PRIVILEGIA NE IRROGANTO di
Mauro
Novelli
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di Galileo Galilei
INDICE
I A Belisario Vinta, 7 maggio 1610
II A Matteo Carosi, 24 maggio 1610
III A Giuliano de’ Medici, 13 novembre 1610
IV A Benedetto Castelli, 30 dicembre 1610
V A Cristoforo Clavio, 30 dicembre 1610
VI A Giuliano de’ Medici, I° gennaio 1611
VII A Paolo Sarpi, 12 febbraio 1611
VIII A Marco Velseri, tre lettere sulle macchie
solari,
a) 4 maggio 1612
b) 14 agosto 1612
c) I° dicembre 1612
IX A Maffeo Barberini, 2 giugno 1612
X A Paolo Gualdo, 16 giugno 1612
XI A Benedetto Castelli, 21 dicembre 1613
XII A Piero Dini, 16 febbraio 1615
XIII A Piero Dini, 23 marzo 1615
XIV A madama Cristina di Lorena, (1615)
XV A Elia Diodati, 16 agosto 1631
XVI Ad Andrea Cioli, 6 ottobre 1632
XVII A Francesco Barberini, 13 ottobre 1632
XVIII A Cesare Marsili, 16 ottobre 1632
XIX Ad Andrea Cioli, 19 febbraio 1633
XX A Geri Bocchineri, 23 aprile 1633
XXI Ad Andrea Cioli, 23 luglio 1633
XXII A Elia Diodati, 7 marzo 1634
XXIII A Elia Diodati, 25 luglio 1634
XXIV A Fortunio Liceti, 15 settembre 1640
XXV Sopra il candore della luna
APPENDICE
Sentenza di condanna
Abiura
I
A BELISARIO VINTA IN FIRENZE
(Padova, 7 maggio 1610)
Ill.mo Sig.re et Padre Col.mo
Come per la mia
passata accennai a V. S. Ill.ma, ho fatte 3 lezioni publiche in materia de i 4
Pianeti Medicei e delle altre mie osservazioni; e avendo auta l’udienza di
tutto lo Studio, ho fatto restare in modo ciascheduno capace e satisfatto, che
finalmente quei primarii medesimi che erano stati acerbissimi impugnatori e
contrarii assertori alle cose da me scritte, vedendosela finalmente disperata e
persa a fatto, costretti o da virtù o da necessità, hanno coram
populo detto, sé non solamente esser persuasi, ma apparecchiati a difendere
e sostener la mia dottrina contro a qualunque filosofo che ardisse impugnarla:
sì che le scritture minacciate saranno assolutamente svanite, come
è svanito tutto il concetto che questi tali avevano sin qui procurato di
suscitarmi contro, con speranza forse di esser per sostenerlo, credendo che io,
atterrito dalla loro autorità o sbigottito dal profluvio de i lor
creduli seguaci, fussi per ritirarmi in un cantone e ammutirmi. Ma il negozio
è passato tutto al rovescio; e ben conveniva che la verità
restasse di sopra.
Saprà a
presso V. S. Ill.ma, e per lei loro Ser.me Al.ze, come dal Matematico
dell’Imperatore ho ricevuta una lettera, anzi un intero trattato di 8 fogli,
scritto in approbazione di tutte le particole contenute nel mio libro, senza
pur contradire o dubitare in una sola minima cosa. E creda pur V. S. Ill.ma che
l’istesso averiano anco parimente detto da principio i literati d’Italia, s’io
fussi stato in Alemagna o più lontano; in quella guisa a punto che
possiamo credere, che gl’altri principi circumvicini d’Italia con occhio un
poco più torbido rimirino la eminenza e potere del nostro Ser.mo
Signore, che gl’immensi tesori e forze del Mosco o del Chinese, per tanto
intervallo remoti. Ora il negozio è qua in stato tale, che l’invidia ora
mai non ha più attacco di abbassarlo, col convincerlo di falsità,
né pur anco col metterlo in dubbio. Resta a noi, ma principalmente a i nostri
Ser.mi Padroni, di sostenerlo con reputazione e grandezza, col mostrare di
farne quella stima che a così segnalata novità si conviene,
essendo ella in effetto stimata per tale da tutti quelli che ne parlano con
sincero animo.
L’Ill.mo S.
Ambasciator Medici mi scrive di Praga, non essere in quella Corte occhiali se
non di assai mediocre efficacia, e per ciò me ne domanda uno,
accennandomi essere desiderato anco da S. M.à; e mi scrive che io lo
deva far consegnare in Venezia al Secretario del S. Residente, acciò lo
mandi sicuro. Io però intendo che detto Secretario non riceverà o
manderà cosa alcuna senza l’ordine di V. S. Ill.ma; però,
contentandosi S.A. che io ne mandi per tal via sarà V. S. Ill.ma servita
di dar ordine in Venezia che siano ricevuti e mandati. Intanto, non me ne
ritrovando di esquisiti, vedrò di condurne a fine un paro o dui, se bene
a me è grandissima fatica, né io vorrei essere necessitato a mostrare ad
altri il modo vero del lavorargli, se non a qualche servitore del G.D., come
per altra gli ho scritto. Però, e per altri rispetti ancora e
principalissimamente per quietarmi di animo, desidero grandemente la
resoluzione dell’altro negozio, statomi più volte accennato, ma
particolarmente da V. S. Ill.ma ultimamente in Pisa: perché sono in tutti i
modi resoluto, vedendo che ogni giorno passa un giorno, di mettere il chiodo
allo stato futuro della vita che mi avanza, e attendere con ogni mio potere a
condurre a fine i frutti delle fatiche di tutti i miei studii passati, da i
quali posso sperarne qualche gloria. E dovendo trapassare quelli anni che mi
restano o qui o in Firenze, secondo che piacerà al nostro Ser.mo
Signore, io dirò a V. S. Ill.ma quello che ho qui, e quello che
desidererei costà, rimettendomi però sempre al comandamento di
S.A.S.
Qui ho di
stipendio fermo fiorini 1000 l’anno in vita mia, e questi sicurissimi,
venendomi da un principe immortale e immutabile. Più di altrettanto
posso guadagnarmi da lezioni private, tuttavolta che io voglia leggere a
signori oltramontani; e quando io fussi inclinato a gl’avanzi, tutto questo e
più ancora potrei mettere da canto ogn’anno col tenere gentil’uomini
scolari in casa, col soldo de i quali potrei largamente mantenerla. In oltre,
l’obligo mio non mi tien legato più di 60 mez’ore dell’anno, e questo
tempo non così strettamente, che per qualunque mio impedimento io non
possa, senza alcun pregiudizio, interpor anco molti giorni vacui: il resto del
tempo sono liberissimo, e assolutamente mei iuris. Ma perché e le
lezioni private e gli scolari domestici mi sariano d’impedimento e ritardanza a
i miei studi, voglio da questi totalmente, e in gran parte da quelle, vivere
esente; però, quando io dovessi ripatriarmi, desidereri che la prima
intenzione di S.A.S. fusse di darmi ozio e comodità di potere tirare a
fine le mie opere, senza occuparmi in leggere.
Né vorrei che
per ciò credesse S.A. che le mie fatiche fussero per esser men
profittevoli agli studiosi della professione, anzi assolutamente sariano
più; perché nelle publiche lezioni non si può leggere altro che i
primi elementi, per il che molti sono idonei; e tal lettura è solo di
impedimento e di niuno aiuto al condurre a fine le opere mie, le quali tra le
cose della professione credo che non terranno l’ultimo luogo. Per simile
rispetto, sì come io reputerei sempre a mia somma gloria il poter
leggere a i Principi, così all’incontro non vorrei aver necessità
di leggere ad altri. E in somma vorrei che i libri miei, indrizzati sempre al
Ser.mo nome del mio Signore, fussero quelli che guadagnassero il pane; non
restando intanto di conferire a S.A. tante e tali invenzioni, che forse niun
altro principe ne ha di maggiori, delle quali io non solo ne ho molte in
effetto, ma posso assicurarmi di esser per trovarne molte ancora alla giornata,
secondo le occasioni che si presentassero: oltre che di quelle invenzioni che
dependono da la mia professione, potria esser S.A. sicura di non esser per
impiegare in alcuna di esse i suoi danari inutilmente, come per avventura altra
volta è stato fatto e in grossissime somme, né anco per lasciarsi uscir
delle mani qualunque trovato propostogli da altri, che veramente fusse utile e
bello.
Io de i secreti
particolari, tanto di utile quanto di curiosità e admirazione, ne ho
tanta copia, che la sola troppa abbondanza mi nuoce e mi ha sempre nociuto;
perché se io ne avessi auto un solo, l’averei stimato molto, e con quello
facendomi innanzi, potrei a presso qualche principe grande avere incontrata
quella ventura, che sin ora non ho né incontrata né ricercata. “Magna longeque
admirabilia apud me habeo”: ma non possono servire, o, per dir meglio, essere
messe in opera, se non da principi, perché loro fanno e sostengono guerre, fabricano
e difendono fortezze, e per loro regii diporti fanno superbissime spese, e non
io o gentil’uomini privati. Le opere che ho da condurre a fine sono
principalmente 2 libri “De sistemate seu constitutione universi”, concetto
immenso e pieno di Filosofia, astronomia e geometria: tre libri “De motu
locali”, scienza interamente nuova, non avendo alcun altro, né antico né
moderno, scoperto alcuno de i moltissimi sintomi ammirandi che io dimostro
essere ne i movimenti naturali e ne i violenti, onde io la posso
ragionevolissimamente chiamare scienza nuova e ritrovata da me sin da i suoi
primi principi: tre libri delle mecaniche, due attenenti alle demostrazioni de
i principii e fondamenti, e uno de i problemi; e benché altri abbino scritto
questa medesima materia, tutta via quello che ne è stato scritto sin
qui, né in quantità né in altro è il quarto di quello che ne
scrivo io. Ho anco diversi opuscoli di soggetti naturali, come “De sono et
voce, De visu et coloribus, De maris estu, De compositione continui, De
animalium motibus”, e altri ancora. Ho anco in pensiero di scrivere alcuni
libri attenenti al soldato, formandolo non solamente in idea, ma insegnando con
regole molto esquisite tutto quello che si appartiene di sapere e che depende
dalle matematiche, come la cognizione delle castrametazioni, ordinanze,
fortificazioni, espugnazioni, levar piante, misurar con la vista, cognizioni
attenenti alle artiglierie, usi di varii strumenti, etc. Mi abbisogna di
più ristampare l’Uso del mio Compasso Geometrico, dedicato a S.
A., non se ne trovando più copie; il quale strumento è stato
talmente abbracciato dal mondo, che veramente adesso non si fanno altri
strumenti di questo genere, e io so che sin ora ne sono stati fabbricati alcune
migliaia. Io non dirò a V. S. Ill.ma quale occupazione mi sia per
apportare il seguir di osservare e investigare i periodi esquisiti de i quattro
nuovi pianeti; materia, quanto più vi penso, tanto più laboriosa,
per il si disseparar mai, se non per brevi intervalli l’uno dall’altro, e per esser
loro e di colore e di grandezza molto simili.
Sì che,
Ill.mo S., bisogna che i’ pensi al disoccuparmi da quelle occupazioni che
possono ritardare i miei studi, e massime da quelle che altri può fare
in cambio mio; però la prego a proporre a loro Alt.e, e a sé medesima,
queste considerazioni, e avvisarmi poi la loro resoluzione.
Intanto non
voglio restar di dirgli, come circa lo stipendio mi contenterò di quello
che lei mi accennò in Pisa, essendo onorato per un servitore di tanto principe;
e sì come io non soggiungo niente sopra la quantità, così
son sicuro che, dovendo io levarmi di qua, la benignità di S. A. non mi
mancherebbe di alcuna di quelle comodità che si sono usate con altri,
bisognosi anco meno di me, e però non ne parlo adesso. Finalmente,
quanto al titolo e pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di
Matematico, che S. A. ci aggiungesse quello di Filosofo, professando io di
avere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura: nella
quale qual profitto io abbia fatto, e se io possa e deva meritar questo titolo
potrò far vedere a loro Alt.e, qual volta sia di loro piacimento il
concedermi campo di poterne trattare alla presenza loro con i più
stimati in tal facoltà.
Ho scritto
lungamente per non aver più a ritornare sopra tal materia con suo nuovo
tedio: mi scusi V. S. Ill.ma, perché, se bene questo a lei, che è
consueta a maneggiar negozii gravissimi parerà frivolissimo e leggiero,
a me però è egli il più grave che io possa incontrare,
concernendo o la mutazione o la confirmazion di tutto lo stato e l’esser mio.
Aspetterò sua risposta; e in tanto supplicandola ad inchinarsi umilmente
in mio nome a loro Ser.e, bacio a V. S. Ill.ma con ogni reverenza le mani, e
dal Signore Dio gli prego somma felicità
Di Pad.a, li 7
di maggio 1610.
Di V. S. Ill.rna Ser.re
Oblig.mo
Galileo
Galilei
II
A MATTEO CAROSI IN PARIGI
(Padova, 24 maggio 1610)
Ill.re Sig.re
Mando a V. S. l’Avviso
astronomico domandatomi da lei, acciò possa con suo comodo vederlo.
Quello che mi scrive in proposito di quello che dicono i mattematici di
costì, mi viene scritto da altre bande ancora, e fu similmente pensiero
d’altri qui circunvicini, ai quali, col fargli io vedere lo strumento e i
Pianeti Medicei, ne è rimossa ogni dubitazione. Il simile potrei fare
ancora con i remoti, se potessi abboccarmi con loro. Ben è vero che le
loro ragioni di dubitare sono molto frivole e puerili, potendosi persuadere che
io sia tanto insensato, che con lo sperimentare centomila volte in centomila
stelle e altri oggetti il mio strumento, non abbia potuto o saputo conoscere
quegl’inganni che essi, senza averlo mai veduto, stimano avervi conosciuto; o
pure che io sia così stolido, che senza necessità alcuna abbia
voluto mettere la mia reputazione in compromesso e burlare il mio Principe.
L’occhiale è arciveridico, e i pianeti Medicei sono pianeti, e saranno
sempre, come gli altri: hanno i loro moti velocissimi intorno a Giove,
sì che il più tardo fa il suo cerchio in 15 giorni incirca. Ho seguitato
di osservargli, e séguito ancora, se bene oramai per la vicinanza dei raggi del
sole cominceranno a non si poter veder più per qualche mese.
Questi che
parlano, doveriano (per farci il giuoco del pari) mettersi come ho fatto io,
cioè scrivere, e non commettere le parole al vento. Qua ancora si
aspettavano 25 che mi volevano scrivere contro; ma finalmente sin ora non si
è veduto altro che una scrittura del Keplero, Mattematico Cesareo, in
confirmazione di tutto quello che ho scritto io, senza pur repugnare a un iota:
la quale scrittura si ristampa ora in Venezia, e in breve V. S. la vedrà
sicome ancora vedrà le mie osservazioni molto più ampliate e con
le soluzioni di mille instanze, benché frivolissime; ma tuttavia bisogna rimuoverle,
giacché il mondo e tanto abbondante di poveretti. Non sarò più
lungo con V. S.; mi conservi la sua grazia e mi comandi.
Di Pad.a, li 24
di Maggio 1610
Di V. S. Ser.re
Aff.mo
Galileo
Galilei
III
A GIULIANO DE' MEDICI IN PRAGA
(Firenze, 13 novembre 1610)
Ma passando ad altro, già che
il S. Keplero ha in questa ultima Narrazione stampate le lettere che io mandai
a V. S. Ill.ma trasposte, venendomi anco significato come S. M.à ne
desidera il senso, ecco che io lo mando a V. S. Ill.ma, per participarlo con S.
M.à, col S. Keplero, e con chi piacerà a V Ill.ma, bramando io
che lo sappi ogn'uno. Le lettere dunque, combinate nel loro vero senso, dicono
così:
“Altissimum planetam tergeminum observavi”.
Questo è, che Saturno, con
mia grandissima ammirazione; ho osservato essere non una stella sola, ma tre
insieme, le quali quasi si toccano; sono tra di loro totalmente immobili, e
costituite in questa guisa oOo; quella di mezzo è assai più
grande delle laterali; sono situate una da oriente e l'altra da occidente, nella
medesima linea retta a capello; non sono giustamente secondo la dirittura del
zodiaco, ma la occidentale si eleva alquanto verso borea; forse sono parallele
all'equinoziale. Se si riguarderanno con un occhiale che non sia di grandissima
multiplicazione, non appariranno 3 stelle ben distinte, ma parrà che
Saturno sia una stella lunghetta in forma di una uliva, così (_); ma
servendosi di un occhiale che multiplichi più di mille volte in
superficie, si vedranno li 3 globi distintissimi, e che quasi si toccano, non
apparendo tra essi maggior divisione di un sottil filo oscuro. Or ecco trovata
la corte a Giove, e due servi a questo vecchio, che l'aiutano a camminare né
mai se gli staccano dál fianco. Intorno a gl'altri pianeti non ci è
novità alcuna. Etc.
IV
A BENEDETTO CASTELLI IN BRESCIA
(Firenze, 30 dicembre 1610)
Al molto R.do P. e mio Sig.re Col.mo
Il P. D. Benedetto Castelli, Monaco Casinense.
Brescia,
S. Faustino.
Molto R.do P.re,
Alla gratissima
di V. S. molto R. delli 5 di Xmbre darò breve risposta, ritrovandomi
ancora aggravato da una mia indisposizione, la quale per molti giorni m’ha
tenuto al letto.
Ho con
grandissimo gusto sentito il suo pensiero di venir a stanziare in Firenze, il
quale mi rinova la speranza di poterla ancora godere e servire qualche tempo:
mantengasi in questo proposito, e sia certa che mi averà sempre
prontissimo ad ogni suo comodo, benché la felicità del suo ingegno non
la fa bisognosa dell’opera mia né di altri. Quanto alle sue dimande, posso in
parte satisfarla; il che fo volentierissimo.
Sappia dunque
che io, circa tre mesi fa, cominciai a osservar Venere con lo strumento, e la
vidi di figura rotonda, e assai piccola; andò di giorno in giorno
crescendo in mole, e mantenendo pur la medesima rotondità, sin che
finalmente, venendo in assai gran lontananza dal sole, cominciò a
sciemar dalla rotondità dalla parte orientale, e in pochi giorni si
ridusse al mezo cerchio. In tale figura si è mantenuta molti giorni, ma
però crescendo tuttavia in mole: ora comincia a farsi falcata, e sin che
si vederà vespertina, anderà assotigliando le sue cornicelle, sin
che svanirà: ma ritornando poi matutina, sio vedrà con le corna
sottilissime e pure averse al sole, e anderà crescendo verso il mezo
cerchio sino alla sua massima digressione. Manterassi poi semicircolare per
alquanti giorni, diminuendo però in mole; e poi dal mezo cerchio
passerà al tutto tondo in pochi giorni, e quindi per molti mesi si
vedrà, e Lucifero e Vesperugo, tutta tonda, ma piccoletta di mole. Le
evidentissime conseguenze che di qui si traggono, sono a V.R.a notissime.
Quanto a Marte,
non ardirei di affermare niente di certo; ma osservandolo da quattro mesi in
qua, parmi che in questi ultimi giorni, sendo in mole a pena il terzo di quello
che era il Settembre passato, si mostri da oriente alquanto scemo, se
già l’affetto non m’inganna, il che non credo. Pure meglio si
vedrà al principio di Febraio venturo, intorno al suo quadrato; se bene,
per l’apparire egli così piccolo, difficilmente si distingue la sua
figura, se sia perfetta rotonda o se manchi alcuna cosa. Ma Venere la veggo
così spedita e terminata quanto l’istessa luna, mostrandomela l’occhiale
di diametro uguale al semidiametro di essa luna veduta con l’occhio naturale.
O quante e quali
conseguenze ho io dedutte, D. Benedetto mio, da queste e da altre mie
osservazioni! “Sed quid inde?” Mi ha quasi V. R.a fatto ridere, col dire che
con queste apparenti osservazioni si potranno convincere gl’ostinati. Adunque
non sapete, che a convincere i capaci di ragione, e desiderosi di saper il
vero, erano a bastanza le altre demostrazioni, per l’addietro addotte, ma che a
convincere gl’ostinati, e non curanti altro che un vano applauso dello
stupidissimo e stolidissimo volgo, non basterebbe il testimonio delle medesime
stelle, che sciese in terra parlassero di sé stesse? Procuriamo pure di sapere
qualche cosa per noi, quietandosi in questa sola sodisazione; ma dell’avanzarsi
dell’opinione popolare, o del guadagnarsi l’assenso dei filosofi “in libris”,
lasciamone il desiderio e la speranza.
Che dirà
V. R.a. di Saturno, che non è una stella sola, ma tre congionte insieme
e immobili tra di loro, poste in linea parallela all’equinoziale, così o
O o? La media è maggiore delle laterali tre o quattro volte; tale io
l’ho osservato da Luglio in qua, ma ora in mole sono diminuite assai.
Orsù,
venga a Firenze, che ci goderemo e averemo mille cose nove e ammirande da
discorrere. E io in tanto, restandogli servitore, gli bacio le mani e gli prego
da Dio felicità. Renda i saluti duplicati al P.D. Serafino e alli Sig.ri
Lana e Albano.
Di Firenze, li
30 di Xmbre 1610.
Di V. S. molto R. Ser.re Aff.mo
Galileo
Galilei
V
A CRISTOFORO CLAVIO IN ROMA
(Firenze, 30 dicembre 1610)
Molto Rev.do
P.re e mio Sig.r Col.mo
La lettera di
V.R. mi è stata tanto più grata, quanto più desiderata e
meno aspettata; e avendomi ella trovato assai indisposto e quasi fermo a letto,
mi ha in gran parte sollevato dal male, portandomi il guadagno di un tanto
testimonio alla verità delle mie nuove osservazioni: il quale, prodotto,
ha guadagnato alcuno degl’increduli; ma però i più ostinati
persistono, e reputano la lettera di V.R. o finta o scrittami a compiacenza, e
in somma aspettano che io trovi modo di far venire almeno uno dei quattro
Pianeti Medicei di cielo in terra a dar conto dell’esser loro e a chiarir
questi dubbii; altramente, non bisogna che io speri il loro assenso. Io
credevo, a quest’ora dovere essere a Roma, avendo non piccolo bisogno di
venirvi; ma il male mi ha trattenuto: tuttavia spero in breve di venirvi, dove
con strumento eccellente vedremo il tutto. In tanto non voglio celare a V.R.
quello che ho osservato di Venere da 3 mesi in qua.
Sappia dunque,
come nel principio della sua apparizione vespertina la cominciai ad osservare e
la veddi di figura rotonda, ma piccolissima; continuando poi le osservazioni,
venne crescendo in mole notabilmente, e pur mantenendosi circolare, sin che,
avvicinandosi alla maxima digressione, cominciò a diminuir dalla rotondità
nella parte aversa al sole, e in pochi giorni si ridusse alla figura
semicircolare; nella qual figura si è mantenuta un pezzo, ciò
è sino che ha cominciato a ritirarsi verso il sole, allontanandosi pian
piano dalla tangente: ora comincia a farsi notabilmente cornicolata, e
così anderà assottigliandosi sin che si vedrà vespertina,
e a suo tempo la vedremo mattutina, con le sue cornicelle sottilissime e averse
al sole, le quali intorno alla massima digressione faranno mezzo cerchio, il
quale manterranno inalterato per molti giorni. Passerà poi Venere dal
mezzo cerchio al tutto tondo prestissimo, e poi per molti mesi la vedremo
così interamente circolare, ma piccolina, sì che il suo diametro
non sarà la 6a parte di quello che apparisce adesso. Io ho
modo di vederla così netta, così schietta e così
terminata, come veggiamo l’istessa luna con l’occhio naturale; e la veggo
adesso adesso di diametro eguale al semidiametro della luna veduta con la vista
semplice. Ora, eccoci, Signor mio, chiariti come Venere (e indubitamente
farà l'istesso Mercurio) va intorno al sole, centro senza alcun dubbio
delle massime rivoluzioni di tutti i pianeti; in oltre siamo certi che essi
pianeti sono per sé tenebrosi e solo risplendono illustrati dal sole, il che
non credo che occorra delle stelle fisse, per alcune mie osservazioni, e come
questo sistema de i pianeti sta sicuramente in altra maniera di quello che si
è comunemente tenuto, così nel determinare la grandezza delle
stelle (trattone il sole e la luna) si sono presi errori nella maggior parte de
i pianeti e in tutte le fisse, di 3, 4 e 5 mila per cento, e più ancora.
Quanto a
Saturno, non mi meraviglio che non l’abbino potuto distintamente osservare;
prima perché ci bisogna strumento che multiplichi le superficie almanco 1000
volte; di più, Satutno adesso è tanto lontano dalla terra, che
non si vede se non piccolissimo; tuttavia l'ho fatto vedere qui a molti dei
loro fratelli così distintamente, che non vi hanno alcuna dubitanza; e
si vede giusto così oOo. Cinque mesi sono, si vedeva assai maggiore: da
quel tempo è diminuito molto, né però si è mutata pure un
capello la costituzione delle sue 3 stelle, le quali per quanto io stimo, sono
esattamente parallele non al zodiaco ma all'equinoziale. [...]
Ora, per
rispondere interamente alla sua lettera, restami di dirgli come ho fatto alcuni
vetri assai grandi, benché non ne ricuopra gran parte, e questo per due
ragioni: l'una, per potergli lavorar più giusti, essendo che una
superficie spaziosa si mantiene meglio nella debita figura, che una piccola;
l'altra è, che volendo veder più grande in un'occhiata, si
può scoprire il vetro: ma bisogna presso all'occhio mettere un vetro
meno acuto e scorciare il cannone, altramente si vedrebbono gli oggetti assai
annebbiati. Che poi tale strumento sia incomodo ad usarsi, un poco di pratica
leva ogni incomodità; e io gli mostrerò come lo uso
facilissimamente e con minor fatica assai che altri non fa nell'astrolabio,
quadrante, armille, o altro astronomico strumento.
Averò
soverchiamente tediata S.R.: scusi il diletto che ho nel trattar seco, e
continui di conservarmi la sua grazia, di che la supplico con ogni istanza,
come anco che ella mi procacci quella dell'altro Padre Cristoforo, suo
discepolo, da me stimatissimo per le relazioni che ho del suo gran valore nelle
matematiche. E per fine dell'uno et all'altro con ogni reverenza bacio le mani,
e dal Signore Dio prego felicità.
Di Firenze, li
30 Dicembre 1610.
Di V. S. M. R.da Servitore Devotissimo
Galileo
Galilei
VI
A GIULIANO DE' MEDICI IN PRAGA
(Firenze, I° gennaio 1611)
Ill.mo et
Rever.mo Sig.re mio Col.mo
È tempo
che io deciferi a V. S. Ill.ma e R.ma, e per lei al S. Keplero, le lettere
trasposte, le quali alcune settimane sono gli inviai: è tempo, dico,
già che sono interissimamente chiaro della verità del fatto,
sì che non ci resta un minimo scrupolo o dubbio.
Sapranno dunque
come, circa 3 mesi fa, vedendosi Venere vespertina, la cominciai ad osservare
diligentemente con l'occhiale, per veder col senso stesso quello di che non
dubitava l'intelletto. La veddi dunque, sul principio, di figura rotonda,
pulita e terminata, ma molto piccola: di tal figura si mantenne sino che
cominciò ad avvicinarsi alla sua massima digressione, tutta via
andò crescendo in mole. Cominciò poi a mancare dalla
rotondità nella sua parte orientale e aversa al sole, e in pochi giorni
si ridusse ad essere un mezo cerchio perfettissimo; e tale si mantenne, senza
punto alterarsi, sin che cominciò a ritirarsi verso il sole,
allontanandosi dalla tangente. Ora va calando dal mezo cerchio e si mostra
cornicolata, e anderà assottigliandosi sino all'occultazione,
riducendosi allora con corna sottilissime; quindi passando ad apparizione
mattutina, la vedremo pur falcata e sottilissima, e con le corna averse al
sole; anderà poi crescendo sino alla massima digressione, dove
sarà semicircolare, e tale, senza alterarsi, si manterrà molti
giorni; e poi dal mezo cerchio passerà presto al tutto tondo, e
così rotonda si conserverà poi per molti mesi. Ma è il suo
diametro adesso circa cinque volte maggiore di quello che si mostrava nella sua
prima apparizione vespertina: dalla quale mirabile esperienza aviamo sensata e
certa dimostrazione di due gran questioni, state sin qui dubbie tra' maggiori
ingegni del mondo. L'una è, che i pianeti tutti sono di lor natura
tenebrosi (accadendo anco a Mercurio l'istesso che a Venere): l'altra, che
Venere necessariissimamente si volge intorno al sole, come anco Mercurio e
tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pittagorici, Copernico, Keplero e
me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in Mercurio. Averanno
sunque il Signor Keplero e gli altri Copernicani da gloriarsi di avere creduto
e filosofato bene, se bene ci è toccato, e ci è per toccare
ancora, ad esser reputati dall'universalità de i filosofi “in libris”
per poco intendenti e poco meno che stolti. Le parole dunque che mandai
trasposte, e che dicevano “Haec immatura a me iam frustra leguntur o y”,
ordinate “Cynthiae figuras aemulatur mater amorum” ciò è che
Venere imita le figure della luna.
Osservai 3 notti
sono l'eclisse, nella quale non vi è cosa notabile: solo si vede il
taglio dell'ombra indistinto, confuso e come annebiato, e questo per derivare
essa ombra da la terra, lontanissimamente da essa Luna.
Voleva scrivere
altri particolari; ma sendo stato trattenuto molto da alcuni gentiluomini, e
essendo l'ora tardissima, son forzato a finire. Favoriscami salutare in mio
nome i signori Keplero, Asdalee Segheti; e a V. S. Ill.ma con ogni reverenza
bacio le mani, e dal S. Dio gli prego felicità.
Di Firenze, il
primo di Gennaio, anno 1611
Di V. S. Ill.ma et. Rev.ma Servitore Devotissimo
Galileo
Galilei
VII
A PAOLO SARPI (IN VENEZIA)
(Firenze, 12 febbraio I611)
Molto Rev. Padre
e mio Signore Colendissimo,
È tempo
che io rompa uno assai lungo silenzio; sebbene ove ha taciuto la lingua e
quietato la mano, ha però continuamente parlato il pensiero, ricordevole
in tutti i momenti della virtù e dei meriti di Vostra Sign. Molto Rev.,
siccome degli obblighi infiniti che gli tengo. Io non inarrerò perdono
di questa mia apparente negligenza verso i debiti che ho seco, come quello che
son sicuro che ella non dubiti che in qualunque occorrenza concernente al suo o
mio bisogno avrei avuta la penna non meno pronta dell'animo e dell'effetto ad
ogni debito dell'antica amicizia e della osservanza che ho alla sua persona.
Ora, stimando io che ella, per l'affezione verso di me, sia per volentieri
intendere dello stato mio, sì quanto al corpo come quanto alla fortuna e
quanto alla mente, vengo non meno volentieri a darle di ciascheduno di questi
particolari contezza.
E prima, quanto
al primo, non posso veramente dirle cosa né di suo né di mio gusto, provando,
per il disuso di tanti anni questa sottilissima aria iemale crudissima inimica
alla mia testa ed a tutto il resto del corpo; sì che le doglie per le
mie freddure, il profluvio del sangue, con una grandissima languidezza di
stomaco, mi tengono da tre mesi in qua debole, disgustatissimo e melanconico,
quasi continuamente in casa, anzi in letto, ma però senza sonno e
quiete. Solamente li giorni passati, che mi trattenni, mentre la Corte era a
Pisa, per lo spazio di tre settimane coll'Illustrissimo Signor Filippo
Salviati, gentiluomo di grandissimo spirito, in una sua villa in questi poggi,
stetti assai bene, e conobbi immediate la bontà di quell'aria, e in
conseguenza la malignità di questa della città; sì che mi
converrà far pensiero di farmi abitator dei monti, se no de' sepolcri:
ed in questa occasione, ritornato il Serenissimo Gran Duca ed inteso il mio
stato, mi ha per sua benignità fatto offerta dell'abitazione di qual mi
piacesse delle sue ville qui circumvicine, di aria perfetta. Ma non solo in
questo, anzi in ogni altro particolare concernente al mio comodo, provo la
benignità di questo signor inclinatissima a favorirmi: onde non devo
della fortuna querelarmi, come dell'abito del corpo.
Quanto alle
occupazioni della mente, non mi è mancato che fare, a difendermi con la
lingua e con la penna da infiniti contradittori e oppositori contro alle mie
osservazioni; sebbene non me la sono né anco presa con quell'ardore che pareva
a molti che contro all'ardire degli opponenti fusse bisognato, essendoché ero
certo che il tempo averebbe chiarite tutte le partite, siccome in gran parte
è sin qui succeduto. Poiché i matematici di maggior grido di diversi
paesi, e di Roma in particolare, dopo essersi risi, ed in scrittura ed in voce,
per lungo tempo e in tutte le occasioni e in tutti i luoghi, delle cose da me
scritte, ed in particolare intorno alla luna ed ai Pianeti Medicei, finalmente,
forzati dalla verità, mi hanno spontaneamente scritto, confessando ed
ammettendo il tutto: talché al presente non provo altri contrari che i
Peripatetici, più parziali di Aristotele che egli medesimo non sarebbe,
e sopra gli altri quelli di Padova, sopra i quali io veramente non spero
vittoria. Queste occupazioni non mi hanno però interamente rimosso dalle
inquisizioni celesti, sì che io non abbia potuto investigare qualche
altra cosa di nuovo: di che devo far parte a V. S. molto R., e per lei a quei
miei Signori e Padroni che ella sa che sono per sentirla volentieri.
Parmi ricordare
che sino l'Agosto passato io conferissi seco l'osservazione di Saturno: il
quale non è altramente una sola stella, come gli altri pianeti, ma sono
tre, congiunte insieme in linea retta parallela all'equinoziale; e stanno
così oOo, cioè la media circa quattro volte maggiore delle
laterali, le quali sono tra di loro eguali. Non hanno, in sette mesi che le ho
osservate, fatta mutazione alcuna; onde assolutamente sono tra di loro
immobili, perché (giacché sono così vicine che pare che si tocchino)
ogni moto che avessero, benché minimo, si saria fatto sensibile. Perché, per
mio avviso, il diametro delle due minori non arriva a quattro secondi: sicché,
o si sariano totalmente congiunte con la media, o evidentemente separate,
quando il lor moto fusse anco dieci volte più tardo di quello delle
stelle fisse; tuttavia, come ho detto, in sette mesi non hanno fatto mutazione
alcuna, se non di mostrarsi più piccole tutte tre per la maggiore
lontananza dalla terra, ora che sono alla congiunzione, che quando erano
all'opposizion del sole: la qual differenza è sensibilissima.
Stimando pure
esser verissimo che tutti i pianeti si volghino intorno al sole come centro dei
loro orbi, e più credendo che siano tutti per sé tenebrosi ed opachi
come la terra e la luna, mi posi quattro mesi sono, a osservar Venere, la
quale, essendo vespertina, mi si mostrò perfettamente rotonda, ma assai
piccola; e di tal figura si mantenne molti giorni, crescendo però
notabilmente in mole. Avvicinandosi poi alla medesima digressione,
cominciò a sciemare dalla rotondità nella parte verso oriente, ed
in pochi giorni si ridusse ad esser semicircolare; e di tal figura si mantenne
circa un mese, senza vedersi altra mutazione che di mole, la quale notabilmente
si accresceva. Finalmente nel ritirarsi verso il sole cominciò ad
incavarsi dove era retta, ed a farsi pian piano corniculata: ed ora è
ridotta in una sottilissima falce, simile alla luna quattriduana. La mole
però della sua sfera è fatta tanto grande, che dalla sua prima
apparizione, quando la veddi rotonda, a che si mostrò mezza ed a quello
che si vede adesso, ci è la differenza che mostrano le tre presenti
figure o D )). Sciemerà ancora sino alla occultazione, ed a mezzo
quest'altro mese la vederemo orientale, sottilissima; e seguitando di
lontanarsi dal sole, crescendo di lume e sciemando di mole, nello spazio di tre
mesi incirca si ridurrà a mezzo cerchio, e tale, senza conoscervi
sensibile mutamento, si manterrà circa un mese; poi, seguitando sempre
di sciemare in mole, si farà in pochi giorni interamente rotonda, della
qual figura si mostrerà per più di dieci mesi continui, trattone quei
tre mesi incirca che starà invisibile sotto i raggi del sole.
Or eccoci fatti
certi che Venere si volge intorno al sole, e non sotto (come credette
Tolommeo), dove mai non si mostrerebbe se non minore di mezzo cerchio; né meno
sopra (come piacque ad Aristotele), perché se fusse superiore al sole, non si
vedrebbe mai falcata, ma sempre più di mezza assaissimo, e quasi sempre
perfettamente rotonda. E l'istesse mutazioni son sicuro che vedremo fare a
Mercurio. Perché poi tali diversità di forme e di grandezze in Venere
siano impercettibili con la vista naturale, so io benissimo per le sue cagioni
non occulte all'ingegno di Vost. Riverenza: tra le quali la piccolezza e la
gran lontananza di essa Venere, in comparazion della luna, ne è la
principale, siccome anco l'esperienza ci mostra; perché rivoltando il cannone
sì che rappresenti li oggetti piccoli e lontanissimi, la medesima luna,
quando è corniculata di tre giorni e non più, ci apparisce
rotonda e radiante, similissima a Venere veduta con la vista naturale. Siamo in
oltre da queste medesime apparizioni di Venere fatti certi come i pianeti tutti
ricevono il lume dal sole, essendo per lor natura tenebrosi. Ma io di
più sono, per dimostrazione necessaria, sicurissimo che le stelle fisse
sono per sé medesime lucidissime, né hanno bisogno dell'irradazione del sole;
la quale Dio sa se arriva in tanta lontananza.
Ho finalmente
investigato il modo di poter sapere le vere grandezze dei pianeti tutti:
nell'assegnar delle quali, trattone il sole e la luna, si sono ingannati quelli
che ne hanno trattato, in tutti gli altri pianeti grandissimamente, ed in
taluno di loro di più di seimila per cento.
Quanto ai
Pianeti Medicei, vo continuando di osservargli; ed avendo migliorato lo
strumento, gli scorgo più apparenti assai che le stelle della seconda
grandezza: di che ne è certo argomento il vedergli adesso poco dopo il
tramontar del sole, ed un pezzo avanti che si scorghino i Gemelli o il Cingolo
di Orione. E spero di aver trovato il modo da poter determinare i periodi di
tutti quattro; cosa stimata per impossibile dal Keplero e da altri matematici.
Io speravo di
esser per venir costà questa quadragesima, per ristampar queste mie
osservazioni: ma mi sono tanto multipliplicate per le mani, che mi sarà
forza indugiare a fatto Pasqua. Intanto non voglio mancar di dire a V. S. molto
R. e all'Illustris. Sign. Sebastiano Veniero, che caso che gl'Illustriss.
Signori Riformatori non abbino fin qui fatto provisione di Matematico per
Padova, voglino proccurar di trattenergli; perché spero di esser per metter
loro per le mani persona di grande stima ed atta a poter difendere la
dignità ed eccellenza di così nobil professione contro a quelli
che cercano di esterminarla, li quali in Padova non mancano, come benissimo
sanno. E so che tali proccureranno che sia condotto qualche soggetto da poterlo
dominare e spaventare, acciocché se mai si scuopre qualche cosa vera e di
garbo, ella resti dalla loro tirannide soffogata Ma mi giova sperare nella
prudenza di tanti che intendono in cotesto Senato, che non seguirà
elezione se non ottima.
Ora io l'ho
impedita assai: perdoni al diletto che ho di parlar con lei; e volendo
favorirmi di sue lettere, potrà mandarmele come questa, sotto quelle
dell'Illustriss. Signor Veniero. Restami a pregarla di farmi grazia di
ricordarmi servitore devotissimo a tanti Illustriss. miei Signori, dei quali
vivo, come sempre fui devotissimo servitore; e con ogni affetto gli bacio le
mani.
Di Firenze, li
12 di Febbraio 1611
Di V. S. molto
R. Servitore
Devotissimo
Galileo Galilei.
VIIIa
PRIMA LETTERA DEL SIG. GALILEO
GALILEI
AL SIG. MARCO VELSERI I CIRCA LE
MACCHIE SOLARI
(Villa delle Selve, 4 maggio
1612)
Illustrissimo
Sig. e Padron Colendissimo,
Alla cortese
lettera di V. S. Illustrissima, scrittami tre mesi fa, rendo tarda risposta,
essendo stato quasi necessitato a usare tanto silenzio da varii accidenti, ed
in particolare da una lunga indisposizione, o, per meglio dire, da lunghe e
molte indisposizioni, le quali, vietandomi tutti gli altri esercizii ed
occupazioni, mi toglievano principalmente di potere scrivere, sì come
anco in gran parte me lo levano al presente, pure non tanto rigidamente, che io
non possa almeno rispondere ad alcuna delle lettere de gli amici e padroni,
delle quali mi ritrovo non picciol numero, che tutte aspettano risposta. Ho
anco taciuto su la speranza di potere dar qualche satisfazione alla domanda di
V. S. intorno alle macchie solari, sopra il quale argomento ella mi ha mandato
quei brevi discorsi del finto Apelle; ma la difficoltà della materia e
'l non avere io potuto far molte osservazioni continuate mi hanno tenuto e
tengono ancora sospeso ed irresoluto: ed a me conviene andare tanto più
cauto e circospetto, nel pronunziare novità alcuna, che a molti altri,
quanto che le cose osservate di nuovo e lontane da i comuni e popolari pareri,
le quali, come ben sa V. S., sono state tumultuosamente negate ed impugnate, mi
mettono in necessità di dovere ascondere e tacere qual si voglia nuovo
concetto, sin che io non ne abbia dimostrazione più che certa e
palpabile; perché da gl'inimici delle novità, il numero de i quali
è infinito, ogni errore, ancor che veniale, mi sarebbe ascritto a fallo
capitalissimo, già che è invalso l'uso che meglio sia errar con l'universale,
che esser singolare nel rettamente discorrere. Aggiugnesi che io mi contento
più presto di esser l'ultimo a produrre qualche concetto vero, che
prevenir gli altri per dover poi disdirmi nelle cose con maggior fretta e con
minor considerazione profferite. Questi rispetti mi hanno reso lento in
risponder alle domande di V. S. Illustrissima, e tuttavia mi fanno timido in
produrre altro che qualche proposizion negativa, parendomi di saper più
tosto quello che le macchie solari non sono, che quello che elleno veramente
siano, ed essendomi molto più difficile il trovar il vero, che 'l
convincere il falso. Ma per satisfare almeno in parte al desiderio di V. S.,
anderò considerando quelle cose che mi paiono degne di esser avvertite
nelle tre lettere del finto Apelle, già che ella così comanda, e
che in quelle si contiene ciò che sin qui è stato immaginato per
definire circa l'essenza il luogo ed il movimento di esse macchie.
E prima, che
esse siano cose reali, e non semplici apparenze o illusioni dell'occhio o de i
cristalli, non ha dubbio alcuno, come ben dimostra l'amico di V. S. nella prima
lettera; ed io le ho osservate da 18 mesi in qua, avendole fatte vedere a
diversi miei intrinseci, e pur l'anno passato, appunto in questi tempi, le feci
osservare in Roma a molti prelati ed altri signori. È vero ancora, che
non restano fisse nel corpo solare, ma appariscono muoversi in relazion di
esso, ed anco di movimenti regolati, come il medesimo autore ha notato nella
medesima lettera. È ben vero che a me pare che il moto sia verso le
parti contrarie a quelle che l'Apelle asserisce, cioè da occidente verso
oriente, declinando dal mezzogiorno in settentrione, e non da oriente verso
occidente e da borea verso mezzogiorno; il che anco nell'osservazioni descritte
da lui medesimo, le quali in questo confrontano con le mie e con quante io ne
ho vedute di altri, assai chiaramente si scorge: dove si veggon le macchie
osservate nel tramontar del Sole mutarsi di sera in sera, descendendo dalle
parti superiori del Sole verso le inferiori; e quelle della mattina ascendendo
dalle inferiori verso le superiori, scoprendosi nel primo apparire nelle parti
più australi del corpo solare, ed occultandosi o separandosi da quello
nelle parti più boreali, descrivendo in somma nella faccia del Sole
linee per quel verso appunto che fariano Venere o Mercurio, quando nel passar
sotto 'l Sole s'interponessero tra quello e l'occhio nostro. Il movimento,
dunque, delle macchie rispetto al Sole appar simile a quello di Venere e di
Mercurio e de gli altri pianeti ancora intorno al medesimo Sole, il qual moto
è da ponente a levante, e per l'obliquità dell'orizonte ci sembra
declinare da mezzogiorno in settentrione. Se Apelle non supponesse che le
macchie girassero intorno al Sole, ma che solamente gli passassero sotto,
è vero che il moto loro doveria chiamarsi da levante a ponente; ma
supponendo che quelle gli descrivino intorno cerchii, e che ora gli siano
superiori ora inferiori, tali revoluzioni devono chiamarsi fatte da occidente
verso oriente, perché per tal verso si muovono quando sono nella parte
superiore de i loro cerchi.
Stabilito che ha
l'autore, che le macchie vedute non sono illusioni dell'occhiale o difetti
dell'occhio, cerca di determinare in universale qualche cosa circa il luogo
loro, mostrando che non sono né in aria né nel corpo solare. Quanto al primo,
la mancanza di parallasse notabile mostra di concluder necessariamente, le
macchie non esser nell'aria, cioè vicine alla Terra, dentro a quello
spazio che comunemente si assegna all'elemento dell'aria. Ma che le non possin
esser nel corpo solare, non mi par con intera necessità dimostrato;
perché il dire, come egli mette nella prima ragione, non esser credibile che
nel corpo solare siano macchie oscure, essendo egli lucidissimo, non conclude:
perché in tanto doviamo noi dargli titolo di purissimo e lucidissimo, in quanto
non sono in lui state vedute tenebre o impurità alcuna; ma quando ci si
mostrasse in parte impuro e macchiato, perché non doveremmo noi chiamarlo e
macolato e non puro? I nomi e gli attributi si devono accomodare all'essenza
delle cose, e non l'essenza a i nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi.
La seconda ragione concluderebbe necessariamente, quando tali macchie fussero
permanenti ed immutabili; ma di questa parlerò più di sotto.
Quello che in
questo luogo vien detto da Apelle, cioè che le macchie apparenti nel
Sole siano molto più negre di quelle che mai si siano vedute nella Luna,
credo che assolutamente sia falso; anzi stimo che le macchie vedute nel Sole
siano non solamente meno oscure delle macchie tenebrose che nella Luna si
scorgono, ma che le siano non meno lucide delle più luminose parti della
Luna, quand'anche il Sole più direttamente l'illustra: e la ragione che
a ciò creder m'induce, è tale. Venere nel suo esorto vespertino,
ancor che ella sia di così gran splendor ripiena, non si scorge se non
poi che è per molti gradi lontana dal Sole, e massime se amndue saranno
elevati dall'orizonte; e ciò avviene per esser le parti dell'etere,
circonfuse intorno al Sole, non meno risplendenti dell'istessa Venere: dal che
si può arguire, che se noi potessimo por la Luna accanto al Sole,
splendida dell'istessa luce che ella ha nel plenilunio, ella veramente
resterebbe invisibile, come quella che verria collocata in un campo non meno
splendente e chiaro della sua propria faccia. Ora pongasi mente, quando col
telescopio, cioè con l'occhiale, rimiriamo il lucidissimo disco solare,
quanto e quanto egli ci appar più splendido del campo che lo circonda;
ed, in oltre, paragoniamo la negrezza delle macchie solari sì con la
luce dell'istesso Sole come con l'oscurità dell'ambiente contiguo: e
troveremo, per l'uno e per l'altro paragone, non esser le macchie del Sole
più oscure del campo circonfuso. Se dunque l'oscurità delle macchie
solari non è maggior di quella del campo che circonda il medesimo Sole,
e se, di più, lo splendor ella Luna resterebbe impercettibile nella
chiarezza del medesimo ambiente, adunque per necessaria consequenza si
conclude, le macchie solari non esser punto men chiare delle parti più
splendide della Luna, ben che, situate nel fulgidissimo campo del disco solare,
ci si mostrino tenebrose e nere: e se esse non cedono di chiarezza alle
più luminose parti della Luna, quali saranno elleno in comparazione
delle più oscure macchie di essa Luna? e massime se noi volessimo
intender delle macchie tenebrose cagionate dalle proiezzioni dell'ombre delle
montuosità lunari, le quali in comparazione delle parti illuminate non
sono manco nere che l'inchiostro rispetto a questa carta. E questo voglio che
sia detto non tanto per contradire ad Apelle, quanto per mostrare come non
è necessario por la materia di esse macchie molto opaca e densa, quale
si deve ragionevolmente stimare che sia quella della Luna e de gli altri pianeti;
ma una densità ed opacità simile a quella di una nugola è
bastante, nell'interporsi tra 'l Sole e noi, a far una tale oscurità e
negrezza.
Quanto poi a
quello che l'Apelle in questo luogo accenna e che più diffusamente
tratta nella seconda epistola, cioè di poter con quella strada venir in
certezza se Venere e Mercurio faccino le loro revoluzioni sotto o pur intorno
al Sole, io mi sono alquanto maravigliato che non gli sia pervenuto
all'orecchie, o, se pur gli è pervenuto, che ei non abbia fatto capitale
del mezzo esquisitissimo, sensato e che frequentemente potrà usarsi,
scoperto da me quasi due anni sono, e communicato a tanti che ormai è
fatto notorio: e questo è, che Venere va mutando le figure nell'istesso
modo che la Luna, ed in questi tempi potrà Apelle osservarla col
telescopio, e la vedrà di figura perfetta circolare e molto piccola, se
bene assai minore si vedeva nel suo esorto vespertino; potrà poi
seguitare di osservarla, e la vedrà, intorno alla sua massima
digressione, in figura di mezzo cerchio; dalla qual figura ella passerà
alla forma falcata, assottigliandosi pian piano secondo che ella si
anderà avvicinando al Sole; intorno alla cui congiunzione si
vedrà così sottile come la Luna di due o tre giorni; la grandezza
del suo visibil cerchio sarà in guisa accresciuta, che ben si
conoscerà l'apparente suo diametro nell'esorto vespertino esser meno che
la sesta parte di quello che si mostrerà nell'occultazione vespertina o
esorto mattutino, ed in consequenza il suo disco apparir quasi 40 volte maggiore
in questa positura che in quella: le quali cose non lascieranno luogo ad alcuno
di dubitare qual sia la revoluzione di Venere, ma con assoluta necessità
conchiuderanno, conforme alle posizioni de i Pitagorici e del Copernico, il suo
rivolgimento esser intorno al Sole, intorno al quale come centro delle lor
revoluzioni, si raggirano tutti gli altri pianeti. Non occorre, dunque,
aspettar congiunzioni corporali per accertarsi di così manifesta
conclusione, né produr razioni soggette a qualche risposta, ben che debole, per
guadagnarsi l'assenso di quelli la cui filosofia viene stranamente perturbata
da questa nuova costituzion dell'universo; perché loro, quand'altro non gli
stringesse, diranno che Venere o risplenda per sé stessa, o sia di sustanza penetrabile
da i raggi solari, sì che ella venga illustrata non solamente secondo la
superficie, ma secondo tutta la profondità ancora; e tanto più
animosamente potranno farsi scudo di questa risposta, quanto non sono mancati
filosofi e matematici che hanno creduto così (e questo sia detto con
pace d'Apelle che scrive altramente), ed al Copernico medesimo convien amettere
come possibile, anzi pur come necessaria, una delle dette posizioni, non avendo
egli potuto render ragione in qual guisa Venere, quando è sotto 'l Sole,
non si mostri cornicolata: e veramente altro non poteva dirsi avanti che il
telescopio venisse a farci vedere come ella è veramente per sé stessa
tenebrosa come la Luna, e che come quella va mutando figure. Ma io, oltre a
ciò, posso muover gran dubbio nell'inquisizione d'Apelle, mentre egli,
nella congiunzione presa da lui, cerca di veder Venere nel disco del Sole,
supponendo che veder vi si dovrebbe in guisa d'una macchia assai maggiore
d'alcuna delle vedute, essendo il suo visibil diametro minuti tre, ed in
consequenza la sua superficie più di una delle centotrenta parti di
quella del Sole: ma ciò, con sua pace, non è vero, ed il visibil
diametro di Venere non era allora né anco la sesta parte di un minuto, e la sua
superficie era minore di una delle quarantamila parti della superficie del
Sole, sì come io so per sensata esperienza ed a suo tempo farò
manifesto ad ogn'uno. Vegga dunque V. S. gran campo che si lascerebbe a coloro
che volessero pur con Tolomeo ritener Venere sotto il Sole, i quali potrebbon
dire che in vano si cercasse di veder un sì picciol neo nell'immensa e
lucidissima faccia di quello. E finalmente aggiungo, che tale esperienza non
convincerà necessariamente quelli che negassero la revoluzione di Venere
intorno al Sole, perché potrebbon sempre ritirarsi a dire che ella fosse
superior al Sole, fortificandosi appresso con l'autorità di Aristotele
che tale la stimò. Non basta, dunque, che Apelle mostri che Venere nelle
corporali congiunzioni mattutine non passa sotto 'l Sole, se egli non mostrasse
ancora come nelle congiunzioni vespertine ella gli passasse sotto: ma tali
congiunzioni vespertine, che siano però corporali, si fanno rarissime
volte, ed a noi non succederà il poterne vedere: adunque l'argomento
d'Apelle è manchevole per concluder il suo intento.
Vengo ora alla
terza lettera, nella quale Apelle più risolutamente determina del luogo,
del movimento e della sustanza di queste macchie, concludendo che siano stelle,
le quali, poco lontane dal corpo solare, intorno se gli vadino volgendo alla
guisa di Mercurio e di Venere.
Per determinar
del luogo comincia a dimostrar, quelle non esser nell'istesso corpo del Sole,
il quale col rivolgersi in sé stesso ce le rappresenti mobili; perché, passando
il veduto emisfero in giorni quindici, doveriano ogni mese ritornar l'istesse,
il che non succede.
L'argomento
sarebbe concludente, tuttavolta che prima constasse che tali macchie fussero
permanenti, cioè che non si producessero di nuovo, ed anco si
cancellassero e svanissero; ma chi dirà che altre si fanno ed altre si
disfanno, potrà anco sostenere che il Sole, rivolgendosi in sé stesso,
le porti seco senza necessità di rimostrarci mai le medesime, o nel
medesimo ordine disposte, o delle medesime forme figurate. Ora, il provar che
elle sian permanenti, l'ho per cosa difficile, anzi impossibile ed a cui il
senso repugni; ed il medesimo Apelle ne averà vedute alcune mostrarsi,
nel primo apparir, lontane dalla circonferenza del Sole, ed altre svanire e
perdersi prima che finischino di traversare il Sole, perché io ancora di tali
ne ho osservate molte. Non però affermo o nego che le siano nel Sole, ma
solamente dico non esser a sufficienza stato dimostrato che le non vi siino.
Nel resto poi,
che l'autore soggiugne per dimostrare che le non sono in aria o in alcun de gli
orbi inferiori al Sole, mi par di scorgervi qualche confusione, ed in un certo
modo incostanza, ripigliand'ei, pur come vero, l'antico e comune sistema di
Tolomeo, della cui falsità ei medesimo poco avanti ha mostrato di essersi
accorto, mentre che ha concluso che Venere non ha altramente la sua sfera
inferiore al Sole, ma che intorno a quello si raggira, essendo ora di sopra ed
ora di sotto, ed affermato l'istesso di Mercurio, le cui digressioni, essendo
assai minori di quelle di Venere, necessitano a porlo più propinquo al
Sole; tuttavia in questo luogo, quasi rifiutando quella che egli ha poco fa
creduta, e che in effetto è, verissima costituzione, introduce la falsa,
facendo alla Luna succeder Mercurio, ed a lui Venere. Volsi scusar questo poco
di contradizione con dir che egli non avesse fatto stima di nominar, dopo la
Luna, prima Mercurio che Venere, o questa che quello, come che poco importasse
il registrargli preposteramente in parole, pur che in fatto si ritenessero
nella vera disposizione: ma il vedergli poi provar per via della parallasse che
le macchie solari non sono nella sfera di Mercurio, e soggiugner che tal mezzo
non sarebbe per avventura efficace in Venere per la piccolezza della parallasse
simile a quella del Sole, rende nulla la mia scusa, perché Venere averà
delle parallassi maggiori assai che quelle di Mercurio e del Sole.
Parmi per tanto
di scorgere che Apelle, come d'ingegno libero e non servile, e capacissimo
delle vere dottrine, cominci, mosso dalla forza di tante novità, a dar
orecchio ed assenso alla vera e buona filosofia, e massime in questa parte che
concerne alla costituzione dell'universo, ma che non possa ancora staccarsi
totalmente dalle già impresse fantasie, alle quali torna pur talora l'intelletto
abituato dal lungo uso a prestar l'assenso: il che si scorge altresì,
pur in questo medesimo luogo, mentre egli cerca di dimostrare che le macchie
non sono in alcun de gli orbi della Luna di Venere o di Mercurio, dove ei va
ritenendo come veri e reali e realmente tra loro distinti e mobili quelli
eccentrici totalmente o in parte, quei deferenti, equanti, epicicli etc., posti
da i puri astronomi per facilitar i lor calcoli, ma non già da ritenersi
per tali da gli astronomi filosofi, li quali, oltre alla cura del salvar in
qualunque modo l'apparenze, cercano d'investigare, come problema massimo ed
ammirando, la vera costituzione dell'universo, poi che tal costituzione
è, ed è in un modo solo, vero, reale ed impossibile ad esser
altramente, e per la sua grandezza e nobiltà degno d'esser anteposto ad
ogn'altra scibil questione da gl'ingegni specolativi. Io non nego già i
movimenti circolari intorno alla Terra e sopra altro centro che quello di lei,
né tanpoco gli altri moti circolari separati totalmente dalla Terra, cioé che
non la circondano e riserrano dentro i cerchi loro; perché Marte, Giove e
Saturno, con i loro appressamenti e discostamenti, mi accertano di quelli, e
Venere e Mercurio e più i quattro pianeti Medicei; mi fanno toccar con
mano questi, e per consequenza son sicurissimo che ci sono moti circolari che
descrivono cerchi eccentrici ed epicicli: ma che per descriverli tali la natura
si serva realmente di quella faragine di sfere ed orbi figurati da gli
astronomi, ciò reputo io così poco necessario a credersi, quanto
accomodato all'agevolezza de' computi astronomici; e sono d'un parer medio tra
quegli astronomi li quali ammettono non solo i movimenti eccentrici delle
stelle, ma gli orbi e le sfere ancora eccentriche, le quali le conduchino, e
quei filosofi che parimente negano e gli orbi e i movimenti ancora intorno ad
altro centro che quello della Terra. Però, mentre si tratta d'investigar
il luogo delle macchie solari, avrei desiderato che Apelle non l'avesse
scacciate da un luogo reale che si trova tra gli immensi spazii ne i quali si
raggirano i piccioli corpicelli della Luna di Venere e di Mercurio, scacciate,
dico, in virtù d'una immaginaria supposizione, che tali spazii sieno
interamente occupati da orbi eccentrici epicicli e deferenti, disposti, anzi
necessitati, a portar con loro ogn'altro corpo che in essi venisse situato,
sì ch'ei non potesse per se stesso vagare verso niun'altra banda, se non
dove con troppo dura catena il ciel ambiente gli rapisse: e tanto meno vorrei
questo, quanto io veggo il medesimo Apelle a canto a canto conceder questo
stesso che prima avea negato. Avea detto che le macchie non possono essere in
alcuno de gli orbi della Luna di Venere o di Mercurio, perché se in quelli
fossero, seguiterebbono il movimento loro: suppone, dunque, che elleno
movimento alcuno proprio aver non vi potessero: concludendo poi che le siano
nell'orbe del Sole, ammette che le vi si muovino con revoluzioni proprie;
sì che le siano potenti a vagar per la solare sfera: ma se mi
sarà conceduto che le possino muoversi per il cielo del Sole, non
doverà essermi negato che le possino similmente discorrer per quel di
Venere; e se mi vien conceduto il muoversi un poco ed il non ubbidire
interamente al rapimento della sfera continente, io non averò per
inconveniente il muoversi molto e 'l non ubbidir punto.
Io non voglio
passar un altro poco di scrupolo che mi nasce sopra questo medesimo luogo, nel
chiuder che fa Apelle la sua ultima illazione: dove par ch'ei determini che le
macchie siano finalmente nel ciel del Sole (ed è ben necessario il
porvele, poi che, per suo parere, le si raggirano intorno ad esso, ed in cerchi
molto angusti); soggiugne poi, quelle non poter essere nell'eccentrico del
Sole, né negli eccentrici “secundum quid”, né in altro orbe, e altro ve ne
fosse. Or qui non posso intendere, in qual modo e possino essere nel cielo del
Sole ed intorno al corpo solare aggirarsi, senza esser in alcun de gli orbi de'
quali la sfera del Sole vien composta.
Li tre argomenti
che Apelle pone appresso per necessariamente convincenti, le macchie muoversi
circolarmente intorno al Sole, par che abbino ben assai del probabile; non
però mancano di qualche ragione di dubitare. Quanto al primo, lo scemar
la larghezza delle macchie vicino al lembo del Sole darebbe segno che le
fussero stelle, che girandosi in cerchi poco più ampli del corpo solare,
cominciassero a mostrar la parte illustrata alla guisa della Luna o di Venere,
onde la parte tenebrosa venisse a diminuirsi. Se non che ad alcuni che
diligentemente hanno osservato, pare che la diminuzione delle tenebre si faccia
al contrario di quello che bisognerebbe, cioè non nella parte che
risguarda verso il centro del Sole, ma nell'aversa; ed a me non appare altro,
se non che le si assottigliano. Quanto al secondo, il dividersi quella, che
vicino alla circonferenza pareva una macchia sola, in molte, ha questa
difficoltà, che anco nella parti di mezzo si scorgono grandissime
mutazioni d'accrescimento, di diminuzione, di accoppiamento e di separazione
tra esse macchie; ed io porrò appresso alcune mutazioni osservate da me.
La differenza poi che si scorge tra la velocità del moto loro circa le
parti medie e la tardità nell'estreme, presa per il terzo argomento,
essendo, come pare, molto notabile, parrebbe che arguisse più presto, quelle
dover esser nell'istesso corpo solare e muoversi al movimento di quello in sé
stesso, che il raggirarsegli intorno in altri cerchi, perché simil differenza
di velocità resterebbe quasi impercettibile al semplice senso, ogni
volta che tali cerchi per qualche notabile spazio, ben che non molto grande, si
allargassero dalla superficie del Sole, come nella medesima figura posta da
Apelle si comprende. E qui par che nasca in lui un poco di contradizzione a sé
stesso: perché in questo luogo è necessario porre i cerchi delle
conversioni delle macchie vicinissimi al globo solare; altramente
l'accrescimento della velocità del moto, e la separazione ed
allontanamento delle macchie verso il mezzo del disco, le quali presso alla
circonferenza mostravano di toccarsi, resterebbono nulli: all'incontro,
dall'argomento col quale ei poco di sopra provò le macchie non esser
contigue al Sole, bisogna che necessariamente ei concludesse, i detti cerchi
esser dal medesimo assai lontani; poi che solamente la quinta parte al più
della lor circonferenza poteva restar interposta tra 'l disco solare e l'occhio
nostro, già che, traversando le macchie l'emisfero veduto in 15 giorni,
non erano ancora ritornate a comparire in due mesi. Bisogna, dunque,
diligentemente osservare con qual proporzione vada crescendo, e poi diminuendo,
la detta velocità dal primo apparir di qualche macchia all'ultimo
ascondersi; perché da tal proporzione si potrà poi arguire, se il
movimento suo è fatto nella superficie stessa del corpo solare, o pure
in qualche cerchio da quella separato, posto però che tal mutazione di
macchie dependa da semplice movimento circolare.
Restaci da
considerar quello che Apelle determina circa l'essenza e sustanza di esse
macchie: ch'è in somma, che le non siano né nugole né comete, ma stelle
che vadino raggirandosi intorno al Sole. Circa a cotal determinazione, io
confesso a V. S. non aver sin ora tanto di resoluto appresso di me, ch'io
m'assicuri di stabilire ed affermare conclusione alcuna come certa; essendo
molto ben sicuro, la sustanza delle macchie poter essere mille cose incognite
ed inopinabili a noi, e gli accidenti che in esse scorgiamo, cioè la
figura l'opacità ed il movimento, per esser comunissimi, o niuna o poca
e molto general cognizione ci possono somministrare: onde io non crederei che
di biasimo alcuno fosse degno quel filosofo, il qual confessasse di non sapere,
e di non poter sapere, qual sia la materia delle macchie solari. Ma se noi
vorremo, con una certa analogia alle materie nostre familiari e conosciute, proferir
qualche cosa di quello che le sembrino di poter essere, io sarei veramente di
parere in tutto contrario all'Apelle; perché ad esse non mi par che si adatti
condizione alcuna dell'essenziali che competono alle stelle, ed all'incontro
non trovo in quelle condizione alcuna, che di simili non si vegghino nelle
nostre nugole. Il che troveremo discorrendo in tal guisa.
Le macchie
solari si producono e si dissolvono in termini più e men brevi; si
condensano alcune di loro e si distraggono grandemente da un giorno all'altro;
si mutano di figure, delle quali le più sono irregolarissime, e dove
più e dove meno oscure, ed essendo o nel corpo solare o molto a quello
vicine, è necessario che siano moli vastissime; sono potenti, per la
loro difforme opacità, a impedir più e meno l'illuminazion del
Sole; e se ne producono talora molte, tal volta poche, ed anco nessuna. Ora,
moli vastissime ed immense, che in tempi brevi si produchino e si dissolvino, e
che talora durino più lungo tempo e tal ora meno che si distragghino e
si condensino, che facilmente vadino mutandosi di figura, che siano in queste
parti più dense ed opache ed in quelle meno, altre non si trovano
appresso di noi fuori che le nugole; anzi, che tutte l'altre materie sono
lontanissime dalla somma di tali condizioni. E non è dubbio alcuno, che
se la Terra fosse per sé stessa lucida, e che di fuori non li sopragiugnesse
l'illuminazione del Sole, a chi potesse da grandissima lontananza risguardarla,
ella veramente farebbe simili apparenze: perché, secondo che or questa ed or
quella provincia fosse dalle nuvole ingombrata, si mostrerebbe sparsa di
macchie oscure, dalle quali, secondo la maggior o minor densità delle
lor parti, verrebbe più o meno impedito lo splendor terrestre; onde esse
dove più e dove meno oscure apparirebbono; vedrebbonsene or molte; or
poche, ora allargarsi, ora ristringersi; e se la Terra in sé stessa si
rivolgesse, quelle ancora il suo moto seguirebbono; e per esser di non molta
profondità rispetto all'ampiezza secondo la quale comunemente elle si
distendono, quelle che nel mezzo dell'emisfero veduto apparirebbono molto
larghe, venendo verso l'estremítà parrebbono ristringersi; ed in somma
accidente alcuno non credo che si scorgesse, che simile non si vegga nelle
macchie solari. Ma perché la Terra è oscura, e l'illuminazione viene dal
lume esterno del Sole, se ora potesse da lontanissimo luogo esser veduta, non
si vedrebbe assolutamente in lei negrezza o macchia alcuna cagionata dallo
spargimento delle nugole, perché queste ancora riceverebbono e refletterebbono
il lume del Sole. [...]
Da queste
osservazioni e da altre fatte, e da quelle che potranno di giorno in giorno
farsi, manifestamente si raccoglie, niuna materia esser tra le nostre, che
imiti più gli accidenti di tali macchie, che le nugole: e le ragioni che
Apelle adduce per mostrar che le non possin esser tali, mi paiono di pochissima
efficacia. Perché al dir egli: “Chi porrebbe mai nubi intorno al Sole?”,
risponderei: “Quello che vedesse tali macchie, e che volesse dir qualche verisimile
della loro essenza; perché non troverà cosa alcuna da noi conosciuta che
più le rassimigli.” All'interrogazione ch'ei fa, quant'esse fussero
grandi, direi: “Quali noi le veggiamo essere in comparazione del Sole; grandi
quanto quelle che talvolta occupano una gran provincia della Terra”; e se tanto
non bastasse, direi due, tre, quattro e dieci volte tanto. E finalmente, al
terzo impossibile ch'ei produce, come esse potessero far tant'ombra,
risponderei, la lor negrezza esser minore di quella che ci rappresenterebbono
le nostre nugole più dense, quando tra l'occhio nostro ed il Sole
fossero interposte: il che si potrà osservare benissimo, quando tal
volta una delle più oscure nugole ricuopre una parte del Sole, e che
nella parte scoperta vi sia alcuna delle macchie, perché si scorgerà tra
la negrezza di questa e di quella non piccola differenza, ancor che
l'estremità della nugola, che traversa il Sole, non possa esser di gran
profondità; perloché possiamo arguire che una crassissima nugola
potrebbe far una negrezza molto maggiore di quella delle più scure
macchie. Ma quando pur ciò non fosse, chi ci vieterebbe il credere e
dire, alcuna delle nubi solari esser più densa e profonda delle terrene?
Io non per
questo affermo, tali macchie esser nugole della medesima sustanza delle nostre,
costituite da vapori aquei sollevati dalla Terra ed attratti dal Sole; ma solo
dico che noi non aviamo cognizione di cosa alcuna che più le rassimigli:
siano poi o vapori, o esalazioni, o nugole, o fumi prodotti dal corpo solare, o
da quello attratti da altre bande, questo a me è incerto, potendo esser
mille altre cose impercettibili da noi.
Dalle cose dette
si può raccòrre, come a queste macchie mal convenga il nome di
stelle: poi che le stelle, o siano fisse o siano erranti, mostrano di mantener
sempre la loro figura, e questa essere sferica; non si vede che altre si
dissolvino ed altre di nuovo si produchino, ma sempre si conservano le
medesime; ed hanno i movimenti loro periodici, li quali dopo alcun determinato
tempo ritornano: ma queste macchie non si vede che ritornino le medesime, anzi
all'incontro alcune si veggono dissolvere in faccia del Sole; e credo che in
vano si aspetti il ritorno di quelle che par ad Apelle che possino rivolgersi
intorno al Sole in cerchi molto angusti. Mancano, dunque, delle principali
condizioni che competono a quei corpi naturali a i quali noi abbiamo attribuito
il nome di stelle. Che poi le si debbino chiamare stelle perché son corpi
opachi, e più densi della sostanza del cielo, e però che resistino
al Sole, e da quello grandemente venghino illustrate in quella parte
ch'è percossa da i raggi, e dall'opposta produchino ombra molto profonda
etc., queste son condizioni che competono ad ogni sasso, al legno, alle nugole
più dense, ed in somma a tutti i corpi opachi: ed una palla di marmo
resiste per la sua opacità al lume del Sole, da quello viene illustrata,
come la Luna o Venere, e dalla parte opposta produce ombra, tal che per questi
rispetti potrebbe nominarsi una stella; ma perché gli mancano l'altre
condizioni più essenziali, delle quali sono altresì spogliate le
macchie solari, però par che il nome di stella non deva esserli
attribuito.
Io non vorrei
già, che Apelle annumerasse in questa schiera come egli fa, i compagni
di Giove (credo che voglia intender de' quattro pianeti Medicei); perché loro
si mostrano costantissimi come ogn'altra stella, sempre lucidi, eccetto che
quando incorrono nell'ombra di Giove, perché allora s'eclissano, come la Luna
in quella della Terra; hanno i lor periodi ordinatissimi e tra di loro
differenti, e già da me precisamente ritrovati; né si muovono in un
cerchio solo, come Apelle mostra o d'aver creduto o almeno pensato che altri
abbino creduto, ma hanno i lor cerchi distinti e di grandezze diverse, intorno a
Giove come lor centro, le quali grandezze ho parimente ritrovate; come anco mi
son note le cause del quando e perché or l'uno or l'altro di loro declina o
verso borea o verso austro in relazione a Giove, e forse potrei aver le
risposte all'obiezzioni che Apelle accenna cadere in questa materia, quando ei
l'avesse specificate. Ma che tali pianeti siano più de i quattro sin qui
osservati, come Apelle dice di tener per certo, forse potrebbe esser vero; e
l'affermativa così resoluta di persona, per quel ch'io stimo, molto
intendente, mi fa creder ch'ei ne possa aver qualche gran coniettura, della
quale io veramente manco: e però non ardirei d'affermare cosa alcuna,
perché dubiterei di non m'aver poi col tempo a disdire. E per questo medesimo
rispetto non mi risolverei a porre intorno a Saturno altro che quello che
già osservai e scopersi, cioè due piccole stelle, che lo toccano
una verso levante e l'altra verso ponente, nelle quali non s'è mai per
ancora veduta mutazione alcuna, né resolutamente è per vedersi per
l'avvenire, se non forse qualche stravagantissimo accidente, lontano non pur da
gli altri movimenti cogniti a noi, ma da ogni nostra immaginazione. Ma quella
che pone Apelle, del mostrarsi Saturno ora oblongo ed or accompagnato con due
stelle a i fianchi, creda pur V. S. ch'è stata imperfezzione dello
strumento o dell'occhio del riguardante; perché, sendo la figura di Saturno
così oOo, come mostrano alle perfette viste i perfetti strumenti, dove
manchi tal perfezzione apparisce così O non si distinguendo perfettamente la separazione e figura
delle tre stelle. Ma io, che mille volte in diversi tempi con eccellente
strumento l'ho riguardato, posso assicurarla che in esso non si è scorta
mutazione alcuna: e la ragione stessa, fondata sopra l'esperienze che aviamo di
tutti gli altri movimenti delle stelle, ci può render certi che
parimente non vi sia per essere; perché, quando in tali stelle fosse movimento
alcuno simile a i movimenti delle Medicee o di altre stelle, già
doveriano essersi separate o totalmente congiunte con la principale stella di
Saturno, quando anche il movimento loro fosse mille volte più tardo di
qualsivoglia altro di altra stella che vadia vagando per lo cielo.
A quello che da
Apelle vien posto per ultima conclusione cioè che tali macchie siano
più presto stelle erranti che fisse, e che tra il Sole e Mercurio e
Venere ce ne siano assaissime, delle quali quelle sole ci si manifestino che
s'interpongono tra il Sole e noi; dico, quanto alla prima parte, che non credo
che le siano né erranti né fisse né stelle, né meno che si muovino intorno al
Sole in cerchi separati e lontani da quello: e se ad un amico padrone dovessi
dir in confidenza l'opinion mia, direi che le macchie solari si producessero e
dissolvessero intorno alla superficie del Sole, e che a quella fossero
contigue, e che il medesimo Sole, rivolgendosi in sé stesso in un mese lunare
in circa, le portasse seco, e forse riconducendone tal volta alcuna di loro di
più lunga durazione che non è il tempo d'una sua conversione, ma
tanto mutate di figura e di accompagnature, che non possiamo agevolmente
riconoscerle: e per quanto sin ora s'estende la mia coniettura, ho grande
speranza che V. S. abbia a vedere questo negozio terminato in questo che gli ho
accennato. Che poi possa essere qualche altro pianeta tra il Sole e Mercurio,
il quale si vadia movendo intorno al Sole, ed a noi resti invisibile per le sue
piccole digressioni e solo potesse farcisi sensibile quando passasse
linearmente sotto il disco solare, ciò non ha appresso di me improbabilità
alcuna, e parmi egualmente credibile che non vene siano e che vene siano: ma
non crederei già gran moltitudine, perché se fossero in gran numero,
ragionevolmente spesso se ne doverebbe vedere alcuno sotto il Sole, il che a me
sin ora non è accaduto, né vi ho veduto altro che di queste macchie; e
non ha del probabile che tra quelle possa esser passata alcuna sì fatta
stella, ben che questa ancora fosse per mostrarsi, quant'all'aspetto, in forma
d'una macchia nera. Non ha, dico, del probabile, perché il movimento suo
doverebbe apparire uniforme, e velocissimo rispetto a quel delle macchie:
velocissimo, perché, movendosi in cerchio minore di quello di Mercurio,
è verisimile secondo l'analogia de i movimenti di tutti gli altri
pianeti, che 'l suo periodo fosse più breve, ed il suo moto più
veloce del moto del periodo di Mercurio; il qual Mercurio nel passar sotto il
Sole traversa il suo disco in 6 ore in circa, tal che altro pianeta più
veloce di moto non gli doverebbe restar congiunto per più lungo spazio;
se già non si volesse far muovere in un cerchio così piccolo, che
quasi toccasse il corpo solare, il che par che avesse poi troppo del chimerico;
ma in cerchi pur che fussero di diametro due o tre volte maggior del diametro
del Sole, seguirebbe quanto ho detto: ora le macchie restano molti giorni
congiunte col Sole: adunque tra loro, o sotto loro spezie, non è
credibile che passi pianeta alcuno. Il quale, oltre alla velocità,
doverebbe ancora muoversi quasi uniformemente, sendo però per qualche
spazio notabile distante dal Sole: perché poca parte del suo cerchio resterebbe
sottoposta al Sole, e quella poca, diretta e non obliquamente opposta a i raggi
dell'occhio nostro; per lo che parti eguali di lei sarebbon vedute sotto angoli
insensibilmente diseguali, cioè quasi eguali, onde il moto in essa
apparirebbe uniforme: il che non accade nel moto delle macchie, le quali
velocemente trapassano le parti di mezzo, e quanto più sono vicine alla
circonferenza, tanto più pigramente caminano. Poche, dunque, in numero
possono essere verisimilmente le stelle che tra il Sole e Mercurio vadano
vagando, e meno tra Mercurio e Venere: perché, avendo queste necessariamente le
lor massime digressioni maggiori di quelle di Mercurio, doverebbono, nella
guisa di Venere e dell'istesso Mercurio, esser visibili, come splendide, e
massime sendo poco distanti dal Sole e dalla Terra; sì che per la poca
lontananza da noi e per l'efficace illuminazione del Sole vicino si farebbono
vedere, mediante la vivezza del lume, quando ben fossero piccolissime di mole.
Io conosco
d'aver con gran lunghezza di parole e con poca resoluzione soverchiamente
tediato V. S. Illustrissima. Riconosca nella lunghezza il gusto che ho di
parlar seco, ed il desiderio di obedirla e servirla, pur che le forze me 'l
permettessero; e per questi rispetti perdoni la troppa loquacità, e
gradisca la prontezza dell'affetto: la irresoluzione resti scusata per la
novità e difficoltà della materia, nella quale i vari pensieri e
le diverse opinioni che per la fantasia sin ora mi son passate, or trovandovi
assenso or repugnanza e contradizzione, m'hanno reso in guisa timido e
perplesso, che non ardisco quasi d'aprir bocca per affermar cosa nessuna. Non
per questo voglio disperarmi ed abbandonar l'impresa, anzi voglio sperar che
queste novità mi abbino mirabilmente a servire per accordar qualche
canna di questo grand'organo discordato della nostra filosofia; nel qual mi par
veder molti organisti affaticarsi in vano per ridurlo al perfetto temperamento,
e questo perché vanno lasciando e mantenendo discordate tre o quattro delle
canne principali, alle quali è impossibile cosa che l'altre rispondino
con perfetta armonia.
Io desidero,
come servitore di S. V., esser a parte dell'amicizia che tien con Apelle,
stimandolo io persona di sublime ingegno ed amator del vero: però la
supplico a salutarlo caramente in mio nome, facendogl'intendere che fra pochi
giorni gli manderò alcune osservazioni e disegni delle macchie solari
d'assoluta giustezza, sì nelle figure d'esse macchie come ne' siti di
giorno in giorno variati, senza error d'un minimo capello, fatte con un modo
esquisitissimo ritrovato da un mio discepolo, le quali potranno essergli per
avventura di giovamento nel filosofare circa la loro essenza. È tempo di
finir di noiarla: però, baciandogli con ogni riverenza le mani, nella
sua buona grazia mi raccomando, e dal Signore Dio gli prego somma
felicità.
Dalla Villa
delle Selve, li 4 di Maggio 1612.
Di V. S.
Illustrissima
Devotissimo
Servitore
Galileo Galilei L.
VIIIb
SECONDA LETTERA DEL SIG. GALILEO
GALILEI
AL SIG. MARCO VELSERI DELLE
MACCHIE SOLARI
(Firenze, 14 agosto 1612)
Illustrissimo
Sig. e Padron Colendissimo,
Inviai
più giorni sono una mia lettera assai lunga a V. S. Illustrissima,
scritta in proposito delle cose contenute nelle tre lettere del finto Apelle,
dove promossi quelle difficoltà che mi ritraevano dal prestar assenso
alle opinioni di quello autore, e più le accennai in parte dove
inclinava allora il mio pensiero; dalla quale inclinazione io non pure da quel
tempo in qua non mi sono rimosso, ma totalmente mi vi sono confermato,
mostrandomi le continuate osservazioni di giorno in giorno, con ogni rincontro
possibile ad aversi e col mancamento di qualsivoglia contradizzione, essersi la
mia opinione incontrata col vero: di che mi è parso darne conto a V. S.,
con l'occasione del mandargli alcune figure di esse macchie con giustezza
disegnate, ed anco il modo del disegnarle, insieme con una copia di un mio
trattatello intorno alle cose che stanno sopra l'acqua o che in essa
descendono, che pur ora si è finito di stampare.
Replico dunque a
V. S. Illustrissima e più resolutamente confermo, che le macchie oscure,
le quali col mezo del telescopio si scorgono nel disco solare, non sono
altramente lontane dalla superficie di esso, ma gli sono contigue, o separate
di così poco intervallo, che resta del tutto impercettibile: di
più, non sono stelle o altri corpi consistenti e di diuturna durazione,
ma continuamente altre se ne producono ed altre se ne dissolvono, sendovene di
quelle di breve durazione, come di uno, due o tre giorni, ed altre di
più lunga, come di 10, 15 e, per mio credere, anco di 30 e 40 e
più, come appresso dirò: sono per lo più di figure
irregolarissime, le quali figure si vanno mutando continuamente, alcune con
preste e differentissime mutazioni, ed altre con più tardezza e minor
variazione: si vanno ancora alterando nell'incremento e decremento
dell'oscurità, mostrando come tal ora si condensano e tal ora si
distraggono e rarefanno; oltre al mutarsi in diversissime figure,
frequentemente si vede alcuna di loro dividersi in tre o quattro, e spesso
molte unirsi in una, e ciò non tanto vicino alla circonferenza del disco
solare, quanto ancora circa le parti di mezo: oltre a questi disordinati e
particolari movimenti, di aggregarsi insieme e disgregarsi, condensarsi e
rarefarsi e cangiarsi di figure, hanno un massimo comune ed universal moto, col
quale uniformemente ed in linee tra di loro parallele vanno discorrendo il
corpo del Sole: da i particolari sintomi del qual movimento si viene in
cognizione, prima, che il corpo del Sole è assolutamente sferico;
secondarianente, ch'egli in sé stesso e circa il proprio centro si raggira,
portando seco in cerchi paralleli le dette macchie, e finendo una intera conversione
in un mese lunare in circa, con rivolgimento simile a quello de gli orbi de i
pianeti, cioè da occidente verso oriente. Di più, è cosa
degna di esser notata, come la moltitudine delle macchie par che caschi sempre
in una striscia o vogliamo dir zona del corpo solare, che vien compresa tra due
cerchi che rispondono a quelli che terminan le declinazioni de i pianeti, e
fuori di questi limiti non mi par di aver sin ora osservata macchia alcuna, ma
tutte dentro a tali confini; sì che né verso borea né verso austro
mostrano di declinar dal cerchio massimo della conversion del Sole più
di 28 0 29 gradi in circa.
Le loro
differenti densità e negrezze, le mutazioni di figure e gli accozzamenti
e le separazioni sono per sé stesse manifeste a senso, senz'altro bisogno di
discorso; onde basteranno alcuni semplici rincontri di tali accidenti sopra i
disegni che gli mando, li quali faremo più a basso: ma che le siano
contigue al Sole e che a rivolgimento di quello venghino portate in giro, ha
bisogno che la ragione discorrendo lo deduca e concluda da certi particolari
accidenti che le sensate osservazioni ci somministrano.
E prima, il
vederle sempre muoversi con un moto universale e comune a tutte, ancor che in
numero ben spesso siano più di 20 ed ancor 30, era fermo argomento, una
sola esser la causa d tale apparente mutazione, e non che ciascheduna da per sé
andasse vagando nella guisa de i pianeti intorno al corpo solare, e molto meno
in diversi cerchi e diverse distanze dal medesimo Sole; onde si doveva necessariamente
concludere, o che elle fossero in un orbe solo, il quale a guisa di stelle
fisse le portasse intorno al Sole, o vero che le fossero nell'istesso corpo
solare, il quale, rivolgendosi in sé stesso, seco le conducesse. Delle quali
due posizioni, questa seconda, per mio parere, è vera, e l'altra falsa;
sì come falsa ed impossibile si troverà esser qualsivoglia altra
posizione che assumere si volesse, come tenterò di dimostrare col mezo
di manifeste repugnanze e contradizzioni.
All'ipotesi che
le siano contigue alla superficie del Sole e che dal rivolgimento di quello
venghino portate in volta, rispondono concordemente tutte l'apparenze, senza
che s'incontri inconveniente o difficoltà veruna. Per il che dichiarar,
è ben che determiniamo nel globo del Sole i poli, i cerchi, le lunghezze
e le larghezze, conformi a quelle che noi intendiamo nella celeste sfera.
Però, dunque, quando il Sole si rivolga in sé stesso e sia di superficie
sferica, i due punti stabili si diranno i suoi poli, e tutti gli altri punti
notati nella sua superficie descriveranno circonferenze di cerchi paralleli fra
di loro, maggiori o minori secondo la maggiore o minore distanza da i poli; e
massimo sarà il cerchio di mezzo, egualmente distante da ambedue i poli.
La longitudine o lunghezza della superficie solare sarà la dimensione
che si considera secondo l'estensione delle circonferenze de' cerchi detti; ma
la latitudine o larghezza sarà la dilatazione per l'altro verso,
cioè dal cerchio massimo verso i poli: onde la lunghezza delle macchie
si chiamerà la dimensione presa con una linea parallela a i sopradetti
cerchii, cioè presa per quel verso secondo 'l quale si fa la conversione
del Sole; e la larghezza s'intenderà esser quella che s'estende verso i
poli, e che vien determinata da una linea perpendicolare alla linea della
lunghezza.
Dichiarati
questi termini, cominceremo a considerar tutti i particolari accidenti che si
osservano nelle macchie solari, da i quali si possa venire in cognizione del
sito e movimento loro. E prima, il mostrarsi generalmente le macchie, nel lor
primo apparir e nell'ultimo occultarsi vicino alla circonferenza del Sole, di
pochissima lunghezza ma di larghezza eguale a quella che hanno quando sono
nelle parti più interne del disco solare; a quelli che intenderanno, in
virtù di perspettiva, ciò che importi lo sfuggimento della
superficie sferica vicino all'estremità dell'emisfero veduto,
sarà manifesto argomento sì della globosità del Sole, come
della prossimità delle macchie alla solar superficie, e del venir esse
poi portate sopra la medesima superficie verso le parti di mezo, scoprendosi
sempre accrescimento nella lunghezza e mantenendosi la medesima larghezza. E se
bene non tutte si mostrano, quando sono vicinissime alla circonferenza,
egualmente attenuate e ridotte a una sottigliezza d'un filo, ma alcune formano
il loro ovato più gracile ed altre meno, ciò proviene perché le
non sono semplici macchie superficiali, ma hanno grossezza ancora, o vogliamo
dir altezza, ed altre maggiore, altre minore; sì come nelle nostre
nugole accade, le quali, distendendosi per lo più, quanto alla lunghezza
e larghezza, decine e tal or centinaia di miglia, quanto poi alla grossezza son
ben or più ed or meno profonde, ma non si vede che tal profondità
passi molte centinaia o al più migliaia di braccia. Così, potendo
esser la grossezza delle macchie solari, ancor che picciola in comparazione
dell'altre due dimensioni, maggiore in una macchia e minore in un'altra,
accaderà che le macchie più sottili, vicine alla circonferenza
del Sole, dove vengono vedute per taglio, si mostrino gracilissime (e massime
perché la metà interiore di esso taglio viene illustrata dal lume
prossimo del Sole), ed altre di maggior profondità apparischino
più grosse. Ma che molte di loro si riducessero alla sottigliezza di un
filo, come l'esperienza ci insegna, ciò non potrebbe in conto alcuno
accadere se il movimento col quale mostrano di traversare il disco del Sole
fosse fatto in cerchii lontani, ben che per breve intervallo, dal globo solare;
perché la diminuzion grande delle lunghezze si fa sullo sfuggimento massimo,
cioè su la svolta del cerchio, la quale verrebbe a cascar fuori del
corpo del Sole, quando le macchìe fossero portate in circonferenze per
qualche spazio notabile lontane dalla superficie di lui.
Notasi, nel
secondo luogo, la quantità de gli spazii apparenti secondo i quali le
macchie medesime mostrano di andarsi movendo di giorno in giorno; ed osservasi
che gli spazii passati in tempi eguali dalla medesima macchia appariscono
sempre minori, quanto più si trovano vicini alla circonferenza del Sole;
e vedesi, diligentemente osservando, che tali diminuzioni ed incrementi, notati
l'un dopo l'altro con l'interposizione di tempi eguali, molto
proporzionatamente rispondono a i sini versi e loro eccessi congruenti ad archi
eguali: il qual fenomeno non ha luogo in verun altro movimento che nel circolar
contiguo all'istesso Sole; perché in cerchii, ancor che non molto, lontani dal
globo solare, gli spazii passati in tempi eguali incontro alla superficie del
Sole apparirebbono pochissimo tra di loro differenti.
Il terzo
accidente, che mirabilmente conferma questa conclusione, si cava da
gl'interstizii che sono tra macchia e macchia, de i quali altri si mantengono
sempre gli stessi, altri grandissimamente si agumentano verso le parti di mezo
del disco solare, li quali furon avanti, e son poi dopo, brevissimi, ed anco
quasi insensibili vicino alla circonferenza, ed altri pur si mutano, ma con
mutazioni differentissime; tuttavia son tali, che simili non potrebbono
incontrarsi in altro moto che nel circolare, fatto da diversi punti
diversamente posti sopra un globo che in sé stesso si converta. Le macchie che
hanno la medesima declinazione, cioè che sono poste nell'istesso
parallelo, nel primo apparire par quasi che si tocchino, quando la lor vera
distanza sia breve; che se sarà alquanto maggiore, appariranno ben
separate, ma più vicine assai che quando si trovano verso il mezo del
disco solare; e secondo che si discostano dalla circonferenza, vengono
separandosi ed allontanandosi l'una dall'altra sempre più, sin che si
trovano con pari distanze remote dal centro del disco, nel qual luogo è
la lor massima separazione; d'onde partendosi, tornano di nuovo a ravvicinarsi
tra di loro più e più, secondo che s'appressano alla
circonferenza: e se con accuratezza si noteranno le proporzioni di tali
appressamenti e discostamenti, si vedrà che parimente non possono aver
luogo, se non in movimenti fatti sopra l'istessa superficie del globo solare.
Dico di più,
che tali macchie non solamente sono vicinissime e forse contigue, alla
superficie del Sole, ma, oltre a ciò, si elevano poco da quella, in
quanto alla lor grossezza o vogliamo dire altezza; cioè dico che sono
assai sottili, in comparazion della lunghezza e larghezza loro. Il che raccolgo
dall'apparire che fanno i loro interstizii divisi e distinti ben spesso sino
all'ultimo lembo del disco solare, ancor che si osservino macchie poco tra lor
distanti e poste nell'istesso parallelo. [...] Avvertisco di più, che
non tutte le macchie tra di sé vicinissime si mostrano separate sino all'ultima
circonferenza, anzi alcune par che si unischino: il che può accadere
talvolta per essere, la più remota dalla circonferenza, più
grossa ed alta della più vicina; oltre che ci sono i movimenti lor
proprii irregolati e vagabondi, che possono cagionare varie apparenze in questo
particolare: ma noto bene universalmente, che la negrezza di tutte si
diminuisce assai assai quando son vicine all'estremo termine del disco; il che
accade, per mio parere, dallo scoprirsi il taglio illuminato e dallo ascondersi
molto i dorsi oscuri delle macchie, le cui tenebre restano assai confuse a gli
occhi nostri dalla copia della luce. Io potrei addurre a V. S. molti altri
esempli, ma sarei troppo prolisso, e mi riserberò a scriverne più
diffusamente in altro luogo; e voglio per ora contentarmi di avergli accennato
il mio parere, nato dalla continuazione di molte osservazioni: che è in
somma, che la lontananza delle macchie dalla superficie del Sole sia o nulla, o
così poca che non possa cagionare accidente alcuno comprensibile da noi
e che la profondità o grossezza loro sia parimente poca in comparazion
dell'altre due dimensioni, imitando anco in questo particolare le nostre maggiori
nugolate.
E questi sono
gl'incontri che aviamo dalle macchie che si trovano nell'istesso parallelo. Le
macchie poi che sono poste in diversi paralleli, ma sono, per così dire,
sotto 'l medesimo meridiano, cioè che la linea che le congiugne, taglia
i paralleli a squadra, e non obliquamente, non mutano distanza fra di loro, ma
quella che ebbero nel loro primo comparire, vanno mantenendo sempre sino
all'ultima occultazione: le altre poi che sono in diversi paralleli ed in
diversi meridiani, vanno pur crescendo e poi diminuendo i lor intervalli, ma
con maggiori differenze quelle che si rimirano più obliquamente,
cioè che sono in paralleli più vicini ed in meridiani più
remoti, e con minor varietà di all'incontro quelle che meno obliquamente
sono tra loro situate: e chi bene andrà commensurando tutte le simili
diversità, troverà il tutto rispondere e con giusta simmetria
concordar solamente con la nostra ipotesi, e discordar da qualunque altra.
Devesi però tuttavia avvertire, che non sendo tali macchie totalmente
fisse ed immutabili nella faccia del Sole, anzi andandosi continuamente per lo
più mutando di figura ed aggregandosi alcune insieme ed altre
disgregandosi, può per simili picciole mutazioni cagionarsi qualche poco
di varietà ne i rincontri precisi delle narrate osservazioni; le quali
diversità, per la lor picciolezza in proporzion della massima ed
universal conversione del Sole, non dovran partorire scrupolo alcuno a chi
giudiziosamente andrà, per così dire, tarando l'eguale e general
movimento con queste accidentarie alterazioncelle.
Ora, quanto, per
tutti questi rincontri, l'apparenze che si osservano nelle macchie,
puntualmente rispondono all'esser loro contigue alla superficie del Sole,
all'esser quella sferica, e non d'altra figura, ed all'esser dal medesimo Sole
portate in giro dal suo rivolgimento in sé stesso, tanto con incontri di
manifeste repugnanze contrariano ad ogni altra posizione che si tentasse di
dargli.
Imperò
che se alcuno volesse costituirle nell'aria, dove pare che altre impressioni
simili a quelle continuamente si vadano producendo e dissolvendo, con accidenti
conformi di aggregarsi e dividersi, condensarsi e rarefarsi, e con mutazioni di
figure inordinatissime; prima, ingombrando esse molto piccoli spazii nel disco
solare mentre fra l'occhio nostro e quello s'interpongono, ed essendo
così vicine alla Terra, bisognerebbe che le fossero a moli non maggiori
di picciolissime nugolette, poi che ben minima domanderemo una nugola che non
basti ad occultarci il Sole: e se così è, come in sì
piccole moli sarà tal densità di materia che possa con tanta
contumacia resistere alla forza de i raggi solari, sì che né le
penetrino col lume, né le dissolvino per molti e molti giorni con la lor
virtù? Come, generandosi nelle regioni circonvicine alla Terra, e, s'io
bene stimo, per detto altrui forse delle evaporazioni di quella, come, dico,
cascano tutte tra 'l Sole e noi, e non in altra parte dell'aria? poi che niuna
se ne scorge sotto la faccia della Luna illuminata, né si vede separata dal
Sole, in aspetto oscuro o vero illustrata da i suoi raggi, come delle nugole
accade, delle quali continuamente ne veggiamo dell'oscure e dell'illuminate,
intorno al Sole ed in ogni altra parte dell'aria? Più, scorgendo noi la
materia di tali macchie esser per sua natura mutabile, poi che senza regola
alcuna s'aggregano fra di loro e si separano, qual virtù sarà poi
quella che gli possa communicare e con tanta regola contemperar il movimento
diurno, sì che mai preterischino di accompagnare il Sole, se non quanto
un movimento comune a tutte e regolato le fa trascorrere in 15 giorni in circa
il disco solare, dove che l'altre aeree impressioni trascorrono in minimi
momenti di tempo non pur la faccia del Sole ma spazii molto maggiori?
A simili
ragioni, come molto probabili, risponder non si può senza introdur
grand'improbabilità. Ma ci restano le dimostrazioni necessarie e che non
ammettono risposta veruna: delle quali una è il vedersi quelle, nel
tempo medesimo, da diversi luoghi della Terra e molto tra di loro distanti,
disposte con l'istesso ordine e nelle parti medesime del Sole, sì come
per varii rincontri di disegni ricevuti da diverse bande ho potuto osservare,
argomento necessario della lor grandissima lontananza dalla Terra al che con
ammirabil assenso si accorda il cader tutte dentro a quella fascia del globo
solare che risponde allo spazio della sfera celeste che vien compreso dentro a
i tropici o, per meglio dire dentro a i due paralleli che determinano le
massime declinazioni de i pianeti; il che non devo io credere che sia particolar
privilegio della città di Firenze, dove io abito, ma ben devo stimare
che dentro a i medesimi confini siano vedute da ogni altro luogo quanto si
voglia più australe o boreale. Di più, il non fare altra
mutazione di luogo sotto il disco solare che quella universale e comune a tutte
le macchie, con la quale in 15 giorni in circa lo traversano, e quelle piccole
ed accidentarie secondo le quali tal ora alcune si aggregano ed altre si
separano, necessariamente convince a porle molto superiori alla Luna; perché
altramente, come ben nota ancora Apelle, bisognerebbe che nel tempo tra 'l
nascere e 'l tramontar del Sole tutte uscissero fuori del disco solare mediante
la parallasse. E se pure alcuno volesse attribuir loro qualche movimento
proprio, per il quale la diversità d'aspetto fosse compensata, non
potrebbono le medesime macchie, vedute oggi da noi, tornar a mostrarsi dimane;
il che è contro l'esperienza poi che non pure ritornano a farsi vedere
il secondo giorno, ma il terzo e quarto, e sino al quartodecimo.
Son dunque le
macchie, per necessarie dimostrazioni, superiori di assai alla Luna; ed essendo
nella region celeste, niun'altra posizione che nella superficie del Sole, e
niun altro movimento fuori che la conversion di quello in sé stesso, se gli può
senz'altre repugnanze assegnare. Imperò che tra tutte l'imaginabili
ipotesi, la più accomodata a satisfare alle apparenze narrate sarebbe
porre una sferetta tra il corpo solare e noi, sì che l'occhio nostro ed
i centri di quella e del Sole fossero in linea retta, e, più, che il suo
diametro apparente fosse eguale a quel del corpo solare, nella superficie della
quale sfera si producessero e dissolvessero tali macchie, e dal rivolgimento
della medesima in sé stessa venissero portate in volta: tal posizion, dico, che
satisferebbe alle sopradette apparenze, quando però se gli assegnasse
luogo tanto superiore alla Luna, che fosse libero dall'oppugnazione delle
parallassi, così di quella che depende dal moto diurno come dell'altra
che nasce dalle diverse posizioni in Terra, e questo acciò che a tutte
l'ore ed a tutti i riguardanti i centri di detta sfera e del Sole si
mantenessero nella medesima linea retta; ma con tutto questo una inevitabil
difficoltà ci convince, ed è che noi doveremmo vedere le macchie
muoversi sotto il disco solare con movimenti contrarii: imperò che
quelle che fossero nell'emisfero inferiore della imaginata sfera, si
moverebbono verso il termine opposto a quello verso il quale caminassero
l'altre, poste nell'emisfero superiore; il che non si vede accadere. Oltre che,
sì come a gl'ingegni specolativi e liberi, che ben intendono non esser
mai stato con efficacia veruna dimostrato, né anco potersi dimostrare, che la
parte del mondo fuori del concavo dell'orbe lunare non sia soggetta alle mutazioni
ed alterazioni, niuna difficoltà o repugnanza al credibile ha apportato
il veder prodursi e dissolversi tali macchie in faccia al Sole stesso;
così gli altri, che vorrebbono la sustanza celeste inalterabile, quando
si vegghino astretti da ferme e sensate esperienze a porre esse macchie nella
parte celeste, credo che poco fastidio di più gli darà il porle
contigue al Sole che in altro luogo.
Convinta
ch'è di falsità l'introduzione di tale sfera tra 'l Sole e noi,
che sola, ma con poco guadagno di chi volesse rimuovere le macchie dal Sole,
poteva sodisfare a buona parte de i fenomeni, non occorre che perdiamo tempo in
riporvar ogni altra imaginabile posizione; perché ciascheduno per sé stesso
immediatamente incontrerà impossibili e contradizioni manifeste, tuttavolta
che sia ben restato capace di tutti i fenomeni che di sopra ho raccontati, e
che veramente si osservano di continuo in esse macchie.
Quanto poi alle
massime durazioni delle maggiori e più dense, ben che non si possa
affermare di certo se alcune ritornino l'istesse in più d'una
conversione, rispetto a i continui mutamenti di figure che ci tolgono il
poterle raffigurare, tuttavia io sarei d'opinione che alcuna ritornasse a
mostrarcisi più d'una volta: ed a così credere m'indece il
vederne alcuna comparire grande assai ed accrescersi sempre, sin che l'emisfero
veduto dà volta; e sì come è credibile ch'ella si fosse
generata molto avanti la venuta sua, così è ragionevole il
credere ch'ella sia per durare assai dopo la partita, sì che la durazion
sua venga ad esser molto più lunga del tempo di una meza conversion del
Sole: e come questo è, alcune macchie possono senza dubbio, anzi
necessariamente, esser da noi vedute due volte; e queste sarebbono tal una di
quelle che si producessero nell'emisfero veduto vicino all'occultarsi, e poi,
passando nell'altro, seguitassero di prender argumento, né si dissolvessero sin
che tornassero ancora a scoprircisi; e per ciò fare basta la durazione
di tre o quattro giorni più del tempo di una meza conversione. Ma io, di
più, credo che ve ne siano di quelle che più d'una volta
traversino tutto l'emisfero veduto; quali son quelle che dal primo comparrire,
si vanno sempre augumentando sin che le veggiamo, e fannosi di straordinaria
grandezza, le quali possono continuar di crescere ancora mentere ci si
occultano, e non è credibile che poi in più breve tempo si
diminuischino e dissolvino, perché niuna delle grandissime si è
osservato che repentinamente si disfaccia: ed io ho più volte osservato,
dopo la partita di alcuna delle massime sendo scorso il tempo di una meza
conversione, tornare a comparire una, ch'era, per mio credere, l'istessa, e
passar per l'istesso parallelo.
Dalle cose dette
sin qui, parmi, s'io non m'inganno, che necessariamente si conchiuda, le
macchie solari esser contigue o vicinissime al corpo del Sole. esser materie
non permanenti e fisse, ma variabili di figura e di densità, e mobili
ancora, chi più e chi meno, di alcuni piccoli movimenti indeterminati ed
irregolari, ed universalmente tutte prodursi e dissolversi, altre in più
brevi, altre in più lunghi tempi; è anco manifesta ed
indubitabile la lor conversione intorno al Sole: ma il determinare se
ciò avvenga perché il corpo stesso del Sole si converta e rigiri in sé
stesso portandole seco, o pure che, restando il corpo solare immoto, il
rivolgimento sia dell'ambiente, il quale le contenga e seco le conduca, resta
in certo modo dubbio, potendo essere e questo e quello. Tuttavia a me pare
assai più probabile che il movimento sia del globo solare, che dell'ambiente.
Ed a ciò credere m'induce, prima, la certezza che io prendo dell'esser
tale ambiente molto tenue fluido e cedente, dal veder così facilmente
mutarsi di figura aggregarsi e dividersi le macchie in esso contenute, il che
in una materia solida e consistente non potrebbe accadere (proposizione che
parrà assai nuova nella comune filosofia): ora un movimento costante e
regolato, quale è l'universale di tutte le macchie, non par che possa
aver sua radice e fondamento primario in una sostanza flussibile e di parti non
coerenti insieme, e però soggette alle commozioni e conturbamenti di
molti altri movimenti accidentarii, ma bene in un corpo solido e consistente,
ove per necessità un solo è il moto del tutto e delle parti; e
tale è credibile che sia il corpo solare, in comparazion del suo
ambiente. Tal moto poi, participato all'ambiente per il contatto, ed alle
macchie per l'ambiente, o pur conferito per il medesimo contatto immediatamente
alle macchie, le può portar intorno. Di più, quando bene altri
volesse che la circolazione delle macchie intorno al Sole procedesse da moto
che risedesse nell'ambiente, e non nel Sole, io crederei ad ogni modo esser
quasi necessario che il medesimo ambiente comunicasse per il contatto l'istesso
movimento al globo solare ancora.
Imperò
che mi par di osservare che i corpi naturali abbino naturale inclinazione a
qualche moto, come i gravi al basso, il qual movimento vien da loro, per
intrinseco principio e senza bisogno di particolar motore esterno, esercitato,
qual volta non restino da qualche ostacolo impediti; a qualche altro movimento
hanno repugnanza, come i medesimi gravi al moto in su, e però già
mai non si moveranno in cotal guisa se non cacciati violentemente da un motore
esterno; finalmente, ad alcuni movimenti si trovano indifferenti, come pur
gl'istessi gravi al movimento orizontale, al quale non hanno inclinazione, poi
che ei non è verso il centro della Terra, né repugnanza, non si
allontanando dal medesimo centro: e però, rimossi tutti gl'impedimenti
esterni, un grave nella superficie sferica e concentrica alla Terra sarà
indifferente alla quiete ed a i movimenti verso qualunque parte dell'orizonte,
ed in quello stato si conserverà nel qual una volta sarà stato
posto; cioè se sarà messo in stato di quiete, quello
conserverà, e se sarà posto in movimento, verbigrazia verso
occidente, nell'istesso si manterrà: e così una nave, per
essempio, avendo una sol volta ricevuto qualche impeto per il mar tranquillo,
si moverebbe continuamente intorno al nostro globo senza cessar mai, e postavi
con quiete, perpetuamente quieterebbe, se nel primo caso si potessero rimuovere
tutti gl'impedimenti estrinseci, e nel secondo qualche causa motrice esterna
non gli sopraggiugnesse. E se questo è vero, sì come è
verissimo, che farebbe un tal mobile di natura ambigua, quando si trovasse
continuamente circondato da un ambiente mobile d'un moto al quale esso mobile
naturale fosse per natura indifferente? Io non credo che dubitar si possa,
ch'egli al movimento dell'ambiente si movesse. Ora il Sole, corpo di figura
sferica, sospeso e librato circa il proprio centro, non può non
secondare il moto del suo ambiente, non avendo egli, a tal conversione,
intrinseca repugnanza né impedimento esteriore. Interna repugnanza aver non
può, atteso che per simil conversione né il tutto si rimuove dal luogo
suo, né le parti si permutano tra di loro o in modo alcuno cangiano la lor
naturale costituzione, tal che, per quanto appartiene alla costituzione del
tutto con le sue parti, tal movimento è come se non fosse. Quanto a
gl'impedimenti esterni, non par che ostacolo alcuno possa senza contatto
impedire (se non forse la virtù della calamita): ma nel nostro caso
tutto quel che tocca il Sole, che è il suo ambiente, non solo non
impedisce il movimento che noi cerchiamo di attribuirgli, ma egli stesso se ne
muove, e movendosi lo comunica ove egli non trovi resistenza, la qual esser non
può nel Sole: adunque qui cessano tutti gli esterni impedimenti. Il che
si può maggiormente ancora confermare: perché, oltre a quello che si
è detto, non par che alcun mobile possa aver repugnanza ad un movimento
senz'aver propension naturale all'opposto (perché nella indifferenza non
è repugnanza); e perciò chi volesse por nel Sole renitenza al
moto circolare del suo ambiente, pur vi porrebbe natural propensione al moto
circolare opposto a quel dell'ambiente; il che mal consuona ad intelletto ben
temperato.
Dovendosi,
dunque, in ogni modo por nel Sole l'apparente conversione delle macchie, meglio
è porvela naturale, e non per participazione, per la prima ragione da me
addotta.
Molte altre
considerazioni potrei arrecar per confirmazion maggiore della mia opinione, ma
di troppo trapasserei i termini di una lettera; però, per finir di
più tenerla occupata, vengo a satisfare alla promessa ad Apelle, cioè
al modo del disegnar le macchie con somma giustezza, ritrovato, come nell'altra
gli accennai, da un mio discepolo, monaco Cassinense, nominato D. Benedetto de
i Castelli, famiglia nobile di Brescia, uomo d'ingegno eccellente e, come
conviene, libero nel filosofare. Ed il modo è questo. Devesi drizzare il
telescopio verso il Sole, come se altri lo volesse rimirare; ed aggiustatolo e
fermatolo, espongasi una carta bianca e piana incontro al vetro concavo,
lontana da esso vetro quattro o cinque palmi; perché sopraessa caderà la
specie circolare del disco del Sole, con tutte le macchie che in esso si
ritrovano, ordinate e disposte con la medesima simmetria a capello che nel Sole
son situate; e quanto più la carta si allontanerà dal cannone,
tanto tal immagine verrà maggiore e le macchie meglio si figureranno, e
senz'alcuna offesa si vedranno tutte sino a molte picole, le quali, guardando
per il cannone, con fatica grande e con danno della vista appena si potrebbono
scorgere. E per disegnarle giuste, io descrivo prima sopra la carta un cerchio,
della grandezza che più mi piace, e poi, accostando o rimovendo la carta
dal cannone, trovo il giusto sito dove l'immagine del Sole si allarga alla
misura del descritto cerchio: il quale mi serve anco per norma e regola di
tener il piano del foglio retto, e non inclinato al cono luminoso de i raggi
solari ch'escono del telescopio; perché quando e' fosse obliquo, la sezzione
viene ovata, e non circolare, e però non si aggiusta con la
circonferenza segnata sopra 'l foglio; ma inclinando più o meno la
carta, si trova facilmente la positura giusta, che è quando l'immagine
del Sole s'aggiusta col cerchio segnato. Ritrovata che si è tal
positura, con un pennello si va notando, sopra le macchie stesse, le figure
grandezze e siti loro: ma convien andare destramente secondando il movimento
del Sole, e, spesso movendo il telescopio, bisogna procurare di mantenerlo ben
dritto verso il Sole; il che si conosce guardando nel vetro concavo, dove si
vede un piccolo cerchietto luminoso, il quale sta concentrico ad esso vetro
quando il telescopio è ben diritto verso il Sole. E per veder le macchie
distintissime e terminate, è ben inscurir la stanza serrando ogni
finestra, sì che altro lume non vi entri che quello che vien per il
cannone; o almeno inscuricasi più che si può, ed al cannone si
accomodi un cartone assai largo, che faccia ombra sopra la carta dove si ha da
disegnare e impedisca che altro lume del Sole non vi caschi sopra, fuor che
quello che vien per i vetri del cannone. Devesi appresso notare, che le macchie
escono del cannone inverse, e poste al contrario di quello che sono nel Sole,
cioè le destre vengono sinistre, e le superiori inferiori, essendo che i
raggi s'intersegano dentro al cannone, avanti ch'eschino fuori del vetro concavo;
ma perché noi le disegniamo sopra una superficie opposta al Sole, quando noi,
volgendoci verso il Sole, tenghiamo la carta disegnata opposta alla nostra
vista, già la superficie dove prima disegnammo non è più
contrapposta ma aversa al Sole, e però le parti destre si sono
già ridrizzate, rispondendo alle destre del Sole, e le sinistre alle
sinistre, onde resta che solamente s'invertano le superiori ed inferiori;
però, rivoltando il foglio a rovescio facendo venire il di sopra di
sotto, e guardando per la trasparenza della carta contro al chiaro, si veggono
le macchie giuste. come se guardassimo direttamente nel Sole; ed in tale
aspetto si devono sopra un altro foglio lucidare e descrivere, per averle ben
situate.
Io ho poi
riconosciuto la cortesia della natura, la quale, mille e mille anni sono, porse
facoltà di poter venire in notizia di tali macchie, e per esse di alcune
gran consequenze; perché, senz'altri strumenti, da ogni piccolo foro per il
quale passino i raggi solari viene in distanze grandi portata e stampata sopra
qual si voglia superficie opposta l'immagine del Sole con le macchie. Ben
è vero che non sono a gran pezzo così terminate come quelle del
telescopio; tuttavia le maggiori si scorgono assai distinte: e V. S. vedendo in
chiesa da qualche vetro rotto e lontano cader il lume del Sole nel pavimento,
vi accorra con un foglio bianco e disteso, ché vi scorgerà sopra le
macchie. Ma più dirò, esser la medesima natura stata così
benigna, che per nostro insegnamento ha tal ora macchiato il Sole di macchia
così grande ed oscura, ch'è stata veduta da infiniti con la sola
vista naturale; ma un falso ed inveterato concetto, che i corpi celesti fossero
esenti da ogni alterazione e mutazione, fece credere che tal macchia fosse
Mercurio interposto tra il Sole e noi, e ciò non senza vergogna de gli
astronomi di quell'età: e tale fu senza alcun dubbio quella di cui si fa
menzione ne gli Annali ed Istorie de i Franzesi ex Bibliotheca P. Pithoei I.
C., stampat'in Parigi l'anno 1588, dove, nella vita di Carlo Magno, a fogli 62,
si legge essersi per otto giorni continui veduta dal popol di Francia una
macchia nera nel disco solare, della quale l'ingresso e l'uscita per
l'impedimento delle nugole non potette esser osservata, e fu creduta esser
Mercurio allora congiunto col Sole. Ma questo è troppo grand'errore,
essendo che Mercurio non può restar congiunto col Sole né anco per lo
spazio di ore sette; tale è il suo movimento, quando si viene a
interporre tra 'l Sole e noi. Fu, dunque, tal fenomeno assolutamente una delle
macchie grandissima ed oscurissima; e delle simili se ne potranno incontrare
ancora per l'avvenire, e forse, applicandoci diligente osservazione, ne potremo
veder alcuna in breve tempo. Se questo scoprimento fosse seguito alcuni anni
avanti, averebbe levat'al Keplero la fatica d'interpretar e salvar questo luogo
con le alterazioni del testo ed altre emendazioni di tempi: sopra di che io non
starò al presente ad affaticarmi, sicuro che detto autore, come vero
filosofo e non renitente alle cose manifeste, non prima sentirà queste
mie osservazioni e discorsi, che gli presterà tutto l'assenso.
Ora, per
raccòr qualche frutto dalle inopinate meraviglie che sino a questa
nostra età sono state celate, sarà bene che per l'avvenire si
torni a porgere orecchio a quei saggi filosofi che della celeste sustanza
diversamente da Aristotele giudicarono, e da i quali Aristotele medesimo non si
sarebbe allontanato se delle presenti sensate osservazioni avesse auta
contezza: poi che egli non solo ammesse le manifeste esperienze tra i mezi
potenti a concludere circa i problemi naturali, ma diede loro il primo luogo.
Onde se egli argomentò l'immutabilità de' cieli dal non si esser
veduta in loro ne' decorsi tempi alterazione alcuna, è ben credibile che
quando 'l senso gli avesse mostrato ciò che a noi fa manifesto, arebbe
seguita la contraria opinione, alla quale con sì mirabili scoprimenti
venghiamo chiamati noi. Anzi dirò di più, ch'io stimo di
contrariar molto meno alla dottrina d'Aristotele col porre (stanti vere le
presenti osservazioni) la materia celeste alterabile, che quelli che pur la
volessero sostenere inalterabile; perché son sicuro che egli non ebbe mai per
tanto certa la conclusione dell'inalterabilità, come questa, che
all'evidente esperienza si deva posporre ogni umano discorso: e però
meglio si filosoferà prestando l'assenso alle conclusioni dependenti da
manifeste osservazioni, che persistendo in opinioni al senso stesso repugnanti,
e solo confermate con probabili o apparenti ragioni. Quali poi e quanti sieno i
sensati accidenti che a più certe conclusioni c'invitano, non è
difficile l'intenderlo. Ecco, da virtù superiore, per rimuoverci ogni
ambiguità, vengono inspirati ad alcuno metodi necessarii, onde
s'intenda, la generazion delle comete esser nella regione celeste; a questo,
come testimonio che presto trascorre e manca, resta ritroso il numero maggiore
di quelli che insegnano a gli altri: eccoci mandate nuove fiamme di più
lunga durazione, in figura di stelle lucidissime, prodotte pure e poi dissolutesi
nelle remotissime parti del Cielo: né basta questo per piegar quelli alla mente
de i quali non arrivano le necessità delle dimostrazioni geometriche:
ecco finalmente scoperto in quella parte del Cielo che meritamente la
più pura e sincera stimar si deve, dico in faccia del Sole stesso,
prodursi continuamente ed in brevi tempi dissolversi innumerabile moltitudine
di materie oscure dense e caliginose; eccoci una vicissitudine di produzioni e
disfacimenti che non finirà in tempi brevi, ma, durando in tutti i futuri
secoli darà tempo a gl'ingegni umani di osservare quanto lor
piacerà e di apprendere quelle dottrine che del sito loro gli possa
rendere sicuri. Ben che anco in questa parte doviamo riconoscere la
benignità divina; poi che di assai facile e presta apprensione son quei
mezi che per simile intelligenza ci bastano; e chi non è capace di
più, procuri di aver disegni fatti in regioni remotissime, e gli
conferisca con i fatti da sé ne gli stessi giorni, ché assolutamente gli
ritroverà aggiustarsi con i suoi: ed io pur ora ne ho ricevuti alcuni
fatti in Brusselles dal Sig. Daniello Antonini ne i giorni 11, 12, 13, 14, 20 e
21 di Luglio, li quali si adattano a capello con i miei e con altri mandatimi
di Roma dal Sig. Lodovico Cigoli, famosissimo pittore ed architetto; argomento
che dovrebbe bastar per sé solo a persuader ogn'uno, tali macchie esser di
lungo tratto superiori alla Luna.
E con questo
voglio finir di occupar più V. S. Illustrissima. Favoriscami di mandar
con suo comodo i disegni ad Apelle, accompagnati con un mio singolare affetto
verso la persona sua; ed a V. S. reverentemente bacio le mani, e dal Signore
Dio gli prego felicità.
Di Firenze, li
14 di Agosto 1612.
Di V. S.
Illustrissima
Servitore
Devotissimo
Galileo Galilei
L.
VIIIc
TERZA LETTERA DEL SIG. GALILEO
GALILEI
AL SIG. MARCO VELSERI DELLE
MACCHIE SOLARI
nella quale anco si tratta di
Venere, della Luna e Pianeti Medicei,
e si scoprono nuove apparenze
di Saturno.
(Villa delle Selve, I°
dicembre 1612)
Illustrissimo
Sig. e Padron Colendissimo
Trovomi a dover
rispondere a due gratissime lettere di V. S. Illustrissima, scritte l'una sotto
li 28 di Settembre, e l'altra li 5 di Ottobre. Con la prima ricevei i secondi
discorsi del finto Apelle, e nell'altra mi avvisa la ricevuta della mia seconda
lettera in proposito delle macchie solari, la quale io gl'inviai sino li 23 di
Agosto: risponderò prima brevemente alla seconda, poi verrò alla
prima, ponderando un poco più diffusamente alcuni particolari contenuti in
questa replica di Apelle; già che l'aver considerate le sue prime
lettere, e l'aver egli vedute le mie considerazioni, mi mette in certo modo in
obbligo di soggiugnere alcune cose concernenti alla mia prima lettera ed alle
sue seconde scritture.
Quanto
all'ultima di V. S., ho ben sentito con diletto che ella in una repentina
scorsa abbia trapassate come verisimili ed assai probabili le ragioni da me
addotte per confermar le conclusioni che io prendo a dimostrare; ma il punto
sta in quello a che la persuaderà la seconda e le altre letture, non
essendo impossibile: che alcuni, ben che di perspicacissimo giudizio, possino
talora in una prima occhiata ricever per opera di mediocre perfezione quello
che poi, ricercato più accuratamente, gli riesca di assai minor merito,
e massime dove una particolare affezione verso l'autore ed una concepita
opinion buona preoccupino l'affetto indifferente ed ignudo: onde io con animo
ancor sospeso starò attendendo altro suo giudizio, il quale mi
servirà per quietarmi, sin che, come prudentissimamente dice V. S., ci
sortisca, per grazia del vero Sole, puro ed immacolato, apprendere in Lui con
tutte le altre verità quello che ora, abbagliati e quasi alla cieca,
andiamo ricercando nell'altro Sole materiale e non puro.
Ma non
però doviamo, per quel che io stimo, distorci totalmente dalle
contemplazioni delle cose, ancor che lontanissime da noi, se già non
avessimo prima determinato, esser ottima resoluzione il posporre ogni atto
specolativo a tutte le altre nostre occupazioni. Perché, o noi vogliamo specolando
tentar di penetrar l'essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi
vogliamo contentarci di venir in notizia d'alcune loro affezioni. Il tentar
l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana
nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare
essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi
elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste
sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti
egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o
niuno acquisto dall'uno all'altro. E se, domandando io qual sia la sustanza
delle nugole, mi sarà detto che è un vapore umido, io di nuovo
desidererò sapere che cosa sia il vapore; mi sarà per avventura
insegnato, esser acqua, per virtù del caldo attenuata, ed in quello
resoluta; ma io, egualmente dubbioso di ciò che sia l'acqua,
ricercandolo, intenderò finalmente, esser quel corpo fluido che scorre
per i fiumi e che noi continuamente maneggiamo e trattiamo: ma tal notizia
dell'acqua è solamente più vicina e dependente da più
sensi, ma non più intrinseca di quella che io avevo per avanti delle
nugole. E nell'istesso modo non più intendo della vera essenza della
terra o del fuoco, che della Luna o del Sole; e questa è quella
cognizione che ci vien riservata da intendersi nello stato di beatitudine, e
non prima. Ma se vorremo fermarci nell'appressione di alcune affezioni, non mi
par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi lontanissimi da
noi, non meno che ne i prossimi, anzi tal una per aventura più
esattamente in quelli che in questi. E chi non intende meglio i periodi de i
movimenti de i pianeti, che quelli dell'acque di diversi mari? chi non sa che
molto prima e più speditamente fu compresa la figura sferica nel corpo
lunare che nel terrestre? e non è egli ancora controverso se l'istessa
Terra resti immobile o pur vadia vagando, mentre che noi siamo certissimi de i
movimenti di non poche stelle? Voglio per tanto inferire, che se bene indarno
si tenterebbe l'investigazione della sustanza delle macchie solari, non resta
però che alcune loro affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la
grandezza, l'opacità, la mutabilità, la produzione ed il
dissolvimento, non possino da noi esser apprese, ed esserci poi mezi a poter
meglio filosofare intorno ad altre più controverse condizioni delle
sustanze naturali; le quali poi finalmente sollevandoci all'ultimo scopo delle
nostre fatiche, cioè all'amore del divino Artefice, ci conservino la
speranza di poter apprender in Lui, fonte di luce e di verità, ogn'altro
vero.
Il debito del
ringraziare resta in me con molti altri obblighi che tengo a V. S.
Illustrissima; perché, se averò investigato qualche proposizion vera,
sarà stato frutto de i comandamenti suoi, e i medesimi diranno mia scusa
quando non mi succeda il conseguir l'intero d'impresa nuova e tanto difficile.
Circa a quello
che ella m'accenna del pensiero dell'Eccellentissimo Sig. Federico Cesi
Principe, è ben vero che io mandai a S. E. copia delle due lettere
solari, ma non con intenzione che fossero pubblicate con le stampe, ché in tal
caso vi arei applicato studio e diligenza maggiore; perché, se ben l'assenso e
l'applauso di V. S. sola è da me desiderato e stimato egualmente come di
tutto 'l mondo insieme, tuttavia tal indulto mi prometto dalla benignità
sua e dalla cortese propensione del suo genio verso me e le cose mie, quale
prometter non mi devo dalle scrupolose inquísizioni e severe censure di molti
altri. Ed alcune cose mi restano ancora non ben digeste, né determinate a modo
mio; delle quali una principale è l'incidenza delle macchie sopra luoghi
particolari della solar superficie, e non altrove: perché, rappresentandocisi i
progressi di tutte le macchie sotto specie di linee rette (argomento
necessario, l'asse di tali conversioni esser eretto al piano che passa per i
centri del Sole e della Terra, il quale è il solo cerchio
dell'eclittica), resta, per mio parere, degno di gran considerazione, onde
avvenga che le caschino solamente dentro ad una zona che per larghezza non si
allontana più di 29 o 30 gradi di qua e di là dal cerchio massimo
di tal conversione, sì che appena delle mille una trasgredisca, e ben di
poco, tali confini; imitando in ciò le leggi de i pianeti, alli quali
vengono da simili intervalli limitate le digressioni dal cerchio massimo della
conversion diurna. Questo e qualche altro rispetto mi fanno ritardar il
pubblicar in più diffuso trattato questa materia. Con tutto ciò
il Sig. Principe può disporre ed è padrone assoluto delle cose
mie; l'esser poi io sicuro del purgatissimo suo giudizio e del zelo che egli ha
della reputazion mia, mi assicura, col lasciarle egli vedere, di averle stimate
degne della luce.
Quanto ad Apelle,
a me ancora dispiace che e non abbia veduta la mia seconda lettera avanti la
pubblicazione della sua Più Accurata Disquisizione, e che la mia
ambiguità e pigrizia nello scrivere non abbia potuto tener dietro alla
sua resoluzione e prontezza: ben è vero che buona causa della dilazione
n'è stato l'esser trattenute le mie lettere più d'un mese in
Venezia, dalla troppa stima che di esse fece l'Illustrissimo Sig. Gio.
Francesco Sagredo, volendo che ne restasse copia in quella città, dove a
me pareva d'essere a bastanza onorato da una semplice sua lettura; il che per
la moltitudine delle figure ricercò assai tempo. Dispiacemi ancora della
difficoltà che apporta ad Apelle l'aver io scritto nella nostra favella
fiorentina; il che ho fatto per diversi rispetti, uno de i quali è il
non volere in certo modo abusare la ricchezza e perfezion di tal lingua,
bastevole a trattare e spiegar e' concetti di tutte le facoltadi; e però
dalle nostre Accademie e da tutta la città vien gradito lo scrivere
più in questo che in altro idioma. Ma in oltre ci ho auto un altro mio
particolar interesse, ed è il non privarmi delle risposte di V. S. in
tal lingua, vedute da me e da gli amici miei con molto maggior diletto e
meraviglia che se fossero scritte del più purgato stile latino; e parci,
nel leggere lettere di locuzione tanto propria, che Firenze estenda i suoi
confini, anzi il recinto delle sue mura, sino in Augusta.
Quello che V. S.
mi scrive essergli intervenuto nel leggere il mio trattato Delle cose che
stanno su l'acqua, cioè che quelli che da principio gli parvero
paradossi, in ultimo gli riuscirono conclusioni vere e manifestamente
dimostrate, sappia che è accaduto qua a molti, reputati per altri lor
giudizii persone di gusto perfetto e saldo discorso. Restano solamente in
contradizzione alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica, li quali,
per quel che io posso comprendere, educati e nutriti sin dalla prima infanzia
de i lor studii in questa opinione, che il filosofare non sia né possa esser
altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele, sì che
prontamente ed in gran numero si possino da diversi luoghi raccòrre ed
accozzare per le prove di qualunque proposto problema, non vogliono mai
sollevar gli occhi da quelle carte, quasi che questo gran libro del mondo non
fosse scritto dalla natura per esser letto da altri che da Aristotele, e che
gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità. Questi, che
si sottopongono a così strette leggi, mi fanno sovvenire di certi
obblighi a i quali tal volta per ischerzo si astringono capricciosi pittori, di
voler rappresentare un volto umano o altra figura con l'accozzamento ora de'
soli strumenti dell'agricoltura, ora de' frutti solamente o de i fiori di
questa o di quella stagione: le quali bizzarrie, sin che vengono proposte per
ischerzo, son belle e piacevoli, e mostrano maggior perspicacità in
questo artefice che in quello, secondo che egli averà saputo più
acconciamente elegger ed applicar questa cosa o quella alla parte imitata; ma
se alcuno, per aver forse consumati tutti i suoi studii in simil foggia di
dipignere, volesse poi universalmente concludere, ogni altra maniera d'imitare
esser imperfetta e biasimevole, certo che 'l Cigoli e gli altri pittori
illustri si riderebbono di lui. Di questi che mi son contrarii di opinione,
alcuni hanno scritto ed altri stanno scrivendo; in pubblico non si è
veduto sin ora altro che due scritture, una di Accademico Incognito, e l'altra
di un lettor di lingua greca nello Studio di Pisa, ed amendue le invio con la
presente a V. S. Gli amici miei son di parere, ed io da loro non discordo, che
non comparendo opposizioni più salde, non sia bisogno di risponder
altro; e stimano che per quietar questi che restano ancora inquieti, ogn'altra
fatica sarebbe vana, non men che superflua per i già persuasi; ed io
devo stimar le mie conclusioni vere e le ragioni valide, poi che, senza perder
l'assenso di alcuno di quei che sin da principio sentivano meco, ho guadagnato
quel di molti che erano di contrario parere. Però staremo attendendo il
resto, e poi si risolverà quello che parrà più a
proposito.
Vengo ora
all'altra lettera di V. S. Illustrissima, condolendomi sopra modo che la
pertinacia della sua infermità conturbi, con l'afflizione di V. S., la
quiete di tanti suoi amici e servidori, e di me sopra tutti gli altri,
travagliato altresì da più mie indisposizioni familiari, le
quali, con l'impedirmi quasi continuamente tutti gli esercizii, mi tengono
ricordato quanto, rispetto alla velocità de gli anni, sarebbe necessario
lo stare in esercizio continuo a chi volesse lasciar qualche vestigio di esser
passato per questo mondo. Or, qualunque si sia il corso della nostra vita,
doviamo riceverlo per sommo dono dalla mano di Dio, nella quale era riposto il
non ci far nulla; anzi non pur doviamo riceverlo in grado ma infinitamente
ringraziar la sua bontà, la quale con tali mezzi ci stacca dal soverchio
amore delle cose terrene e ci solleva a quello delle celesti e divine.
Le scuse
dell'esser breve nello scrivere sono superflue appresso di me, che sempre sono
per appagarmi nell'intender solamente che ella mi continui la sua buona grazia:
dovrei ben io scusar la mia prolissità, o, per meglio dire, pregar lei a
scusarla, e lo farei quando io dubitassi delle scuse che io mi prometto dalla sua
cortesia.
Ricevei con la
lettera di V. S. la seconda scrittura del finto Apelle, e mi messi a leggerla
con gran curiosità, mosso sì dal nome dell'autore, come dalla
qualità del titolo, il quale promette una più accurata
disquisizione non solo intorno alle macchie solari, ma ancora intorno a i
pianeti Medicei. E perché il termine relativo di “disquisizione più
accurata” non può non riferirsi all'altre disquisizioni fatte intorno
alla medesima materia, non si può dubitare che ei non abbia riguardo
ancora al mio Avviso Sidereo, che pure è in rerum natura e non
viene eccettuato da Apelle: onde io entrai in speranza d'esser per trovar
resoluto tutto quest'argomento, del quale non potei toccarne, in detto mio
Avviso, altro che i primi abbozzamenti. Oltre alle cose promesse nel titolo, vi
ho trovato l'osservazion di Venere più diffusamente esplicata che nelle
prime lettere, e di più alcuni particolari intorno alla Luna: nelle
quali tutte materie scorgo molte opinioni di Apelle contrarie alle mie, e varie
ragioni e risposte implicite alle cose prodotte da me nella prima lettera che
scrissi a V. S.; le quali, per la stima che io fo dell'autore, non conviene che
io trapassi o dissimuli, perché, non avendo dinanzi tavola che m'asconda e
possa impedirmi la vista di chi passa innanzi e indietro, convien che per
termine io gli saluti almeno. E perché tutto il progresso di queste differenze
si è sin qui trattato innanzi e indietro, convien che per termine io gli
saluti almeno. E perché tutto il progresso di queste differenze si è sin
qui trattato innanzi a V. S. Illustrissima, di nuovo costituendomivi
produrrò, più brevemente che potrò, quanto mi occorre in
questo proposito. E seguendo l'ordine tenuto da Apelle, considero l'ultimo
scopo della sua prima parte, che è di dimostrare come la circolazion di
Venere è intorno al Sole, e non in altra guisa; e fonda tutta la sua
dimostrazione, come anco fece nella prima scrittura, sopra la congiunzione
mattutina di essa stella col Sole, occorsa circa li 11 di Dicembre 1611,
aggiugnendoci adesso una investigazione della quantità del suo moto
sotto 'l disco solare, raccolta con calcoli e dimostrazioni geometriche. E qui
mi nascono due scrupoli: l'uno intorno alla maniera di maneggiare tali
demostrazioni, non interamente da sodisfare a perfetto matematico; e l'altro
circa l'utilità che apporta tal apparato e progresso all'intenzion
primaria dell'autore.
Quanto alla
maniera del dimostrare, trappasso che qualche astronomo più scrupoloso
di me potrebbe risentirsi nel veder trattar archi di cerchi come se fossero
linee rette, sottoponendogli a gli stessi sintomi: ma io non ne voglio tener
conto, perché nel caso nostro particolare non cascano in uso archi così
grandi, che l'error nel computo riesca poi di soverchio notabile.
Ma ammessa anco
per esquisita tutta la dimostrazione di Apelle, io non però posso ancor
penetrar interamente quello che egli abbia, in virtù di essa, preteso di
ottenere da chi volesse persistere in negare la conversione di Venere intorno
al Sole: perché, o gli avversarii ammetteranno per giusti i calcoli del Magini,
o gli averanno per dubbii e fallaci; se gli hanno per dubbii, la fatica
d'Apelle resta come inefficace, con dimostrando ella che Venere veramente
venisse alla corporal congiunzione; ma se gli concedono per veri, non era
necessario altro computo, bastando la sola differenza de i movimenti del Sole e
della stella, insieme con la sua latitudine, presa dall'istesse Efemeridi, a
intender come tal congiunzione doveva necessariamente durar tante ore, che
molte e molte volte si poteva replicar l'osservazione. Né meno era necessariio
il far triplicato esame sopra 'l principio mezo e fine del congresso, essendo
notissimo che i calcoli sono aggiustati al mezo della congiunzione; li quali
quando ammettessero errore, non però verrebbono necessariamente emendati
dal riferirgli al principio o al fine del congresso, non constando ragion
alcuna per la qual s'intenda non esser possibile in un calcolo d'una
congiunzione errar di maggior tempo di quello della durazione del congresso. Ma
io non credo che i contradittori ricorressero al negar la giustezza de i
computi astronomici, e massime avendo refugii più sicuri, quali sono
quelli che io proposi nella prima lettera. E sì come a i molto periti
nella scienza astronomica bastava l'aver inteso quanto scrive il Copernico
nelle sue Revoluzionii per accertarsi del rivolgimento di Venere intorno al
Sole e della verità del resto del suo sistema, così per quelli
che intendono solamente sotto la mediocrità faceva di bisogno rimuovere
le da me sopradette ritirate; delle quali io non veggo che Apelle; abbia
toccate se non due, e quelle anco mi par che non restino totalmente atterrate.
Io dissi nella
prima lettera, che gli avversarii potrebbono ritirarsi a dire, che Venere o non
si vegga sotto 'l Sole per la sua piccolezza, o vero perché sia lucida per sé
stessa, o vero perche ella sia sempre superiore al Sole.
Quello che
Apelle produce per levar la prima fuga a i contradittori, non basta: perché
loro primieramente negheranno che l'ombra di Venere sotto 'l Sole deva apparir
così grande come la luce della medesima fuori del Sole ma vicina a
quello, perché l'irradiazione ascitizia rappresenta la stella assai maggiore
del vero; il che è manifesto nella istessa Venere, la quale quando è
sottilmente falcata, ed in conseguenza per pochi gradi separata dal Sole, si
mostra in ogni modo, alla vista naturale, rotonda come l'altre stelle,
ascondendo la sua figura tra l'irradiazione del suo splendore, per lo che non
si può dubitare che ella ci si mostri assai maggiore che se fosse priva
di lume; ed all'incontro, costituita sotto 'l lucidissimo disco del Sole, non
è dubbio che il suo corpicello tenebroso verrebbe diminuito non poco
(dico quanto all'apparenza) dall'ingombramento del fulgor del Sole: e però
resta molto fallace il concluder che ella fussi per apparir eguale alle macchie
di mediocre grandezza. E chi sa che tali macchie, per doverci apparire nel
campo splendido del Sole, non sieno molto maggiori di quello che mostrano? Anzi
che pur di ciò può esser ottimo testimonio a sé stesso il
medesimo Apelle, riducendosi in mente quello che scrisse nella terza delle
prime lettere, al secondo corollario, cioè: “maculas satis magnas esse;
alias Sol magnitudine sua illas irradiando penitus absorberet”: e l'istesso
conviene affermar del corpo di Venere. Doppiamente, adunque, si può
errare nell'agguagliar la grandezza di Venere luminosa a quella delle macchie
oscure, poi che quanto questa vien apparentemente diminuita dal vero, mediante
lo splendor del Sole, tanto quella vien ingrandita.
Né con maggior
efficacia conclude quel che Apelle soggiugne in questo medesimo luogo, per
mantenere pur Venere incomparabilmente maggiore di quello che è e che io
accennai nella prima lettera: e contro a quello che ci mostra il senso e
l'esperienza, in vano si produce l'autorità d'uomini per altro
grandissimi, li quali veramente s'ingannarono nell'assegnar il diametro visuale
di Venere subdecuplo a quel del Sole; ma sono in parte degni di scusa, ed in
parte no. Gli scusa in parte il mancamento del telescopio, venuto ad apportar
agumento non piccolo alle scienze astronomiche; ma due particolari lasciano da
desiderar qualche cosa nella diligenza loro. Uno è, che bisognava
osservar la grandezza di Venere veduta di giorno, e non di notte, quando la capellatura
de' suoi raggi la rappresenta dieci o più volte maggiore che 'l giorno,
mentre ella ne è priva; ed arebbono facilmente compreso, che 'l diametro
del suo piccolissimo globo non agguaglia tal volta la centesima parte del
diametro solare. Era, secondariamente, necessario distinguere una costituzione
da un'altra, e non indifferentemente pronunziare, il diametro visuale di Venere
esser la decima parte di quel del Sole, essendo che tal diametro quando la
stella è vicinissima alla Terra è più di sei volte
maggiore che quando è lontanissima; la qual differenza se bene non
è precisamente osservabile se non col telescopio, è nondimeno
assai percettibile anco con la vista semplice. Cessa, dunque, in questo
particolare l'autorità degli astronomi citati da Apelle, sopra la quale
egli si appoggia. E quando bene si ammettesse, taluna macchia esser visibile
nel disco solare che non agguaglia in lunghezza la centesima parte del diametro
né in superficie una delle diecimila parti del cerchio visibile del Sole, non creda
per ciò di aver concluso maggiormente l'apparizion di Venere; perché io
gli replico, che il suo diametro nella congiunzione mattutina non pareggia la
dugentesima, né la sua superficie la quarantamilesima parte, del diametro e del
visibil disco del Sole.
Quanto alla
seconda fuga de gli avversarii, cioè che non sia necessario che Venere
oscuri parte del Sole, potendo ella esser corpo per sé stesso lucido, non
resta, per mio parere, convinta per quello che produce Apelle; perché, quanto
alla semplice autorità de gli antichi e moderni filosofi e matematici,
dico che non ha vigore alcuno in stabilire scienza di veruna conclusione
naturale, ed il più che possa operare e l'indurre opinione e inclinazion
al creder più questa che quella cosa. Oltre che, io non so quanto sia
vero che Platone s'inducesse a por Venere sopra 'l Sole rispetto al non vederla
nelle congiunzioni sotto 'l suo disco in vista tenebrosa: so ben che Tolommeo
parla in questo proposito molto diversamente da quello che vien allegato da
Apelle; e troppo grave errore sarebbe stato nel principe de gli astronomi il
negar le congiunzioni dirette di Venere e del Sole. Quello che dice Tolommeo
nel principio del libro nono della sua Gran Costruzione, mentre e' ricerca qual
si deva più probabilmente costituir l'ordine de i pianeti, impugnando la
ragion di quelli che mettevano Venere e Mercurio superiori al Sole perché non
l'avevano mai veduto oscurar da loro, mostra l'infirmità di questo
argomento, dicendo non esser necessario che ogni stella inferiore al Sole gli
faccia eclisse, potendo esser sotto 'l Sole, ma non in alcun de' cerchi che
passano per il centro di quello e per l'occhio nostro: ma non per questo
afferma, ciò accadere a Venere; anzi, soggiugnendo egli l'essempio della
Luna, la quale nella maggior parte delle congiunzioni non adombra 'l Sole,
mostra chiaramente che e' non ha voluto intender altro di Venere, se non che
ella può esser sotto 'l Sole, né però oscurarlo in tutte le
congiunzioni, onde possa benissimo esser accaduto, le congiunzioni osservate da
quei tali non essere state dell'eclittiche. Molto sicuramente parla il Molto
Reverendo P. Clavio, affermando tale ombra restar invisibile a noi per la sua
piccolezza; e se bene da i detti di questi autori par che gl'inclinassero a
stimar Venere non splendida per sé stessa, ma tenebrosa, tuttavia tale opinione
pura non basta a convincer gli avversarii, a' quali non mancherà il
poter produrre opinioni di altri in contrario.
L'altro
argomento che Apelle produce, tolto dall'ottenebrazione della Luna nel passar
sotto 'l Sole, non può aver vigore s'e' non dimostra prima che 'l
mancamento nel Sole si faccia cospicuo sin quando la Luna occupa del suo disco
meno di una delle quarantamila parti; altramente la proporzion dalla Luna a
Venere non procede. Or quanto ciò sia diffilcile ad esequirsi, e
manifesto ad ogn'uno.
Che Mercurio sia
stato da diversi veduto sotto 'l Sole, è non solamente dubbio, ma
inclina assai all'incredibile, come nell'altra accennai a V. S.: e quanto al
Keplero citato in questo luogo, io non dubito punto che, come d'ingegno
perspicacissimo e libero, e amico assai più del vero che delle proprie
opinioni, ei sia per restar persuasissimo, tali negrezze vedute nel Sole essere
state alcune delle macchie, e le congiunzioni di Mercurio aver solamente porto
occasione d'applicarvi in quelle ore più fissa ed accurata
considerazione; con la qual diligenza anco in altri tempi si sarieno vedute,
sì come frequentemente si sono per vedere per l'innanzi, e già le
ho fatte vedere a molti.
Resti per tanto
indubitabilmente dimostrata l'oscurità di Venere dalla sola esperienza
che io scrissi nella prima lettera, e che ora pone qui Apelle nel terzo luogo,
cioè dal vedersi variar in lei le figure al modo della Luna; e siaci,
oltre a ciò, per solo fermo e così forte argomento da stabilir la
revoluzione di Venere circa 'l Sole, che non lasci luogo alcuno di dubitare: e
però si deve reputare degno d'esser da Apelle delineato, come figura
principalissima, nella più cospicua e nobil parte della sua tavola, e
non in un angolo in guisa di pilastro, per appoggio e sostegno di qualche
figura che senz'esso sembrasse a' riguardanti di minacciar rovina.
Ma passo ad
alcune considerazioni intorno a quello che Apelle in parte replica ed in parte
aggiugne al già scritto in proposito delle macchie solari. Dove in
generale mi par che nelle loro determinazioni e' vadia più presto manco
resoluto che avanti non aveva fatto, se ben insieme insieme si mostra
desideroso di presentarle più tosto modificate che diversificate, anzi
che nel fine afferma, tutte le cose dette nelle prime lettere restar costanti;
con tutto ciò vengo in qualche speranza d'averlo a vedere nella terza
scrittura d'opinioni intrinsecamente assai conformi alle mie, non dico
già in virtù di queste lettere, le quali per la difficoltà
della lingua non possono da lui esser vedute, ma perché col pensare verranno
ancora a lui in mente quelle osservazioni, quelle ragioni e quelle soluzioni
medesime, che hanno persuaso me a scrivere ciò che ho scritto nella prima
e nella seconda lettera e che aggiungo nella presente. E già si vede
quanti particolari e' mette in questa seconda scrittura, non osservati ancora
nella prima. Stimò avanti, le macchie solari essere tutte di figura
sferica, dicendo che se si potessero veder separate dal Sole, ci apparirebbono
tante piccole lune, altre falcate, altre in forma di mezzo cerchio, altre di
più che mezzo, e forse altre interamente piene: ora con maggior
verità scrive, rarissime essere sferiche, e spessissime di figure
irregolari. Ha parimente osservato, come rarissime o nessuna mentengono la
medesima figura per tutto 'l tempo che restano cospicue, ma stravagantemente si
vanno mutando, ed ora crescendo ora scemando; e, quello che è
più, ha veduto come improvisamente altre nascono, altre si dissolvono,
anco nel mezo del Sole, e come alcune si dividono in due o più ed,
all'incontro, molte si uniscono in una: i quali particolari furon da me toccati
nella prima lettera. Stimò già, che le fossero stelle erranti, e
situate in diverse lontananze dal Sole, sì che alcune fussero meno ed
altre più remote, in guisa che moltissime andassero vagando tra 'l Sole
e Mercurio e ancora tra Mercurio e Venere, in debite distanze, facendosi
visibili solamente quando s'incontrano col Sole; ma ora non sento raffermar una
tanta lontananza, e parmi che e' si contenti di mostrar che le non sono dentro
al corpo solare né contigue alla sua superficie, ma fuori, in lontananza
solamente di qualche considerazione, come si può ritrarre dalle ragioni
che egli usa in dimostrar la sua opinione.
Io facilmente
converrei con Apelle in creder che le non sieno nel Sole, cioè immerse
dentro alla sua sustanza; ma non affermerei già questo in vigor delle
ragioni addotte da esso, nella prima delle quali e' piglia un supposto che
senz'altro gli sarà negato da chi volesse difender il contrario: perché
non è alcuno così semplice, che volendo sostener le macchie esser
immerse dentro alla solar sostanza, e appresso ammetter la loro continua
mutabilità di figura di mole di separazione ed accozzamento, conceda
insieme il Sole esser duro ed immutabile; ma resolutamente negherà tale
assunto e la prova che di esso apporta Apelle, fondata su l'opinione, per suo
detto, comune di tutti i filosofi e matematici: né piccola ragione averà
di negarla, sì perché l'autorità dell'opinione di mille nelle
scienze non val per una scintilla di ragione di un solo, sì perché le
presenti osservazioni spogliano d'autorità i decreti de' passati
scrittori, i quali se vedute l'avessero, avrebbono diversamente determinato. In
oltre, quei medesimi autori che hanno stimato il Sole non esser cedente né
mutabile, hanno molto men creduto ch'e' fosse sparso di macchie tenebrose; e
però dove fosse forza che l'opinione del non esser macchiato cedesse
all'esperienza, indarno si ricorrerebbe per difesa all'opinione della durezza e
dell'immutabilità, perché dove cede quella che pareva più salda,
molto meno resisteranno le men gagliarde: anzi gli avversarii, acquistando
forza, negheranno il Sole esser duro o immutabile, poi che non la semplice
opinione, ma l'esperienza glie lo mostra macchiato. E quanto a i matematici,
non si sa che alcuno abbia mai trattato della durezza ed immutabilità
del corpo solare, né che l'istessa scienza matematica sia bastante a formar
dimostrazioni di simili accidenti.
La seconda
ragione, fondata sul vedersi alcune macchie più oscure verso la
circonferenza del Sole che poi quando sono verso le parti medie, dove par che
si vadino rischiarando, non par che stringa l'avversario a doverle por fuori
del Sole; sì perché l'esperienza del fatto per lo più, se non
sempre, accade in contrario, sì perché la rarefazione e condensazione,
accidenti non negati alle macchie, son bastanti per render ragione di tal
effetto, e forse non men di quello che Apelle n'apporta dicendo che l'irradiazione
più diretta e più forte, fatta quando la macchia è intorno
al mezo del disco che quando è vicina alla circonferenza, produce tal
diminuzion di negrezza. [...] E però, per mio parere, meglio per
avventura sarebbe il dire (qual volta non si volesse ricorrere al più o
men denso e raro) che l'istessa macchia appar meno oscura intorno al centro che
verso l'estremità, perché qui vien veduta per coltello e quivi per
piatto, accadendo in questo l'istesso che in una piastra di vetro, la quale
veduta per taglio appare oscura e opaca molto, ma per piano chiara e
trasparente; e questo servirebbe per argomento a dimostrar che la larghezza di
tali macchie è molto maggior che la loro profondità.
Quello che si
soggiugne per provare che le macchie non son lagune o cavernose voragini nel
corpo solare, si può liberamente concedere tutto, perché io non credo
che alcuno sia per introdur mai una tale opinione per vera. Ma perché né io né,
che io sappia, altri ha conteso che le macchie siano immerse nella sustanza del
Sole, ma ben ho replicatamente scritto a V. S., e, s'io non m'inganno,
necessariamente concluso, che le siano o contigue al Sole o per distanza a noi
insensibile separate da quello, è bene che io esamini le ragioni che
Apelle produce per argomenti irrefragabili onde la di loro lontananza non
piccola dalla solar superficie ci si faccia manifesta.
Prende Apelle la
sua ragione dal vedersi le macchie dimorar a tempi ineguali sotto la faccia del
Sole, e quelle che la traversano per la linea massima, passando per lo centro,
dimorar più che quelle che passano per linee remote dal centro; e ne
adduce l'osservazion di due, l'una delle quali dimorò giorni 16 nel
diametro, e l'altra, passando alquanto lontana dal centro, scorse la sua linea
in giorni 14. Or qui vorrei trovar parole di poter senza offesa di Apelle, il
quale io intendo di onorar sempre, negare tale esperienza; perché, avendo io
circa questo particolare fatte molte e molte diligentissime osservazioni, non
ho trovato incontro alcuno onde si possa concluder altro, se non che le macchie
tutte indifferentemente dimorano sotto 'l solar disco tempi eguali, che al mio
giudizio sono qualche cosa più di giorni 14: e questo affermo tanto
più resolutamente, quanto che sarà per avanti in potestà
di ciascheduno il farne senza incomodo mille e mille osservazioni. E quanto
alla particolare esperienza che Apelle ci propone, v'ho qualche scrupolo, per
aver egli eletto nella prima osservazione non il transito di una macchia sola,
ma di un drappello assai numeroso, e di macchie che molto si andarono variando
di posizione tra di loro; dalle quali cose ne conséguita che tale osservazione,
come soggetta a molte accidentarie alterazioni, non sia a bastanza sicura per
determinare essa sola una tanta conclusione. Anzi gl'irregolari movimenti
particolari di esse macchie rendono le osservazioni soggette a tali
alterazioni, che non è da prender resoluzione se non dalla conferenza di
molti e molti particolari: il che ho fatto sopra la moltitudine di più
di 100 disegni grandi ed esatti, ed ho incontrate bene alcune piccole
differenze di tempi ne i passaggi, ma ho anco trovato alternatamente esser non
meno talor più tarde le macchie de' cerchi più vicini al centro
del disco, che altra volta quelle de' più remoti.
Ma quando anco
non ci fosse in pronto di poter far incontri sopra i disegni già fatti e
sopra quelli che si faranno, parmi ad ogni modo di poter dalle cose stesse
proposte ed ammesse da Apelle ritrar certa contradizione, per la quale molto
ragionevolmente si possa dubitare circa la verità dell'addotta
osservazione ed, in consequenza, della conclusione che indi si deduce.
Imperò che io prima considero, che dovendo egli valersi della
disegualità de' tempi de' passaggi delle macchie come di argomento
necessariamente concludente la notabil lontananza loro dalla superficie del
Sole, è forza che e' supponga, quelle essere in una sola sfera che di un
moto comune a tutte si vada volgendo; perché se e' volesse che ciascuna avesse
suo moto particolare, niente da ciò si potrebbe raccòrre che concernesse
alla prova della remozion loro dal Sole, perché si potria sempre dire che la
maggior o la minor dimora di queste o di quelle nascesse non dalla distanza
della lor sfera dal Sole, ma dalla vera e reale desegualità de' lor
proprii moti. [...]
E perché, come
ho detto ancora, questo è punto principalissimo in questa materia, e la
differenza tra Apelle e me è grande (poi che le conversioni delle
macchie a me paiono tutte eguali e traversare il disco solare in giorni l4 e
mezzo in circa, e ad esso tanto ineguali, che alcuna consumi in tal passaggio
giorni 16 o più, ed altra 9 solamente), parmi che sia molto necessario
il tornar con replicato esame a ricercar l'esatto di questo particolare;
ricordandoci che la natura, sorda ed inesorabile a' nostri preghi, non è
per alterare o ner mutare il corso de' suoi effetti, e che quelle cose che noi
procuriamo adesso d'investigare e poi persuadere a gli altri, non sono state
solamente una volta e poi mancate, ma seguitano e seguiteranno gran tempo il
loro stile, sì che da molti e molti saranno vedute ed osservate: il che
ci deve esser gran freno per renderci tanto più circospetti nel
pronunziare le nostre proposizioni, e nel guardarci che qualche affetto, o
verso noi stessi o verso altri, non ci faccia punto piegare dalla mira della
pura verità. [...]
Io spero che da
quanto sin qui ho detto Apelle doverà restar satisfatto, e massime
aggiugnendovi quello che ho scritto nella seconda lettera; e crederò
ch'e' non sia per metter difficoltà non solo nella massima vicinanza
delle macchie al globo solare ma né anco nella di lui revoluzione in sé
medesimo. In confirmazion di che, posso aggiugnere alle ragioni che scrissi
nella seconda lettera a V. S., che nella medesima faccia del Sole, si veggono
tal volta alcune piazzette più chiare del resto, nelle quali, con
diligenza osservate, si vede il medesimo movimento che nelle macchie; e che
queste sieno nell'istessa superficie del Sole, non credo che possa restar
dubbio ad alcuno, non essendo in verun modo credibile che si trovi fuor del
Sole sustanza alcuna più di lui risplendente: e se questo è, non
mi par che rimanga luogo di poter dubitare del rivolgimento del globo solare in
sé medesimo. E tale è la connession de' veri, che di qua poi
corrispondentemente ne séguita la contiguità delle macchie alla
superficie del Sole, e l'esser dalla sua conversione menate in volta; non
apparendo veruna probabil ragione, come esse (quando fossero per molto spazio
separate dal Sole) dovessero seguitare il di lui rivolgimento.
Restami ora il
considerare alcune consequenze che Apelle va deducendo dalle cose disputate: la
somma delle quali par che tenda al sostentamento di quel ch'egli si trova avere
stabilito nelle sue prime lettere, cioè che tali macchie in fine altro
non sieno che stelle vaganti intorno al Sole; perché non solamente e' torna a
nominarle stelle solari, ma va accomodando alcune convenienze e requisiti tra
esse e l'altre stelle, acciò resti tolta ogni discrepanza e ragione di
segregarle dalle vere stelle. Per tal rispetto ed anco per applauder alle mie
montuosità lunari (del quale affetto io gli rendo grazie), dice che tal
mia opinione non è improbabile scorgendosi anco l'istesso nella maggior
parte di queste macchie; ragione, in vero, che congiunta con le altre dimostrazioni
ch'io produco, doverà quietare ogn'uno.
Che il parer di
quelli che pongono abitatori in Giove, in Venere in Saturno e nella Luna sia
falso e dannando, intendendo però per abitatori gli animali nostrali e
sopra tutto gli uomini, io non solo concorro con Apelle in reputarlo tale, ma
credo di poterlo con ragioni necessarie dimostrare. Se poi si possa
probabilmente stimare, nella Luna o in altro pianeta esser viventi e vegetabili
diversi non solo da i terrestri, ma lontanissimi da ogni nostra immaginazione,
io per me né lo affermerò né lo negherò, ma lascerò che
più di me sapienti determinino sopra ciò, e seguiterò le
loro determinazioni; sicuro che sieno per esser meglio fondate della ragione
addotta da Apelle in questo luogo, cioè che sarebbe assurdo il mettergli
in tanti corpi, quasi che il porre animali, per essempio, nella Luna non si
potesse far senza porgli anco nelle macchie solari. Né anco ben capisco
l'illazione che fa Apelle del doversi conceder qualche lume reflesso alla
Terra, persuadendone ciò le macchie solari: anzi, perché la loro
reflessione non è molto cospicua, e quello che in esse scorgiamo non
può esser altro che lume refratto, se nulla convenisse dedur da tale
accidente sarebbe più presto che la Terra fosse di sostanza trasparente
e permeabile dal lume del Sole; il che poi non appar vero. Non però dico
che la Terra non lo refletta; anzi per molte ragioni ed esperienze son
sicurissimo ch'ella non meno s'illustra di qualunque altra stella, e che con la
sua reflessione luce assai maggiore rende alla Luna di quella che da lei
riceve.
Ma poi che
Apelle si rende così difficile a conceder questa così potente
reflessione di lume fatta dal globo terreste, e così facile ad ammettere
il corpo lunare traspicuo e penetrabile da i raggi solari, come in questo luogo
ed ancor più apertamente replica verso il fine di questi discorsi,
voglio produrre una o due delle molte ragioni che mi persuadono quella
conclusione per vera e questa per falsa; le quali, per avventura risolute con
qualche occasione da Apelle, potrebbono farmi cangiar opinione. Non
tacerò intanto che io fortemente dubito, che questo comun concetto, che
la Terra, come opachissima oscura ed aspra che l'è, sia inabile a
reflettere il lume del Sole, sì come all'incontro molto lo reflette la
Luna e gli altri pianeti, sia invalso tra 'l popolo perché non ci avvien mai il
poterla vedere da qualche luogo tenebroso e lontano nel tempo che il Sole la
illumina, come, per l'opposito, frequentemente vediamo la Luna, quando ed ella
si trova nel campo oscuro del cielo, e noi siamo ingombrati dalle tenebre
notturne; ed accadendoci, dopo aver non senza qualche meraviglia fissati gli
occhi nello splendor della Luna e delle stelle, abbassargli in Terra, restiamo
dalla sua oscurità in certo modo attristati, e di lei formiamo una tale
apprensione, come di cosa repugnante per sua natura ad ogni lucidezza; non
considerando più oltre, come nulla rileva al ricevere e reflettere il
lume del Sole, la densità oscurità ed asprezza della materia e
che l'illuminare è dote e virtù del Sole, non bisognosa
d'eccellenza veruna ne i corpi che devono essere illuminati, anzi più
presto sendo necessario il levargli certe condizioni più nobili, come la
trasparenza della sustanza e la lisciezza della superficie, facendo quella
opaca e questa ruvida e scabrosa: ed io son molto ben sicuro, contro alla
comune opinione, chè quando la Luna fosse polita e tersa come uno
specchio, ella non solamente non ci refletterebbe, come fa, il lume del Sole,
ma ci resterebbe assolutamente invisibile, come se la non fosse al mondo; il
che a suo luogo con chiare dimostrazioni farò manifesto.
Ma per non
traviare dal particolare che ora tratto, dico che facilmente m'induco a
credere, che se già mai non ci fosse occorso il veder la Luna di notte,
ma solamente di giorno, avremmo di lei fatto il medesimo concetto e giudizio
che della Terra: perché, se porremo cura alla Luna il giorno, quando talvolta,
sendo più che 'l quarto illuminata, ella s'imbatte a trovarsi tra le
rotture di qualche nugola bianca o vero incontro a qualche sommità di
torre o altro muro di color mezzanamente chiaro, quando rettamente sono
illustrati dal Sole, sì che della chiarezza di quelli si possa far
parallelo col lume della Luna, certo si troverà la lor lucidezza non
esser inferiore a quella della Luna; onde se loro ancora potessero mantenersi
così illustrati sin alle tenebre della notte, lucidi ci si mostrerieno
non meno della Luna, né men di quella illuminerebbono i luoghi a loro
circonvicini, sin a tanta distanza da quanta la lor grandezza non apparisse
minor della faccia lunare; ma le medesime nugole e l'istesse muraglie,
spogliate de' raggi del Sole, rimangono poi la notte, non men della Terra,
tenebrose e nere. Di più, gran sicurezza doveremo noi pur prender
dall'efficace reflession della Terra dal veder quanto lume si sparga in una
stanza priva d'ogn'altra luce, e solo illuminata dalla reflession di qualche
muro oppostogli e tocco dal Sole, ancor che tal reflessione passi per un foro
così angusto, che dal luogo dove ella vien ricevuta non apparisca il suo
diametro sottendere ad angolo maggiore che 'l visual diametro della Luna; nulla
di meno tal luce secondaria è così potente, che, ripercossa e
rimandata dalla prima in una seconda stanza, sarà ancor tanta che non
punto cederà alla prima reflessione della Luna: di che si ha chiara e
facile esperienza dal veder che più agevolmente leggeremo un libro con
la seconda reflession del muro, che con la prima della Luna. Aggiungo
finalmente, che pochi saranno quelli a' quali, scorgendo di notte da lontano
qualche fiamma sopra d'un monte, non sia accaduto star in dubbio, se fosse un
fuoco o una stella radente l'orizonte, non ci apparendo il lume della stella
superiore a quel d'una fiamma; dal che ben si può credere che se la
Terra fosse tutta ardente e piena di fiamme, veduta dalla parte tenebrosa della
Luna, si mostrerebbe non men lucida d'una stella: ma ogni sasso ed ogni zolla
percossa dal Sole e assai più lucida che se ardesse; il che si
conoscerà facilmente, accostando una candela accesa appresso una pietra
o un legno direttamente ferito dal raggio solare, al cui paragone la fiamma
resta invisibile: adunque la Terra, percossa dal Sole, veduta dalla parte
tenebrosa della Luna, si mostrerà lucida come ogn'altra stella; e tanto
maggior lume refletterà nella Luna, quanto ella vi si dimostra di
smisurata grandezza, cioè di superficie circa 12 volte maggiore di
quello che la Luna apparisce a noi; oltre che, trovandosi la Terra nel
novilunio più vicina al Sole che la Luna nel plenilunio, e però
sendo più gagliardamente, cioè più d'appresso, illuminata
quella che questa, più gagliardamente, in consequenza refletterà
il lume la Terra verso la Luna, che la Luna verso la Terra.
Per queste e per
molte altre ragioni ed esperienze, che per brevità tralascio, dovrebbe,
per mio credere, stimarsi la reflession della Terra bastante alla secondaria
illuminazion della luna, senza bisogno d'introdurvi alcuna perspicuità,
e massime perspicuità in in quel grado che da Apelle ci viene assegnata,
nella quale mi par di scorgere alcune inesplicabili contradizioni. Egli scrive,
la trasparenza del corpo lunare esser tanta, che ne gli eclissi del Sole,
mentre di lui una parte era ricoperta dalla Luna, si scorgeva sensibilmente per
la di lei profondità tralucer il disco del Sole, notabilmente dintornato
e distinto. Ora io noto, che una semplice nugola, e non delle più dense,
interponendosi tra il Sole e noi, talmente ce l'asconde, che indarno cercheremo
di appostare a molti gradi il luogo dove ei si ritrova nel Cielo, non che
potessimo vedere il suo perimetro distinto e terminato; e molto frequentemente
si vedrà il Sole mezo coperto da una nugola, senza che appaia né anco
accennato un minimo vestigio della circonferenza della parte celata; e pure
siamo sicuri che la grossezza di tal nugola non sarà molte decine o al
più centinaia di braccia: ed oltre a ciò, se tal volta, essendo
sul giogo di qualche montagna, c'imbattiamo a passar per una tal nugola, non la
troviamo esser tanto densa e opaca, che almeno per alcune poche braccia non dia
il transito alla nostra vista; il che non farebbe per avventura altrettanta
grossezza di vetro o di cristallo: onde per necessaria consequenza si
raccoglie, se e vero quanto Apelle scrive, che la trasparenza della Luna sia
infinitamente maggiore che quella d'una nugola, poi che molto meno impediscono
il passaggio de' raggi solari duemila miglia di profondità della
sustanza lunare, che poche braccia di grossezza d'una nugola; sarà,
dunque, la sustanza lunare assai più trasparente del vetro o del cristallo:
la qual cosa poi per altri rispetti si convince d'impossibilità. Perché,
primieramente da un diafano nel quale tanto si profondassero i raggi solari,
niuna o pochissima reflessione si farebbe; dove che, all'incontro, grandissima
si fa dalla Luna. Secondariamente, il termine che distinguesse la parte
illuminata della Luna dalla parte non tocca da i raggi diretti del Sole sarebbe
nullo o indistintissimo, come si può vedere in una gran palla di vetro
piena d'acqua, ben che torbida, o d'altro liquore non interamente trasparente
(ché se fosse acqua limpida, tal termine non si vedrebbe punto). Terzo, essendo
tanto trasparente la sustanza lunare, che in grossezza di duemila miglia desse
il transito al lume del Sole, non si può dubitare che una grossezza
della medesima materia che non fosse più di una delle dugento o trecento
parti sarebbe in tutto trasparentissima; al che totalmente repugnano le
montuosità lunari, le quali tutte, ben che molte di loro si vegghino
assai sottili e strette, oscurano d'ombre nerissime le parti circonvicine e
basse, come in luoghi innumerabili si scorge, e massime nel confine tra
l'illuminato e l'oscuro, dove taglientissimamente e crudamente, quanto
più imaginar si possa, i lumi conterminano con le ombre, il quale
accidente in verun modo non può aver luogo se non in materie simili in
asprezza ed opacità alle nostre più alpestri montagne.
Finalmente, quando lo splendor del Sole penetrasse tutta la corpulenza della
Luna, la chiarezza dell'emisfero non tocco da i raggi dovria mostrarsi sempre
l'istessa né mai diminuirsi, poi che sempre è nell'istesso modo
illuminata la metà della Luna: o se pur diversità alcuna veder vi
si dovesse dovrebbesi nel novilunio veder la parte di mezzo più oscura
del resto, essendo quivi maggior la profondità della materia da esser
penetrata; e nelle quadrature maggior chiarezza dovria esser vicino al confin
della luce, e minor nella parte più remota. Le quali cose, e molte altre
che per brevità trapasso, rendono iscordissima tal ipotesi
dall'apparenze; dove che l'assunto dell'opacità e dell'asprezza della
Luna, e la reflessione del lume del Sole nella Terra, ipotesi tutte e vere e
sensate, con mirabil facilità e pienezza satisfanno ad ogni particolar
problema. Ma di ciò più diffusamente tratto in altra occasione.
E tornando a i
particolari d'Apelle, sento nascermi qualche poco d'inclinazione a dubitar
ch'egli, trasportato dal desiderio di mantenere il suo primo detto, né potendo
puntualmente accomodar le macchie a gli accidenti per l'addietro creduti
convenirsi all'altre stelle, accomodi le stelle a gli accidenti che veggiamo
convenirsi alle macchie: il che assai manifesto par che si scorga in due altri
gran particolari ch'egli introduce. L'uno de' quali è, che probabilmente
si possa dire, anco le altre stelle esser di varie figure ed apparir rotonde
mediante il lume e la distanza, come accade nella fiamma della candela (e ci si
potria aggiugnere, in Venere cornicolata): e in vero tale asserzione non si
potrebbe convincer di manifesta falsità, se il telescopio, col mostrarci
la figura di tutte le stelle, così fisse come erranti, di assoluta
rotondità, non decidesse tal dubbio. L'altro particolare è, che
non si potendo negare che le macchie si produchino e si dissolvino, per non le
sequestrar per tale accidente dall'altre stelle, non dubita d'affermare che
anco le altre stelle si vadino disfacendo e redintegrando; ed in particolare
reputa per tali quelle ch'io ho osservato muoversi intorno a Giove, delle quali
torna a replicare il medesimo che scrisse nelle prime lettere, raffermandolo come
fondatamente detto, cioè che, al modo stesso dell'ombre solari, altre
repentinamente appariscono ed altre svaniscono, sì che, pur come quelle,
altre sempre ad altre succedono, senza mai ritornar le medesime: né picciolo
argomento cava in confirmazion di ciò dalla difficoltà e forse
impossibilità, come egli stima, del cavare i loro periodi ordinati dalle
osservazioni, delle quali egli afferma averne molte ed esatte, e sue; proprie e
di altri. Or qui desidererei bene che Apelle non continuasse di reputarmi per
uomo così vano e leggiero, che non solo i' avessi palesate ed offerte al
mondo macchie ed ombre per istelle, ma, quello che più importa, avessi
dedicato alla gloria di sì gran Principe qual è il Serenissimo
Gran Duca mio Signore, ed all'eternità di casa tanto regia, cose
momentanee instabili e transitorie. Replicogli per tanto, che i quattro pianeti
Medicei sono stelle vere e reali, permanenti e perpetue come l'altre, né si
perdono o ascondono se non quanto si congiungono tra loro o con Giove, o si oscurano
tal volta per poche ore nell'ombra di quello, come la Luna in quella della
Terra: hanno i lor moti regolatissimi ed i lor periodi certi, li quali se egli
non ha potuto investigare, forse non vi si è affaticato quanto me, che
dopo molte vigilie pur li guadagnai, e già gli ho palesati con le stampe
nel proemio del mio trattato Delle cose che stanno su l'acqua o che in quella
si muovono, come V. S. arà potuto vedere; ed acciò che Apelle
possa tanto maggiormente deporre ogni dubbio, io mando a V. S. le costituzioni
future per due mesi, cominciando dal dì primo di Marzo 1613, con le
annotazioni de i progressi e mutazioni che d'ora in ora son per fare, le quali
egli potrà andar incontrando, e troveralle rispondere esattamente, se
già non mi sarà per inavvertenza occorso qualche errore nel
calcolarle. Desidero appresso, che con nuova diligenza torni ad osservarne il
numero che troverà non esser più di 4: e quella quinta che e'
nomina, fu senz'altro una fissa, e le conietture dalle quali e' si lasciò
sollevare a stimarla errante, ebbero per lor fondamento varie fallacie;
conciosia cosa che le sue osservazioni, primieramente sono errate bene spesso,
come io veggo da' suoi disegni, perché lasciano qualche stella che in quelle
ore fu cospicua: secondariamente, gl'interstizi tra di loro e rispetto a Giove
sono errati quasi tutti, per mancamento, com'io credo, di modo e di strumento
da potergli misurare; terzo, vi sono grandi errori nella permutazione delle
stelle, scambiandole il più delle volte l'una dall'altra e confondendo
le superiori con l'inferiori, senza riconoscerle di sera in sera; le quali cose
gli sono state causa dell'inganno.
[...] Ma
più: qual incostanza è questa d'Apelle a voler, per provare una
sua fantasia, suppor in questo luogo che le stelle notate nelle sue
osservazioni e conrassegnate con i medesimi caratteri si conservino le
medesime; dicendo poi poco più a basso, creder fermamente che le si
vadino continuamente producendo e successivamente dissolvendo, senza ritornar
mai l'istesse? E se questo è, qual cosa vuol egli, e può,
raccòrr da questi suoi discorsi?
All'altra
ragione che Apelle adduce pur in confirmazione della vera esistenza del suo
quinto pianeta Gioviale, non mi permettendo la fede e l'autorità, ch'ei
tiene appresso di me, ch'io metta dubbio nell'an sit, non posso dir
altro se non che io non son capace, come possa accadere che una stella, veduta
col telescopio di mole e splendore pari ad una della prima grandezza, possa in
manco 10 giorni, e, quel che più mi confonde, senza muoversi d'un quarto
o di un ottavo di grado, anzi, per più ver dire, senza punto mutar
luogo, possa, dico, diminuirsi in maniera, che anco del tutto si perda. Non so
che simil portento sia mai stato veduto in cielo, fuori che le due, nominate, Stelle
Nuove, del
Non son dunque
le Gioviali, né l'altre stelle, macchie ed ombre, né l'ombre e macchie solari
sono stelle. Ben è vero ch'io metto così poca difficoltà
sopra i nomi, anzi pur so ch'è in arbitrio di ciascuno l'imporgli, a
modo suo, che, tuttavolta che col nome altri non credesse di conferirgli le
condizioni intrinseche ed essenziali, poco caso farei del nominarle stelle: in
quella guisa che stelle si dissero le sopranominate del 72 e del 604; stelle
nominano i meteorologici le crinite, le cadenti e le discorrenti per aria, ed
essendo in fin permesso a gli amanti ed a' poeti chiamare stelle gli occhi
delle lor donne,
Quando si
vidde il successor d'Astolfo
sopra apparir
quelle ridenti stelle.
Con simile
ragione potransi chiamare stelle anco le macchie solari; ma essenzialmente
averanno condizioni differenti non poco dalle prime stelle: avvenga che le vere
stelle ci si mostrano sempre di una sola figura, ed è la regolarissima
fra tutte; e le macchie, d'infinite, ed irregolarissime tutte: quelle,
consistenti né mai mutatesi di grandezza o di forma; e queste, instabili sempre
e mutabili: quelle, l'istesse sempre, e di permanenza che supera le memorie di
tutti i secoli decorsi; queste, generabili e dissolubili dall'uno all'altro
giorno: quelle, non mai visibili, se non piene di luce; queste, oscure sempre,
e splendide non mai: quelle, o in tutto immobili, o mobili ogn'una per sé, di
moti proprii, regolari e tra di loro differentissimi; queste, mobili di un moto
solo, comune a tutte, regolare solamente in universale, ma da infinite
particolari disagguaglianze alterato: quelle, costituite tutte in particolare
in diverse lontananze dal Sole; e queste, tutte contigue, o insensibilmente
remote dalla sua superficie: quelle, non mai visibili se non quando sono assai
separate dal Sole; queste, non mai vedute se non congiuntegli: quelle, di
materia probabilissimamente densa ed opacissima; queste, rare a guisa di nebbia
o fumo. Ora io non so per qual ragione le macchie si devino ascrivere tra
quelle cose con le quali non hanno pure una particolar convenienza che non ve
l'abbino ancora cento altre che stelle non sono, più presto che tra
quelle con le quali mostrano di convenire in ogni particolare. Io le agguagliai
alle nostre nugole o a fumi; e certo chi volesse con alcuna delle nostre
materie imitarle, non credo che facilmente si trovasse più aggiustata
imitazione, che 'l porre sopra una rovente piastra di ferro alcune piccole
stille di qualche bitume di difficil combustione, il quale sul ferro
imprimerebbe una macchia nera, dalla quale, come da sua radice, si eleverebbe
un fumo oscuro, che in figure stravaganti e mutabili si anderebbe spargendo. E
se alcuno pur volesse opinabilmente stimare, che alla restaurazione
dell'immensa luce che da sì gran lampada continuamente si diffonde per
l'espansion del mondo, facesse di mestiere che continuamente fusse
somministrato pabulo e nutrimento, ben averebbe non una sola, ma 100 e tutte
l'esperienze concordemente favorevoli, nelle quali vediamo tutte le materie,
fatte prossime all'incendersi e convertirsi in luce, ridursi prima ad un color
nero ed oscuro; così vediamo ne' legni nella paglia, nella carta, nelle
candele, ed in somma in tutte le cose ardenti, esser la fiamma impiantata e
sorgente dalle contigue parti di tali materie, prima convertite in color nero.
E più direi, che forse più accuratamente osservando le
sopranominate piazzette, lucide più del resto del disco solare, si
potrebbe ritrovare, quelle esser i luoghi medesimi dove poco avanti si fossero
dissolute alcune delle macchie più grandi. Io però non intendo di
asserire alcuna di queste cose per certa, né di obbligarmi a sostenerla, non mi
piacendo di mescolar le cose dubbie tra le certe e resolute.
Di qua dall'Alpi
va attorno, come intendo tra non piccol numero de i filosofi peripatetici a i
quali non grava il filosofare per desiderio del vero e delle sue cause (perché
altri che indifferentemente negano tutte queste novità e sene burlano,
stimandole illusioni, è ormai ternpo che ci burliamo di loro, e che essi
restino invisibili ed inaudibili insieme), va attorno, dico, per difender
l'inalterabilità del cielo (la quale forse Aristotele medesimo in questo
secolo abbandonerebbe), una opinione conforme a questa d'Apelle, e solamente
diversa, che dove egli pone per ciascuna macchia una stella sola, questi fanno
le macchie congerie di molte minutissime, le quali con loro differenti
movimenti aggregandosi, or in maggior copia, ora in minore, e quindi
separandosi, formino e maggiori e minori macchie, e di sregolate e diversissime
figure. Io, già che ho passato il segno della brevità con V. S.,
sì che ella è per leggere in più volte la presente
lettera, mi prenderò libertà di toccare qualche particolare sopra
questo punto.
Nel quale il
primo concetto che mi viene in mente è, che i seguaci di questa opinione
non abbino auto occasione di far molte e molto diligenti e continuate
osservazioni; perché mi persuado che alcune difficoltà gli averebbono
resi non poco dubbii e perplessi nell'accomodare una tal posizione alle
apparenze. Perché, se bene è vero in genere che molti oggetti, ben che
per la lor piccolezza o lontananza invisibili ciascuno per sé solo, uniti
insieme possono formare un aggregato che divenga percettibile alla nostra
vista, tuttavia non è da fermarsi su questa generalità, ma
bisogna che descendiamo a i particolari proprii delle stelle ed a quelli che si
osservano nelle macchie, e che diligentemente andiamo esaminando, con qual
concordia questi e quelli possino mischiarsi e convenire insieme; e per non far
come quel castellano che, sendo con piccol numero di soldati alla difesa d'una
fortezza, per soccorrer quella parte che vede assalita vi accorre con tutte le
forze lasciando intanto altri luoghi indifesi ed aperti, conviene che, mentre
ci sforziamo di difender l'immutabilità del cielo, non ci scordiamo de i
pericoli a i quali per avventura potriano restar esposte altre proposizioni,
pur necessarie alla conservazione della filosofia peripatetica. E però,
se questa deve restare nella sua integrità e saldezza, conviene che, per
mantenimento d'altre sue proposizioni, diciamo primieramente, delle stelle
altre esser fisse, altre erranti: chiamando fisse quelle che, sendo tutte in un
medesimo cielo, al moto di quello si muovono tutte, restando intanto immobili
tra di loro; ma erranti, quelle.che hanno ogn'una per sé movimento proprio:
affermando di più, che le conversioni non meno di queste che di quelle
sono ciascheduna equabile in sé medesima, non convenendo dare alle lor motrici
intelligenze briga di affaticarsi or più or meno, che saria condizione
troppo repugnante alla nobiltà ed alla inalterabilità loro e
delle sfere. Stanti queste proposizioni, non si può, primieramente, dire
che tali stelle solari sien fisse; perché, quando non si mutassero tra di loro,
impossibil sarebbe vedere le mutazioni continue che pur si scorgono nelle
macchie, ma sempre vedremo ritornar le medesime configurazioni. Resta, dunque,
che le siano mobili, ciascheduna per sé, di movimenti diseguali fra di loro, ma
ben ciascuno equabile in sé medesimo: ed in tal guisa potrà seguire
l'accozzamento e la separazione di alcune di loro, ma non però potranno
mai formar le macchie; il che intenderemo considerando alcuni particolari che
nelle macchie si scorgono. Uno de' quali è, che vedendosene alcune molto
grandi prodursi e dissolversi, è forza che le siano composte non di due
o di quattro stelle solamente, ma di 50 e 100, perché altre macchiette pur si
veggono, minori della cinquantesima parte d'una delle grandi; se, dunque, una di
queste si dissolve, sì che totalmente svanisce da gli occhi nostri,
è necessario che la si divida in più di 50 stellette, ciascheduna
delle quali ha il suo proprio e particolar moto, equabile e differente da
quello d'ogn'altra, perché due che avessero il moto comune non si
congiugnerebbono o non si separerebbono già mai in faccia del Sole: ma
se queste cose son vere, chi non vede essere assolutamente impossibile la
formazione delle macchie? e massime durando esse non solamente molte ore, ma
molti giorni; sì come è impossibile che cinquanta barche,
movendosi tutte con velocità differenti, si unischino già mai, e
per lungo spazio vadino di conserva. Quando le stellette fussero disunite, e
però invisibili, non potriano essere se non per lunghi ordini disposte,
l'una dopo l'altra, secondo la lunghezza de' lor paralleli, ne i quali
(sì come nelle visibili macchie si scorge) tutte verso la medesima parte
si vanno movendo; onde tantum abest che 40 o 50 o100 di loro potessero
tanto frequentemente aggregarsi e così unite per lungo spazio
conservarsi, che per l'opposito rarissime volte accader potrebbe che, tra
momenti diseguali, cadesse sì numeroso concorso di stelle in un sol
luogo: ma assolutamente poi sarebbe impossibile che e' non si dissolvesse in
brevissimo tempo; e pur, all'incontro, si veggono molte macchie conservarsi
talora per molti giorni, con poca alterazion di figura. Chi, dunque,
vorrà sostener, le macchie esser congerie di minute stelle, bisogna che
introduca nel cielo ed in esse stelle e movimenti innumerabili, tumultuarii,
difformi e lontani da ogni regolarità; il che non ben consuona con
alcuna probabil filosofia.
Sarà, di
più, necessario porle più numerose di tutte l'altre visibili
stelle: perché, se noi riguarderemo la moltitudine e grandezza di tutte le macchie
che tal volta si son vedute sotto l'emisferio del Sole, e quelle andremo
risolvendo in particelle così piccole che divenghino incospicue,
troveremo bisognar che necessariamente le siano molte centinaia; ed essendo, di
più, credibile che altre ne siano non solamente sopra l'altro emisferio,
ma dalle bande ancora del Sole, non si potrà ragionevolmente sfuggire di
dover porle oltre al migliaio. Or qual simmetria si andrà conservando
tra le lontananze delle stelle erranti ed i tempi delle lor conversioni, se
discendendo dall'immenso cerchio di Saturno sin all'angustissirno di Mercurio
non s'incontrano più di 10 o 12 stelle né più di 6 conversioni di
periodi differenti intorno al Sole, dovendone poi collocar centinaia e migliaia
dentro a così piccolo orbe? ché pur saria necessario racchiuderle dentro
alle digressioni di Mercurio, poi che già mai non si rendono visibili in
aspetto lucido e separate dal Sole. Ma che dico io di racchiuderle dentro
all'orbe di Mercurio? diciamo pure, che essendosi necessariamente dimostrato,
le macchie esser tutte contigue o insensibilmente remote dalla superficie del
Sole, bisogna, a chi le vuol far creder congerie di minute stelle, trovar prima
modo di persuadere che sopra la solar superficie molte e molte centinaia di
globi oscuri e densi vadino serpendo con differenti velocitadi, e spesso
urtandosi e tra di loro facendosi ostacolo, onde le scorse de' più
veloci restino per alcuni giorni impedite da i più pigri; sì che
dal concorso di gran moltitudine si formino in molti luoghi varii drappelli, di
ampiezza a noi visibile, sin tanto che la calca della sopravvegnente
moltitudine, sforzando finalmente i precedenti, si faccia strada e si disperda
il gregge.
A grandi
angustie bisogna ridursi: e poi, per sostener che? e con quale efficacia
dimostrato? Per mantenere la materia celeste aliena dalle condizioni
elementari, insino da ogni picciola alterazioncella. Se quella che vien
chiamata corruzzione fosse annichilazione, averebbono i Peripatetici qualche
ragione a essergli così nemici; ma se non è altro che una
mutazione, non merita cotanto odio; né parmi che ragionevolmente alcuno si
querelasse della corruzion dell'uovo, mentre di quello si genera il pulcino. In
oltre, essendo questa che vien detta generazione e corruzione, solo una piccola
mutazioncella in poca parte de gli elementi e quale né anco dalla Luna, orbe
prossimo, si scorgerebbe, perché negarla nel cielo. Pensano forse, argomentando
dalla parte al tutto, che la Terra sia per dissolversi e corrompersi tutta, in
guisa che sia per venir tempo nel quale il mondo, avendo Sole Luna e l'altre
stelle sia per trovarsi senza Terra? Non credo già che abbino tal
sospetto. E se le sue piccole mutazioni non minacciano alla Terra la sua total
destruzione, né gli sono d'imperfezione, anzi di sommo ornamento, perché
privarne gli altri corpi mondani, e temer tanto la dissoluzione del cielo per
alterazioni non più di queste nemiche della natural conservazione? Io
dubito che 'l voler noi misurar il tutto con la scarsa misura nostra ci faccia
incorrere in strane fantasie, e che l'odio nostro particolare contro alla morte
ci renda odiosa la fragilità: tuttavia non so dall'altra banda quanto,
per divenir manco mutabili, ci fosse caro l'incontro d'una testa di Medusa, che
ci convertisse in un marmo o in un diamante, spogliandoci de' sensi e di altri
moti, li quali senza le corporali alterazioni in noi sussister non potrebbono.
Io non voglio passar più innanzi né entrar a esaminare la forza delle
peripatetiche ragioni, al che mi riserbo in altro tempo: questo solo
soggiugnerò, parermi azione non interamente da vero filosofo il voler
persistere, siami lecito dir quasi ostinatamente in sostener conclusioni
peripatetiche scoperte manifestamente false, persuadendosi forse che
Aristotele, quando nell'età nostra Si ritrovasse, fosse per far il
medesimo; quasi che maggior segno di perfetto giudizio e più nobil
effetto di profonda dottrina sia il difendere il falso, che 'l restar persuaso
dal vero. E parmi che simili ingegni dieno occasione altrui di dubitare, che
loro per avventura apprezzin manco l'esattamente penetrar la forza delle
peripatetiche e delle contrarie ragioni, che 'l conservar l'imperio
all'autorità d'Aristotele, come ch'ella sia bastante con tanto lor minor
travaglio e fatica a schivargli tutte l'opposizioni pericolose, quanto è
men difficile il trovar testi e 'l confrontar luoghi che l'investigar
conclusioni vere e 'l formar di loro nuove e concludenti dimostrazioni. E
parmi, oltre a ciò, che troppo vogliamo abbassar la condizion nostra, e
non senza qualche offesa della natura e direi quasi della divina
Benignità (la quale per aiuto all'intender la sua gran costruzione ci ha
conceduti 2000 anni più d'osservazioni e vista 20 volte più
acuta, che ad Aristotele), col voler più presto imparar da lui quello
ch'egli né seppe né potette sapere, che da gli occhi nostri e dal nostro
proprio discorso. Ma per non m'allontanar più dal mio principal intento,
dico bastarmi per ora l'aver dimostrato che le macchie non sono stelle né
materie consistenti né locate lontane dal Sole, ma che si producono e
dissolvono intorno ad esso, con maniera non dissimile a quella delle nugole o
altre fumosità intorno alla Terra.
Questo è
quanto per ora m'è parso di dire a V. S. Illustrissima in proposito di
questa materia, la quale io credeva che dovesse essere il sigillo di tutti i
nuovi scoprimenti che ho fatti nel cielo, e che per l'avvenire mi fosse per
restar ozio libero di poter tornare senza interrompimenti ad altri miei studii,
già che mi era anco felicemente succeduto l'investigare, dopo molte
vigilie e fatiche, i tempi periodici di tutti quattro i pianeti Medicei, e
fabbricarne le tavole e ciò che appartiene a' calcoli ed altri loro
particolari accidenti; le quali cose in breve manderò in luce, con tutto
il resto delle considerazioni fatte intorno all'altre celesti novità: ma
è restato fallace il mio pensiero per l'inaspettata meraviglia con la
quale Saturno è venuto ultimamente a perturbarmi; di che voglio dar
conto a V. S.
Già le
scrissi come circa a 3 anni fa scopersi, con mia grande ammirazione, Saturno
esser tricorporeo, cioè un aggregato di tre stelle disposte in linea
retta parallela all'equinoziale, delle quali la media era assai maggiore delle
laterali. Queste furono credute da me esser immobili tra di loro: né fu la mia
credenza irragionevole; poi che, avendole nella prima osservazione vedute tanto
propinque che quasi mostravano di toccarsi, e tali essendosi conservate per
più di due anni, senza apparire in loro mutazione alcuna, ben dovevo io
credere che le fossero tra di sé totalmente immobili, perché un solo minuto
secondo (movimento incomparabilmente più lento di tutti gli altri, anco
delle massime sfere) Si sarebbe in tanto tempo fatto sensibile, o col separare
o coll'unire totalmente le tre stelle. Triforme ho veduto ancora Saturno
quest'anno circa il solstizio estivo; ed avendo poi intermesso di osservarlo
per più di due mesi, come quello che non mettevo dubbio sopra la sua
costanza, finalmente, tornato a rimirarlo i giorni passati, l'ho ritrovato
solitario senza l'assistenza delle consuete stelle, ed in somma perfettamente
rotondo e terminato come Giove, e tale si va tuttavia mantenendo. Ora che si ha
da dir in così strana metamorfosi? forse si sono consumate le due minor
stelle, al modo delle macchie solari? forse sono sparite e repentinamente
fuggite? forse Saturno si ha divorato i proprii figli? o pure è stata
illusione e fraude l'apparenza con la quale i cristalli hanno per tanto tempo
ingannato me con tanti altri che meco molte volte gli osservarono? è
forse ora venuto il tempo di rinverdir la speranza, già prossima al
seccarsi, in quelli che, retti da più profonde contemplazioni, hanno
penetrato tutte le nuove osservazioni esser fallacie, né poter in veruna
maniera sussistere? Io non ho che dire cosa resoluta in caso così strano
inopinato e nuovo la brevità del tempo, l'accidente senza esempio, la
debolezza dell'ingegno e 'l timore dell'errare, mi rendono grandemente confuso.
Ma siami per una volta permesso di usare un poco di temerità, la quale
mi dovrà tanto più benignamente esser da V. S. perdonata, quanto
io la confesso per tale, e mi protesto che non intendo di registrar quello che
son per predire tra le proposizioni dependenti da principii certi e conclusioni
sicure, ma solo da alcune mie verisimili conietture, le quali allora
farò palesi, quando mi bisogneranno o per mostrare la scusabile
probabilità dell'opinione alla quale per ora inclino, o per stabilire la
certezza dell'assunta conclusione, qual volta il mio pensiero incontri la verità.
Le proposizioni son queste: Le due minori stelle Saturnie, le quali di presente
stanno celate, forse si scopriranno un poco per due mesi intorno al solstizio
estivo dell'anno prossimo futuro 1613, e poi s'asconderanno, restando celate
sin verso il brumal solstizio dell'anno 1614; circa il qual tempo potrebbe
accadere che di nuovo per qualche mese facessero di sé alcuna mostra, tornando
poi di nuovo ad ascondersi sin presso all'altra seguente bruma; al qual tempo
credo bene con maggior risolutezza che torneranno a comparire, né più si
asconderanno, se non che nel seguente solstizio estivo che sarà
dell'anno 1615, accenneranno alquanto di volersi occultare ma non però
credo che si asconderanno interamente, ma ben, tornando poco dopo a palesarsi,
le vedremo distintissime e più che mai lucide e grandi; e quasi
risolutamente ardirei di dire che le vedremo per molti anni senza
interrompimento veruno. Sì come, dunque, del ritorno io non ne dubito,
così vo con riserbo ne gli altri particolari accidenti, fondati per ora
solamente su probabil coniettura: ma, o succedino così per appunto o in
altro modo, dico bene a V. S. che questa stella ancora, e forse non men che
l'apparenza di Venere cornicolata, con ammirabil maniera concorre
all'accordamento del gran sistema Copernicano, al cui palesamento universale
veggonsi propizii venti indirizzarci con tanto lucide scorte, che ormai poco ci
resta da temere tenebre o traversie.
Finisco di
occupar più V. S. Illustrissima, ma non senza pregarla ad offerir di
nuovo l'amicizia e la servitù mia ad Apelle: e se lei determinasse di
fargli vedere questa lettera, la prego a non la mandar senza l'accompagnatura
di mie scuse, se forse gli paresse ch'io troppo dissentissi dalle sue opinioni;
perché, non desiderando altro che 'l venire in cognizion del vero, ho
liberamente spiegata l'opinion mia, la quale son anco disposto a mutare
qualunque volta mi sieno scoperti gli errori miei, e terrò obbligo
particolare a chiunque mi farà grazia di palesargli e castigargli.
Bacio a V. S.
Illustrissima le mani, e caramente la saluto d'ordine dell'Illustrissimo Sig.
Filippo Salviati, nella cui amenissima villa mi ritrovo a continuar in sua
compagnia l'osservazioni celesti. Nostro Signore Dio gli conceda il compimento
d'ogni suo desiderio.
Dalla Villa
delle Selve, il I° di Dicembre 1612.
Di V. S. Illustrissima
Devotissimo
Servitore
Galileo Galilei
Linceo.
IX
A MAFFEO BARBERINI IN BOLOGNA
(Firenze, 2 giugno 1612)
Ill.mo e Rev.mo
Sig.re e P.ron Colen.mo
Tra i molti
favori riceuti da V. S. Ill.ma e R.ma, mi resta fisso nella memoria quello che
ella mi fece alla tavola del Ser.mo Gran Duca mio Sig.re nel passar ella
ultimamente di qua, quando, disputandosi di certa quistion filosofica, lei
sostenne la parte mia contro all'Ill.mo e R.mo Sig.re Cardinal Gonzaga e altri
di opinione contraria alla mia; e perché mi è convenuto, per
comandamento di S.A., mettere più distintamente in carta le mie ragioni,
e appresso publicarle con la stampa, che pur ora si è compita, mi
è parso di doverne mandare una copia a V. S. R.ma, e appresso
supplicarla che con sua comodità resti servita di vedere o sentire
quanto io propongo in questo trattato, dove credo che ella non meno
scorgerà che prese il patrocinio tanto di un suo servitore quanto della
verità stessa.
Credo che
averà inteso il romore, che va a torno in proposito delle macchie oscure
che continuamente si scorgono e osservano con l'occhiale nel corpo del sole; e
perché di costì mi viene scritto che uomini di molta stima di cotesta
città se ne burlano come di paradosso e assurdo gravissimo, mi è
parso di toccare brevemente a V. S. Ill.ma quanto passa circa a questo negozio
Sono circa a
diciotto mesi, che riguardando con l'occhiale nel corpo del sole, quando era
vicino al suo tramontare, scorsi in esso alcune macchie assai oscure; e
ritornando più volte alla medesima osservazione, mi accorsi come quelle
andavano mutando sito, e che non sempre si vedevano le medesime, o nel medesimo
ordine disposte, e che tal volta ve n'eron molte, altra volta poche, e tal ora
nessune. Feci ad alcuni mia amici vedere tale stravaganza, e pur l'anno passato
in Roma le mostrai a molti prelati e altri uomini di lettere; di lì fu
sparso il grido per diverse parti d'Europa, e da quattro mesi ha qua mi sono
state mandate da varii luoghi varie osservazioni disegnate, e in particolare
tre lettere circa a questo argomento scritte al Sig.r Marco Velsero d'Augusta,
e date alle stampe con un nome finto di Apelles latens post tabulam; le
quali lettere mi furon mandate da l'istesso Velsero, il quale mi ricercò
del mio parere intorno alle dette lettere, e più circa a quello che io
stimavo di poter sapere dell'essenza di esse macchie. Io gli scrissi una
lettera di sei fogli in tal proposito, confutando l'opinione del finto Apelle e
di quelli che sin qui ne avevano parlato; e finalmente, dopo molti e varii
pensieri che mi sono passati per la fantasia, mi risolvo a concludere e
indubitatamente tenere, che le dette macchie siano contigue alla superficie del
corpo solare, e che quivi se ne generino e se ne dissolvino continuamente,
essendo altre di più lunga e altre di più breve durata: sonvene
delle più dense e oscure, e delle meno; per lo più si vanno di
giorno in giorno mutando di figura, la quale è il più delle volte
irregolarissima; frequentemente alcuna di loro si divide in due, tre o
più, e altre, prima divise, si uniscono in una; e finalmente, in
virtù di un loro universale e comune movimento, son venuto in certezza
indubitabile che il sole si rivolge in sé stesso da occidente verso oriente,
cioè secondo tutte le altre revoluzioni de' pianeti terminando un'intera
conversione in un mese lunare in circa. E per quanto ho osservato, la
moltitudine massima di tali macchie si genera tra due cerchi del globo solare
che rispondono ai tropici, e fuori di tali cerchi non ho quasi mai osservata
alcuna di tali macchie; le quali, quanto alla generazione e dissoluzione,
rarefazione, condensazione, distrazione e mutamenti di figura e ogn'altro
accidente, se io dovesse agguagliare ad alcuna delle materie nostre familiari
non se ne troverebbe altra che più l'imitasse che le nostre nugole.
Tutto questo che
dico a V. S. Ill.ma e R.ma è talmente vero, e per tanti e tanto
necessari riscontri da me confermato, che non mi perito punto a darlo omai
fuori per sicuro; e il burlarsene molti, come intendo, non mi spaventa punto,
perché siamo in materie che sempre potranno da infiniti e in tutte le parti del
mondo esser osservate, e di mano in mano da quelli di miglior senso
riconosciute per vere: onde io animosamente ardisco di esser il primo a dar
fuora conclusioni che hanno sembianza di sì strani paradossi. Solo mi
dispiace che quelli che se ne burlano, giuocano, come si suol dire, al sicuro,
certi di non perdere e con rischio di guadagnar assai; perché, se quanto io
affermo e loro negano si trovasse esser falso, loro senza fatica nessuna
avrebbono il vanto di aver meglio inteso, che altri doppo molte e laboriose
osservazioni; e quando si venga in certezza che quanto io dico sia vero, essi
restano scusati dal non avere prestato l'assenso a cose tanto inopinate. Se V.
S. Ill.ma averà vedute le tre lettere del finto Apelle, io gli
potrò mandare copia della lettera che scrivo al Sig. Velsero in tal
materia intanto gli mando alcuni disegni delle macchie solari, fatti con somma
giustezza tanto circa al numero quanto circa alla grandezza, figura e
situazione di esse di giorno in giorno nel disco solare. Se occorrerà a
V. S. Ill.ma trattare di questa mia resoluzione con i litterati di cotesta
città, averò per grazia il sentire alcuna cosa de i loro pareri e
in particolare de i filosofi Peripatetici, poi che questa novità pare il
giudizio finale della loro filosofia, poi che iam fuerunt signa in luna,
stellis et sole, insieme con la mutabilità, corruzione e generazione
anco della più eccellente sustanza del cielo, tal dottrina accenna
corruzione e mutazione, ma non senza speranza di rigenerarsi in melius.
Ho tediato a
bastanza V. S. Ill.ma e R.ma: scusimi per la sua infinita benignità, e
per la medesima mi conservi il luogo che si è degnata donarmi nella
grazia sua. E umilmente me l'inchino.
Di Firenze, li 2
di Giugno 1612.
Di V. S. Ill.ma
e R.ma
Devot.mo e
Oblig.mo Ser.re
Galileo
Galilei.
X
A PAOLO GUALDO IN PADOVA
(Firenze, 16 giugno 1612)
Molto Ill.re e
molto R.do Sig.re Osser.mo
Ho inteso per la
gratissima sua quanto passa sin ora in proposito della lettera mia circa le
macchie solari; di che mi prendo gusto, e in particolare di quelli che, per non
avere a credere, non vogliono vedere; e il gusto procede perché io sto sempre
sul guadagnare e mai sul perdere, perché continuamente si vien convertendo
qualche incredulo, e de i già persuasi mai non se ne ribella veruno;
perché tutto 'l giorno si vanno scoprendo nuovi rincontri in confirmazion della
verità; la quale chi l'ha dalla banda sua, sta bene, e può ridere
nel veder gl'avversarii sbattersi e affaticarsi in vano. Ho anco un'altra
consolazione: che queste macchie solari e gl'altri miei scoprimenti non son
cose che col tempo passino via e non tornino così per fretta, come le
stelle nuove del 72 e 604 o come le comete, che pur finalmente si perdono e
danno agio, con la lor mancanza, di riposarsi a coloro che, mentre esse furon
presenti, stettero in qualche angustia; ma queste gli terranno sempre al
tormento, perché sempre si vedranno: ed è ben ragione che la natura
mandi una volta a vendicarsi contro l'ingratitudine di coloro che tanto tempo
l'hanno bistrattata, e che per certa loro sciocca ostinazione voglion tener
serrati gl'occhi contro a quel lume ch'ella, per loro insegnamento gli tien
sempre davanti. Ecco che ella finalmente con caratteri indelebili ci mostra chi
ell'è e quanto ella sia nemica dell'ozio, ma che sempre e in ogni luogo
gli piace di operare, generare, produrre e dissolvere, e queste sono le sue
somme eccellenze. Ma non voglio ora entrare in materie da non esser capite in
una lettera.
Ho ricevuto dal
S. Velsero aviso come la mia gl'è pervenuta, e che gl'è stata
grata; ma che Apelle per ora non potrà vederla, per non intender la
lingua. Io l'ho scritta vulgare, perché ho bisogno che ogni persona la possi
leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo
ultimo mio trattatello: e la ragione che mi muove, è il vedere, che
mandandosi per gli Studii indifferentemente i gioveni per farsi medici,
filosofi etc., sì come molti si applicano a tali professioni essendovi
inettissimi, così altri, che sariano atti, restano occupati o nelle cure
familiari o in altre occupazioni aliene dalla letteratura. [...] Con tutto
ciò vorrei che anco l'Apelle e gl'altri oltramontani potessero vederla;
e qui, per esser io occupatissimo, averei bisogno del favore di V. S. e del S.
Sandeli, il quale mi facesse grazia di trasferirla quanto prima in latino e
mandarmela poi subito, perché in Roma è chi si è preso cura di
farla stampare insieme con alcune altre mie. Io intanto anderò finendo
la seconda per farne l'istesso, e parimente l'invierò a V. S.; e caso
che il S. Sandeli voglia favorirmi, perché so che alcuni termini proprii e
alcune frasi dell'arte potriano dargli qualche fastidio, non occorre che guardi
a ciò, perchè io in questa parte la ridurrò a i proprii
nostri termini. Se io potrò aver tal grazia, V. S. me n'avvisi subito, e
ne procuri quanto prima l'espedizione; e intanto si comincerà a far
stampar la italiana in Roma, e il tutto resti inter nos. Che sarà
per fine di questa, con baciar a V. S. e a tutti gl'amici con ogni affetto le
mani, pregandogli da Dio ogni contento .
Di Firenze, li
16 di Giugno 1612.
Di V. S. molto
I. e molto R.da
Se.re Oblig.mo
Galileo Galilei.
XI
A DON BENEDETTO CASTELLI IN PISA
(Firenze, 21 dicembre 1613)
Molto reverendo
Padre e Signor mio Osservandissimo,
Ieri mi fu a
trovare il signor Niccolò Arrighetti, il quale mi dette ragguaglio della
Paternità Vostra: ond'io presi diletto infinito nel sentir quello di che
io non dubitavo punto, ciò è della satisfazion grande che ella
dava a tutto cotesto Studio, tanto a i sopraintendenti di esso quanto a gli
stessi lettori e a gli scolari di tutte le nazioni: il qual applauso non aveva
contro di lei accresciuto il numero de gli emoli, come suole avvenir tra quelli
che sono simili d'esercizio, ma più presto l'aveva ristretto a
pochissimi; e questi pochi dovranno essi ancora quietarsi, se non vorranno che
tale emulazione, che suole anco tal volta meritar titolo di virtù,
degeneri e cangi nome in affetto biasimevole e dannoso finalmente più a
quelli che se ne vestono che a nissun altro. Ma il sigillo di tutto il mio
gusto fu il sentirgli raccontar i ragionamenti ch'ella ebbe occasione, mercé
della somma benignità di coteste Altezze Serenissime, di promuovere alla
tavola loro e di continuar poi in camera di Madama Serenissima, presenti pure
il Gran Duca e la Serenissima Arciduchessa, e gl'Illustrissimi ed
Eccellentissimi Signori D. Antonio e D. Paolo Giordano ed alcuni di cotesti
molto eccellenti flosofi. E che maggior favore può ella desiderare, che
il veder Loro Altezze medesime prender satisizione di discorrer seco, di
promuovergli dubbii, di ascoltarne le soluzioni, e finalmente di restar
appagate delle risposte della Paternità Vostra?
I particolari
che ella disse, referitimi dal signor Arrighetti, mi hanno dato occasione di
tornar a considerare alcune cose in generale circa 'l portar la Scrittura Sacra
in dispute di conclusioni naturali ed alcun'altre in particolare sopra 'l luogo
di Giosuè, propostoli, in contradizione della mobilità della
Terra e stabilità del Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche
replica della Serenissima Arciduchessa.
Quanto alla
prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente
fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra,
non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti
d'assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la
Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de'
suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe
gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro
significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse
contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario
dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come
d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e
l'ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte
proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso
dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi alI'incapacità del
vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe
è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e
n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati
profferiti.
Stante, dunque,
che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma
necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato
delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata
nell'ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura
Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come
osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più,
convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale,
dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal
vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e
nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno
esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce
mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali
che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie
dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio
per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante, poi che
non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi
com'ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto, d'accomodarsi
alla capacità de' popoli rozzi e indisciplinati, non s'è astenuta
la Scrittura d'adombrare de' suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino
all'istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi
vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal
rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o di Sole o d'altra
creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e
ristretti significati delle parole? E massime pronunziando di esse creature
cose lontanissime dal primario instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali,
che, dette e portate con verità nuda e scoperta, avrebbon più
presto danneggiata l'intenzion primaria, rendendo il vulgo più contumace
alle persuasioni de gli articoli concernenti alla salute
Stante questo,
ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai
contrariarsi, è ofizio de' saggi espositori affaticarsi per trovare i
veri sensi de' luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle
quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi
e sicuri. Anzi, essendo, come ho detto, che le Scritture, ben che dettate dallo
Spirito Santo, per l'addotte cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni
lontane dal suono litterale, e, di più, non potendo noi con certezza
asserire che tutti gl'interpreti parlino inspirati divinamente, crederei che
fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l'impegnar i luoghi
della Scrittura e obbligargli in certo modo a dover sostenere per vere alcune
conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative
e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi vuol por termine a
gli umani ingegni? chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto
quello che è al mondo di scibile ? E per questo, oltre a gli articoli
concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro la fermezza de'
quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai dottrina valida ed
efficace, sarebbe forse ottimo consiglio il non ne aggiunger altri senza
necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe
l'aggiugnerli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se
parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo ch'elleno son
del tutto ignude di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò
a redarguire, ma a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze
procedono nel confermare alcune lor conclusioni ?
Io crederei che
l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a
persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie
per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra
scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso
Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso
e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo
le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il
crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in
conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è
l'astronomia, di cui ve n'è così piccola parte, che non vi si
trovano né pur nominati i pianeti, Però se i primi scrittori sacri
avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti de'
corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come
niente in comparazione dell'infinite conclusioni altissime e ammirande che in
tale scienza si contengono.
Veda dunque la
Paternità Vostra quanto, s'io non erro, disordinatamente procedino
quelli che nelle dispute naturali, e che direttamente non sono de Fide,
nella prima fronte costituiscono luoghi della Scrittura, e bene spesso
malamente da loro intesi. Ma se questi tali veramente credono d'avere il vero
senso di quel luogo particolar della Scrittura, ed in consequenza si tengon sicuri
d'avere in mano l'assoluta verità della quistione che intendono di
disputare, dichinmi appresso ingenuamente, se loro stimano, gran vantaggio aver
colui che in una disputa naturale s'incontra a sostener il vero, vantaggio,
dico, sopra l'altro a chi tocca sostener il falso? So che mi risponderanno di
sì, e che quello che sostiene la parte vera, potrà aver mille
esperienze e mille dimostrazioni necessari; per la parte sua, e che l'altro non
può aver se non sofismi paralogismi e fallacie. Ma se loro, contenendosi
dentro a' termini naturali né producendo altr'arme che le filosofiche, sanno
d'essere tanto superiori all'avversario, perché, nel venir poi al congresso,
por subito mano a un'arme inevitabile e tremenda, che con la sola vista
atterrisce ogni più destro ed esperto campione? Ma, s'io devo dir il
vero, credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a
potere star forti contro gli assalti dell'avversario, tentino di trovar modo di
non se lo lasciar accostare. Ma perché, come ho detto pur ora, quello che ha la
parte vera dalla sua, ha gran vantaggio, anzi grandissimo, sopra l'avversario,
e perché è impossibile che due verità si contrariino, però
non doviamo temer d'assalti che ci venghino fatti da chi si voglia, pur che a
noi ancora sia dato campo di parlare e d'essere ascoltati da persone intendenti
e non soverchiamente alterate da proprie passioni e interessi.
In confermazione
di che, vengo ora a considerare il luogo particolare di Giosuè, per il
qual ella apportò a loro Altezze Serenissime tre dichiarazioni; e piglio
la terza, che ella produsse come mia, sì come veramente è, ma
v'aggiungo alcuna considerazione di più, qual non credo d'avergli detto
altra volta.
Posto dunque e
conceduto per ora all'avversario, che le parole del testo sacro s'abbino a
prender nel senso appunto ch'elle suonano, ciò è che Iddio a'
preghi di Giosuè facesse fermare il Sole e prolungasse il giorno,
ond'esso ne conseguì la vittoria; ma richiedendo io ancora, che la
medesima determinazione vaglia per me, sì che l'avversario non
presumesse di legar me e lasciar sé libero quanto al poter alterare o mutare i
significati delle parole; io dico che questo luogo ci mostra manifestamente la
falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e Tolemaico,
e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.
E prima, io
dimando all'avversario, s'egli sa di quali movimenti si muova il Sole? Se egli
lo sa, è forza che e' risponda, quello muoversi di due movimenti,
cioè del movimento annuo da ponente verso levante, e del diurno
all'opposito da levante a ponente.
Ond'io,
secondariamente, gli domando se questi due movimenti, così diversi e
quasi contrarii tra di loro, competono al Sole e sono suoi proprii egualmente ?
È forza risponder di no, ma che un solo è suo proprio e
particolare, ciò è l'annuo, e l'altro non è altramente
suo, ma del cielo altissimo, dico del primo mobile, il quale rapisce seco il
Sole e gli altri pianeti e la sfera stellata ancora, constringendoli a dar una
conversione 'ntorno alla Terra in 24 ore, con moto, come ho detto, quasi
contrario al loro naturale e proprio.
Vengo alla terza
interrogazione, e gli domando con quale di questi due movimenti il Sole produca
il giorno e la notte, cioè se col suo proprio o pure con quel del primo
mobile ? È forza rispondere, il giorno e la notte esser effetti del moto
del primo mobili e dal moto proprio del Sole depender non il giorno e la notte,
ma le stagioni diverse e l'anno stesso.
Ora, se il
giorno depende non dal moto del Sole ma da quel del primo mobile, chi non vede
che per allungare il giorno bisogna fermare il primo mobile, e non il Sole?
Anzi, pur chi sarà ch'intenda questi primi elementi d'astronomia e non
conosca che, se Dio avesse fermato 'l moto del Sole, in cambio d'allungar il
giorno l'avrebbe scorciato e fatto più breve? perché, essendo 'l moto
del Sole al contrario della conversione diurna, quanto più 'l Sole si
movesse verso oriente, tanto più si verrebbe a ritardar il suo corso
all'occidente; e diminuendosi o annullandosi il moto del Sole, in tanto
più breve tempo giugnerebbe all'occaso: il qual accidente sensatamente
si vede nella Luna, la quale fa le sue conversioni diurne tanto più
tarde di quelle del Sole, quanto il suo movimento proprio è più
veloce di quel del Sole. Essendo, dunque, assolutamente impossibile nella
costituzion di Tolomeo e d'Aristotile fermare il moto del Sole e allungare il
giorno, sì come afferma la Scrittura esser accaduto, adunque o bisogna
che i movimenti non sieno ordinati come vuol Tolomeo, o bisogna alterar il
senso delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Iddio fermò
il Sole, voleva dire che fermò 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi
alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e
'l tramontar del Sole, ella dicesse al contrario di quel che avrebbe detto
parlando a uomini sensati
Aggiugnesi a
questo, che non è credibile ch'Iddio fermasse il Sole solamente,
lasciando scorrer l'altre sfere; perché senza necessità nessuna avrebbe
alterato e permutato tutto l'ordine, gli aspetti e le disposizioni dell'altre
stelle rispett'al Sole, e grandemente perturbato tutto 'l corso della natura:
ma è credibile ch'Egli fermasse tutto 'l sistema delle celesti sfere, le
quali, dopo quel tempo della quiete interposta, ritornassero concordemente alle
lor opre senza confusione o alterazion alcuna
Ma perché
già siamo convenuti, non doversi alterar il senso delle parole del
testo, è necessario ricorrere ad altra costituzione delle parti del
mondo, e veder se conforme a quella il sentimento nudo delle parole cammina
rettamente e senza intoppo, sì come veramente si scorge avvenire.
Avendo io dunque
scoperto e necessariamente dimostrato, il globo del Sole rivolgersi in sé
stesso, facendo un'intera conversione in un mese lunare in circa, per quel
verso appunto che si fanno tutte l'altre conversioni celesti; ed essendo, di
più, molto probabile e ragionevole che il Sole, come strumento e
ministro massimo della natura, quasi cuor del mondo, dia non solamente,
com'egli chiaramente dà, luce, ma il moto ancora a tutti i pianeti che
intorno se gli raggirano; se, conforme alla posizion del Copernico, noi
attribuirem alla Terra principalmente la conversion diurna; chi non vede che
per fermar tutto il sistema, onde, senza punto alterar il restante delle
scambievoli relazioni de' pianeti, solo si prolungasse lo spazio e 'l tempo
della diurna illuminazione, bastò che fosse fermato il Sole, com'appunto
suonan le parole del sacro testo? Ecco, dunque, il modo secondo il quale, senza
introdur confusione alcuna tra le parti del mondo e senza alterazion delle
parole della Scrittura, si può, col fermar il Sole, allungar il giorno
in Terra
Ho scritto
più assai che non comportano le mie indisposizioni: però finisco,
con offerirmegli servitore, e gli bacio le mani, pregandogli da Nostro Signore
le buone feste e ogni felicità.
Di Firenze, li
21 Dicembre 1613
Di Vostra
Paternità molto Reverenda
Servitore
Affezionatissimo
Galileo Galilei.
XII
A MONSIGNOR PIERO DINI IN ROMA
(Firenze, 16 febbraio 1615)
Molto Illustre e
Reverendissimo Signor mio Colendissimo,
Perché so che
Vostra Signoria molto Illustre e Reverendissima fu subito avvisata delle
replicate invettive che furono, alcune settimane fa, dal pulpito fatte contro
la dottrina del Copernico e suoi seguaci, e più contro i matematici e la
matematica stessa, però non gli replicherò nulla sopra questi
particolari che da altri intese: ma desidero bene che lei sappia, come, non
avendo né io né altri fatte un minimo moto o risentimento sopra gl'insulti di
che fummo non con molta carità aggravati, non però si son
quietate l'acces'ire di quelli; anzi, essendo ritornato da Pisa il medesimo
Padre che si era fatto sentire quell'anno in privati colloqui, ha aggravato di
nuovo la mano sopra di me: ed essendogli pervenuta, non so donde, copia di una
lettera ch'io scrissi l'anno passato al Padre Matematico di Pisa in proposito
dell'apportare le autorità sacre in dispute naturali ed in esplicazione
del luogo di Giosuè, vi vanno esclamando sopra, e ritrovandovi, per
quanto dicono, molte eresie, ed insomma si sono aperti un nuovo campo di
lacerarmi Ma perché da ogni altro che ha veduta detta lettera non mi è
stato fatto pur minimo segno di scrupolo, vo dubitando che forse chi l'ha
trascritta possa inavvertentemente aver mutata qualche parola; la qual
mutazione, congiunta con un poco di disposizione alle censure, possa far
apparire le cose molto diverse dalla mia intenzione. E perché alcuni di questi
Padri, ed in particolare quest'istesso che ha parlato, se ne son venuti
costà per far, come intendo, qualche altro tentativo con la sua copia di
detta mia lettera, mi è parso non fuor di proposito mandarne una copia a
Vostra Signoria Reverendissima nel modo giusto che l'ho scritta io, pregandola
che mi favorisca di leggerla insieme col Padre Grembergiero Gesuita, matematico
insigne e mio grandissimo amico e padrone, ed anche lasciargliela, se forse
parrà opportuno a Sua Reverenza di farla con qualche occasione pervenire
in mano dell'illustrissimo Cardinal Bellarmino, al quale questi Padri
Domenicani si son lasciati intendere di voler far capo, con isperanza di far,
per lo meno, dannar il libro del Copernico e la sua oppinione e dottrina
La lettera fu da
me scritta currenti calamo; ma queste ultime concitazioni ed i motivi
che questi Padri adducono per mostrare i demeriti di questa dottrina, ond'ella
meriti di essere abolita mi hanno fatto veder qualche cosa di più
scritta in simili materie: e veramente non solo ritrovo, tutto quello che ho
scritto essere stato detto da loro, ma molto più ancora, mostrando con
quanta circonspezione bisogni andar intorno a quelle conclusioni naturali che
non son de Fide, alle quali possono arrivare l'esperienze e le
dimostrazioni necessarie, e quanto perniciosa cosa sarebbe l'asserir come
dottrina risoluta nelle Sacre Scritture alcuna proposizione della quale una
volta si potesse aver dimostrazione in contrario. Sopra questi capi ho distesa
una scrittura molto copiosa ma non l'ho ancora al netto in maniera che ne possa
mandar copia a Vostra Signoria, ma lo farò quanto prima: nella quale,
quel che si sia dell'efficacia delle mie ragioni e discorsi, di questo ben son
sicuro, che ci si troverà molto più zelo verso Santa Chiesa e la
dignità delle Sacre Lettere, che in questi miei persecutori; poi che
loro proccurano di proibir un libro ammesso tanti anni da Santa Chiesa, senza
averlo pur mai lor veduto, non che letto o inteso; ed io non fo altro che
esclamare che si esamini la sua dottina e si ponderino le sue ragioni da
persone cattolichissime ed intendentissime, che si rincontrino le sue posizioni
con l'esperienze sensate, e che in somma non si danni se prima non si trova
falso, se è vero che una proposizione non possa insieme esser vera ed
erronea. Non mancano nella cristianità uomini intendentissimi della
professione, il parer de' quali circa la verità o falsità della
dottrina non doverà esser posposto all'arbitrio di chi non è
punto informato e che pur troppo chiaro si conosce essere da qualche parziale affetto
alterato, sì come benissimo conoscono molt; che si trovono qua in fatto,
e che veggono tutti gli andamenti e son informati, almeno in parte, delle
macchine e trattato
Niccolò
Copernico fu uomo non pur cattolico, ma religioso e canonico; fu chiamato a
Roma sotto Leone X, quando nel Concilio Lateranense si trattava l'emendazione
del calendario ecclesiastico, facendosi capo a lui come a grandissimo
astronomo. Restò nondimeno indecisa tal riforma per questa sola cagione,
perché la quantità de gli anni e de' mesi de' moti del Sole e della Luna
non erano abbastanza stabiliti: onde egli, d'ordine del vescoro Semproniense,
che allora era sopraccapo di questo negozio, si messe con nuove osservazioni ed
accuratissimi studii all'investigazione di tali periodi; e ne conseguì
in somma tal cognizione, che non solo regolò tutti i moti de' corpi
celesti, ma si acquistò il titolo di sommo astronomo, la cui dottrina fu
poi seguita da tutti, e conforme ad essa regolato ultimamente il calendario.
Ridusse le sue fatiche intorno a' corsi e costituzioni de' corpi celesti in sei
libri, li quali, a richiesta di Niccolò Scombergio, cardinale Capuano,
mandò in luce, e gli dedicò a Papa Paolo III, e da quel tempo in
qua si son veduti publicamente senza scrupolo nessuno. Ora questi buoni frati,
solo per un sinistro affetto contro di me, sapendo che; stimo questo autore, si
vantano di dargli il premio delle sue fatiche con farlo dichiarare eretico.
Ma quello che
è più degno di considerazione, la prima lor mossa contro questa
oppinione fu il lasciarsi metter su da alcuni miei maligni che gliela dipinsero
per opera mia propria, senza dirli che ella fosse già 70 anni fa
stampata; e questo medesimo stile vanno tenendo con altre persone, nelle quali
cercano d'imprimer sinistro concetto di me: e questo gli va succedendo in modo
tale, che, sendo pochi giorni sono arrivato qua Monsignor Gherardini, vescovo
di Fiesole, nelle prime visite a pien popolo, dove si abbatterono alcuni amici
miei, proroppe con grandissima veemenza contro di me, mostrandesi gravemente
alterato, e dicendo che n'era per far gran passata con Loro Altezze
Serenissime, poi che tal mia stravagante oppinione ed erronea dava che dire
assai in Roma; e forse avrà a quest'ora fatto il debito, se già
non l'ha ritenuto l'essere destramente fatto avvertito, che l'autore di questa
dottrina non è altramente un Fiorentino vivente, ma un Tedesco morto,
che la stampò già 70 anni sono, dedicando il libro al Sommo
Pontefice
Io vo scrivendo,
né mi accorgo che parlo a persona informatissima di questi trattamenti, e forse
tanto più di me, quanto che ella si trova nel luogo dove si fanno gli
strepiti maggiori. Scusimi della prolissità; e se scorge equità
nessuna nella causa mia prestimi il suo favore, chè gliene viverò
perpetunente obbligato. Con che le bacio riverentemente le mani, e me gli
ricordo servitore devotissimo, e dal Signore Dio gli prego il colmo di
felicità.
Di Firenze, li
16 Febbraio 1615
Di V. S. molto
Illustre e Reverendissima
Servitore
Obbligatissimo
Galileo Galilei
Poscritta.
Ancorché io difficilmente possa credere che si fosse per precipitare in
prendere una tal risoluzione di annullar questo autore, tuttavia, sapendo per
altre prove quanta sia la potenza della mia disgrazia, quando è
congiunta con la malignità ed ignoranza de' miei avversari, mi par di aver
cagione di non mi assicurar del tutto sopra la somma prudenza e santità
di quelli da chi ha da dipender l'ultima risoluzione, sì che quella
ancora non possa esser in parte affascinata da questa fraude che va in volta
sotto il manto di zelo e di carità. Però, per non mancare, per
quanto posso, a me stesso ed a quello che dalla mia scrittura vedrà in
breve Vostra Signoria Reverendissima che è vero e purissimo zelo,
desiderando che almanco ella possa prima esser veduta, e poi prendasi quella
risoluzione che piaceri a Dio (ché io quanto a me son tanto bene edificato e
disposto, che prima che contravvenire a' miei superiori, quando non potessi far
altro, e che quello che ora mi pare di credere e toccar con mano mi avesse ad
essere di pregiudizio all'anima, eruerem oculum meum ne me scandalizaret);
io credo che il più presentaneo rimedio sia il battere alli Padri
Gesuiti come quelli che sanno assai sopra le comuni lettere de' frati:
però gli potrà dar la copia della lettera, ed anco leggergli se
le piacerà, questa che scrivo a lei; e poi, per la sua solita cortesia,
si degnerà di farmi avvisato di quanto avrà potuto ritrarre. Non
so se fosse opportuno essere col signor Luca Valerio, e dargli copia di detta
lettera, come uomo che è di casa del Cardinale Aldobrandino e potrebbe
fare con Sua Santità qualche offizio. Di questo e di ogni altra cosa mi
rimetto alla sua bontà e prudenza, e gli raccomando la riputazion mia, e
di nuovo gli bacio le mani.
XIII
A MONSIGNOR PlERO DINI IN ROMA
(Firenze, 23 marzo 1615)
Molto Illustre e
Reverendissimo Sig. mio Colendissimo,
Risponderò
succintamente alla cortesissima lettera di Vostra Signoria molto Illustre e
Reverendissima, non mi permettendo il poter far altramente il mio cattivo stato
di sanità.
Quanto al primo
particolare che ella mi tocca, che al più che potesse esser deliberato
circa il libro del Copernico, sarebbe il mettervi qualche postilla, che la sua
dottrina fusse introdotta per salvar l'apparenze, nel modo ch'altri
introdussero gli eccentrici e gli epicicli senza poi credere che veramente e'
sieno in natura, gli dico (rimettendomi sempre a chi più di me intende,
e solo per zelo che ciò che si è per fare sia fatto con ogni
maggior cautela) che quanto a salvar l'apparenze il medesimo Copernico aveva
già per avanti fatta la fatica, e satisfatto alla parte de gli astrologi
secondo la consueta e ricevuta maniera di Tolomeo; ma che poi, vestendosi
l'abito di filosofo, e considerando se tal costituzione delle parti
dell'universo poteva realmente sussistere in rerum natura, e veduto che
no, e parendogli pure che il problema della vera costituzione fusse degno
d'esser ricercato, si messe all'investigazione di tal costituzione, conoscendo
che se una disposizione di parti finta e non vera poteva satisfar
all'apparenze, molto più ciò si arebbe ottenuto dalla vera e
reale, e nell'istesso tempo si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione
tanto eccellente, qual è il sapere la vera disposizione delle parti del
mondo; e trovandosi egli per l'osservazioni e studii di molti anni,
copiosissimo di tutti i particolari accidenti osservati nelle stelle, senza i
quali tutti diligentissimamente appresi e prontissimamente affissi nella mente
è impossibile il venir in notizia di tal mondana constituzione, con replicati
studii e lunghissime fatiche conseguì quello che l'ha reso poi ammirando
a tutti quelli che con diligenza lo studiano, sì che restino capaci de'
suoi progressi tal che il voler persuadere che il Copernico non stimasse vera
la mobilità della Terra, per mio credere non potrebbe trovar assenso se
non forse appresso chi non l'avesse letto, essendo tutti 6 i suoi libri pieni
di dottrina dependente dalla mobilità della Terra, e quella esplicante e
confermante. E se egli nella sua dedicatoria molto ben intende e confessa che
la posizione della mobilità della Terra era per farlo reputare stolto
appresso l'universale, il giudizio del quale egli dice di non curare, molto
più stolto sarebb'egli stato a voler farsi reputar tale per un'opinione
da sé introdotta, ma non interamente e veramente creduta.
Quanto poi al
dire che gli attori principali che hanno introdotto gli eccentrici e gli
epicicli non gli abbino poi reputati veri, questo non crederò io mai; e
tanto meno, quanto con necessità assoluta bisogna ammettergli
nell'età nostra, mostrandocegli il senso stesso. Perché, non essendo
l'epiciclo altro che un cerchio descritto dal moto d'una stella la quale non
abbracci con tal suo rivolgimento il globo terrestre, non veggiamo noi di tali
cerchi esserne da quattro stelle descritti quattro intorno a Giove? e non gli
è più chiaro che 'l Sole, che Venere descrive il suo cerchio
intorno ad esso Sole senza comprender la Terra, e per conseguenza forma un
epiciclo? e l'istesso accade anco a Mercurio. In oltre, essendo l'eccentrico un
cerchio che ben circonda la Terra, ma non la contiene nel suo centro, ma da una
banda, non si ha da dubitare se il corso di Marte sia eccentrico alla Terra,
vedendosi egli ora più vicino ed ora più remoto, in tanto che ora
lo veggiamo piccolissimo ed altra volta di superficie 60 volte maggiore;
adunque, qualunque si sia il suo rivolgimento, egli circonda la Terra, e gli
è una volta otto volte più presso che un'altra. E di tutte queste
cose e d'altre simili in gran numero ce n'hanno data sensata esperienza gli
ultimi scoprimenti: tal che il voler ammettere la mobilità della Terra
solo con quella concessione e probabilità che si ricevono gli
eccentrici; e gli epicicli, è un ammetterla per sicurissima, verissima e
irrefragabile.
Ben è
vero che di quelli che hanno negato gli eccentrici e gli epicicli io ne trovo 2
classi. Una è di quelli che, sendo del tutto ignudi dell'osservazioni
de' movimenti delle stelle e di quello che bisogni salvare, negano senza
fondamento nessuno tutto quello che e' non intendono: ma questi son degni che
di loro non si faccia alcuna considerazione. Altri, molto più
ragionevoli, non negheranno i movimenti circolari descritti da i corpi delle
stelle intorno ad altri centri che quello della Terra, cosa tanto manifesta, che,
all'incontro, è chiaro, nessuno de' pianeti far il suo rivolgimento
concentrico ad essa Terra; ma solo negheranno, ritrovarsi nel corpo celeste una
struttura di orbi solidi e tra sé divisi e separati che arrotandosi e
fregandosi insieme, portino i corpi de' pianeti, etc.: e questi crederò
io che benissimo discorrino; ma questo non è un levar i movimenti fatti
dalle stelle in cerchi eccentrici alla Terra o in epicicli che sono i veri e
semplici assunti di Tolomeo e de gli astronomi grandi, ma è un repudiar
gli orbi solidi materiali e distinti, introdotti da i fabbricatori di teoriche
per agevolar l'intelligenza de i principianti ed i computi de' calculatori; e
questa sola parte è fittizia e non reale, non mancando a Iddio modo di
far camminare le stelle per gl'immensi spazii del cielo, ben dentro a limitati
e certi sentieri, ma non incatenate o forzate
Però,
quanto al Copernico, egli, per mio avviso, non è capace di moderazione,
essendo il principalissimo punto di tutta la sua dottrina e l'universal
andamento la mobilità della Terra e stabilità del Sole:
però, o bisogna dannarlo del tutto o lasciarlo nel suo essere, parlando
sempre per quanto comporta la mia capacità. Ma se sopra una tal
resoluzione e' sia bene attentissimamente considerare, ponderare, esaminare,
ciò che egli scrive, io mi sono ingegnato di mostrarlo in una mia
scrittura, per quanto da Dio benedetto mi è stato conceduto, non avendo
mai altra mira che alla dignità di Santa Chiesa e non dirizzando ad
altro fine le mie deboli fatiche; il qual purissimo e zelantissimo affetto son
ben sicuro che in essa scrittura si scorgerà chiaro, quando per altro
ella fusse piena d'errori o di cose di poco momento: e già l'averei
inviata a Vostra Signoria Reverendissima, se alle mie tante e sì gravi
indisposizioni non si fusse ultimamente aggiunto un assalto di dolori colici
che m'ha travagliato assai; ma la manderò quanto prima. Anzi, per il
medesimo zelo, vo' mettendo insieme tutte le ragioni del Copernico, riducendole
a chiarezza intelligibile da molti, dove ora sono assai difficili, e più
aggiungendovi molte e molte altre considerazioni fondate sempre sopra
osservazioni celesti, sopra esperienze sensate e sopra incontri di effetti
naturali, per offerirle poi a i piedi del Sommo Pastore ed all'infallibile
determinazione di santa Chiesa, che ne faccia quel capitale che parrà
alla sua somma prudenza.
Quanto al parere
del molto reverendo Padre Grembergero, io veramente lo laudo, e volentieri
lascio la fatica delle interpretazioni a quelli che intendono infinitamente
più di me. Ma quella breve scrittura che mandai a Vostra Signoria
Reverendissima è, come vede, una lettera privata, scritta più
d'un anno fa all'amico mio, per esser letta da lui solo; ma avendon'egli, pur
senza mia saputa, lasciato prender copia, e sentendo io che l'era venuta nelle
mani di quel medesimo che tanto acerbamente m'aveva sin dal pulpito lacerato, e
sapendo ch'ei l'aveva portata costà, giudicai ben fatto che ve ne fusse
un'altra copia, per poterla in ogni occasione incontrare, e massime avendo
quello ed altri suoi aderenti teologi sparso qua voce, come detta mia lettera
era piena d'eresie. Non è, dunque, il mio pensiero di metter mano a
impresa tanto superiore alle mie forze; e se ben non si deve anco diffidare che
la Benignità divina tal volta si degni di inspirare qualche raggio dalla
sua immensa sapienza in intelletti umili, e massime quando son almeno adornati
di sincero e santo zelo; oltre che, quando si abbino a concordar luoghi sacri
con dottrine naturali nuove e non comuni, è necessario aver intera
notizia di tali dottrine, non potendo accordar due corde insieme col sentirne
una sola. E se io conoscessi di potermi prometter alcuna cosa dalla debolezza
del mio ingegno, mi piglierei ardire di dire di ritrovar tra alcuni luoghi
delle Sacre Lettere e di questa mondana constituzione alcune convenienze che
nella vulgata filosofia non così ben mi pare che consuonino; e l'avermi
Vostra Signoria Reverendissima accennato, come il luogo del Salmo 18 è
de i reputati più repugnanti a questa opinione, m'ha fatto farci sopra
nuova reflessione, la quale mando a Vostra Signoria con tanto minor renitenza,
quanto ella mi dice che l'illustrissimo e Reverendissimo Cardinal Bellarmino
volentieri vedrà se ho alcun altro di tali luoghi. Però, avendo
io satisfatto al semplice cenno di Sua Signoria Illustrissima e Reverendissima,
veduta che abbia Sua Signoria Illustrissima questa mia, qualunque ella si sia,
contemplazione, ne faccia quel tanto che la sua somma prudenza ordinerà;
ché io intendo solamente di riverire e ammirare le cognizioni tanto sublimi, e
obbedire a i cenni de' miei superiori, ed all'arbitrio loro sottoporre ogni mia
fatica.
Però, non
mi arrogando che, qualunque si sia la verità della supposizione ex
parte naturæ, altri non possino apportare molto più congruenti
sensi alle parole del Profeta, anzi stimandomi io inferiore a tutti, e
però a tutti i sapienti sottoponendomi, direi, parermi che nella natura
si ritrovi una substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale,
diffondendosi per l'universo, penetra per tutto senza contrasto, riscalda,
vivifica e rende feconde tutte le viventi creature; e di questo spirito par che
'l senso stesso ci dimostri il corpo del Sole esserne ricetto principalissimo,
dal quale espandendosi un'immensa luce per l'universo, accompagnata da tale
spirito calorifico e penetrante per tutti i corpi vegetabili, gli rende vivi e
fecondi. Questo ragionevolmente stimar si può essere qualche cosa di
più del lume, poi che ei penetra e si diffonde per tutte le sustanze corporee,
ben che densissime, per molte delle quali non così penetra essa luce:
tal che, sì come dal nostro fuoco veggiamo e sentiamo uscir luce e
calore, e questo passar per tutti i corpi, ben che opaci e solidissimi, e
quella trovar contrasto dalla solidità e opacità, così
l'emanazione del Sole è lucida e calorifica, e la parte calorifica
è la più penetrante. Che poi di questo spirito e di questa luce
il corpo solare sia, come ho detto, un ricetto e, per così dire, una
conserva che ab extra gli riceva, più tosto che un principio e
fonte primario dal quale originariamente si derivino, parmi che se n'abbia
evidente certezza nelle Sacre Lettere, nelle quali veggiamo, avanti la
creazione del Sole, lo spirito con la sua calorifica e feconda virtù
“foventem aquas seu incubantem super aquas”, per le future generazioni; e
parimente aviamo la creazione della luce nel primo giorno, dove che il corpo
solare fu creato il giorno quarto. Onde molto verisimilmente possiamo
affermare, questo spirito fecondante e questa luce diffusa per tutto il mondo
concorrere ad unirsi e fortificarsi in esso corpo solare, per ciò nel
centro dell'universo collocato, e quindi poi, fatta più splendida e
vigorosa, di nuovo diffondersi.
Di questa luce
primogenita e non molto splendida avanti la sua unione e concorso nel corpo
solare, ne aviamo attestazione dal Profeta nel Salmo 73, v. 16 “Tuus est dies
et tua est nox: Tu fabricatus es auroram et Solem”; il qual luogo vien
interpretato, Iddio aver fatto avanti al sole una luce simile a quella
dell'aurora: di più, nel testo ebreo in luogo d'“aurora” si legge
“lume”, per insinuarci quella luce che fu creata molto avanti il Sole, assai
più debile della medesima ricevuta, fortificata e di nuovo diffusa da
esso corpo solare. A questa sentenza mostra d'alludere l'opinione d'alcuni
antichi filosofi, che hanno creduto lo splendor del Sole esser un concorso nel
centro del mondo de gli splendori delle stelle, che, standogli intorno
sfericamente disposte, vibrano i raggi loro, li quali, concorrendo e
intersecandosi in esso centro, accrescono ivi e per mille volte raddoppiano la
luce loro; onde ella poi, fortificata, si reflette e si sparge assai più
vigorosa e ripiena, dirò così, di maschio e vivace calore, e si
diffonde a vivificare tutti i corpi che intorno ad esso centro si raggirano:
sì che con certa similitudine, come nel cuore dell'animale si fa una
continua rigenerazione di spiriti vitali, che sostengono e vivificano tutte le
membra, mentre però viene altresì ad esso cuore altronde
somministrato il pabulo e nutrimento, senza il quale ei perirebbe, così
nel sole, mentre ab extra concorre il suo pabulo, si conserva quel fonte
onde continuamente deriva e si diffonde questo lume e calore prolifico, che
dà la vita a tutti i membri che attorno gli riseggono. Ma come che della
mirabil forza ed energia di questo spirito e lume del Sole, diffuso per
l'universo, io potessi produr molte attestazioni di filosofi e gravi scrittori,
voglio che mi basti un solo luogo del Beato Dionisio Aeropagita nel libro De
divinis nominibus, il quale è tale: “Lux etiam colligit convertitque
ad se omia, quæ videntur, quæ moventur, quæ illustrantur,
quæ calescunt, et uno nomine ea quæ ab eius splendore continentur.
Itaque Sol Ilios dicitur, quod omnia congreget colligatque dispersa.” E poco
più a basso scrive dell'istesso: “Si enim Sol hic, quem videmus, eorum
quæ sub sensum cadunt essentias et qualitates, quamquam multæ sint
ac dissimiles, tamen ipse, qui unus est æqualibiterque lumen fundit,
renovat, alit, tuetur, perficit, dividit, coiniungit, fovet, fœcunda
reddit, auget, mutat, firmat, edit, movet, vitaliaque facit omnia, et
unaquæque res huius universitatis, pro captu suo, unius atque eiusdem
Solis est particeps, causasque multorum, quæ participant, in se
æquabiliter anticipatas habet; certe maiore ratione etc.”
Ora, stante
questa filosofica posizione, la quale è forse una delle principali porte
per cui si entri nella contemplazione della natura, io crederrei, parlando
sempre con quella umiltà e reverenza che devo a Santa Chiesa e tutti i
suoi dottissimi Padri, da me riveriti e osservati ed al giudizio de' quali
sottopongo me ed ogni mio pensiero, crederrei, dico, che il luogo del Salmo
potesse aver questo senso, cioè che “Deus in Sole posuit tabernaculum
suum” come in sede nobilissima di tutto 'l mondo sensibile; dove poi si dice
che “Ipse, tanquam sponsum procedens de thalamo suo, exultavit ut gigas ad
currendam viam”, intenderei, ciò esser detto del Sole irradiante,
ciò è del lume e del già detto spirito calorifico e fecondante
tutte le corporee sustanze, il quale, partendo dal corpo solare,
velocissimamente si diffonde per tutto 'l mondo: al qual senso si adattano
puntualmente tutte le parole. E prima, nella parola “sponsus” aviamo la
virtù fecondante e prolifica; l'“exultare” ci addita quell'emanazione di
essi raggi solari fatta, in certo modo, a salti, come 'l senso chiaramente ci
mostra; “ut gigas,” o vero “ut fortis”, ci denota l'efficacissima
attività e virtù di penetrare per tutti i corpi, ed insieme la
somma velocità del muoversi per immensi spazii, essendo l'emanazione
della luce come instantanea. Confermansi dalle parole “procedens de thalamo
suo”, che tale emanazione e movimento si deve referire ad esso lume solare, e
non all'istesso corpo del Sole; poi che il corpo e globo del Sole è ricetto
e “tanquam thalamus” di esso lume, né torna ben a dire che “thalamus procedat
de thalamo”. Da quello che segue, “a summo cæli egressio eius”, aviamo la
prima derivazione e partita di questo spirito e lume dall'altissime parti del
cielo, ciò è sin dalle stelle del firmamento o anco dalle sedi
più sublimi. “Et occorsus eius usque ad summum eius”: ecco la
reflessione e, per così dire, la reimanazione dell'istesso lume sino
alla medesima sommità del mondo. Segue : “Nec est qui abscondat a calore
eius”: eccoci additato il calore vivificante e fecondante, distinto dalla luce
e molto più di quella penetrante per tutte le corporali sustanze, ben
che densissime; poi che dalla penetrazione della luce molte cose ci difendono e
ricuoprono, ma da questa altra virtù, “non est qui se abscondat a calore
eius”. Né devo tacer cert'altra mia considerazione, non aliena da questo
proposito. Io ho già scoperto il concorso continuo di alcune materie
tenebrose sopra il corpo solare, dove elleno si mostrano al senso sotto aspetto
di macchie oscurissime, ed ivi poi si vanno consumando e risolvendo; ed
accennai come queste per avventura si potrebbono stimar parte di quel pabulo, o
forse gli escrementi di esso, del quale il Sole da alcuni antichi filosofi fu
stimato bisognoso per suo sostentamento. Ho anco dimostrato, per l'osservazioni
continuate di tali materie tenebrose, come il corpo solare per necessità
si rivolge in sé stesso, e di più accennato quanto sia ragionevol il
creder che da tal rivolgimento dependino i movimenti de' pianeti intorno al
medesimo Sole. Di più, noi sappiamo che l'intenzione di questo Salmo
è di laudare la legge divina, paragonandola il profeta col corpo
celeste, del quale, tra le cose corporali, nissuna è più bella,
più utile e più potente. Però, avendo egli cantati gli
encomii del Sole e non gli essendo occulto che egli fa raggirarsi intorno tutti
i corpi mobili del mondo, passando alle maggiori prerogative della legge divina
e volendola anteporre al Sole, aggiunge: “Lex Domini immaculata, convertes
animas” etc.; quasi volendo dire che essa legge è tanto più
eccellente del Sole istesso, quanto l'esser immaculato ed aver facoltà
di convertire intorno a sé le anime è più eccellente condizione
che l'essere sparso di macchie, come è il Sole, ed il farsi raggirar
attorno i globi corporei e mondani.
So e confesso il
mio soverchio ardire nel voler por bocca, essendo imperito nelle Sacre Lettere,
in esplicar sensi di sì alta contemplazione: ma come che il
sottomettermi io totalmente al giudizio de' miei superiori può rendermi
scusato, così quel che segue del versetto già esplicato,
“Testimonium Domini fidele, sapientiam præstans parvulis”, m'ha dato
speranza, poter esser che la infinita benignità di Dio possa indirizzare
verso la purità della mia mente un minimo raggio della sua grazia, per
la quale mi si illumini alcuno de' reconditi sensi delle sue parole. Quanto ho
scritto, signor mio, è un piccol parto, bisognoso d'esser ridotto a
miglior forma, lambendolo e ripulendolo con affezione e pazienza, essendo solamente
abbozzato e di membra capaci sì di figura assai proporzionata, ma per
ora incomposte e rozze: se averò possibilità, l'anderò
riducendo a miglior simmetria; intanto la prego a non lo lasciar venir in mano
di persona che, adoprando, invece della delicatezza della lingua materna,
l'asprezza ed acutezza del dente novercale, in luogo di ripulirlo non lo
lacerasse e dilaniasse del tutto. Con che le bacio riverentemente le mani,
insieme con li Signori Buonarroti, Guiducci, Soldani e Giraldi, qui presenti al
serrar della lettera.
Di Firenze, li
23 Marzo 1615
Di V. S.
molt'Illustre e Reverendissima
Servitore
obligatissimo
Galileo
Galilei
XIV
A MADAMA CRISTINA DI LORENA GRANDUCHESSA DI TOSCANA
(1615)
Io scopersi
pochi anni a dietro, come ben sa l'Altezza Vostra Serenissima, molti
particolari nel cielo, stati invisibili sino a questa età; li quali,
sì per la novità, sì per alcune conseguenze che da essi
dependono, contrarianti ad alcune proposizioni naturali comunemente ricevute
dalle scuole de i filosofi, mi eccitorno contro non piccol numero di tali
professori; quasi che io di mia mano avessi tali cose collocate in cielo, per
intorbidar la natura e le scienze. E scordatisi in certo modo che la
moltitudine de' veri concorre all'investigazione, accrescimento e stabilimento
delle discipline, e non alla diminuzione o destruzione, e dimostrandosi
nell'istesso tempo più affezionati alle proprie opinioni che alle vere,
scorsero a negare e far prova d'annullare quelle novità, delle quali il
senso istesso, quando avessero voluto con attenzione riguardarle, gli averebbe
potuti render sicuri; e per questo produssero varie cose, ed alcune scritture
pubblicarono ripiene di vani discorsi, e, quel che fu più grave errore,
sparse di attestazioni delle Sacre Scritture, tolte da luoghi non bene da loro
intesi e lontano dal proposito addotti: nel quale errore forse non sarebbono
incorsi, se avessero avvertito un utilissimo documento che ci dà S.
Agostino intorno all'andar con riguardo nel determinar resolutamente sopra le
cose oscure e difficili ad esser comprese per via del solo discorso; mentre,
parlando pur di certa conclusione naturale attenente a i corpi celesti, scrive
così: “Nunc autem, servata semper moderatione piæ gravitatis,
nihil credere de re obscura temere debemus, ne forte quod postea veritas
patefecerit, quamvis libris sanctis, sive Testamenti Veteris sive Novi, nullo
modo esse possit adversum, tamen propter amorem nostri errori oderimus.”.
È
accaduto poi che il tempo è andato successivamente scoprendo a tutti le
verità prima da me additate, e con la verità del fatto la
diversità degli animi tra quelli che schiettamente e senz'altro livore
non ammettevano per veri tali scoprimenti, e quegli che all'incredulità
aggiugnevano qualche effetto alterato: onde, sì come i più
intendenti della scienza astronomica e della naturale restarono persuasi al mio
primo avviso, così si sono andati quietando di grado in grado gli altri
tutti che non venivano mantenuti in negativa o in dubbio da altro che
dall'inaspettata novità e dal non aver avuta occasione di vederne
sensate esperienze; ma quelli che, oltre all'amor del primo errore, non saprei
qual altro loro immaginato interesse gli rende non bene affetti non tanto verso
le cose quanto verso l'autore, quelle, non le potendo più negare,
cuoprono sotto un continuo silenzio, e divertendo il pensiero ad altre
fantasie, inacerbiti più che prima da quello onde gli altri si sono
addolciti e quietati, tentano di progiudicarmi con altri modi. De' quali io
veramente non farei maggiore stima di quel che mi abbia fatto dell'altre
contraddizioni, delle quali mi risi sempre, sicuro dell'esito che doveva avere
'l negozio, s'io non vedessi che le nuove calunnie e persecuzioni non terminano
nella molta o poca dottrina, nella quale io scarsamente pretendo, ma si
estendono a tentar di offendermi con macchie che devono essere e sono da me
più aborrite che la morte, né devo contentarmi che le sieno conosciute
per ingiuste da quelli solamente che conoscono me e loro, ma da ogn'altra
persona ancora. Persistendo dunque nel primo loro instituto di voler con ogni
immaginabil maniera atterrar me e le cose mie, sapendo come io ne' miei studii
di astronomia e di filosofia tengo, circa alla costituzione delle parti del
mondo, che il Sole, senza mutar luogo, resti situato nel centro delle
conversioni de gli orbi celesti, e che la Terra, convertibile in se stessa, se
gli muova intorno; e di più sentendo che tal posizione vo confermando
non solo col reprovar le ragioni di Tolommeo e d'Aristotile, ma col produrne
molte in contrario, ed in particolare alcune attenenti ad effetti naturali, le
cause de' quali forse in altro modo non si possono assegnare, ed altre
astronomiche, dependenti da molti rincontri de' nuovi scoprimenti celesti, li
quali apertamente confutano il sistema Tolemaico e mirabilmente con quest'altra
posizione si accordano e la confermano; e forse confusi per la conosciuta
verità d'altre proposizioni da me affermate, diverse dalle comuni; e
però diffidando ormai di difesa, mentre restassero nel campo filosofico;
si son risoluti a tentar di fare scudo alle fallacie de' lor discorsi col manto
di simulata religione e con l'autorità delle Scritture Sacre, applicate
da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di argioni né intese né
sentite.
E prima, hanno
per lor medesimi cercato di spargere concetto nell'universale, che tali
proposizioni sieno contro alle Sacre Lettere, ed in conseguenza dannande ed
eretiche; di poi, scorgendo quanto per lo più l'inclinazione dell'umana
natura sia più pronta ad abbracciar quell'imprese dalle quali il
prossimo ne venga, ben che, ingiustamente, oppresso, che quelle ond'egli ne
riceva giusto sollevamento, non gli è stato difficile il trovare chi per
tale, cio è per dannada ed eretica, l'abbia con insolita confidenza
predicata sin da i pulpiti, con poco pietoso e men considerato aggravio non
solo di questa dottrina e di chi la segue, ma di tutte le matematiche e de'
matematici insieme; quindi, venuti in maggior confidenza, e vanamente sperando
che quel seme, che prima fondò radice nella mente loro non sincera,
possa diffonder suoi rami ed alzargli verso il cielo, vanno mormorando tra 'l
popolo che per tale ella sarà in breve dichiarata dall'autorità
suprema. E conoscendo che tal dichiarazione spianterebbe non sol queste due
conclusioni, ma renderebbe dannande tutte l'altre osservazioni e proposizioni
astronomiche e naturali, che con esse hanno corrispondenza e necessaria
connessione, per agevolarsi il negozio cercano, per quanto possono, di far
apparir questa opinione, almanco appresso all'universale, come nuova e mia
particolare, dissimulando di sapere che Niccolò Copernico fu suo autore
e più presto innovatore e confermatore, uomo non solamente cattolico, ma
sacerdote e canonico, e tanto stimato, che, trattandosi nel Concilio
lateranense, sotto Leon X, della emendazion del calendario ecclesiastico, egli
fu chiamato a Roma sin dall'ultime parti di Germania per questa riforma, la
quale allora rimase imperfetta solo perché non si aveva ancora esatta
cognizione della giusta misura dell'anno e del mese lunare: onde a lui fu dato
carico dal Vescovo Semproniense, allora soprintendente a ques'impresa, di
cercar con replicati studi e fatiche di venire in maggior lume e certezza di
essi movimenti celesti; ond'egli, con fatiche veramente atlantiche e col suo
mirabil ingegno, rimessosi a tale studio, si avanzò tanto in queste
scienze, e a tale esattezza ridusse la notizia de' periodi de' movimenti
celesti, che si guadagnò il titolo di sommo astronomo, e conforme alla
sua dottrina non solamente si è poi regolato il calendario, ma si
fabbricorno le tavole di tutti i movimenti de' pianeti: ed avendo egli ridotta
tal dottrina in sei libri, la pubblicò al mondo a i prieghi del Cardinal
Capuano e del Vescovo Culmense; e come quello che si era rimesso con tante
fatiche a questa impresa d'ordine del Sommo Pontificio, al suo successore,
ciò è a Paolo III, dedicò il suo libro delle Revoluzioni
Celesti, il qual, stampato pur allora, è stato ricevuto da Santa Chiesa,
letto e studiato per tutto il mondo, senza che mai si sia presa pur minima
ombra di scrupolo nella sua dottrina. La quale ora mentre si va scoprendo
quanto ella sia ben fondata sopra ben manifeste esperienze e necessarie
dimostrazioni, non mancano persone che, non avendo pur mai veduto tal libro,
procurano il premio delle tante fatiche al suo autore con la nota di farlo
dichiarare eretico; e questo solamente per sodisfare ad un lor particolare
sdegno, concepito senza ragione contro di un altro, che non ha più
interesse col Copernico che l'approvar la sua dottrina.
Ora, per queste
false note che costoro tanto ingiustamente cercano di addossarmi, ho stimato
necessario per mia giustificazione appresso l'universale, del cui giudizio e
concetto, in materia di religione e di reputazione, devo far grandissima stima,
discorrer circa a quei particolari che costoro vanno producendo per detestare
ed abolire questa opinione, ed in somma per dichiararla non pur falsa, ma
eretica, facendosi sempre scudo di un simulato zelo di religione e volendo pur
interessare le Scritture Sacre e farle in certo modo ministre de' loro non
sinceri proponimenti, col voler, di più, s'io non erro, contro
l'intenzion di quelle e de' Santi Padri, estendere, per non dir abusare, la
loro autorità, sì che anco in conclusioni pure naturali e non de
Fide, si deve lasciar totalmente il senso e le ragioni dimostrative per
qualche luogo della Scrittura, che tal volta sotto le apparenti parole
potrà contenere sentimento diverso. Dove spero di dimostrar, con quanto
più pio e religioso zelo procedo io, che non fanno loro, mentre propongo
non che non si danni questo libro, ma che non si danni, come vorrebbono essi,
senza intenderlo, ascoltarlo, né pur vederlo, e massime sendo autore che non
mai tratta di cose attenenti a religione o a fede, né con ragioni dependenti in
modo alcuno da autorità di Scritture Sacre, dove egli possa malamente
averle interpretate, ma sempre se ne sta su conclusioni naturali, attenenti a i
moti celesti, trattate con astronomiche e geometriche dimostrazioni, fondate
prima sopra sensate esperienze ed accuratissime osservazioni. Non che egli non
avesse posto cura a i luoghi delle Sacre Lettere; ma perché benissimo
intendeva, che sendo tal sua dottrina dimostrata, non poteva contrariare alle
Scritture intese perfettamente: e però nel fine della dedicatoria,
parlando del Sommo Pontefice, dice così: “Si fortasse erunt
matæologi, qui, cum omnium mathematum ignari sint, tamen de illis
iudicium assumunt, propter aliquem locum Scripturæ, male ad suum
propositum detortum, ausi fuerint hoc meum institutum repræhendere ac
insectari, illos nihil moror, adeo ut etiam illorum iudicium tanquam temerarium
contemnam. Non enim obscurum est, Lactantium, celebrem alioqui scriptorem, sed
mathematicum parum, admodum pueriliter de forma Terræ loqui, cum deridet
eos qui Terram globi formam habere prodiderunt. Itaque non debet mirum videri
studiosis, si qui tales nos etiam ridebunt. Mathemata mathematicis scribuntur,
quibus et hi nostri labores (si me non fallit opinio) videbuntur etiam Republicæ
Ecclesiasticæ conducere aliquid, cuius principatum Tua Sanctitas nunc
tenet.”
E di questo
genere si scorge esser questi che s'ingegnano di persuadere che tale autore si
danni, senza pur vederlo; e per persuadere che ciò non solamente sia
lecito, ma ben fatto, vanno producendo alcune autorità della Scrittura e
de' sacri teologi e de' Concilii; le quali sì come da me son reverite e
tenute di suprema autorità, sì che somma temerità stimerei
esser quella di chi volesse contradirgli mentre vengono conforme all'instituto
di Santa Chiesa adoperate, così credo che non sia errore il parlar
mentre si può dubitare che alcuno voglia, per qualche suo interesse,
produrle e servirsene diversamente da quello che è nella santissima
intenzione di Santa Chiesa; però protestandomi (e anco credo che la
sincerità mia si farà per se stessa manifesta) che io intendo non
solamente di sottopormi a rimuover liberamente quegli errori ne' quali per mia
ignoranza potessi in questa scrittura incorrere in materie attenenti a religione,
ma mi dichiaro ancora non voler nell'istesse materie ingaggiar lite con
nissuno, ancor che fossero punti disputabili: perché il mio fine non tende ad
altro, se non che, se in queste considerazioni, remote dalla mia professione
propria, tra gli errori che ci potessero essere dentro, ci è qualcosa
atta ad eccitar altri a qualche avvertimento utile per Santa Chiesa, circa 'l
determinar sopra 'l sistema Copernicano, ella sia presa e fattone quel capitale
che parrà a' superiori; se no, sia pure stracciata ed abbruciata la mia
scrittura, ch'io non intendo o pretendo di guadagnarne frutto alcuno che non
fusse pio e cattolico. E di più, ben che molte delle cose che io noto le
abbia sentite con i proprii orecchi, liberamente ammetto e concedo a chi l'ha dette
che dette non l'abbia, se così gli piace, confessando poter essere ch'io
abbia frainteso; e però quando rispondo non sia detto per loro, ma per
chi avesse quella opinione.
Il motivo,
dunque, che loro producono per condennar l'opinione della mobilità della
Terra e stabilità del Sole, è, che leggendosi nelle Sacre
lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, né
potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per necessaria
conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il
Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra.
Sopra questa
ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e
prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta
volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si
possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona
il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta
alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale,
potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e
proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che
sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, non meno affetti corporali
ed umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, ed anco tal volta la dimenticanza
delle cose passate e l'ignoranza delle future; le quali proposizioni, sì
come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli
scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e
indisciplinato, così per quelli che meritano d'esser separati dalla
plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e
n'additino le ragioni particolari per che e' siano sotto cotali parole
profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata
appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione
alcuna.
Di qui mi par di
poter assai ragionevolmente dedurre, che la medesima Sacra Scrittura, qualunque
volta gli è occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e
massime delle più recondite e difficili ad esser capite, ella non abbia
pretermesso questo medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti
di quel medesimo popolo e renderlo più contumace contro a i dogmi di
più alto misterio. Perché se, come si è detto e chiaramente si
scorge, per il solo rispetto d'accomodarsi alla capacità popolare non si
è la Scrittura astenuta di adombrare principalissimi pronunziati,
attribuendo sino all'istesso Iddio condizioni lontanissime e contrarie alla sua
essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che l'istessa Scrittura,
posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra,
d'acqua, di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore
dentro a i puri e ristretti significati delle parole? E massime nel pronunziar
di esse creature cose non punto concernenti al primario instituto delle
medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ed alla salute
dell'anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo.
Stante, dunque,
ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe
cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate
esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal
Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello
Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio;
ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi
all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto
al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo
la natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle
leggi impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e
modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini;
pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone
dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in
conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della
Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante; poi che non ogni detto
della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto
di natura, né meno eccelentemente ci si scuopre Iddio negli effetti di natura
che ne' sacri detti delle Scritture: il che volse per avventura intender
Tertulliano in quelle parole: “Nos definimus, Deum primo natura cognoscendum,
deinde doctrina recognoscendum: natura, ex operibus; doctrina, ex
prædicationibus.”
Ma non per
questo voglio inferire, non doversi aver somma considerazione de i luoghi delle
Scritture Sacre; anzi, venuti in certezza di alcune conclusioni naturali,
doviamo servircene per mezi accomodatissimi alla vera esposizione di esse
Scritture ed all'investigazione di quei sensi che in loro necessariamente si
contengono, come verissime e concordi con le verità dimostrate. Stimerei
per questo che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto la mira a
persuadere principalmente a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che,
superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro
mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo: di
più, che ancora in quelle proposizioni che non sono de Fide
l'autorità delle medesime Sacre Lettere deva esser anteposta
all'autorità di tutte le Scritture umane, scritte non con metodo
dimostrativo, ma o con pura narrazione o anco con probabili ragioni, direi
doversi reputar tanto convenevole e necessario, quanto l'istessa divina sapienza
supera ogni umano giudizio e coniettura. Ma che quell'istesso Dio che ci ha
dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di
questi, darci con altro mezo le notizie che per quelli possiamo conseguire,
sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate
esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli
occhi e all'intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia
necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima
particella solamente, ed anco in conclusioni divise, se ne legge nella
Scrittura; quale appunto è l'astronomia, di cui ve n'è
così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti,
eccetto il Sole e la Luna, e duna o due volte solamente, Venere, sotto nome di
Lucifero. Però se gli scrittori sacri avessero avuto pensiero di
persuadere al popolo le disposizioni e movimenti de' corpi celesti, e che in
conseguenza dovessimo noi ancora dalle Sacre Scritture apprender tal notizia,
non ne avrebbon, per mio credere, trattato così poco, che è come
niente in comparazione delle infinite conclusioni ammirande che in tale scienza
si contengono e si dimostrano. Anzi, che non solamente gli autori delle Sacre
Letter non abbino preteso d'insegnarci le costituzioni e movimenti de' cieli e
delle stelle, e loro figure, grandezze e distanze, ma che a bello studio, ben
che tutte queste cose fussero a loro notissime, se ne sieno astenuti, è
opinione di santissimi e dottissimi Padri: ed in sant'Agostino si leggono le
seguenti parole: “Quæri etiam solet, quæ forma et figura cæli
esse credenda sit secundum Scripturas nostras: multi enim multum disputant de
iis rebus, quas maiore prudentia nostri authores omiserunt, ad beatam vitam non
profuturas discentibus, et occupantes (quod peius est) multum prolixa et rebus
salubribus impedenda temporum spatia. Quid enim ad me pertinet, ultram
cælum, sicut sphera, undique concludat Terram, in media mundi mole
libratam, an eam ex una parte desuper, velut discus, operiat? Sed quia de fide
agitur Scripturarum, propter illam causam quam non semel commemoravi, ne
scilicet quisquam, eloquia divina non intelligens, cum de his rebus tale
aliquid vel invenerit in libris nostris vel ex illis audierit quod perceptis
assertionibus adversari videatur, nullo modo eis cætera utilia monentibus
vel narrantibus vel pronunciantibus credat; breviter dicendum est, de figura
cæli hoc scisse authores nostros quod veritas habet, sed Spiritum Dei,
qui per ipsos loquebatur, noluisse ista docere homines, nulli saluti
profutura.”
E pur l'istesso
disprezzo avuto da' medesimi scrittori sacri nel determinar quello che si deva
credere di tali accidenti de' corpi celesti ci vien nel seguente cap. 10
replicato dal medesimo Sant'Agostino, nella quistione, se si deva stimare che
'l cielo si muova o pure stia fermo, scrivendo così: “De motu etiam
cæli nonnulli fratres quæstionem movent, utrum stets an moveatur:
quia si movetur, inquiunt, quomodo firmamentum est? Si autem stat, quomodo sydera,
quæ in ipso fixa creduntur, ab oriente usque ad occidentem circumeunt,
septentrionalibus breviores gyros iuxta cardinem peragentibus, ut cælum,
si est alius nobis occultus cardo ex alio vertice, sicut sphera, si autem
nullus alius cardo est, veluti discus, rotari videatur? Quibus respondeo,
multum subtilibus et laboriosis ista perquiri, ut vere percipiatrur utrum ita
an non ita sit; quibus ineundis atque tractandis nec mihi iam tempus est, nec
illis esse debet quos ad salutem suam et Sanctæ Ecclesiæ necessariam
utilitatem cupimus informari.”
Dalle quali cose
descendendo più al nostro particolare, ne séguita per necessaria
conseguenza, che non avendo voluto lo Spirito Santo insegnarci se il cielo si
muova o stia fermo, né la sua figura sia in forma di sfera o di disco o distesa
in piano, né se la Terra sia contenuta nel centro di esso o da una banda, non
avrà manco avuto intenzione di renderci certi di altre conclusioni
dell'istesso genere, e collegate in maniera con le pur ora nominate, che senza
la determinazion di esse non se ne può asserire questa o quella parte;
quali sono il determinar del moto e della quiete di essa Terra e del Sole.
E se l'istesso
Spirito Santo a bello studio ha pretermesso d'insegnarci simili proposizioni,
come nulla attenenti alla sua intenzione, ciò è alla nostra
salute, come si potrà adesso affermare, che il tener di esse questa
parte, e non quella, sia tanto necessario che l'una sia de Fide, e
l'altra erronea? Potrà, dunque essere un'opinione eretica, e nulla
concernente alla salute dell'anime? o potrà dirsi, aver lo Spirito Santo
voluto non insegnarci cosa concernente alla salute? Io qui direi che quello che
intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò
è l'intenzione delle Spirito Santo essere d'insegnarci come si vadia al cielo,
e non come vadia il cielo.
Ma torniamo a
considerare, quanto nelle conclusioni naturali si devono stimar le
dimostrazioni necessarie e le sensate esperienze, e di quanta autorità
le abbino reputate i dotti e i santi teologici; da i quali, tra cent'altre
attestazioni, abbiamo le seguenti: “Illud etiam diligenter cavendum et omnino
fugiendum est, ne in tractanda Mosis doctrina quidquam affirmate et
asseveranter sentiamus et dicamus, quod repugnet manifestis experimentis et
rationibus philosopiæ vel aliarum disciplinarum: namque, cum verum omne
semper cum vero congruat, non potest veritas Sacrarum Literarum veris
rationibus et experimentis humanarum doctrinarum esse contraria.” Ed appresso
sant'Agostino si legge: “Si manifestæ certæque rationi velut Santarum
Scripturarum obiicitur authoritas, non intelligit qui hoc facit; et non
Scripturæ sensum, ad quem penetrare non potuit, sed suum potius, obiicit
veritati; nec quod in ea, sed in ipso, velut pro ea, invenit, opponit.”
Stante questo,
ed essendo, come si è detto, che due verità non possono
contrariarsi, è officio de' saggi espositori affaticarsi per penetrare i
veri sensi de' luoghi sacri, che indubitabilmente saranno concordanti con
quelle conclusioni naturali, delle quali il senso manifesto e le dimostrazioni
necessarie ci avessero prima resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come si
è detto, che le Scritture per l'addotte cagioni ammettono in molti
luoghi esposizioni lontane dal significato delle parole, e, di più, non
potendo noi con certezza asserire che tutti gl'interpreti parlino inspirati
divinamente, poi che, se così fusse, niuna diversità sarebbe tra
di loro circa i sensi de' medesimi luoghi, crederei che fusse molto
prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno impegnare i luoghi della
Scrittura ed in certo modo obligargli a dover sostener per vere queste o quelle
conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative
e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi vuol por termine alli
umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo
tutto quello che è al mondo di sensibile e di scibile? Forse quelli che
in altre occasioni confesseranno (e con gran verità) che ea quæ
scimus sunt minima pars eorum quæ ignoramus? Anzi pure, se noi
abbiamo dalla bocca dell'istesso Spirito Santo, che Deus tradidit mundum
disputationi eorum, ut non inveniat homo opus quod operatus est Deus ab initio
ad finem, non si dovrà, per mio parere, contradicendo a tal
sentenza, precluder la strada al libero filosofare circa le cose del mondo e
della natura, quasi che elleno sien di già state con certezza ritrovate
e palesate tute. Né si dovrebbe stimar temerità il non si quietare nelle
opinioni già state quasi comuni, né dovrebb'esser chi prendesse a sdegno
se alcuno non aderisce in dispute naturali a quell'opinione che piace loro, e
massime intorno a problemi stati già migliaia d'anni controversi tra
filosofi grandissimi, quale è la stabilità del sole e
mobilità della Terra: opinione tenuta da Pittagora, e da tutta la sua
setta, e da Eraclide Pontico, il quale fu dell'istessa opinione, da Filolao
maestro di Platone, e dall'istesso Platone, come riferisce Aristotile, e del
quale scrive Plutarco nella vita di Numa, che esso Platone già fatto
vecchio diceva, assurdissima cosa essere il tenere altramente. L'istesso fu
creduto da Aristarco Samio, come abbiamo appresso Archimede, da Seleuco
matematico, da Niceta filosofo, referente Cicerone, e da molti altri, e
finalmente ampliata e con molte osservazioni e dimostrazioni confermata da Niccolò
Copernico. E Seneca, eminentissimo filosofo, nel libro De cometis ci
avvertisce, doversi con grandissima diligenza cercar di venire in certezza, se
sia il cielo o la Terra in cui risegga la diurna conversione.
E per questo,
oltre agli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede,
contro la fermezza de' quali non è pericolo alcuno che possa insurgere
mai dottrina valida ed efficace, non saria forse se non saggio ed util
consiglio il non ne aggregar altri senza necessità: e se così
è, disordine veramente sarebbe l'aggiugnergli a richiesta di persone, le
quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù,
chiaramente vediamo che in esse si potrebbe desiderare quella intelligenza che
sarebbe necessaria prima a capire, e poi a redarguire, le dimostrazioni con le
quali le acutissime scienze procedono nel confermare simili conclusioni. Ma
più direi, quando mi fusse lecito produrre il mio parere, che forse
più converrebbe al decoro ed alla maestà di esse Sacre Lettere il
provvedere che non ogni leggiero e vulgare scrittore potesse, per autorizzar
sue composizioni, bene spesso fondate sopra vane fantasie, spargervi luoghi
della Scrittura Santa, interpetrati, o più presto stiracchiati, in sensi
tanto remoti dall'intenzione retta di essa Scrittura, quanto vicini alla
derisione di coloro che non senza qualche ostentazione se ne vanno adornando.
Esempli di tale abuso se ne potrebbono addur molti: ma voglio che mi bastino
due, non remoti da queste materie astronomiche. L'uno de' quali sieno le
scritture che furon pubblicate contro a i pianeti Medicei, ultimamente da me
scoperti, contro la cui esistenza furono opposti molti luoghi della Sacra
Scrittura: ora che i pianeti si fanno veder da tutto il mondo, sentirei
volentieri con quali nuove interpretazioni vien da quei medesimi oppositori
esposta la Scrittura, e scusata la lor semplicità. L'altro esempio sia
di quello che pur nuovamente ha stampato contro a gli astronomi e filosofi, che
la Luna non altramente riceve lume dal Sole, ma è per se stessa
splendida; la qual immaginazione conferma in ultimo, o, per meglio dire, si
persuade di confermare, con varii luoghi della Scrittura, li quali gli par che
non si potessero salvare, quando la sua opinione non fusse vera e necessaria.
Tutta via, che la Luna sia per se stessa tenebrosa, è non men chiaro che
lo splendor del Sole.
Quindi resta
manifesto che tali autori, per non aver penetrato i veri sensi della Scrittura,
l'avrebbono, quando la loro autorità fosse di gran momento, posta in
obligo di dover costringere altrui a tener per vere, conclusioni repugnanti
alle ragioni manifeste ed al senso: abuso che Deus avertat che andasse
pigliando piede o autorità, perché bisognerebbe vietar in breve tempo
tutte le scienze speculative; perché, essendo per natura il numero degli uomini
poco atti ad intendere perfettamente le Scritture Sacre e l'altre scienze
maggiore assai del numero degl'intelligenti, quelli, scorrendo superficialmente
le Scritture, si arrogherebbono autorità di poter decretare sopra tutte
le questioni della natura, in vigore di qualche parola mal intesa da loro ed in
altro proposito prodotta dagli scrittori sacri: né potrebbe il piccol numero
degl'intendenti reprimer il furioso torrente di quelli, i quali troverebbono
tanti più seguaci, quanto il potersi far reputar sapienti senza studio e
senza fatica è più soave che il consumarsi senza riposo intorno
alle discipline laboriosissime. Però grazie infinite doviamo render a
Dio benedetto, il quale per sua benignità ci spoglia di questo timore,
mentre spoglia d'autorità simil sorte di persone, riponendo il
consultare, risolvere e decretare sopra determinazioni tanto importanti nella
somma sapienza e bontà di prudentissimi padri e nella suprema
autorità di quelli, che, scorti dallo Spirito Sabnto non possono se non
santamente ordinare, permettendo che della leggerezza di quelli altri non sia
fatto stima. Questa sorte d'uomini, per mio credere, son quelli contro i quali,
non senza ragione, si riscaldano i gravi e santi scrittori, e de i quali in particolare
scrive San Girolamo: “Hanc” (intendendo della Scrittura Sacra) “garrula anus,
hanc delirus senex, hanc sophista verbosus, hanc universi præsumunt,
lacerant, docent antequam discant. Alii, adducto supercilio, grandia verba
trutinantes, inter mulierculas de Sacris Literis philosophantur; alii discunt,
proh pudor, a fæminis quod viros doceant, et, ne parum hoc sit, quadam
facilitate verborum, imo audacia, edisserunt aliis quod ipsi non intelligunt.
Taceo de mei similibus, qui, si forte ad Scriputras Sanctas post seculares
literas venerint, et sermone composito aurem populi mulserint, quidquid
dixerint, hoc legem Dei putant, nec scire dignantur quid Prophetæ quid
Apostoli senserint, sed ad sensum suum incongrua aptant testimonia; quasi
grande sit, et non vitiosissimum docendi genus, depravare sententias, et ad
voluntatem suam Scripturam trahere repugnantem.”
Io non voglio
metter nel numero di simili scrittori secolari alcuni teologi, riputati da me
per uomini di profonda dottrina e di santissimi costumi, e per ciò
tenuti in grande stima e venerazione; ma non posso già negare di non
rimaner con qualche scrupolo, ed in conseguenza con desiderio che mi fusse
rimosso, mentre sento che essi pretendono di poter costringere altri, con
l'autorità della Scrittura, a seguire in dispute naturali quella
opinione che pare a loro che più consuoni con i luoghi di quella,
stimandosi insieme di non essere in obbligo di solvere le ragioni o esperienze
in contrario. In esplicazione e confirmazione del qual lor parere, dicono che
essendo la teologia regina di tutte le scienze, non deve in conto alcuno
abbassarsi per accomodarsi a' dogmi dell'altre men degne ed a lei inferiori, ma
sì ben l'altre devono riferirsi ad essa, come a suprema imperatrice, e
mutare ed alterar le lor conclusioni conforme alli statuti e decreti
teologicali: e più aggiungono che quando nell'inferiore scienza si
avesse alcuna conlusione per sicura, in vigor di dimostrazioni o di esperienze,
alla quale si trovassi nella Scrittura altra conclusione repugnante, devono gli
stessi professori di quella scienza procurar per se medesimi di quella scienza
procurare per se medesimi di scioglier le lor dimostrazioni e scoprir le
fallacie delle proprie esperienze, senza ricorrere a i teologi e scritturali;
non convenendo, come si è detto, alla dignità della teologia
abbassarsi all'investigazione delle fallacie delle scienze soggette, ma solo
bastando a lei il determinargli la verità della conclusione, con
l'assoluta autorità e con la sicurezza di non poter errare. Le conclusioni
poi naturali nelle quali dicon essi che noi doviamo fermarci sopra la
Scrittura, senza glosarla o interpretarla in sensi diversi dalle parole, dicono
essere quelle delle quali la Scrittura parla sempre nel medesimo modo, e i
Santi Padri tutti nel medesimo sentimento le ricevono ed espongono. Ora intorno
a queste determinazioni mi accascano da considerare alcuni particolari, li
quali proporrò per esserne reso cauto da chi più di me intende di
queste materie, al giudizio de' quali io sempre mi sottopongo.
E prima,
dubiterei che potesse cader qualche poco di equivocazione, mentre che non si
distinguessero le preminenze per le quali la sacra teologia è degna del
titolo di regina. Imperò che ella potrebbe esser tale, o vero perché
quello che da tutte l'altre scienze viene insegnato, si trovasse compreso e
dimostrato in lei, ma con mezi più eccellenti e con più sublime
dottrina, nel modo che, per essempio, le regole del misurare i campi e del
conteggiare molto più eminentemente si contengono nell'aritmetica e
geometria d'Euclide, che nelle pratiche degli agrimensori e de' computisti; o
vero perché il suggetto, intorno al quale si occupa la teologia, superasse di
dignità tutti gli altri suggetti che son materia dell'altre scienze, ed
anco perché i suoi insegnamenti procedessero con mezi più sublimi. Che
alla teologia convenga il titolo e la autorità regia nella prima
maniera, non credo che poss'essere affermato per vero da quei teologi che
avranno qualche pratica nell'altre scienze; de' quali nissuno crederò io
che dirà che molto più eccellente ed esattamente si contenga la
geometria, la astronomia, la musica e la medicina ne' libri sacri, che in
Archimede, in Tolommeo, in Boezio ed in Galeno. Però pare che la regia
sopreminenza se gli deva nella seconda maniera, ciò è per
l'altezza del suggetto, e per l'ammirabil insegnamento delle divine revelazioni
in quelle conclusioni che per altri mezi non potevano dagli uomini esser
comprese e che sommamente concernono all'acquisto dell'eterna beatitudine. Ora,
se la teologia, occupandosi nell'altissime contemplazioni divine e risedendo
per dignità nel trono regio, per lo che ella è fatta di somma
autorità, non discende alle più basse ed umili speculazioni delle
inferiori scienze, anzi, come di sopra si è dichiarato, quelle non cura,
come non concernenti alla beatitudine, non dovrebbono i ministri e i professori
di quella arrogarsi autorità di decretare nelle professioni non
essercitate né studiate da loro; perché questo sarebbe come se un principe
assoluto, conoscendo di poter liberamente comandare e farsi ubbidire, volesse,
non essendo egli né medico né architetto, che si medicasse e fabbricasse a modo
suo, con grave pericolo della vita de' miseri infermi, e manifesta rovina degli
edifizi.
Il comandar poi
a gli stessi professori d'astronomia, che procurino per lor medesimi di
cautelarsi contro alle proprie osservazioni e dimostrazioni, come quelle che
non possino esser altro che fallacie e sofismi, è un comandargli cosa
più che impossibile a farsi; perché non solamente se gli comanda che non
vegghino quel che e' veggono e che non intendino quel che gl'intendono, ma che,
cercando, trovino il contrario di quello che gli vien per le mani. Però,
prima che far questo, bisognerebbe che fusse lor mostrato il modo di far che le
potenze dell'anima si comandassero l'una all'altra, e le inferiori alle
superiori, sì che l'immaginativa e la volontà potessero e
volessero credere il contrario di quel che l'intelletto intende (parlo sempre
delle proposizioni pure naturali e che non sono de Fide, e non delle
sopranaturali e de Fide). Io vorrei pregar questi prudentissimi Padri,
che volessero con ogni diligenza considerare la differenza che è tra le
dottrine opinabili e le dimostrative; acciò, rappresentandosi bene
avanti la mente con qual forza stringhino le necessarie illazioni, si
accertassero maggiormente come non è in potestà de' professori
delle scienze demostrative il mutar l'opinioni a voglia loro, applicandosi ora
a questa ed ora a quella, e che gran differenza è tra il comandare a un
matematico o a un filosofo e 'l disporre un mercante o un legista, e che non
con, l'istessa facilità si possono mutare le conclusioni dimostrate
circa le cose della natura e del cielo, che le opinioni circa a quello che sia
lecito o no in un contratto, in un censo, in un cambio. Tal differenza è
stata benissimo conosciuta da i Padri dottissimi e santi, come l'aver loro
posto grande studio in confutar molti argumenti, o, per meglio dire, molte
fallacie filosofiche ci manifesta, e come espressamente si legge appresso
alcuni di loro; ed in patrticolare aviamo in sant'Agostino le seguenti parole:
“Hoc indubitanter tenendum est, ut quicquid sapientes huius mundi de natura
rerum veraciter demonstrare potuerint, ostendamus nostris Literis non esse
contrarium; quicquid autem illi in suis voluminibus contrarium Sacris Literis
docent, sine ulla dubitatione credamus id falsissimum esse, et, quoquomodo
possumus, etiam ostendamus; atque ita teneamus fidem Domini nostri, in quo sunt
absconditi omnes theasuri sapientæ, ut neque falsæ
philosophiæ loquacitate seducamur, neque simulatæ religionis
superstitione terreamur.”
Dalle quali
parole mi par che si cavi questa dottrina, cioè che nei libri de'
sapienti di questo mondo si contenghino alcune cose della natura dimostrate veracemente,
ed altre semplicemente insegnate; e che, quanto alle prime, sia ofizio de'
saggi teologi mostrare che le non son contrarie alle Sacre Scritture; quanto
all'altre, insegnate ma non necessariamente dimostrate, se vi sarà cosa
contraria alle Sacre Lettere, si deve stimare che sia indubitatamente falsa, e
tale in ogni possibil modo si deve dimostrare. Se, dunque, le conclusioni
naturali, dimostrate veracemente, non si hanno a posporre a i luoghi della
Scrittura, ma sì ben dichiarare come tali luoghi non contrariano ad esse
conclusioni, adunque bisogna, prima che condannare una proposizion naturale,
mostrar ch'ella non sia dimostrata necessariamente: e questo devon fare non
quelli che la tengon per vera, ma quelli che la stiman falsa; e ciò par
molto ragionevole e conforme alla natura; ciò è che molto
più facilmente sien per trovar le fallacie in un discorso quelli che lo
stiman falso, che quelli che lo reputan vero e concludente; anzi in questo
particolare accadrà che i seguaci di questa opinione, quanto più
andran rivolgendo le carte, esaminando le ragioni, replicando l'osservazione e
riscontrando l'esperienze, tanto più si confermino in questa credenza. E
l'Altezza Vostra sa quel che occorse al matematico passato dello Studio di
Pisa, che messosi nella sua vecchiezza a vedere la dottrina del Copernico con
speranza di poter fondatamente confutarla (poi che in tanto la reputava falsa,
in quanto non l'aveva mai veduta), gli avvenne, che non prima restò
capace de' suoi fondamenti, progressi e dimostrazioni, che ei si trovò
persuaso, e d'impugnatore ne divenne saldissimo mantenitore. Potrei anco
nominargli altri matematici, i quali, mossi da gli ultimi miei scoprimenti,
hanno confessato esser necessario mutare la già concepita costituzione del
mondo, non potendo in conto alcuno più sussistere.
Se per rimuover
dal mondo questa opinione e dottrina batasse il serrar la bocca ad un solo,
come forse si persuadono quelli che, misurando i giudizi degli altri co 'l loro
proprio, gli par impossibile che tal opinione abbia a sussistere e trovar
seguaci, questo sarebbe facilissimo a farsi; ma il negozio cammina altramente;
perché, per eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non
solo il libro del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l'istessa
dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d'astronomia intiera, e
più, vietar a gli uomini guardare verso il cielo, acciò non
vedessero Marte e Venere or vicinissimi alla terra or remotissimi con tanta
differenza che questa si scorge 40 volte, e quello fa 60, maggior una volta che
l'altra, ed acciò che la medesima Venere non si scorgesse or rotonda or
falcata con sottilissime corna, e molte altre sensate osservazioni, che in modo
alcuno non si possono adattare al sistema Tolemaico, ma son saldissimi
argumenti del Copernicano. Ma il proibire il Copernico, ora che per molte nuove
osservazioni e per l'applicazione di molti literati alla sua lettura si va di
giorno in giorno scoprendo più vera la sua posizione e ferma la sua
dottrina, avendol'ammesso per tanti anni mentre egli era men seguito e
confermato, parrebbe, a mio giudizio, un contravvenire alla verità, e
cercar tanto più di occultarla e supprimerla, quanto più ella si
dimostra palese e chiara. Il non abolire interamente tutto il libro, ma
solamente dannar per erronea questa particolar proposizione, sarebbe, s'io non
m'inganno, detrimento maggior per l'anime, lasciandogli occasione di veder
provata una proposizione, la qual fusse poi peccato il crederla. Il proibir
tutta la scienza, che altro sarebbe che un reprovar cento luoghi delle Sacre
Lettere, i quali ci insegnano come la gloria e la grandezza del sommo Iddio
mirabilmente si scorge in tutte le sue fatture, e divinamente si legge
nell'aperto libro del cielo? Né sia chi creda che la lettura degli altissimi
concetti, che sono scritti in quelle carte, finisca nel solo veder lo splendor
del Sole e delle stelle e 'l lor nascere ed ascondersi, che è il termine
sin dove penetrano gli occhi dei bruti e del vulgo; ma vi son dentro misteri tantro
profondi e concetti tanto sublimi, che le vigilie, le fatiche e gli studi di
cento e cento acutissimi ingegni non gli hanno ancora interamente penetrati con
l'investigazioni continuate per migliaia e migliaia d'anni. E credino pure gli
idioti che, sì come quello che gli occhi loro comprendono nel riguardar
l'aspetto esterno d'un corpo umano è piccolissima cosa in comparazione
de gli ammirandi artifizi che in esso ritrova un esquisito e diligentissimo
anatomista e filosofo, mentre va investigando l'uso di tanti muscoli, tendini,
nervi ed ossi, esaminando gli offizi del cuore e de gli altri membri
principali, ricercando le sedi delle facultà vitali, osservando le
maravigliose strutture de gli strumenti de' sensi, e, senza finir mai di
stupirsi e di appagarsi, contemplando i ricetti dell'immaginazione, della
memoria e del discorso; così quello che 'l puro senso della vista
rappresenta, è come nulla in proporzion de' l'alte meraviglie che, mercé
delle lunghe ed accurate osservazioni, l'ingegno degl'intelligenti scorge nel
cielo. E questo è quanto mi occorre considerare circa a questo
particolare.
Quanto poi a
quello che soggiungono, che quelle proposizioni naturali delle quali la
Scrittura pronunzia sempre l'istesso e che i Padri tutti concordemente
nell'istesso senso ricevono, debbino esser intese conforme al nudo significato
delle parole, senza glose e interpretazioni, e ricevute e tenute per verissime,
e che in conseguenza, per esser tale la mobilità del Sole e la
stabilità della Terra, sia de Fide il tenerle per vere, ed
erronea l'opinion contraria; mi occorre di considerar, prima, che delle
proposizioni naturali alcune sono delle quali, con ogni umana specolazione e
discorso, solo se ne può conseguire più presto qualche probabile
opinione e verisimil coniettura, che una sicura e dimostrata scienza, come, per
esempio, se le stelle sieno animate; altre sono, delle quali o si ha, o si
può credere fermamente che aver si possa, con esperienze, con lunghe
osservazioni e con necessarie dimostrazioni, indubitata certezza, quale
è, se la Terra e 'l Sole si muovino o no, se la Terra sia sferica o no.
Quanto alle prime, io non dubito punto che dove gli umani discorsi non possono
arrivare, e che di esse per conseguenza non si può avere scienza, ma
solamente opinione e fede, piamente convenga conformarsi assolutamente col puro
senso della Scrittura. Ma quanto alle altre, io crederei, come di sopra si
è detto, che prima fosse d'accertarsi del fatto, il quale ci scorgerebbe
al ritrovamento de' veri sensi delle Scritture, li quali assolutamente si
troverebbero concordi col fatto dimostrato, ben che le parole nel primo aspetto
sonassero altramente; poi che due veri non possono mai contrariarsi. E questa
mi par dottrina tanto retta e sicura, quanto io la trovo scritta puntualmente
in sant'Agostino, il quale, parlando a punto della figura del cielo e quale
essa si deve credere essere, poi che pare che quel che ne affermano gli
astronomi sia contrario alla Scrittura, stimandola quegli rotonda, e
chiamandola la scrittura distesa come una pelle, determina che niente si ha da
curar che la Scrittura contrarii a gli astronomi, ma credere alla sua
autorità, se quello che loro dicono sarà falso e fondato
solamente sopra conietture dell'infirmità umana; ma se quello che loro
affermano fosse provato con ragioni indubitabili, non dice questo Santo Padre
che si comandi a gli astronomi che lor medesimi, solvendo le lor dimostrazioni,
dichiarino la lor conclusione per falsa, ma dice che si deve mostrare che
quello che è detto nella Scrittura della pelle, non è contario a
quelle vere dimostrazioni. Ecco le sue parole: “Sed ait aliquis: Quomodo non est contrarium iis qui
figuram spheræ cælo tribuunt, quod scriptum est in libris nostris,
Qui extendit cælum sicut pellem? Sit sane contarium, si falsum est quod
illi dicunt; hoc enim verum est, quod divina dicit authoritas, potius quam
illud quod humana infirmitas coniicit. Sed si forte illud talibus illi
documentis probare potuerint, ut dubitari inde non debeat, demonstrandum est,
hoc quod apud nos est de pelle dictum, veris illis rationibus non esse
contrarium.” Segue poi di ammonirci che noi
non doviamo esser meno osservanti in concordare un luogo della Scrittura con
una proposizione naturale dimostrata, che con un altro luogo della Scrittura
che sonasse il contrario. Anzi mi par degna d'esser ammirata ed immitata la
circuspezzione di questo Santo, il quale anco nelle conclusioni oscure, e delle
quali si può esser sicuri che non se ne possa avere scienza per
dimostrazioni umane, va molto riservato nel determinar quello che si deva
credere, come si vede da quello che egli scrive nel fine del 2° libro De
Genesi ad literam, parlando se le stelle sieno da credersi animate: “Quod
licet in præsenti facile non possit conpræhendi, arbitror tamen, in
processu tractandarum Scripturarum opportuniora loca posse occurrere, ubi nobis
de hac re secundum sanctæ authoritatis literas, etsi non ostendere certum
aliquid, tamen credere, licebit. Nunc autem, servata semper moderatione
piæ gravitatis, nihil credere de re obscura temere debemus, ne forte quod
postea veritas patefecerit, quamvis libris sanctis, sive Testamenti Veteris
sive Novi, nullo modo esse possit adversum, tamen propter amorem nostri erroris
oderimus.”
Di qui e da
altri luoghi parmi, s'io non m'inganno, la intenzione de' Santi Padri esser,
che nelle quistioni naturali e che non son de Fide prima si deva
considerar se elle sono indubitabilmente dimostrate o con esperienze sensate
conosciute, o vero se una tal cognizione e dimostrazione aver si possa: la
quale ottenendosi, ed essendo ella ancora dono di Dio, si deve applicare
all'investigazione de' veri sensi delle Sacre Lettere in quei luoghi che in
apparenza mostrassero di sonar diversamente; i quali indubitatamente saranno
penetrati da' sapienti teologi, insieme con le ragioni per che lo Spirito Santo
gli abbia volsuti tal volta, per nostro essercizio o per altra a me recondita
ragione, velare sotto parole di significato diverso.
Quanto all'altro
punto, riguardando noi al primario scopo di esse Sacre Lettere, non crederei
che l'aver loro sempre parlato nell'istesso senso avesse a perturbar questa
regola; perché, se occorrendo alla Scrittura, per accomodarsi alla
capacità del vulgo, pronunziare una volta una proposizione con parole di
sentimento diverso dalla essenza di essa proposizione; perché non dovrà
ella aver osservato l'istesso, per l'istesso rispetto, quante volte gli
occorreva la medesima cosa? Anzi mi pare che 'l fare altramente averebbe
cresciuta la confusione, e scemata la credulità nel popolo. Che poi
della quiete o movimento del Sole e della Terra fosse necessario, per
accomodarsi alla capacità popolare, asserirne quello che suonan le
parole della Scrittura, l'esperienza ce lo mostra chiaro: poi che anco
all'età nostra popolo assai men rozo vien mantenuto nell'istessa
opinione da ragioni che, ben ponderate ed essaminate, si troveranno esser
frivolissime, ed esperienze o in tutto false o totalmente fuori del caso; né si
può pur tentar di rimuoverlo, non sendo capace delle ragioni contrarie,
dependenti da troppo esquisite osservazioni e sottili dimostrazioni, appoggiate
sopra astrazioni, che ad esser concepite richieggon troppo gagliarda
imaginativa. Per lo che, quando bene appresso i sapienti fusse più che
certa e dimostrata la stabilità del Sole e 'l moto della Terra,
bisognerebbe ad ogni modo, per mantenersi il credito appresso il numerosissimo
volgo, proferire il contrario; poi che de i mille uomini vulgari che venghino
interrogati sopra questi particolari, forse non se ne troverà uno solo,
che non risponda, parergli, e così creder per fermo, che 'l Sole si
muova e che la Terra stia ferma. Ma non però deve alcun prendere questo
comunissimo assenso popolare per argumento della verità di quel che
viene asserito; perché se noi interrogheremo gli stessi uomini delle cause e
motivi per i quali e' credono in quella maniera, ed, all'incontro, ascolteremo
quali esperienze e dimostrazioni induchino quegli altri pochi a creder il
contrario, troveremo questi esser persuasi da saldissime ragioni, e quelli da
semplicissime apparenze e rincontri vani e ridicoli.
Che dunque fosse
necessario attribuire al Sole il moto, e la quiete alla Terra, per non
confonder la poca capacità del vulgo e renderlo renitente e contumace
nel prestar fede a gli articoli principali e che sono assolutamente de Fide,
è assai manifesto: e se così era necessario a farsi, non è
punto da meravigliarsi che così sia stato con somma prudenza esseguito
nelle divine Scritture. Ma più dirò, che non solamente il
rispetto dell'incapacità del Vulgo, ma la corrente opinione di quei
tempi, fece che gli scrittori sacri nelle cose non necessarie alla beatitudine
più si accomodorno all'uso ricevuto che alla essenza del fatto. Di che
parlando san Girolamo scrive: “Quasi non multa in Scripturis Sanctis dicantur
iuxta opinionem illius temporis quo gesta referuntur, et non iuxta quod rei
veritas continebat.” Ed altrove il medesimo Santo: “Consuetudinis, Scripturarum
est, ut opinionem multarum rerum sic narret Historicus, quomodo eo tempore ab
omnibus credebatur.” E san Tommaso in Iob, al cap. 27, sopra le parole “Qui
extendit aquilonem super vacuum, et appendit Terram super nihilum”, nota che la
Scrittura chiama vacuo e niente lo spazio che abbraccia e circonda la Terra, e
che noi sappiamo non esser vòto, ma ripieno d'aria: nulla dimeno, dice
egli che la Scrittura, per accomodarsi alla credenza del vulgo, che pensa che
in tale spazio non sia nulla, lo chiama vacuo e niente. Ecco le parole di san
Tommaso: “Quod de superiori hemisphærio cæli nihil nobis apparet.
nisi saptium äere plenum, quod vulgares homines reputant vacuum: loquitur enim
secundum extimationem vulgarium hominum, pro ut est mos in Sacra Scriptura.”
Ora da questo luogo mi pare che assai chiaramente argumentar si possa, che la
Scrittura Sacra, per il medesimo rispetto, abbia avuto più gran cagione
di chiamare il Sole mobile e la Terra stabile. Perché, se noi tenteremo la
capacità degli uomini vulgari, gli troveremo molto più inetti a
restar persuasi della stabilità del Sole e mobilità della Terra,
che dell'esser lo spazio, che ci circonda, ripieno d'aria: adunque, se gli
autori sacri in questo punto, che non aveva tanta difficoltà appresso la
capacità del vulgo ad esser persuaso, nulla dimeno si sono astenuti dal
tentare di persuaderglielo, non dovrà parere se non molto ragionevole
che in altre proposizioni molto più recondite abbino osservato il
medesimo stile.
Anzi, conoscendo
l'istesso Copernico qual forza abbia nella nostra fantasia un'invecchiata
consuetudine ed un modo di concepir le cose già sin dall'infanzia
fattoci familiare, per non accrescer confusione e difficoltà nella
nostra astrazione, dopo aver prima dimostrato che i movimenti li quali a noi
appariscono esser del sole o del firmamento son veramente della Terra, nel
venir poi a ridurgli in tavole ed all'applicargli all'uso, gli va nominando per
del Sole e del cielo superiore a i pianeti, chiamando nascere e tramontar del
sole, delle stelle, mutazioni nell'obliquità dello zodiaco e variazione
ne' punti degli equinozii, movimento medio, anomalia e prostaferesi del Sole,
ed altre cose tali, quelle che son veramente della Terra. Ma perché, sendo noi
congiunti con lei, ed in conseguenza a parte d'ogni suo movimento, non gli
possiamo immediate riconoscere in lei, ma ci convien far di lei relazione a i corpi
celesti ne' quali ci appariscono, però gli nominiamo come fatti
là dove fatti ci rassembrano. Quindi si noti quanto sia ben fatto
l'accomodarsi al nostro più consueto modo d'intendere.
Che poi la comun
concordia de' Padri, nel ricever una proposizione naturale dalla Scrittura nel
medesimo senso tutti, debba autenticarla in maniera che divenga de Fide
il tenerla per tale, crederei che ciò si dovesse al più intender
di quelle conclusioni solamente, le quali fussero da essi Padri state discusse
e ventilate con assoluta diligenza e disputate per l'una e per l'altra parte,
accordandosi poi tutti a reprovar quella e tener questa. Ma la mobilità
della Terra e stabilità del Sole non son di questo genere, con
ciò sia che tale opinione fosse in quei tempi totalmente sepolta e
remota dalle quistioni delle scuole, e non considerata, non che seguita, da
veruno: onde si può credere che né pur cascasse concetto a' Padri di
disputarla, avendo i luoghi della Scritture, la lor opinione, e l'assenso de
gli uomini tutti, concordi nell'istesso parere, senza che si sentisse la
contradizione di alcuno. Non basta dunque il dir che i Padri tutti ammettono la
stabilità della Terra, etc., adunque il tenerla è de Fide;
ma bisogna provar che gli abbino condennato l'opinione contraria; imperò
che io potrò sempre dire, che il non avere avuta loro occasione di farvi
sopra reflessione e discuterla, ha fatto che l'hanno lasciata ed ammessa solo
come corrente, ma non già come resoluta e stabilita. E ciò mi par
di poter dir con assai ferma ragione: imperò che o i Padri fecero
reflessione sopra questa conclusione come controversa, o no: se no, adunque
niente ci potettero, né anco in mente loro, determinare, né deve la loro non
curanza mettere in obligo noi a ricevere quei precetti che essi non hanno, né
pur con l'intenzione, imposti: ma se ci fecero applicazione e considerazione,
già l'averebbono dannata se l'avessero giudicata per erronea; il che non
si trova che essi abbino fatto. Anzi, dopo che alcuni teologi l'hanno
cominciata a considerare, si vede che non l'hanno stimata erronea, come si
legge ne i Comentari di Didaco a Stunica sopra Iob, al c. 9, v. 6, sopra le
parole “Qui commovet Terram de loco suo” etc: dove lungamente discorre sopra la
posizione Copernicana, e conclude, la mobilità della Terra non esser
contro alla Scrittura.
Oltre che io
averei qualche dubbio circa la verità di tal determinazione, ciò
è se sia vero che la Chiesa obblighi a tenere come de Fide simili
conclusioni naturali, insignite solamente di una concorde interpretazione di
tutti i Padri: e dubito che poss'essere che quelli che stimano in questa
maniera, possin aver desiderato d'ampliar a favor della propria opinione il
decreto de' Concilii, il quale non veggo che in questo proposito proibisca
altro se non lo stravolger in sensi contrarii a quel di Santa Chiesa o del
comun consenso de' Padri quei luoghi solamente che sono de Fide, o
attenenti a i costumi, concernenti all'edificazione della dottrina cristiana: e
così parla il Concilio Tridentino alla Sessione IV. Ma la mobilità
o stabilità della Terra o del Sole non son de Fide né contro a i
costumi, né vi è chi voglia scontorcere luoghi della Scrittura per
contrariare a Santa Chiesa o a i Padri: anzi chi ha scritta questa dottrina non
si è mai servito di luoghi sacri, acciò resti sempre
nell'autorità di gravi e sapienti teologi l'interpretar detti luoghi
conforme al vero sentimento. E quanto i decreti de' Concilii si conformino co'
santi Padri in questi particolari, può esser assai manifesto: poi che tantum
abest che si risolvino a ricever per de Fide simili conclusioni
naturali o a reprovar come erronee le contrarie opinioni che, più presto
avendo riguardo alla primaria intenzione di Santa Chiesa, reputano inutile
l'occuparsi in cercar di venir in certezza di quelle. Senta l'Altezza Vostra
Serenissima quello che risponde sant'Agostino a quei fratelli che muovono la
quistione, se sia vero che il cielo si muova o pure stia fermo: “His respondeo,
multum subtilis et laboriosis rationibus ista perquiri, ut vere percipiatur utrum
ita an non ita sit: quibus ineundis atque tractandis nech mihi iam tempus est,
nec illis esse debet quos ad salutem suam et Sanctæ Ecclesiæ
necessarium utilitatem cupimus informari.”
Ma quando pure
anco nelle proposizioni naturali, da luoghi della Scrittura esposti
concordemente nel medesimo senso da tutti i Padri si avesse a prendere la
resoluzione di condennarle o ammetterle, non però veggo che questa
regola avesse luogo nel nostro caso, avvenga che sopra i medesimi luoghi si
leggono de' Padri diverse esposizioni: dicendo Dionisio Areopagita, che non il
Sole, ma il primo mobile, si fermò; l'istesso stima sant'Agostino,
ciò è che si fermassero tutti i corpi celesti; e dell'istessa
opinione è l'Abulense. Ma più, tra gli autori Ebrei, a i quali
applaude Ioseffo, alcuni hanno stimato che veramente il Sole non si fermasse,
ma che così apparve mediante la brevità del tempo nel quale
gl'Isdraeliti dettero la sconfitta a' nemici. Così, del miracolo al
tempo di Ezechia, Paulo Burgense stima non essere stato fatto nel Sole, ma
nell'orivuolo. Ma che in effetto sia necessario glosare e interpretare le
parole del testo di Iosuè, qualunque si ponga la costituzione del mondo,
dimostrerò più a basso.
Ma finalmente,
concedendo a questi signori più di quello che comandano, ciò
è di sottoscrivere interamente al parere de' sapienti teologi,
ciò è che tal particolar disquisizione non si trova essere stata
fatta da i Padri antichi, potrà esser fatta da i sapienti della nostra
età, li quali, ascoltate prima l'esperienze, l'osservazioni, le ragioni
e le dimostrazioni de' filosofi ed astronomi per l'una e per l'altra parte, poi
che la controversia è di problemi naturali e di dilemmi necessarii ed
impossibili ad essere altramente che in una delle due maniere controverse,
potranno con assai sicurezza determinar quello che le divine ispirazioni gli
detteranno. Ma che senza ventilare e discutere minutissimamente tutte le
ragioni dell'una e dell'altra parte, e che senza venire in certezza del fatto
si sia per prendere una tanta resoluzione, non è da sperarsi da quelli
che non si curerebbono d'arrisicar la maestà e dignità delle
Sacre Lettere per sostentamento della reputazione di lor vane immaginazioni, né
da temersi da quelli che non ricercano altro se non che si vadia con somma
attenzione ponderando quali sieno i fondamenti di questa dottrina, e questo
solo per zelo stantissimo del vero e delle Sacre Lettere, e della
maestà. dignità ed autorità nella quale ogni cristiano deve
procurare che esse sieno mantenute. La quale dignità chi non vede con
quanto maggior zelo vien desiderata e procurata da quelli che, sottoponendosi
onninamente a Santa Chiesa, domandano non che si proibisca questa o quella
opinione, ma solamente di poter mettere in considerazione cose onde ella
maggiormente si assicuri nell'elezione più sicura, che da quelli che,
abbagliati da proprio interesse o sollevati da maligne suggestioni, predicano
che ella fulmini senz'altro la spada, poi che ella ha potestà di farlo,
non considerando che non tutto quel che si può fare è sempre
utile che si faccia? Di questo parere non son già stati i Padri
santissimi: anzi, conoscendo di quanto progiudizio e quanto contro al primario
instituto della Chiesa Cattolica sarebbe il volere da' luoghi della Scrittura
definire conclusioni naturali, delle quali, o con esperienze o con
dimostrazioni necessarie, si potrebbe in qualche tempo dimostrare il contrario
di quel che suonan le nude parole, sono andati non solamente circospettissimi,
ma hanno, per ammaestramento degli altri, lasciati i seguenti precetti: “In
rebus obscuris atque a nostri oculis remotissimis, si qua inde scripta, etiam
divina, legerimus, quæ possint, salva fide qua imbuimur, aliis atque
aliis parere sententiis, in ullam earum nos præcipiti affirmatione ita
proiiciamus, ut, si forte diligentius discussa veritas eam recte
labefactaverit, corruamus; non pro sententia divinarum Scripturarum, sed pro
nostra ita dimicantes, ut eam velimus Scripturarum esse, quæ nostra est,
com potius eam, quæ Scripturarum est, nostram esse velle debeamus.”
Soggiugne poco di sotto, per ammaestrarci come nissuna proposizione può
esser contro la Fede se prima non è dimostrata esser falsa, dicendo:
“Tamdiu non est contra Fidem, donec veritate certissima refellatur: quod si
factum fuerit, non hoc habebat divina Scriptura, sed hoc senserat humana
ignorantia.” Dal che si vede come falsi sarebbono i sentimenti che noi dessimo
a' luoghi della Scrittura, ogni volta che non concordassero con le
verità dimostrate: e però devesi con l'aiuto del vero dimostrato
cercar il senso sicuro della Scrittura, e non, conforme al nudo suono delle
parole, che sembrasse vero alla debolezza nostra, volere in certo modo sforzar
la natura e negare l'esperienze e le dimostrazioni necessarie.
Ma noti di
più, l'Altezza Vostra, con quante circospezzioni cammina questo
santissimo uomo prima che risolversi ad affermare alcuna interpretazione della
Scrittura per certa e talmente sicura che non si abbia da temere di poter
incontrare qualche difficoltà che ci apporti disturbo, che, non contento
che alcun senso della Scrittura concordi con alcuna dimostrazione, soggiugne:
“Si autem hoc verum esse certa ratio demonstraverit, adhuc incertum erit, utrum
hoc in illis verbis sanctorum librorum scriptor sentiri voluerit, an aliquid
aliud non minus verum: quod si cætera contextio sermonis non hoc eum
voluisse probaverit, non ideo falsum erit aliud quod ipse intelligi voluit, sed
et verum et quod utlis cognoscatur.” Ma quello che accresce la meraviglia circa
la circospezzione dìcon la quale questo autore cammina, è che,
non si assicurando su 'l vedere che e le ragioni dimostrative e quelle che
suonano le parole della Scrittura ed il resto della testura precedente e
susseguente cospirino nella medesima intenzione, aggiugne le seguenti parole:
“Si autem contextio Scripturæ, hoc voluisse intelligi scriptorem non
repugnaverit, adhuc restabit quærere, utrum et aliud non potuerit”; né si
risolvendo ad accettar questo senso o escluder quello, anzi non gli parendo di
potersi stimar mai cautelato a sufficienza, séguita: “Quod si et aliud potuisse
invenerimus, incertum erit, quidnam eorum ille voluerit; aut utrumque voluisse,
non inconvenienter creditur, si utrique sententiæ certa circumstantia
suffragatur.” E finalmente, quasi volendo render ragione di questo suo
instituto, col mostrarci a quali pericoli esporrebbono sé e le Scritture e la
Chiesa quelli che, riguardando più al mantenimento d'un suo errore che
alla dignità della Scrittura, vorrebbono estender l'autorità di
quella oltre a i termini che ella stessa si prescrive, soggiugne le seguenti
parole, che per sé sole doverebbono bastare a reprimere e moderare la soverchia
licenza che tal uno pretende di potersi pigliare: “Plerumque enim accidit, ut
aliquid de Terra, de cælo,de cæteris huius munda elementis, de moti
et conversione vel etiam magnitude et intervallis siderum, de certi defectibus
Solis et Lunæ, de circuitibus annorum et temporum, de naturis animalium,
fruticum, lapidum, atque huiusmodi cæteris, etiam non Christianus ita
noverit, ut certissima ratione vel experientia teneat. Turpe autem est nimis et
perniciosum ac maxime cavendum, ut Christianum de his rebus quasi secundum
Christianas Literas loquentem ita delirare quilibet infidelis audiat, ut,
quemadmodum diciur, toto cælo errare conspiciens, risum tenere vix
possit; et non tam molestum est quod errans homo derideretur, sed quod authores
nostri ab eis qui forsi sunt talia sensisse creduntur, et, cum magno exitio
eorum de quorum salute stagimus, tamquam indoct repræhenduntur atque
respuuntur. Cum enim quemquam de numero Christianorum ea in re quam ipsi optime
norunt errare depræhenderint, et vanam sententiam suam de nostris libris
asserent, quo pacto illis libris credituri sunt de resurrectione mortuorum et de
spe vitæ æternæ regnoque cælorum, quando de his rebus
quas iam experiri vel indubitatis rationibus percipere potuerunt, fallaciter
putaverint esse conscriptos?” Quanto poi restino offesi i Padri veramente saggi
e prudenti da questi tali che, per sostener proposizioni da loro non capite,
vanno in certo modo impegnando i luoghi delle Scritture, riducendosi poi ad
accrescere il primo errore col produrr'altri luoghi meno intesi de' primi,
esplica il medesimo Santo con le parole che seguono: “Quid enim molestiæ
tristiæque ingerant prudentibus fratribus temerarii præsumptores,
satis dici non potest, cum si quando de prava et falsa opinione sua
repræhendi et convinci cœperint ab eis qui nostrorum librorum
authoritate non tenentur, ad defendendum id quod levissima temeritate et
apertissima falsitate dixerunt, eosdem libros sanctos unde id probent, proferre
conantur; vel etiam memoriter, quæ ad testimonium valere arbitrantur,
multa inde verba pronunciant, non intelligentes neque quæ loquuntur neque
de quibus affirmant.”
Del numero di
questi parmi che sieno costoro, che non volendo o non potendo intendere le
dimostrazioni ed esperienze con le quali l'autore ed i seguaci di questa
posizione la confermano, attendono pure a portare innanzi le Scritture, non si
accorgendo che quante più ne producono e quanto più persiston in
affermar quelle esser chiarissime e non ammetter altri sensi che quelli che
essi gli danno, di tanto maggior progiudizio sarebbono alla dignità di
quelle (quando il lor giudizio fosse di molta autorità), se poi la
verità conosciuta manifestamente in contrario arrecasse qualche
confusione, al meno in quelli che son separati da Santa Chiesa, de' quali pur
ella è zelantissima e madre desiderosa di ridurgli nel suo grembo. Vegga
dunque l'Altezza Vostra quanto disordinatamente procedono quelli che, nelle
dispute naturali, nella prima fronte costituiscono per loro argomenti luoghi
della Scrittura, e ben spesso malamente da loro intesi.
Ma se questi
tali veramente stimano e interamente credono d'avere il vero sentimento di un
tal luogo particolare della Scrittura, bisogna, per necessaria conseguenza, che
si tenghino anco sicuri d'aver in mano l'assoluta verità di quella
conclusione naturale che intendono di disputare, e che insieme conoschino
d'aver grandissimo vantaggio sopra l'avversario, a cui tocca a difender la
parte falsa; essendo che quello che sostiene il vero, può aver molte
esperienze sensate e molte dimostrazioni necessarie per la parte sua, mentre
che l'avversario non può valersi d'altro che d'ingannevoli apparenze, di
paralogismi e di fallacie. Ora se loro, contenendosi dentro a i termini
naturali e non producendo altre armi che le filosofiche, sanno ad ogni modo
d'esser tanto superiori all'avversario, perché, nel venir poi al congresso, por
subito mano ad un'arme inevitabile e tremenda, per atterrire con la sola vista
il loro avversario? Ma, se io devo dir il vero, credo che essi sieno i primi
atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star forti contro alli assalti
dell'avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare,
vietandogli l'uso del discorso che la Divina Bontà gli ha conceduto, ed
abusando dell'autorità giustissima della Sacra Scrittura che, ben intesa
e usata, non può mai, conforme alla comun sentenza de' teologi, oppugnar
le manifeste esperienze o le necessarie dimostrazioni. Ma che questi tali
rifugghino alle Scritture per coprir la loro impossibilità di capire,
non che di solvere, le ragioni contrarie, dovrebbe, s'io non m'inganno,
essergli di nessun profitto, non essendo mai sin qui stata cotal opinione
dannata da Santa Chiesa. Però, quando volessero procedere con
sincerità, doverebbono o, tacendo, confessarsi inabili a poter trattar
di simili materie, o vero prima considerare che non è nella potestà
loro né di altri che del Sommo Pontefice o de' sacri Concilii il dichiarare una
proposizione per erronea, ma che bene sta nell'arbitrio loro il disputar della
sua falsità; dipoi, intendendo come è impossibile che alcuna
proposizione sia insieme vera ed eretica, dovrebbono occuparsi di quella parte
che più aspetta a loro, ciò è in dimostrar la
falsità di quella; la quale come avessero scoperta, o non occorrerebbe
più il proibirla, perché nessuno la seguirebbe, o il proibirla sarebbe
sicuro e senza pericolo di scandalo alcuno.
Però applichinsi
prima questi tali a redarguire le ragioni del Copernico e di altri, e lascino
il condennarla poi per erronea ed eretica a chi ciò si appartiene; ma
non sperino già d'esser per trovare nei circuspetti e sapientissimi
Padri e nell'assoluta sapienza di Quel che non può errare, quelle
repentine resoluzioni nelle quali essi talora si lascerebbono precipitare da
qualche loro affetto o interesse particolare; perché sopra queste ed altre
simili proposizioni, che non sono direttamente de Fide, non è chi
dubiti che il Sommo Pontefice ritien sempre assoluta potestà di
ammetterle o di condennarle; ma non è già in poter di creatura
alcuna il farle esser vere o false, diversamente da quel che elleno per sua
natura e de facto si trovano essere. Però par che miglior
consiglio sia l'assicurarsi prima della necessaria ed immutabil verità
del fatto, sopra la quale nissuno ha imperio, che, senza tal sicurezza, col
dannare una parte spogliarsi dell'autorità e libertà di poter
sempre eleggere, riducendo sotto necessità quelle determinazioni che di
presente sono indifferenti e libere e riposte nell'arbitrio
dell'autorità suprema. Ed in somma, se non è possibile che una
conclusione sia dichiarata eretica mentre si dubita che ella poss'esser vera,
vana doverà esser la fatica di quelli che pretendono di dannar la
mobilità della Terra e la stabilità del Sole, se prima non la
dimostrano essere impossibile e falsa.
Resta finalmente
che consideriamo, quanto sia vero che il luogo di Giosuè si possa
prendere senza alterare il puro significato delle parole, e come possa essere
che, obedendo il Sole al comandamento di Giosuè, che fu che egli si
fermasse, ne potesse da ciò seguire che il giorno per molto spazio si
prolungasse.
La qual cosa,
stante i movimenti celesti conforme alla costituzione Tolemaica, non può
in modo alcuno avvenire: perché, facendosi il movimento del Sole per
l'eclittica secondo l'ordine de' segni, il quale è da occidente verso
oriente, ciò è contrario al movimento del primo mobile da oriente
in occidente, che è quello che fa il giorno e la notte, chiara cosa
è che, cessando il Sole dal suo vero e proprio movimento, il giorno si
farebbe più corto, e non più lungo, e che all'incontro il modo
dell'allungarlo sarebbe l'affrettare il suo movimento; in tanto che, per fare che
il Sole restasse sopra l'orizonte per qualche tempo in un istesso luogo, senza
declinar verso l'occidente, converrebbe accelerare il suo movimento tanto che
pareggiasse quel del primo mobile, che sarebbe un accelerarlo circa trecento
sessanta volte più del consueto. Quando dunque Iosuè avesse avuto
intenzione che le sue parole fossero prese nel loro puro e propriissimo
significato, averebbe detto al Sole ch'egli accelerasse il suo movimento, tanto
che il ratto del primo mobile non lo portasse all'occaso; ma perchè le
sue parole erano ascoltate da gente che forse non aveva altra cognizione de'
movimenti celesti che di questo massimo e comunissimo da levante a ponente,
accomodandosi alla capacità loro, e non avendo intenzione d'insegnargli
la costituzione delle sfere, ma solo che comprendessero la grandezza del
miracolo fatto nell'allungamento del giorno, parlò conforme
all'intendimento loro.
Forse questa
considerazione mosse prima Dionisio Areopagita a dire che in questo miracolo si
fermò il primo mobile, e fermandosi questo, in conseguenza si fermoron
tutte le sfere celesti: della quale opinione è l'istesso sant'Agostino,
e l'Abulense diffusamente la conferma. Anzi, che l'intenzione dell'istesso
Iosuè fusse che si fermasse tutto il sistema delle celesti sfere, si
comprende dal comandamento fatto ancora alla Luna, ben che essa non avesse che
fare nell'allungamento del giorno; e sotto il precetto fatto ad essa Luna
s'intendono gli orbi de gli altri pianeti, taciuti in questo luogo come in
tutto il resto delle Sacre Scritture, delle quali non è stata mai
intenzione d'insegnarci le scienze astronomiche.
Parmi dunque,
s'io non m'inganno, che assai chiaramente si scorga che, posto il sistema
Tolemaico, sia necessario interpretar le parole con qualche sentimento diverso
dal loro puro significato: la quale interpretazione, ammonito dagli utilissimi
documenti di sant'Agostino, non direi esser necessariamente questa, sì
che altra forse migliore e più accomodata non potesse sovvenire ad alcun
altro. Ma se forse questo medesimo, più conforme a quanto leggiamo in
Giosuè, si potesse intendere nel sistema Copernicano, con l'aggiunta di
un'altra osservazione, nuovamente da me dimostrata nel corpo solare, voglio per
ultimo mettere in considerazione; parlando sempre con quei medesimi riserbi di
non esser talmente affezionato alle cose mie, che io voglia anteporle a quelle
degli altri, e creder che di migliori e più conformi all'intenzione
delle Sacre Lettere non se ne possino addurre.
Posto dunque,
prima, che nel miracolo di Iosuè si fermasse tutto 'l sistema delle
conversioni celesti, conforme al parere de' sopra nominati autori, e questo
acciò che, fermatone una sola, non si confondesser tutte le costituzioni
e s'introducesse senza necessità perturbamento in tutto 'l corso della
natura, vengo nel secondo luogo a considerare come il corpo solare, ben che
stabile nell'istesso luogo, si rivolge però in se stesso, facendo
un'intera conversione in un mese in circa, sì come concludentemente mi
par d'aver dimostrato nelle mie Lettere delle Macchie Solari: il qual movimento
vegghiamo sensatamente esser, nella parte superior del globo, inclinato verso
il mezo giorno, e quindi, verso la parte inferiore, piegarsi verso aquilone,
nell'istesso modo appunto che si fanno i rivolgimenti di tutti gli orbi de'
pianeti. Terzo, riguardando noi alla nobiltà del Sole, ed essendo egli
fonte di luce, dal qual pur, com'io necessariamente dimostro, non solamente la
Luna e la Terra, ma tutti gli altri pianeti, nell'istesso modo per se stessi
tenebrosi, vengono illuminati., non credo che sarà lontano dal ben
filosofare il dir che egli, come ministro massimo della natura e in certo modo
anima e cuore del mondo, infonde a gli altri corpi che lo circondano non solo
la luce, ma il moto ancora, co 'l rigirarsi in se medesimo; sì che,
nell'istesso modo che, cessando 'l moto del cuore nell'animale, cesserebbono
tutti gli altri movimenti delle sue membra, così, cessando la conversion
del Sole, si fermerebbono le conversioni di tutti i pianeti. E come che della
mirabil forza ed energia del Sole io potessi produrne gli assensi di molti
gravi scrittori, voglio che basti un luogo solo del Beato Dionisio Areopagita
nel libro De divinis nominibus; il quale del Sole scrive così:
“Lux etiam colligit convertitque ad se omnia, quæ videntur, quæ
moventur, quæ illustrantur, quæ calescunt, et uno nomine ea
quæ ab eius splendore continentur. Itaque Sol Ilios dicitur, quod omnia
congreget colligatque dispersa.” E poco più a basso scrive dell'istesso
Sole: “Si enim Sol hic, quem videmus, eorum quæ sub sensum cadunt
essentias et qualitates, quamquam multæ sint ac dissimiles, tamen ipse,
qui unus est æquabiliterque lumen fundit, renovat, alit, tuetur,
perficit, dividit, coniungit, fovet, fœcunda reddit, auget, mutat, firmat,
edit, movet, vitaliaque facit omnia, et unaquæque rea huis universitatis,
pro captu suo, unius atque eiusdem Solis est particeps, causasque multorum,
quæ participant, in se æquabiliter anticipatas habet; certe maiore
ratione” etc. Essendo, dunque, il Sole e fonte di luce e principio de'
movimenti, volendo Iddio che al comandamento di Iosuè restasse per molte
ore nel medesimo stato immobilmente tutto 'l sistema mondano, bastò
fermare il Sole, alla cui quiete fermatesi tutte l'altre conversioni, restarono
e la Terra e la luna e 'l Sole nella medesima costituzione, e tutti gli altri
pianeti insieme; né per tutto quel tempo declinò 'l giorno verso la
notte, ma miracolosamente si prolungò: ed in questa maniera col fermare
il Sole, senza alterar punto o confondere gli altri aspetti e scambievoli
costituzioni delle stelle, si potette allungare il giorno in terra, conforme
esquisitamente al senso literale del sacro testo.
Ma quello di
che, s'io non m'inganno, si deve far non piccola stima, è che con questa
costituzione Copernicana si ha il senso literale apertissimo e facilissimo d'un
altro particolare che si legge nel medesimo miracolo; il quale è, che il
Sole si fermò nel mezo del cielo. Sopra 'l qual passo gravi teologi
muovono difficoltà: poi che par molto probabile che quando Giosuè
domandò l'allungamento del giorno, il Sole fusse vicino al tramontare, e
non al meridiano; perché quando fusse stato nel meridiano, essendo allora
intorno al solstizio estivo, e però i giorni lunghissimi, non par
verisimile che fusse necessario pregar l'allungamento del giorno per conseguir
vittoria in un conflitto, potendo benissimo bastare per ciò lo spazio di
sette ore e più di giorno che rimanevano ancora. Dal che mossi
gravissimi teologi, hanno veramente tenuto che 'l Sole fusse vicino all'occaso;
e così par che suonino anco le parole, dicendosi: Ferma, Sole,
fermati; ché se fosse stato nel meridiano, o non occorreva ricercare il
miracolo, o sarebbe bastato pregar solo qualche ritardamento. Di questa
opinione è il Caietano, alla quale sottoscrive il Magaglianes,
confermandola con dire che Iosuè aveva quell'istesso giorno fatte
tant'altre cose avanti il comandamento del sole, che impossibile era che
fussero spedite in mezo giorno: onde si riducono ad interpretar le parole in
medio cæli veramente con qualche durezza, dicendo che l'importano
l'istesso che il dire che il Sole si fermò essendo nel nostro emisferio,
ciò è sopra l'orizonte. Ma tal durezza ed ogn'altra, s'io non
erro, sfuggirem noi, collocando, conforme al sistema Copernicano, il Sole nel mezo,
ciò è nel centro degli orbi celesti e delle conversione de'
pianeti, sì come è necessarissimo di porvelo; perché, ponendo
qualsivoglia ora del giorno, o la meridiana, o altra quanto ne piace vicina
alla sera, il giorno fu allungato e fermate tutte le conversioni celesti col
fermarsi il Sole nel mezo del cielo, ciò è nel centro di esso
cielo, dove egli risiede: senso tanto più accomodato alla lettera, oltre
a quel che si è detto, quanto che, quando anco si volesse affermare la
quiete del Sole essersi fatta nell'ora del mezo giorno, il parlar proprio
sarebbe stato il dire che stetit in meridie, vel in meridiano circulo, e
non in medio cæli, poi che di un corpo sferico, quale è il
cielo, il mezo è veramente e solamente il centro.
Quanto poi ad
altri luoghi della Scrittura, che paiono contrariare a questa posizione, io non
ho dubbio che quando ella fusse conosciuta per vera e dimostrata, quei medesimi
teologi che, mentre la reputan falsa, stimano tali luoghi incapaci di
esposizioni concordanti con quella, ne troverebbono interpretazioni molto ben
congruenti, e massime quando all'intelligenza delle Sacre Lettere aggiugnessero
qualche cognizione delle scienze astronomiche: e come di presente, mentre la
stimano falsa, gli par d'incontrar, nel leggere le Scritture, solamente luoghi
ad essa repugnanti, quando si avessero formato altro concetto, ne
incontrerebbero per avventura altrettanti di concordi; e forse giudicherebbono
che Santa Chiesa molto acconciamente narrasse che Iddio colloca il Sole nel
centro del cielo e che quindi, col rigirarlo in se stesso a guisa d'una ruota,
contribuisce agli ordinati corsi alla Luna ed all'altre stelle erranti, mentre
ella canta:
Cæli Deus sanctissime,
qui lucidum centrum poli
candore pingis igneo,
augens decoro lumine;
quarto die
qui flammeam
solis rotam
constituens,
lunæ
ministras ordinem,
vagosque
cursus siderum
Potrebbono dire,
il nome di firmamento convenirsi molto bene ad literam alla sfera
stellata ed a tutto quello che è sopra le conversioni de' pianeti, che,
secondo questa disposizione, è totalmente fermo ed immobile.
Così, movendosi la Terra circolarmente, s'intenderebbono i suoi poli
dove si legge: “Nec dum terrat fecerat, et flumina et cardines orbis
Terræ”; i quali cardini paiono indarno attribuiti al globo terrestre, se
egli sopra non se gli deve raggirare.
XV
A ELIA DIODATI IN PARIGI
(Bellosguardo, 16 agosto 1631)
Ho, dopo molte
difficoltà, ottenuto di stampare i miei Dialoghi, ancorché la materia
che tratto, e la maniera con che la porto, meritasse ch'io fussi pregato di
pubblicargli da que' medesimi che hanno fatte le difficoltà, come, in
leggendogli a suo tempo, V. S. stessa comprenderà. È vero che non
ho potuto nel titolo del libro ottenere di nominare il flusso e reflusso del
mare, ancorché questo sia l'argomento principale che tratto nell'opera; ma ben
mi vien conceduto ch'io proponga li due sistemi massimi Tolemaico e
Copernicano, con dire che amendue gli esamino, producendo per l'una e per
l'altra parte quel tutto che si può dire, lasciandone poi il giudizio in
pendente. Ne è sin ora stampata la terza parte, e spero che in tre mesi
si finirà il rimanente. Credo che, se si fusse intitolato il libro De
flusso e reflusso, sarebbe stato con più utile dello stampatore. Ma
doppo qualche tempo si spargerà la voce, per relazione di quei primi che
l'averanno letto; e intanto V. S. ne sarà stata da me avvisata.
XVI
AD ANDREA ClOLI IN SIENA
(Firenze, 6 ottobre 1632)
Ill.mo Sig.re e
Pad.ne Col.mo
Trovomi in gran
confusione per una intimazione statami fatta tre giorni sono dal Padre
Inquisitore, di ordine della Sacra Congregazione del S.to Offizio di Roma, di
dovermi per tutto il presente mese presentare là a quel Tribunale, dove
mi sarà significato quanto io debba fare. Ora, conoscendo l'importanza
del negozio, e 'l debito di farne consapevole il Ser.mo Padrone e il bisogno di
consiglio e indirizzo di quanto io debba in ciò fare, ho resoluto di
venir costà quanto prima per proporre all'A. S.ma quei partiti e
provisioni, de i quali più di uno mi passano per la fantasia, per i
quali io possa nel medesimo tempo mostrarmi, quale io sono, obedientissimo e
zelantissimo di S.ta Chiesa, e anco desideroso di cautelarmi quanto sia
possibile, contro alle persecuzioni di ingiuste suggestioni che possano
immeritamente avermi concitato contro la mente, per altro santissima, de i
superiori. Ne do conto a V. S. Ill.ma, e anco, per non giugnere costà
del tutto inaspettato, per lei al Ser.mo G. Duca; e non sentendo cosa in contrario,
mi partirò domenica prossima, lasciando spazio a V. S. Ill.ma di
avvisarmi, se accidente alcuno ci fusse, che repugnasse a questo mio proposito.
E qui reverentemente gli bacio la mano e nella sua buona grazia e protezione mi
raccomando.
Di Firenze, li 6
di Ottobre 1632
Di V. S. Ill.ma
Dev.mo e
Obblig.mo Ser.re
Galileo
Galilei
XVII
A FRANCESCO BARBERINI IN ROMA
(Firenze, 13 ottobre 1632)
Emin.mo e Rev.mo
Sig.re e Pad.e Col.mo
Che il mio
Dialogo, Em.mo e Rev.mo Sig.re, ultimamente pubblicato fusse per aver dei
contradittori, fu previsto da me e da tutti gl'amici miei, perché così
ne assicuravano gl'incontri dell'altre mie opere per avanti mandate alle
stampe, e perché così pare che comunemente portino seco le dottrine le
quali dalle comuni e inveterate opinioni punto punto si allontanano. Ma che
l'odio di alcuni contra di me e le mie scritture, solo perché adombrano in
parte lo splendor delle loro, dovesse esser potente a imprimer nelle menti
santissime dei superiori, questo mio libro esser indegno della luce, mi giunse
veramente inaspettato; perloché il comandamento che due mesi fa si dette qua
allo stampatore e a me, di non lasciare uscir fuori tal mio libro, mi fu avviso
assai grave. Tuttavia di gran sollevamento mi era la purità della mia
coscienza, la quale mi persuadeva, non mi dovere esser difficile il manifestar
l'innocenza mia: e ben desideravo e speravo che mi dovesse esser dato campo di
poter sincerarmi; e mi confidavo nel medesimo tempo, che la mia umiltà,
reverenza, summissione, e assolutissima autorità conceduta sopra tutti i
miei concetti, fusse stata potente a rappresentare a i prudentissimi superiori
la mia prontezza all'obbedire esser tale, che potesse rendergli sicuri che io ad
ogni minimo cenno mi sarei mosso per venire non solo a Roma, ma in capo al
mondo. Perloché non posso negare, l'intimazione fattami ultimamente d'ordine
della Sacra Congregazione del S. Offizio, di dovermi presentare dentro al
termine del presente mese avanti a quello eccelso Tribunale, essermi di
grandissima afflizzione; mentre meco medesimo vo considerando, i frutti di
tutti i miei studi e fatiche di tanti anni, le quali avevano per l'addietro
portato per l'orecchie de i letterati con fama non in tutto oscura il mio nome,
essermi ora convertiti in gravi note della mia reputazione, con dare attacco a
i miei emoli d'insurger contro a gl'amici miei serrando lor la bocca non pure
alle mie lodi ma alle scuse ancora, con l'opporgli l'avere io finalmente
meritato d'esser citato al Tribunale del Santo Offizio: atto, che non si vede
eseguire se non sopra i gravemente delinquenti. Questo in modo mi affligge, che
mi fa detestare tutto 'l tempo già da me consumato in quella sorte di
studii per i quali io ambiva e sperava di potermi alquanto separare dal trito e
popolar sentiero de gli studiosi; e con l'indurmi pentimento d'avere esposto al
mondo parte de i miei componimenti, m'invoglia a supprimere e condannare al
fuoco quelli che mi restano in mano, saziando interamente la brama de i miei
nimici, a i quali i miei pensieri son tanto molesti .
Questa, Em.o
Sig.re, è quella afflizzione, la quale, continuando senza alcuna
intermissione di rigirarmisi per la mente, con l'avermi aggiunto una continua
vigilia al peso di 70 anni e a più altre mie corporali indisposizioni,
mi rende sicuro, entrando in un viaggio per lunghezza e per straordinarii
impedimenti e incomodi faticoso, che io non mi condurrei con la vita alla
metà; onde, spinto dal comune natural desiderio della propria salute, ho
preso resoluzione di ricorrere all'intercessione di V. Em. inanimito da quella
ineffabile benignità che ciascheduno e io sopra tutti per più
esperienze ho conosciuta in lei supplicandola che mi faccia grazia di
rappresentare a cotesti prudentissimi Padri il mio compassionevole stato
presente, non per sfuggire il render conto delle azzioni mie, perché è
da me somamente bramato, sicuro di poterci fare non piccol guadagno, ma solo
perché si compiaccino di agevolarmi il potergli obbedire e 'l sincerarmi. Non
mancherà alla prudenza de i sapientissimi Padri modo di poter
benignamente ottener l'intento loro: e a me per ora si rappresentano due
maniere. L'una è che io sarò prontissimo a distendere in carta e
rappresentare minutissimamente e sincerissimamente tutto 'l progresso delle
cose dette, scritte e operate da me, dal primo giorno in qua che furon
suscitati moti sopra 'l libro di Niccolò Copernico e sua rinovata
opinione; nella quale scrittura io son più che sicuro di far talmente
chiara e palese la sincerità della mia mente e il purissimo,
zelantissimo e santissimo affetto verso S.ta Chiesa e il suo Rettore e
ministri, che non sarà alcuno che, sendo ignudo di passione e di affetto
alterato, non confessi essermi io portato tanto piamente e cattolicamente, che
pietà maggiore non averebbe potuto dimostrare qualsivoglia dei Padri che
del titoIo di santità vengono insigniti. Io ho appresso di me tutte le
scritture che per tale occasione feci qui e in Roma, dalle quali (torno a
replicarlo) ciascheduno comprenderà, non mi esser io mosso a implicarmi
in questa impresa salvo che per zelo di S.ta Chiesa, e per sumministrare ai
ministri di quella quelle notizie che i miei lunghi studii mi avevano arrecate,
e di alcune delle quali forse poteva taluno esser bisognoso, come di materie
oscure e separate dalle dottrine più frequentate; e ben son sicuro che
agevolissimo mi sarà il far palese e chiaro, come del pormi a tale
impresa mi furon gagliardo invito le determinazioni e santissimi precetti in
tanti luoghi sparsi nei libri de i sacri dottori di S.ta Chiesa, e come
finalmente l'ultima mia conferma in tal proponimento s'impresse in me nel
sentire un brevissimo ma santissimo e ammirabil pronunziato, che, quasi ecco
dello Spirito Santo, improvisamente uscì dalla bocca di persona eminentisima
in dottrina e veneranda per santità di vita; pronunziato tale, che in
sè contiene, sotto manco di dieci parole con arguta leggiadria
accoppiate, quanto da lunghi discorsi disseminati ne i libri de i sacri dottori
si raccoglie. Io per ora tacerò il detto ammirabile e l'autor di esso
non mi parendo se non cautamente e convenientemente fatto il non interessar
nissuno nel presente affare, dove solo la persona mia viene in considerazione
Se mi
succederà d'ottener tal grazia, oh quanto spero io che la mia innocenza
debba esser conosciuta e abbracciata da cotesti prudentissimi e giustissimi
Padri, e quanto abbiano a restar maravigliati di qualche stratagemma che fu
usato da qualcuno, accecato e spinto a muover la prima pietra non per zelo di
pietà, ma per odio non contro di questa o di quella opinione, ma contro
alla persona mia. Io non mi potrei accomodare a creder che domanda che mi si
rappresenta tanto ragionevole mi dovesse esser negata, e tanto più
quanto il concederla non toglie il potermi costrigner nel modo già
intrapreso. E chi vorrà negarmi tale udienza per scrittura, e gravarmi
di fatica insuperabile dalla mia debolezza, per le cause già dette,
mentre io l'assicuro che, sentite le ragioni mie, compassionerà 'l mio
stato, e soverchio gastigo al mio demerito (se pur ve n'è ombra) gli
parrà il travaglio portomi sin ora per l'altrui (per quanto temo) poco
sincere affermazioni? E quando tal mia scrittura non sodisfacesse appieno a
tutti i capi sopra i quali mi vien mossa imputazione e querela, potranno essermi
proposte le particolari difficoltà, ché io non mancherò di
rispondere quanto Iddio mi detterà. Ma dubito, Emin.mo e Rev.mo mio
Sig.re, che possa essere che i miei oppositori non siano per venire (come si
suol dire) di così buone gambe a mettere in carta quello che in voce e ad
aures forse avranno contro di me pronunziato, come io mi offerisco a
mettere in scrittura le mie difese.
Ma finalmente,
quando non si voglino accettare mie giustificazioni in scritture, ma si voglia
la viva voce, qui sono Inquisitore, Nunzio, Arcivescovo e altri ministri di
S.ta Chiesa, ai quali sono prontissimo ch presentarmi ad ogni richiesta: e pur
mi sembra verisimile che anco cause di maggiore affare si trattano avanti
questi tribunali; né può parer verisimile che sotto a gl'occhi
perspicacissimi e zelantissimi di quelli che veddero il mio libro, con
liberissima autorità di levare, aggiugnere e mutare ad arbitrio loro,
possa esser passato errore di tanto momento, senza esser veduto, che ecceda la
facoltà d'esser corretto e gastigato da i superiori di questa
città.
Questi, Em. S.
sono i partiti che per salvezza della mia vita e per sodisfazione di cotesto
eccelso e venerando Tribunale mi sovvengono. Prego la benignità sua che
voglia rappresentargli, con scusare insieme se per mia ignoranza vi avessi
commesso veruno errore. E per ultima conclusione, quando né la grave
età, né le molte corporali indisposizioni, né afflizzion di mente, né la
lunghezza di un viaggio per i presenti sospetti travagliosissimo, siano
giudicate da cotesto sacro e eccelso Tribunale scuse bastanti ad impetrar
dispensa o proroga alcuna, io mi porrò in viaggio, anteponendo
l'ubbidire al vivere. E qui, Em.mo e Rev.mo Sig.re, con ogni umiltà
inchinandomi, gli bacio la veste e prego il colmo di felicità.
Di Firenze, li
13 di Ottobre 1632.
Di V. Em.za
Rev.ma
Um.mo e Obb.mo
Servo
Galileo Galilei.
XVIII
A CESARE MARSILI IN BOLOGNA
(Firenze, 16 ottobre 1632)
Ill.mo Sig.re e
Pad.ne Col.mo
Sono poco meno
di 2 mesi che il P. Inquisitore di qui commesse, di ordine del R.mo P. Maestro
del Sacro Palazzo di Roma, al libraio e a me, che non dovessimo dar fuora
più copie del mio Dialogo sino ad altro avviso: e questa fu la prima
conferma di una acerbissima persecuzione, che poco avanti avevo inteso che si
andava machinando contro di me e 'l mio libro; la quale persecuzione è
andata pigliando tanto vigore, che finalmente, 15 giorni sono, mi venne una
intimazione dalla S. Congregazione del S.to Offizio, che per tutto questo mese
io debba presentarmi a quello eccelso Tribunale. Tale avviso mi affligge
gravemente, non perché io non sperassi di potermi appieno giustificare e far
palese la mia innocenzia e santissimo zelo verso S.ta Chiesa; ma la grave
età, accompagnata con molte corporali indisposizioni, con la giunta di
questo travaglio di mente, in un viaggio lungo e travagliosissimo per i
presenti sospetti, mi rendono quasi che sicuro che io non mi vi potrei condur
con la vita. Ho fatto ogni opera per ottener di sincerarmi con scritture, o
vero che la causa mia sia veduta qui, dove sono ministri di S.ta Chiesa; e sto
aspettando qualche resoluzione. Intanto ne ho voluto dar conto a V. S. Ill.ma,
come a mio padrone affezionatissimo e che so che compassionerà questo
mio infortunio.
Ricevei una
lunga lettera dal molto R. Padre Buonaventura, piena di scuse, le quali
veramente non erano necessarie, perché io non ho mai auto dubbio deila sua
bonissima intenzione, ma mi dolevo della mia disgrazia, che mi arrecava
disgusto contro alla volontà e opinione di chi me lo cagionava. Io non
posso riscrivergli per adesso, trovandomi occupatissimo; e solo prego V. S. a
dirgli che non intendo che S. Paternità muti nulla nel suo libro
già stampato, anzi che io gli rendo grazie delle onorate menzioni che fa
di me. E qui reverentemente inclinandola, gli bacio le mani e prego
felicità.
Fir.ze, li 16 di
8bre 1632.
Di V. S. Ill.ma
Ser.re Obblig.mo
Gal.o G.
XIX
AD ANDREA CIOLI IN LIVORNO
(Roma, 19 febbraio 1633)
Ill.mo Sig.re e
Pad.ne Col.mo
De gl'accidenti
occorsimi ne i 25 giorni del mio viaggio so che V. S. Ill.ma ne averà
inteso dal S. Geri Bocchineri al quale in più lettere ne ho dato conto;
però non ne replico altri. Giunto qui in Roma, fui ricevuto dall'Ecc.mo
S. Ambasciatore con quella benignità che non si può descrivere,
dove con la medesima vo continuando di trattenermi. Circa lo stato delle cose
mie non posso dir nulla; salvo che per coniettura pare a me, e anco al S.
Ambasciatore e suoi ministri di casa, che la travagliosa procella sia, o almeno
si mostri tranquillata assai onde non sia da sbigottirsi del tutto per qualche
inevitabil naufragio, e disperar di esser per condursi in porto, e massime
mentre, conforme al mio dottore, tra l'onde alterate
Scorrendo me ne vo con umil
vele.
Io mi trattengo
perpetuamente in casa, parendo che non convenga in questo tempo andar vagando e
a mostra per la città. Sin ora non mi è stato imposto o detto
nulla ex offitio; anzi uno di quei SS.ri della Congregazione è
stato due volte da me con molta umanità dandomi destramente occasione di
dir qualche cosa in dichiarazione e confermazione della mia sincerissima e
ossequentissima mente, stata sempre tale verso S.ta Chiesa e suoi ministri e
tutto da esso con attenzione, e, per quanto ho potuto comprendere, con
approbazione, ascoltato: e se la sua visita è stata (come
ragionevolmente par che sia credibile) con consenso e forse con ordine della
Sa.a Congregazione, questo pare un principio di trattamento molto mansueto e
benigno, e del tutto dissimile alle comminate corde, catene e carceri etc. Il
sentire anco da molti e in parte avere io stesso veduto, che non manchino di
quelli, e de i potenti l'affetto de i quali verso di me e i miei affari non si
mostri se non ben disposto, mi è di consolazione: e perché io stimo
assai più facile il confermar questi nella buona intenzione che il
rimuovere altri dalla sinistra, però io stimerei (e cosi è parere
anco al S. Ambasciatore) che fusser buone due lettere del Ser.mo Padrone alli
Em.mi SS.i Card.li Scaglia e Bentivoglio; sopra di che io supplico il favore di
V. S. Ill.ma, tutta volta che ella concorra nell'istesso senso.
Di Roma, li 19
di Feb. 1633.
Di V. S. Ill.ma
Dev.mo e
Obblig.mo Ser.re
Galileo Galilei.
XX
A GERI BOCCHINERI IN FIRENZE
(Roma, 23 aprile 1633)
Molto Ill.re
Sig.re Osser.mo
Scrivo del letto
dove mi trovo da 16 ore in qua, ritenuto da dolori eccessivi in una coscia; li
quali per la pratica che ne ho, doveranno in altrettanto tempo svanire. Mi sono
poco fa venuti a visitare il Commissario e il Fiscale, a che son quelli che mi
disaminano; e mi hanno dato parola e ferma intenzione di spedirmi subito che io
levi del letto, replicandomi più volte che io stia di buono animo e
allegramente. Io fo più capitale di questa promessa che di quante
speranze mi sono state date per il passato, le quali si è visto per
esperienza essere state fondate più su le conietture che sopra la
scienza. Che la mia innocenza e sincerità sia per essere conosciuta, io
l'ho sempre sperato, e ora più che mai. Scrivo con incomodo, però
finisco.
All'mo S. Bali
un reverentissimo baciamani: a sé stessa e suoi fratelli il simile. Desidero
che le mie monache vegghino questa, e Vincenzio ancora.
Roma, 23 di
Aprile 1633.
Di V. S. molto
I.
Par.te e Serv.re
Obblig.mo
G. G.
XXI
AD ANDREA CIOLI IN FIRENZE
(Siena, 23 luglio 1633)
Ill.mo Sig.re e
Pad.n Col.mo
Non ho passato
ordinario senza scrivere al S. Geri Bocchineri intorno a i progressi del mio
negozio, il quale non averà passato accidente alcuno di momento senza
participarlo a V. S. Ill.ma, ché tale era il nostro appuntamento; e però
rare volte ho scritto a lei in proprio, in riguardo anco alle molte e continue
sue occupazioni da non doversi accresciere senza necessità. Gli scrivo
adesso, spinto dal desiderio di liberarmi dal lungo tedio di una carcere di
più di 6 mesi già passati a giunta al travaglio e afflizzion di
mente di un anno intero, e anco non senza molti incomodi e pericoli corporali;
e tutto addossatomi per quei miei demeriti che son noti a tutti, fuor che a
quelli che mi hanno di questo e di maggior castigo giudicato colpevole. Ma di
questo altra volta.
Il tempo della
mia carcerazione non ha altro limite che la volontà di S. S.tà,
la quale, alle richieste e intercessioni del S. Amb.re Niccolini, si
contentò che in luogo delle carcere del S.to Offizio mi fusse assegnato
il palazzo e giardino de' Medici alla Trinità, dove stetti alcuni
giorni; fatta poi, per alcuni miei rispetti, nuova instanza dal medesimo S.
Ambasciatore, fui rimesso qui in Siena nell'Arcivescovado, dove sono da 15
giorni in qua tra gl'inesplicabili eccessi di cortesia di questo Ill.mo
Arcivescovo. Io però, oltre al desiderio, averei gran necessità
di tornare a casa mia e di esser restituito nella mia libertà, la quale
si va conietturando da molti che sia riserbata per grazia speciale alla domanda
del S. G. D., da non gl'esser negata, mentre si vede quanto si è
impetrato alle sole dimande del S. Ambasciatore. Prego per tanto V. S. Ill.ma,
e per lei il Ser.mo Padrone, a restar servito di favorirmi di una domanda a S.
S.tà o al S. Card. Barberino per la mia liberazione; dove per maggiore
efficacia potrà inserirsi la mancanza del mio servizio di tanto tempo,
figurandola di qualche maggior progiudizio per la Casa di S. Alt.za di quello
che veramente è. Si crede, come ho detto, da tutti quelli con i quali ne
ho parlato e da gl'istessi ministri del S.o Offizio, che la grazia a tanto
intercessore non sarà negata.
Confido tanto
nella benignità del S. G. D. mio Signore e nel favore di V. S. Ill.ma,
che reputerei superfluo l'aggiugnere altre preghiere. Starò per tanto
attendendone l'effetto, mentre con umiltà alla S. A. bacio la veste, e
nella buona grazia e protezione di V. S. Ill.ma mi raccomando.
Di Siena, li 23
di Luglio 1633.
Di V. S. Ill.ma
Dev.mo e Obblig.mo
Ser.re
Galileo Galilei.
XXII
A ELIA DIODATI IN PARIGI
(Arcetri, 7 marzo 1634)
Vengo ora alla
sua lettera: e perché ella replicatamente mi domanda qualche ragguaglio de'
miei passati travagli, non posso se non sommariamente dirgli, che da che fui
chiamato a Roma sino al presente, sono, la Dio grazia, stato di sanità
meglio che da molti anni in qua. Fui ritenuto a Roma in carcere 5 mesi, e la
carcere fu la casa del Sig. Amb. di Toscana; dal quale e dalla Signora sua
consorte fui visto e trattato in modo, che con affetto maggiore non avrebbero
potuto trattare i padri loro. Spedita che fu la mia causa, restai condennato in
carcere all'arbitrio di Sua Santità; e fu la carcere il palazzo e giardino
del G. Duca alla Trinità de' Monti per alcuni giorni, ma pur permutata
poi in Siena in casa Monsig. Arcivescovo, dove parimenti stetti 5 mesi,
trattato da padre di Sua Sig.a Ill.a e in continue visite della nobiltà
di quella città; dove composi un trattato di un argomento nuovo, in
materia di meccaniche, pieno di molte specolazioni curiose ed utili. Di Siena
mi fu permesso tornarmene alla mia villa, dove ancora mi trovo, con divieto di
scendere alla città; e questa esclusione mi vien fatta per tenermi
assente dalla Corte e da i Principi. Ma tornato alla villa in tempo che la
Corte era a Pisa, venuto il G. Duca in Firenze, due giorni dopo il suo arrivo
mi mandò uno staffieri ad avvisare come era per strada per venire a
visitarmi; e mez'ora dopo arrivò con un solo gentil'uomo in una piccola
carrozzina, e smontato in casa mia si trattenne a ragionar meco in camera mia
con estrema soavità poco manco di 2 ore. Stante dunque il non aver
patito punto nelle due cose, che sole devono da noi esser sopra tutte l'altre
stimate, dico nella vita e nella reputazione (come in questa il raddoppiato
affetto dei Padroni e di tutti gl'amici mi accertano), i torti e l'ingiustizie,
che l'invidia e la malignità mi hanno machinato contro, non mi hanno
travagliato né mi travagliano. Anzi (restando illesa la vita e l'onore) la
grandezza dell'ingiurie mi è più presto di sollevamento, ed
è come una spezie di vendetta, e l'infamia ricade sopra i traditori e i
costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza, madre della
malignità, dell'invidia, della rabbia e di tutti gli altri vizii e
peccati scelerati e brutti. Bisogna che gl'amici assenti si contentino di
queste generalità, perché i particolari, che sono moltissimi, eccedono
di troppo il potere esser racchiusi in una lettera. Di tanto si contenti V. S.,
e si quieti e consoli nel mio essere ancora in stato di poter ridurre al netto
le altre mie fatiche e pubblicarle.
L'avviso che
tiene V. S. d'Argentina, mi è piaciuto assai, e riconosco l'onore
dall'intercessione e indefessa vigilanza sua. Arei auto gusto che 'l mio
Dialogo fusse capitato in Lovanio in mano del Fromondo, il quale tra i filosofi
non assoluti matematici mi par dei men duri. In Venezia un tal D. Antonio Rocco
ha stampato in difesa dei placiti d'Aristotele, contro a quelle imputazioni che
io gl'oppongo nel Dialogo: è purissimo peripatetico, e remotissimo
dall'intender nulla di matematica né d'astronomia, pieno di mordacità e
di contumelie. Un altro iesuita intendo avere stampato in Roma per provare la
proposizione della mobilità della terra esser assolutarnente eretica; ma
questo non l'ho ancora veduto.
XXIII
A ELIA DIODATI IN PARIGI
(Arcetri, 25 luglio 1634)
Molto Ill.re
Sig.re e P.rone Col.mo
Spero che
l'intender V. S. i miei passati e presenti travagli insieme col sospetto di
altri futuri mi renderanno scusato appresso di lei e degli altri amici e
padroni di costà della dilazione nel rispondere alle sue lettere, e
appresso di quelli del totale silenzio, mentre da V. S. potranno esser fatti
consapevoli della sinistra direzzione che in questi tempi corre per le cose
mie.
Nella mia
sentenza in Roma restai condennato dal S.to Offizio alle carceri ad arbitrio di
S. S.tà; alla quale piacque di assegnarmi per carcere il palazzo e
giardino del Granduca alla Trinità de' Monti; e perchè questo
seguì l'anno passato del mese di Giugno e mi fu data intenzione che,
passato quello e il seguente mese domandando io grazia della total liberazione,
l'avrei impetrata, per non aver (costretto dalla stagione) a dimorarvi tutta la
state e anco parte dell'autunno, ottenni una permuta in Siena, dove mi fu
assegnata la casa dell'Arcivescovo: e quivi dimorai cinque mesi, dopo i quali
mi fu permutata la carcere nel ristretto di questa piccola villetta, lontana un
miglio da Firenze, con strettissima proibizione di non calare alla
città, né ammetter conversazioni e concorsi di molti amici insieme, né
convitargli. Qui mi andavo trattenendo assai quietamente con le visite
frequenti di un monasterio prossimo, dove avevo due figliuole monache, da me
molto amate e in particolare la maggiore, donna di esquisito ingegno, singolar
bontà e a me affezzionatissima. Questa, per radunanza di umori
melanconici fatta nella mia assenza, da lei creduta travagliosa, finalmente
incorsa in una precipitosa disenteria, in sei giorni si morì essendo di
età di trentatré anni, lasciando me in una estrema afflizzione. La quale
fu raddoppiata da un altro sinistro incontro; che fu che, ritornandomene io dal
convento a casa mia in compagnia del medico, che veniva dalla visita di detta
mia figliuola inferma poco prima che spirasse, mi veniva dicendo il caso esser
del tutto disperato, e che non avrebbe passato il seguente giorno, sì
come seguii quando, arrivato a casa, trovai il Vicario dell'Inquisitore che era
venuto a intimarmi d'ordine del S.to Offizio di Roma venuto all'Inquisitore con
lettere del S.r Card.le Barberino, ch'io dovessi desistere dal far dimandar
più grazia della licenza di poter tornarmene a Firenze, altrimenti che
mi arebbono fatto tornar là, alle carceri vere del S.to Offizio. E
questa fu la risposta che fu data al memoriale che il S.r Ambasciator di
Toscana, dopo nove mesi del mio essilio, aveva presentato al detto Tribunale:
dalla qual risposta mi par che assai probabilmente si possa conietturare, la
mia presente carcere non esser per terminarsi se non in quella commune,
angustissima e diuturna.
Da questo e da
altri accidenti, che troppo lungo sarebbe a scrivergli si vede che la rabia de'
miei potentissimi persecutori si va continuamente inasprendo. Li quali finalmente
hanno voluto per sé stessi manifestarmisi, atteso che, ritrovandosi uno mio
amico caro circa due mesi fa in Roma a ragionamento col P. Cristoforo
Grembergero, giesuita, Matematico di quel Collegio, venuti sopra i fatti miei,
disse il giesuita all'amico queste parole formali: “Se il Galileo si avesse
saputo mantenere l'affetto dei Padri di questo Collegio, viverebbe glorioso al
mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e arebbe potuto scrivere
ad arbitrio suo d'ogni materia, dico anco di moti di terra, etc.”: si che V. S.
vede che non è questa né quella opinione quello che mi ha fatto e fa la
guerra, ma l'essere in disgrazia dei giesuiti.
Della vigilanza
dei miei persecutori ho diversi altri rincontri. Tra i quali uno fu, che una
lettera scrittami non so da chi da paesi oltramontani e inviatami a Roma, dove
quello che scriveva doveva credere che tuttavia dimorassi, fu intercetta e
portata al S.r Card.le Barberino; e, per quanto da Roma mi venne poi scritto,
fu mia ventura che non era lettera responsiva, ma prima, piena di grandi
encomii sopra il mio Dialogo; e fu veduta da più persone, e intendo che
ce ne sono copie per Roma e mi è stato dato intenzione che la
potrò vedere. Aggiungonsi altre perturbazioni di mente e molte corporali
imperfezzioni, le quali, sopra quella dell'età più che
settuagenaria, mi tengono oppresso in maniera, che ogni piccola fatica mi
è affannosa e grave. Però conviene che per tutti questi rispetti
gli amici mi compatischino e perdonino quel mancamento che ha aspetto di negligenza,
ma realmente è impotenza; e bisogna che V. S., come mio parziale sopra
tutti gl'altri, mi aiuti a mantenermi la grazia dei miei benevoli di
costà e, in particolare del S.re Gassendo, tanto da me amato e riverito,
col quale potrà V. S. partecipare il contenuto di questa, ricercandomi
egli relazione dello stato mio in una sua lettera, piena della solita sua
benignità. Mi farà anco grazia farli sapere come ho ricevuta e
con particolar gusto letta la Dissertazione del S.re Martino Hortensio; e io, piacendo
a Dio ch'io mi sgravi in parte dai miei travagli non mancherò di
rispondere alla sua cortese lettera. Con questa riceverà anco V. S. i
cristalli per un telescopio, domandatimi dal medesimo S.re Gassendo per suo uso
e di altri, desiderosi di fare alcune osservazioni celesti; li quali
potrà V. S. inviargli significandoli che il cannone, cioè la
distanza tra vetro e vetro, deve essere quanto è lo spago che intorno ad
essi è avvolto, poco più o meno secondo la qualità della
vista di chi se ne deve servire.
Berigardo e
Chiaramonte, amendue lettori in Pisa, mi hanno scritto contro; questo per sua
difesa, e quello, per quanto dice, contro a sua voglia, ma per compiacere a
persona che lo può favorire nelle sue occorrenze: ma amendue molto
languidamente. Ma, quello che è degno di considerazione, alcuni,
vedendosi un larghissimo campo di poter senza pericolo prevalersi
dell'adulazione per augumento de' proprii interessi, si son lasciati tirare a
scriver cose, che fuori delle presenti occasioni sarebbero facilmente reputate
assai esorbitanti se non temerarie. Il Fromondo si ridusse a sommerger fin
presso alla bocca la mobilità della Terra nell'eresia. Ma ultimamente un
Padre Gesuita ha stampato in Roma che tale opinione è tanto orribile,
perniziosa e scandalosa, che, se bene si permette che nelle catedre, nei
circoli, nelle pubbliche dispute e nelle stampe si portino argomenti contro ai
principalissimi articoli della fede, come contro all'immortalità
dell'anima, alla creazione, all'Incarnazione etc., non però si deve
permetter che si disputi, né si argomenti contro alla stabilità della
Terra; sì che questo solo articolo sopra tutti si ha talmente a tener
per sicuro, che in modo alcuno si abbia, né anco per modo di disputa e per sua
maggior corroborazione, a instargli contro. Il titolo di questo libro è:
Melchioris Inchofer, e Societate Iesu, Tractatus syllepticus.
Ècci anco Antonio Rocco, che pur con termine poco civile mi scrive
contro in mantenimento della peripatetica dottrina e in risposta alle cose da
me impugnate contra Aristotile; il quale da sé stesso si confessa ignudo
dell'intelligenza di matematica e astronomia. Questo è cervello stupido
e nulla intelligente di quello che io scrivo, ma ben arrogante e temerario al
possibile. A tutti questi miei oppositori, che son molti, ho io pensiero di
rispondere; ma perché l'esaminare a parte a parte le vanità di tutti
sarebbe impresa lunghissima e di poca utilità, penso di fare un libro di
postille, come da me notate nelle margini di tali libri intorno alle cose
più essenziali e agli errori più maiuscoli, e come raccolte da un
altro mandarle fuori.
Ma prima,
piacendo a Dio, voglio publicare i libri del moto e altre mie fatiche, cose
tutte nuove e da me anteposte alle altre cose mie sin ora mandate in luce.
Riceverà
V. S. la presente dal S.r Ruberto Galilei, mio parente e signore, al quale
potrà fare parte del contenuto di questa, atteso che a S.S. scrivo bene,
ma assai brevemente. Tengo anco lettere del Sig.re de Peiresc, d'Aix, ricevute
insieme con quelle del S.re Gassendo; e perché amendue mi domandano i vetri per
un telescopio da fare osservazioni celesti, mi faccia grazia significare al S.r
Gassendo che dia conto al S.r de Peiresc d'aver avuto i vetri, pregandolo
contentarsi che di essi anco il Sig.r de Peiresc possa servirsi facendo di
più appresso il detto Signore mie scuse se differisco a rispondere alla
sua gratissima, trovandomi pieno di molestie che mi violentano a mancar
talvolta a quelli officii che io più desidero di essequire. Sono stracco
e averò soverchiamente tediata V. S.: mi perdoni e mi comandi. Gli bacio
le mani.
Dalla villa
d'Arcetri, li 25 di Luglio 1634.
Di V. S. molto
I.
Servitor
Devotissimo e Obligatissimo
Galileo Galilei.
XXIV
A FORTUNIO LICETI IN PADOVA
(Arcetri, 15 settembre 1640)
Molto Ill.re e
Eccl.mo Sig.r e P.ron Osse.mo
La gratissima di
V. S. molto Ill.re ed Eccel.ma delli 7 stante, piena di termini cortesi e
affettuosissimi, mi è stata resa questo giorno; e, non avendo io altro
tempo di risponderli fuorchè poche ore che restano sino a notte, per non
differire la risposta una settimana più in là, cerco di satisfare
a questo obligo, benché succintamente, ma però con pure e semplici
parole.
A quello che V.
S. Eccel.ma insieme meco grandemente desidera, cioè che in dispute di
scienze si osservino quei più cortesi e modesti termini che in materia
sì veneranda, quale è la sacra filosofia, si convengono, li do
parola di non mi separare pure un dito dal suo ingenuo e onorato stile; per il
che fare userò li stessi titoli, attributi ed encomi di onorevolezza
verso la persona sua, che ella verso di me ha umanamente adoperati; benché
molto più a lei che a me, e molto più eccellenti, si
converrebbero; ma la sua singolar cortesia non me ne ha lasciati di potere
usarne maggiori.
Mi giunge grato
il sentire che V. S. Eccel.ma insieme con molti altri, sì come ella
dice, mi tenga per avverso alla peripatetica filosofia, perché questo mi
dà occasione di liberarmi da cotal nota (che tale la stimo io) e di
mostrare quale io internamente sono ammiratore di un tanto uomo, quale è
Aristotile. Mi contenterò bene in questa strettezza di tempo accennare
con brevità quello che penso con più tempo di poter più
diffusamente e manifestamente dichiarare e confermare.
Io stimo (e
credo che essa ancora stimi) che l'esser veramente Peripatetico, cioè
filosofo Aristotelico, consista principalissimamente nel filosofare conforme
alli Aristotelici insegnamenti procedendo con quei metodi e con quelle vere
supposizioni e principii sopra i quali si fonda lo scientifico discorso,
supponendo quelle generali notizie, il deviar dalle quali sarebbe grandissimo
difetto. Tra queste supposizioni è tutto quello che Aristotele ci
insegna nella sua Dialettica, attenente al farci cauti nello sfuggire le
fallacie del discorso, indirizzandolo e addestrandolo a bene silogizzare e
dedurre dalle premesse concessioni la necessaria conclusione; e tal dottrina
riguarda alla forma del dirittamente argumentare. In quanto a questa parte,
credo di avere appreso dalli innumerabili progressi matematici puri, non mai
fallaci, tal sicurezza nel dimostrare, che, se non mai, almeno rarissime volte
io sia nel mio argumentare cascato in equivoci. Sin qui dunque io sono
Peripatetico .
Tra le sicure
maniere per conseguire la verità è l'anteporre l'esperienze a
qualsivoglia discorso, essendo noi sicuri che in esso, almanco copertamente,
sarà contenuta la fallacia, non sendo possibile che una sensata
esperienza sia contraria al vero: e questo è pure precetto stimatissimo
da Aristotile, e di gran lunga anteposto al valore e alla forza
dell'autorità di tutti gli uomini del mondo, la quale V. S. medesima
ammette che non pure non doviamo cedere alle autorità di altri, ma
doviamo negarla a noi medesimi qualunque volta incontriamo il senso mostrarci
il contrario.
Or qui, Eccel.mo
Sig.r, sia detto con buona pace di V. S. mi par d'esser giudicato per contrario
al filosofar peripatetico da quelli che sinistramente si servono del sopradetto
precetto, purissimo e sicurissimo, cioè che vogliono che il ben
filosofare sia il ricevere e sostenere qual si voglia detto e proposizione
scritta da Aristotele, alla cui assoluta autorità si sottopongono, e per
mantenimento della quale si inducono a negare esperienze sensate, o a dare
strane interpetrazioni a' testi di Aristotele, per dichiarazione e limitazione
de i quali bene spesso farebbero dire al medesimo filosofo altre cose non meno
stravaganti, e sicuramente lontane dalla sua imaginazione. Non repugna che un
grande artefice abbia sicurissimi e perfettissimi precetti nell'arte sua, e che
talvolta nell'operare erri in qualche particolare; come, per esempio, che un
musico o un pittore, possedendo i veri precetti dell'arte, faccia nella pratica
qualche dissonanza, o inavvertentemente alcuno errore in prospettiva. Io
dunque, perché so che tali artefici non pure possedevano i veri precetti, ma
essi medesimi ne erano stati li inventori, vedendo qualche mancamento in alcuna
delle loro opere, devo riceverlo per ben fatto e degno di esser sostenuto e
imitato, in virtù dell'autorità di quelli? Qui certo non
presterò io il mio assenso. Voglio aggiugnere per ora questo solo: che
io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra
i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contradizioni, ma ben
concludenti molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni suo
detto per vero, vanno espiscando dai suoi testi concetti che mai non li sariano
caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte
novamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile e immutabile,
perché niuna alterazione vi si era sino allora veduta, indubitatamente egli,
mutando oppinione, direbbe ora il contrario: ché ben si raccoglie, che, mentre
ei dice il cielo esser inalterabile perché non vi si era veduto alterazione,
direbbe ora essere alterabile, perché alterazioni vi si scorgono. Si fa l'ora
tarda, e io entrerei in un pelago larghissimo, se io volessi produr tutto
quello che in tale occasione mi è passato più volte per la mente;
però mi riserverò ad altra occasione.
Quanto all'avermi
V. S. Eccel.ma attribuito oppinioni non mie, ciò può essere
accaduto che ella ne abbia prese alcune attribuitemi da altri, ma non
già scritte da me: come, per esempio che, per detto del filosofo
Lagalla, io tenga la luce esser corporea mentre che nel medesimo autore e nel
medesimo luogo si scrive aver io sempre ingenuamente confessato di non saper
che cosa sia la luce: e così il prender come risolutamente primarii miei
pensieri alcuni riportati dal sig.r Mario Guiducci, potrebbe esser che io non
ci avessi avuto parte, benché io mi reputi a onore che si creda tali concetti
esser mia, stimandoli io veri e nobili.
Circa l'esser
per avventura parso prolisso nel rispondere alle sue obiezioni, non lo ascrivo
io a minimo neo, né pur ombra d'indignazione in V. S. Eccel.ma, sì come
né anco in me mancamento, se non in quanto con minor tedio del lettore averei
potuto esprimere i miei sensi; ma la mia natural durezza nel dichiararmi mi fa
tal volta traboccare dove io non vorrei: oltreché, sia, per la nostra concertata
filosofica e amichevole libertà, lecito di piacevolmente dire, quando
ella paragonassi la multiplicità e lunghezza delle opposizioni che ella
fa alla unica mia proposizione del candore lunare distesa in pochissimi versi
paragonasse, dico, con la lunghezza delle mie risposte; forse ella non
troverebbe la proporzione dei suoi detti a' miei minore della proporzione dei
versi della mia lettera ai versi che le sue instanze contengono. Ma queste son
coserelle da non prenderle altro che per ischerzo.
Piacemi grandemente
che ella applauda al mio pensiero, di ridur in altra testura le mie risposte,
inviandole a lei medesima; dove averò campo di non mi lasciar vincere in
usar termini di reverenza al suo nome, benché io sia certo di dover esser di
lunga mano superato in dottrina dal suo elevato ingegno. Potrebbe bene accadere
che il mio infortunio, di avere a servirmi delli occhi e della penna di altri,
con troppo tedio dello scrittore, prolungasse qualche giorno di più
quello che in altri tempi per me stesso averei spedito in pochi giorni, ed
ella, per la prontezza e vivacità del suo ingegno, in poche ore. Viva
felice e mi continui la sua buona grazia, da me per favorevole fortuna stimata
e pregiata; e il Signor la prosperi.
D'Arcetri, li 15
di 7bre 1640.
XXV
[SOPRA IL
CANDORE DELLA LUNA]
AL PRlNClPE
LEOPOLDO Dl TOSCANA
(Arcetri, 31 marzo 1640)
Serenissimo
Principe e mio Signor Colendissimo
Tardi,
Serenissimo Principe, pongo io in esecuzione il comandamento fattomi più
giorni sono dall'Altezza Vostra Serenissima intorno al dovere maturamente
considerare il trattato dell'eccellentissimo signor Fortunio Liceti intorno
alla pietra lucifera di Bologna, e sopra di questo significarle il giudizio che
ne fo. Ho fatta la da lei impostami considerazione, e del darne io conto
al'Altezza Vostra Serenissima così tardamente, prego che sia servita di
accettare la mia scusa, condonando tutto l'indugio alla mia miserabil perdita
della vista, per il cui mancamento mi è forza ricorrere all'aiuto degli
occhi e della penna di altri; dalla qual necessità ne séguita un gran
dispendio di tempo, e massime aggiuntovi l'altro mio difetto, di aver, per la
grave età, diminuita gran parte della memoria, sì che nel far
deporre in carta i miei concetti, molte e molte volte mi bisogna far rileggere
i periodi scritti avanti, per poter soggiugnere gli altri seguenti e schivar di
non repeter più volte le cose già dette. E creda l'Altezza Vostra
Serenissima a me, che dalla esperienza ne sono bene addottrinato, che dallo
scrivere servendosi degli occhi e della mano proprii, al dover usar quelli di
un altro, vi è quasi quella differenzia che altri nel gioco delli
scacchi troverebbe tra il giocar con gli occhi aperti e il giocar con gli occhi
bendati o chiusi. Imperoché in questa seconda maniera, dalle tre o quattro gite
di alcuni pezzi in poi, è impossibile tenere a memoria delle mosse di
altri più; né può bastare il farsi replicar piu volte il posto
dei pezzi, con pensiero di poter produrre il gioco fino all'ultimo scacco, perché
credo si tratti poco meno che dell'impossibile. Supposto dunque che l'Altezza
Vostra Serenissima per sua benignità sia per ammettere la necessaria
scusa della mia tardanza, verrò a schiettamente e sinceramente esporle
quel giudizio che ho fatto sopra detto libro.
Ma prima che ad
altro io descenda, voglio che l'Altezza Vostra Serenissima sappia come
l'eccellentissimo signor Liceti, subito uscito in luce il suo trattato De
lapide Bononiensi, me ne inviò una copia, pregandomi che io
liberamente dovessi significarli quello che a me pareva di questa sua fatica; e
mentre che l'Altezza Vostra Serenissima mi ricerca dell'istesso, con ogni
schiettezza le aprirò il mio senso.
Dicole dunque,
che se io volessi conforme al merito diffondermi nelle lodi dell'ampla e
sottilissima dottrina che mi è parso scorgervi, oltre al convenirmi
assai in lungo distendere, dubiterei che le mie parole, benché purissime e
sincere, potessero apparire ad alcuno iperboliche o adulatorie: ad alcuno,
dico, di quelli, che troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più
angusti spazii che possibil fusse, ristretti i filosofici insegnamenti,
sì che sempre si usasse quella rigida e concisa maniera, spogliata di
qualsivoglia vaghezza ed ornamento, che è propria dei puri geometri, li
quali né pure una parola proferiscono che dalla assoluta necessità non
sia loro suggerita. Ma io, all'incontro, non solamente non ascrivo a difetto in
un trattato, ancorché indirizzato ad un solo scopo, interserire altre varie
notizie, purché non siano totalmente separate e senza veruna coerenza annesse
al principale instituto; che anzi stimo, la nobiltà, la grandezza e la
magnificenza, che fa le azzioni ed imprese nostre meravigliose ed eccellenti,
non consistere nelle cose necessarie (ancorché il mancarvi queste sia il
maggior difetto che commetter si possa), ma nelle non necessarie, purché non
sieno poste fuori di proposito, ma abbino qualche relazione, ancorché piccola,
al principale intento. E così, per esempio, vile e plebeo meritamente si
chiamerebbe quel convito nel quale mancassero i cibi e le bevande, principal
requisito e necessario; ma non però il non mancar di queste lo fa
così magnifico e nobile, che sommamente più non gli arrechino
grandezza e nobiltà la vaghezza dell'egregio e sontuoso apparato, lo
splendore dei vasi d'argento e d'oro, che, adornando la mensa e le credenze,
dilettano la vista, i concenti di varie armonie, le sceniche rappresentazioni,
e i piacevoli scherzi, all'udito così graziosi. La maestà di un
poema eroico vien sommamente ampliata dalla vaghezza e varietà de gli
episodii; e Pindaro, principe de' lirici, si sublima tanto col digredire in
maniera dal principale suo intento, che è di lodar l'eroe da esso
cantato, che nel tesser le laudi di quello non consuma la decima, né anco tal
ora la vigesima, parte de i versi, i quali spende in varie descrizzioni di cose
che in ultimo, con fila assai sottili, sono annesse al principal concetto. lo
per tanto interamente applaudo alla maniera che il signor Liceti,
abbondantissimo di mille e mille notizie, tiene nei suoi componimenti, ed in
particolare in questo, nel quale, prima che condurre il famelico lettore a
saziare sua brama con l'ultimo insegnamento del problema principalmente
desiderato, ci porge un util diletto di tante belle cognizioni, che bene ci
obliga a rendergliene mille grazie, mentre che con grato risparmio di tempo e
di fatica ci libera dal rivoltare i libri di cento e cento autori.
Degna dunque di
lodi infinite stimo io questa sua nobile ed util fatica. Ed acciocché l'Altezza
Vostra Serenissima resti sicura che io schiettamente e non simulatamente
discorro, voglio contraporre alle meritate lodi che a tutto il resto del suo
libro si convengono, alcune mie considerazioni intorno alla digressione che fa
il signor Liceti nel capitolo L di questo suo libro, le quali mi pare che
possino rendere la dottrina in quello contenuta non ben sicura né incolpabile;
se però, quello che communemente ed umanamente suole accadere,
l'interesse proprio non m'inganna, essendo il contenuto di tutto il detto
capitolo non altro che una moltitudine di obiezzioni che egli bene acutamente
fa contro ad una mia particolare ed antiquata opinione, nella quale ho creduto
ed affermato, quel tenue lume secondario che nella parte tenebrosa della luna
si scorge, massimamente quando ella è poco remota dalla congiunzione col
Sole, essere effetto cagionato dal reflesso de' raggi solari nella superficie
del nostro globo terrestre: al che egli contradice con molte opposizioni, le
quali, contro al mio desiderio, mi pare che non necessariamente convincano la
mia opinione di falsità. E dico contro al mio desiderio, perché
non vorrei che anco questa nota, benché piccola, macchiasse il suo, in tutto il
resto, così puro e candido trattato; che nelli scritti miei, che poco di
peregrino e di apprezzabile si contiene, poco di pregiudizio è
l'aggiugnere a tante altre mie fallacie questa qui ancora; ché bene in un panno
rozo e vile manco noiano la vista molte grandi ed oscure macchie che in un
drappo vago e per la moltitudine de' fiori riguardevole non farebbe una benché
minima.
Proporrò
dunque quelle risposte che al presente paiono sollevarmi con speranza di dover
poi, con mio util particolare, esser dalle sue dottissime repliche tolto di
errore e condotto nel possesso del vero, qualunque volta queste mie risposte
gli venissero agli orecchi. Ma prima che io descenda a esaminar la forza delle
sue obiezzioni, voglio, per mia satisfazione, raccontare all'Altezza Vostra
Serenissima i miei primi moti, dai quali io fui indotto a credere che di questo
tenue lume secondario, che nella parte del disco lunare non tocco dal Sole si
scorge (il quale, per brevità, con una sola parola nel progresso
chiamerò candore), sola ed originaria cagione ne fusse il
reflesso dei raggi solari nella superficie del globo terrestre. Avendo ed una e
due volte osservato il detto candore, mosso dal natural desiderio d'intender le
cause delli effetti di natura, il primo concetto che mi cadde in mente fu, che
tal candore potesse essere proprio dell'istessa sustanzia e materia del globo
lunare e per certificarmi se ciò potesse essere, aspettai curiosamente
il tempo della prima eclisse totale di essa Luna, sicuro che quando ella per sé
stessa ritenesse tal lume, molto e molto più splendido ci si mostrerebbe
nelle tenebre della notte profonda, che nella chiarezza del crepuscolo; in quel
modo che incomparabilmente lo splendore della medesima Luna, conferitole dal
Sole, più bello e grande ci si rappresenta nella notte oscura, che non
solo nel mezo giorno, ma nell'ora del crepuscolo ancora. Venne l'eclisse; e restando
ella talmente oscura, che del tutto restò inconspicua, fui reso certo,
il candore non esser nativo suo, e però necessariamente doverle esser
conferito ab extra. E perché ad illuminare un corpo opaco ed oscuro vi
è necessario il beneficio di un altro ben risplendente, né trovandosi al
mondo altri che le stelle erranti e fisse, il Sole e la Terra, in quanto dal
Sole è illustrata, venivo di necessità tratto a ricorrere e a far
capo ad alcuno di questi. E cominciando dal Sole, essendo manifesto quanto grande
sia l'illuminazione che esso le manda e che nello emisferio lunare ad esso
esposto si deve, giudicai, il candore che nell'altro emisferio, non visto dal
Sole, si diffonde, non potere essere opera dei raggi solari. Né meno potersi
attribuire al resto dei lumi celesti, cioè delle stelle:
imperochè la vista loro non vien tolta alla Luna posta nelle tenebre
dell'eclisse; onde quelle pure illustrandola sempre egualmente, molto
più lucida ci si rappresenterebbe nell'oscuro campo della notte, che nel
crepuscolo; di che accade tutto l'opposito. E perché manifestamente si osserva,
il candore farsi di grande mediocre, e di mediocre minore e minimo, tal effetto
in conto veruno dalle stelle non può derivare. Restavami sola la Terra,
atta a poter satisfare a tutte le particolarità, col non fare ella verso
la Luna altro che puntualissimamente quello che la Luna fa verso la Terra,
illuminando la sua parte oscura nelle tenebre della notte col reflesso de'
raggi solari, or più, or meno, or pochissimo, or niente. E meco medesimo
più arditamente discorrendo, dissi: Sono la Luna e la Terra due corpi
opachi e tenebrosi egualmente; vi è il Sole, che di pari illustra
continuamente un emisferio di ciascheduno lasciando l'altro oscuro; e di
questi, la Luna è potente a illuminare l'oscuro della Terra: oh perché
si dovrà metter in dubbio che il luminoso della Terra non incandisca
l'oscuro della Luna? Parvemi questo discorso talmente ragionevole, che io presi
ardire di palesarlo, stimando che dovesse esser ricevuto come concludente; né
è restato il mio creder vano, poiché niuno de i comuni ingegni
speculativi l'ha impugnato, sinché il discorso dell'eccellentissimo signor
Liceti, sopra tutti gli altri eminente, ha con grand'acutezza penetrato, tal
mio pensiero ed opinione essere stata manchevole. Tuttavia, o sia per mia
debolezza ed incapacità, o pure che le impugnazioni non siano di quella
strettissima necessità che nella assoluta demostrativa scienza si
richiede, non mi conosco ancora per al tutto convinto; e perché in me non cessa
il desiderio di sapere, bramando di esser tolto del dubbio e posto nel certo,
communicherò a lei tutto quello che mi occorre potersi dire in risposta
alle sue contradizzioni, per mantenimento della mia opinione.
E facendo
principio dal titolo del capitolo 50, che è: De Lunæ subobscura
luce, prope coniunctiones et in deliquiis observata; digressio
physico-mathematica, già che egli medesimo le dà titolo di
digressione, è manifesto segno di averla esso stimata considerazione non
necessaria nel suo trattato, ma solo avervela interposta per magnificarlo;
conforme a quel che di sopra ho detto, che la nobiltà e magnificenzia
consiste più negli ornamenti non necessarii, che in quelle cose che di
necessità devono esser portate. E sin qui approvo e laudo il suo
instituto, se non in quanto seco porta indizio del mio non ben saldo discorso.
E perché egli procede come matematico e fisico, andrò esaminando come
filosofo, qualunque io mi sia, e come matematico le sue opposizioni; facendo
anco qualche poco di considerazione intorno alla forma dell'argumentare che
egli tal volta tiene, quanto ella sia conforme a i dialettici precetti posti da
Aristotele.
Piglio dunque la
sua prima instanza, contenuta dal principio del capitolo sino a “Dein vero,
quum in plenilunio Terra” etc. Mentre io vo con attenzione esaminando questo
primo discorso, lo trovo veramente con bello artifizio tessuto; e l'artifizio
mi si rappresenta tale. Due parti si contengono in esso conteste: l'una
è nella quale ei vuol dimostrare, il candor della Luna non potersi in
modo alcuno riconoscere dalla Terra; l'altra è il concludere, tal
effetto procedere dall'etere ambiente essa Luna. Quanto alla prima, molto
probabilmente cammina il suo discorso, dicendo, il candor della Luna non poter
derivare se non da quel corpo dal quale provengono le differenze di esso
candore, le quali differenze sono il farsi tal candore or più ed or meno
lucido: e questo non può provenire dalla Terra, avvengaché la sua
lontananza dalla Luna non si muta: e però il reflesso della Terra deve
esser sempre uniforme, ed in conseguenza impotente a produr differenze in esso
candore; adunque, né meno il candor medesimo. Il discorso, pigliandolo a tutto
rigore, patisce non leggier mancamento: il quale è, che nel raccorre la
conclusione dalle premesse, s'introduce un quarto termine, non toccato nelle
premesse, il quale è la Terra. Sono le premesse: “Un effetto mutabile
non può provenire da causa immutabile: il candore è effetto
mutabile; ma la distanza tra la Terra e la Luna è immutabile; adunque il
candore non può provenir dalla Terra”. Ora questo termine “Terra” non
è posto nelle premesse, ma vi è in suo luogo “distanza tra la
Terra e la Luna”; onde, a voler che l'argumento cammini in buona forma,
bisognava, avendo detto nelle premesse “Un effetto mutabile non può
provenire da causa immutabile; ma la distanza tra la Terra e la Luna è
immutabile”, bisognava, dico, dir nella conclusione “Adunque il candore non
procede dalla distanza tra la Terra e la Luna”: ed il silogismo, raddrizzato
così, quanto alla forma procedeva bene, ma non concludeva niente contro
di me. Ho detto che a tutto rigore ne seguirebbe questo inconveniente; ma
avendo riguardo a quello che, per mio credere, il signor Liceti aveva in
intenzione, figuriamo l'argumento in miglior forma, dicendo: “Un effetto
mutabile non può derivare da causa immutabile: ma la distanza tra la
Luna e la Terra è immutabile, ed immutabile parimente è lo
splendor della Terra; adunque il candore non può provenire né dalla
distanza tra la Luna e la Terra, né dallo splendore della Terra; ed in
conseguenza non può provenire dalla Terra”. Non si può negare che
il discorso in questa maniera raddrizzato apparisce tanto concludente, che
facilmente potrebbe essere ammesso per sincero e libero da ogni fallacia da
qualsivoglia filosofo; e tanto più ciò mi persuado, quanto che
l'istesso signor Liceti, da me stimato per filosofo a nissun altro secondo, per
niente manchevole lo ha creduto: e pure tra poco spero di esser per dimostrarlo
manchevole. In tanto per ora, ammessolo per concludente, dico che egli non fa
punto contro di me, il quale non ho mai detto né scritto che alla produzzione
del candore si ricerchi la mutazione della distanza tra la Terra e la Luna o la
mutazione dello splendore della Terra. È stato pensiero del signor
Liceti; il quale, immaginandosi che di tal mutazione non possa esser causa
altro che il variarsi la distanza o il mutarsi lo splendore, si è
persuaso che escludendo queste due cause venga distrutta la mia opinione. Se io
avessi detto che la Terra cagionasse il candore nella Luna con l'appressarsele
o discostarsele, o col farsi ella or più splendida ed or meno, egli mi
averebbe convinto di errore col mostrare che la Terra né si avvicina o discosta
dalla Luna, né diviene una volta più vivamente splendida che un'altra.
Resto io pertanto sin qui illeso dalla sua prima impugnazione, nella quale
è bene ora che veggiamo se vi sia ascosa dentro alcuna fallacia,
sì come, ingenuamente parlando, credo che ascosa vi sia: e per farla
palese, prima mostrerò in generale che ella vi è; dipoi
tenterò di additare, dove e quale ella sia in particolare
Che fallacia
assolutamente vi sia, lo provo col tessere un argumento formato su le vestigie
del suo, senza slargarmene pure un capello, deducendone poi una conclusione
falsa; la quale vera doverebbe esser riuscita, quando nella forma
dell'argumento non fusse stata fallacia. Formando dunque l'argumento su le sue
pedate, proverò che quel lume che la notte si scorge in Terra, mentre
che la Luna splendida si trova sopra l'orizonte, e che communemente si chiama
lume di Luna, non è altrimenti effetto che, come da causa, dependa dal
reflesso de' raggi solari nella superficie della Luna, dicendo così.
Questo che noi chiamiamo lume di Luna è effetto mutabile, e però
non può derivare se non da causa mutabile. Ma le cause mutabili, atte a
produrre una tal mutabilità, sono dal signor Liceti ridotte a due capi:
l'uno è l'avvicinare o discostare il corpo illuminante da quello che
deve essere illuminato; e l'altro è il crescere o il diminuire lo splendore
del corpo illuminante. Il primo di questi due capi non ha luogo: nella presente
operazione, avvengachè, per concessione pur del medesimo signor
Filosofo, la Luna mantiene sempre la medesima distanza dalla Terra; e l'altro
capo molto meno ci ha luogo il che è manifesto; imperochè
l'effetto che seguir si vede procede tutto al contrario di quel che proceder
dovrebbe quando pur lo splendor della Luna si facesse ora più vivo e
potente ed ora meno. Imperciochè, essendo lo splendor della Luna effetto
dei raggi solari che la illustrano, chiara cosa è che ei sarà
più vivo quando ella è men lontana dal Sole, e più debile
nella sua maggior lontananza e però, posta la Luna in congiunzione col
Sole, lo splendore che ella da lui riceve, più efficace sarà che
quando ella li è posta all'opposizione, trovandosi in questo luogo
più lontana dal Sole, che in quello, tanto quanto importa il diametro
del dragone, cerchio massimo deil'orbe nel quale la Luna si rivolge; ed
è manifesto, che partendosi ella dalla congiunzione e venendo verso il
sestile e di lì al quadrato, ella si va continuamente discostando dal
Sole, continuando pure il discostamento nell'aspetto trino, e finalmente
conducendosi alla massima lontananza nella diametrale opposizione. Si va per
tanto continuamente indebolendo lo splendore della Luna: ma l'effetto suo in
Terra procede al contrario imperocché nel tempo della congiunzione
l'illuminazione in Terra è minima, anzi pur nulla, e si comincia a far
sensibile nel separarsi la Luna dalla congiunzione, né molto si fa ella
apparente sino allo aspetto sestile; ma continuando lo allontanamento della
Luna dal Sole, passando per il quadrato e trino, sempre il lume di Luna in
Terra si fa maggiore e maggiore, sin che diviene massimo nella opposizione.
Poiché dunque la mutazione nel lume il fa al contrario di quel che far si
dovrebbe quando tal mutazione dependesse dal farsi lo splendore della Luna or
più or meno grande e gagliardo; chiara cosa rimane, che né anco il
secondo capo ha luogo. In questa operazione del farsi il lume in Terra or
più or meno vivace. Adunque non ha la Luna parte alcuna nella mutazione
di quel lume in Terra, del quale noi parliamo; e non avendo ella parte in tal
mutazione, per la verissima ipotesi del medesimo Filosofo né meno lo stesso
lume sarà effetto della Luna: tuttavia egli pure tanto manifestamente
depende dalla Luna, che niuno degli uomini si troverà che vi ponga
dubbio. E veramente dubbio non vi si può porre, mentre che la causa
della mutazione, cioè del farsi di piccolissimo, e di giorno in giorno
andar crescendo, sin che grandissimo divenga, a tanto manifesta, che non
è uomo che non la comprenda, e non vegga che la Luna nuova poco o niente
può illuminar la Terra, non ci mostrando del suo emisferio illuminato
dal Sole altro che una sottilissima falce, la quale la sera seguente fatta
più larga, e di sera in sera ingrossando le sue corna, allargatasi per
buono spazio dal Sole, comincia a rendere osservabile l'effetto del suo
splendore, quanto all'illuminar la Terrai ridottasi poi, dopo sette o otto
giorni al quadrato, scuopre alla Terra di sè la metà del suo
emisiferio splendido; e seguitando di allontanarsi ancor più dal Sole,
più e più di sera in sera mostra ampla la sua figura d'intero e
perfetto cerchio, grandissima ne produce in Terra la sua illuminazione.
Io veramente mi
meraviglio che l'eccellentissimo signore, di ingegno tanto provido in
contemplare e penetrare le cause e gli effetti meravigliosi della natura, non
so per qual ragione, non abbia fatto reflesso sopra così patente causa
della mutazione del lume di Luna in Terra; o perché, avendovela fatta, non
l'abbia poi riconosciuta nello splendore della Terra nel produrre simile
mutazione nel candor della Luna, mentre che il negozio cammina nell'istessa
maniera puntualissimamente. Cioè, perché, stante sempre un intero
emisferio della Terra illustrato dal Sole, la Luna non però si trova
perpetuamente costituita in sito tale, che continuamente se gli opponga o
scuopra o tutto o la medesima parte del detto emisferio terrestre luminoso; ma
talora lo vede tutto, talora ne perde una parte, e poi un'altra maggiore, e
finalmente ancora ne perde il tutto. L'intero ne vede la Luna posta alla
congiunzione col Sole; nel qual tempo, esponendo essa Luna il suo emisferio
opaco, non tocco da i raggi solari, alla Terra, sommamente viene incandita
dalla piazza immensa luminosa di quella. Partendosi poi dalla congiunzione,
comincia a scoprire una particella dell'emisferio tenebroso della Terra,
rimanendole però veduta grandissima parte ancora del luminoso; onde il
suo candore si debilita alquanto, e va continuamente debilitandosi mentre che,
nello allontanarsi dal Sole, va sempre di giorno in giorno perdendo di vista
parte maggiore del terrestre emisferio luminoso, sin che, giunta al quadrato,
scuopre del terrestre emisferio, esposto alla sua vista, la metà
dell'illuminato, e l'altra metà del tenebroso: cresce dunque la causa
del diminuirsi il candore. E così, continuando di perdersi di sera in
sera maggiore e maggior parte dell'emisferio splendido della Terra, il candore
si fa a poco a poco impercettibile, sendo anco di gran pregiudizio a gli occhi
del riguardante la presenzia della parte molto lucida della Luna, che confina
con quello che di lei resta privo della illuminazione del Sole. Al che possiamo
aggiugner ancora (come punto di gran considerazione) la chiarezza che il
medesimo lume lunare introduce nel suo ambiente, la qual chiarezza è
tanta, che ci offusca e toglie la vista delle stelle fisse, le quali anco per
assai grande spazio son lontane dalla Luna; tal che molto meno ci deve restar
cospicuo il candore, anco per altro, tenuissimo fatto.
Parmi,
Serenissimo signore, d'aver sin qui a bastanza dimostrato come l'opinion mia
resta illesa da questa sua prima obbiezzione, ed insieme aver concluso che nella
sua instanza è forza che sia qualche fallacia. Séguita ora che io
dichiari in quel che a me pare che la fallacia consista: ed è, s'io non
m'inganno, che argumentando egli ex suppositione quello che egli suppone
è mutilo; e dove egli è almanco di tre membra, ne prende
solamente due lasciando indietro il terzo. Del potersi fare il candore, o altra
illuminazione, maggiore o minore, ne assegna il signor Liceti due modi
solamente: cioè il mutarsi la distanza tra il corpo illuminante e il
corpo che si illumina, che è l'uno de i modi; e l'altro, col farsi lo
splendore dello illuminante intensivamente più o meno gagliardo. Ma ci
è il terzo, il quale è quando non intensivamente, ma
estensivamente, si fa maggiore quella luce da cui l'illuminazione deriva: e
così il lume di una torcia grande più gagliardamente
illuminerà che d'una piccola candela, benché gli splendori di amendue
intensivamente siano eguali. Ora qui averei voluto che il signor Liceti avesse
considerato, quanto questa terza maniera è più potente in produrre
l'effetto della mutazione del lume di Luna in Terra. Imperocché l'ingrandirsi
estensivamente lo splendore della Luna, come fa, mostrandosi da principio in
figura di una sottilissima falce, andandosi poi pian piano e di sera in sera
dilatando, cioè facendosi estensivamente maggiore, gran mutazione di
accrescimento produce nell'illuminar la Terra, ancorché intensivamente vadia
debilitandosi, onde per tal rispetto il lume dovrebbe farsi men vivo.
Debolissima dunque è l'efficacia delle altre due maniere, in
comparazione di questa terza, la quale l'Altezza Vostra Serenissima vede quanto
sia gagliarda.
Sarà bene
adesso che andiamo esaminando quello che operar possa circa l'incandire la Luna
il reflesso del suo etere ambiente dal signor Liceti assegnato per vera cagione
dell'effetto: la quale dubito che non possa essere se non assai languida ed
inefficace. Ma prima che io venga a questo, voglio qui interporre un mio, tal
qual si sia, pensiero, per ritrovar l'origine donde sia proceduto il restare
per tanti secoli passati occulta a gli ingegni speculativi questa, per mio
credere, assai vera e concludente ragione, del derivare il candor della Luna
veramente dal reflesso de' raggi solari nella terrestre superficie. Mentre che
il Sole è sopra l'orizonte ed illumina il nostro emisferio terrestre, in
qualsivoglia luogo che sia posta la Luna, il candor di lei non ci si rende
visibile; per lo che nessuno in tal tempo si sarebbe mosso a credere né a dire
che il lume della nostra Terra avesse forza di illuminare la parte della
superficie lunare non tocca dal Sole onde molto meno gli potrebbe cadere in
mente che la superficie della Terra priva di splendore fosse potente a
incandire la Luna, cioè fusse potente, essendo tenebrosa, a portar luce
là dove ella non la portò essendo luminosa. Quando dunque,
tramontato che sia il Sole ed imbrunita la nostra Terra, mentre si vede
scoprirsi il candore nella Luna, il giudizio popolare ad ogni altra cosa lo
potrebbe referire, fuorché alla Terra: per lo che gli uomini, persuasi da questa
prima e semplice apprensione, o non vi fecero reflessione, o cercarono di
ritrovarne la ragione in ogni altra cosa fuorché nello splendor terrestre.
Ora, varii sono
i riscontri e le ragioni le quali mi distolgono dal prestar l'assenso
all'opinione del signor Liceti, che il candore lunare sia effetto di una parte
del suo etere ambiente, la quale, come alquanto più densa dell'etere
purissimo che il resto del cielo ingombra, possa ricevere e ripercuotere i
raggi solari nella parte tenebrosa della Luna; in quella maniera che la parte
dell'aria contermina alla Terra, fatta densa dalla mistione de i vapori, riceve
lume da i raggi solari, e quello reflette sopra la Terra, producendo il
crepuscolo e l'aurora. E perchè, oltre a questo, egli suppone che la Luna
pure abbia per se stessa alquanto di lume, suo proprio e naturale; questo
parimente e primieramente non credo io esser vero, né potere, quando pur vero
fusse, averci parte alcuna: né so penetrare da che cosa mosso egli ve lo abbia
voluto introdurre. E prima, che egli non vi sia, ce ne rende sicuri il perder
noi talvolta del tutto di vista la Luna, quando ella, nella sua totale eclisse,
nel mezo del cono dell'ombra terrestre si riduce; che quando ella avesse
qualche proprio lume, benché tenue, nella profondissima notte si farebbe
visibile; tal lume proprio non ha dunque la Luna. E quando ben ne avesse, non
potendo egli esser se non tenuissimo, di niente potrebbe aiutare il candore, il
quale è molto grande in quella maniera che niente opera il lume della Luna
circa l'lluminar la Terra, qualvolta il Sole, elevato sopra l'orizonte, con i
suoi lucidissimi raggi l'illustra; ché quando la notte, in assenza de: Sole, la
Luna piena di splendore non ci avesse illuminato, giammai di giorno, alla
presenza del Sole, non averemmo potuto assicurarci della illuminazione della
Luna e così nel gran campo del candore, molto bene luminoso, ogni altro
picciol lume resterebbe offuscato e come nullo. Quanto poi all'operazione
dell'etere ambiente, circa il candire la Luna, non veggo che in modo alcuno
possa satisfare a quello che al senso ci apparisce imperoché tutto il campo
tenebroso della Luna è egualmente candito, e non intorno alla
circonferenzia solamente, dove solo per breve spazio si dovrebbe distendere il
lume che dallo etere ambiente le perviene; in quel modo che il reflesso della
parte dell'aria vaporosa solamente tal parte dell'emisferio terrestre illustra,
qual parte è il tempo della durazione del crepuscolo del tempo della
lunghezza di tutta la notte che se l'illuminazione del crepuscolo potesse
diffondersi sopra tutto l'emisferio terrestre, non averemmo mai notte profonda,
ma un'aurora o un crepuscolo perpetuo; ed avvengaché secondo che in maggiore
altezza si sublimasse l'orbe vaporoso intorno al globo terrestre, tanto più
diuturno si farebbe il crepuscolo, in immensa Altezza converrebbe che si
elevassero i vapori per illuminare l'intero emisferio. Ora, quando il signor
Liceti volesse mantenere che il candore che può illustrare tutto
l'emisferio tenebroso della Luna, derivasse dal reflesso dell'etere ambiente,
sarebbe in obbligo di insegnarci a quanta altezza, o vogliamo dir distanza,
fuor dell'orbe lunare dovesse tal parte d'etere addensato sublimarsi; nella
quale impresa, oltre che alquanto laboriosa gli riuscirebbe, credo che
incontrerebbe assai gagliarde contraindicanze. Una delle quali è, che
giammai in verun modo potrebbero le parti di mezo essere egualmente luminose
come le altre più verso la circonferenza, ma grandemente più
tenebrose, avvenga che le parti intorno alla circonferenza goderebbero non solo
delle parti a sé contigue, ed anco delle prossime, ma di tutte le remote ed
altissime; dove che le parti di mezo, restando prive della vista delle prossime
e tangenti l'estremo limbo, riceverebbero il lume solamente dalle alte e
remote: ora, quanto importi l'avere l'illuminante prossimo, più che
l'averlo lontano, per esser più vivamente illuminato, è tanto per
sé manifesto, che non occorre spendervi più parole. E doppo questa ci
è un'altra contraindicanza, pur gagliardissima; e questa è, che
nel farsi l'eclisse, finito che fusse di entrare nel cono dell'ombra il disco
lunare, restando ancora fuor di tal cono gran parte dell'etere alto che la Luna
circonda, essendo ancora questo visto ed illuminato dal Sole, pure continuerebbe
di incandire ancora la medesima faccia della Luna, e massimamente la parte
conseguente all'ultimo orificio che si sommerse nell'ombra: al che troppo
altamente repugna l'esperienza, la quale ce lo mostra bene alquanto sparso di
luce, e, per mio credere, conferitale dallo etere suo ambiente, ma tal luce con
infinita proporzione minore del vero candore; il quale, se nella profonda notte
potesse conservarsi, io tengo per fermo che ei sarebbe potente a illuminarci,
non ardirò di dire quanto la Luna nel suo plenilunio, ma che non
cederebbe a quello che ci viene dalle corna della Luna posta presso all'aspetto
sestile. E finalmente, del non potere il candore in verun modo essere effetto
dell'etere ambiente, molto chiaramente lo mostra la gran diminuzione che in esso
si scorge dal partirsi dalla congiunzione col Sole sino all'arrivare al
quadrato, alla qual diminuzione converrebbe che proporzionalmente rispondesse
la diminuzione del lume nell'etere ambiente; la quale non può esser se
non piccolissima e per avventura insensibile, non si potendo, come il medesimo
signor Liceti afferma, riconoscere da altro che dallo allontanamento di esso
etere dal Sole. Ed ancorché né l'etere ambiente né il suo lume scorgiamo,
nulladimeno quale possa essere la diminuzione di quello, lo possiamo
argumentare dalla diminuzione di splendore che nel corpo stesso della Luna si
scorge, mentre che alla lontananza, che è tra il Sole e la Luna posta
nel quadrato, si aggiugne quello di più che ella si scosta passando dal
quadrato all'opposizione: e veramente credo che niuna vista possa esser
bastante a comprendere, lo splendore della Luna nel quadrato essere
intensivamente maggiore che nella opposizione; e così il lume dell'etere
ambiente nella congiunzione della Luna col Sole poco scapiterà nel ridursi
alla quadratura, perché finalmente il suo discostamento non è altro che
la trentesima parte della distanza tra il Sole e la Luna postagli in
congiunzione; onde, a tal ragguaglio, il lume in questo luogo potrà
diminuirsi per la trentesima parte appena, nel venire al quadrato. E tale per
consequenza doverebbe essere la diminuzione del candore nella Luna, cioè
appena sensibile: ma ella è non pur sensibile, ma assai grande; e ben
grande può ella essere, mentre che nella congiunzione viene il disco
lunare incandito dall'intero emisferio splendido della Terra, dalla cui
metà solamente viene ella illustrata nella quadratura.
Ora venghiamo al
secondo argumento, leggendo sino a “Deinde Luna prope coniunctiones” etc. Io di
questo argumento concedo tutte le premesse, ma non concedo già che non
ne segua quello che dalla concessione di esse seguir ne dovrebbe; anzi affermo
che puntualmente ne séguita e che così si scorge, cioè che, per
esser la Terra più da vicino illuminata dal Sole che la Luna posta in
opposizione, e che per esser l'emisferio terrestre molto e molto maggiore,
cioè circa dodici volte, di quello della Luna, il candore lunare
dovrebbe di gran lunga superare il lume di Luna in Terra; ed affermo di
più che così segue, che è quello che dal signor Liceti vien
negato, affermando egli vedersi il contrario, cioè molto più
debole il candore della Luna che l'illuminazione terrestre derivante dalla Luna
piena: e perché ei dice ciò vedersi, mi sarebbe parso necessario il
dichiarare la maniera come tal vista possa ottenersi con sicurezza e senza che
il senso si ingannasse. Imperoché, mentre io vo ricercando di assicurarmi della
verità del fatto, trovo che non mancano circustanze, per le quali il
senso, nella prima apprensione, può errare ed esser bisognoso di correzzione,
da ottenersi mediante l'aiuto del retto discorso razionale. Io veramente,
domandando persone anco di bonissimo giudizio, quale si rappresenti all'occhio,
più vivo e risplendente, o il lume di Luna in Terra, o il candore nella
Luna, mi sento subito rispondere, che di gran lunga è superiore il lume
di Luna; tuttavia credo che, applicando il discorso e la considerazione a gli
accidenti che la prima apparenza possono perturbare, si troverà potere
essere, ed in fatto essere, il contrario di quello che a prima vista si
giudica. E prima, essendo assai manifesto che l'istesso corpo lucido, potente a
illuminare altri corpi tenebrosi, più e più vivamente gli
illustra secondo ch'ei sarà meno e meno lontano da essi; da questo
effetto notissimo e chiaro parmi che con assai conveniente proporzione si possa
anco affermare, che alla vista nostra meno risplendente si mostri il medesimo
oggetto luminoso, posto in grandissima lontananza dall'occhio, che postoci
molto da vicino. E se così è, vorrei che il signor Liceti avvertisse,
che nel voler noi far paragone del lume di Luna in Terra col candor della Luna
vicina alla congiunzione, e di essi giudicare quello che alla prima vista si
rappresenta, avvertisse, dico, che la Terra illuminata dalla Luna non è
dall'occhio nostro più lontana di tre o quattro braccia, lontananza
incomparabilmente minore di quella della Luna candente posta alla congiunzione,
la quale eccede di assai trecento milioni di braccia: qual dunque meraviglia
è che, posto anco che il candor della Luna fusse eguale
all'illuminazione della Luna in Terra, in tanta differenza di lontananza ci
apparisse minore? Eccellentissimo signor Liceti, per giudicare nella presente
causa senza fallacia, bisognerebbe che, notato a parte quello che vi si
rappresenta alla vista mentre che, stando in Terra, guardate il lume di Luna in
Terra, paragonandolo al candor della Luna quando poi è posta nella
congiunzione, notaste ancora a parte quello che vi si rappresenterebbe alla
vista quando voi foste constituito nella Luna incandita dal lume terrestre, e
di lì poteste poi vedere la Terra, da voi lontanissima, illuminata dalla
Luna; e se nell'una e nell'altra esperienza voi trovaste che la Terra si
mostrasse più candida della Luna incandita postavi sotto i piedi, bene e
concludentemente avereste sentenziato; ma dubito che la seconda esperienzia vi
farebbe mutar parere, e giudicare tutto l'opposito di quello che la prima vista
intorno a questo vi persuase. Cessi per tanto la fede che in questo caso
l'intelletto deve prestare al senso. Ed aggiunghiamo di più, che di due
oggetti visibili, ma in grandezza diseguali, il minore meno ingombrerà
l'occhio di luce che il maggiore, ancorchè amendue fussero dell'istesso
splendore in specie. Ora notisi che il disco lunare viene compreso sotto un angolo
acutisimo, avvengaché la sua base non suttenda più che a mezo grado: ma
l'angolo che dalla massima divaricazione de i raggi visivi si constituisce
nell'occhio, essendo più grande che retto, suttende a più di
novanta gradi interi e questo viene tutto ingombrato dall'area e piazza
luminosa della Terra, mentre che da vicino la rimiriamo: essendo adunque
l'ampiezza di questo grande angolo circa dugento volte maggiore dell'altro
acuto, che comprende il disco lunare, meraviglia non abbiamo a prenderci dell'apparente
maggioranza di luce nel rimirar la Terra, che la Luna incandita. Taccio che
della differenzia dei nominati due angoli lineari molto e molto maggiore
è quella delli angoli solidi, da essi lineari nascenti: e veramente
angoli solidi sono i compresi dentro a i coni formati da i raggi visuali, de i
quali angoli quello che ha per base la parte, ancorché piccolissima, della
terrestre superficie all'occhio esposta, a ben più di quaranta mila
volte maggiore dell'altro, che si fonda sul disco lunare.
Non è dunque
meraviglia che il senso nella prima apparenza distortamente giudichi nella
presente causa: però sarà bene che veggiamo se ci è modo
di correggerlo; e potendo per avventura i modi e le maniere esser molte, io per
ora ne proporrò una o due. E già che noi non possiamo mettere a
petto a petto il candor della Luna ed il lume di Luna in terra, parmi che assai
sicuramente potremmo giudicare tra essi facendo parallelo di amendue ad un
terzo lume di un corpo illuminato: imperoché se accadesse che lo splendore di
questo terzo superasse il lume di Luna, ma fusse superato dal candor della
Luna, senza dubbio credo che potremmo asserire, il candor della Luna superare
il lume di Luna in terra. Mi si rappresenta, atto mezo termine per ciò
fare esser lo splendore del crepuscolo, facendo comparazione ad esso del lume
de gli altri due. Tramontato che sia il Sole, vedesi rimanere per buono spazio
di tempo la superficie della Terra assai chiara, mercé del crepuscolo,
cioè molto più che quando è illustrata dalla Luna piena; il
che manifestamente si scorge dal veder noi qualsivoglino minuzie in terra molto
più distintamente in virtù del crepuscolo, che non si scorgono,
passato esso, nell'illuminazione della Luna. Il quale effetto anco apertamente
si conferma: perché se averemo in Terra qualche corpo oscuro, come, per
esempio, una colonna o la nostra persona medesima, la illuminazione della Luna
piena non farà far ombra in Terra a esso corpo tenebroso sin che il lume
del crepuscolo non sarà di molto scemato, cioè sin tanto che il
lume della Luna gli prevaglia; segno evidente, questo della Luna esser a
quello, da principio e per lungo spazio di tempo, assai inferiore. Ma
aggiunghiamo un'altra esperienzia, che pure ci conferma, l'illuminazione del
crepuscolo superare di assai l'illuminazione del plenilunio. Osservisi qualche
grande edifizio posto sopra luogo eminente, in lontananza da noi di quattro o
sei o più miglia: certo per assai lungo spazio dopo il tramontar del
Sole dureremo noi a scorgerlo bene, e tal vista non perderemo se non dopo
notabile diminuzione del lume crepuscolino; ma se, estinta la illuminazione del
crepuscolo, sopraverrà la illuminazione del plenilunio, potrà
molto bene accadere che il medesimo edifizio più da noi non si scorga.
Cede dunque di assai il lume di Luna al lume del crepuscolo: ma all'incontro,
per scorgere il candore nella Luna non ci fa di mestiero aspettare che tanto si
debiliti il lume crepuscolino, ma di non piccol tempo avanti che la Luna muova
l'ombre, lo vedremo noi biancheggiare nel medesimo lume crepuscolino: cede
dunque il lume di Luna al candor della lunare superficie.
Ma finalmente
con nodo, al mio parere insolubile, veggiamo stretta e confermata la
verità della mia conclusione dico dell'essere il candor della Luna
effetto del reflesso de' raggi solari ripercossi dal globo terrestre. Stima il
signor Liceti, il candor della Luna essere effetto del reflesso de' raggi
solari nell'etere alquanto condensato che da vicino circonda il globo lunare,
in quella guisa che l'orbe vaporoso circonda la Terra; e del tutto esclude il
reflesso della Terra, come nullo: io ammetto al signor Liceti il reflesso
dell'etere ambiente, ma vi aggiungo il reflesso della Terra, che egli nega, e
questo assai più potente che quello dell'etere: ed avvenga che il signor
Liceti reputi nullo questo, da me stimato per principale, adunque di niuno
pregiudizio dovrà essere al candore della Luna il privarla di questo,
che io reputo benefizio concernente al produr tal candore, purché se gli lasci
il reflesso dell'etere ambiente. E per ciò fare compitamente, ponghiamo
la Luna in opposizione al Sole, onde verso di lei nulla si esponga
dell'emisferio terrestre luminoso, ma solo riguardi verso lei l'emisferio
tenebroso; ed in tal consultazione ponghiamo che segua l'eclisse totale della Luna,
sì che ella perda ancora la illuminazione de i raggi primarii del Sole,
onde resti spogliata di questi e del tutto priva della vista della faccia
luminosa della Terra. Qui è manifesto, che non così
immediatamente che il corpo lunare si è finito d'immergere nel cono
dell'ombra terrestre, si è finito di immergere ancora l'orbe dell'etere
che lo circonda, ma ne resta parte fuori; la qual parte godendo ancora de i
raggi solari, può incandire quella parte del corpo lunare che fu
l'ultima a cadere nell'ombra ed in questo tempo potremo noi scorgere qual sia
il candore prodotto dal solo etere ambiente. Ma questo poco che si vede, non si
diffonde per tutta la faccia della Luna, ma solamente in parte del suo limbo;
né la grandezza del suo lume ha che fare col candore grande ed argenteo che si
vede nella congiunzione, ma a una assai tenue tintura bronzina ché quando fusse
in spezie così vivace quale è il candore, vivacissimo e molto
più limpido dovrebbe dimostrarsi in questo tempo dell'eclisse, mentre
che la Luna si trova constituita in un campo molto oscuro, cioè nelle
tenebre della notte, dove che, all'incontro, il candore del novilunio viene da
noi veduto nel campo ancora assai chiaro del crepuscolo. Vedesi dunque, che
privata la Luna del reflesso della Terra, e favorita solo da quello del suo
etere ambiente perde a molti doppi quel bel candore per lo che ben
necessariamente doviamo concludere, pochissima essere la parte che vi ha il
reflesso dell'etere ambiente; anzi pure vi è ella come nulla, mentre le
sopragiugne il tanto più vivace e potente reflesso della Terra
Qui prima che
passar più avanti, non voglio tacere certa meraviglia che mi nasce
nell'animo; ed è, che avendo il signor Liceti detto di voler discorrere
nella presente materia fisicomatematicamente, nella presente occasione ci si
serva solo della fisica, tralasciando la matematica: perché cosa da fisico e
naturale è stata il formar giudizio tra il candor della Luna e il lume
di Luna dalla prima e sensuale apparenza; nel qual giudizio non credo ch'ei fusse
con fallacia incorso, se egli avesse aggiunto quello che ne insegna la
matematica, cioè che la lontananza della Luna candita dall'occhio
è più di cento milioni di volte maggiore della lontananza della
Terra, e che l'angolo visuale nascente dalla Terra è più di
quaranta mila volte maggiore che il nascente dalla superficie lunare, le quali
disuguaglianze, come non piccole, hanno potuto perturbare il retto giudizio.
Quindi apprenda ciascuno quale è talvolta la differenza tra il
discorrere de i matematici e de i puri filosofi naturali e perché, senza
digredire dalla materia che si tratta, mi si porge qui occasione di conferire
all'Altezza Vostra Serenissima certo mio concetto non scritto da me in altro
luogo, né credo toccato da altri, glie le esporrò.
Mostra
l'esperienzia come il sopranominato tenue splendore bronzino, che resta nella
faccia della Luna, ma per breve tempo, dopo la sua totale adombrazione, il va a
poco a poco diminuendo: ed accade tal volta che pure nelle totali e centrali
eclissi tal lume del tutto si ammorza, in guisa che del tutto si perde la vista
della Luna; ed alcun'altra volta, pur nelle stesse totali eclissi, non
così adiviene, ma resta il lunar corpo pure alquanto apparente e
visibile. Già è manifesto, tal debolissima luce non le poter
provenire né dal Sole né dalla Terra, la vista de' quali le è del tutto
tolta; né meno essere effetto del suo etere ambiente, di già esso ancora
immerso nell'ombra e privato della vista del Sole; né può tampoco esser
nativo e proprio del corpo lunare, poiché, se fusse tale, in tutte le eclissi
si scorgerebbe, come anco accaderebbe se fusse per avventura effetto delle
stelle sparse per l'immenso cielo; ed in somma il punto grande della
difficoltà consiste nel seguire alcune volte sì ed alcune volte
no questo totale perdimento di vista della medesima Luna, il quale effetto, per
la sua variazione, ricerca varietà nella causa effettrice. Io, doppo
molte reflessioni di mente, considerato che l'effetto del quale si cerca la
causa è effetto di lume, ho meco medesimo concluso, non potere esso
provenire se non da qualche cosa che abbia facultà di illuminare, del
benefizio della quale resti ora favorita ed ora privata la Luna; né avendo noi
altro di lucido, atto a ciò poter fare, che i luminosi corpi celesti, a quelli
è forza ricorrere, e tra essi investigare chi possa operare or sì
ed or no nell'effetto del quale parliamo. Se questo è effetto di qualche
stella, è necessario che ella, o vero alcuna volta risplenda più
ed altra manco, o vero che ella ora sia esposta ed ora no alla vista della
Luna; e conviene anco che tale stella sia di non minima forza d'illuminare. Tra
i corpi celesti, trattone il Sole e la Luna, potenti assai per la lor vicinanza
e grandezza, la prima fra le stelle mi si offre Venere, la quale in alcune
constituzioni col Sole, cioè circa alle massime digressioni riluce tanto
vivamente, che si vede la notte i corpi ombrosi tocchi dal suo fulgore, sparger
ombra, e Giove appresso di lei con poca differenza far quasi il medesimo
effetto. Ora, stante questo, che pure è verissimo, qualvolta accadesse
che queste due stelle nel tempo dell'eclisse lunare fussero verso la Luna
talmente costituite che la potessero ferire con i loro raggi, potrebbero in
consequenza conferirle qualche lume, bastante per renderla visibile; e quando
poi in altra eclisse Giove fusse verso l'opposizione del Sole, ed in
consequenza dietro all'emisferio lunare a noi ascosto, e che Venere, per
l'opposito, fusse prossima alla congiunzione col Sole, sì che la Terra,
nel privar la Luna della vista del Sole, le togliesse anco il veder Venere,
restando ella abbandonata da amendue tali fulgori, resterebbe ancora a gli
occhi nostri invisibile. Potrebbesi ancora accomunare a questo benefizio
qualche stella fissa, e massime la più di tutte le altre fulgente, dico
la Canicola; e parmi poter far capitale di queste tre sole, ed in particolare
dei due pianeti, perché debole è l'operazione di tutto il resto delle
stelle fisse. E veramente par nel primo aspetto cosa assai maravigliosa, che lo
splendore di tanti lumi celesti abbia sì poco ad operare circa
l'illuminare la Terra o altro corpo da esse remotissimo: ma dovrà far
cessare la meraviglia il considerare quanto avanzi in grandezza il disco
solare, ed anco quello della Luna, la apparente piccolezza delle stelle fisse,
mercé dell'immensa loro lontananza poiché per fare un'area o piazza luminosa
eguale al disco del Sole o della Luna composta di stelle, ciascheduna anco
eguale al Cane, non basterebbero quaranta mila accoppiate e distese insieme:
giudichiamo ora quello che si può ricevere dalle quindici sole della
prima grandezza, insieme con le altre, poche più di mille, e tanto
minori, sparse per il Cielo. E ben che moltissime siano quelle che per la loro
piccolezza restano invisibili, tuttavia veggiamo che di tali piccolissime
congiuntone gran numero insieme, finalmente non formano altro che una piccola
piazzetta sì poco luminosa che gli astronomi passati chiamarono con nome
di stelle nebulose. E tanto basti per risposta alla seconda instanza del signor
Liceti.
E venendo alla
terza, senta l'Altezza Vostra Serenissima quello che l'autore scrive
consequentemente, sino alle parole: “Præterea vel ipse Clarissimus
Galileus, dum aliam opinionem” etc. Qui sì mi è lecito
liberamente parlare, non bene resto capace de i motivi per i quali il signor
Liceti inferisce, che posto che il candor della Luna derivasse dal reflesso del
lume terreno, ei dovesse essere più illustre nel mezo della sua faccia
oscura, che nel rimanente verso l'estremo margine; e mentre adduce per ragione
di questo il ricevere le parti di mezo più lume dalla Terra, e lo
sfuggire il medesimo lume dal margine estremo, spargendosi nell'ambiente, io
non veggo occasion nessuna di ricever più luce nel mezo, né veggo che i
raggi dello splendore terrestre debbano sfuggire dall'estremo limbo. Ciò
forse accaderebbe quando il globo lunare fusse terso e liscio come uno
specchio; ma egli è scabroso quanto la Terra se non più: e di
questo non riceversi maggior lume nel mezo che nell'estremo ambito, pur troppo
chiaramente ce lo mostra l'stessa Luna, mentre che essendo ella, nella
opposizione, piena di lume del Sole, senza veruna differenza di mezo o di
estremo egualmente luminosa si mostra, argumento della sua asprezza e del non
sfuggire i raggi solari verso l'estrema circunferenza; che quando ella fusse
tersa come uno specchio, giammai da gli uomini non sarebbe stata veduta, come
io diffusamente ho dimostrato altrove. Oltre che, posto anco che la superficie
lunare fusse tersa sì che i raggi luminosi, che dalla Terra le
pervengono, potessero fuggire nel contatto estremo dell'orbe lunare, e
perciò quivi men vivamente potessero incandirlo, non per questo
all'occhio nostro tal diminuzione di lume potrebbe esser compresa: e la ragione
è questa. La superficie luminosa della Terra, come quella che è
vicina alla Luna, ed in ampiezza è ben dodici volte maggior di essa,
molto più d'un suo emisferio abbraccia ed illumina con i suoi raggi;
all'incontro poi i raggi nostri visivi, come quelli che non da una ampiezza
così grande quanto è l'emisferio terrestre sì partono, ma
escono da un punto solo, cioè dall'occhio nostro, notabilmente meno di
un emisferio lunare abbracciano; talché oltre all'ultimo cerchio che i raggi
nostri visivi nella superficie lunare descrivono, una grande striscia di
luminoso resta tra essa e l'ultimo cerchio che termina la parte della
superficie lunare illustrata dalla Terra, la quale striscia è a gli
occhi nostri invisibile. Perché dunque nella parte veduta da noi non vi entra
della poco luminosa, mercé dello sfuggimento dei raggi terrestri, niuna
diminuzione di candore possiamo noi veder nella Luna. Di qui l'Altezza Vostra
Serenissima può vedere con quanto più salda ragione io dichiaro
che l'obiezzione del signor Liceti contro il derivare il candore dalla Terra
è invalida, e quanto, all'incontro, valida e concludente sia la mia,
posta di sopra, in provare che il candore non sia effetto dell'etere ambiente,
mentre che io concludo che se ciò fusse, il candore nelle parti di mezo
dovria apparir più oscuro che nell'estreme; la quale mia conseguenza non
so se il signor Liceti potesse così agevolmente rimuovere, come ho
potuto io ora rimuovere la sua, che il candore nelle parti di mezo dovesse
mostrarsi più chiaro che nelle estreme, quando derivasse dalla Terra.
Quanto poi
all'attribuirmi l'Autore, che io abbia poste nella Luna concavità, le
quali poi, a guisa di cavi specchi, possino ripercuotere lume maggiore che
altre parti non concave; sia detto con pace del mio Signore, io non ho mai né
scritta né pronunziata tal cosa. Sono nella superficie della Luna lunghi tratti
di asprissime montagne, gruppi di scogli scoscesi, moltissimi spazii grandi e
piccoli, circondati da argini sublimi e per lo più di figure rotonde;
veggonvisi alcune cavità: ma che elle sieno terse, sì che a guisa
di specchi cavi possino ripercuotere i raggi, ciò è alienissimo
dal mio detto e dal mio credere; ma stimo bene, tutte queste figure essere
ruvide, aspere, ed in somma quali in Terra se ne veggono, naturalmente e rozamente
composte. In oltre, quando pure nella faccia della Luna fussero
concavità più che qualsivoglia de i nostri specchi pulite e
lustrate, sì che vivacissimamente potessero reflettere non meno il lume
terrestre che gli stessi raggi solari, che vedremmo noi di tali raggi, reflessi
nell'ambiente della Luna ? Esposto uno de' nostri specchi concavi a' raggi
diretti del Sole, che lume reflettono essi, che punto illumini l'aria nostra
ambiente? Nulla sicurissimamente; e pure è vero, tali raggi reflettersi
gagliardissimamente, ed in figura di cono andare ad unirà; ed esser
veramente potenti ad illuminare i corpi tenebrosi ed illuminargli ancora
più potentemente che l'istesso Sole: ma bisogna nella cuspide del cono,
o a lei vicino, porre qualche materia densa ed opaca, la quale, tocca da tali
raggi, si vedrà splendere ed offender la vista più che l'istesso
Sole, e massime se lo specchio sarà grande; e se la materia sarà
combustibile, immediatamente si accenderà; ed essendo fusibile, qual
è il piombo o lo stagno, si fonderà, ed il rame o altro metallo
più duro si infuocherà. Bisogna dunque per vedere il suo
reflesso, farlo incontrare in materia atta ad essere illuminata; e finalmente
potremo vedere manifestissimamente tutto il cono, ponendogli sotto carboni
accesi e buttando sopra essi semola o incenso o altra cosa tale che faccia
fumo; e questo passando per i raggi del cono, si illuminerà, e ci
farà vedere quanto tali raggi reflessi siano più vivi delli
incidenti e primarii del Sole. Adunque, siano pure quali e quanti si voglino
specchi concavi nella Luna, niente faranno più vivo lo splendore diffuso
per l'etere ambiente.
Io non credo che
all'eccellentissimo signor Liceti sia ignoto, che i raggi reflessi da uno
specchio concavo non vadano in figura di cono a unirsi se non in piccola
distanza da esso specchio, e che il loro vivacissimo lume non può
vedersi se non in qualche materia densa ed opaca, la quale, tocca da i detti
raggi, come ho detto, acquista un lume più vivo che lo splendore
dell'istesso Sole: ma la parte aversa della detta materia niente si illumina,
essendo opaca; tal che a noi che siamo in Terra, dove non credo che il signor
Liceti fusse per dire che arrivassero i coni de i raggi reflessi da gli specchi
concavi sparsi nella superficie della Luna, a noi, dico, non toccherebbe a vedere
se non le dette parti averse, le quali verrebbero illuminate solo dalla
superficie della Terra, come il restante dell'emisferio lunare, e però
ci resterebbero elle indistinte dal resto del lunar disco. Lascio stare che il
metter lamine di materia opaca separate dal corpo lunare e sospese nel suo
etere circunfuso, è cosa troppo ridicola, e da non ci far sopra
fondamento veruno. Ma più poteva il signor Liceti, come
fisico-matematico, raccorre dalle matematiche, che non solo i piccoli specchietti
concavi, sparsi nella superficie lunare, non sono bastanti a far l'effetto che
egli ne deduce ma quando tutto l'emisferio lunare fosse un solo specchio
concavo o porzione di sfera tanto grande che il suo semidiametro fusse
l'intervallo che è tra la Terra e la Luna, che è il medesimo che
dire che ei fosse porzione dell'istessa sfera nella quale è posta la
Luna, appena sarebbe bastante a reflettere e produrre il cono de' raggi
reflessi insino in Terra, dove, uniti e terminati nel vertice di detto cono,
potessero ravvivare il lume; il quale poi un sol punto o una minimissima
particella dell'emisferio terrestre occuperebbe, e quivi solo farebbe la
multiplicazione dello splendore, superiore allo splendore terrestre, ma
però tanto languido, mercé della minima ed insensibile cavità
dello specchio, che il cercare di vederlo o vero di ritrovarlo sarebbe un tempo
vanissimamente speso. Anzi pure, non potendo pervenire all'occhio del
riguardante salvo che nelle centrali congiunzioni de i tre centri terrestre,
lunare e solare, giammai da noi che siamo fuor de' tropici, tale accidente non
potrebbe esser incontrato; essendo che impossibile cosa è il costituire
l'occhio nella medesima linea retta che li tre centri sopradetti congiunge,
l'occhio, dico, di un che fuora della torrida zona, cioè de' tropici,
sia costituito. Vede dunque l'Altezza Vostra Serenissima come il discorso
matematico serve a schivare quelli scogli, ne' quali talvolta il puro fisico
porta pericolo d'incontrarsi e rompersi.
Qui non posso
non maravigliarmi alquanto di esser portato io in testimonio contro a me
medesimo, mentre sento dirmi che io medesimo ho scritto, l'estremo limbo della
Luna mostrarsi più lucido che le parti di mezo. È vero che io ho
scritto che tali parti estreme sì mostrano a prima vista più
chiare che quelle di mezo; ma immediatamente ho soggiunto, ciò in rei
veritate esser falso ed una illusione, e soggiunto che tutto il disco
è egualmente candido: ed il medesimo Autore nel capitolo precedente
registra puntualmente le mie parole, che sono: “Dum Luna, tum ante tum etiam
post coniunctionem, non procul a Sole reperitur, non modo ipsius globus, ex
parte qua lucentibus cornibus exornatur, visui nostro spectandum sese offert;
verum etiam tenuis quædam sublucens peripheria tenebrosæ partis, Soli
nempe aversæ, orbitam delineare, atque ab ipsius ætheris obscuriori
campo seiungere, videtur. Verum, si exactiori inspectione rem consideremus,
videbimus, non tantum extremum tenebrosæ partis limbum incerta quadam
claritate lucentem, sed integram Lunæ faciem, illam nempe quæ Solis
fulgorem nondum sentit, lumine quodam, nec exiguo, albicare: apparet tamen
primo intuitu subtilis tantummodo circumferentia lucens propter obscuriores
Cæli partes sibi conterminas; reliqua vero superficies obscurior e contra
videtur ob fulgentium cornuum, aciem nostram obtenebrantium, contactum. Verum
si quis talem sibi eligat situm, ut a tecto vel camino aut aliquo alio obice
inter visum et Lunam (sed procul ab oculo posito) cornua ipsa lucentia
occultentur, pars vero reliqua lunaris globi aspectui nostro exposita
relinquatur; tunc luce non exigua hanc quoque Lunæ plagam, licet solari
lumine destitutam, splendere depræhendet, idque potissimum, si iam
nocturnus horror ob Solis absentiam increverit; in campo enim obscuriori eadem
lux clarior apparet.” Or il troncare le mie sentenze, portando, come da me
detto asseverantemente, quello che io nella prima parte propongo per confutarlo
poi nelle seguenti parole da me poste, e far ciò forse per imprimere
nell'animo del lettore concetto tutto contrario a quello che io scrivo, non
saprei in altra maniera scusarlo, fuor che per una scorsa di memoria.
Segue con altra
instanza, dicendo: “Præterea, vel ipse Clarissimus Galileus” etc, sino a
“Insuper, si Terra solare lumen in Luna” etc. Il signor Liceti con grande
accortezza trapassa sotto poche parole questa instanza che egli mi fa contro,
toccando solo una parte del mio detto, onde il lettore, non sentendo la mia
sentenza intera, potria formarsi concetto che quello che da me vien portato in
altro proposito, serva per confermare un'altra opinione, molto lontana da
quella che io tengo. È vero che io ho detto, tenere che possa essere
intorno aila Luna una parte del suo etere ambiente più densa del resto
dell'etere purissimo la quale possa reflettere i raggi del Sole, illustrando
l'estremo margine del disco lunare: al che credere mi muove il vedere
nell'eclisse totale della Luna, doppo che ella sì è immersa
nell'ombra terrestre restare quell'estrema parte del suo limbo che fu l'ultima
a cadere nell'ombra, restar, dico, alquanto illustrata, ma di un lume che tira
più al rame che all'argento, il qual colore non si estende egualmente
per il restante del disco lunare, che resta molto più oscuro; e che
finalmente, entrata la Luna nel mezo dell'ombra, ella del tutto perde quel poco
che la faceva visibile, e noi alcune volte totalmente la perdiamo di vista.
Ora, che il signor Liceti inferisca, che da quanto ho scritto si possa raccorre
che io abbia detto o conceduto che il candore, il quale grandissimo si sparge
per tutto il disco lunare nel novilunio, derivi dal reflesso del Sole
nell'etere ambiente la Luna, è consequenza da me non pensata, non che
detta; anzi di presente stimata falsissima. E qui è bene che io tocchi
certo particolare degno di esser avvertito ed inteso.
Circonda
perpetuamente l'etere, diciamo addensato, il globo della Luna, intorno alla
quale si eleva sino a una certa altezza; sta la Luna esposta a i raggi del
Sole, i quali illustrano l'emisferio lunare insieme con l'emisferio addensato e
potente ad illuminare una parte dell'emisferio lunare non tocco dai raggi del
Sole; e tal parte illuminata circonderà, a guisa di un anello, una
striscia della superficie lunare, che confina con l'emisferio illuminato dai
raggi solari; e questo anello apporterebbe il lume crepuscolino nella Luna e da
noi si scorgerebbe, quando un altro lume molto maggiore non ce lo offuscasse; e
questo maggior lume è il reflesso della grandissima faccia della Terra:
sì che posto, per esempio, che il reflesso terrestre abbia venti gradi
di luce, ma quello del reflesso dell'etere ambiente ne abbia, verbigrazia, otto
o dieci, chi crederà, potersi distinguere tale anello lucido nella
piazza tanto più risplendente? Certo nessuno, salvo che chi volesse
dire, il reflesso dell'etere superare in candore quello della Terra, il che
è falso: imperoché quello che nell'eclisse lunare rimane,
somministratoli dall'etere ambiente, è di lunghissimo intervallo
inferiore al candore del novilunio; che quando fusse prodotto dall'istessa
causa, dovrebbe molto e molto maggiore mostrarsi nell'oscurità della
notte, al tempo dell'eclisse, che nello splendore del nostro crepuscolo, come
altra volta di sopra abbiamo detto. Aggiunghiamo di più, che l'essere
egualmente diffuso il candore per tutto il disco lunare, ci assicura che egli
non depende dall'etere ambiente, il quale non è potente ad arrivare
nella parte di mezo del disco lunare; in quel modo che il crepuscolo nostro non
illumina tutto un emisferio terrestre, perché se ciò fusse averemmo
tutta la notte il lume crepuscolino, dove che per la maggior parte della Terra
molte sono le ore notturne che restano senza crepuscolo, nelle tenebre
profondissime. In oltre, con gran ragione possiamo credere che l'etere ambiente
la Luna non sia così atto a reflettere vivamente i raggi del Sole sopra
la Luna, come è l'ambiente nostro vaporoso a ripercuoterli sopra la
Terra. Imperochè, essendo in universale la materia dell'etere celeste
più pura dell'elementare aerea, così è credibile che la
parte dell'etere condensato intorno alla Luna sia assai men densa, ed in
conseguenza men potente a reflettere, che l'aere condensato, per la mistione
de' vapori, intorno alla Terra.
Che poi l'etere
ambiente la Luna sia grandemente men denso della parte dell'aria vaporosa che
circonda la Terra, posso io con chiara esperienzia far manifesto. I vapori
intorno alla Terra sono di maniera densi, che il Sole posto vicinissimo
all'orizonte illumina una muraglia, o altro corpo opaco oppostogli, molto
debolmente in comparazione del lume che gli porgeva mentre per molti gradi era
sopra l'orizonte elevato; e questa molto notabile differenza non può
procedere, per mio credere, da altro, se non che i raggi del Sole nel
tramontare hanno a traversare per lunghissimo spazio i vapori che la Terra
circondano, dove che i raggi del Sole molto elevato per spazio più breve
hanno a traversare i vapori tra il Sole e l'oggetto opaco interposti: che
quando non ci fussero i vapori, ma l'aria fusse purissima, l'illuminazione del
Sole sarebbe sempre del medesimo vigore, tanto da i luoghi sublimi quanto da i
bassi, tuttavolta che nelle superficie da essere illuminate fussero con angoli
eguali ricevuti. Onde, tuttavolta che noi potessimo far paragone di due luoghi
posti nella Luna, all'uno de i quali i raggi solari pervenissero passando molto
obliquamente per l'etere addensato intorno alla Luna, ed all'altro assai
direttamente si conducessero, cioè per breve spazio camminassero per
l'etere ambiente, e che noi scorgessimo le illuminazioni di amendue essere
eguali o pochissimo differenti; senz'alcun dubbio potremmo affermare, l'etere
ambiente la Luna o nulla o pochissimo più essere addensato che tutto il
resto del purissimo etere. Ma tali due luoghi frequentemente li possiamo
vedere: imperoché, posta la Luna intorno alla quadratura del Sole, considerando
il termine che dissepara la parte illuminata da i raggi solari dall'altra
tenebrosa, si veggono in questa tenebrosa alcune cuspidi di monti assai
distaccate e lontane dal detto termine, le quali essendo illuminate dal Sole
prima che le parti più basse, benché i raggi solari a quelle
obliquamente pervenghino, nulladimeno lo splendore e il lume di quelle si
mostra egualmente vivo e chiaro come qualsivoglia altra parte notata nel mezo
della parte illuminata. E pure alla Cuspide distaccata pervengono i raggi
solari, obliquamente segando l'etere ambiente, che ad altri luoghi notati nella
parte illuminata direttamente o meno obliquamente pervengono; segno manifesto,
assai piccolo essere l'impedimento che l'etere ambiente può dare alla penetrazione
de' raggi solari, ed, in conseguenza, assai tenue essere il lume che da esso
etere può la parte oscura della Luna ricevere.
Passo alla
seguente instanza: “Insuper, si Terra solare lumen in Luna” etc. Poco fa il
signor Liceti acutamente stimò che io, contro all'intenzion mia,
corroborassi e confermassi una sua opinione, mentre io m'ingegnava di
confermarne un'altra mia, dalla sua molto differente. Penso di essermi
sincerato della inavvertenza placidamente impostami: non so se con altretanta
evidenzia egli potrà sciogliersi da simile imputazione che mi pare che
se gli possa fare, del destruggere egli una sua proposizione, mentre tenta di
destruggere una mia, attenente all'istesso proposito di che si tratta. È
la sua intenzione di voler provare, che il candore nel disco lunare non dependa
dal reflesso de' raggi solari nella Terra, e dice “Se tal candore derivasse dal
reflesso della Terra, non si farebbe l'eclisse solare; ma l'eclisse si fa
adunque tal candore non procede dalla Terra”. Nell'assegnar poi la ragione,
perché l'eclisse non dovesse farsi stante tal candore nella Luna, dice che
ciò avverrebbe perché lo splendore o illuminazione di quello
rischiarerebbe le tenebre, che senza quello si troverebbero nel cono dell'ombra
lunare, e per esso in una parte della superficie terrestre. Ora, per tor via
l'operazione di tal candore, bisogna tor via l'istesso candore, e per
conseguenza, quando segue l'eclisse solare (la quale egli medesimo pure ammette
seguire, e tanto oscura quanto la profonda notte), dire che tal candore non vi
è: ma questo poi si tira dietro necessariamente il dovere affermare, che
l'etere ambiente la Luna non la incandisce, conseguenza del tutto contraria a
quella che il signor Liceti ha creduto e scritto. Ed aggiungo di più,
che se giammai può esser potente il reflesso dell'etere a ripercuotere i
raggi solari sopra l'emisferio della Luna, ciò farebbe egli
massimamente, per essere allora la Luna nella massima propinquità, anzi
nell'istessa puntuale congiunzione, col Sole; sì che da tutte le parti
dell'etere circunfuso si farebbe tal reflessione, e perciò validissima.
Il discorso dunque del Filosofo Eccellentissimo non meno toglie la posizione
mia che la sua, posto però che egli direttamente proceda; ma la
verità è che ei non perturba né la sua né la mia posizione, come
appresso dirò. Dico dunque, che può benissimo essere che si
faccia l'eclisse del Sole per l'interposizione della Luna, e che la oscurazione
sia tale che permetta il vedersi le stelle, e che il candore nella Luna vi sia,
e quanto più valido esser possa, senza però esser potente a
proibire tale eclisse, e che finalmente nessuno di questi particolari favorisca
o pregiudichi all'opinione tanto di chi lo attribuisce e giudica effetto del
reflesso del lume terrestre, quanto di chi lo attribuisce al reflesso
dell'etere ambiente la Luna. Imperoché già convenghiamo che il candore
vi sia nel tempo dell'eclisse solare; tal che se ei fusse potente a vietare
l'eclisse, tanto la vieterebbe derivando egli dalla Terra, quanto dall'etere
ambiente la Luna: ma il volerlo far poi così efficace, che ci possa
supplire al lume primario del Sole, sì che il cono dell'ombra lunare non
possa macchiare ed oscurare quella parte della superficie terrestre che il
medesimo cono ingombra, è veramente troppo gran domanda. Signore
eccellentissimo, quel lume che in tale occasione può scorgersi in Terra,
è un quarto, procedente dal primo dell'istesso Sole: il quale primo
illumina l'ambiente della Luna, e questo secondo illumina il disco lunare, il
quale come terzo, ha da illuminare la Terra onde il volere che questi, terzo
compensi il primo, è veramente, come ho detto, domanda troppo ardita. Il
dir poi che questo terzo lume, benché debile, accoppiato col massimo primario
non lo indebolisca, lo concederei io liberamente, quando tal copula si facesse:
ma la adombrazione che si fa in Terra è terminata e compresa dal cono
dell'ombra lunare, per il quale cono non passano i raggi solari, ma sì
bene quelli solamente del candore della Luna: sì che alla parte della
Terra ottenebrata e macchiata dall'ombra lunare niente vi arriva di splendido,
fuorché il reflesso del candore, cioè un reflesso di un altro reflesso
di un altro reflesso, derivante da i raggi primarii del Sole, dei quali nessuno
entra nel cono dell'ombra lunare a mescolarsi con quel lume tenuissimo che dal
candore della Luna per entro il suo cono si va diffondendo. Che poi il corpo
lunare densissimo, né sparso di maggior lume che quello del suo candore, possa
indurre tal eclisse nel Sole, che le diurne tenebre permettano la vista delle
stelle, non doverebbe molto favorire il discorso del signor Liceti mentre che
egli afferma, essersi anco nell'aperto cielo, e nella maggior limpidezza del
Sole, vedute stelle: e communemente non son elleno le costituzioni del
crepuscolo e dell'aurora, di lume benché tanto diminuito, che permettono
vedersi gran copia di stelle? E finalmente, chi dà tanta sicurtà
all'eccellentissimo signore che ei possa resolutamente pronunziare che nel
tempo della totale eclisse del Sole non si scorga il candor della Luna?
Bisognerebbe che ei producesse testimonii degni di fede, li quali deponessero
avere attentamente osservato e ricercato se tal candore si vegga, ed asserito
poi non si vedere; ma non so che egli potesse trovare una tal testimonianza: ma
ben più tosto, all'incontro, può essere che da alcuno vi sia
stato tal candore veduto, il quale, ignorando la vera cagione del reflesso
della Terra, abbia creduto, il corpo della Luna esser in parte trasparente ed
atto ad esser penetrato, ed in qualche modo illuminato, da i raggi solari. Ma
che tale trasparenza non sia nel globo lunare, ho io in altro luogo assai
concludentemente dimostrato, ed in particolare dal vedersi manifestissimamente,
scogli sopra la Luna, piccolissimi in comparazione di tutto il suo globo, spargere
ombre oscurissime; argumento necessariamente concludente, la materia lunare, né
anco di minima profondità, esser diafana. Se dunque è stato
veduto nella totale eclisse la Luna alquanto lucida, e perciò stimata
trasparente, questo non poteva derivare se non dal reflesso dell'emisferio
terrestre, dal Sole illuminato, del quale solo restando piccola parte
ottenebrata dal cono dell'ombra lunare, il rimanente, cioè la parte
grandissima, ben continuava di conservare il candore nella Luna. Quanto poi a
quello che il signor Liceti scrive, che un corpo lucido minore, congiunto con
un lucido maggiore, non impedisce la sua illuminazione; per dichiarazione di
che egli induce una fiaccola o una maggior famma ardente, copulata coi raggi
del Sole, o vero due specchi, nel minor dei quali, collocato nei raggi solari
da un altro maggiore siano reflessi i medesimi raggi, niente leva la
illuminazione alla vista; qui liberamente confesso la mia incapacità, e
duolmi assai di non poter cavare costrutto dal discorso che qui vien portato,
il quale stimo che sia pieno di ben salda dottrina, e duolmi di non poterne
esser partecipe: concederò bene il tutto, se però l'intenzione
dell'Autore è stata quella che io conietturalmente posso imaginarmi.
Dico adunque che
interamente presterò il mio assenso, che sopraggiungendo ad un gran lume
un lume minore, detrimento nessuno può ad esso maggiore sopravenire
dalla aggiunta del minore, tuttavolta che questo minore sia schietto e puro, e
non congiunto con qualche corpo opaco, il quale con la sua opacità sia
potente a impedire la strada per la quale viene il maggior lume. Mi dichiaro,
stando nei medesimi termini dei quali si tratta. Intendasi la Luna, corpo
densissimo, tenebroso per sé stesso e niente trasparente, esser interposta tra
il Sole e la Terra: qui non è dubbio alcuno che ella all'opposito del
Sole distenderà verso la Terra il cono della sua ombra, macchiando di
tenebre tutta quella parte della terrestre superficie che resterà
compresa dentro il cono dell'ombra lunare; e se altronde non gli sopraggiugne
qualche altra illuminazione, tal macchia sarà oscurissima. Intendasi ora
sopraggiugnere nella faccia della Luna, esposta alla vista della Terra, un tal
qual si sia lume: se questo sarà potente quanto il lume dell'istesso
Sole, senza dubbio caccierà le tenebre, e ridurrà tutto
l'emisferio terrestre egualmente in ciascuna sua parte illuminato; ma se il
sopravenente lume nella Luna sarà debole e quale è il suo candore
in comparazione dell'istesso Sole qual lume potrà egli arrecare alla macchia
scura cagionatavi dal corpo opacissimo di essa Luna? certo che molto piccolo. E
quello che il signor Liceti dice del lume reflesso da uno specchio maggiore in
un minore e da questo minore in un altro oggetto illuminato da' primarii raggi
del Sole, e che questo lume reflesso non impedisca l'illuminazione del Sole,
ciò sarebbe vero, quando questo minore specchio fusse non di materia
densa ed opaca, sì che potesse, col proibire il transito a i raggi
solari, produrre ombra, ma di un cristallo limpidissimo e trasparentissimo; ma
quando fusse tale, né si illuminerebbe, né farebbe reflessione de' raggi che
altronde gli sopraggiugnessero e lo ferissero. Per esser dunque il corpo lunare
impenetrabilissimo da i raggi del Sole, produce ombra oscurissima in Terra, la
quale viene, ma molto debilmente, diminuita dall'opposto nostro lunar candore.
Segue
l'argumento tolto dall'apparizione di Venere di giorno, nelle seguenti parole:
“Deinceps, quum Solis vicinia nihil impediat” etc.; e continuando pur
nell'instituto di voler dimostrare che il candor della Luna non depende dal
reflesso della Terra, premette le seguenti proposizioni. Prima, che il lume di
Venere è tanto vivo, che la vicinanza del Sole, anco di mezo giorno, non
l'offusca sì che vedere non la possiamo; anzi pure si scorge ella
splendida, benché minore di quello che ella si mostra nelle tenebre della
notte. Pone l'altra proposizione, la quale è che io affermo, la Terra
non venire illustrata dal Sole manco che qualsivoglia pianeta, ed in
conseguenza non meno che Venere. Aggiugne la terza proposizione, pur da me
creduta e concessa, la quale è che il reflesso del lume terrestre sopra
la Luna sia più illustre di quello che la Terra riceve dalla Luna. Le
quali premesse io liberamente concedo tutte, ma non so poi dedurne la
conclusione che il mio oppositore ne cava; cioè che da tali premesse ne
segua in conseguenza, che la Luna prossima alla congiunzione del Sole dovesse,
non meno che Venere, mostrarsi splendida nel mezo giorno. Io, per me, dalle due
prime premesse, cioè dall'esser la Terra non meno illustrata dal Sole
che Venere, e dal vedersi Venere di giorno, non saprei dedurne altri, se non
che la Terra, non meno che Venere, dovrebbe esser visibile di giorno;
conseguenza tanto vera, che non credo che alcuno vi ponga dubbio, ed io
più d'ogni altro l'affermo. Dall'esser poi il reflesso del lume
terrestre più gagliardo sopra la Luna che quel della Luna sopra la
Terra, non capisco come ne debba seguire che il candor della Luna debba essere
non inferiore allo splendore di Venere, procedente dall'illuminazione dei raggi
primarii e diretti del Sole; e se tal consequenza dovesse aver luogo contro di
me, converrebbe che il mio oppositore facesse constare che io avessi creduto e
scritto che lo splendore della Terra fusse eguale allo splendore dell'istesso
Sole, cosa che io giammai non ho detta, né pur pensata. Restano dunque
verissime le premesse da me concedute, come vera anco la consequenza che da
quelle direttamente si può dedurre, cioè che lo splendore di Venere
è tanto superiore al candor della Luna, quanto i vivi e primarii raggi
solari sono più illustri che i reflessi dalla superficie terrestre. E
qui se alcuno logico volesse ridurre questo argumento in forma sillogistica,
dubito che non pure ei incontrerebbe il quarto termine, ma anco il quinto.
Imperoché né della Terra, come causa illuminante, né del candor della Luna,
come effetto della illuminazione della Terra, niente si è parlato nele
premesse; onde il dedurre che la Luna incandita dalla Terra dovesse vedersi di
giorno, è conclusione sospesa in aria e che nulla ha da fare con la
illuminazione del Sole sopra Venere e la Terra e con l'esser rese per
ciò visibili di mezo giorno. In troppo oscura maniera veramente si
deduce che la Luna, incandita dalla Terra, debba vedersi di mezo giorno ex
quod Venere, illustrata dal Sole, di mezo giorno si scorge.
Passiamo
all'altra seguente obiezione: “Amplius, in eclipsi lunari nullam, prorsus” etc.
Quanto egli qui dice, gli concedo, cioè che nell'eclisse totale della
Luna ella non riceva illuminazione alcuna dalla Terra, nella cui ombra ella
resta immersa, né tampoco goda de i raggi diretti del Sole, i quali nel cono
dell'ombra terrestre non penetrano; e finalmente gli concedo che il reflesso
dell'etere ambiente la Luna gli porge quel poco di rossigno che la rende
visibile, spezialmente in quella parte del suo limbo che è l'ultima a
restar coperta dal cono dell'ombra terrestre: ma tutto questo, niente veggo che
debiliti il mio detto, che il candore della Luna venga dalla Terra. Parmi bene
di scorgere che il mio oppositore accortanmnte cerchi di imprimere nella mente
del lettore, che lo abbia largamente conceduto, il medesimo candore essere
effetto dell'etere ambiente la Luna, il che manifestamente apparisca mentre che
nell'eclisse lunare, mancando il reflesso della Terra, e l'illuminazione de i
raggi dlretti del Sole io ammetto quel tenue splendore bronzino che in parte
della Luna si scorge; e perché questo è sommamente inferiore al candore
argenteo nel novilunio, vorrebbe farlo diminuito ed in gran parte ammorzato dal
dover passare egli per il cono dell'ombra terrestre: il quale effetto io
asseverantemente dico esser vano e falso atteso che la illuminazione di un
corpo splendido che va ad illustrare un corpo opaco, niente perde nel dover passare
per un mezo diafano quanto si voglia sparso di tenebre; anzi le medesime
tenebre faranno apparire più vivamente il ricevuto lume, cosa tanto
chiara e nota che assai mi maraviglio di sentirla passare come ignota o non
avvertita: ché ben sa il medesimo signor Liceti che tutti i lumi celesti che a
noi si fanno visibili e spargono di qualche luce l'emisferio terrestre nella
profonda notte, passano per il medesimo cono dell'ombra terrestre, e da quello
acquistano vigore di maggiormente illuminarci e farcisi visibili. Concedesi
dunque, la tintura di rame derivare dall'etere ambiente la Luna: dove anco non
mi par necessario di porre nel corpo lunare quel tenue lume nativo, da
mescolarsi come stima il signor Liceti con questo reflesso dell'ambiente.
Imperoché, se quello vi fosse, nel mezo della massima eclisse, quando il centro
della Luna cade nell'asse del cono dell'ombra, pure resterebbe essa Luna in
qualche modo visibile mercé del suo proprio nativo lume: tuttavia io e molti
altri insieme abbiamo del tutto perduto di vista il disco lunare in più
di una delle totali eclissi.
Vengo finalmente
all'ultima instanza: “Denique, nec illud omittam data positiones” etc.
Continuando il signor Filosofo in volere in ogni maniera scuoprire
l'impossibilità della mia opinione, s'ingegna di dimostrare come il
reflesso della faccia terrestre in nessuna maniera può arrivare alla
Luna; e per ciò dimostrare, introduce molte proposizioni da non esser da
me così di leggiero concedute. E cominciando da questo capo, certo
mirabil cosa è che i caldissimi e lucidissimi raggi solari, reflessi
dalla Terra, e più incontrandosi ed unendosi con i primarii incidenti,
come l'istesso signor Liceti afferma, non siano potenti a valicare la grossezza
della media regione dell'aria ad essa vicinissima, ammortiti dalla
frigidità di quella, la qual grossezza non arriva alla lunghezza di un
miglio; e che poi i reflessi dalla Luna, distante dalla medesima media regione
fredda assai più di cento mila miglia, ed anco soli e non accompagnati
dai diretti raggi solari siano potenti a mantenersi così lucidi e caldi,
che trapassando per quella abbiano forza di riscaldare l'aria contigua alla
Terra ed al mare, per il qual calore le conchiglie testate, fomentate dal caldo
dell'ambiente, possano più pienamente nutrirsi ed ingrassarsi. Ma che
dallo ingrassamento di questi animali si possa argumentare augumento di calore
nell'ambiente che li circonda, parmi, se io non erro, che con altrettanta o
più ragione se ne potrebbe inferire accrescimento di freddezza, mentre
che generalmente si scorge in tutti gli altri animail far miglior digestione, e
più copiosamente cibarsi ed ingrassarsi nell'arie freddissime che nelle
tiepide o calde: per lo che si può inferire, la grand'illuminazione
della Luna nel plenilunio accrescere appresso di noi più tosto la
frigidità che il calore, e tanto più, che è tritissima e
popolare osservazione, ne i tempi che l'acque si congelano farsi i ghiacci
notabilmente maggiori nelle notti del plenilunio, che quando il lume della Luna
è diminuito. Ma ben so io che quello augumento di calore interno
dell'animale, che il signor Liceti riconosce dall'accoppiamento del calore
esterno dell'ambiente, qualche altro filosofo non meno confidentemente lo
attribuirebbe al maggior freddo dell'ambiente, il quale per antiperistasi
facesse concentrare il nativo calore interno.
Né devo qui
tacere un'altra meraviglia non minore, che pure in questa maniera di filosofare
si esercita; ed è che talvolta si assegnano per produrre il medesimo
effetto cause tra loro diametralmente contrarie, né meno in altre occasioni si
pone la medesima causa produrre effetti contrarii. Quanto al primo caso, ecco
dell'istessa più forte digestione addursi per causa da alcuni il caldo
dell'ambiente, e da altri il freddo. Quanto all'altro caso, il signor Liceti
afferma qui, il medesimo lume di Luna esser caldo il quale in altro luogo
asserì esser freddo, come si legge nelle seguenti parole poste nel libro
De novis astris et cometis, alla faccia 127, versi 7: “Quin et lumen
lunare nullo calore pollere, sed frigiditatem invehere, quilibet experitur.” Né
forse è minor la contrarietà che il medesimo signore pone nel
mezo ombroso, o vogliamo dire nel cono dell'ombra terrestre; il quale egli non
nega che talvolta molto più splendidi ci mostri gli oggetti luminosi,
mentre il lume loro deve trapassare per esso; ed altra volta pronunzia, il
medesimo cono, mescolandosi con quel tenue lume della Luna prodotto dal suo
etere ambiente e congiunto col suo nativo, l'offusca e rende men chiaro. E qui
si scorge la sicurezza del puro fisico argumentare, poiché egualmente si adatta
a render ragione di uno effetto tanto per una causa naturale, quanto per la
contraria. Oltre a ciò, non veggo con qual confidenza possino gli
accuratissimi signori filosofi fare il cielo e i corpi celesti soggetti a
qualità ed accidenti di caldo e di freddo, mentre gli predicano per
impassibili, inalterabili ed esenti da queste qualità elementari,
sì che, partendosi i raggi dal corpo lunare, che pure è celeste,
possano esser caldi e tali mantenersi nel trapassare quella parte del cielo
della Luna che termina sopra la sfera elementare, e quindi ancora scorrere per
il fuoco e per tutta la più alta regione dell'aria, e passare ancora di
più la media freddissima, conservandosi sempre caldi: e che poi,
all'incontro, il reflesso della Terra, la quale pur troppo sensatamente
sentiamo riscaldarsi e quasi direi infiammarsi nel più ardente sole
dell'estate, non esser bastante a trapassare la a sé vicinissima media regione,
la cui sublimità, come ho detto, non arriva a un miglio di spazio,
sì come il breve intervallo di tempo che tra il lampo del baleno ed il
romor del tuono intercede, sicuramente ci insegna: oltre che, se si deve
prestar fede a gli istorici, né le piogge, né le nevi, né le grandini, né i lampi,
né i tuoni, né i fulmini, si fanno in maggior lontananza, mentre si dice,
constare per la esperienzia, esser monti tanto eminenti, che la loro più
eccelsa parte non è giammai offesa dai nominati insulti; e bene molto
alto conviene che sia quel monte la cui perpendicolare altezza sia più
di un miglio. Lascio stare che frequentemente si vede che dalla eminenza delle
nostre più alte montagne si scorgono le pianure suggette, ed anco le
minori colline, ricoperte da nuvole, sì che tal vista sembra quasi un mare
nel quale in qua ed in là si scorgano surgere, quasi scogli, vertici di
altri mediocri monticelli; ed in questa constituzione di nuvole cade talvolta
la pioggia nelle pianure più basse.
Parmi, oltre di
questo, di raccorre dal discorso del mio oppositore, che egli voglia mandar di
pari lo scaldare e l'illuminare, sì che dove non arrivi il calore del
corpo caldo e lucido, non vi deva anco arrivare l'illluminazione, e che
però, non sendo possente il caldo che noi proviamo grandissimo nella
Terra illuminata e riscaldata dal Sole, a varcare la fredda regione vaporosa
dell'aria, né meno ciò possa fare il lume dalla medesima Terra reflesso.
Tuttavia, se noi vorremo prestar fede al senso ed alla esperienza, troveremo
che il lume di una grandissina fiamma di quantità grande di paglia o di
sterpi che sopra una montagna abbruci, si distenderà ed arriverà
a noi constituti in molto maggior lontananza di quella nella quale il caldo di
essa fiamma ci si facesse sentire. Ma che accade che, per assicurarci del poter
esser la strada del caldo differente da quella del lume, ricorriamo a fiamme
poste sopra montagne, o ad altre esperienze più incommode a farsi?
Accosti chi si voglia il dito così per fianco alla fammella di una
candela accesa; certo non sentirà offendersi dal caldo, sinché per un
brevissimo spazio non se gli accosta e che poco meno che non la tocchi: ma, per
l'opposito, esponga la mano sopra la medesima fiammella; sentirà
l'offesa del caldo in distanza ben cento volte maggiore di quell'altra per
fianco: tuttavia l'illuminazione che dalla medesima fiammella deriva, per tutti
i versi si diffonde, cioè in su, in giù, lateralmente, ed in
somma per tutto, ed in lontananza più di cento mila volte maggiore,
sfericamente si distende.
Parmi per tanto
di poter sicuramente dire che lo scaldare e l'illuminare non vadiano del tutto
con pari passo: ma ben credo di poter con sicurezza affermare, che l'illuminare
ed il muover la vista vadano talmente congiunti, che dovunque arrivi il lume,
di quivi si renda il corpo luminoso visibile; di maniera che il muovere il
senso della vista, altro non sia che illuminare la pupilla dell'occhio, alla
quale quando non pervenisse il lume, l'oggetto lontano, benché luminoso, veder
non si potrebbe. Quando dunque conforme a quello che scrive il signor Liceti,
il reflesso del lume terrestre, come quello che, per suo detto, va di pari col
calore, non si estendesse oltre alla media regione dell'aria, resterebbe in
conseguenza la Terra invisibile dall'occhio posto oltre alla detta media
regione, come che quivi non arrivasse il lume, che solo è potente a fare
il corpo luminoso visibile; ed in oltre parte alcuna della Terra non verrebbe
da noi veduta la quale più di un miglio o due ci fusse remota, ché oltre
a tale altezza non si estende la grossezza della media regione dell'aria. Ma io
difficilmente potrei accomodar l'intelletto al prestar assenso a una tal
proposizione e massime mentre che il senso mi rende visibili pur piccole parti
della Terra illuminata in lontananza di più di cento miglia, avvenga che
da un luogo molto alto si scorgeranno altre montagne ed isole non meno che
cento miglia lontane; e la Corsica e talora la Sardigna ben si veggono dai
colli intorno a Pisa, e più distintamente ancora dalli scogli
eminentissimi di Pietrapana; e da i monti della Romagna ben si scorgono, oltre
al sino Adriatico, quelli della Dalmazia. E sì come noi qui di Terra
vegghiamo la Luna luminosa così tengo per modo sicuro che dalla Luna e
grandissima e luminosissima si scorgerebbe la Terra, in quella parte dai raggi
solari illustrata, ed in conseguenza che la medesima Luna da essa Terra
verrebbe illuminata.
Ma passo ad una
proposizione forse molto a proposito per il mantenimento della mia opinione, e
per la quale nel medesimo tempo si scorga, non piccola esser la differenza tra
l'illuminazione ed il riscaldamento dei raggi solari. E prima, l'illuminazione
si fa in un istante; ma il riscaldare non così, ma ci vuol tempo e non
breve: e parimente, all'incontro, si toglie via l'illuminazione in un istante:
ma non si estingue il conceputo caldo se non con tempo. Non molta si ricerca
che sia la densità della materia per potere essere egualmente illuminata
come qual si voglia densissima; onde veggiamo bene spesso tenui nugole non meno
vivamente illuninate da i raggi solari, che se fussero vastissime montagne di
solidi marmi; e bene possiamo noi chiamar piccola la densità di tali
nugole in rispetto a quella di una montagna di marmi, ancorché la medesima
densità sia molto grande in comparazione di quella dell'aria vaporosa,
mentre che la medesima nugola, se fusse interposta tra il Sole e noi, ci
torrebbe la vista di esso, cosa che non la fa l'aria vaporosa. Ma,
all'incontro, quanto al concepire il caldo, massima si trova la differenza tra
le materie di diversa densità; ché molto più si scaldano i densi
metalli e le pietre, che il men denso legno o altre materie più rare.
L'illuminazione, oltre al farsi in instanti, si estende per intervallo
dirò quasi che infinito, ché ben tale si può chiamare quello delle
innumerabili piccolissime stelle fisse, le quali, essendo dalla vista nostra
libera impercettibili, pur visibili si rendono con l'aiuto del telescopio;
argumento necessario che l'illuminazione di quelle sino a Terra si conduce, ché
se ciò non fusse vero, tutti i cristalli del mondo visibile non le
renderebbono: non so poi se il caldo loro in altrettanta lontananza così
sensibile possa rendersi. Non piccola dunque è la differenza tra
l'illuminare e lo scaldare: tuttavia amendue tali impressioni non si vede che
possano essere ricevute se non in materie, come si è detto, che
ritengano qualche densità: ché le tenuissime, rarissime e diafanissime,
quali si tiene che siano l'aria pura e l'etere purissimo, veramente non si
illuminano né si riscaldano, effetto che anco dalla esperienza ci può
esser dimostrato, ancorché far nulla possiamo né nel purissimo etere né
nell'aria schietta e sincera, avvengaché nella mista e turbata da i vapori
continuamente ci ritroviamo. Tuttavia in questa ancora gli effetti dello
illuminarsi e scaldarsi non si veggono esser se non debolissimi, come
chiaramente ci mostrano i raggi solari dal sopradetto grande specchio concavo
ripercossi, i quali né illuminano né scaldano l'aria compresa dal cono, come di
sopra si è dichiarato. Che poi né l'aria pura né il purissimo etere si
iiluminino, ce lo mostrano le profonde notti: imperoché, non restando di tutto
l'elemento dell'aria altro non tocco dal Sole che la piccola parte compresa
dentro al cono dell'ombra della Terra, e talvolta qualche altra minor
particella ingombrata dalle ultime parti del cono dell'ombra lunare,
sicuramente quando tutto il restante fusse illuminato, averemmo un perpetuo
crepuscolo, e non mai profonde tenebre.
Concludo per
tanto, che non si imprimendo il caldo, mercé de' raggi solari, se non in materie
solide, dense ed opache, o che almeno partecipino tanto di densità che
non diano il transito totalmente libero ai medesimi raggi solari, il caldo che
noi proviamo è quello che la Terra e gli altri corpi solidi riscaldati
ci somministrano; il qual calore può esser che non si elevi tanto sopra
la Terra che possa tor via la freddezza di quella regione vaporosa nella quale
si generano le pioggie, le nevi e le altre meteorologiche impressioni.
Può dunque il calore del reflesso de' raggi solari nella Terra non
transcendere la media regione vaporosa e fredda, ma ben l'illuminazione
trapassar questa ed arrivare sino alla Luna, e per distanza anco molte e molte
volte maggiore.
Oltre che, se io
devo liberamente confessare la mia poca scienza fisica, dirò di non sapere
né intender punto come tali impressioni si faccino; e quando io mi ristringo in
me medesimo per vedere se io potessi penetrarne alcuna, mi ritrovo in una
immensa oscurità e confusione. Io non ho mai inteso, né credo di esser
per intendere, in qual maniera, doppo essere stati mesi e mesi senza pur
vedersi una nuvola, possa improvvisamente in brevissimo tempo spargersene sopra
un gran tratto di terra, e quindi precipitosamente cadervi milioni di barili di
acqua; ed altra volta comparire altre simili nugole, e poco dopo dissolversi
senza diffondere una minima stilla. Che io intenda per fisica scienza come tra
le tenui e molli nuvole si produchino suoni e strepiti così immensi
quanto sono i tuoni, mentre che il filosofo vuol che io creda, alla produzion
del suono esser necessaria la collisione de' corpi solidi e duri, absit
che io ne possa restar capace. Ma per non entrare in un pelago infinito di
problemi a me insolubili, voglio far qui fine, senza però tacere la
veramente ingegnosa comparazione che lo eruditissimo signor Liceti,
dirò, con leggiadro scherzo poetico, pone tra la Luna e la pietra
lucifera di Bologna; cioè che essa Luna, immergendosi nell'ombra della
Terra, conservi per qualche tempo la tenue luce imbevuta o dal Sole o
dall'etere suo ambiente, la qual luce svanisca dopo qualche dimora nell'ombra.
Io veramente ammetterei questo pensiero, se non ni conturbasse la diversa
maniera che tengono nel recuperare la luce smarrita e la Luna e la pietra:
imperocché la Luna nello allontanarsi dal mezo del cono dell'ombra comincia a
recuperare quello smarrito lume molto prima che ella scappi fuori dell'ombra e
torni a godere di quel maggior lume dal quale ella fu ingravidata; effetto che
non così accade nella pietra, alla quale per concepire il lume non basta
l'avvicinarsi a quel maggior lume che ha da illustrarla, ma le bisogna per
assai spazio di tempo soggiacergli, e così concepire la luce, da
conservarsi poi per altro breve tempo nelle tenebre.
Circa quello che
in ultimo soggiugne, del farsi l'ombre maggiori dal Sole basso che dall'alto,
non ho che dirci altro se non che mi pare che egli altra volta negasse cotale
efetto, ma che pure, benché falso, stimava di poterne render ragione non meno
che se fusse vero, come egli con assai lunga ed accurata scrittura fece. E qui
parimente si scorge la gran fecondia delle fisiche dimostrazioni, delle quali
non ne mancano per dimostrare tanto le conclusioni vere quanto le false. Ma nel
presente caso, se le ragioni addotte son concludenti, è necessario che
la conclusione sia vera: e se è vera, perché negarla o metterla in
dubbio? e se le ragioni prodotte non son concludenti, perché produrle?
So, Serenissimo
Principe, che troppo averò tediata l'Altezza Vostra con questo mio lungo
discorso; ma il suo benigno invito, e la necessità che avevo di
sincerarmi appresso il mondo e purgarmi dalle imputazioni attribuitemi da
questo famoso filosofo, mi hanno porto libertà di fare quello che ho
fatto. E se bene il signor Liceti publicando con le stampe, ha contro di me parlato
con tutto il mondo, voglio che a me basti il portar le mie difese nel cospetto
solo dell'Altezza Vostra Serenissima, il cui assenso agguaglio a quello di
tutto il mondo; benché io non possa negare che riceverei anche per mia gran
ventura se le fussero sentite o lette da i filosofi e letterati di cotesta
fioritissima Accademia, da i quali spererei aver assenso ed applauso alle mie
giustificazioni, poiché esse non procedono contro alla peripatetica filosofia,
ma contro ad alcuno di quelli i quali la filosofia e la aristotelica
autorità oltre a i limitati termini vogliono estenderla, e con essa
farsi scudo contro alle opposizioni di qualsivoglia altro che pur
razionabilmente discorra. Del guadagnarmi poi l'assenso di tutti i filosofi di
cotesta Accademia, gran caparra me ne porge l'eccellentissimo signor Alessandro
Marsilii, della cui graziosissima conversazione ho, non molti anni sono, goduto
per cinque mesi continui che mi trovai in Siena in casa l'illustrissimo e
reverendissimo Monsignore Arcivescovo Piccolomini, dove giornalmente avemmo
discorsi filosofici. Questo signore in particolare nomino io all'Altezza Vostra
Serenissima per la lunga pratica che ho avuta con Sua Signoria eccellentissima;
e come da questo mi prometto l'assenso, così me lo prometto da ogni altro
che con occhio sincero vorrà riguardare le imputazioni fattemi e le mie
difese. E qui umilmente inchinandomeli, le bacio la veste, e le prego da Dio il
colmo di ogni felicità.
Di Arcetri
l'ultimo di Marzo 1640.
Dell'Altezza
Vostra Serenissima
Umilissimo e Devotissimo
Servitore
Galileo Galilei
APPENDICE
SENTENZA
“Roma, 22 giugno 1633.
Noi Gasparo del tit. di S.Croce in Gerusalemme Borgia;
Fra Felice Centino del tit. di S.Anastasia, detto d'Ascoli;
Guido del tit. di S.Maria del Popolo Bentivoglio;
Fra Desiderio Scaglia del tit. di S. Carlo, detto di Cremona;
Fra Ant.o Barberino. Detto di S.Onofrio;
Laudivio Zacchia del tit. di S.Pietro in Vincoli, detto di S.Sisto;
Berlingero del tit. di S. Agostino Gesso;
Fabricio del tit. di S.Lorenzo in Pane e Perna Verospio: chiamati Preti;
Francesco del tit. di S.Lorenzo in Damaso Barberino; e
Marzio di S.ta Maria Nova Ginetto: Diaconi;
per la misericordia di Dio, della S.ta Romana Chiesa Cardinali, in tutta la
Republica Cristiana contro l'eretica pravità Inquisitori generali della
S.Sede Apostolica specialmente deputati;
Essendo che tu,
Galileo fig.lo del q.m. Vinc.o Galilei, Fiorentino, dell'età tua d'anni
70, fosti denunziato del
Volendo per
ciò questo S.cro Tribunale provedere al disordine e al danno che di qui
proveniva e andava crescendosi con pregiudizio della S.ta Fede, d'ordine di N.
S.re e del'Eminen.mi e Rev.mi SS.ri Card.i di questa Suprema e Universale
Inq.ne, furono dalli Qualificatori Teologi qualificate le due proposizioni
della stabilità del Sole e del moto della Terra, cioè:
Che il Sole sia
centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e
falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria
alla Sacra Scrittura;
Che la Terra non
sia centro del mondo né imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno,
è parimente proposizione assurda e falsa nella filosofia, e considerata
in teologia ad minus erronea in Fide.
Ma volendosi per
allora procedere teco con benignità, fu decretato dalla Sacra Congre.ne
tenuta avanti N.S. a' 25 di Febr.o 1616, che l'Emin.mo S. Card. Bellarmino ti
ordinasse che tu dovessi omninamente lasciar detta opinione falsa, e ricusando
tu di ciò fare, che dal Comissario di S. Off.io ti dovesse esser fatto
precetto di lasciar la detta dotrina, e che non potessi insegnarla ad altri, né
difenderla né trattarne, al qual precetto non acquietandoti, dovessi esser
carcerato; e in essecuzione dell'istesso decreto, il giorno seguente, nel
palazzo e alla presenza del sodetto Eminen.mo S.r Card.le Bellarmino, dopo
esser stato dall'istesso S.r Card.le benignamente avvisato e amonito, ti fu dal
P. Comissario del S. Off.o di quel tempo fatto precetto, con notaro e
testimoni, che omninamente dovessi lasciar la detta falsa opinione, e che
nell'avvenire tu non la potessi tenere né difendere né insegnar in qualsivoglia
modo, né in voce né in scritto: e avendo tu promesso d'obedire, fosti
licenziato.
E acciò
che si togliesse così perniciosa dottrina, e non andasse più
oltre serpendo in grave pregiudizio della Cattolica verità, uscì
decreto della Sacra Congr.ne dell'Indice, col quale furono proibiti li libri
che trattano di tal dottrina, e essa dichiarata falsa e omninamente contraria
alla Sacra e divina Scrittura.
E essendo
ultimamente comparso qua un libro, stampato in Fiorenza l'anno prossimo
passato, la cui inscrizione mostrava che tu ne fosse l'autore, dicendo il
titolo Dialogo di Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo,
Tolemaico e Copernicano; ed informata appresso la Sacra Congre.ne che con
l'impressione di detto libro ogni giorno più prendeva piede e si
disseminava la falsa opinione del moto della terra e stabilità del Sole;
fu il detto libro diligentemente considerato, e in esso trovata espressamente
la transgressione del predetto precetto che ti fu fatto, avendo tu nel medesimo
libro difesa la detta opinione già dannata e in faccia tua per tale
dichiarata, avvenga che tu in detto libro con varii ragiri ti studii di
persuadere che tu lasci come indecisa e espressamente probabile, il che pur
è errore gravissimo, non potendo in niun modo esser probabile
un'opinione dichiarata e difinita per contraria alla Scrittura divina.
Che
perciò d'ordine nostro fosti chiamato a questo S. Off.o, nel quale col
tuo giuramento, essaminato, riconoscesti il libro come da te composto e dato
alle stampe. Confessasti che, diece o dodici anni sono incirca, dopo esserti
fatto il precetto come sopra, cominciasti a scriver detto libro; che chiedesti
la facoltà di stamparlo, senza però significare a quelli che ti
diedero simile facoltà, che tu avevi precetto di non tenere, difendere
né insegnare in qualsivoglia modo tal dottrina.
Confessasti
parimente che la scrittura di detto libro è in più luoghi distesa
in tal forma, ch'il lettore potrebbe formar concetto che gl'argomenti portati
per la parte falsa fossero in tal guisa pronunziati, che più tosto per
la loro efficacia fossero potenti a stringer che facili ad esser sciolti; scusandoti
d'esser incorso in error tanto alieno, come dicesti, dalla tua intenzione, per
aver scritto in dialogo, e per la natural compiacenza che ciascuno ha delle
proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gl'uomini
in trovar, anco per le proposizioni false, ingegnosi e apparenti discorsi di
probabilità.
E essendoti
stato assegnato termine conveniente a far le tue difese, producesti una fede
scritta di mano dell'emin.mo S.r Card.le Bellarmino, da te procurata, come
dicesti, per difenderti dalle calunnie de' tuoi nemici, da' quali ti veniva
opposto che avessi abiurato e fossi stato penitenziato, ma che ti era solo
stata denunziata la dichiarazione fatta da N. S.e e publicata dalla Sacra
Congre.ne dell'Indice, nella quale si contiene la dottrina del moto della terra
e della stabilità del sole sia contraria alle Sacre Scritture, e
però non si possa né difendere né tenere; e che perciò, non si
facendo menzione in detta fede delle due particole del precetto, cioè docere
e quovis modo, si deve credere che nel corso di 14 o 16 anni n'avevi
perso ogni memoria, e che per questa stessa cagione avevi taciuto il precetto
quando chiedesti licenza di poter dare il libro alle stampe, e che tutto questo
dicevi non per scusar l'errore, ma perché sia attribuito non a malizia ma a
vana ambizione. Ma da detta fede, prodotta da te in tua difesa, restasti
maggiormente aggravato, mentre, dicendosi in essa che detta opinione è
contraria alla Sacra Scrittura, hai non meno ardito di trattarne, di difenderla
e persuaderla probabile; né ti suffraga la licenza da te artifiziosamente e
calidamente estorta, non avendo notificato il precetto ch'avevi.
E parendo a noi
che tu non avessi detto intieramente la verità circa la tua intenzione,
giudicassimo esser necessario venir contro di te al rigoroso essame; nel quale
senza però pregiudizio alcuno delle cose da te confessate e contro di te
dedotte come di sopra circa la detta tua intenzione, rispondesti
cattolicamente.
Pertanto, visti
e maturamente considerati i meriti di questa tua causa, con le sodette tue
confessioni e scuse e quanto di ragione si doveva vedere e considerare, siamo
venuti contro di te alla infrascritta diffinitiva sentenza.
Invocato dunque
il S.mo nome di N. S.re Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre
Vergine Maria; per questa nostra diffinitiva sentenza, qual sedendo pro
tribunali, di consiglio e parere de' RR Maestri di Sacra Teologia e Dottori
dell'una e dell'altra legge, nostri consultori, proferimo in questi scritti
nella causa e nelle cause vertenti avanti di noi tra il M.co Carlo Sinceri,
dell'una e dell'altra legge Dottore, Procuratore fiscale di questo S.o Off.o,
per una parte, a te Galileo Galilei antedetto, reo qua presente, inquisito,
processato e confesso come sopra, dall'altra;
Diciamo,
pronunziamo sentenziamo e dichiaramo che tu, Galileo sudetto, per le cose
dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S.o
Off.o veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto
dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch'il sole sia centro
della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova
e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile
un'opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra
Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri
canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti
imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima,
con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li
sudetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla
Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma da noi ti sarà data.
E acciocché
questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto
impunito, e sii più cauto nell'avvenire e essempio all'altri che si
astenghino da simili delitti. Ordiniamo che per publico editto sia proibito il
libro de' Dialoghi di Galileo Galilei.
Ti condaniamo al
carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze
salutari t'imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li
sette Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare o
levar in tutto o parte, le sodette pene e penitenze.
E così
diciamo, pronunziamo, sentenziamo, dichiariamo, ordiniamo e reservamo in questo
e in ogni altro meglior modo e forma che di ragione potemo e dovemo.
Ita pronun.mus nos Cardinales infrascripti:
F. Cardinalis de Asculo.
G. Cardinalis Bentivolus.
Fr. D. Cardinalis de Cremona.
Fr. Ant.s Cardinalis S. Honuphrii
B. Cardinalis
Gipsius.
F. Cardinalis
Verospius.
M. Cardinalis
Ginettus.
ABIURA
Io Galileo,
fig.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto
personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi
Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità
generali Inquisitori; avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali
tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con
l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e
insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.io,
per aver io, dopo d'essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente
intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia
centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia il centro del mondo
e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in
qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo
d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra
Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa
dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di
essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente
sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro
del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova;
Pertanto volendo
io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa
veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non
finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente
ogni e qualunque altro errore, e eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e
giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in
voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simile
sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo
denonzierò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del
luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e
prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono
state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle
dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte
le pene e castighi che sono da' sacri canoni e altre constituzioni generali e
particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio
m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani,
Io Galileo
Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e
in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia
abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della
Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo
Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.