «Nescio qualiter in utero meo apparuistis, etc.; singulorum membra non ego ipsa compegi; sed enim mundi creator, qui hominis formavit nativitatem», Macab. 2, cap. 7, v. 22 et 23. E S. Luca, Act. Apost., 17, 28, pur disse: «Cum ipse Deus det omnibus vitam, inspirationem et omnia». Ne' Salmi, 103, 148, pur si legge: «Producens foenum iumentis et herbam servituti hominum»; ed infiniti altri luoghi, non meno del Vecchio che del Nuovo Testamento, convincono l'istesso.

Dalla terra e dall'acqua Iddio formò gli animali e le piante, non perché la terra e l'acque da se stesse potessero generare cosa alcuna, ma perché dalla terra e dall'acqua furono da Dio formati i loro corpi, siccome dal cap. 2 seguente del Genesi è manifesto: «Formatis igitur dominus Deus de humo cunctis animantibus terrae et universis volatilibus coeli». Furono adunque gli animali terrestri, i volatili ed i pesci formati di terra e d'acqua, non già prodotti dalla terra e dall'acqua. E Mosè, narrando come gli animali ed i pesci per commando di Dio fossero prodotti, aggiunge «Deum ipsum illa fecisse», affinché la loro produzione non s'attribuisse unicamente alla terra ed all'acqua. «Creavitque Deus» e' dice «cete grandia et omnem animam viventem atque motabilem, quam produxerant aquae in species suas, et omne volatile secundum genus suum». E più innanzi, doppo aver parlato della formazione degli animali, soggiunge: «Et fecit Deus bestias terrae iuxta species suas et iumenta et omne reptile terrae in genere suo».

Non v'è dubbio alcuno che questa maniera di spiegare l'efficacia e la virtù di questo spirito sia la più facile e spedita, poiché, rifondendosi ogni cosa ad Iddio, si arriva a concepire benissimo la sua efficacia, e che possa essere principio di vita e moto e senso agli animali e di cognizione agli uomini, essendo nelle sue mani riposto di dare quel potere ed efficacia che vuole alle cose da lui create. Ed in ciò non avvertì Malebranche che, riponendosi tutto sopra la virtù ed efficacia ch'Iddio sempre somministra a questo spirito, che necessità v'era dunque d'imaginare nell'uomo un'altra sostanza cogitante e farla venire da fuori ad informar il suo corpo per renderlo discorsivo, quando siccome a quello de' bruti dà tanta virtù ed efficacia di fargli crescere e sentire, così bastava che nell'uomo si stendesse un poco più questa efficacia per farlo discorsivo, essendo nelle mani di Dio il potere di far ciò che vuole, e rendere le cose, siccome da insensibili farle sensibili, così queste passarle e spingerle a fargli discorsive. Ma questo è l'istesso che sfuggire il travaglio nelle investigazioni delle cose naturali. Né giovano i passi di Mosè di sopra allegati, primieramente perché, secondo l'osservazione de' dotti, è solita frase della Scrittura ed antico costume degl'Ebrei di riferire ogni cosa a Dio, ancorché per vie communi e naturali avvenissero; e per secondo, presso i filosofi gentili e coloro che, non attribuendo a' nostri libri sacri divina autorità, vogliono il tutto sottoporre ad esame ed alla umana ragione e discorso, tutto ciò ad essi non fa forza alcuna, e niente più viene spiegato che quello stesso che i rapportati filosofi dissero: che la natura ch'è in questo spirito dà al medesimo la virtù ed efficacia di operare. Ciò che Mosè, S. Agostino e Malebranche dicono di Dio, que' dicevano della natura, ché la facevano una stessa cosa con Dio. Così, quando S. Agostino dice che Iddio onnipotente ha data questa forza a questo spirito «ad operandum in iis quae gignuntur», e quando Malebranche, spingendo più innanzi questa dottrina, non si contenta che Iddio avesse data tal forza alle creature, ma che Iddio stesso, sempre in quelle operando, è cagione di tutte le generazioni e degli altri effetti che si veggono nell'universalità della natura, i filosofi gentili all'incontro attribuivano tutto alla natura, che non la distinguevano da Dio, anzi chiamavano questo istesso spirito Dio Giove, siccome era l'opinione degl'antichi Egizi secondo il rapporto di Diodoro Siciliano e degli altri filosofi, siccome si è veduto nel capitolo precedente, onde si conosce che di nulla forza è la soluzione di S. Agostino, e molto meno quella di Malebranche, a riguardo di coloro che non hanno per divini i libri di Mosè, ma gli riputavano, come tutti gli altri, umani e terreni. Bisogna adunque altronde investigarne la cagione ed indagare le forze, e se forse Cartesio si fosse in ciò apposto al vero; ciò che esaminaremo nel cap. seguente.

 

CAP. III
Del nuovo sistema di Cartesio intorno alla creazione del mondo, formazione dell'uomo e natura di questo spirito.

 

Forse all'uman genere sarebbe stato più utile e profittevole, se, siccome questo insigne ed incomparabile filosofo venne a noi così tardi, fosse sorto ne' secoli a noi più rimoti, quando ai filosofi era data licenza di liberamente dire ciò che sentivano intorno alle cose naturali e di esporre in liberi sensi le verità che dopo lunghe e travagliose ricerche avevano rintracciate. Venne a noi Cartesio quando il mondo cristiano era tutto persuaso che i nostri sacri libri doveano essere a noi di norma e di scorta non pure nelle cose di religione, ma anche nelle fisiche e naturali, e quando si credeva per costante che que' libri c'insegnassero che fosse un punto di religione già stabilito che le nostre anime fossero immortali ed affatto indipendenti da' nostri corpi e di sostanza diversa, sicché fuori del corpo avessero proprio stato e propria sussistenza. E con tutto che questo gran filosofo fosse tutto inteso a togliere dalle menti umane i molti pregiudizi onde s'erano somministrati i tanti ostacoli per la ricerca della verità, nientedimeno non poté non soccombere, né resistere al impetuoso fiume onde tutto il mondo era assorto, e che assordava tutti co' suoi alti e strepitosi romori, per divina rivelazione essere certo l'anime umane esser immortali ed avere propria sussistenza indipendente affatto dal corpo e per conseguenza proprio stato, ancorché da quello fossero separate. E certamente che la buona filosofia istessa insegnava che alle divine rivelazioni dovea cedere ogni umano discorso, poiché, non essendo stato l'uomo formato per dovere sapere e comprendere tutto l'ampio universo e le vie tutte per le quali opera la natura, né essere fatto per avere ed intendere tutte le idee delle cose che nell'universo sono, non essendo egli per altro che una picciolissima e minuta parte onde tutto l'universo si compone, a ragione, se mai l'uomo avesse avuta questa grazia, ch'Iddio, autore e fabro della natura, avesseli rivelati gli arcani di quella, ancorché dal corto suo intendere impercettibile, dovea, per l'autorità di chi gliela insegnava, come onnipotente, sapiente, infinitamente buono e giusto, e dal quale dovea esser lontano ogni inganno e bugia, prestargli intera fede e credenza e render servo il suo ingegno ed esser lontano dalle ricerche del come. Se a me fosse certo che quel che scrive S. Paolo nelle sue epistole di corpo spiritale fosse stato da Dio rivelato nettamente e non per mistero, certamente ch'io dovrei tener per indubbitato che si dasse un corpo spirituale del quale io non posso in fisica aver idea alcuna. Se io son certo che G. Cristo non pur fosse stato un profeta mandato da Dio, ma Dio stesso, non ho più da dubitare ch'egli avesse potuto risorgere, penetrar i corpi solidi ed entrar nel cenacolo ancorché le porte fossero chiuse, darci a mangiare della sua carne e bere del suo sangue, e moltiplicarsi in tanti luoghi non in apparenza ma in realtà, risuscitare morti e fare tutte opere prodigiose quante i vangelisti ne raccontano. Sarebbe stato ben in sua mano mutare ed in altra guisa disporre l'ordine della natura; né io fui fatto per sapere ed intendere tutte l'opere della sua infinita onnipotenza.

I

Ora l'incomparabile Cartesio, perché le sue ricerche non sembrassero contrarie alle credute divine rivelazioni intorno a ciò che riguarda la fabrica di questo mondo aspettabile, alla maniera ed ai princìpi onde formossi, affin di non offendere il commune concetto degli uomini, si pose con molti pretesti e con gran cautela a filosofarne. Per non urtare ne' libri di Mosè, egli dichiarossi che, credendo l'universo essere stato creato da un Dio onnipotente, sapiente e buono, era certo che dal principio fosse stato creato con tutta la sua perfezione, in guisa che fossero in lui e sole e stelle, cielo, terra, luna e tutti gli altri pianeti: che nella terra non solamente fossero i semi delle piante, anzi le piante istesse: non pur i semi degl'animali, ma gli animali stessi: né che Adamo ed Eva fossero stati fatti dalla terra infanti, ma formati uomini grandi ed adulti. Nulladimeno, siccome per bene intendere la natura delle piante, degli animali e degli uomini è riputata più esatta e sicura via d'esaminar la maniera come dai semi a poco a poco sorgono, che considerarli come da Dio nell'origine del mondo fossero stati creati, sei mai si potessero trovare princìpi non meno facili e semplici che fecondi da' quali, come semi, avessero potuto prodursi e sole e stelle e terra e luna e mare e tutto ciò che s'ammira in questo ampio mondo aspettabile, ancorché forse non fossero stati i medesimi e così disposti; gioverà però mostrandoci sufficienti a spiegare quanto si fa nell'universo e meglio conoscere la loro natura, ed a poter bene intendere e adattare gli effetti alle loro cagioni. Ecco come saviamente ne discorre questo insigne filosofo nella 3a parte dei suoi Princìpi: «Non enim dubium est quin mundus ab initio fuerit creatus cum omni sua perfectione ita ut in eo et sol et terra et luna et stellae extiterint; ac etiam in terra non tantum fuerint semina plantarum, sed ipsae plantae; nec Adam et Eva nati sint infantes, sed facti sint homines adulti. Hoc fides christiana nos docet, hocque etiam ratio naturalis plane persuadet. Attendendo enim ad immensam Dei potentiam, non possumus existimare illum unquam quidquam fecisse, quod non omnibus suis numeris fuerit absolutum. Sed nihilominus, ut ad plantarum vel hominum naturas intelligendas, longe melius est considerare quo pacto paulatim ex seminibus nasci possint, quam quo pacto a Deo in prima mundi origine creati sint; ita, si quae principia possimus excogitare, valde simplicia et cognitu facilia, ex quibus tanquam ex seminibus quibusdam et sidera et terram et denique omnia quae in hoc mundo adspectabili deprehendimus oriri potuisse demonstremus, quamvis ipsa nunquam sic orta esse probe sciamus; hoc patto tamen eorum naturam longe melius exponemus, quam si tantum qualia iam sint describeremus».

Credette questo filosofo aver trovati princìpi non pur fecondi, ma anche facili e semplici; ed il caos, che gli altri filosofi lo descrissero tutto confuso e torbido, dal quale secondo le leggi della natura fecero nascere e sole e luna e terra e quanto venne poi disposto ed ordinato nel mondo, egli ce lo rappressenta niente confuso, ma tutto uguale, schietto e semplice, dicendo che la confusione non può convenire colla somma perfezione di Dio creator dell'universo. Oltra di che con maggior facilità possono da noi comprendersi le cose ordinate e semplici, che le ineguali e confuse. «Etsi enim» e' dice «forte etiam ex chao per leges naturae idem ille ordo qui iam est in rebus deduci posset, idque olim susceperim explicandum; quia tamen confusio minus videtur convenire cum summa Dei rerum creatoris perfectione, quam proportio vel ordo, et minus distincte etiam a nobis percipi potest; nullaque proportio, nullusve ordo simplicior est et cognitu facilior, quam ille qui constat omnimoda aequalitate: idcirco hic suppono omnes materiae particulas initio fuisse tam in magnitudine quam in motu inter se aequales». Egli adunque dalla materia, che è una e la stessa in tutti i corpi, divisibile in qualsivoglia parte e già per se stessa in molte divisa, la quale diversamente si muove e che conserva nell'universo la stessa quantità del moto che sino dal principio della sua creazione gli fu impresso, fa nascere tutto ciò che si ammira in questo mondo aspettabile. Suppone tutte le parti e particelle della materia sin dal principio, così nella grandezza come nel moto, essere state fra di loro eguali. Considera non aver potuto essere in questo principio di figure sferiche, poiché più globi insieme giunti non riempiano come spazio continuo; ma che, di qualunque figura si fossero allora quelle, non poterono poi in progresso di tempo non farsi se non rotonde, per i vari moti circolari ch'ebbero. Da questo muoversi, urtarsi e raggirarsi insieme la materia degl'angoli percossi e striturati, venne ad occupare que' minuti intervalli che fra le parti rotonde rimasero; sicché formaronsi due generi di materia per figura molto diversi: quelle parti più minute e più agili e preste, e che scorrendo impetuosamente aggitate per tutti quei angustissimi intervalli, ed adattandosi le lor figure ad empire tutti quei stretti spazi che sono fra le parti rotonde, egli chiamò «primo elemento». L'altre divise in particelle sferiche di certa e determinata quantità, e divisibili in altre particelle molto minori, le disse «secondo elemento»; a' quali due elementi successe il terzo elemento di parti più grossolane e ramose, aventi figure meno atte al moto. Questi egli chiama «elementi» di questo mondo aspettabile. E secondo le leggi che del moto prescrisse con tanta accuratezza nella seconda parte dei suoi Princìpi, con minuta ed esatta operazione meccanicamente da' tre princìpi suddetti fa sorgere tutto ciò che s'osserva in questo mondo aspettabile. «Ex his tribus» ei dice «omnia huius mundi adspectabilis corpora componi ostendemus: nempe solem et stellas fixas ex primo, coelos ex secundo et terram cum planetis et cometis ex tertio. Cum enim sol et fixae lumen ex se emittant: coeli illud transmittant; terra, planetae ac cometae remittant: triplicem hanc differentiam in adspectum incurrentem, non male ad tria elementa referemus».

Sarebbe dilungarsi troppo dal nostro istituto e divertire soverchio l'altrui applicazione in cose cotanto minute e sottili e che richiedono tutta la penetrazione del nostro spirito, se volessi rapportare qui la maniera colla quale questo miracoloso ingegno va secondo le leggi del moto, per vie cotanto piane e semplici, tirando innanzi il suo assunto. Ciascuno o il sa o potrà attentamente osservarlo ne' suoi Princìpi, sopra i quali tanto si è dibattuto e scritto. Certamente che l'ipotesi è così bella ed ingegnosa che si adattano molto a proposito quei versi del nostro Torquato Tasso:

Magnanima menzogna, or quando è il vero

sì bello che si possa a te preporre?

Or, quantunque questo gran filosofo, volendo fra i cristiani insegnare una nuova filosofia, come la quale, fra quante al mondo ne furono e fiorirono, niuna è sì acconcia a spiegare i fenomeni della natura, avesse usate tante riserve e protesti, non poté sfuggire però l'abbuso d'alcuni che vollero tirarla dove meno si dovea. Da questa ipotesi certamente niente potea dedursi che si opponesse ai libri di Mosè, anzi, supponendosi la materia creata e che, secondo le leggi del moto che Iddio gli diede a misura e proporzione della materia creata, conservi sempre nel mondo quella istessa quantità del moto dal quale e dalla materia suddetta, anche divisibile in mille e mille parti, tutta si possa produrre, maggiormente s'ammira che la divina onnipotenza e sapienza, che per vie così piane e semplici ordinò e dispose l'universo, dasse princìpi sì fecondi, onde quanto in quello s'ammira, si produca.

Quello però che nella 2d.a parte dei suoi Princìpi credette intorno alla natura ed essenza di questa materia corporea ed estensa onde il tutto si compone, non fu ben ricevuto da' più savi, per le conseguenze pur troppo perniciose che ne potrebbero derivare; poiché, credendo che non consistesse in altro l'essenza del corpo che nell'essere estenso in lungo, lato e profondo, poiché tutte le altre modificazioni che può ricevere il corpo, o sia di gravità, o di leggierezza, o fluidità, ovvero durezza, o di rotondità, o di altre qualsivogliono figure, possono cancellarsi o variarsi, ma non giammai potrà perdere l'estensione in lungo, lato e profondo, ne venne in conseguenza che dovesse ammettere per corpo anche lo spazio, che pure ritiene le proprietà istesse; e così non meno il luogo, ovvero spazio interno sarà corpo, che lo spazio esterno: quindi era duopo dire che non si dasse in natura vacuo alcuno, ma che tutto fosse pieno, e per conseguenza la materia non essere altro che uno spazio continuato, non potendosi concepire spazio senza che nell'istesso tempo non concepiamo estensione, cioè corpo. Ecco come questo filosofo ne ragiona nella 2d.a parte de' suoi Princìpi: «Vacuum autem, philosophico more sumptum, hoc est in quo nulla plane sit substantia, dari non posse manifestum est, ex eo quod extensio spati, vel loci interni, non differat ab extensione corporis. Nam cum ex hoc solo, quod corpus sit extensum in longum, latum et profundum, recte concludamus illud esse substantiam: quia omnino repugnat ut nihili sit aliqua extensio, idem etiam de spatio quod vacuum supponitur est concludendum: quod nempe cum in eo sit extensio, necessario etiam in ipso sit substantia». Così, facendo egli consistere la natura della sostanza corporea nella sola estensione, e non distinguendola dall'estensione che si attribuisce a qualunque spazio esterno, inane o imaginario che fosse ripetendo poco da poi: «Postquam sic advertimus substantiae corporeae naturam in eo tantum consistere, quod sit res extensa; eiusque extensionem non esse diversam ab ea quae spatio quantumvis inani tribui solet» etc., quindi alcuni hanno ragionevolmente presa occassione di dire che in sostanza, di sentenza di Cartesio, l'ampio universo sia infinito, poiché qualunque spazio noi possiamo immaginarsi più in là oltre i suoi confini, sempre trovaremo estensione, che per lui sarà lo stesso che sostanza corporea, e si caderà nella sentenza di Lucrezio, lib. I, che vuole la materia infinita. Né si appagarono dell'equivocazione dell'indefinito, quasi che l'universo non già fosse infinito ma indefinito, non potendoli noi assegnare fine alcuno, poiché questo non è che un gioco di parole; anzi perché noi non possiamo al mondo assegnare fine, non potendo concepire più in là spazio senza estensione, senza corpo, questo istesso sarà farlo infinito, siccome apertamente di ciò vien convinto Cartesio nell'istesso luogo dicendo: «Cognoscimus praeterea hunc mundum, sive substantiae corporeae universitatem, nullos extensionis suae fines habere. Ubicumque enim fines illos esse fingamus, semper ultra ipsos aliqua spatia indefinite extensa non modo imaginamur, sed etiam vere imaginabilia, hoc est realia esse percipimus; ac proinde etiam substantiam corpoream indefinite extensam in iis contineri: quia, ut iam fuse ostensum est, idea eius extensionis quam in spatio qualicumque concipimus, eadem plane est cum idea substantiae corporeae». Quest'istesso adunque sarà riputar la materia infinita, giacché non possiamo prefiggerli fine alcuno, poiché nell'istesso tempo che ci forzaremo imaginarselo, subito occorre che più in là vi sia molto spazio, e questo sarà pure materia, e per conseguenza anderemo nell'infinito. Questo fece che non tutti rimasero persuasi della sua sentenza, non già che quella si opponesse ad Esaia nel cap. 40, v 18, dove dice Iddio aver posti i termini alla terra: «Deus sempiternus Dominus, qui creavit terminos terrae», poiché è chiaro che qui il profeta parla de' termini della terra, non già di tutto l'ampio universo. Oltre che s'è abbastanza da' più savi dimostrato che il favellar della Scrittura di queste cose fisiche e naturali dovea essere quello che si adatta al commune uso degli uomini; e non fu che popolare, non filosofico, poiché altrimenti Giosuè sarebbe stato riputato pazzo dall'esercito ebreo, se, invece di commandare al sole che si restasse, avesse detto alla terra che non si movesse. Parimenti Elieu Buzite, amico di Giob, parlò secondo la sua e la volgare credenza quando disse, cap. 37,v. 18: «Tu forsan cum eo fabricatus es coelos, qui solidissimi quasi aere fusi sunt?»: sarebbe ora certamente beffato e deriso chi, parlando filosoficamente, dicesse i cieli essere solidissimi e come rame o bronzo fusi.

Inoltre Cartesio tirò più innanzi questa sua dottrina, dicendo che noi possiamo più facilmente avere idea dell'infinito che del finito, poiché in natura non possiam considerare termine tale, che oltre di quello non concepiamo altri spazi, almeno immaginari; se questi certamente hanno l'istessa proprietà di largo, lato e profondo, non possiamo non concepirli che estensi e per conseguenza per corpi infiniti, perché non possono avere mai fine.

A tutto ciò s'aggiunga che, secondo questa ipotesi, Iddio prima della creazione dell'universo non avrebbe potuto creare due soli corpi sferici, poiché questi due corpi per essere sferici non s'avrebbero potuto toccare insieme secondo tutti i lati, ma solamente in un punto; dunque fra le altre parti della loro circonferenza avrebbe dovuto frapporsi qualche spazio perché non si toccassero: se questo spazio mi si dirà anche corpo, perché sarà sibbene estenso siccome i due corpi sferici creati, non avrà più creato Iddio due corpi sferici, ma un sol corpo uguale, indivisibile ed infinitamente estenso.

Dacciò ancora ne deriva che, non facendosi consistere in altro la materia che nello spazio ch'è sempre stato e sarà sempre, per conseguenza si cade nell'opinione de' Caldei, i quali, secondo che scrive Diodoro, lib. 2, cap. 8: «Mundum sempiternum esse aiunt, neque principium habuisse, neque sortiturum esse finem». Certamente che, siccome dal niente lo creò, puol Iddio a niente ridurre tutto l'universo, e non possiamo questo niente non imaginarselo che un ampio ed immenso vuoto, dove niuna sostanza sia, ma non cessaremo d'immaginarselo infinitamente lungo, lato e profondo, ché, in sentenza di Cartesio, questo sarebbe farlo reale, poiché ei dice: «Ac proinde etiam substantiam corpoream indefinite extensam in iis contineri». Se dunque dell'universo, così imaginando, non possiamo concepir fine, per la ragione istessa non potremo assignarli principio alcuno, poiché questo spazio siccome sarà sempre, così bisogna dire che sempre sia stato. Quindi con molta ragione questa dottrina dello spazio di Cartesio alcuni non ebbero ritegno di riputarla un delirio, siccome la riputò M.r Nicole, il quale, tom. 2, epist. 83 in fine ci rende ancor testimonianza che M.r Pascale fu del medesimo sentimento. Ma non perché in ciò avesse preso abbaglio quest'incomparabile filosofo, dovrà dirsi che per questo rovinerà o sarà gittato a terra quell'ammirando ed ingegnoso suo sistema. Sussiste ben egli, né puole da questo urto ricevere nel rimanente crollo alcuno: siccome non si rovinò il sistema di lui formato intorno alla fabrica dell'uomo e sue operazioni ed effetti, perché dapoi da' più periti ed esperti notomici fu osservato che la glandola pineale, per essere sovente ricettacolo di mucchi ed impurità, non poteva essere adattata ed acconcia ad essere stabilita centro ove derivassero ed andassero a terminare tutti i nervi e filamenti ond'è sparso il nostro corpo, sicché avesse ivi potuto collocarsi la principale sede della nostra anima, per ivi dare e ricevere insieme le impressioni dei corpi che ci circondano, poiché basterà che nel nostro cerebro, o nelle sue cavità o membrane, si trovi questo punto ove vadino a terminare tutte le linee della circonferenza del nostro microcosmo, poco importando che si stabilisca questo luogo o in quella glandola o in altra più intima e riposta parte: non si rovinerà perciò la sua ingegnosa ipotesi dell'uomo: così non si rovescierà il sistema concepito intorno alla fabrica del mondo, se a questa estensione si darà un soggetto per sé essistente, sicché l'essere lato, lungo e profondo sia sua modificazione e proprietà intrinseca che lo faccia distinguere dalle altre cose che Iddio ha potuto creare nell'universalità della natura, che non siano estense, delle quali noi, come si dirà più innanzi, infinora non abbiamo idea alcuna, perché l'uomo non è stato formato per aver idea di tutte le cose che possono essere nell'universo e che l'onnipotenza divina ha potuto creare.

Questo soggetto sarà la sostanza, cioè cosa che per sé esista, nel che possono convenire tutte le altre cose che Iddio ha creato o può creare, e che per sé sussistono. La sostanza è un genere nel quale tutte le cose convengono al moto esterno, inane ed imaginario che niente ha di reale, e per conseguenza in cotal guisa potremo trovare e concepire i confini dell'universo, e non farlo esterno ed infinito; e l'istesso Cartesio nella sostanza fa convenire Iddio stesso colle sue creature.

Ma v'intende una grandissima differenza tra l'un essere e l'altro. Iddio è per se stesso, e le sue creature sono per lui; onde Mosè bene ne concepì l'idea quando scrisse Iddio avergli rivelato il suo proprio nome essere il Dio «sono», ovvero «quel che fu, e quel che sempre sarà», dagli Ebrei perciò chiamato Iaheuh, ovvero il Iao, come anche legge Boccardo, oltre Diodoro Siciliano. È nota l'istoria che pascendo Mosè (ne' sacri libri) la greggia nell'Arabia sull'Oreb, Dio gli commandò che, calato in Egitto, dicesse al popolo d'Israele che il Dio de' loro padri lo inviava ad essi: Esod., 3, v. 10. Dubitò tantosto Mosè che questo popolo rozzo, come uso a sentirsi continuo risuonar nell'orecchio dio Chamo, dio Giano, dio Diri, e sifatti nomi di deità, ove la prima voce è il nome appellativo e la 2a è il proprio, gl'avrebbe chiesto qual era il nome proprio di questo Dio de' padri loro. Pertanto interrogò a Dio, se veniale fatta tale richiesta, che dovea rispondere? Allora Dio per rendergli noto che gl'altri erano dei vani e di sol titolo, ed esso solo il vero, si pose due nomi propri, un «sarò», l'altro «fu», che la vulgata versione legge così, Esod., 3, v. 1,: «Dixit Deus ad Mosen: "Ego sum qui sum: sic dices filiis Israel: Qui est misit me ad vos"», poiché quel che sempre fu e sarà, sempre è. Ma questo ultimo nome di «fu» ormai più gli piacque e il si ritenne. Simile istoria venne da Dio stesso spiegata allor che altra volta in Egitto disse a Mosè: «Io sono Iaheuch, ovvero Iao (Esod., 6, v. 2-3), e comparvi ad Abramo, ad Isaacco ed a Giacobbe, come Dio Saddai, cioè onnipotente, e nel nome mio Iaheuch (Iao) non fui conosciuto da essi loro».

Ed in vero di Dio solo può dirsi che sia, e questo nome spiega acconciamente la sua divina essenza, poiché tutte le altre cose che nascono e muoiono non posson propriamente dirsi che siano. Verità conosciuta eziandio dagli antichi filosofi, e sopra ogni altro da Platone in Timeo, il quale perciò i nostri teologi, seguendo il lor costume, voglion che tal dottrina l'avesse appresa dai libri di Mosè. Platone, di questo essere parlando, disse:«Quid illud est quod semper est, nec tamen ortum ullum habet; quid illud contra, quod semper nascitur et nunquam est? Prius illud quidem, quod semper atque eodem modo est, ab sola intelligentia cum ratione percipitur. Alterum hoc, quod oritur simul et occidit, neque unquam vere est, in ea dumtaxat, quam sensus ab omni ratione vacuus efficit, opinione versatur». Ciocché Numenio Pitagorico spiegò assai dottamente dicendo al lib. 2° de bono: «"Quod enim est, id sempiternum est, atque eodem sese modo constanter habet etc. Maneat igitur et tanquam verum sumatur incorporeum esse, id quod est. Quaerit Plato, quid illud sit, quod est; id sine dubio carere ortu statuens; mutaretur enim alioqui: si autem mutaretur, sempiternum id non esset". Inde aliquantum progressus haec addit: "Si quod est, id omnino sempiternum et immutabile est, nec ab sese ulla unquam varietate discedit, sed in una semper eademque ratione permanet, illud unum profecto sit oportet, quod intelligentia cum ratione capiatur"». Leggasi quel savissimo discorso di Plutarco nel lib. De syllaba εΐ (es) delphico tempio inscripta, dove fra le altre cose dice: «Nos enim nullo modo sumus, sed omnis omnino natura mortalis, in quodam interitus ortusque medio constituta, umbram sui dumtaxat aliquam exilemque, ac lubricam opinionem ostendit». E poco dapoi: «Ecquid igitur illud est quod vere est? Id unum utique quod sempiternum est, quod ortu simul interituque caret, cui nullum tempus mutationem affert». Leggasi ancora quanto Eusebio, lib. II Praeparat. evang., cap. II, da cui fu questo luogo trascritto. Prenderò ancora su i riferiti passi di Platone e di Numenio nel lib. II Praeparat. evangelica, cap. 9 e 10. Dee recar maraviglia come non sia caduto in mente a' nostri scrittori, sentendo Omero mettere per proprio aggiunto degli dii essere «sempre esistenti», non abbiano detto che lo prese da Mosè.

Ma non si sono accorti i nostri semplici ed innocenti teologi che di questo modo di parlare i filosofi gentili se ne valevano per ispiegare la differenza che intercede tra le cose composte ed i loro primi princìpi semplicissimi ed incorruttibili. Questi l'avean per eterni, ed a' quali attribuivano un vero essere; a tutte le altre di natura mortale, che, scomponendosi, passano ora in una forma ora in altra, che ora nascono ora muoiono e spariscono, non gli davan per questa loro volubilità e spesso cangiamento quel essere che sempre fu e sarà sempre eterno ed immutabile. A' primi semi delle cose attribuisce quest'essere Lucrezio in tutti i suoi libri della Natura delle cose, che perciò gli fa eterni ed immutabili. Altri filosofi a tutta la natura, che perciò la fanno eterna ed infinita. E poiché questi non ebbero idea di creature e creatore, supponendo che dal niente non si possa crear altro che un nulla, ma che da cosa si faccia cosa, quindi male vengono adattate queste loro frasi alla dottrina che Mosè ci lasciò nei suoi libri intorno al vero essere, da lui non attribuito che al solo Iddio d'Abramo.

Quando concepiamo un Dio creatore, certamente che a questo Dio conviene più che alle sue creature il nome di Essere, poiché l'essere da lui ricevono, e perciò quelle impropriamente si dicono sustanze. E perciò Cartesio disse che Iddio e le creature convengono nell'esser sostanze, ma non già univoce, come si parla nelle scuole. Ma non potrebbero dirsi sue creature se non fossero state dal niente ridotte in qualche essere, ancor che flussile, variabile e sempre mobile ed inconstante, le quali a riguardo del primo essere possono ben dirsi che non siano, ma non perciò saranno uno spazio vano; sono cose, ma che tutto il loro essere lo derivono da Dio che gli puol fare meritare il nome di sostanza, alla quale aggiunto l'attributo di longo, lato e profondo, fassi che possa denominarsi sustanza estensa, che la distingue dalla sustanza divina, ch'è incorporea ed infinita, e della quale per la sola nostra cogitazione, non già per li sensi e per l'imaginazione, possiamo averne idea. Così non errerà chi dice che l'estensione sia una modificazione della sostanza, e per conseguenza lo spazio inane ed immaginario non sarà corpo, né sostanza estensa, né creatura, ma un puro niente. Egl'è vero che alcuni questa sostanza che riconoscono nelle creature non han potuto separarla dalla sustanza divina, e che Iddio stesso fosse la sustanza, la natura e l'essere di tutte le cose; nel che, oltre Benedetto Spinosa, ch'ha questa dottrina per fondamento del suo sistema, par che inclini eziandio Malebranche, poiché a Dio tutto rifonde. Ed in vero, siccome si è veduto nella prima parte, così interpretavano il Dio di Mosè i gentili, che fosse nel tutto, e che ogni cosa in lui fosse: sicché quest'Essere che alle cose si dà non lo credevano dipendere da Dio, come egli dal niente l'avesse create, non potendo ciò capire, sul pregiudizio che da niente si fa niente, ma che fosse Iddio stesso; e Malebranche dice di più, che tutte le operazioni che s'attribuiscono alle cause 2e devono attribuirsi ad Iddio e non alla virtù ed efficacia forse dateli nel principio della creazione, dicendo che Dio tutto fa, perché egli è il tutto. Fozio nella sua Biblioteca, cod. 244, pag. 1151, ci conservò, come si è detto, quel lungo passo tratto dal quarantesimo libro di Diodoro Siciliano, ora perduto. Dove questo insigne storico, rapportando la religione e le savie leggi stabilite da Mosè al popolo ebreo, narra che degnamente costui concepì l'idea di Dio, facendolo non di forma umana o di animale, come l'altre nazioni se '1 finsero, ma ch'egli solo contenesse in sé e cielo e terra e mare e tutto: «Imagines deorum» e' dice «omnino non sculpsit, quod putavit humana Deum non videri forma, sed coelum terram ambiens esse Deum, et omnia suo imperio gubernare».` Erodoto questa istessa opinione, come pure fu avvertito nella parte prima, rapporta de' Persiani. Gli stoici confusero eziandio le creature col creatore, e Seneca, lib. 6 De beneficiis, cap. 7, scrisse pure: «Deum non esse sine natura». Cicerone ci ha conservato pure un frammento di Pacuvio poeta, il quale di Dio pur tenne lo stesso concetto, dicendo: «Quidquid est hoc, omnia animat, format, alit, auget, creat, / sepelit, recipitque in sese omnia omniumque idem est pater, / indidemque eademque oriuntur de integro atque eodem occidunt».

Quindi Manilio, in quel suo elegantissimo carme consegrato ad Augusto, cantò pure:

Omnia mortali mutantur lege creata,

nec se cognoscunt terrae vertentibus annis.

Exutae variant faciem per saecula gentes,

at manet incolumis mundus, suaque omnia servat;

quae nec longa dies auget minuitque senectus;

nec motus puncto currit cursusque fatigat.

Idem semper erit, quoniam semper fuit idem.

Non alium videre patres, aliumve nepotes

adspicient: Deus est qui non mutatur in aevo.

Strabone, reputando che Mosè fosse di quest'istessa credenza, parlando di lui nel lib. 16 disse: «Affirmabat enim docebatque Aegyptios non recte sentire, qui bestiarum ac pecorum imagines Deo tribuerent; itemque Afros et Graecos, qui diis hominum figuram effingerent. Id vero solum esse Deum quod nos et terram ac mare continet, quod coelum et mundum et rerum omnium naturam appellamus, cuius profecto imaginem nemo sanae mentis alicuius earum rerum quae penes nos sunt similem audeat effingere. Proinde omni simulacrorum effictione repudiata, dignum ei templum ac delubrum constituendum ac sine aliqua figura colendum».

Donde avvenne che alcuni, per rendere il contro cambio ai nostri teologi, han detto che Mosè fosse panteista, ovvero spinosista; che con Dio confondesse pure tutte le cose e credesse ch'Iddio fosse lo stesso che la natura e tutto l'ampio universo.

Ma, in verità, la dottrina di questi gentili filosofi non è in tutto conforme ai sentimenti di Mosè, che ci espresse ne' suoi libri, come è per se stesso manifesto a chi attentamente ne' medesimi riguarderà la destinzione che fa tra creatore e creatura; o almeno de che in quelli al uomo s'attribuisce propria e natural malizia, e che sia una creatura di sua natura inclinata al male, cosa dall'idea di Dio, secondo Mosè istesso, affatto lontana ed impropria; seppure non voglia dirsi che la bontà e la malizia siano modificazioni ed attributi della sostanza, la quale per la stessa considerata, trascende da ogni vizio o virtù; ed Iddio, secondo la sustanza, è tutto l'universo, non già a riguardo delle modificazioni, che nulla sono né hanno proprio e vero essere. Meglio questa dottrina si adatta all'opinione di quei filosofi (alla quale finalmente, tolta ogni equivocazione, par che si riduchi il sistema di Spinosa), li quali, siccome s'è detto, confusero Iddio colla natura, e ciò che Mosè disse di Dio attribuiscono alla natura, includendo nella medesima tutto l'ampio universo, che perciò lo finsero eterno, infinito e che non ebbe principio alcuno siccome non avrà mai fine, siccome Lucrezio ci descrisse i primi semi e princìpi delle cose, e che sono, furono e saranno in eterno.

II

Siccome non possiam sostenere l'ipotesi di Cartesio, se alla estensione non sia dato per appoggio cosa creata che per sé sussista, così a torto fugli imputato che, secondo il suo sistema, l'universo senz'architetto fosse surto, e che, secondo le leggi del moto, il tutto meccanicamente siasi fatto, poiché egli non men quelle leggi l'ha come da Dio dettate, ma il moto istesso lo fa prodotto, non eterno ed increato, dicendo che Iddio non men creò nel principio la materia che il moto istesso, ed egli prescrisse quelle leggi che ne' corpi che si movano osserviamo. Nell'idea che abbiamo del corpo, e' dice, non c'includiamo certamente moto alcuno, e molto meno quiete. Sicché l'estensione non ha niente di commune col moto e colla quiete, o che fossero sue apparenze. Iddio nella creazione della materia lo diede e communicò a' corpi, ed Iddio ce lo conserva nella quantità istessa che sin dal principio gli diede con quelle leggi. Né perché da poi in seguela dalle medesime, serbando un tenor costante, ne sia surto meccanicamente tutto ciò che s'ammira in questo mondo aspettabile, possiamo dire che sia prodotto senza architetto. Anzi ammiriamo piuttosto la sapienza ed onnipotenza del fabro, che per vie così semplici e piane, secondo quelle schiette e facili leggi di moto impresso alla materia, ne abbia potuto fare sorgere una macchina sì varia ed ammirabile, e sì portentosa e stupenda. Ma è altresì vero che si attendano le acute riflessioni di Newtone e di . . ., i quali han dimostrato che l'ipotesi di Cartesio e la sua meccanica non basta a far che i corpi celesti abbiano quel moto circolare e periodico e che dovrebbero, assai confuso e disordinato, non così metodico come l'osserviamo. Certamente che a Dio che lo regola, a libro, dovrem ricorrere. Secondo questo filosofo adunque, questa gran macchina del mondo surse da quegl'elementi e secondo le leggi del moto che Iddio impresse alla materia; tutto fu prodotto e s'ebbe quel ordine che nell'universo si vede, poiché, poste tali leggi, questa disposizione e non altra doveane seguire, e tutto quello che in natura accade secondo queste immutabili leggi, spontaneamente non meno che di necessità succede. Egli ancora, secondo questi suoi princìpi, spiega tutti i fenomeni che osserviamo in natura: quanto nel cielo, nel sole, nelle stelle e nelle comete si vede; quanto nella terra e negli altri pianeti. Ciò che nel mare e suo flusso e riflusso, e quante meteore nell'aria si formino; ciò che nella terra si produce, nelle mine de' metalli e dentro le sue viscere de' tremuoti e de' fuochi sotterranei. Il prodigioso fenomeno della magnette, la produzione del fuoco, del lume, de' colori, del suono, e mille e mille altre ricerche che ciascuno non senza maraviglia e piacere può vedere nella 4ta parte de' suoi Prinìipi: ed in ciò certamente tolse il preggio a Lucrezio, dandoci una più verisimile e più solida filosofia. Ne diede anche altri chiari e manifesti saggi negl'ammirabili suoi trattati della Diottrica e delle Meteore, ch'egli perciò chiama Specimina, per confermare maggiormente l'ipotesi da lui formata ad essere sufficiente a spiegare tutti gl'effetti ed ammirabili fenomeni della natura e rinvenire le cagioni; e con questi soli suoi princìpi e leggi del moto senza ricorrere a qualità, a cagioni finali o virtù occulte, come si facea: già ch'era lo stesso che ignorarle e pascere di vento gl'intelletti umani con vane ed inutili parole.

Non in tutto piacque agl'ultimi filosofi de' nostri tempi il sistema del mondo di Cartesio, e ne foggiarono de' nuovi. Tra gl'inglesi Tomaso Burnet ne immaginò un altro, e di poi M.r Wlston ne concepì altro più ingegnoso, i quali posero ogni loro studio per adattare le loro immaginazioni ed ipotesi alla creazione del mondo secondo che ce la descrisse Mosè. Ma, se bene intorno a quel che s'è detto dello spazio ed in alcune poche cose di sopra notate possono riprendere d'errore il Cartesio, incomparabilmente riesce più verisimile quello ideato da questo gran filosofo, che i di loro sistemi bizzarri, vani e fantastici.

Ciò che Cartesio avea perfezionato intorno il sistema del mondo, avea egli in animo di proseguire intorno all'uomo, e perciò avea destinato alle quattro parti de' suoi Princìpi aggiungerne due altre: nella quinta trattar delle piante ed animali, e nella sesta dell'uomo. Ma per molti esperimenti che li mancavano, e perché senza una esatta perizia di notomia non se ne potea con fondamento filosofare e venirne a capo, differì l'impresa, essendosi perciò dato allo studio di notomia, a questo fine dandone intanto nella quarta parte un breve saggio. Egli, se morte pur troppa acerba ed immatura non avesse resi vani i suoi disegni, avea deliberato, dopo avere trattato delle piante, degl'animali e dell'uomo, per raccorre qualche frutto di tante sue gloriose fatiche, di procurare, se mai fosse possibile, di spingere più innanzi le conoscenze intorno alla medicina, prefiggendosi per ultima mèta lo studio della morale, fine dell'uomo, ed alla quale dee egli dirizzare tutti i suoi precedenti studi, che sempre riusciranno vani ed inutili se non saranno drizzati a questo fine.

La morale è quella che ci fa riflettere a dovere di tante ammirabili opere della natura renderne grazie al creatore ed infiammarci del di lui amore, e prendere di esse quel buon uso che si conforma alla giustizia ed all'onestà, e di non far ad altri ciò che a noi non si vorrebbe essere fatto. E siccome della medicina non se ne pretende altro uso, se non sani i nostri corpi, così della morale per le nostre menti, affinché in noi «sit mens sana in corpore sano». La morale è quella che alle cose ci fa aggiungere i fini ed i rispetti, poiché, se quelle si considerano fisicamente, non ci trovaremo fine alcuno. La natura fisicamente considerata è cieca ed opera secondo il costante tenore delle sue eterne ed invariabili leggi, e solo Iddio che la creò può mutarla e darle altro corso. L'uomo, dottato di miglior accorgimento che non è ne' bruti, havvi nelle cose trovato il fine e ridottele ad uso. Né bisogna credere che quanto è nell'ampio universo tutto siasi prodotto unicamente per l'uomo, e che di tutto ciò che contiene non vi possa essere altro uso. L'uomo non è che una minima parte dell'universo, né fu da Dio creato per avere tutte l'idee delle cose che racchiude, ed aver uso del tutto, ma, avendolo Iddio dottato di miglior discorso, al quale i bruti non possono arrivare, questo ha fatto che delle cose ammirabili della natura abbia saputo trovarne uso ed adattarle a' suoi fini. Perciò si dice avergli Iddio sottoposta la terra e tutto ciò che in essa vive e cresce, cioè piante ed animali, e perciò d'averlo creato a sua imagine e similitudine, per l'intelletto del quale lo fornì più sublime, affinché avesse potuto dominare la terra e tutto ciò che in essa vive e cresce. Ma questo non fa che quanto si produce in natura tutto si faccia per l'uomo, e che Iddio per l'uomo avesse creato ogni cosa: «Quamvis enim (dice saviamente Cartesio nel principio della terza parte de' suoi Principi) in ethicis sit pium dicere omnia a Deo propter nos facta esse, ut nempe tanto magis ad agendas ei gratias impellamur eiusque amore incendamur; ac quamvis etiam suo sensu sit verum, quatenus scilicet rebus omnibus uti possumus aliquo modo; saltem ad ingenium nostrum in iis considerandis exercendum, Deumque ob admiranda eius opera suspiciendum: nequaquam tamen est verisimile sic omnia propter nos facta esse, ut nullus alius sit eorum usus; essetque plane ridiculum et ineptum id in physica consideratione supponere, quia non dubitamus quin multa existant vel olim extiterint, iamque esse desierint, quae nunquam ab ullo homine visa sunt aut intellecta, nunquamque ullum usum ulli praebuerunt». E nella terza Meditazione così ragiona: «Cum enim sciam naturam meam esse valde infirmam et limitatam, Dei autem naturam esse immensam, incomprehensibilem, infinitam, ex hoc satis etiam scio innumerabilia illum posse quorum causas ignorem; atque ob hanc unicam rationem totum illud causarum genus quod a fine peti solet, in rebus physicis nullum usum habere existimo. Non enim absque temeritate me puto posse investigare fines Dei». Per la qual cosa saviamente ponderò Bacon di Verulamio, lib. 3 De augm. scient., cap. 4, che fu maniera indegna d'un filosofo quella che sovente tennero Aristotile e Platone di indagare nella natura fisicamente riguardata questi fini, quasi che da lei fossero intesi, e che perciò fornì gli occhi di palpebre per diffenderli dalla polvere e dai raggi solari, e che avesse proveduta alla faccia d'una cute delicata insieme e forte, affinché, dovendo essere sempre esposta all'aria, non ricevesse oltraggi da' corpi che la circondano; e mille altre puerilità e cagioni finali inventate a capriccio, fingendo in ciascheduna opera di natura particolare intelligenza che l'indrizzi e guidi. La natura è per se stessa cieca, e niente opera a determinato fine che ella s'abbia; e perciò non devono riputarsi cotanto empi i libri di Lucrezio che pur ciò insegnano, e que' suoi versi quando, fisicamente parlando, disse, lib. 4, ver. 832:

Nil ideo quoniam natum est in corpore ut uti

possemus, sed quod natum est id procreat usum.

Nec fuit ante videre oculorum lumina nata,

nec dictis orare prius quam lingua creata est;

sed potius longe linguae praecessit origo

sermonem, multoque creatae sunt prius aures

quam sonus est auditus, et omnia denique membra

ante fuere (ut opinor) eorum quam foret usus.

Intorno a che è da vedersi Gassendo, tom. 2 Phisicae Sect. 3, memb. post., lib. 2, cap. 3, ove rapporta altri filosofi che furono dello istesso sentimento. Quantunque l'incomparabile Cartesio, per l'acerba ed al genere umano purtroppa dolorosa e dannosissima morte, non avesse potuto condur a fine la meditata sua impresa, e per ciò che riguarda la filosofia delle piante e degl'animali niente avesse a noi lasciato, con tutto ciò, per quel che riguarda alla natura e princìpi dell'uomo, oltre dell'ammirabile suo trattato Delle passioni che diede in luce vivendo, dopo sua morte si trovorono pregiatissimi manuscritti, ne' quali è manifesto ch'egli avea posto mano alla fabrica dell'uomo, ed a spiegarcene i suoi princìpi e fattezze; e quantunque l'opera non si fosse ridotta al suo compiuto fine, come si vede da' suoi principiati e non compiti trattati De homine et de formatione foetus, dove egli avea proposto prima trattare del corpo, da poi separatamente anche dell'anima, e finalmente dimostrare «quo pacto hae duae naturae iunctae et unitae esse debeant ad componendos homines, qui nobis similes sint»; e non ci avesse lasciato che la descrizione del corpo e la maniera colla quale e' credette dal seme formarsi nell'utero delle nostre madri il feto, nulladimanco tanto bastò che si dasse stimolo agli altri di proseguire l'impresa, e seguendo la sua traccia, adempire come si poté meglio le sue promesse; nel che non possiamo defraudare della meritata lode Ludovico de la Forge, il quale, oltre averci date savie note sopra quel trattato De homine, procurò eziandio supplire la seconda parte col suo trattato De mente humana; e Malebranche nel suo dotto e savio libro De inquirenda veritate procurò in qualche modo supplire anche alla terza. Gioverà pertanto al nostro istituto che qui si rapporti ciò che questo filosofo credette intorno alla produzione e natura dell'uomo, e di quali sostanze lo facesse composto.


 

 

LIBRO SECONDO DEL REGNO CELESTE

INTRODUZIONE

A' tempi di Tiberio Augusto, essendo tetrarca della Gallilea Erode Antipa e proconsule della Giudea Ponzio Pilato, da' deserti vicini al Giordano si vidde uscire un uomo selvaggio, che non si cibò che di miele silvestre e di locuste, e non cinse le sue reni che di cuoio, né vestì le sue membra che di peli di camelo, il quale andava gridando per le contrade: «Poenitentiam agite; appropinquavit enim regnum coelorum». Era costui Giovanni figliuolo di Zaccaria, sacerdote della stirpe di Abia, nato prodigiosamente da Elisabetta, vecchia e sterile, in un luogo posto fra le montagne della Giudea, il quale, fin dalla sua giovinezza vivendo nelle solitudini di quei deserti, non ne uscì se non dopo che pervenne all'età di trent'anni, annunziando questo nuovo regno celeste ed un nuovo messia, di cui egli era solo precursore ed indegno nemmeno di potergli scalzare le scarpe da' piedi, al quale dovessero credere; e che siccome egli battezzava nell'acqua, così costui avrebbe battezzato nel fuoco e nello spirito.

Per questo nuovo messia intendeva Giovanni Gesù di Nazaret, città della Gallilea, nato in Betelem di Giudea, mentre i suoi parenti Giuseppe e Maria, della famiglia di David, da Nazaret si portavano nella Giudea per ubbidire all'editto della numerazione di Cesare Augusto in far descrivere i loro nomi in Betlemme, città della stirpe di Davide, poiché ciascheduno dovea professare nella città della propria casa e famiglia d'onde traeva l'origine.

Questo fu quell'aspettato messia che dovea Iddio mandare in terra per ridimere l'uman genere e purgare l'umanità di que' vizi contratti per la caduta del primo uomo Adamo. Questi come figliuol di Dio dovea incarnarsi, accoppiando alla divina l'umana natura, per la quale unione venne l'intiera umanità a nobilitarsi; e, divenendo egli fratello di tutti gli uomini, fece sì che fossero i medesimi degni di essere ammessi come suoi coeredi al regno di suo padre, non essendo stato altro lo scopo principale di questa incarnazione che ogni cosa ristabilire e salvare tutti gli uomini, li quali, siccome in Adamo tutti muoiono, così in Cristo son vivificati, secondo che ce ne assicura san Paolo. Egli dovea abbattere totalmente la spiritual morte degli uomini, ch'era il peccato, e vincere l'inferno; poiché, distrutto il peccato in tutti gli uomini, non vi è più morte eternale né inferno.

San Paolo stesso ci dichiara il piacere di Dio nell'avere mandato in questo mondo il suo figliuolo, che era «che tutta la sua plenipotenza abitasse in lui affine di riconciliar seco per mezzo suo tutte le cose, tanto quelle che sono ne' cieli, quanto quelle che sono nella terra». Chiama perciò questo suo figliuolo incarnato primo nato di tutte le creature, ed a riguardo degli uomini fratello primogenito; e siccome egli, essendo figliuolo, è d'ogni cosa erede del Padre, così ora gli uomini come fratelli di Gesù Cristo divengono coeredi, e per conseguenza ammessi alla parte dell'eredità di questo regno celeste. Spesse volte san Paolo nelle sue epistole fa questo confronto di Adamo e di Gesù Cristo e degli effetti che dall'uno e dall'altro ne ha ricavato l'uman genere. Come, egli dice, per un sol uomo è entrato nel mondo il peccato, e per lo peccato la morte, così per una sola giustizia giustificante è venuto il dono della giustificazione della vita sopra tutti gli uomini, aggiungendo egli che, siccome gli uomini sono stati resi peccatori per la disubbidienza di un solo, così per l'ubbidienza di un solo saranno resi giusti; e siccome un tempo abbondò il peccato, così ora soprabbonderà la grazia, la quale farà che gli uomini che prima nati di terra erano destinati per un regno terreno, saranno ora innalzati ad un supremo regno celeste.

Gesù Nazareno, adunque, dopo aver nel Giordano ricevuto da Giovanni il battesimo dell'acqua, essendo arrivato all'età di circa trent'anni, cominciò ne' luoghi vicini, e dappoi nelle sinagoghe stesse, a predicare e discovrire questo nuovo regno celeste fino a questo tempo a tutti ignoto e che era già prossimo ad arrivare, dicendo pure: «Poenitentiam agite, appropinquavit enim regnum coelorum». E non pure, scorrendo nelle città e castelli della Gallilea e della Giudea, alle turbe, ma dentro le sinagoghe stesse insegnava e predicava questo nuovo regno, come ce ne rende testimonianza l'evangelista Matteo, testimonio di veduta, dicendo: «Docens in synagogis eorum et praedicans Evangelium regni»; ed altrove: «Circuibat Iesus omnes civitates et castella, docens in synagogis eorum et praedicans Evangelium regni». Co' suoi discepoli e colle turbe il soggetto più frequente de' suoi discorsi non era che di favellare di questo regno, valendosi per ispiegarlo e adattarlo alla loro intelligenza di parabole e similitudini, ora prese dal granello della senape, ora dalla zizania cresciuta ne' campi, ora dalla buona semenza, ora dal fermento ascoso nella farina, ora dal tesoro nascosto, ed ora da altre somiglianze delle quali san Matteo fa lunghe e spesse ricordanze. Ma le turbe con tutto ciò non arrivavano a capirlo, e maravigliando fra sé dicevano: «Quidnam est hoc? Quaenam doctrina haec nova?». E molto più se ne stupivano in Gallilea i suoi compatrioti quando nelle sinagoghe di Nazaret cominciò ad insegnare questa nuova dottrina dicendo: «"Unde huic haec omnia? Et quae sapientia est quae data est illi et virtutes tales quae per manus eius efficiuntur? Nonne hic est faber, filius Mariae, frater lacobi et Ioseph et Iudae et Simonis? Nonne et sorores eius hic nobiscum sunt?". Et scandalizabantur in illo». Ma i suoi discepoli non se ne scandalizavano, poiché ad essi era stato dato di conoscere questi misteri, e agli altri no; epperciò, quando gli domandavano perché parlava alle turbe in parabole, loro rispose: «Quia vobis datum est nosse mysteria regni coelorum, illis autem non est datum».

Questa dottrina di regno celeste sembrò nuova agli Ebrei, perché non aveano altro concetto di regno che di terreno. Molto più strana e nuova sembrò a' gentili; ed in Atene, quando que' filosofi epicurei e stoici udirono san Paolo che parlava di questo nuovo regno e della resurrezione de' morti, tutti sorpresi dalla novità dicevano: «Quid vult seminiverbius hic dicere?»; e portatolo avanti l'areopago gli domandavano: «Possumus scire quae est haec nova, quae a te dicitur, doctrina?».

Perciò da' Padri antichi della Chiesa fu detto che Gesù, nuovo messia, fu il primo a rivelarlo ed a prometterlo agli uomini, onde Tertulliano la chiamò a ragione «novam promissionem regni coelorum». E Crisostomo, nell'omelia recitata nel dì festivo dell'ascensione del Signore, quando si venne a consumare interamente il disegno della venuta del messia in terra, che non era altro che rivelare agli uomini questo nuovo regno, e, precedendo egli come capo e primogenito de' risuscitati, far degni anche gli uomini come sue membra della possessione del medesimo, dice: «Nos qui terra videbamur indigni, hodie in coelum sublati sumus. Qui ne terreno quidem principatu eramus digni, ad supremum caeleste regnum ascendimus. Coelos pervasimus, thronum regalem, atque dominium apprehendimus, et natura, propter quam paradisum servabant Cherubim, ipsa supra Cherubim sedet hodie». Il nostro non men poeta che teologo Torquato Tasso ben mostrò intenderne la novità quando nella sua Gerusalemme introduce Plutone a rimembrar le onte e gli oltraggi che il suo tartareo trono soffriva per avere il Padre eterno a suo danno mandato il figliuolo in terra a romper le tartaree porte e por piede ne' suoi regni. La più dura ed amara rimembranza fu quella che, avendolo scacciato dal celeste regno con gli angioli rubelli che lo seguirono, in lor vece vi avea invitato gli uomini vili e di vil fango nati:

ne' bei seggi celesti ha l'uom chiamato

l'uom vile e di vil fango in terra nato.

Oltraciò, disceso nell'inferno, quelle anime de' padri antichi che, in tenebroso luogo essendo, erano a lui dovute, gliele tolse, e restituitele a' loro corpi, seco in cielo portolle:

Ei venne e ruppe le tartaree porte,

e porre osò ne' regni nostri il piede,

e trarne l'alme a noi dovute in sorte,

e riportarne al Ciel sì ricche prede,

vincitor trionfando, e in nostro scherno

l'insegne ivi spiegar del vinto Inferno.

Sarà dunque del nostro istituto il vedere che cosa si fosse questo nuovo regno celeste, dove sia posto, a chi promesso e che debba farsi per poterlo conseguire quando arriverà, e se «in die novissimo», «in consummatione saeculi»; che sarà frattanto delle nostre anime prima della resurrezione de' loro corpi, dove saranno, e perciò si farà memoria de' loro alberghi favolosamente immaginati in cui fossero intanto trattenute ad aspettarvi; né infine ci dimenticaremo di favellare di questo vinto inferno apparecchiato pure agli uomini malvagi e rei.

Divideremo perciò questo libro in quattro parti: nella prima tratteremo della natura di questo regno, del tempo quando avverrà, del luogo ove sia e che debba farsi per possederlo.

Nella seconda tratteremo della general resurrezione de' morti, come punto più assai importante di quello che communemente si crede.

Nella terza de' vari alberghi intanto inventati per le anime in fino alla resurrezione de' loro corpi e delle nuove dottrine sopra di ciò surte ne' secoli inculti e barbari.

Nella quarta finalmente trattaremo del regno infernale come al celeste opposto, e quanto si fosse da' nostri teologi sopra il medesimo favoleggiato, sicché ne tolsero il pregio a' poeti stessi gentili, onde la religion cristiana si vidde poi intieramente trasformata in pagana.

 

 


 

LIBRO TERZO.  DEL REGNO PAPALE

 

PERIODO SECONDO
DALLA CONVERSIONE DI COSTANTINO M. INFINO ALLA MORTE DELL'IMPERATOR GIUSTINIANO IL GRANDE E PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO

Questo periodo, ancorché non oltrepassi il corso di tre secoli quanto fu il precedente, con tutto ciò contiene cagioni più grandi, in maggior numero, e più vigorose di sorprendenti mutazioni e cangiamenti che non avvennero ne' passati secoli, mentre l'Imperio era gentile, e gentili tuttavia erano gl'imperatori, il senato, il popolo, i magistrati; in fine i rettori e magistrati di tutte le città e provincie che lo componevano. E poiché niun è che dubiti che la cagion potissima di tanta variazione fosse stata la conversione di Costantino Magno al cristianesimo, è d'uopo che, prima di passar avanti, qui brevemente se n'espongano i motivi e le cagioni, le quali invano si cercheranno in Eusebio Cesariense, il quale, avendo potuto, come contemporaneo, darcene certe e sincere relazioni, gli è piaciuto invilupparle di tante visioni, favole e menzogne, quante gli avveduti e diligenti scrittori hanno scoverte non meno nella sua Istoria che nella Vita di Costantino, e, manifestatele nelle di loro opere, ne han fatti accorti i leggitori. Prima d'Eusebio, Egisippo e Giulio Africano ne avean tessuta qualche istoria; ma le memorie si son perdute, e bisogna ora starne alla fede di Eusebio, che ne rapporta qualche frammento.

Si sono ancor perdute, sia per frode o per ingiuria del tempo o negligenza degli uomini, le opere di tanti scrittori de' tre precedenti secoli, le quali averebbero potuto somministrarci più accurate e copiose memorie per tessere una esatta istoria ecclesiastica de' tempi più prossimi alla conversione di Costantino per concepire un'idea più chiara e distinta delle cagioni e fini. Si sono perduti i cinque libri di Papia, vescovo di Ieropoli, le Apologie di Quadrato Ateniese e di Aristide, i ventiquattro libri di Agrippa compilati contro l'eretico Basilide, i cinque libri di Egisippo, le opere di Melitone, vescovo sardicense, di Dionisio Corintio e di Apollinare Ieropolitano, e l'epistola di Pinito Cretense. Ove sono le opere di Filippo, di Musano, di Modesto e di Bardasane? Ove quelle di Panteno, di Rodano, Milziade, Apollonio, Serapione, Bacchilo e di Policrate vescovo di Efeso? Ove l'altre d'Eraclio, di Massimo, Ammonio, Trifone, Ippolito Africano, Dionisio Alessandrino e di tanti altri? Di questi non abbiamo che i nudi nomi e soli titoli presso Eusebio, S. Girolamo ed alcuni altri che ce ne conservarono i soli nomi. I libri che, sottratti all'ingiuria del tempo e degli uomini, sono a noi rimasi, oltre esser pochi, non interi, ma laceri, trasformati e sol rimastici per misero avanzo, non appartengono dirittamente all'istoria ecclesiastica, essendo autori ad altro intesi. I trattati di Giustino, di Tertulliano, di Arnobio, di Teofilo, di Clemente, prete alessandrino, e di Lattanzio, per lo più si raggirano o a difendersi dalle calunnie e criminazioni delle quali erano da' gentili imputati i cristiani, o a declamare contro l'empie superstizioni e riti de' gentili, contro le vane loro deità e tanti sognati numi, ovvero a combattere l'ostinazione e protervia de' Giudei. Altri, come Atenagora, Ireneo, Cipriano, Origene, Tertulliano istesso ed altri, furon rivolti a confutare gli errori e le sconce opinioni sorte a' loro tempi, feraci di tanti fantastici e deliranti eretici; ond'è che dalle loro opere sparsamente di qua e di là si posson raccòrre alcuni lumi per aver qualche idea della storia della Chiesa, non essendo a noi rimasto scrittore alcuno che di proposito avesse preso a scriverla. Eusebio Cesariense, adunque, ci rimane ora il primo che cominciò a compilarne un giusto corpo d'istoria, ond'è che si vanti «se primum aggressum esse hoc argumentum», e nel lib. I, c. I, Hist. Eccles. ci dica: «Nullis superiorum trita esset via quam capessebat». E, deducendola da' princìpi del cristianesimo, la proseguì fino che da Costantino Magno fu Licinio superato ed estinto, e data intieramente pace alla Chiesa; ciocché avvenne nell'anno di Cristo 324. Rufino, dopo averla tradotta in latino, vi aggiunse del suo due altri libri e la prolungò sino alla morte di Teodosio Magno; ma siccome non fu molto fedel traduttore, così fu pessimo istorico; poiché di più favolosi ed incredibili racconti empì i suoi libri. Seguiron da poi altri istorici e collettori, siccome l'autore dell'Istoria miscella, Socrate, Aurelio Vittore, Sulpizio Severo, Filostorgio, il favoloso Teodorico Engelhusio, Niceforo, Cedreno, Zonara e tanti altri.

CAP. II
Come, dopo la conversione di Costantino, la sopraintendenza de' vescovi molto più veloce che prima corresse verso la dominazione, per l'autorità, lustro e splendor che gli diede, e fosse quindi sorta fra' ministri della Chiesa una più ampia e maestosa gerarchia di metropoliti, primati ed esarchi, ovvero patriarchi, corrispondenti a' magistrati dell'Imperio.

Dopo avere nella maniera già detta Costantino abbracciata la religione cristiana, posto in riposo e tranquillità le chiese, arricchitele di suppellettili e di poderi, e resele capaci di acquistar legati ed eredità, i vescovi che vi presedevano si videro in un maggier splendore ed in una più ampia e nobile gerarchia; poiché, oltre di render le loro chiese capaci di acquistar beni temporali, Costantino gli onorò ed ebbegli in molta stima e rispetto; e non pur resegli venerandi, ma gli ornò pure anche nell'esterno d'abiti maestosi e di reali insigne, perché al popolo si rendessero più augusti e rispettosi. Di molti ornamenti adornò i vescovi delle sedi maggiori, specialmente quello di Roma, che non concedevansi prima se non a' patrizi ed a' primi personaggi dell'Imperio. Se si dovesse prestar fede a quel finto decreto della favolosa donazione di Costantino, che inserì Graziano nel suo Decreto, Dist. 96, can. 14, dovremmo ancor dire che fra le decorose insegne fosse stato anche il pallio, fulgentissimo e pomposo manto imperiale; poiché fra' molti vari e discordanti istromenti di questa donazione che si leggono presso più scrittori, in uno di essi, rapportato da Balsamone, si legge che Costantino concedé a Silvestro papa il pallio. Di che anche ce ne renderebbe testimonianza il Libro pontificale, che va attorno sotto il nome di Damaso, nel quale si parla dell'uso del pallio ch'ebbe il vescovo d'Ostia, vivente ancor l'imperator Costantino Magno. Ma come che oggi abbastanza si è dimostrato che quel finto istromento di donazione fu fabbricato molti secoli dopo Constantino, e quel Libro pontificale, secondo che i dotti han pur fatto conoscere, non merita alcuna fede, sopra fondamenti sì deboli e ruinosi non è da por molta fidanza. Ma ciò che dee da ciò dedursi è che da otto secoli, finché non si fosse scoperta la falsità di questo istromento, degli atti di Silvestro papa, e del Libro pontificale attribuito a Damaso, la Chiesa romana ebbe questa credenza, che il pallio fosse vestimento imperiale concesso a' pontefici romani per dono degli imperatori, della quale fu cotanto persuasa che fece inserire fino nel Decreto di Graziano quest'apocrifo istromento. Quel che è certo si è che, avendo Costantino presa cura e governo della Chiesa per ciò che riguarda l'esterior sua polizia, e dichiaratosi perciò capo di tutti i vescovi, o egli o pure i di lui successori cristiani imperatori ornarono i vescovi delle sedi maggiori di questo pallio, come insegna della vicaria lor potestà che gli concedevano in amministrare l'esterior governo delle loro chiese, secondo quell'estensione delle diocesi o delle provincie che ad essi sottoponevano, ora allargandone, ora restringendone i confini. Solevano gl'imperatori d'Oriente, a' vescovi delle sedi maggiori, i quali presedevano alle chiese delle città metropoli dell'Imperio, concedere per questi ornamenti ed insegne che gli mandavano molta autorità, costituendogli come loro vicari; ed il pallio era l'insegna per la quale si dimostrava aver innalzati i vescovi in metropolitani con distendere la lor giurisdizione oltre i confini della propria parocchia, che ora chiamiamo diocesi.

Solevano perciò a questi mandare il pallio, che era, non già come ora chiamiamo, quella breve e corta stola incrocicchiata che Roma manda a' metropolitani, di moderna invenzione, ma un manto ben ampio e talare, a guisa di clamide, che avea molto rapporto al piviale d'oggi giorno, detto perciò da' Latini pallium e da' Greci superhumerale, costituendogli per queste insegne come loro vicari per ciò che riguarda l'esterior governo e polizia ecclesiastica delle lor provincie, e dipendendo la lor giurisdizione oltre la propria parrocchia.

Non vi è dubbio che Costantino volle in ciò troppo intrigarsi, con farsi capo de' vescovi ed attendere con sollecitudine all'esterior polizia della Chiesa. Convocava egli per ciò i concili, vi presedeva e voleva sentire le contese insorte fra' vescovi. E se la faccenda si fosse ristretta alla sola disciplina esteriore, che era sua propria incombenza, sarebbe stata comportabile; ma ciò che in decorso di tempo portò danni gravissimi fu che anche volle di soverchio intrigarsi nelle loro vane ed inutili questioni insorte sopra la natura di Dio, sua sussistenza ed unità, ed altre conoscenze ed intrigate altercazioni di oziosa sottilità delle divine persone, che non si appartenevano punto alla semplicità di quella credenza che Cristo ci lasciò, né conducevano alla morale e molto meno alla salute delle nostre anime. Egli fu il primo che stabilì nella Chiesa quella separazione d'interno ed esterno. Quindi presso Eusebio leggiamo ch'egli a' vescovi solea dire: «Vos quidem in iis quae intra Ecclesiam sunt episcopi estis. Ego vero in iis quae extra geruntur episcopus a Deo sum constitutus». Ed Eusebio istesso, lib. I De vita Const., c. 37, lo chiama perciò «communem episcopum». Questa distinzione e separazione, che, sebbene adombrata ne' due precedenti secoli, volle ora Costantino maggiormente manifestare e stabilire tra Chiesa interiore ed esteriore, tra disciplina interna e polizia esterna, tra cura interna spirituale ed esterna ecclesiastica; questa separazione, dico, a lungo andare portò all'imperio delle somme potestà conseguenze assai perniciose e deplorabili. Costantino, ammessa ch'ebbe nell'Imperio questa nuova religione, ebbe credenza che dovesse trattarsi come la gentile o almanco come l'ebrea; e siccome gl'imperatori gentili preser cura non men dell'una che dell'altra, poiché, nell'istesso tempo che permettevano la giudaica agli Ebrei, vollero anche averne ispezione e soprintendenza, così potesse anche farsi della cristiana. Nel qual inganno agevolmente vi entrò, poiché a' suoi tempi vedeva i vescovi, specialmente que' d'Oriente, posti in qualche eminenza, e la Chiesa cominciava a prendere altra forma di quella nella quale Cristo ed i suoi apostoli la lasciarono. Né mancarono a' suoi dì Padri che in ciò la confortavano e maggiormente ce l'invogliavano, non potendosi veramente a questi tempi sospettare che questo principio doveva recare in progresso di tempo un notabilissimo danno nell'Imperio. L'inganno e l'errore fu veramente non men pernicioso che grande, poiché la nuova religione che Cristo lasciò in terra, e la sua Chiesa che fondò, della quale egli se ne dichiarò capo e maestro, non era capace, come la gentile o l'ebrea, di esterno. Ella tutta era interna, e perciò l'intento del fondatore fu che si abolissero tutti i riti e cerimonie esterne delli Ebrei. Non voleva tempii, né altari, né maggioranza fra' suoi ministri. Tutta era gregge, ed egli solo dovea esserne il guardiano ed il supremo pastore. Voleva che si prendesse cura non de' nostri corpi, ma delle sole anime, ed esser guidate e rette a guisa di mandre di pecore, delle quali i ministri fossero i suoi pastori, perché l'ovile era suo, e non ch'essi ne fossero i padroni. Egli solo essendo il signore delle nostre anime, il governo adunque dovea esser tutto spirituale, come riguardante la mondezza ed illibatezza de' costumi, perché si arrivasse a quella perfezione necessaria per esser introdotti nel celeste regno, del quale ci fece eredi; i riti pochi, semplici e schietti, né ricercati assolutamente per necessari, potendo per i medesimi supplire la fede, la carità e la speranza, siccome si è dimostrato nel precedente libro, nella prima parte al capitolo primo. Non vi era bisogno di ricca suppellettile, non di superbi ornamenti e pomposi ammanti, non di molti ministri, non di tempii, non d'altari, non di liturgie; bastava una casa dove convenire, un cenacolo, una mensa per celebrare in commemorazione della sua passione e morte la cena: in breve, un poco di pane e di vino per la cena, ed un poco di acqua per lo battesimo. Non richiedevasi distinzione d'abiti fra' ministri e plebe. Ciascuno vestiva come tutti gli altri, fossero stati vescovi, preti, diaconi o laici. Ciocché durò per tutto il 4.° secolo, siccome ha ben dimostrato in fra gli altri ultimamente Bingamo, Orig. eccles., lib. 6, cap. 4, § 18, 19 et 20. Nelle obblazioni e distribuzioni dell'elemosine tutto regolava la carità, siccome la mansuetudine nelle censure e correzioni. Tutto in breve consisteva nell'interno, in esortazioni, consigli, preghiere, sermoni, niente la Chiesa avendo d'imperio, sicché gli fosse bisogno di forma estrinseca di gerarchia, di tribunali, di magistrati e di littori. Non avendo riti operosi e molto meno multiplici e pomposi, bastavano pochi ministri, perché tutte le cose di Chiesa potessero perfettamente adempirsi. «Presbyteris» solea dire S. Epifanio «opus erat et diaconis; per hos enim duos ecclesiastica compleri possunt»; onde non era da pensar molto all'esterno di questa nuova Chiesa e religione.

Ma Costantino, che non la ritrovò così, cioè come Cristo e gli apostoli la lasciarono, si credette, e ne fu facilmente persuaso, che ammettendola nell'Imperio e permettendo che pubblicamente potessero tutti professarla, che se gli dovesse dare una speciosa e magnifica apparenza. Quindi avvenne che il nome di patriarca, che davasi a' sommi sacerdoti degli Ebrei, si fosse trasportato nel 4.° e 5.° secolo a' primati ed arcivescovi de' cristiani, siccome apponendosi al vero fu avvertito da Bingamo, Orig. eccl., lib. 2, cap. 17, § 4, e che i sacerdoti de' cristiani non dovessero esser riputati inferiori di quelli degli Ebrei o de' gentili, siccome i loro tempii ed altari, ed i ministri che vi doveano soprintendere, fossero non men numerosi che autorevoli e maestosi. Sopra i quali, dandosi ora alla Chiesa questa nobile e magnifica apparenza, dovesser gl'imperatori presedere ed invigilare, siccome i vescovi nell'interno della medesima, così essi nell'esterno. Quindi, a somiglianza degl'imperatori gentili a riguardo della pagana, volle esser riputato Costantino verso la cristiana; onde avvenne che presso gli istessi imperatori cristiani, suoi successori, per lungo tempo, infino a Graziano, si fosse ritenuto il titolo di pontefice massimo, dichiarandosi essi capi e moderatori degli affari ecclesiastici, siccome ce ne rende eziandio certi Socrate, il quale nel proemio del lib. 5 della sua Istoria eccles. scrisse: «Ex illo tempore quo imperatores christiani esse coeperunt, Ecclesiae negotia ex illorum nutu pendere visa sunt; atque adeo maxima concilia de eorum scientia et convocata fuere et adhuc convocantur». Quindi anticamente facevasi paragone tutto opposto di ciò che poi Innocenzo III ne fece di due luminari. L'Imperio si paragonava al sole ed il sacerdozio alla luna, poiché intorno all'esterior polizia ecclesiastica tutto il lume e la possanza gli veniva somministrata dall'Imperio che gli dava potere e giurisdizione. E Giustiniano imperatore, calcando le orme istesse, presedé alle cose esterne della Chiesa, non meno che all'Imperio; ed a' suoi dì, più che in altri tempi, si vide aver egli congiunto e restituito all'Imperio il pontificato, prendendo cura del governo della Chiesa e sopratutto attendendo che fossero osservati li sacri ed antichi canoni de' Padri, stabiliti ne' concili ed avvalorati dalle leggi degli imperatori, perché da' popoli fossero esattamente ubbiditi, non avendo la Chiesa altre armi che la persuasione per fargli osservare, non già con stringimento ed impero alcuno, che era tutto degl'imperatori e suoi magistrati. Quindi, costituiti i vescovi come loro vicari, mandavano a' medesimi il pallio, ch'era l'insegna dell'autorità che gli conferivano sopra le loro provincie quando gl'innalzavano a primati e metropolitani. Non altrimenti di ciò che praticavasi co' sommi sacerdoti degli Ebrei, quando, avendo i Romani soggiogata la Palestina, Pompeo Magno eleggeva i sommi sacerdoti. Ridotta la Giudea in provincia, ancorché l'imperator Claudio avesse permesso che i Giudei vivessero colle stesse lor leggi ed usi patrii, con tutto ciò serbaronsi gl'imperatori romani la somma potestà sopra la polizia delle loro sinagoghe, prescrivendo agli archisinagoghi leggi, com'è chiaro dal Codice teodosiano 1....; ed Erode da Claudio impetrò questa facoltà: di potergli creare, ma per sua concessione, siccome narra Giuseppe, lib. 2, c. I, il quale al libro 15, c. ult. et 20, c.I, ci rende ancor testimonianza che l'investitura, la stola e gli altri ornamenti del sommo sacerdote davansi al medesimo da' Romani; le quali insegne si custodivano per ciò nella Torre Antonina. E dell'imperator Giustiniano èvvene miracolosamente rimaso vestigio della concessione del pallio del vescovo arelatense, del quale favellaremo a più opportuno luogo. Pietro di Marca, De concord.... et Imp., lib. 6, cap. 6, n.° 2, non può negare che questa potestà vicaria si concedeva quando si dava il pallio col consenso dell'imperatore, poiché (e' dice) il pallio, essendo «genus imperialis indumenti, concedi non poterat absque consensu imperatoris», l'uso del quale dagli imperatori essere stato concesso a' patriarchi, da' quali fu comunicato a' metropolitani. Cristiano Lupo, De appellationibus ad Cathedram S. Petri, dissert. 2, cap. 8, proponendo il problema: «Num pallium metropolitae aut primatis sit imperiale donum?», ci dà presta risoluzione, e vuol che no; ma dovendo rispondere agl'invincibili argomenti del Marca, se stesso intriga ed infelicemente ci riesce; anzi, trattando quell'arcivescovo con molta acerbità, secondo il solito stile de' romani scrittori, fondasi più nell'invettive ed inutili declamazioni e vane ciarle, che in argomenti solidi e vigorosi. Ma di ciò altrove più distesamente si terrà conto quando ci toccherà favellare del pallio mandato al vescovo d'Arelate a' tempi di Giustiniano Magno.

 

[CAP. III]
[Come questa nuova polizia della Chiesa si adattasse a quella dell'Imperio, secondo le diocesi e province del medesimo, alle quali furono preposti per lo governo ecclesiastico gli esarchi e i metropolitani.]

 

Intanto non è da dubitare che, data che fu da Costantino pace alla Chiesa, ammessa questa distinzion di Chiesa esterna ed interna, i vescovi, che in que' tre primi secoli, in mezzo alle persecuzioni, nelle città dell'Imperio aveano la soprintendenza delle lor chiese, ora che pubblicamente poteva da tutti professarsi la religion cristiana, e che cominciavano ad ergersi tempii ed altari, e gli antichi tempii gentili a trasformarsi in chiese, e i riti e cerimonie divenir più operose, splendide ed in maggior numero, per mantenere il culto della medesima in maggior splendore e lustro, ed accrescendosi sempre più quasi in infinito il numero de' cristiani, si videro per conseguenza, secondo la maggioranza delle città nelle quali reggevano le chiese, in vari, diversi ed in più alti gradi disposti, ed in maggior eminenza costituiti.

Ed essendo dapoi a Costantin piaciuto, sedate le cose di Roma e d'Italia, passare in Oriente, vinto nell'anno 325 e spento Licinio, fattosi già monarca di tutto l'Imperio, cominciò a tentar nuove e grandi mutazioni nell'Imperio, poiché, vòlto in Oriente, volle nella Tracia innalzar Bisanzio, piccola città allora di quella provincia, ed ingrandirla, anzi gettarvi più magnifici fondamenti con intento di ridurla alla magnificenza dì Roma, sicché potesse ragionevolmente poi chiamarsi nuova Roma, siccome da lui, cancellato il nome di Bisanzio, si disse Costantinopoli. Egli fu anche spinto ad innalzarla cotanto per l'amenità e piacevolezza del suo sito. Ci rimane ancora delle deliziose sue maniere un'antica testimonianza di Erodoto Alicarnasseo, il quale nel lib. 4 della sua Istoria, narrando la spedizione di Dario contro gli Sciti, scrive che, giunto che fu Dario a Calcedonia sopra Bisanzio, e' vide i tre mari, cosa degna da riguardare, perché tra tutte le marine questa è la più strana di sito, di spettacolo ben degno e di maravigliosa lunghezza. Or, gettati che ebbe quivi Costantino i fondamenti della nuova Roma, e posto tutta la sua cura e studio di renderla nella magnificenza e splendore uguale all'antica, trasferì alla perfine in Oriente l'imperial sua sede, consumandovi il resto di sua vita, contento di mirar da lontano le cose d'Occidente; onde nacque il principio della declinazione di Roma e d'Italia e di tutte le altre occidentali provincie.

Stabilita adunque la sede dell'Imperio in Oriente, trovando quivi le città e le provincie più numerose di cristiani e non tanto attaccate all'antica religione de' gentili, com'era Roma, conobbe esser l'Oriente più disposto a farci la cristiana maggiori progressi; onde si videro notabili cangiamenti nella polizia esterna delle lor chiese e particolarmente nelle persone de' suoi vescovi, poiché que' d'Antiochia, di Alessandria e di tutte le altre città d'Oriente, d'Asia, d'Egitto, di Ponto e di Tracia, secondo la maggioranza delle città nelle quali reggevan le loro chiese, si videro in un tratto costituiti in maggior eminenza, e cominciaron quindi a sentirsi i nomi di metropolitani, di primati, d'esarchi, ovvero patriarchi, corrispondenti a quelli de' magistrati secolari, secondo la maggiore o minore estensione delle provincie che essi governavano.

Non vi è dubbio che prima della conversione di Costantino in Oriente si osservava ne' vescovi delle città maggiori, più numerose ed ampie, qualche differenza nella stima e nell'onore, che non eran gli altri delle città minori; poiché, oltre i vescovi d'Antiochia e d'Alessandria, Tito, vescovo di Creta, secondo la testimonianza d'Eusebio, Histor. eccles., lib. 3, c. 4, avea l'ispezione di tutta quell'iso la; a Timoteo, vescovo d'Efeso, dice Crisostomo, Homil. XV in I Timoth., «credita fuit Ecclesia, immo gens fere tota asiatica»; siccome del vescovo di Cipro era la soprintendenza di tutta quell'isola, senza subordinazione alcuna al vescovo d'Antiochia. E parimente, nell'Africa, sopra gli altri vescovi africani era manifesta l'eminenza del vescovo di Cartagine fino a' tempi di S. Cipriano,» siccome nella Gallia del vescovo di Lione. Ma, sebbene a questi tempi nelle sedi delle città maggiori era notabile la maggioranza de' vescovi a riguardo di quelli costituiti nelle città minori, con tutto ciò, essendo stata ancor ammessa nell'Imperio questa nuova religione e nelle parti orientali, come a Roma lontane, più per convenienza era tollerata che permessa, nelle occidentali perseguitata e riputata superstizione; quindi eran tali semi occulti e nascosti, e come scintille di fuoco sotto le ceneri coperte. Ma, dichiarata poi da Costantino questa religione non pur lecita e permessa per tutto l'Imperio, ma vera, legittima e veneranda, e le chiese non più già collegi illeciti, ma commendabili e santi, quindi ciò che era nascosto fu palesato, e quelle faville che come ceneri erano seppellite, scoppiarono in luminose e risplendenti fiamme. Allora vennero a dichiararsi ed a stabilirsi questi gradi di metropolitani, primati, esarchi, ovvero patriarchi, ed a sorgere questa nuova più alta gerarchia; e che non pur le leggi degl'imperatori, ma i canoni istessi, cominciandosi da quelli del concilio niceno, maggiormente la stabilissero e confermassero. Talché si appone più al vero la sentenza di Lodovico Elia Dupin, De antiq. Eccles. discip., diss. I, § 6, seguitata poi da' più accurati scrittori, e fra gli altri ultimamente da Bingamo, Orig. eccles., lib. 2, c. 9, che l'opinione di Pietro di Marca, di Cristiano Lupo, di Usserio, Bevereggio, Schelstrate ed altri, li quali immaginarono che da Cristo, ovvero dagli apostoli, fossero stati nella Chiesa tali gradi istituiti. Con molta evidenza ed esattezza Dupino, confutando gli argomenti recati dall'arcivescovo di Parigi, siccome Bingamo quelli di Schelstrate, fanno conoscere che né da Cristo, né dagli apostoli fossero state tali dignità istituite, ma che dopo la conversione di Costantino, data che fu pace alla Chiesa, cominciarono a stabilirsi, e che la Chiesa allora infante, la quale non più nascosta ma libera compariva al mondo, adattò le sue membra a quelle dell'Imperio già adulto e grande, secondando la disposizione delle provincie dell'Imperio e le condizioni delle città metropoli di ciascheduna di quelle; onde sorse nella Chiesa questa nuova polizia, e sì pomposa ed alta gerarchia.

E la maniera colla quale ciò si facesse fu cotanto naturale e propria, che sarebbe stata maraviglia se altrimenti fosse avvenuto. Poiché, chiunque si porrà innanzi gli occhi la disposizione delle provincie dell'Imperio, nella quale erano sotto Costantino, e la divisione delle quattro prefetture, composta ciascuna di più diocesi e queste di più provincie, facendone poi confronto con quel che avvenne nella esterna polizia ecclesiastica, vedrà chiaro che, la Chiesa essendo stata introdotta nell'Imperio, non già l'Imperio nella Chiesa, come dice saviamente Ottato Melevitano, non poteva prender altra forma che questa.

In quattro prefetture si vide diviso tutto l'orbe romano sotto Costantino Magno, alle quali fùr dati quattro prefetti pretorii per governarle. Queste furono l'Oriente, l'Illirico, le Gallie e l'Italia. Ciascuna componevasi di più diocesi, siccome queste di più provincie.

 

ORIENTE

Questa prefettura era divisa in cinque diocesi: Oriente, Egitto, Asiana, Pontica e Tracia, ciascuna delle quali poi si componeva di più provincie.

I

La prima diocesi era chiamata d'Oriente strettamente preso, la quale ebbe per sua città primaria, capo di tutte le altre, Antiochia nella Siria, ond'era ben proprio che questa città anche nella polizia ecclesiastica innalzasse il capo sopra tutte l'altre, e che il vescovo che reggeva quella cattedra s'innalzasse parimenti sopra tutti gl'altri vescovi delle chiese di tutte quelle provincie, delle quali questa diocesi si componeva; poiché, siccome nelle cose civili tutto si riportava al magistrato supremo di quella città, così nelle cose ecclesiastiche tutto a quel vescovo. Si aggiungeva ancora l'altra prerogativa d'avere in Antiochia il capo degli apostoli S. Pietro predicatovi l'Evangelio, e dalla chiesa antiochena essersi posto più in uso il nome di cristiani, quando prima eran chiamati nazareni.

Le provincie che componevano le diocesi d'Oriente prima non eran più che dieci: la Palestina, la Siria, la Fenicia, l'Arabia, la Cilicia, l'Isauria, la Mesopotamia, Osdrocena, Eufrate e Cipro. Ma da poi crebbe il lor numero infino a quindeci, imperciocché la Palestina fu partita in tre provincie, la Siria in due, la Cilicia in due e la Fenicia parimenti in due. Ecco come ora ravvisaremo in ciascheduna di queste provincie i loro metropolitani secondo la polizia dell'Imperio.

La Palestina, prima che fosse divisa, non riconosceva altra città sua metropoli che Cesarea, onde il suo vescovo acquistò le ragioni di metropolitano sopra i vescovi dell'altre città minori della provincia istessa; ed essendo stata poi divisa in altre due, nella seconda ebbe per metropoli la città di Scitopoli e nella terza quella di Gerusalemme. Ma, non perché d'una provincia ne fossero fatte tre, vennero per questa nuova divisione ed accrescimento di due altre metropoli a derogarsi le ragioni di metropolitano del vescovo di Cesarea, ma rimasero com'erano i vescovi di Scitopoli e di Gerusalemme suffraganei al metropolitano di Cesarea: non bastava che gl'imperatori, partendo in due o tre una provincia, s'intendesse con ciò, in quanto alla polizia ecclesiastica, pregiudicare le ragioni dell'antico vescovo metropolitano, ma bisognava che gl'imperatori espressamente lo comandassero; che siccome moltiplicavano le metropoli intorno al governo civile, così fosse ancora per ciò che riguardava l'ecclesiastico; anzi sovente spiegavano la lor mente ch'era di non doversi con ciò recar mutazione alcuna intorno all'esterior polizia ecclesiastica, siccome soleva fare l'imperatore Giustiniano, ed è manifesto dalle sue Novelle 28 e 31, ca. 2°.Ed al contrario, sovvente, in partir le provincie solevano pur ordinare che l'ecclesiastica seguitasse anche la nuova forma e disposizione civile, dipendendo ciò dal loro volere ed arbitrio, essendo presso degl'imperatori, come capi di tutti i vescovi metropolitani ed esarchi, il regolare la polizia esterna delle chiese, siccome fin all'ultima evidenza si dimostrerà più innanzi. Per questa ragione, presedendo Costantino M. al gran concilio di Nicea, ancorché a Gerusalemme, città santa, molti onori e prerogative fossero state concedute, in niente però vollero Costantino e quei Padri che si recasse pregiudizio al metropolitano di Cesarea, «metropoli propria dignitate servata» da il settimo canone di quel concilio; e non per altra ragione, se non perché, essendo allora una la provincia della Palestina, e Cesarea sua antica metropoli, trovandosi acquistate già tutte le ragioni di metropolitano da quel vescovo, non era di dovere che per quella nuova divisione venisse a perderle o a scemarle. Né se non molto tempo da poi la Chiesa di Gerusalemme fu decorata della dignità patriarcale, come più innanzi diremo.

L'altra provincia di questa diocesi d'Oriente fu la Siria, ch'ebbe per metropoli Antiochia, capo ancora di tutta la diocesi; ma poi, divisa in due, oltre ad Antiochia, riconobbene un'altra, che fu Apamea. E qui bisogna avvertire per quel che poi diremo del vescovo di Roma, che sovvente in una persona solevansi unire più poteri e prerogative, secondo i vari rispetti e diversi oggetti ove la lor potestà veniva ad esercitarsi. Nella persona del vescovo d'Antiochia si considerava la potestà di metropolitano a rispetto della propria sua provincia qual'era la Siria, e la potestà di esarca per ciò che riguardava gl'altri metropolitani a sé soggetti, siccome era quella d'Apamea nella Siria istessa e gli altri metropolitani dell'altre provincie onde si componeva la sua diocesi, della quale egli era capo ed esarca.

La Cilicia, che parimenti fu in due provincie divisa, riconobbe ancora due metropoli: Tarso ed Anazarbo. La Fenicia, divisa che fu in due provincie, riconobbe anche due metropoli: Tiro e Damasco. Eravi ancora nella Fenicia la città di Berito, celebre al mondo per la famosa Accademia delle leggi ivi eretta, onde ne uscirono tanti valenti professori. Ne' tempi di Teodosio il Giovine, Eustazio, vescovo di questa città, ottenne da quel principe rescritto col quale Berito fu innalzata a metropoli; per la qual cosa Eustazio, in un concilio che di que' tempi si tenne in Costantinopoli, dimandò, ch'essendo la sua città stata fatta metropoli, si dovesse in conseguenza far nuova divisione delle chiese di quella provincia, ed alcune di esse, che prima s'appartenevano al metropolitano di Tiro, dovessero alla sua nuova metropoli sottoporsi. Fozio, che si trovava allora vescovo di Tiro, scorgendo l'inclinazione di Teodosio, bisognò per dura necessità che approvasse la divisione. Ma, morto l'imperator Teodosio, e succeduto nell'Imperio d'Oriente Marciano, portò il vescovo Fozio le sue doglianze al nuovo imperatore del torto fattogli, chiedendo che alla sua città, antica metropoli, si restituissero quelle chiese che l'erano state tolte. L'imperatore Marciano delegò la causa a' Padri che s'erano uniti in concilio a Calcedonia, perché l'essaminassero nuovamente, i quali decretorono a favor di Fozio, diffinendo che tal affare, non secondo la nuova disposizione di Teodosio e le novelle divisioni d'altri imperatori dovesse regolarsi, ma a tenor de' canoni antichi, confermati dalle leggi imperiali; e lettosi nell'assemblea il canone del concilio niceno, col quale si stabiliva che in ciascheduna provincia un solo fosse il metropolitano, fu determinato a favor del vescovo di Tiro e restituite alla sua cattedra tutte le chiese che n'erano state divolte, poiché, secondo l'antica disposizione delle provincie della diocesi d'Oriente, la Fenicia era una provincia, e riconobbe un solo metropolitano.

Presidendo gl'imperatori a tutti questi affari esterni ecclesiastici, come capi e direttori dell'esterior polizia della Chiesa, quindi fu introdotto stile che quando i vescovi, non contenti della lor parocchia, volevano intraprendere sopra le ragioni del loro metropolitano, solevano ricorrere dagl'imperatori ed ottener divisione della provincia, e che la lor città s'innalzasse a metropoli, affinché potessero appropriarsi le ragioni di metropolitano sopra quelle chiese che nella divisione si toglievano al più antico. Gl'imperatori alcune volte ributtavano le loro ambiziose domande; altre volte, in odio de' metropolitani antichi, lo facevano. Infatti l'imperator Valente, in odio di Basilio, divise la Cappadocia in due parti; e, così facendosi nell'altre provincie, vennero a moltiplicarsi anche i metropolitani, seguendo la polizia della Chiesa quella dell'Imperio, siccome ce ne rende testimonianza Nazario, peroché, ne' tempi che seguirono, non fu sempre ritenuto il rigore del concilio niceno, ma secondo il voler degl'imperatori, che, dividendo le provincie, innalzavano alcune città in metropoli, si mutava per ordinario anche la polizia delle chiese; anzi, lo stesso concilio calcedonense, sempre che gl'imperatori non avessero altramente disposto in queste divisioni, con suo canone XVII dichiarò che la Chiesa dovesse seguitare la polizia dell'Imperio, dicendo: «Sin autem etiam aliqua civitas ab imperatoria auctoritate innovata fuerit, civiles et publicas formas ecclesiasticarum quoque parochiarum ordo consequatur». Quindi poi nacque che, mutandosi la disposizione e polizia dell'Imperio, ed innalzandosi alcune città in istato più alto ed eminente, siccome fra le altre fu veduto in Constantinopoli, si videro anche tante mutazioni nell'esterior polizia ecclesiastica, sebbene l'imperator Giustiniano, per toglier le contese, saviamente fosse solito, nelle divisioni o unioni di provincie che faceva, di dichiarare espressamente, nelle sue Novelle, quando voleva divisione o no intorno a' sacerdozi ed alle ragioni degl'antichi metropolitani.

In cotal guisa l'altre provincie di questa diocesi d'Oriente, come l'Arabia, l'Isauria, la Mesopotamia, Ostrocena, Eufrate e Cipro, secondo la disposizione e polizia dell'Imperio, riconobbero i loro metropolitani, i quali furono così chiamati [perché] presidevano nelle chiese delle città principali delle provincie, e per conseguenza, siccome da queste dipendevano l'altre città minori delle medesime, a queste si riportavano' tutti i giudizi de' loro tribunali, a queste per li negozi civili e per altri affari, come suole avvenire, tutti i provinciali ricorrevano; così questi metropolitani godevano d'alcune ragioni e prerogative che non avevano gl'altri vescovi preposti alle chiese delle città minori dell'istessa provincia. Così essi ordinavano i vescovi eletti dalle chiese della provincia, convocavano i concili provinciali ed avevano la soprintendenza e la cura perché nella provincia la fede e la disciplina si serbasse incontaminata e pura: ch'erano le ragioni e privilegi de' metropolitani per i quali si distinguevano sopra i vescovi; ed in tal maniera, dopo il concilio niceno, intesero il nome di metropolitano tutti gli altri concili, che da poi seguirono, e gl'altri scrittori ecclesiastici del quarto e quinto secolo.

Ecco come nelle provincie della diocesi d'Oriente ravisiamo i metropolitani secondo la disposizione delle città metropoli dell'Imperio. Ecco, ancora, come in questa diocesi ravisaremo il suo esarca, ovvero patriarca, che fu il vescovo d'Antiochia, come quegli che, presidendo in questa città, capo dell'intera diocesi, presedeva ancora sopra tutti i metropolitani di quelle provincie delle quali questa diocesi era composta, ed anche di cui erano le ragioni e privilegi patriarcali, cioè d'ordinare i metropolitani, convocare i sinodi diocesani ed aver la sopraintendenza e la cura che la fede e la disciplina si serbasse incontaminata nell'intera diocesi. Prima questi erano propriamente detti esarchi, perché alle principali città delle diocesi erano preposti; e in più provincie di Calcedonia in cotal guisa e per questa divisione di provincie e di diocesi si distinguevano gl'esarchi da' metropolitani. Così, Filallete, vescovo di Cesarea, e Teodoro, vescovo di Efeso, furono chiamati esarchi, perché il primo aveva sotto di sé la diocesi di Ponto, ed il secondo quella d'Asia. Egli è vero però che alcune volte questo nome fu dato anche a' semplici metropolitani ed i Greci, negl'ultimi tempi lo diedero profusamente a più metropolitani, come a quel d'Ancira, di Sardica, di Nicomedia, di Nicea, di Calcedonia, di Larisso, ed altri. Nulladimeno la propria significazione di questa voce esarca non denotava altro che un vescovo il quale a tutta la diocesi presedeva, siccome il metropolitano alla provincia. Alcuni di questi esarchi furon detti anche patriarchi; il qual nome in Oriente, in decorso di tempo, a soli cinque si restrinse, fra i quali fu l'antiocheno.

I confini dell'esarcato d'Antiochia non s'estesero oltre a' confini della diocesi d'Oriente, poiché l'altre provincie convicine, essendo dentro i confini dell'altre diocesi, appartenevano a' loro esarchi. Così la diocesi d'Egitto, come quindi a poco vedrassi, era all'esarca d'Alessandria sottoposta, e l'altre tre diocesi d'Oriente, come l'asiana, la pontica e la tracia, erano fuori del suo esarcato; anzi nel concilio costantinopolitano espressamente la cura di queste tre diocesi a' propri vescovi si commette. Né, quando il vescovo di Costantinopoli invase queste tre diocesi ed al suo patriarcato le sottopose, come diremo più innanzi, si legge che il vescovo di Antiochia gliele avesse contrastate come a lui appartenenti.

II

La seconda diocesi ch'era sotto la disposizione del prefetto pretorio d'Oriente, fu l'Egitto. La città principale di questa diocesi fu la cotanto famosa e rinomata Alessandria. Quindi il suo vescovo sopra gl'altri tutti alzò il capo, e la sua chiesa, dopo quella di Roma, tenne il primo luogo. S'aggiungeva ancora un'altra prerogativa, che in questa cattedra vi sedé S. Marco evangelista, primo suo vescovo, e che fin da' primi tempi fu de' cristiani numerosissima non meno che di Ebrei, e di avere il vanto, innanzi tutte l'altre chiese, avere introdotti i dottori ecclesiastici: in Alessandria ebbe la teologia la sua prima origine.

Fu prima questa diocesi divisa in sole tre provincie: l'Egitto strettamente preso, la Libia e Pentapoli; e quindi è, che nel sesto canone del concilio niceno si legga: «Antiqua consuetudo servetur per Aegyptum, Libyam et Pentapolim, ita ut alexandrinus episcopus horum omnium habeat potestatem». La Libia fu poi divisa in due provincie, la superiore e l'inferiore. Si aggiunge l'Arcadia, la Tebaida e l'Augustanica, e finalmente si vidde questa diocesi divisa in dieci provincie, sorgendo altrettante città metropoli; onde dieci metropolitani furono a proporzione del numero delle provincie indi accresciuti. Questi al vescovo d'Alessandria, come loro esarca e capo della diocesi, erano sottoposti, sopra i quali esercitò tutte le ragioni e preminenze esarcali. I confini del suo esarcato non si distendevano oltre alla diocesi d'Egitto, che abbracciava queste provincie. Né s'impacciò mai dell'Africa occidentale, siccome dimostrò l'accuratissimo Dupino, De antiq. Eccl. disc., diss. I. Onde furono in grandissimo errore coloro che stimarono tutta l'Affrica, come terza parte del mondo, al patriarcato d'Alessandria essere stata sottoposta. Anche questo esarca, come quello d'Antiochia, acquistò da poi il nome di patriarca, e fu uno de' cinque più rinomati nel quinto e sesto secolo.

III

La terza diocesi disposta sotto il prefetto pretorio d'Oriente fu l'asiana, nella quale una provincia, detta ristrettamente Asia, fu proconsolare; e metropoli di questa provincia, ed insieme capo dell'intiera diocesi, fu la città d'Efeso. Le altre provincie, come Panfilia, Ellesponto, Lidia, Pisidia, Licaonia, Licia, Caria, e la Frigia, che in due fu divisa, Pascaziata e Salutare, erano al vicario dell'Asia sottoposte, e ciascuna ebbe il suo metropolitano. Oltre ciò era un metropolitano nell'isola di Rodi, ed un altro in quella di Lesbo.

Questa diocesi asiana divenne una delle autocefale come quella che né al patriarca d'Alessandria, né a quello d'Antiochia fu giammai sottoposta. Riconosceva solamente il vescovo d'Efeso per suo primate, come colui che nella città principale di tutta la diocesi era preposto. Per questa ragione Teodoro, vescovo d'Efeso, fu chiamato esarca, siccome furono appellati tutti gl'altri che ressero quella chiesa; poiché la loro potestà si distendeva non pure in una sola provincia, ma in tutta la diocesi asiana. Ma non poterono questi esarchi conseguire il nome di patriarca, poiché tratto tratto quello di Costantinopoli non pur ristrinse la loro potestà, ma da poi sottopose al suo patriarcato tutta intiera questa diocesi.

IV

La quarta fu la diocesi pontica, la cui città principale era Cesarea in Cappadocia. Prima questa diocesi si componeva di sei sole provincie, le quali furono Cappadocia, Galazia, Armenia, Ponto, Paflagonia e Bitinia. Tutte queste da poi, toltone Bitinia, furono divise in due, onde, di sei che prima erano, si vidde il lor numero multiplicato in undeci, che altretanti metropolitani conobbero. In questa diocesi era la città di Nicea, la quale nel civile e nell'ecclesiastico ebbe la prerogativa d'essere dagl'imperatori Valentiniano e Valente innalzata a metropoli. Si oppose a tal innalzamento il vescovo di Nicomedia, ch'era la città metropoli di quelle provincie, pretendendo che ciò non dovesse cagionar detrimento alcuno alle ragioni e preminenze della sua chiesa metropolitana. Ma perché Valentiniano e Valente avevano sì bene conceduta a Nicea quella prerogativa, ma non già che per ciò intendessero togliere i dritti altrui, perciò furono al metropolitano di Nicomedia conservati i privilegi della sua chiesa, e che quella di Nicea potesse ritener solamente l'onore ed il nome ma non già le ragioni e privilegi di metropolitano. Sopra tutti questi metropolitani presedeva il vescovo di Cesarea, ch'era la città principale di questa diocesi. Per questa ragione fu anch'egli appellato esarca, come quelli di Antiochia, d'Alessandria e d'Efeso; ma non già come que' due primi poté acquistar l'onore di patriarca, poiché la sua diocesi fu da poi, non altrimenti che l'asiana, sottoposta al patriarcato di Costantinopoli.

V

La quinta ed ultima diocesi della prefettura d'Oriente fu la Tracia, capo della quale era la città d'Eraclea. Si componeva di sei provincie: Europa, Tracia, Rodope, Emimonto, Mesia e Scizia, e ciascuna riconobbe il suo metropolitano; ma da poi in questa diocesi si videro delle molte e strane mutazioni, così nello stato civile ch'ecclesiastico. Prima per suo esarca riconosceva il vescovo d'Eraclea, come capo della diocesi, il quale avea per suffraganeo il vescovo di Bisanzio; ma, essendo piacciuto a Costantino Magno ingrandir cotanto questa città, che, fattala capo d'un altro Imperio, volle anche dal suo nome chiamarla Costantinopoli, il suo vescovo, secondando la Chiesa la polizia dell'Imperio, innalzossi sopra tutti gl'altri; e non solamente non fu contento delle ragioni di metropolitano, ovvero d'esarca, con sopprimere quello d'Eraclea, ma, decorato anche del titolo di patriarca, pretese poscia stendere la sua autorità oltre a' confini del suo patriarcato ed invadere ancora le provincie del patriarcato di Roma, siccome più innanzi diremo. Ecco in breve come, dopo avere Costantino abbracciata la religion cristiana e resala libera per tutto l'Imperio, ed aver innalzati i suoi vescovi, sorse questa nuova polizia nella Chiesa corrispondente a quella dell'Imperio, e crebbe l'ordine ecclesiastico, e resesi più augusto per quest'alta ed illustre gerarchia.

ILLIRICO

Non disuguale potrà ravvisarsi l'ecclesiastica polizia in quelle diocesi che al prefetto pretorio dell'Illirico ubbidivano, cioè nella Macedonia e nella Dacia. La diocesi di Macedonia, che abbracciava sei provincie, cioè Acaia, Macedonia, Creta, Tessaglia, Epiro Vecchio ed Epiro Nuovo, ebbe ancora la città sua principale che fu Tessaglia, dalla quale il suo vescovo, come capo della diocesi, reggeva l'altre provincie, e sopra i metropolitani di quella esercitava le sue ragioni esarcali. La diocesi della Dacia di cinque provincie era composta: della Dacia mediterranea e Ripense, Mesia Prima, Dardania e parte della Macedonia Salutare. La varia fortuna di queste diocesi, e come per la maggior parte passassero sotto il vescovo romano, si racconterà quando del patriarcato di Roma trattaremo. E, potendo fin qui bastare ciò che brevemente della polizia dello stato ecclesiastico d'Oriente fin ora s'è detto, per la conformità ch'ebbe con quella dell'Imperio, passaremo in Occidente per poter fermarsi in Italia, per iscorgere più da presso gl'ingrandimenti del vescovo di Roma, che finalmente sottopose tutto l'Occidente al suo patriarcato.

GALLIE

Non è dubbio, secondo che notarono i più diligenti investigatori dell'antichità ecclesiastiche, in fra gl'altri Dupino ed ultimamente Bingamo, che più esattamente corrispose la polizia della Chiesa e quella dell'Imperio in Oriente che in Occidente. Nell'Oriente appena potrà notarsi qualche diversità di picciol momento. Ma nell'Occidente se ne osservano molte. Nelle Gallie se ne veggono delle considerabili, ma molto più nell'Affrica occidentale, ove le metropoli ecclesiastiche non corrispondono alle civili, siccome accuratamente osservò Bingamo, tom. III Orig. eccl., lib. IX, cap. II, § V.

Le Gallie, secondo la disposizione dell'Imperio sotto Costantino, le quali ubbidivano al suo prefetto pretorio, erano divise in tre diocesi: la Gallia strettamente presa, che abbracciava diecisette provincie, la Spagna, che si componeva di sette, e la Brettagna di cinque.

La Gallia non v'è alcun dubbio che prima tenesse disposte le sue chiese secondo la disposizione delle provincie che componevano la sua diocesi, in maniera che ciascuna metropoli ecclesiastica aveva corrispondenza colla civile, ed in questi primi tempi non riconobbe la Gallia niun primate, ovvero esarca, siccome ebbero le diocesi d'Oriente, ma i vescovi co' loro metropolitani reggevano in commune la Chiesa gallicana. E la cagione era perché nella Gallia non vi fu una città cotanto principale ed eminente sopra tutte l'altre, sicché da quella dovessero tutte dipendere, siccome fu nell'Asia la città d'Antiochia, in Egitto quella d'Alessandria, in Italia Roma e Milano; siccome in queste parti istesse del mondo si vide nell'Africa occidentale ergersi cotanto Cartagine, in Asia Efeso, Cesarea ed Eraclea, e tante altre. Ma nella Gallia per quest'istesso si viddero da poi delle notabili variazioni; poiché alcune delle città delle sue provincie, nel medesimo tempo avvanzandosi e crescendo sopra l'altre, quindi sorsero fra' loro metropolitani varie contese, ciascuno per sé pretendendo le ragioni di primate. Nella provincia di Narbona fuvi gran contrasto fra i vescovi di Vienna e l'arelatense, di cui ben a lungo trattò Dupino, De antiq. eccl. disc., diss. I. Nell'Aquitania, ne' tempi posteriori, altra contesa si accese fra il vescovo di Bourges e quello di Bordeaux, della quale tratta Alteserra, Rer. aquit., lib. IV, cap. IV. Talché negl'ultimi tempi, caduto l'Imperio d'Occidente e partito fra straniere nazioni, secondo ch'erano innalzate le città principali, i vescovi, i quali n'erano metropolitani, si arrogarono molte prerogative sopra gl'altri metropolitani, e vollero esser soli chiamati primati, ancorché prima questo titolo si attribuiva indifferentemente a tutti i metropolitani. Così nella Francia il metropolitano di Lione appellasi primate, ritenendo assai più prerogative che non gl'altri metropolitani.

La Spagna riconobbe in questi primi tempi qualche polizia ecclesiastica, conforme a quella dell'Imperio, ma da poi nella decadenza dell'Imperio d'Occidente, mutandosi il suo governo politico, fu tutta mutata, e, secondo che una città, o per la residenza di nuovi principi, o per altra cagione, s'innalzava sopra l'altre di altre provincie, così il vescovo di quella chiesa, non contento delle ragioni di metropolitano, s'arrogava molte prerogative sopra gl'altri, e primate dicevasi. Così oggi la Spagna ha per suo primate l'arcivescovo di Toledo, come la Francia quello di Lione.

La Brettagna, ancorché prima riconoscesse qualche polizia ecclesiastica, conforme alla civile dell'Imperio, nulladimeno, occupata che fu poi da' Sassoni, perdé affatto ogni antica disposizione, né si ritenne alcun vestigio della vecchia polizia così nello stato civile, come nell'ecclesiastico. Tutte queste tre diocesi non si appartenevan punto a questi primi tempi al vescovo di Roma, e si governavano in commune da' loro vescovi metropolitani e primati, siccome han ben provato gli scrittori francesi, spagnuoli ed inglesi, ed intorno alla Brettagna ultimamente fin all'ultima evidenza ha dimostrato Bingamo, lib. IX, cap. I, § X, confutando nel § XI le opposizioni di Schelstrato, il quale infelicemente s'era sforzato di sostenere il contrario.

ITALIA

Eccoci in Italia, riserbata nell'ultimo luogo, poiché in essa dovremo fermarci per iscorgere più d'appresso l'antico stato del vescovo di Roma, i suoi voli ed ingrandimenti, per i quali sorse questo regno papale di cui saremo a ragionare.

Il vescovo di Roma non v'è dubbio che, prima che Costantino Magno abbracciasse la religion cristiana, era molto distinto sopra gl'altri, e per la credenza ch'alcuni Padri del terzo secolo ebbero, siccome S. Ireneo, Cipriano e Tertulliano, che S. Pietro, capo degl'appostoli, fosse stato in Roma, e che quivi non meno che in Antiochia vi avesse fondata chiesa e presedutovi in quella come vescovo; ma molto più per riguardo della città, la più cospicua ed eminente ch'era allora nel mondo, nella quale questa cattedra veniva ad essere collocata. Ed i vescovi di Roma, sin dal terzo secolo, erano entrati in questa presunzione d'essere più degl'altri, siccome si vidde dal fatto di S. Stefano, vescovo di Roma, il quale non si sgomentò, nella controversia se dovevasi o no reiterare il battesimo dato dagl'eretici o scismatici, di privare dalla communione i vescovi d'Affrica, che contro il suo parere stavano per la reiterazione. Ma que' vescovi, tra' quali Cipriano e Fimiliano, seppero ben reprimere l'arroganza, scrivendogli una grave lettera, nella quale fra l'altre cose gli dissero: «Neque enim quisquam nostrum episcopum se esse episcoporum constituit aut tyrannico terrore ad obsequendi necessitatem collegas suos adegit», Cypr., Ep. LXXIV. Ora, data che fu poi da Costantino pace alla Chiesa, ed avendo egli in Roma trionfato, innalberando il primo quivi la croce di Cristo, e careggiando Silvestro che si trovava allora vescovo di quella chiesa, ed arrichendola di preziose suppellettili e di beni mondani; era ben di dovere che, siccome i vescovi di Antiochia e di Alessandria estolsero il lor capo in Oriente, dovesse eziandio innalzarlo in Occidente quello di Roma, prima città allora del mondo, la quale non era anche a questi tempi Costantinopoli che potesse uguagliarla e molto meno con lei contender di maggioranza, siccome ambiziosamente fu da poi preteso.

Ma con tutto che fosse Roma riputata a questi tempi capo del mondo, nulladimeno la nuova disposizione nella quale erano allora le diocesi e le provincie dell'Imperio d'Occidente non poté portare alla sua chiesa ed al suo vescovo quell'estensione, eminenza e superiorità che recò al vescovo d'Antiochia e d'Alessandria in Oriente, poiché in questa prefettura d'Italia fu fatta altra disposizione che non fu in quella d'Oriente. In questa, che pur fu divisa in tre diocesi, Illirico, Affrica ed Italia, le diocesi furono altramente disposte. Delle due prime, Illirico ed Affrica, non accade qui favellare, poiché ne ragionaremo appresso, quando il vescovo di Roma, non contento delle provincie suburbicarie, si sottopose anche l'Illirico, dove mandava suoi vicari e lo stesso pretese far nell'Affrica; onde della terza, strettamente detta Italia, nella quale veggiamo fondato il regno papale, è di mestieri che qui più diffusamente si ragioni.

Questa diocesi, a differenza dell'altre di Oriente, fu partita in due vicariati, i quali, pure colle due diocesi d'Illirico e d'Affrica, erano sottoposti al prefetto pretorio d'Italia. Il primo fu detto il vicariato di Roma, capo del quale era la città di Roma, il secondo chiamavasi il vicariato d'Italia, capo del quale era la città di Milano.

Il vicariato di Roma si componeva di dieci provincie, le quali erano: 1. Campagna, 2. Puglia e Calabria, 3. Lucania e Bruzi, 4. Sannio, 5. Etruria, 6. Umbria, 7. Piceno Suburbicario, 8. Sicilia, 9. Sardegna, 10. Corsica e Valeria.

Del vicariato d'Italia erano sette provincie: 1. Liguria, 2. Emilia, 3. Flaminia, 4. Piceno Annonario, 5. Venezia, a cui fu da poi aggiunta l'Istria, 6. Alpi Cozzie, 7. e l'una e l'altra Rezia.

Questa divisione d'Italia in due vicariati portò in conseguenza che la polizia ecclesiastica d'Italia non corrispondesse a quella d'Oriente, poiché non ogni provincia d'Italia, siccome aveva la città metropoli (come la Campagna Capua, l'Etruria Fiorenza, e così l'altre), ebbe il suo metropolitano, come in Oriente; ma le città come prima ritennero semplici vescovi, e questi non ad alcuno metropolitano, ma o al vescovo di Roma, o a quello di Milano erano sottoposti: quegli del vicariato di Roma al vescovo di quella città, e, gli altri del vicariato d'Italia al vescovo di Milano, siccome ha ben provato Pietro di Marca, De concor., lib. I, cap. III, n.° 12, e si vedrà chiaro più innanzi.

Or, chi averà innanzi gl'occhi questa disposizione delle diocesi d'Italia ed il canone sesto del concilio niceno, facilmente comporrà la disputa insorta fra' vari scrittori intorno a' confini dell'esarcato, o sia patriarcato di Roma, mettendo attenzione a ciò che s'apparteneva al vescovo di Roma come metropolitano nella propria provincia, o quello che se l'apparteneva sopra l'altre provincie delle quali si componeva il vicariato di Roma, e delle quali egli veniva ad essere come esarca. Non altrimenti di ciò che s'è veduto del vescovo d'Alessandria e di Antiochia. Quello d'Alessandria, come preposto ad una città capo dell'intiera diocesi d'Egitto, esercitava le sue ragioni metropolitiche nella propria provincia, qual'era l'Egitto strettamente preso, e le esarcali nell'altre provincie onde si componeva l'intiera diocesi, come la Libia, divisa poi in due provincie, e Pentapoli, alle quali s'aggiunsero da poi l'Arcadia, la Tebaide, e l'Augustanica. L'altro d'Antiochia, città capo dell'intiera diocesi d'Oriente, esercitava le sue ragioni di metropolitano nella propria provincia della Siria, e l'esarcali nelle altre provincie onde si componeva quella diocesi, le quali erano la Palestina, la Fenicia, l'Arabia, la Cilicia, l'Isauria, la Mesopotamia. E così appunto il concilio niceno ci addita che dovesse riputarsi il vescovo di Roma a riguardo delle provincie del vicariato di Roma. Ecco le parole del suo can. 6: «Antiqui mores serventur, qui sunt in Aegypto, Lybia et Pentapoli, ut alexandrinus episcopus horum omnium habeat potestatem, quandoquidemque episcopo romano hoc est consuetum. Similiter, et in Antiochia et in aliis provinciis sua privilegia ac suae dignitates et auctoritates ecclesiis serventur». E, secondo la versione di Dionigi il Piccolo: «Antiqua consuetudo servetur per Aegyptum, Lybiam et Pentapolim ita ut alexandrinus episcopus horum omnium habeat potestatem; quia et urbis Romae episcopo parilis mos est. Similiter autem et apud Antiochiam ceterasque provincias suis privilegia serventur ecclesiis».

Chi dasse occasione alla disputa fu Ruffino, il quale, traducendo dal greco in latino questo canone, l'espresse così nella sua versione ed epitome: «Et apud Alexandriam et in urbe Roma vetusta consuetudo servetur, ut vel ille Aegypti, vel hic suburbicariarum ecclesiarum sollicitudinem gerat». Or, quali fossero queste chiese suburbicarie da Ruffino intese, Sirmondo, De suburbic. region., lib. I, cap. VII, si appose al vero dicendo che queste erano le chiese delle città, le quali s'appartenevano ed erano comprese nel vicariato di Roma, onde per quest'istesso furono appellate suburbicarie. Giacomo Gotofredo in Cod. Theod., lib. XI, De annona, leg. tit. 1. IX, Cave, Giovanni Launeio, in Dissert. De recta Niceni Canonis VI intelligentia, e Claudio Salmasio queste chiese le restrinsero in troppo brevi confini, poiché pretesero che fossero state quelle che per cento miglia intorno a Roma, e non oltre, si estendevano, e che al prefetto della città di Roma, non al vicario ubbidivano. Altri diedero in un'altra estremità, e sotto il nome di province suburbicarie intesero chi l'universo orbe romano, e chi almeno tutto l'Occidente, siccome con grandi apparati studiaronsi provare Emanuello Schelstrate, Antiq. illustr., part. I, diss. II, cap. III, e Lione Allaci, De occid. et orient. cons., lib. I, cap. IX. E Natal d'Alessandro, tom. IV saec., dissert. XX, prop. II, inclina pure ad ampliar l'esarcato romano in tutte le chiese d'Occidente. Ma il sudetto canone VI niceno fa chiaramente conoscere la vanità ed insussistenza non men dell'una che dell'altra di queste due opposte sentenze. Non possono quelle chiese restringersi alle sole città, al solo prefetto di Roma supposte per cento miglia intorno, poiché il paragone fatto dal concilio, del vescovo di Roma con quello d'Alessandria e di Antiochia, sarebbe inetto ed improprio; molto meno diffondersi per tutte l'ampie regioni d'Occidente, poiché, siccome il vescovo d'Antiochia non aveva niente che impacciarsi colle altre diocesi e provincie d'Oriente, né quello d'Alessandria coll'altre provincie d'Affrica, così nemeno il romano aveva di che impacciarsi non pur colla Gallia, Spagna, Brettagna e l'altre provincie d'Occidente, ma nemmeno in quelle d'Italia istessa ch'erano sottoposte al vicariato d'Italia, delle quali appartenevano le ragioni esarcali al vescovo di Milano.

Quindi la sentenza di Sirmondo, come più vera e conforme allo stato delle provincie d'Italia di questi tempi, fu abbracciata e vigorosamente sostenuta da Dupino, De antiq. Eccl. disc., diss. I, ed ultimamente da Bingamo, Orig. eccl., lib. IX, cap. I, il quale, facendo pur paragone fra' vescovi di Roma, Alessandria ed Antiochia, viene a riconoscere quello di Roma come metropolitano a riguardo della sua propria provincia, ristretta forse in quel circuito che al prefetto della città ubbidiva, e come esarca a riguardo delle provincie suburbicarie sottoposte al vicario di Roma, che abbracciavano non pur molte regioni mediterranee d'Italia, ma fino l'isole di Sicilia, Sardegna e Corsica.

E ben l'istoria e gl'antichi monumenti rimastici di quest'età confermano che tal fosse l'autorità del vescovo di Roma sopra queste provincie, non già ristretta solamente alla propria provincia, perché l'esercitava sopra le medesime con potere assai maggiore che non facevano gl'esarchi d'Oriente nelle provincie delle loro diocesi, poiché, sebbene il vescovo di Roma non potesse propriamente dirsi esarca, perché non l'intiera diocesi d'Italia fu a lui commessa, siccome erano gl'esarchi d'Oriente, i quali dell'intiere diocesi avevano cura, per essersi partita la diocesi d'Italia in due vicariati, con tutto ciò, come che in queste provincie suburbicarie non vi era a questi tempi alcun vescovo che vi si fosse innalzato ad esser metropolitano, quindi il vescovo di Roma, come esarca insieme e metropolitano, esercitava in quelle non pur le ragioni esarcali, ma eziandio le metropolitiche, imperciocché a lui s'appartenevano non pur le ordinazioni de' vescovi delle città metropoli, come di Capua in Campagna, di Benevento nel Sannio, di Regio e di Salerno nella Lucania, e ne' Bruzi, di Taranto e Bari in Puglia e Calabria, di Fiorenza nell'Etruria, di Siracusa in Sicilia, e così nell'altre provincie, ma anche l'ordinazioni di tutti gl'altri vescovi minori delle medesime, quando, in Oriente, gl'esarcali l'ordinazione di questi vescovi la lasciavano a' loro metropolitani. Così le chiese di tutte queste provincie suburbicarie ebbero il solo pontefice romano e per esarca e per metropolitano, perché a lui s'apparteneva l'ordinazione de' vescovi, siccome dimostra accuratamente l'avvedutissimo Dupino, loc. cit. Onde, quando mancava ad una città il vescovo, il clero ed il popolo eleggevano il successore, poi si mandava al vescovo di Roma perché l'ordinasse; il quale sovvente, o faceva venire l'eletto in Roma, ovvero delegava ad altri la sua ordinazione. Del qual costume il registro dell'Epistole di Celestino I, di S. Leone Magno, e più quello di S. Gregorio Magno, serba moltissimi esempi, come si scorge nell'elezioni de' vescovi di Capua, epis. XIII lib. IV et epis. XXVIII lib. VIII, de' vescovi di Napoli, ep. 4 lib. 8 et epis. XV lib. II, de' vescovi di Cuma, epist. IX lib. II e di Miseno, epist. XXV lib. VII nella provincia di Campagna ed in quella del Sannio, de' vescovi di Teramo, epist. XIII lib. X e nell'epis. III di Celestino I, dell'elezione de' vescovi di Calabria e di Sicilia: poiché in Sicilia, come provincia suburbicaria, pur osserviamo la medesima autorità esercitata da' romani pontefici intorno all'elezione de' suoi vescovi, come è manifesto dalla suddetta epistola di Celestino e dall'epist. XVI di S. Leone dirizzata ad Episcopos Siciliae, e da quella di S. Gregorio stesso, epist. XIII lib. V.

Ma siccome l'istoria ci fa manifesto di non dover restringere la potestà del vescovo di Roma al solo territorio, che cento miglia intorno lo circondava, così si manifesta ancora che fuori di queste provincie suburbicarie non aveva egli niente che impacciarsi non solo nella Gallia, nella Spagna ed in Brettagna, nell'Affrica e nell'Illirico e tutte l'altre provincie d'Occidente, ma nemmeno in quelle provincie d'Italia ch'erano comprese nel vicariato d'Italia, le quali al vescovo di Milano si appartenevano.

Intorno alla Gallia, sotto il cui nome erano comprese la Germania ed il Belgio, se ne leggono le prove in Pietro Piteo, Della libertà della Chiesa gallicana; e Dupino, Antiq. Eccl. disc., diss. I, n.° XIV° lo dimostrò abbastanza, ed a riguardo della Germania lo stesso fece Giovanni Schiltero nel suo trattato De libertate ecclesiastica Germaniae, Ienae 1683, e Baluzio, nella prefazione del libro d'Antonio Augustino De emendat. Gratiani dimostrò chiaramente che a questi tempi, e per sino al secolo IX, cioè 800 anni avanti ch'egli scriveva, che fu nel secolo XVII, i sinodi della Gallia non mai permisero che de' loro decreti si portasse appellazione al romano pontefice. E che i vescovi della Gallia fossero stati tutti ordinati da' loro metropolitani, in niente impacciandosene il vescovo di Roma, è pur manifesto dal can. VII del concilio II d'Orleans celebrato nell'anno 533 e dal can. III del concilio III celebrato pur quivi nel 538. Ed oltre ciò che si legge presso Ainemaro in veteribus formulis e presso Ivone Carnutense ep. LX, sono pur noti i molti esempi che rapportano Cave e Baluzio istesso delle vigorose e forti resistenze che fecero i vescovi gallicani alle usurpazioni che tentavano di volta in volta far i pontefici romani sopra le loro chiese: ed infino al decimo secolo durarono le proteste e le querele de' loro attentati, fra' quali assai memorando è l'esempio che Glabro Rodolfo, lib. II Hist. Franc. cap. IV, rapporta accaduto a' suoi dì, dell'attentato che fece il pontefice Giovanni XVIII, il quale, corrotto da doni e da molta moneta che gli diede Folco conte d'Angiò, ardì di far consacrare la chiesa di Belluge bello loco della diocesi del metropolitano di Tournon; quando questo arcivescovo non avea voluta consacrarla, per essere stata fabbricata da Folco di rapine e de' danari che aveva rubati a' suoi sudditi. Infino a questi tempi di Glabro i vescovi di Francia confessavano sì bene che il pontefice romano per la dignità della sua apostolica sede era sopra tutti gl'altri vescovi del mondo venerando, ed a cui doveva portarsi tutta riverenza e rispetto per essere il primo tra' vescovi; ma non perciò che potesse nelle loro diocesi esercitare potestà alcuna esarcale, la quale era solo ristretta dentro i confini delle sue chiese suburbicarie, e non già doveva trascorrere nell'altre provincie d'Occidente, i di cui vescovi in quelle avevano la potestà istessa che il romano aveva nelle sue. «Licet namque» sono le parole di Glabro «pontifex romanae Ecclesiae, ob dignitatem apostolicae sedis, caeteris in orbe constitutis reverentior habeatur; non tamen ei licet transgredi in aliquo canonici moderaminis tenorem. Sicut enim unusquisque, orthodoxae Ecclesiae pontifex ac sponsus propriae sedis, uniformiter speciem gerit Salvatoris; ita generaliter nulli convenit quidpiam in alterius procaciter patrare episcopi dioecesi».

Per ciò che riguarda la Spagna, chiunque avrà innanzi gli occhi i tanti concili nazionali tenuti in questa diocesi e quelli convocati in Toleto, specialmente il can. XIX del concilio Toletano IV celebrato nell'anno 633, scorgerà pure che i vescovi della Spagna erano tutti ordinati da' loro metropolitani, e questi da' vescovi comprovinciali ragunati nella città metropoli. Ed i vescovi spagnuoli, sebben fossero riverentissimi al pontefice romano e lo avessero in somma stima e venerazione, con tutto ciò non permettevano che s'intrigasse ne' loro ecclesiastici affari, regolandogli essi assolutamente ed i loro re, i quali spesso solevano anche presedere ne' loro concili e davano vigor di legge a' canoni che in essi stabilivano, perché fossero da tutti inviolabilmente osservati.

Nella Brettagna più scrittori inglesi hanno dimostrato che in questi primi tempi, ed insino che il monaco Agostino fu colà mandato missionario di Roma, quei vescovi non riconoscevano il romano, ma sibbene il vescovo «Caërlegionis super Osca» per loro primate, che aveva la cura di governargli; ed avendo voluto Agostino persuadergli che si sottoponessero a quello di Roma, essi, secondo che rapporta Spelman, Concil. Britan., A. DCI, tom. I, p. 108, gli risposero: «Nescire se obedientiam papae romano debitam, sed esse se sub gubernatione episcopi Caërlegionis super Osca, qui sit sub Deo supremus ipsorum antistes». Ed il venerabile Beda in più luoghi della sua Histor. gent. Anglor., lib. II, cap. XXIX, lib. III, cap. XXV, lib. V, cap. XVI et XXII, dimostra che fino a' suoi tempi la Brettagna non riconosceva sopra sé potestà alcuna patriarcale del pontefice romano. Ciocché negl'ultimi nostri tempi fu ben provato da' più accurati investigatori dell'antichità brittaniche, siccome infra gl'altri da Brerewood, da Watsanio,» De Eccl. Brit. antiq. libertate, thes. II, dal Cave, Stillingfleet, Orig. Brittan., cap. V, p. 356, ed ultimamente dal Bingam, il quale nel lib. IX, cap. I, § XII Orig. eccl. confuta gl'argomenti di Schelfrate, che infelicemente tentò opporsi alla sentenza degl'inglesi scrittori.

Nelle provincie dell'Illirico occidentale, siccome nella Pannonia I e II le cui metropoli erano Laureato e Sirmio, nella Savia, di cui pure la metropoli era Sirmio, sebbene altri voglino che fosse stata Vindomana, nella Dalmazia, la di cui metropoli era Salona, e nel Norico, di cui alcuni pretendono che fosse stata la metropoli Salisburg; a questi tempi, prima che il pontefice romano non cominciasse a mandarvi suoi vicari, non era riconosciuto come loro patriarca, ma si governavano in commune da' propri vescovi e metropolitani. E non se non molto tempo da poi passarono sotto il di lui patriarcato, come diremo a suo luogo.

Per ciò che s'appartiene alle provincie dell'Affrica occidentale, le quali pure s'è preteso attribuirle all'esarcato, ovvero patriarcato romano, è pur manifesto che queste ebbero proprio esarca, qual fu il primate di Cartagine il quale con assoluta e libera potestà senza altrui dipendenza governava tutte quelle chiese, secondo la facoltà concedutagli dagl'imperatori, nella quale sino a' tempi di Giustiniano la ritennero; anzi dal medesimo, per aver Cartagine anche decorata del suo nome, volendo che si chiamasse Giustiniano II, fu maggiormente stabilita e confermata per la sua novella 131, c. IV, comandando: «Simili quoque modo ius pontificis, quod episcopo iustinianae Carthaginis africanae civitatis dedimus, ex quo Deus hanc nobis restituit, servari iubemus»; e dalla novella XXXVII, secondo che distesamente si legge fra le Novelle di Giustiniano, è manifesto che il vescovo di Cartagine era il papa dell'Africa. La qual costituzione rende vani ed insussistenti gli sforzi del Baronio, di Schelstrate e di Cristiano Lupo, i quali a tutto potere s'ingegnano di far credere che, sebben fosse stata grande la potestà del vescovo di Cartagine in Affrica, era però dipendente dal vescovo di Roma, poiché fu quella novella diretta a Salomone, prefetto pretorio dell'Affrica; e siccome Giustiniano aveva dato a questa provincia un prefetto pretorio il quale avesse la suprema potestà sopra la medesima, e così vi volle pure in Cartagine costituire un patriarca, ovvero primate, che nelle cose ecclesiastiche avesse pari autorità; e siccome il prefetto pretorio dell'Affrica non era dipendente da quello d'Italia, così sopra questo patriarca di Cartagine non avea niente da impacciarsi quello di Roma: «Ut civitas» come sono le parole di Giustiniano «quam nostri nominis cognomine decorandam esse perspeximus, imperialibus privilegiis exornata florescat». Le quali ultime parole smentiscono pure il Baronio che sognò che gl'imperatori in elevar i vescovi a primati abbian bisogno dell'autorità del romano pontefice, anzi, come si vedrà al suo luogo, era tutto contrario: ché i papi avevano bisogno della licenza degl'imperatori quando volevano mandare il pallio a qualche vescovo per innalzarlo ad essere metropolitano. Della quale indipendenza del vescovo di Roma e di Cartagine furono in possesso molto tempo innanzi di Giustiniano, e nel IV e V secolo, sedendo S. Agostino nella cattedra d'Ippona, il quale intervenne ne' concili d'Affrica, si oppose sempre cogl'altri vescovi nazionali agl'attentati e sorprese de' pontefici romani. È manifesto che non si lasciarono conculcare i loro diritti, impedendo le appellazioni in Roma il lor mare, e tutti gl'affari ecclesiastici e le controversie che sorgevano nelle loro provincie quivi erano terminate. È pur troppo noto il can. XXII del concilio milevitano II celebrato nell'anno 416, col quale si stabilì: «Placuit ut presbyteri, diaconi vel ceteri inferiores clerici, in causis quas habuerint, si de iudiciis episcoporum suorum questi fuerint, vicini episcopi eos audiant; et inter eos, quicquid est, finiant, adhibiti ab eis ex consensu episcoporum suorum. Quod si ab eis provocandum putaverint, non provocent nisi ad africana concilia, vel ad primates provinciarum suarum. Ad transmarina autem (Roma scilicet) qui putaverit appellandum, a nullo inter Africam in communionem suscipiatur». Questo decreto fu più volte confermato dagl'altri loro nazionali concili per l'occasione che spesso gli davano i romani pontefici d'usurparsi il dritto dell'appellazioni; ed è celebre la controversia insorta per l'appellazione interposta in Roma da Apiario, prete affricano, il quale da un sinodo essendo stato scommunicato, avendone portato i ricorsi a Roma, il pontefice Zosimo pretendeva assumerne la cognizione, sforzandosi che fosse Apiario restituito nella loro communione; ma si opposero vigorosamente que' Padri, e rompendo tutte l'imposture e cavillazioni che si tentarono sopra i canoni del concilio niceno, facendogli conferire cogl'originali che si conservavano in Antiochia, Alessandria e Constantinopoli, per convincere la frode di questa impostura e della maniera di confondere i canoni del concilio niceno con quelli di Sardica. Savissimamente scrisse Daleo, De usu Patrum, lib. I, cap. III sebbene par che ammetta per vere le apocrife epistole di Lione M. e di Teodosio e Valentiniano imperatori che si leggono nel tomo II Concil., p. XXV (XXXI, A XXXII, A) soggiungendo: «Neque tum accepta ab africanis Patribus repulsa obstitit quominus aliquot post annis Leo papa, ad Theodosium imperatorem scribens, eadem arte ipsum adoriretur et sardicensem pro vero canone nicaeno supponeret. Unde fit ut Valentinianus et Galla Placidia, ad eumdem Theodosium scribentes, extra dubitare veteres et nicaenos canones de fide et praesulibus Ecclesiae iudicandi ius pontifici romano concessisse. Authore scilicet Leone, a quo sardicense decretum pro canone nicaeno acceperant. Atque ita porro porrectum est in fraude ista pia, ut maximae christianorum parti persuasum sit nicaeni concilii decreto romanum primatum fuisse constitutum, ita ut in hac controversia maxima illius synodi auctoritas pro hac sententia passim obstrudatur».

Scoperta la frode, i vescovi d'Affrica scrissero finalmente quella terribile lettera sinodica al pontefice Celestino, il quale dopo Bonifacio era succeduto a Zosimo, che si legge nel Codice de' Canoni affricani, tom. II Concil., cap. 135. 36. 37. 38, dove, fra l'altre cose, acremente rimproverandolo che non s'intricasse in quello che non se le apparteneva, gli dicono: «Presbyterorum quoque et sequentium clericorum improba refugia, sicuti te dignum est, repellat sanctitas tua; quia et nulla Patrum definitione hoc Ecclesiae derogatum est africanae, et decreta nicaena, sive inferiores clericos, sive ipsos episcopos, suis metropolitanis apertissime commiserunt. Prudentissime enim, iustissimeque providerunt, quaecumque negotia in suis locis, ubi orta sint, finienda. Nec unicuique providentiae gratiam sancti Spiritus defuturam». Ed avendo il pontefice con sottil ritrovato proposto che in caso di gravame, per non far trasportar le cause oltra mare, voleva egli mandar in Affrica suoi delegati, gli fu risposto che in niun concilio de' Padri avevano trovata questa nuova prattica ch'egli voleva introdurre, e perciò che se n'astenesse, dicendogli: «Executores clericos vestros quibuscumque petentibus nolite mittere, nolite concedere, ne fumosum typhum saeculi in Ecclesiam Christi, qui lucem simplicitatis et humilitatis diem Deum videre cupientibus praefert, videamur inducere».Non è dunque da dubitare che a questi tempi del IV e V secolo, ed infino a Giustiniano imperatore, il pontefice romano non aveva dritto alcuno patriarcale sopra le chiese affricane, le quali da' loro metropolitani o dal primate di Cartagine erano rette e governate, siccome eziandio ben dimostrano Salmasio, De pri. papae, cap. XV, p. 236 ed ultimamente Melchiorre Leyderchero, De ecclesia affricana, vindicandolo di tutte le cavillazioni ed ingiurie degli scrittori romani .

Ma se quest'istesso ravvisiamo nelle sette provincie d'Italia istessa ch'erano del vicariato d'Italia, alle quali presideva il vescovo di Milano, qual motivo di dubitare vi rimarrà per l'altre provincie d'Occidente, fuori d'Italia?

Milano a questi tempi era riputata la città metropoli d'Italia, cioè d'Italia strettamente presa, ch'era tutta quella regione che al vicario d'Italia ubbidiva, compresa da queste sette provincie, cioè: Liguria, Emilia, Flaminia, Piceno, Annonario, Venezia ed Istria, Alpi Cozzie e l'una e l'altra Rezia, non altrimenti che Roma era capo dell'altre provincie suburbicarie sottoposte al vicario di Roma. Quindi dagli scrittori del IV e V secolo Milano era chiamata «metropoli d'Italia», infra gl'altri da Attanasio nell'Epist. ad solitar., tom. I dove, parlando de' vescovi delle città metropoli della Gallia e di Sardegna, di Dionisio, ch'era allora vescovo di Milano, dice: «Dionysius Mediolani est autem et ipsa metropolis Italiae». Parimenti Teodoreto, lib. II, cap. XV, parlando di Liberio vescovo di Roma, e di Paolino della Gallia e di Dionisio dell'Italia, disse pure: «Liberius episcopus urbis Romae, Paulinus metropolis Galliarum, Dionysius metropolis Italiae», cioè di Milano. E questa fu la cagione perché, quando nella convocazione de' concili s'univano i vescovi di tutte le XVII provincie d'Italia, perché si distinguessero quali fossero quelli delle provincie suburbicarie e quali d'Italia strettamente presa, nelle soscrizioni solevano i primi particolarmente denominarsi dalle provincie e città ove presiedevano, ed i secondi denominavansi generalmente col solo nome d'Italia e della città. Così osserviamo nelle soscrizioni de' vescovi rapportate a questa occasione da Camillo Pellegrino, De finib. Ducat. benev., diss. II, dagl'atti del Concilio di Sardica, celebrato nell'anno 347, che alcuni si sottoscrissero così: «Ianuarius a Campania de Benevento; Maximus a Tuscia de Luca; Lucius ab Italia de Verona; Fortunatus ab Italia de Aquileia; Stercorius ab Apulia de Canusio; Severus ab Italia de Ravenna; Ursacius ab Italia de Brixia; Protasius ab Italia de Mediolano» etc. E questo era perché Verona, Aquileia, Ravenna, Brescia e Milano erano nelle provincie le quali al vicario d'Italia ubbidivano. Ciocché non poteva dirsi di Benevento, di Lucca e di Canosa, le quali città erano nelle provincie di Toscana, di Campagna e di Puglia, le quali erano del vicariato di Roma, non già d'Italia.

 Or, siccome il vescovo di Milano non avea di che impacciarsi delle chiese al vicariato di Roma appartenenti, così il vescovo di Roma non s'intricava in quelle che s'appartenevano al vicariato d'Italia; onde nelle loro ordinazioni, siccome il romano non era consecrato dal vescovo di Milano, ma da quello d'Ostia, così il milanese non già dal vescovo di Roma, ma da quello d'Aquileia, e questi dal milanese erano vicendevolmente ordinati, siccome è manifesto dall'epist. XVII dell'istesso Pelagio I, che sedé in Roma nell'anno 555, che si legge nel tomo V Concil., e da ciò che rapporta Teodoreto, lib. IV hist., c. VII, dell'ordinazione di S. Ambrogio. E Pietro di Marca, De concord., lib. VI, c. IV, n.° VII, non poté negare che insino a' tempi di S. Gregorio M. il vescovo di Roma s'astenne sempre nell'ordinazione di quello di Milano, di Aquileia, di Ravenna e dagl'altri vescovi d'Italia, i quali al vicariato d'Italia s'appartenevano. Ne' princìpi del VII secolo, nel pontificato di S. Gregorio Magno, LVIII anni appresso quello di Pelagio, si cominciarono le sorprese per un'occasione opportuna, che, secondo credé l'arcivescovo istesso di Parigi, gli somministrò lo scisma che insorse a que' tempi tra la Chiesa di Milano e quella d'Aquileia: Gregorio, col pretesto di occorrere a sedizioni, tumulti ed alle ambizioni, e datigli a credere che ciò si fosse anche per consuetudine altre volte pratticato, cominciò a mandare in Milano un suo messo, il quale dovesse assistere all'elezione, la quale si lasciava come prima, secondo il prescritto de' sacri canoni, al clero ed al popolo, l'universal consenso de' quali dovesse ricercarsi, e che l'eletto si consacrasse pure come prima da' vescovi comprovinciali; aggiunse che vi dovesse ancora concorrere la sua autorità ed assenso. Così si legge in una sua epistola drizzata al romano patrizio ed esarca d'Italia, epist. XXXI: «Necesse fuit pro servanda consuetudine (la quale non mai era stata, anzi tutto il contrario dimostrano l'elezioni de' precedenti tempi) militem Ecclesiae nostrae dirigere, qui eum in quo omnium voluntates atque consensum concorditer convenire cognoverit, a suis episcopis, sicuti vetus mos exigit, cum nostro tamen assensu faciat consecrari». E lo stesso pontefice, scrivendo a Giovanni sottodiacono, al quale avea data commissione d'eseguire i suoi ordini, si vale d'altra frase più acconcia per istabilire questo nuovo dritto, dicendogli: «Tunc eum a propriis episcopis, sicuti antiquitatis mos obtinet cum nostrae auctoritatis assensu, facias consecrari, quatenus huiusmodi servata consuetudine, et apostolica sedes proprium vigorem retineat, et a se concessa aliis sua iura non minuat». Quest'epistola in altri darebbe sospetto non di simplicità, come in Gregorio, ma di furberia, perché sarebbe una ingegnosa invenzione per stabilir un nuovo dritto di concedere facoltà a' vescovi comprovinciali della quale non avevano bisogno, somministrandogli la propria autorità il poter da se stessi ciò fare; e nell'istesso tempo gliela concede, vuol che non restino pregiudicati né minuiti i loro dritti e ragioni, ricercando anche in ciò il suo assenso. Di queste sottili ed accorte maniere se ne additeranno ben mille e mille ne' princìpi dell'usurpazioni, e non d'altra guisa furono tutte l'altre intraprese, sicché ciascuno potrà per se stesso chiaramente comprendere su quali fondamenti si fosse appoggiato questo sì maestoso e splendido regno papale.

Ma nel periodo nel quale ora siamo, prima di Gregorio M., tal'era la potestà del vescovo di Roma in Italia istessa, la quale non si estendeva sopra le chiese di quelle provincie che nel vicariato d'Italia eran comprese. Aveva questo vicariato il suo esarca, ch'era il vescovo di Milano, il quale, oltre i vescovi minori, aveva sotto di sé grandi ed illustri metropolitani, siccome erano il vescovo d'Aquileia e quello di Ravenna, li quali (siccome quello di Milano) non riconoscevano sopra di loro giurisdizione o superiorità alcuna nel vescovo di Roma; anzi quello di Ravenna «de pari cum papa certabat», e più contese di giurisdizione ebbero insieme, delle quali lunga istoria continuata per più secoli tessé l'accuratissimo Guglielmo Cave per tutto il cap. V, alla quale bisogna rimettere i lettori come degna d'esser veduta e letta.

Il vescovo di Roma era riputato fra tutti gl'altri dell'ordine cristiano il più venerabile e reverendo, per ragione che la sua cattedra era fondata nella prima città del mondo, siccome i Padri del concilio di Calcedonia non ad altra ragione attribuiscono questa sua preminenza sopra tutti gl'altri, dicendo nel can. XXVIII: «Etenim antiquae Romae throno, quod urbs illa imperaret, iure Patres privilegia tribuerunt». E gl'altri imperatori per ciò gli concedettero i primi onori e le preminenze nella convocazione de' concili o nell'altre occorrenze di funzioni ecclesiastiche, come per ciò ben dovute; siccome dopo che innalzarono Constantinopoli sopra Antiochia ed Alessandria, facendola città capo dell'Imperio d'Oriente e chiamandola nuova Roma, per quest'istesso il suo vescovo venne ad innalzarsi cotanto, sicché gli rimasero indietro i vescovi d'Alessandria e d'Antiochia, ed occupò fra i patriarchi il secondo luogo dopo il romano, sicché più innanzi potrà vedersi. Intanto, quella maggior riverenza e venerabilità non gli recava maggior dritto sopra l'altrui diocesi, né importava che potesse comandar gl'altri. Egli è però vero che questo rispetto fu cagione, per l'ignoranza e decadenza dell'Imperio d'Occidente, e molto più di quello d'Oriente, che la riverenza si cangiasse in superiorità, e che innalzasse poi il suo triregno, non più tiara sacerdotale, la quale fu trasformata in imperial diadema sopra tutte l'altre mitre, anzi sopra gli scetri istessi e corone de' più potenti re della terra. Ecco una mostruosa metamorfosi: da primo qual era de' vescovi, si vidde da' medemi fatto principe e signore. Ma, fino che durò nel suo vigore l'Imperio, non s'estendevano più oltre di ciò che s'è detto i suoi dritti e ragioni esarcali. Anzi a questi tempi ne' quali siamo non l'era dato nemmeno nome di patriarca, il qual nome fu più antico agl'esarchi d'Oriente che questo di Roma, se voglia riguardarsi l'antichità della Chiesa: fu prima questo nome dato in Oriente' per encomio anche a' semplici vescovi, siccome ha ben provato l'accuratissimo Dupino, De antiq. Eccl. disc., diss. I. Poi si restrinse agli esarchi, che avevano cura dell'intiere diocesi, per la qual cosa presso a' Greci tutti gl'esarchi con questo nome di patriarca eran chiamati. Ma, fra' Latini in Occidente, il primo che si fosse così chiamato fu il pontefice romano, ed i Greci istessi furono i primi a dargli quest'encomio, ma non prima de' tempi dell'imperator Valentiniano III e di papa Leone Magno. Questo pontefice da' Greci e da Marciano istesso, imperatore d'Oriente, fu chiamato patriarca. Né prima, come notò l'accuratissimo Dupino, da' Latini medesimi e da' Greci se gli diede tal nome. Anzi il Sirmondo, De eccl. suburb., lib. II, cap. VII, scrivendo contro Claudio Salmasio, non poté allegar sopra ciò esempi più antichi che degl'imperatori Anastasio e Giustino, i quali chiamarono patriarca Ormisda, vescovo di Roma.

Ecco dunque qual fosse l'esterior polizia della Chiesa del IV secolo. A questi tempi si noverano più esarchi, ovvero patriarchi, i quali avevano a riguardo delle proprie diocesi egual potestà, né l'uno era soggetto o dipendente dall'altro. Brerewood novera sino a XIII o XIV esarchi nelle diocesi dell'Imperio romano, l'uno indipendente dall'altro: I. il patriarca alessandrino sopra la diocesi d'Egitto; II. il patriarca antiocheno sopra la diocesi d'Oriente; III. il patriarca efesino sopra la diocesi asiana; IV. il patriarca di Cesarea di Cappadocia sopra la diocesi pontica; V. l'altro di Eraclea sopra la Tracia; VI. quello di Tessalonica sopra la Macedonia ovvero Illirico orientale; VII. l'altro di Sirmio, sopra l'Illirico occidentale; VIII. il romano sopra il vicariato di Roma; IX. l'altro di Milano sopra il vicariato d'Italia; X. il cartaginese sopra l'Affrica; XI. quello di Lione sopra la Gallia; XII. l'altro di Toleto sopra la Spagna; XIII. 1'eboracense sopra la Brettagna.

Oltre ciò vi erano alcuni metropolitani, li quali parimenti erano indipendenti, né sottoposti ad alcun esarca, siccome furono i metropolitani di Cipro, di Bulgaria, d'Iberia, ch'ora communemente chiamano la Giorgia dell'Armenia, ed alcune chiese della Brettagna, che riconoscevano solo l'arcivescovo «Caërlegionis» per loro primate indipendente da qualunque altro patriarca. Parimenti, se fra nazioni barbare convertite alla fede di Cristo sorgeva alcun vescovo, governava questi indipendentemente dagl'altri la sua nazione. Così il vescovo di Tomidi nella Scizia, narra Sozomeno, lib. VI, cap. XXI, che come metropolitano governava tutta quella provincia; siccome le chiese d'Etiopia, della Persia e dell'Indie, e di tutte quelle regioni ch'erano fuori dell'Imperio romano, da' loro propri sacerdoti erano governate.

 

 

CAP. IV
I capi e moderatori di quest'esterior ecclesiastica polizia erano
gl'imperatori cristiani, come supremi ispettori da Dio costituiti
per averne cura e protezione.

Essendo chiara cosa e manifesta che quest'esterna polizia della Chiesa s'adattò a quella dell'Imperio, onde sorsero gl'esarchi primati ed i metropolitani corrispondenti a' magistrati dell'Imperio, secondo la maggiore o minor estensione delle diocesi e delle provincie ch'essi governavano, in conseguenza di ciò ne doveva seguire che, siccome nell'Imperio v'era un capo che lo reggeva, qual era l'imperatore, così nella Chiesa dovesse parimenti sorgere uno che tutta la reggesse e fosse il supremo commandante ed ispettore sopra tutti i patriarchi, esarchi e metropolitani, siccome era l'imperatore sopra tutti i magistrati dell'Imperio. Coloro che negano questa prerogativa al pontefice romano, pareggiandolo agl'altri esarchi, né dandogli maggior potestà nella propria diocesi di quella che avevano tutti gl'altri nelle loro, nelle quali egli non poteva por mano, per isfuggir questa difficoltà si riducono a dire che non in tutto l'esterior polizia della Chiesa si conformò a quella dell'Imperio, e che perciò non ebbe alcuno che fosse vescovo universale ad imitazione dell'imperatore, che siccome questi governava tutto l'Imperio, così quegli dovesse governar tutta la Chiesa. Infra gl'altri Bingamo, Orig. eccl., lib. IX, cap. I, § VIII, così si sbriga dicendo: «Exemplum reipublicae non in omnibus est imitata. Non habuit umquam universalem aliquem episcopum in universalis imperatoris imitationem; neque orientalem et occidentalem pontificatum in imitationem orientalis et occidentalis Imperii; nec quatuor magnos administratores spirituales, convenientes quatuor magnis status ministris, praefectis videlicet praetorio in civili Imperio».

Ma costoro sono caduti in quest'errore perché, confondendo l'interno coll'esterno della Chiesa, non hanno saputo ben distinguere queste due appartenenze. La Chiesa interna e spirituale da Cristo fondata non aveva mestieri di conformarsi coll'Imperio, né prender da quello forma e disposizione. In questa uno è il vescovo, come s'è detto, uno è il capo ed il maestro, Cristo; né ha niente d'esterno, di appariscente ed operoso. Può sussistere senza tempii, senza altari e senza tanti fastosi ministri. Di pochi e semplici riti ha bisogno, e, siccome diceva S. Epifanio, da' soli preti e diaconi tutte le funzioni di questa Chiesa possono adempirsi. Tutto quello che ha ora d'esterno fu aggiunto da che Costantino Magno la fece ricevere nell'Imperio, e per conseguenza, come quivi stabilita, dovevano gl'imperatori prenderne cura e pensiero, come supremi direttori di tutto ciò che dentro l'Imperio è racchiuso; e perciò a ragione soleva dire Costantino a' vescovi: «Vos quidem in iis quae intra Ecclesiam sunt episcopi estis. Ego vero in iis quae extra geruntur episcopus a Deo sum constitutus». Or, questa Chiesa esterna anche in aver un capo visibile e supremo direttore si conformò all'Imperio, e siccome ebbe gl'esarchi ed i metropolitani corrispondenti agl'uffiziali dell'Imperio, così ebbe un supremo direttore, e questi era l'imperatore; e diviso l'Imperio, gl'imperatori d'Occidente avevano cura della Chiesa occidentale, e quelli d'Oriente dell'orientale. Certamente che, divisa questa Chiesa in tanti esarchi, l'uno indipendente dall'altro, ed avendo pure metropolitani non sottoposti ad alcun esarca, ma anche per se stessi con indipendenza dagl'altri governavano le loro chiese, se non vi fosse stato un capo e supremo direttore che v'avesse la cura e l'ispezzione, si sarebbe veduta in molte confusioni e disordini. Quindi, quando infra di loro accadevano discordie o intorno alla dottrina o disciplina, perché non mettessero sotto sopra l'Imperio, convocavano gl'imperatori i concili, ed in quelli presidendo, facevano esaminare da' vescovi i punti controvertiti di religione, lasciando ad essi, come più periti, la conoscenza del dritto, perché risolvessero le controversie, e quelle, secondo la pluralità de' voti, decidessero, affinché i sudditi avessero certi dogmi da dover seguitare, e dichiarare le contrarie opinioni per false ed ereticali; sapessero il doverle schivare, e con ciò le risse e discordie si spegnessero affatto, doppo che i concili avevano per mezzo de' loro canoni deciso ciò che parevagii più conforme alla dottrina che Cristo ed i suoi apostoli insegnarono; che nell'Imperio tal credenza dovesse tenersi e non altra, minacciando esili, proscrizioni, infamia, molti ed altri castighi contro coloro che non l'eseguissero. In cotal guisa erano ben distinte le appartenenze: a' vescovi ne' punti di dottrina e di religione si lasciava la cognizione del dritto, perché ciò apparteneva alla Chiesa interna. Ma, perché esterna, il costringimento ed il commando in far eseguire da' popoli, poiché la Chiesa non aveva imperio e giurisdizione alcuna, s'apparteneva agl'imperatori, li quali, come capi dell'esterior polizia della Chiesa, per mezzo delle loro costituzioni che promulgavano per tutto l'Imperio, affinché quello si mantenesse in tranquillità e riposo e non si vedesse ardere tra sedizioni e tumulti, che soglion esser più perniciosi allo Stato quando siano cagionati per causa di religione, commandavano che si detestassero le opinioni qualificate da' concili per eretiche, si confessasse da tutti la tal credenza da essi prescritta e non si disputasse l'avvantaggio sopra tali articoli. Per questa ragione leggiamo nel lib. XVI del Codice teodosiano tante costituzioni sopra ciò stabilite, e nel Codice di Giustiniano que' titoli: «De summa trinitate», «de ss. Ecclesiis», «De clericis et haereticis», e non ad altro fine Giustiniano diede fuori quella sua professione di fede, della quale si parlerà a suo luogo, se non che tutti i sudditi dell'Imperio sapessero qual credenza dovevano tenere su que' articoli. Molti che non sanno, né distinguono ciò che s'appartiene all'esterna o interna polizia ecclesiastica, si maravigliono, anzi riprendono Teodosio e Giustiniano, perché ponessero a ciò mano; ma non se ne maravigliavano gl'istessi vescovi e Padri antichi che sapevano questo essere propria incombenza degl'imperatori; le quali cose, trascurandole, dovevano renderne conto a Iddio, il quale gl'avea costituiti ispettori e diffensori della sua Chiesa, perché nell'Imperio fosse conservata pura e monda.

Ne' punti di disciplina ecclesiastica era maggiore la potestà e la cura degl'imperatori. Essi, come capi di tutti i vescovi, dovevano prenderne cura e pensiero. Ergevano perciò le metropoli; dichiaravano gl'esarchi ed i metropolitani; mandavano a' medesimi il pallio in segno della giurisdizione che sopra le provincie e diocesi a loro sottoposte amministravano, siccome si vedrà chiaro ne' seguenti capitoli. Disponevano non meno delle persone che delle robbe ecclesiastiche, dando a' vescovi norma intorno all'elezioni, età, requisiti, ed intorno all'amministrazione de' beni, siccome è manifesto dal Codice teodosiano e di Giustiniano, e molto più dalle sue Novelle. Sicché intorno a questa esterna disciplina non deve ricercarsi altro centro per mantener l'unità, né l'altro capo visibile che gl'imperatori istessi che n'erano i direttori, dopo che nell'Imperio fu ammessa la religion cristiana; poiché, siccome ad essi s'apparteneva d'invigilare a tutto ciò ch'era dentro l'Imperio, così doveva appartenere l'ispezione sopra l'esterior polizia della Chiesa: giacché, come diceva Otato Melivitano, «la Chiesa è dentro l'Imperio, non già l'Imperio dentro la Chiesa».

E poiché una delle maggiori preeminenze era quella d'innalzare ed abbassare le sedi de' vescovi, quindi nacque il cangiamento dell'esterior polizia fin qui rapportata nel V e VI secolo, poiché, avendo gl'imperatori d'Oriente innalzato cotanto il vescovo di Costantinopoli, pareggiandolo a quello di Roma, ne venne quel cangiamento che saremo per rapportare ne' capitoli seguenti.


CAP. V
Come nel V e VI secolo, sotto gl'altri imperatori cristiani successori di Costantino Magno, si fosse variata quest'esterior polizia per i favori e prerogative che i medesimi concedettero a Costantinopoli dichiarandola «nuova Roma», sede e capo dell'Imperio d'Oriente, pareggiando per conseguenza il suo vescovo a quello dell'«antica Roma», sede dell'Imperio d'Occidente.

Essendo piacciuto a Costantino Magno, dopo ch'ebbe abbracciata la religione cristiana, d'introdurre nella Chiesa questa distinzione di polizia spirituale ed interna, e di polizia temporale ed esterna, volendone egli dell'esterna prenderne cura e pensiere con dichiararsene capo e moderatore, conformandola alla polizia dell'Imperio, doveva per conseguenza esser sottoposta a cangiamenti e variazione, siccome era soggetta quella dell'Imperio. All'incontro, la Chiesa spirituale ed interna che Cristo fondò non è sottoposta a variazione alcuna, sempre fu e sarà la stessa, immutabile e ferma; anzi i cieli e la terra non pur s'immuteranno, ma passeranno, ma la sua divina parola perdurerà in eterno. Uno è il vescovado di questa Chiesa in tutto il mondo, non diviso in provincie e nazioni, ed ogni vescovo o prete possono reggerla e governarla da per tutto e scorrerla in ogni clima, siccome fecero gl'appostoli ed i loro discepoli, senza che vi sia chi possa porgli argine o confine. Ella, di pochi e semplici riti è contenuta ed i suoi precetti sono pur piani, schietti e facili, che da ogni rustico e uom di villa, e da ogni vile e semplice feminetta possono apprendersi. Quanto appare di fuori di pomposo, operoso, maestoso ed esterno non s'appartiene punto a lei, ma tutto il resto che dipende da forme estrinseche ed umane vicende e provvedimenti, sta per conseguenza sottoposto a variazioni e cangiamenti.

Ben i successi de' secoli seguenti hanno questa verità manifestata, e specialmente da ciò ch'ora ravvisaremo ne' due vescovi di Roma e di Costantinopoli si farà maggiormente chiaro e palese. Questi due vescovi in discorso di tempo innalzarono le loro sedi sopra tutti gl'altri; il romano ed il constantinopolitano; ma con questa differenza, che il romano con sottili ingegni e finissime arti distese i suoi confini e si sottopose l'altrui diocesi, non potendo allegar per sé altri titoli che l'usurpazione; all'incontro il constantinopolitano allega per sé le leggi ed il favore degl'imperatori d'Oriente che lo stabilirono, ed i concili che glielo confermarono. I pontefici romani non devono ad altro questo loro ingrandimento che alla propria industria, ingegno ed accortezza, colla quale seppero poi tirar anche a sé i favori de' creduli principi ed imperatori, siccome si vedrà chiaro più innanzi. È ancor da notare un'altra differenza fra l'uno e l'altro. I patriarchi d'Oriente, come l'alessandrino, l'antiocheno e l'efesino, quel di Cesarea ed il costantinopolitano, sebbene non fossero sottoposti al romano, ma si mantennero nella loro antica libertà, nella quale i canoni e le leggi degl'imperatori l'avevano posto; da poi il cesariense, quel d'Eraclea e l'efesino passarono sotto quello di Constantinopoli, e questi finalmente, negl'ultimi tempi, fu pure manomesso. Ma gl'esarchi d'Occidente, come quel di Milano, di Sirmio e tutti gl'altri primati e metropolitani delle Gallie, Spagna e Brettagna, furono tutti dal romano soggiogati e manomessi, e questi da niuno giammai. I princìpi di tali ingrandimenti, non meno di quello di Roma che di Costantinopoli, sebbene cominciarono nel finir del IV secolo, nel V però e nel VI si videro maggiormente stabiliti, e specialmente sotto Giustiniano Magno, il quale per sue Costituzioni e Novelle regolò poi questa nuova ecclesiastica lor polizia.

Il vescovo di Bisanzio prima non era che un semplice suffraganeo del vescovo d'Eraclea, il quale anche come esarca presedeva in tutta la Traccia, secondo ch'è manifesto dall'epist. I di Gelasio. Si è veduto che in Oriente i più celebri ed eminenti patriarchi furono due: l'alessandrino e l'antiocheno. Quello d'Alessandria teneva il secondo luogo dopo il patriarca di Roma, forse perché Alessandria dopo Roma era riputata la seconda città del mondo. L'altro d'Antiochia teneva il terzo luogo, riguardevole ancora per la memoria che serbava d'avervi S. Pietro, capo degl'appostoli, tenuta la sua prima cattedra. Così le tre parti del mondo tre Chiese parimente riconobbero sopra tutte l'altre celebri ed eminenti: l'Occidente quella di Roma, l'Oriente quella d'Antiochia ed il Mezzogiorno quella d’Alessandria. Non è però,come s’è veduto, che sopra tutta Europa esercitasse la sua potestà esarcale quello di Roma, ovvero quello d'Antiochia per tutta l'Asia e l'altro d'Alessandria in tutta l'Affrica. La potestà di ciascuno non oltrepassava i confini della diocesi a sé sottoposta. Le altre diocesi ubbidivano agl'esarchi propri, e molti altri luoghi ebbero ancora i loro vescovi autocefali, cioè a niuno sottoposti. Tali furono, siccome s'è detto, i vescovi di Cartagine e Cipro; tali furono un tempo nell'Occidente i vescovi della Gallia, della Spagna, della Germania, Brettagna e delle più rimote regioni. Le chiese de' barbari certamente non furono soggette ad alcun patriarca, ma si governavano da' loro propri vescovi. Così le chiese d'Etiopia, della Persia, dell'Indie e dell'altre regioni, ch'erano fuori del romano Imperio, da' loro propri sacerdoti venivano governate e rette.

Ma ecco ora come, verso la fine del IV secolo, cominciasse il vescovo di Constantinopoli a sottrarsi non pure dal vescovo di Eraclea, ma ad appropriare a sé tutta la Tracia ch'era a quello sottoposta. Renduta Costantinopoli sede degl'imperatori e capo dell'Imperio d'Oriente, fu riputata la seconda Roma e la seconda città del mondo; onde il suo vescovo cominciò anch'egli ad estollere il capo ed a scuotere il giogo del proprio metropolitano. Innalzata adunque questa città dagl'imperatori, e secondando la polizia della Chiesa quella dell'Imperio, ecco che nel concilio primo costantinopolitano, convocato nell'anno 381 per commandamento di Teodosio Magno, furono conceduti al suo vescovo i primi onori dopo quello di Roma; e non per altra ragione, siccome s'esprime nel canone III: «Constantinopolitanus episcopus habeat priores honoris partes post romanum episcopum. Eo quod sit ipsa nova Roma». Così, quando prima, dopo il romano i primi onori erano del patriarca d'Alessandria, sottentra ora quello di Costantinopoli ad occupare il suo luogo. Egli è vero, come ben prova Dupino, loc. cit., che i soli onori furono a lui dal concilio conceduti, non già veruna patriarcale giurisdizione sopra le tre diocesi autocefali, quali erano la Tracia, l'Asia e Ponto; ma tanto bastò che col spezioso pretesto di quest'onori cominciasse egli le sue intraprese, non altrimenti che il romano, il qual, per esser il primo fra' vescovi d'Europa, fece sopra l'altre diocesi d'Occidente maravigliosi acquisti. Non passò adunque gran tempo che invase la Tracia, ed esercitando ivi le ragioni esarcali, si rendé esarca di quella diocesi, ed oscurò le ragioni del vescovo d'Eraclea. Dopo essersi stabilito nella Tracia, invade le vicine diocesi, cioè l'asiana e pontica, ed infine al suo patriarcato le sottopone. Non in un tratto le sorprende, ma di tempo in tempo col favor degl'imperatori e de' concili, che, fatti convocare da' Cesari, maggiormente stabilirono a' vescovi costantinopolitani tanta autorità. Infra gl'altri S. Giov. Grisostomo non si quietò se non intieramente le occupasse. Onde infine venne ad appropriarsi non solo la potestà d'ordinar egli i metropolitani dell'Asia e di Ponto, ma ottenne legge dall'imperatore che niuno senza autorità del patriarca di Costantinopoli potesse ordinarsi vescovo; sicché, coll'appoggio di questa legge, si fece lecito poi ordinare anche i semplici vescovi di tutte tre queste diocesi. Narra Sozomeno, Hist. eccl., lib. VIII, cap. VI, che Crisostomo, portatosi in Efeso, convocò ivi nel 401 un sinodo di settanta vescovi e depose tredeci vescovi simoniaci, parte della Licia e Frigia, e parte dell'Asia istessa, e sostituì in lor luogo altri. Valesio, in Not. ad Sozom., e Dupino, Biblioth., vol. III, in Vita Chrisost., emendano il numero de' vescovi deposti rapportato da Sozomeno, ed invece di tredici narrano che non fossero più di sei. E perché il trono costantinopolitano fosse in ciò maggiormente stabilito, ed i suoi vescovi fossero più sicuri e rendessero più ferme le loro conquiste, si fecero confermare questa prattica da più editti degl'imperatori, rapportati da Liberato, in Breviar., c. XIII, e, quel che è più, dal concilio di Calcedonia, convocato in Bitinia per comando dell'imperatore nell'anno 451:, dove, addattando quelle medesime ragioni dell'antica Roma alla nuova nel canone XXVIII fu stabilito: «Sanctorum Patrum decreta ubique sequentes, et canonem, qui nuper lectus est, centum et quinquaginta Dei amantissimorum episcoporum agnoscentes, eadem quoque et nos decernimus et statuimus de privilegiis sanctissimae Ecclesiae Constantinopolis novae Romae. Etenim antiquae Romae throno, quod urbs illa imperaret, iure patres privilegia tribuerunt. Et eadem consideratione moti centum quinquaginta Dei amantissimi episcopi sanctissimo novae Romae throno aequalia privilegia tribuerunt, recte iudicantes urbem, quae et imperio et senatu honorata sit, et aequalibus cum antiquissima regina Roma privilegiis fruatur, etiam in rebus ecclesiasticis, non secus ac illam extolli ac magnifieri, secundam post illam existentem: ut et ponticae et asianae et thraciae dioecesis metropolitani soli, praeterea episcopi praedictarum dioecesium quae sunt inter barbaros a praedicto throno sanctissimae constantinopolitanae Ecclesiae ordinentur; unoquoque scilicet praedictarum dioecesium metropolitano, cum provinciae episcopis, provinciae episcopos ordinante, quemadmodum divinis canonibus est traditum. Ordinari autem, sicut dictum est, praedictarum dioecesium a constantinopolitano archiepiscopo, convenientibus de more electionibus et ad ipsum relatis».

I pontefici romani, non potendo soffrire un tanto ingrandimento ci si opposero con molto vigore; infra gl'altri Leone il Santo, che si acquistò il sopranome di Magno, gliele contrastò audacemente.Il consimile fecero i suoi successori, e sopra tutti papa Gelasio, che tenne la cattedra di Roma dall'anno 492 insino all'anno 496, scrivendone e portandone aspre doglianze dapertutto, siccome è manifesto dalle sue epistole IV e XIII ad episcopos» Ma tutti i loro sforzi riuscirono vani, poiché, tenendo i patriarchi di Costantinopoli tutto il favor degl'imperatori, fu loro sempre non meno confermato il secondo grado d'onore dopo il patriarca di Roma che la giurisdizione in Ponto, nell'Asia e nella Tracia. L'imperator Basilisco, in un suo editto rapportato da Evagrio, lib. III, cap. III, gliele ratificò. L'imperator Zenone fece lo stesso per una sua costituzione che si legge nel nostro Codice sotto il tit. De sacris Ecclesiis, 1. decernimus, XVI. E finalmente Giustiniano Magno, con la sua Novella 131, c. I, secondando quel che da' canoni del concilio di Calcedonia era stato statuito, comandò il medesimo. Ciocché poi fu abbracciato dal consenso della Chiesa universale, poiché, essendo stati inseriti i canoni de' concili costantinopolitano e calcedonense ne' codici de' canoni delle chiese, fu ne' seguenti secoli tenuto per costante il patriarca di Costantinopoli tener dopo il romano il secondo grado di onore.

L'ingrandimento di questo patriarca giunse a tanto che gli fu dato il titolo d'ecumenico ed universale, e fu chiamata la sua chiesa capo delle chiese. Giustiniano Magno nella Nov. VII e XXXXII chiamò Mena, Epifanio ed Antemio ecumenici ed universali patriarchi. L'imperator Lione nella Novella II e III e XII chiamò Stefano universal patriarca. Talché le querimonie che per questo titolo ne fece papa Gregorio Magno contro il patriarca Giovanni, che si faceva chiamar vescovo universale, non erano per usurpazione nuova, ma antica. E s'ingannano coloro che riputarono che i patriarchi di Costantinopoli si appropriarono questo titolo non prima de' tempi di Gregorio Magno, poiché è manifesto che fino da' tempi di Giustiniano M. era lor dato. Anzi, quest'imperatore, in una costituzione che ancor leggiamo nel suo Codice, lib. I, tit. II, c. XXIV, s'avanzò sino a chiamare la Chiesa costantinopolitana capo di tutte l'altre chiese; e non per altra ragione, che, siccome Costantinopoli era pareggiata a Roma e, per essere sede dell'imperatore, chiamavasi nuova Roma, doveva godere degl'istessi privilegi d'onore e di potestà, e delle medesime prerogative che la vecchia Roma. Onde, siccome che la romana era riputata capo di tutte l'altre chiese d'Occidente, così quella di Costantinopoli dovesse riputarsi per capo delle chiese d'Oriente. In cotal guisa questo patriarca si lasciò indietro non pur tutti gl'altri esarchi d'Oriente, ma l'alessandrino istesso e l'antiocheno. Non fu gran fatto che si lasciasse pure indietro quello di Gerusalemme, poiché questo, se si riguarda la disposizione dell'Imperio, non meritava la prerogativa non che di patriarca, ma nemmeno di esarca, essendo un semplice vescovo suffraganeo a quello di Cesarea, metropoli della Palestina; ma se gli diedero gl'onori di patriarca, poiché fin da' tempi degl'appostoli fu riputato un gran preggio il sedere in questa cattedra posta in Gerusalemme, città santa, dove Cristo istituì la sua Chiesa, e dalla quale il Vangelo per tutte l'altre parti del mondo fu disseminato. Le altre sedi maggiori d'Oriente per altre calamità sofferte, non minori di quelle di Gerusalemme, andarono sempre più in decadenza, poiché non solo per le frequenti scorrerie de' barbari che invasero le loro diocesi, ma assai più per le sedizioni e contrasti che sovente insorsero fra i vescovi maggiori intorno all'elezioni ed intorno alla dottrina ed alla disciplina, perderono il loro antico lustro e splendore, sicché da poi si cominciarono a numerare le sedi patriarcali con quest'ordine: la romana, la costantinopolitana, l'alessandrina, l'antiochena e la gerosolimitana. Quest'ordine tenne  il concilio di Costantinopoli celebrato nell'anno 536: questo medesimo tenne Giustiniano Magno nel Codice e nelle sue Novelle, e tennero da poi tutti gl'altri scrittori non meno greci che latini. Non era però ristretto a questi tempi il nome di patriarca a soli questi cinque. Alcune volte solea darsi per encomio anche ad insigni metropolitani, siccome nel mentovato concilio di Costantinopoli si diede anche ad Epifanio vescovo di Tiro; e Giustiniano, così nel Codice come nelle Novelle, dà generalmente questo nome agl'esarchi che avevano il governo di qualche diocesi. Ma non tardò guari che in Oriente si restrinse pur questo nome a que' soli cinque. Non così in Occidente, poiché, fino al IX e X secolo, si diede in Italia ed in Francia anche a' più insigni e celebri metropolitani ovvero primati.

A ragione i pontefici romani erano gelosi e tanto solleciti per impedire l'ingrandimento de' vescovi costantinopolitani, non pur perché non fossero interrotti i propri ingrandimenti sopra le provincie d'Occidente, ch'essi, non meno che que' facevano in Oriente, procurando distendere ed ampliare i loro confini; ma anche perché, ingrandito soverchio il patriarcato di Costantinopoli, non questi attendesse sopra le sue provincie, siccome l'evento dimostrò non esser stati vani ed intempestivi i loro sospetti e timori, poiché, come vedremo, invasero infino la Sicilia e la Calabria, provincie al vicariato di Roma attribuite.

Il vescovo di Roma aveva forse più speziosi pretesti e colori che non quello di Costantinopoli; ma non ebbe gl'imperatori così favorevoli come l'ebbe quello di Costantinopoli. Non se gli contrastava il primo onore per ragion della sua cattedra stabilita in Roma, città un tempo capo del mondo, sicché per le ragioni stesse, confondendosi a bello studio questa prerogativa d'esser il primo fra' vescovi colla potestà esarcale, ch'esercitava nelle chiese suburbicarie comprese nel vicariato di Roma, cominciò pure ad invadere le altrui provincie, non pur quelle sottoposte al vescovo di Milano, come esarca del vicariato d'Italia, ma sopra tutte l'altre provincie d'Occidente; ma i fondamenti del suo ingrandimento non si appoggiavano alle leggi degl'imperatori, ma ad altre argutezze e sottili invenzioni, quali i pontefici romani, nella decadenza dell'Imperio d'Occidente, e più per l'ignoranza e superstizione de' popoli, sopragiunta ne' seguenti secoli in queste provincie per l'irruzione di straniere nazioni incolte e barbare, se le fecero in discorso di tempo ben valere, siccome si vedrà chiaro nel capitolo seguente e nel progresso di questo libro.

CAP. VI
Delle cagioni dell'ingrandimento del vescovo di Roma, onde distese l'autorità sua esarcale sopra altre diocesi e provincie d'Occidente non comprese nel vicariato di Roma.

Nel soggetto, che abbiamo ora per le mani, perché non ci lasciamo abbagliare d'alcune vane apparenze e sorprendenti splendori, bisogna attentamente distinguere i veri dai falsi ed immaginati fondamenti d'un tanto ingrandimento, e separare le cagioni antiche dalle nuove, inventate da poi per darle maggior stabilimento e fermezza. I veri fonti donde derivarono le tante prerogative ed onori al vescovo di Roma furono primieramente per esser fondata la sua sede nella prima città del mondo; e quest'era riputata la vera, principale e potissima ragione onde il romano negl'onori dovesse anteporsi a tutti gl'altri vescovi, siccome quest'era dagl'imperatori, anzi da' Padri istessi della Chiesa riconosciuta per la più legitima, fondamentale e stabile di tutte l'altre; ed i Padri del concilio di Calcedonia non altra più propria e vera seppero esprimerne nel canone XXVIII se non questa, dicendo: «Etenim antiquae Romae throno, quod urbs illa imperaret, iure Patres privilegia tribuerunt». E da quest'istesso principio vollero derivare le prerogative del vescovo di Costantinopoli, una nuova Roma, riputando essersi rettamente costituito d'innalzarlo pure ad uguali onori, concorrendo in lui i motivi e la considerazione istessa che nel vescovo dell'antica Roma; onde soggiunsero:«Et eadem consideratione moti centum quinquaginta Dei amantissimi episcopi sanctissimo novae Romae throno aequalia privilegia tribuerunt, rette iudicantes urbem, quae et imperio et senatu honorata sit, et aequalibus cum  antiquissima regina Roma privilegiis fruatur, etiam in rebus ecclesiasticis, non secus ac illam, extolli ac magnifieri, secundam post illam existentem». Quindi Sozomeno, parlando nel lib. VII, cap. del can. III, del concilio costantinopolitano, che uguagliò in ciò Costantinopoli a Roma, disse: «Ut, post episcopum urbis Romae, constantinopolitanus habeat honoris praerogativam utpote qui iunioris Romae episcopatum administret. Iam tum enim urbs illa, non solum hanc appellationem meruerat et senatum et ordines populi, ac magistratus similiter habebat, verum etiam contractus civium huius urbis, iuxta leges Romanorum, qui in Italia sunt, iudicabantur; iuraque omnia et privilegia aequalia seniori Romae possidebat». Nel che sono d'accordo tutti gl'altri istorici ecclesiastici, quali contemporanei, nelle loro memorie che ci lasciarono: siccome Socrate, lib. V Hist. eccl., cap. VIII, Niceforo, lib. XII Hist. eccl., cap. XIII, ed altri scrittori.

Secondariamente non può dubitarsi, ch'essendo stabilita questa cattedra in Roma, città ove le lettere e le discipline fiorivano e dove concorrevano i più insigni domìni del mondo, la Chiesa romana era riputata la più dotta e saggia. S. Paolo, il più forte campione della fede di Cristo, trascielto per la conversione de' gentili, era ivi lungamente dimorato, predicandola ed istruendo i novelli convertiti; sicché Roma in ciò non ebbe che invidiare all'altre città dell'Oriente, scorse e ricorse da lui e dagl'altri appostoli.

Ebbe vescovi molto saggi, come S. Clemente, Cornelio ed altri, onde avvenne che gl'altri vescovi anche delle sedi maggiori non facevano difficoltà di riccorrere a questa sede di Roma per consultare de' loro affari, così appartenenti alla dottrina che alla disciplina, onde ebbero origine le loro lettere decretali. E si vede che sino a' tempi di Tertulliano aveasi acquistata gran fama di dottrina e di santità, talché questo dottore ne faceva somma stima, avendola in grandissima venerazione; e molto più fecero i Padri del IV secolo e specialmente S. Agostino.

Per terzo non è da controvertirsi che il primo degl'imperatori cristiani, qual fu Costantino Magno, dalla Chiesa di Roma cominciasse ad esercitare la sua munificenza e magnanimità in favorirla cotanto, arrichirla di beni mondani, di preziose suppellettili, ed innalzare il suo vescovo a sommi onori, adornandolo del pallio, o sia manto imperiale, e di regali insegne, ed avendone quella riverenza e rispetto, quanto l'istoria di que' tempi racconta e da noi s'è detto ne' precedenti capitoli: le cui orme furono da poi calcate da Costante e Costanzo suoi figliuoli, da Gioviniano, Valentiniano I e II, da Onorio e Valentiniano III imperatori d'Occidente, suoi successori, siccome è manifesto dalle leggi loro, che sono inserite nel Codice teodosiano. Di cui poi ebbero eguale stima e rispetto Teodorico ed Atalarico re d'Italia, e tutti gl'altri re ostrogoti, ancorché fossero arriani, siccome è noto dall'opere di Cassiodoro, di Giornandes, Ennodio, Procopio, Agatia, e di chi no? Ed essendo stati scacciati d'Italia i Goti sotto l'imperio dell'imperator Giustiniano, questi, siccome fecero gl'altri imperatori d'Oriente suoi più vicini successori, ebbe il vescovo di Roma come suo vicario in Occidente, il quale non poteva eleggersi, né intronarsi, senza loro consenso degli imperatori, e fu  per adempire in loro vece quelle parti in Occidente ch'essi in Oriente adempivano, intorno ad aver cura e pensiero delle cose ecclesiastiche e dell'esterior polizia della Chiesa, siccome si vedrà nel seguente capitolo.

Queste sono le vere e potissime cagioni della sua preminenza sopra gl'altri vescovi dell'orbe cristiano. Ma da poi i pontefici romani non vollero attenersi a queste, ma per rendere la loro autorità assoluta ed indipendente da' concili e dagl'imperatori istessi e dall'Imperio, ne inventarono altre, sopra le quali s'ingegnarono stabilire e fondar meglio la loro potenza, per poterla poi stendere per tutto il mondo, senza che vi fosse argine alcuno che potesse raffrenarla, siccome per l'ignoranza e superstizione de' secoli seguenti fortunatamente avvenne.

I

Ne' princìpi del V secolo cominciarono a rifletter meglio sopra quell'umana tradizione, radicata già nell'opinione di tutti, che S. Pietro, lasciata la cattedra d'Antiochia, fosse gitto in Roma a stabilir quivi la sua sede, e ch'egli ne fosse stato il primo vescovo. E poiché ciò nemeno bastava al lor intento, bisognò trasformar S. Pietro da capo qual era degl'appostoli, e farlo principe e monarca della Chiesa, dicendo che a colui furono consignate da Cristo le chiavi, e detto che pascesse le sue peccorelle, e che sopra le sue spalle fu unicamente appoggiata ed edificata la Chiesa, la quale, perché non rovinasse, era mestieri che non potesse errare, e fossegli per conseguenza dato tutto il potere sufficiente per poterla sostenere e conservare. Che dovendo questa Chiesa durar perpetuamente, tale prerogativa e maggioranze non dovevano essere personali, sicché si estinguessero nella di lui persona, ma attaccate alla sua cattedra, che non doveva mai morire, ed a tutti i suoi successori che dovevano in quella sedere. Ed ancorché qui pure incontrassero delle gravi difficultà da superare, poiché forse con maggior ragione poteva ciò pretendere la cattedra d'Antiochia, che fu la prima sede di S. Pietro, essi perciò non si sgomentarono, dicendo che S. Pietro abbandonò quella cattedra e la trasferì in Roma, e che dovevasi attendere questo fine, non già quel principio; ed oltre aver finte molte favole su di questa traslazione di sede da Antiochia in Roma, perché non rovinasse così presto sì arenoso fondamento, si finse una rivelazione su questo trasferimento di sede, che si legge nel Decreto di Graziano II, q. I, Rogemus, la qual cosa, presso i dotti, dall'istesso Natal d'Alessandro è presa a beffe e riputato un favoloso sogno. Ma a questo si provide da poi con più efficace mezzo, poiché si procurò che si stabilisse nella Chiesa  romana una particolar festa di questa traslazione, affinché più incontestabilmente passasse alla memoria dei posteri come cosa certa e da non potersene più dubitare.

Certamente che recarà stupore, non che maraviglia, come in mezzo a tante ed inestricabili difficoltà, fra scogli sì duri e perigliosi, fra cammini sì stretti, alpestri e disaggevoli, siasi potuto avanzar tanto, e, superati tanti fossi e ripari, scorrer poi da per tutto, e sopra i dubi e rovinosi fondamenti estoller edifizi sì portentosi e magnifici; poiché doveva in prima saltarsi quel fosso ed appurar bene quel fatto, se mai S. Pietro fosse stato in Roma, quando non si puol provare dalla Scrittura santa: anzi gl'Atti degl'Appostoli di S. Luca, e l'istesse Epistole di S. Paolo pare che convincono il contrario. E questa credenza non si appoggia che ad una tradizione umana: Ireneo, Cipriano e Tertulliano, scrittori non contemporanei ma del III secolo, che vissero intorno a due cento anni dopo S. Pietro, e da Roma stranieri, due affricani e l'altro vescovo della Gallia, da' quali fu poi tramandata a' scrittori del IV secolo. Donde i romani pontefici seppero bene approfittarsi e studiarci poi tanto con sì fortunato successo. Per 2.°, fattosi pure passar S. Pietro in Roma, avendo lasciato in Antiochia il suo successore, perché a questa cattedra non dovevano rimanere quell'istesse prerogative delle quali una volta ne avea già fatto acquisto? E perché Antiochia non dovrà essere la prima e Roma la seconda? Giacché sono attaccate alla cattedra e non alla persona? Tanto maggiormente che, d'aver in Antiochia avuta la sua sede S. Pietro v'è un appoggio stabile e fermo, qual è quello della divina Scrittura; all'incontro, d'essere stato S. Pietro in Roma non si fonda che in una tradizione umana. Oltracché, le prime spose essendo le più legitime e da preferirsi alle seconde, perché doveva farsi questo torto ad Antiochia, città pure raguardevole dell'Imperio e la capitale di tutta l'Asia, donde la prima volta uscì il nome di cristiano, siccome d'Alessandria quello di teologo? E che si risponderà a S. Gregorio Magno istesso, il quale in Reg. Ep. 991, ad Eulogium Alexan.,  scrisse che li vescovi d'Antiochia e d'Alessandria sono successori di S. Pietro, non meno che il vescovo di Roma, perché sedono nella medesima cattedra di Pietro? Per 3.° dovevasi ancor superare un'altra invincibile difficoltà: che S. Pietro, capo degl'appostoli, ebbe quelle prerogative come appostolo, non come vescovo, poiché la sua vocazione e missione principale non fu di vescovo, il qual dovesse fermarsi in una città, ma di appostolo, cioè di dover scorrere da per tutto e piantar la novella religione per quelle provincie dove non era nota, non già fermarsi in una città già convertita; e quantunque non fosse cosa impropria agl'appostoli di fermarsi in qualche luogo ove scorgevano che la loro più lunga dimora potesse essere di maggior profitto e quivi adempire le parti di vescovo, presidendo il presbiterio, con tutto ciò non era questa la lor propria e principal incombenza, ma, ridotti gl'Ebrei e gentili alla fede di Cristo, istituire ne' luoghi convertiti vescovi per istruttori della plebe ed ispettori al presbiterio, e scorrer altrove. E per ultimo rimaneva di francar quell'altro più duro passo, che sebbene S. Pietro fosse riputato il primo fra gl'appostoli, nulladimeno la potestà che Cristo lasciò a' medesimi fu in tutti eguale, dichiarandosi egli stesso il capo e lo sposo della sua Chiesa, reiterando loro bene spesso quella sentenza massima: che chiunque fra di loro vorrà presumere d'esser maggiore e più grande dell'altro, egli sarà il servo di tutti. Né Cristo intorno alla predicazione ed amministrazione della sua Chiesa diede più potere a S. Pietro che agl'altri. Sono mandati a due a due a predicare come compagni, perché s'escludesse fra loro ogni superiorità. Cristo promette a tutti che giudicheranno le dodeci tribù d'Israele, sedendo sopra le dodici sedi, e non dà a S. Pietro un luogo più alto ed eminente degl'altri. Quando ci vien descritta da S. Giovanni, Apocal., XXI, la Chiesa trionfante come una città che avea dodici fondamenti, e che in quelli era scritti i nomi delli dodici appostoli dell'agnello, non si legge che S. Pietro fossevi posto per pietra angolare. Quando gl'appostoli ricevettero lo Spirito Santo e la potestà di legare e sciogliere  ed il commando di predicare per tutto il mondo, e quando l'istesso Spirito Santo discese sopra di loro, si trovarono tutti insieme, né alcuno di essi in tutto questo è preferito agl'altri. E salito Gesù in cielo, dagl'Atti di S. Luca è manifesto che S. Pietro non poteva o faceva' più degl'altri: dagl'appostoli fu mandato con Giovanni in Samaria. E dal concilio gerosolimitano istesso, riferito pure in quest'Atti, convocato dagli appostoli, S. Pietro fu il primo a proporre, ma il primo a dar suo giudicio fu S. Giacopo, vescovo di Gerusalemme, ed ebbe sovente egli a dar conto a' suoi compagni delle sue missioni ed a giustificare a que' la sua condotta, spezialmente quando gli fu imputato a delitto d'essere entrato nella casa di Cornelio centurione ed aver ivi battezati que' gentili i quali non s'erano prima circoncisi.E S. Paolo più volte gli resisté in faccia e lo rimproverò di cose delle quali era da doverne esser ripreso. Né a' primi secoli della Chiesa si pensò a questi sofismi, anzi nemeno si sognò di ricorrere a que' arzigogoli e cavilli su '1 «Tibi dabo claves», e sopra il «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam», e sopra il «pasce oves meas»; poiché i Padri antichi, anche nel IV secolo, ben ne conobbero la vera e genuina intelligenza e che le «chiavi» ed il «pascere» furono egualmente a tutti concedute, e che la «pietra» era Cristo, confessò a S. Pietro, e non l'istesso Pietro: onde, data la potestà a lui, non distruggeva quella egualmente a tutti conceduta, siccome que' passi  spiegarono Cipriano, De sin. pret., Gio. Crisostomo, Homil. LV in Matth. et in Psalm. XXXII, S. Ambrogio in Epistola ad Ephes., cap. II, X, S. Agostino in più e diversi luoghi delle sue opere, Circa Iudaeos, pagan. et arian. et trac. X et XXIV in Iohan. et de verbis Domini Serm. XX, e più chiaramente II Retract., S. Girolamo, in Matth. et ad Galat. cap. I, S. Bernardo e tanti altri gravi e seri dottori della Chiesa. Ciò è stato agli ultimi nostri tempi da valenti scrittori posto in tanta chiara luce, che non accade più ora disputarne o por dubbio.

Ma se questi sforzi per superar tante difficoltà si fossero fatti tutti ad un tempo, non v'è dubbio che audace, temeraria, difficile, anzi impossibile dovea riputarsi l'impresa, e molto più strano e sorprendente sembrarebbe il fortunato successo. Ma non si tenne questa maniera, né gl'assalti furono tutti in un tempo e repentini; pian piano s'andava avanti. Si cominciò prima, con speciose apparenze e ben acconcie esaggerazioni ed accorte insinuazioni, a far credere per cosa certa che S. Pietro in Roma avesse trasferita la sua sede, e sopra questo fondamento cominciarono le riflessioni ed esagerazioni ed encomi di quella cattedra. Que' Padri che credettero S. Pietro avere in Roma sofferto martirio, in fra gl'altri S. Agostino, da ciò ne derivano nella sede di Roma stima sì e preggio, ma non maggior potere con autorità sopra le altre sedi maggiori o minori fuori del vicariato di Roma. S. Agostino, scrivendo contro Giuliano, che poco conto faceva dell'autorità de' vescovi d'Occidente che contro di lui si allegavano, così lo ripiglia e riprende nel lib. I, cap. IV: «An ideo contennendos putas quia occidentalis Ecclesiae sunt omnes, nec ullus est in eis commemoratus a nobis Orientis episcopus? Quid ergo faciemus, cum illi graeci sint, nos latini? Puto tibi eam partem orbis sufficere debere, in qua primum apostolorum suorum voluit Dominus gloriosissimo martyrio coronare. Cui Ecclesiae praesidentem B. Innocentium si audire voluisses, iam tunc periculosam iuventutem tuam pelagianis laqueis exuisses». Parimenti nel VI secolo, essendosi vie più radicata questa credenza, non ebbe difficoltà l'istesso imperator Giustiniano nella Novella IX di chiamar Roma «veneranda sedes summi apostoli Petri»; ma ciò dinotava maggior dignità e riverenza, non già maggior potere ed autorità sopra l'altre sedi maggiori, specialmente sopra Costantinopoli, chiamata pure dall'istesso Giustiniano capo delle chiese, ed il suo vescovo patriarca ecumenico. Or questo, ch'era maggior stima, riverenza e rispetto, in tempi posteriori si trasmutò in primato e superiorità, sicché pian piano, così disposte le cose, si venne alle prese più strette, cioè questo primato farlo passare per principato o monarchia, ed a dar assai più ingegnose interpretazioni a' riferiti passi del «tibi dabo claves», del «pasce oves» e dell'edificarlo; le quali furono l'ultime armi che s'impugnarono ne' tempi più bassi, superstiziosi ed incolti.

Ne' princìpi del V secolo ecco come i pontefici romani cominciarono a parlare di quest'eminenza del vescovo di Roma sopra gl'altri vescovi, niente piacendogli che se ne attribuisse la cagione alla città di Roma, capo del mondo, ma per aver in quella cattedra seduto S. Pietro, capo degl'appostoli. Anzi Innocenzio I, scrivendo ad Alessandro, vescovo d'Antiochia, la maggioranza della di lui sede pur a questo principio la riporta, non tanto alla magnificenza della città d'Antiochia e d'esser riputata capo e metropoli dell'Asia, e che perciò a lei sarebbe dovuto il primo onore; senonché dopo  bisognò trasportarlo in Roma, perché quivi poi S. Pietro trasferì la sua cattedra. Ecco come, parlando della Chiesa d'Antiochia, e' dice nell'epist. XVIII: «Unde advertimus, non tam pro civitatis magnificentia hoc eidem attributum, quam quod prima primi apostoli sedes esse monstretur, ubi et nomen accepit religio christiana, et quae conventum apostolorum apud se fieri celeberrimum meruit, quaeque urbis Romae sedi non cederet, nisi quod illa in transitu meruit, ista susceptum apud se consummatumque gauderet». Chi seriamente attenderà a quest'espressioni non potrà ravvisarvi che manifesti paralogismi, esser tutte vane e sforzate ragioni, poiché non s'arriva a comprendere, anche dato per vero questo passaggio di sede in Roma, perché Antiochia avea da perdere la maggioranza, quando quella fu la prima sposa di S. Pietro, e doversi spogliare la prima per amarne la seconda? Innoltre, che il vescovo d'Antiochia fosse successor di S. Pietro era certo, avendo la sua ragion provata e fondata nella santa Scrittura: all'incontro, quella del vescovo di Roma non era appoggiata, siccome s'è detto, che alla tradizione umana; anzi negl'ultimi secoli, essendosi più accuratamente esaminato questo punto d'istoria, vi è chi almeno ha forte ragione di dubitare se mai S. Pietro fosse stato in Roma; di più, se la ragione espressa da Innocenzo I valesse, ne avrebbe da seguire che almeno il vescovo d'Antiochia avesse avuto da occupare il secondo luogo, dopo quello di Roma; eppure è chiaro che il secondo l'occupò sempre il vescovo d'Alessandria, ed il terzo quello d'Antiochia. Prova evidentissima che la maggioranza di queste Chiese non si misurava da S. Pietro, né da S. Marco, né dagl'altri appostoli o evangelisti che ne presiderono, essendo quelli in potestà tutti eguali, ma dall'eminenza delle città, secondo la polizia e disposizione dell'Imperio; onde avvenne ch'Alessandria, ch'era riputata la seconda città del mondo dopo Roma, ottennesse nella polizia ecclesiastica il secondo luogo. Bonifacio I, Celestino, Sisto III, S. Lione Magno e tutti gl'altri loro successori non con altro linguaggio di poi parlarono, siccome vedrassi più innanzi, e si arrivò a tanto che Gelasio I voleva farsi valere questa ragione anche co' vescovi d'Oriente, scrivendogli: «Qua enim ratione, vel consequentia, aliis sedibus deferendum est, si primae beati Petri sedi antiqua et vetusta reverentia non deferatur, per quam omnium sacerdotum dignitas semper est roborata atque firmata?». E quanto più si andava avanti, tanto più s'esaggerava questa ragione ne' secoli seguenti, dove la superstizione e l'ignoranza avevano poste più profonde radici, sicché non s'astennero di farsela valere e adoperarla contro gl'istessi imperatori d'Oriente. Così, nel IX secolo, Nicolao I, scrivendo all'imperator Michele, non ebbe difficultà alcuna di dirgli che i privilegi e preminenze della sua Chiesa gli venivano dalla propria bocca di Cristo, che gli diede a S. Pietro, da che i pontefici romani la derivavano, e non altronde.

II

Si valsero anche i romani pontefici per le loro sorprese d'un'altra opportunità che loro somministrava un apparente dritto di poter stendere sopra altra diocesi la potestà loro esarcale, poiché ciò ch'era maggioranza d'onore, di rispetto e di riverenza sopra gl'altri vescovi, lo tramutarono in potestà; e siccome non se gli poteva negare ch'essi fossero i primi nell'onore, così pretendevano anche essere i primi nel potere. Sicché tutti gl'altri vescovi dovessero essere a loro sottoposti, attribuendo a propria e singolar loro autorità e prerogativa, come successori di S. Pietro, quel ch'era commune a tutti i vescovi. Questa maniera tennero per invadere l'Illirico non men occidentale che orientale, e sottoporsi la Macedonia, Tessaglia, Acaia, Epiro, Sirmio, la Pannonia, la Bulgaria e l'altre provincie d'Occidente, nelle quali cominciava a sorgere la religion cristiana; poiché, per la sollecita cura che tenevano, tosto che vedevano ridotta qualche provincia alla fede di Cristo, di mandarci istruttori ovvero istituir que' vescovi, siccome narrasi che a questo secolo V facesse Celestino I nella Scozia ridotta alla fede di Cristo, istituendo ivi per vescovo Palladio, dichiarandogli sovente loro vicari; si credette che ciò fosse per l'ispecial potestà che n'avevano come successori di S. Pietro; e pure questo era un dritto di tutti gl'altri vescovi, i quali, tutti essendo successori degl'appostoli, siccome quelli aveano la cura di propagar la novella religione e stabilirla in tutte le provincie ove scorrevano, con istituire i vescovi per istruzione de' novelli convertiti, così tutti i vescovi, se mai scorgevano qualche nazione a sé vicina esser disposta a ricever la fede di Cristo, era della loro incombenza d'occorrere, istruire i novelli convertiti, ordinare quivi preti, diaconi ed anche vescovi, bisognando.

Il vescovo di Roma per l'eminenza del suo grado ebbe molte opportunità di essere il primo a far ciò in molte nazioni; ma l'equivoco che si dava ad intendere era che il vescovo di Roma lo facesse per sua propria particolar podestà che ne avesse, confondendo il primato d'onore, del quale lo forniva l'esser vescovo di una città capo del mondo, colla potestà esarcale, perché potesse difenderla a man salva sopra tutte l'altre provincie e sottoporsi gl'altri vescovi. Non per altro specioso pretesto Damaso, Siricio ed Anastasio cominciarono le loro intraprese sopra l'Illirico, le quali poi furono con maggior vigore proseguite da Innocenzio I, Zosimo, Bonifacio, Celestino, Sisto e sopra tutti da Leone I detto il Magno. Ecco le belle e speciose ragioni d'Innocenzio I, colle quali si studiava persuadere a Rufo, vescovo di Tessalonica, perché riconoscesse per sovrana la sua sede, creandolo a questo fine suo vicario, valendosi dell'esempio degl'appostoli, il quale niente conchiude al suo proposito: «Nec aliter» e' dice «apostolorum forma promulgata est, quam ut ipsi principes Evangelii constituti ceterarum rerum causas necessitudinesque suis discipulis curandas obeundasque mandarint. Ita denique tota miseratione mirabilis Paulus Tito quae curet apud Cretam, Thimotheo quae per Asiam disponat, commisit ... Divinitus ergo haec procurrens gratia ita longis intervallis a me disterminatis ecclesiis discat consulendum, ut prudentiae gravitatique tuae committendam curam, causasque, si quae  exoriantur per Achaiae, Thessaliae, Epiri Veteris, Epiri Novae et Cretae, Daciae Mediterraneae, Daciae Ripensis, Moesiae, Dardaniae et Praevali ecclesias, Christo domino annuente, censeant. Arripe itaque, dilectissime frater, nostra vice per suprascriptas ecclesias, salvo earum primatu, curam; et inter ipsos primates primus, quicquid eos ad nos necesse fuerit mittere, non sine tuo postulent arbitratu. Ita enim aut per tuam experientiam quicquid illud est finietur, aut tuo consilio ad nos usque perveniendum esse mandamus».

Or quanto Innocenzio esagerava di S. Paolo e degl'altri appostoli che commettevano a' loro discepoli la cura delle chiese che s'andavano ergendo, a Tito in Creta, a Timoteo in Asia, chi non vede che lo stesso poteva dire a Rufo il vescovo d'Antiochia, quel d'Alessandria, di Gerusalemme, quello d'Eraclea ed ogn'altro a cui fosse stata data occasione di accorrere a dar aiuto e sollievo a quelle chiese? Ciascun vescovo aveva perciò sufficiente potere, poiché, siccome S. Agostino, scrivendo a Bonifacio vescovo di Roma, saviamente disse, Contr. epist. Pelag. in praefat. ad Bonifac: «communis est nobis omnibus, qui fungimur episcopatus officio (quamvis ipse in eo celsiore fastigio praemineas) specula pastoralis». Onde a ragione diceva S. Cipriano che uno era l'episcopato, tenendosi da ciascun vescovo in sollidum la sua parte; e quindi nell'Epistola LXVIII ad Stephan. scrisse: «Nam, et si pastores multi sumus, unum tamen gregem pascimus, et oves universas, quas Christus sanguine suo et passione quaesivit, colligere et fovere debemus». Per la quale ragione S. Gregorio Nazianzeno, Orat. XVIII, in laud. Cypr., soleva chiamare S. Cipriano vescovo universale, dicendo: «Quod Episcopus universalis fuerit; neque enim carthaginiensi tantum Ecclesiae, nec Africae, sed Occidentis omnibus regionibus, ac prope etiam orientali omni atque australi et septentrionali orae praefectus fuerit». E lo stesso dice di Atanasio, Orat. XXI: «quod cum alexandrino populo praefectus fuerit, idem sit ac si universo terrarum orbi praefectus fuerit». E S. Basilio, ad Atanasio scrivendo, disse egli pure, Epist. LII:«Tantam geris omnium ecclesiarum curam, quantam eius quae tibi peculiariter a Domino nostro credita est». E per la medesima cagione Crisostomo, Omil. VI adv. Iud., chiamò Timoteo vescovo dell'universo orbe, siccome l'autore che volle nascondersi sotto il nome di Clemente Romano chiamò Giacomo, vescovo di Gerusalemme, rettore di tutte le Chiese. Onde S. Girolamo, Epist. LXXXV ad Evagr., con verità scrissegli che in ciò eguale era la potestà del vescovo di Eugubio con quello di Roma, eguale quella del vescovo di Reggio che del costantinopolitano, ed eguale quella del vescovo di Tanide coll'alessandrino. E quindi fu introdotta prattica nella Chiesa che, ricercandolo il bisogno e la necessità, i vescovi senza chieder licenza alcuna potevano  esercitar fuori della loro diocesi in tutto l'orbe l'autorità vescovile in ordinare, siccome, per la testimonianza che ce ne lasciò Socrate istesso, lib. II, c. XXIV, fece S. Atanasio istesso in molte città che non erano della sua diocesi, fece Eusebio Samosatense in tempo della persecuzione ariana sotto Valente, il quale siccome narra Teodoretto, lib. IV, cap. XII, scorrendo con abito militare tutta la Siria, la Fenicia e la Palestina, ordinava que' preti diaconi e provvedeva a tutto ciò che bisognava a quelle chiese, quando lo stesso, siccome soggiunse il medesimo scrittore al lib. V, c. IV, fece nella Cilicia, in Beroe, Seropoli, Calcide, Edessa ed in altre città; siccome Epifanio ordinò Paulino, fratello di S. Girolamo, in un monisterio posto nella Palestina fuori della sua diocesi, di che egli ad Io. Hyerosol. se ne purga, assegnando aggiunta questa istessa ragione d'averlo fatto perché lo poteva fare. Ma i vescovi di Roma non l'intendevano così, e davano a credere che questo fosse lor affare come successori di S. Pietro, e niun altro dovesse impacciarsene. E pure si valevano di armi che facilmente potevano rivoltarsi contro essi medesimi, poiché, se confessavano che ciò facendo immitavano gl'appostoli, dunque tutti i vescovi che sono nella Chiesa in luogo di quelli potranno fare lo stesso? E se riportano questa potestà a Dio, dicendo che le veniva «divinitus», non minor sarà quella degl'altri vescovi, che pur da Dio la riconoscono. Meglio forse altri avrebbero riputato che i pontefici romani riportassero tutto alla preminenza di Roma capo del mondo, pel che sarebbero stati certamente gl'unici; ma essi più accortamente fecero di riportarla a S. Pietro, così perché, come venutagli «divinitus» non stava sottoposta a cangiamento né variazione alcuna, come ancora perché per questa via si poteva giungere a spogliare gl'imperatori de' loro supremi dritti e della sopraintendenza della Chiesa e dell'esterior ecclesiastica polizia, e dispogliar anche gl'altri vescovi delle loro facoltà e prerogative, siccome fortunatamente in discorso di tempo gli successe; poiché, come s'è avverato nel IX secolo, Niccolò I non ebbe difficoltà alla svelata, scrivendo a Michele imperator d'Oriente, di dirgli che per questa ragione li privilegi e preminenze della sua chiesa niuna umana potenza avea autorità di diminuire o infringere, avendo per fondamento Cristo stesso, che gli concedette a S. Pietro, e sopra di cui la Chiesa romana fu stabilita e fondata. Ecco le sue parole: «Ecclesiae romanae privilegia, Christi ore in beato Petro firmata, in Ecclesia ipsa disposita, antiquitus observata et a sanctis universalibus synodis celebrata atque a cuncta Ecclesia iugiter venerata, nullatenus possint minui, nullatenus infringi, nullatenus commutari; quoniam fundamentum quod Deus posuit, humanus non valet amovere conatus ... Ista igitur privilegia huic sanctae Ecclesiae a Christo donata, a synodis non donata, sed iam solummodo celebrata et venerationi habita» E papa Adriano, scrivendo all'imperator Costantino ed Ireneo, dice che l'autorità della sede romana dall'appostolo Pietro fu distintamente concessa. N. Ales. tom. VI, p. 667, lit. A. 13.

I

Zosimo, successor d'Innocenzio I, Bonifacio I, Celestino I e Sisto III, calcando le stesse pedate, vie più esageravano questa prerogativa di successori di san Pietro, ponendola per fondamento e base di quella potestà che s'arrogavano sopra l'Illirico. Ecco come Bonifacio I, scrivendo a' vescovi di Tessaglia, gli dice: «Institutio universalis nascentis Ecclesiae de beati Petri honore sumpsit principium in quo regimen eius et summa consistit. Ex eius enim ecclesiastica disciplina per omnes ecclesias, religionis iam crescente cultura, fonte manavit». Quindi, non tralasciando di qualificare i vescovi dell'Illirico per loro vicari, finalmente ottennero in questa diocesi ciò che, come s'è veduto, non poterono ottenere da' vescovi d'Affrica, e fecero sì che dovessero riportar ad essi le cause maggiori delle loro provincie, e che niuno potesse in quelle adornarsi vescovo senza il loro permesso, le quali dovessero pure informar la sede apostolica romana di quanto nelle loro provincie occorreva per riceverne istruzione e norma come dovevano governarle, siccome è noto dalle lor epistole drizzate a' vescovi dell'Illirico.

Ma niuno con maggior fermezza stabilì questo dritto della sede romana nell'Illirico, che il pontefice Leone I, successor di Sisto, il quale, scrivendo nell'epist. 44 ad Anastasio, vescovo di Tessalonica e primate dell'Illirico, dopo d'avere annoverato i tanti privilegi e prerogative che come vicari[o] della sede apostolica erano stati a lui conceduti, dandogli ancora istruzioni come doveva regolarsi nell'elezione ed ordinazione de' vescovi di quelle provincie, volle espressamente riservare a sé le appellazioni e le cause maggiori, per maggiormente stabilire alla sua sede questi sovrani dritti, dicendogli: «Si qua vero causa maior evenerit, quae a tua fraternitate illic praesidente non potuerit definiri, relatio tua missa nos consulat, ut revelante Domino, cuius misericordiae profitemur esse quod possumus, quod ipse nobis aspiraverit rescribamus; ut cognitioni nostrae pro traditione veteris instituti et debita apostolicae sedis reverentia, nostro examine vindicemus. Ut enim auctoritatem tuam vice nostra te exercere volumus, ita nobis quae illic componi non  potuerint, vel qui vocem appellationis emiserit, reservamus». Infine si arrivò a tanto che Gregorio Magno sospese il vescovo di Salona in Dalmazia, perché, senza sua permissione e scienza del suo responsale, s'era fatto ordinar vescovo, come è manifesto dalla sua ep. XXXIX lib. IV. Questi vicariati che cominciarono i pontefici romani ad instituire, conferendoli con sottile ritrovato a' medesimi metropolitani delle provincie, furono la potissima cagione ed il più efficace mezzo perché potessero stendere la loro potestà esarcale nelle altre provincie. Questa medesima via tenne Zosimo nella Gallia col vescovo arelatense, ciocché fu poi meglio stabilito da Leone I e da Illario suo successore, e così pian piano si fece in Spagna, nel resto d'Italia ed in tutte l'altre provincie d'Occidente.

Non senza ragione fu al pontefice Leone dato il sopranome di Magno, poich'egli sopra tutti i suoi predecessori fu il primo che stendesse più lunghi passi e facesse molto più valere in profitto della sua sede quella nuova riflessione di successore di S. Pietro, sicché più dell'altre sedi meritasse il titolo d'appostolica, il qual sopranome, che era a tutte l'altre chiese commune, a lungo andare si rendesse speciale della romana. Egli fu il primo che del pontificato romano sì altamente sentisse, e che s'ingegnò far riputar il papa per unico e supremo moderatore e principe di tutte le chiese del mondo cristiano, facendo quel paragone con dar tanti encomi a Roma, la quale meritamente potea dirsi eterna, poiché, essendo gentile, fu capo e signora del mondo secolare e profano; così a' suoi dì erasi trasformata in capo e maestra nelle cose spirituali e sagre di tutto il mondo cattolico, in guisa che gli uomini allora, nella potestà spirituale, non dovevano riconoscere altro che il solo pontefice romano, che sopra tutti presidesse. Paragone e lezione che, per esser molto acconcia all'intento degl'altri suoi successori, si fece passare ne' breviari romani, perché, tra' divini uffizi conculcato e rammentato, niuno se ne scordasse.