HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Galileo Galilei
IL SAGGIATORE
NEL QUALE
CON BILANCIA
ESQUISITA E GIUSTA
SI PONDERANO LE
COSE CONTENUTE
NELLA LIBRA
ASTRONOMICA E FILOSOFICA
DI
LOTARIO SARSI
SIGENSANO
SCRITTO
IN FORMA DI
LETTERA
ALL'ILLUSTRISSIMO
E REVERENDISSIMO
MONSIG.
D. VIRGINIO
CESARINI
ACCADEMICO
LINCEO
MAESTRO DI
CAMERA DI N. S.
DAL SIGNOR
GALILEO GALILEI
ACCADEMICO
LINCEO NOBILE FIORENTINO
FILOSOFO E
MATEMATICO PRIMARIO
DEL
SERENISSIMO
GRAN DUCA DI
TOSCANA
ALLA
SANTITÀ DI N. S.
PAPA URBANO
OTTAVO
In questo universal giubilo delle buone
lettere, anzi dell'istessa virtù, mentre la Città tutta, e
spezialmente la Santa Sede, più che mai risplende per esservi la
Santità Vostra da celeste e divina disposizione collocata, e non vi
è mente alcuna che non s'accenda a lodevoli studi ed a degne operazioni
per venerare, imitando, essempio sì eminente, vegniamo noi a comparirle
davanti, carichi d'infiniti oblighi per li benefizii sempre dalla sua benigna
mano ricevuti, e pieni di contento e d'allegrezza per vedere in così
sublime seggio un tanto padrone essaltato. Portiamo, per saggio della nostra
divozione e per tributo della nostra vera servitù, il Saggiatore del
nostro Galilei, del Fiorentino scopritore non di nuove terre, ma di non
più vedute parti del cielo. Questo contiene investigazioni di quegli
splendori celesti, che maggior maraviglia sogliono apportare. Lo dedichiamo e
doniamo alla Santità Vostra, come a quella c'ha l'anima di veri
ornamenti e splendori ripiena, e c'ha ad altissime imprese l'eroica mente
rivolta; desiderando che questo ragionamento d'inusitate faci del cielo sia a
lei segno di quel più vivo ed ardente affetto che è in noi, di
servire e di meritare la grazia di Vostra Santità. Ai cui piedi intanto
umilmente inchinandoci, la supplichiamo a mantener favoriti i nostri studi co'
cortesi raggi e vigoroso calore della sua benignissima protezione.
Di Roma, li 20 di Ottobre 1623.
Della Santità Vostra
Umilissimi ed Obligatissimi Servi
GLI ACCADEMICI LINCEI
IL SAGGIATORE
DEL SIGNOR
GALILEO GALILEI
ACCADEMICO LINCEO, FILOSOFO E
MATEMATICO PRIMARIO
DEL SERENISSIMO GRAN DUCA DI TOSCANA
SCRITTO IN FORMA DI
LETTERA
ALL'ILLUSTRISSIMO E REV.MO SIGNOR DON
VIRGINIO CESARINI
ACCADEMICO LINCEO, MASTRO DI CAMERA DI
N. S.
Io non ho mai potuto intendere,
Illustrissimo Signore, onde sia nato che tutto quello che de' miei studi, per
aggradire o servire altrui, m'è convenuto metter in publico, abbia
incontrato in molti una certa animosità in detrarre, defraudare e
vilipendere quel poco di pregio che, se non per l'opera, almeno per l'intenzion
mia m'era creduto di meritare. Non prima fu veduto alle stampe il mio Nunzio
Sidereo, dove si dimostrarono tanti nuovi e meravigliosi
discoprimenti nel cielo, che pur doveano esser grati agli amatori della vera
filosofia, che tosto si sollevaron per mille bande insidiatori di quelle lodi
dovute a così fatti ritrovamenti: né mancaron di quelli che, solo per
contradir a' miei detti, non si curarono di recar in dubbio quanto fu veduto a
lor piacimento e riveduto più volte da gli occhi loro. Imposemi il
Serenissimo Gran Duca Cosimo II, di gloriosa memoria mio signore, ch'io
scrivessi il mio parere delle cagioni del galleggiare o affondarsi le cose
nell'acqua; e, per sodisfar a così fatto comandamento, avendo disteso in
carta quanto m'era sovvenuto oltre alla dottrina d'Archimede, che per avventura
è quanto di vero in effetto circa sì fatta materia poteva dirsi,
eccoti subito piene tutte le stamperie d'invettive contro del mio Discorso;
né avendo punto riguardo che quanto da me fu prodotto fusse confermato e
concluso con geometriche dimostrazioni, contradissero al mio parere, né
s'avvidero (tanto ebbe forza la passione) che 'l contradire alla geometria
è un negare scopertamente la verità. Le Lettere delle Macchie
Solari e da quanti e per quante guise fur combattute? e quella
materia che doverebbe dar tanto campo d'aprir gl'intelletti ad ammirabili
speculazioni, da molti, o non creduta o poco stimata, del tutto è stata
vilipesa e derisa; da altri, per non volere acconsentire a' miei concetti, sono
state prodotte contro di me ridicole ed impossibili opinioni; ed alcuni,
costretti e convinti dalle mie ragioni, ànno cercato spogliarmi di
quella gloria ch'era pur mia, e, dissimulando d'aver veduto gli scritti miei,
tentarono dopo di me farsi primieri inventori di meraviglie così
stupende. Tacerò d'alcuni miei privati discorsi, dimostrazioni e
sentenze, molte di esse da me non publicate alle stampe, tutte state malamente
impugnate o disprezzate come da nulla; non mancando anco queste d'essersi
talora abbattute in alcuni che con bella destrezza si sieno ingegnati di farsi
con esse onore, come inventate da i loro ingegni.
Io potrei di tali usurpatori nominar
non pochi; ma voglio ora passarli sotto silenzio, avvenga che de' primi furti
men grave castigo prender si soglia che de i susseguenti. Ma non voglio
già più lungamente tacere il furto secondo, che con troppa
audacia mi ha voluto fare quell'istesso che già molti anni sono mi fece
l'altro, d'appropriarsi l'invenzione del mio compasso geometrico, ancor ch'io
molti anni innanzi l'avessi a gran numero di signori mostrato e conferito, e
finalmente fatto publico colle stampe: e siami per questa volta perdonato se,
contro alla mia natura, contro al costume ed intenzion mia, forse troppo
acerbamente mi risento ed esclamo colà dove per molti anni ho taciuto.
Io parlo di Simon Mario Guntzehusano, che fu quello che già
in Padova, dove allora io mi trovava, traportò in lingua latina l'uso
del detto mio compasso, ed attribuendoselo lo fece ad un suo discepolo sotto
suo nome stampare, e subito, forse per fuggir il castigo, se n'andò alla
patria sua, lasciando il suo scolare, come si dice, nelle peste; contro il
quale mi fu forza, in assenza di Simon Mario, proceder nella maniera
ch'è manifesto nella Difesa ch'allora feci e publicai. Questo
istesso, quattro anni dopo la publicazione del mio Nunzio Sidereo, avvezzo
a volersi ornar dell'altrui fatiche, non si è arrossito nel farsi autore
delle cose da me ritrovate ed in quell'opera publicate; e stampando sotto
titolo di Mundus Iovialis etc., ha temerariamente affermato, sé aver
avanti di me osservati i pianeti Medicei, che si girano intorno a Giove. Ma
perché di rado accade che la verità si lasci sopprimer dalla bugia, ecco
ch'egli medesimo nell'istessa sua opera, per sua inavvertenza e poca
intelligenza, mi dà campo di poterlo convincere con testimoni
irrefragabili e manifestamente far palese il suo fallo, mostrando ch'egli non
solamente non osservò le dette stelle avanti di me, ma non le vide né
anco sicuramente due anni dopo: e dico di più, che molto probabilmente
si può affermare ch'ei non l'ha osservate già mai. E ben ch'io da
molti luoghi del suo libro cavar potessi evidentissime prove di quanto dico, riserbando
l'altre ad altra occasione, voglio, per non diffondermi soverchiamente e
distrarmi dalla mia principale intenzione, produrre un luogo solo.
Scrive Simon Mario nella seconda parte
del suo Mondo Gioviale, alla considerazione del sesto fenomeno,
d'aver con diligenza osservato, come i quattro pianeti gioviali non mai si
trovano nella linea retta parallela all'eclittica se non quando sono nelle
massime digressioni da Giove; ma che quando son fuori di queste, sempre
declinano con notabil differenza da detta linea; declinano, dico, da quella
sempre verso settentrione quando sono nelle parti inferiori de' lor cerchi, ed
all'opposito piegano sempre verso austro quando sono nelle parti superiori: e
per salvar cotal apparenza, statuisce i lor cerchi inclinati dal piano
dell'eclittica verso austro nelle parti superiori, e verso borea
nell'inferiori. Or questa sua dottrina è piena di fallacie, le quali
apertamente mostrano e testificano la sua fraude.
E prima, non è vero che i
quattro cerchi delle Medicee inclinino dal piano dell'eclittica; anzi sono
eglino ad esso sempre equidistanti. Secondo, non è vero che le medesime
stelle non sieno mai tra di loro puntualmente per linea retta se non quando si
ritrovano costituite nelle massime digressioni da Giove; anzi talora accade ch'esse
in qualunque distanza, e massima e mediocre e minima, si veggono per linea
esquisitamente retta, ed incontrandosi insieme, ancor che sieno di movimenti
contrarii e vicinissime a Giove, si congiungono puntualmente, sì che due
appariscono una sola. E finalmente, è falso che quando declinano dal
piano dell'eclittica, pieghino sempre verso austro quando sono nelle
metà superiori de i lor cerchi, e verso borea quando sono
nell'inferiori; anzi in alcuni tempi solamente fanno lor declinazioni in cotal guisa,
ed in altri tempi declinano al contrario, cioè verso borea quando sono
ne mezi cerchi superiori, e verso austro nell'inferiori. Ma Simon Mario, per
non aver né inteso né osservato questo negozio, ha inavvertentemente scoperto
il suo fallo. Ora il fatto sta così.
Sono i quattro cerchi de i pianeti
Medicei sempre paralleli piano dell'eclittica; e perché noi siamo nell'istesso
piano collocati, accade che qualunque volta Giove non averà latitudine,
ma si troverà esso ancora sotto l'eclittica, i movimenti d'esse
stelle ci si mostreranno fatti per una stessa linea retta, e le lor
congiunzioni fatte in qualsivoglia luogo saranno sempre corporali, cioè
senza veruna declinazione. Ma quando il medesimo Giove si troverà fuori
del pian dell'eclittica, accaderà che se la sua latitudine sarà
da esso piano verso settentrione, restando pure i quattro cerchi delle Medicee
paralleli all'eclittica, le parti loro superiori a noi, che sempre siamo nel
piano dell'eclittica, si rappresenteranno piegar verso austro rispetto all'inferiori,
che ci si mostreranno più boreali; ed all'incontro, quando la latitudine
di Giove sarà australe, le parti superiori de i medesimi cerchietti ci
si mostreranno più settentrionali dell'inferiori: sì che le
declinazioni delle stelle si vedranno fare il contrario quando Giove ha
latitudine boreale, di quello che faranno quando Giove sarà australe;
cioè nel primo caso si vedranno declinar verso austro quando saranno
nelle metà superiori de' lor cerchi, e verso borea nelle inferiori; ma
nell'altro caso declineranno per l'opposito, cioè verso borea nelle
metà superiori, e verso austro nelle inferiori; e tali declinazioni
saranno maggiori e minori, secondo che la latitudine di Giove sarà
maggiore o minore. Ora, scrivendo Simon Mario d'aver osservato come le dette
quattro stelle sempre declinano verso austro quando sono nelle metà
superiori de' lor cerchi; adunque tali sue osservazioni furon fatte in tempo
che Giove aveva latitudine boreale: ma quando io feci le mie prime osservazioni
Giove era australe, e tale stette per lungo tempo, né si fece boreale,
sì che le latitudini delle quattro stelle potessero mostrarsi come
scrive Simone, se non più di due anni dopo: adunque, se pur egli
già mai le vide ed osservò, ciò non fu se non due anni
dopo di me.
Eccolo dunque già dalle sue
stesse deposizioni convinto di bugia d'avere avanti di me fatte cotali
osservazioni. Ma io di più aggiungo e dico, che molto più
probabilmente si può credere ch'egli già mai non le facesse:
già ch'egli afferma non l'avere osservate né vedute disposte tra di loro
in linea retta isquisitamente se non mentre si ritrovano nelle massime distanze
da Giove; e pure la verità è che quattro mesi interi, cioè
da mezo febraio a mezo giugno del 1611, nel qual tempo la latitudine di Giove
fu pochissima o nulla, la disposizione di esse quattro stelle fu sempre per
linea retta in tutte le loro posizioni. E notisi, appresso, la sagacità
colla quale egli vuole mostrarsi anteriore a me. Io scrissi nel mio Nunzio
Sidereo d'aver fatta la mia prima osservazione alli 7 di gennaio dell'anno
1610, seguitando poi l'altre nelle seguenti notti: vien Simon Mario, ed
appropriandosi l'istesse mie osservazioni, stampa nel titolo del suo libro, ed
anco per entro l'opera, aver fatto le sue osservazioni fino dell'anno 1609,
onde altri possa far concetto della sua anteriorità: tuttavia la
più antica osservazione ch'ei produca poi per fatta da sé, è la
seconda fatta da me; ma la pronunzia per fatta nell'anno 1609, e tace di far
cauto il lettore come, essendo egli separato dalla Chiesa nostra, né avendo
accettata l'emendazion Gregoriana, il giorno 7 di gennaio del 1610 di noi
cattolici è l'istesso che il dì 28 di decembre del 1609 di loro
eretici. E questa è tutta la precedenza delle sue finte osservazioni. Si
attribuisce anco falsamente l'invenzione de' loro movimenti periodici, da me
con lunghe vigilie e gravissime fatiche ritrovati, e manifestati nelle mie Lettere
Solari, ed anco nel trattato che publicai delle cose che stanno
sopra l'acqua, veduto dal detto Simone, come si raccoglie chiaramente dal suo
libro, di dove indubitabilmente egli ha cavato tali movimenti.
Ma in troppo lunga digressione, fuori
di quello che forse richiedeva la presente opportunità, mi trovo
d'essermi lasciato trascorrere. Però, ritornando su 'l nostro cominciato
discorso, seguirò di dire che, per tante chiarissime prove non mi
restando più luogo alcuno da dubitare d'un mal affetto ed ostinato
volere contro dell'opere mie, aveva meco stesso deliberato di starmene cheto
affatto, per ovviare in me medesimo alla cagion di quei dispiaceri sentiti
nell'esser bersaglio a sì frequenti mordacità, e togliere altrui
materia d'essercitare sì biasmevol talento. È ben vero che non mi
sarebbe mancata occasione di metter fuori altre mie opere, forse non meno
inopinate nelle filosofiche scuole e di non minor conseguenza nella natural
filosofia delle publicate fin ora: ma le dette cagioni ànno potuto
tanto, che solo mi son contentato del parere e del giudicio d'alcuni
gentil'uomini, miei reali e sincerissimi amici, co' quali communicando e
discorrendo de i miei pensieri, ho goduto di quel diletto che ne reca il poter
conferire quel che di mano in mano ne somministra l'ingegno, scansando nel
medesimo tempo la rinovazion di quelle punture per avanti da me sentite con
tanta noia. Ànno ben questi signori, amici miei, mostrando in non
piccola parte d'applaudere a i miei concetti, procurato con varie ragioni di
ritirarmi da così fatto proponimento. E primieramente ànno
cercato persuadermi ch'io dovessi poco apprezzare queste tanto pertinaci contradizzioni,
quasi che in effetto, tutte in fine ritornando contro de i loro autori,
rendesser più viva e più bella la mia ragione, e desser chiaro
argomento che non vulgari fussero i miei componimenti, allegandomi una commune
sentenza, che la vulgarità e la mediocrità, come poco o non punto
considerate, son lasciate da banda, e solamente colà si rivolgono gli
umani intelletti ove si scopre la meraviglia e l'eccesso, il quale poi nelle
menti mal temperate fa nascer tosto l'invidia, e appresso, con essa, la
maldicenza. E ben che tali e somiglianti ragioni, addottemi
dall'autorità di questi signori, fusser vicine al distogliermi dal mio
risoluto pensiero del non più scrivere, nulladimeno prevalse il mio
desiderio di viver quieto senza tante contese; e così stabilito nel mio
proposito, mi credetti in questa maniera d'aver ammutite tutte le lingue, che
ànno finora mostrato tanta vaghezza di contrastarmi. Ma vano m'è
riuscito questo disegno, né co 'l tacer ho potuto ovviare a questa mia così
ostinata influenza, dell'aver a esserci sempre chi voglia scrivermi contro e
prender rissa con esso meco.
Non m'è giovato lo starmi senza
parlare, ché questi, tanto vogliolosi di travagliarmi, son ricorsi a far mie
l'altrui scritture; e su quelle avendomi mosso fiera lite, si sono indotti a
far cosa che, a mio credere, non suol mai seguire senza dar chiaro indizio
d'animo appassionato fuor di ragione. E perché non dee aver potuto il signor
Mario Guiducci, per convenienza e carico di suo officio, discorrer nella sua
Academia e poi publicare il suo Discorso delle Comete, senza che
Lottario Sarsi, persona del tutto incognita, abbia per questo a
voltarsi contro di me, e, senza rispetto alcuno di tal gentil uomo, farmi
autore di quel Discorso, nel quale non ho altra parte che la stima e
l'onore da esso fattomi nel concorrere col mio parere, da lui sentito ne'
sopradetti ragionamenti avuti con que' signori, amici miei, co' quali il signor
Guiducci si compiacque spesso di ritrovarsi? E quando pure tutto quel Discorso
delle Comete fusse stato opera di mia mano (ché, dovunque sarà
conosciuto il signor Mario, ciò non potrà mai cadere in
pensiero), che termine sarebbe stato questo del Sarsi, mentre io mostrassi
così voler essere sconosciuto, scoprirmi la faccia e smascherarmi con
tanto ardire? Per la qual cosa, trovandomi astretto da questo inaspettato e
tanto insolito modo di trattare, vengo a romper la mia già stabilita
risoluzione di non mi far più vedere in publico coi miei scritti; e
procurando giusta mia possa che almeno sconosciuta non resti la disconvenienza
di questo fatto, spero d'aver a fare uscir voglia ad alcuno di molestare (come
si dice) il mastino che dorme, e voler briga con chi si tace.
E ben ch'io m'avvisi che questo nome,
non mai più sentito nel mondo, di Lotario Sarsi serva per maschera di
chi che sia che voglia starsene sconosciuto, non mi starò, come ha fatto
esso Sarsi, a imbrigar in altro per voler levar questa maschera, non mi parendo
né azzione punto imitabile, né che possa in alcuna cosa porgere aiuto o favore
alla mia scrittura. Anzi mi do ad intendere che 'l trattar seco come con
persona incognita sia per dar campo a far più chiara la mia ragione, e
porgermi agevolezza ond'io spieghi più libero il mio concetto. Perché io
ho considerato che molte volte coloro che vanno in maschera, o son persone vili
che sotto quell'abito voglion farsi stimar signori e gentiluomini, e in tal
maniera per qualche lor fine valersi di quella onorevolezza che porta seco la
nobiltà; o talora son gentiluomini che deponendo, così
sconosciuti, il rispettoso decoro richiesto a lor grado, si fanno lecito, come
si costuma in molte città d'Italia, di poter d'ogni cosa parlare
liberamente con ognuno, prendendosi insieme altrettanto diletto che ognuno, sia
chi si voglia, possa con essi motteggiare e contender senza rispetto. E di
questi secondi credendo io che debba esser quegli che si cuopre con questa
maschera di Lottario Sarsi (ché quando fusse de' primi, in poco gusto gli
tornerebbe d'aver voluto così spacciarla per la maggiore), mi credo
ancora che, sì come così sconosciuto egli si è indotto a
dir cosa contro di me che a viso aperto se ne sarebbe forse astenuto,
così non gli debba dovere esser grave che, valendomi del privilegio
conceduto contro le maschere, possa trattar seco liberamente, né mi sia né da
lui né da altri per esser pesata ogni parola ch'io per avventura dicessi
più libera ch'ei non vorrebbe.
Ed ho voluto, Illustrissimo Signore,
ch'ella sia prima d'ogn'altro lo spettator di questa mia replica; imperciocché,
come intendentissima e, per le sue qualità nobilissime, spogliata
d'animo parziale, giustamente sarà per apprender la causa mia, né
lascerà di reprimer l'audacia di quelli che, mancando d'ignoranza ma non
d'affetto appassionato (ché de gli altri poco debbo curare), volessero appo del
vulgo, che non intende, malamente stravolger la mia ragione. E ben che fusse
mia intenzione, quando prima lessi la scrittura del Sarsi, di comprendere in
una semplice lettera inviata a V. S. Illustrissima le risposte, tuttavia, nel
venire al fatto, mi sono in maniera moltiplicate tra le mani le cose degne
d'esser notate che in essa scrittura si contengono, che di lungo intervallo
m'è stato forza passar i termini d'una lettera. Ho nondimeno mantenuta
l'istessa risoluzione di parlar con V. S. Illustrissima ed a lei scrivere,
qualunque si sia poi riuscita la forma di questa mia risposta; la quale ho
voluta intitolare col nome di Saggiatore, trattenendomi dentro la
medesima metafora presa dal Sarsi. Ma perché m'è paruto che, nel
ponderare egli le proposizioni del signor Guiducci, si sia servito d'una
stadera un poco troppo grossa, io ho voluto servirmi d'una bilancia da
saggiatori, che sono così esatte che tirano a meno d'un sessantesimo di
grano: e con questa usando ogni diligenza possibile, non tralasciando
proposizione alcuna prodotta da quello, farò di tutte i lor saggi; i
quali anderò per numero distinguendo e notando, acciò, se mai
fussero dal Sarsi veduti e gli venisse volontà di rispondere, ei possa
tanto più agevolmente farlo, senza lasciare indietro cosa veruna.
Ma venendo ormai alle particolari
considerazioni, non sarà per avventura se non bene (acciò che
niente rimanga senza esser ponderato) dir qualche cosa intorno all'inscrizzion
dell'opera, la quale il signor Lottario Sarsi intitola Libra Astronomica e
Filosofica; rende poi nell'epigramma, ch'ei soggiunge, la ragion che
lo mosse a così nominarla, la qual è che l'istessa cometa, col
nascere e comparir nel segno della Libra, volle misteriosamente accennargli ch'ei
dovesse librar con giusta lance e ponderar le cose contenute nel trattato delle
comete publicato dal signor Mario Guiducci. Dove io noto come il Sarsi
comincia, tanto presto che più non era possibile, a tramutar con gran
confidenza le cose (stile mantenuto poi in tutta la sua scrittura) per
accommodarle alla sua intenzione. Gli era caduto in pensiero questo scherzo
sopra la corrispondenza della sua Libra colla Libra celeste, e perché
gli pareva che argutamente venisse la sua metafora favoreggiata dall'apparizion
della cometa, quando ella fusse comparita in Libra, liberamente dice quella in
tal luogo esser nata; non curando di contradire alla verità, ed anco in
certo modo a sé medesimo, contradicendo al suo proprio Maestro, il
quale nella sua Disputazione, alla fac. 7, conclude così: “Verum,
quæcunque tandem ex his prima cometæ lux fuerit, illi semper
Scorpius patria est”; e dodici versi più a basso: “Fuerit hoc sane, cum
in Scorpio, hoc est in Martis præcipua domo, natus sit”; e poco di sotto:
“Ego, quo ad me attinet, patriam eius inquiro, quam Scorpium fuisse affirmo,
cunctis etiam assentientibus.” Adunque molto più proporzionatamente, ed
anco più veridicamente, se riguarderemo la sua scrittura stessa, l'avrebbe
egli potuta intitolare L'astronomico e filosofico scorpione, costellazione
dal nostro sovran poeta Dante chiamata
figura del freddo animale
che colla coda percuote la gente
e veramente non vi mancano punture
contro di me, e tanto più gravi di quelle degli scorpioni, quanto
questi, come amici dell'uomo, non feriscono se prima non vengono offesi e
provocati, e quello morde me che mai né pur col pensiero non lo molestai. Ma
mia ventura, che so l'antidoto e rimedio presentaneo a cotali
punture! Infragnerò dunque e stropiccerò l'istesso scorpione
sopra le ferite, onde il veleno risorbito dal proprio cadavero lasci me libero
e sano.
Or vegniamo al trattato, e sia il primo
saggio intorno ad alcune parole del proemio, cioè da “Unus, quod sciam”,
fino a “Doluimus”. Il qual proemio sarà però da noi qui
registrato intero, per total compitezza del testo latino, al quale non vogliamo
che manchi pur un iota.
Tribus in cælo facibus
insolenti lumine, anno superiore, fulgentibus, nemo hebeti adeo ingenio ac
plumbeis oculis fuit, qui utramque in illas aciem non intenderit aliquando,
miratusque non sit insueti fulgoris eo tempore feracitatem. Sed quoniam est
vulgus, ut sciendi avidissimum, ita ad rerum causas investigandas minus aptum,
ab iis propterea sibi tantarum rerum scientiam, iure veluti suo, exposcebat, ad
quos cæli mundique totius contemplatio maxime pertineret. Philosophorum
igitur astronomorumque Academias consulendas illico censuit. Quid igitur nostra
hæc Gregoriana, quæ, et disciplinarum et Academicorum multitudine
nobilis, se inter cæteras designari omnium oculis, se maxime consuli, ab
se responsa expectari, facile intelligebat? Committere enimvero non potuit, ne
in re, quamquam dubia, suo saltem muneri et postulantium votis utcumque
satisfaceret. Præstitere hoc ii, quibus ex munere id oneris incumbebat;
nec male, si summorum etiam capitum suffragium spectes. Unus, quod sciam,
Disputationem nostram, et quidem paulo acrius, improbavit Galilæus.”
Nelle quali ultime parole, cioè
“Unus, quod sciam”, egli afferma che noi agramente abbiamo tassata la
Disputazion del suo Maestro. Al che io non veggo per ora che occorra risponder
cosa alcuna, avvenga che il suo detto è assolutamente falso; poi che,
per diligenza usata in cercar nella scrittura del signor Mario il luogo (già
ch'egli nol cita), non l'ho saputo ritrovare. Ma intorno a questo avremo
più a basso altre occasioni di parlare.
Seguita appresso (e sia il secondo
saggio): “Doluimus primum, quod magni nominis viro hæc displicerent;
deinde consolationis loco fuit, ab eodem Aristotelem ipsum, Tychonem, aliosque,
non multo mitius hac in disputatione habitos: ut sane non aliæ iis
texendæ forent apologiæ, quibus communis cum summis ingeniis causa
satis, vel ipsis silentibus, apud æquos æstimatores pro se ipsa
peroraret.”
Qui dice, aver da principio sentito
dolore che quel Discorso mi sia dispiaciuto, ma soggiunge essergli stato
poi in luogo di consolazione il veder l'istesso Aristotile, Ticone
ed altri esser con simile asprezza tassati; onde non erano di mestieri
altre difese a quelli che nell'accuse fussero a parte con ingegni
eminentissimi, la causa stessa de' quali, anco nel lor silenzio, appresso
giusti giudici assai da per se stessa parlava e si difendeva. Dalle quali
parole mi par di raccorre che, per giudicio del Sarsi, di quelli che
intraprendono a impugnar autori d'ingegno eminentissimo si debba far
così poca stima, che né anco metta conto che alcuno si ponga alla difesa
de gli oppugnati, la sola autorità de' quali basta a mantener loro il
credito appresso gl'intendenti. E qui voglio che V. S. Illustrissima noti come
il Sarsi, qual se ne sia la causa, o elezzione o inavvertenza, aggrava non poco
la reputazion del P. Grassi suo precettore, principale scopo del quale nel suo Problema
fu d'impugnar l'opinion d'Aristotile intorno alle comete, come nella sua
scrittura apertamente si vede e l'istesso Sarsi replica e conferma in questa,
alla fac. 7; di modo che se i contradittori a gli uomini grandissimi devono
esser trapassati, il P. Grassi doveva esser un di questi. Tuttavia noi non
solamente non l'abbiamo trapassato, ma ne abbiamo fatto la medesima stima che
de gl'ingegni eminentissimi, accoppiandolo con quelli; sì che in cotal
particolare altrettanto viene egli da noi essaltato, quanto dal suo discepolo
abbassato. Io non veggo che il Sarsi possa per sua scusa addurre altro, se non
che il suo senso sia stato che degli oppositori a gl'ingegni eminentissimi si
devono ben lasciar da banda i volgari, ma all'incontro pregiar quegli ch'essi
ancora sono eminentissimi, tra i quali egli abbia inteso di riporre il suo
Maestro, e noi altri tra i popolari, onde per cotal rispetto quello che al
Maestro suo si conveniva fare, a noi sia stato di biasimo.
Segue appresso (e sia il terzo saggio):
“Sed quando sapientissimis etiam viris operæ pretium visum est ut esset
saltem aliquis, qui Galilæi disputationem, tum in iis quibus aliena
oppugnat, tum etiam in iis quibus sua promit, paulo diligentius expenderet;
utrumque mihi paucis agendum statui.”
Il senso di queste parole, continuato
con quello delle precedenti, mi par ch'importi questo: che de' contradittori a
gl'ingegni eminentissimi non si debba, come già si è detto, far
conto, ma trapassargli sotto silenzio, e se pur si dovesse lor rispondere, si
dia il carico a persone più tosto basse, ch'altrimenti; e che
però nel nostro caso sia paruto a uomini sapientissimi che sia ben fatto
che non l'istesso P. Grassi o altro d'egual reputazione, ma che “saltem
aliquis” rispondesse al Galilei. E sin qui io non dico né replico altro, ma,
conoscendo e confessando la mia bassezza, inclino il capo alla sentenza
d'uomini tali. Ben mi maraviglio non poco che il Sarsi di proprio moto si abbia
eletto d'esser quel “saltem aliquis” ch'abbracci e si sbracci a tale impresa
che, per giudicio d'uomini sapientissimi e suo, non doveva esser deferita in
altri che in qualche soggetto assai basso, né so ben intendere come, essendo
naturale instinto d'ognuno l'attribuire a se stesso più tosto più
che manco del merito, ora il Sarsi avvilisca tanto la sua condizione, che s'induca
a spacciarsi per un “saltem aliquis”. Questo inverisimile mi ha tenuto un pezzo
sospeso, e finalmente m'ha fatto verisimilmente credere ch'in queste sue parole
possa esser un poco d'error di stampa, e che dov'è stampato “ut esset
saltem aliquis qui Galilæi disputationem diligentius expenderet”, si
debba leggere “ut esset qui saltem aliqua in Galilæi disputatione paulo
diligentius expenderet”: la qual lettura io tanto reputo esser la vera e
legittima, quanto ella puntualmente si assesta a tutto 'l resto del trattato, e
l'altra mal s'aggiusta alla stima ch'io pur voglio credere che il Sarsi faccia
di se stesso. Vedrà dunque V. S. Illustrissima, nell'andar meco
essaminando la sua scrittura, quanto sia vero questo ch'io dico, cioè
ch'egli delle cose scritte dal signor Mario ha solamente essaminato “aliqua”,
anzi pure “saltem aliqua”, cioè alcune minuzie di poco rilievo alla
principale intenzione, trapassando sotto silenzio le conclusioni e le ragioni
principali: il che ha egli fatto perché conosceva in coscienza di non poter non
le lodare e confessar vere, che sarebbe poi stato contro alla sua intenzione,
che fu solamente di dannare ed impugnare, com'egli stesso scrive alla fac. 42
con queste parole: “Atque hæc de Galilæi sententia, in iis quæ
cometam immediate spectant, dicta sint. Plura enim dici vetat ipsemet, qui, in
bene longa disputatione, quid sentiret paucis admodum atque involutis verbis
exposuit, nobisque plura in illum afferendi locum præclusit. Qui enim
refelleremus quæ ipse nec protulit, neque nos divinare potuimus?” Nelle
quali parole, oltre al vedersi la già detta intenzion di confutar
solamente, io noto due altre cose: l'una è, ch'ei simula di non aver
intese molte cose per essere (dic'egli) state scritte oscuramente, che vengon a
esser quelle nelle quali non ha trovato attacco per la contradizzione; l'altra,
ch'egli dice non aver potuto confutar le cose ch'io non ho profferite né egli
ha potute indovinare: tuttavia V. S. Illustrissima vedrà come la
verità è che la maggior parte delle cose ch'ei prende a confutare
sono delle non profferite da noi, ma indovinate o vogliam dire immaginate da
esso.
“Rem quamplurimis pergratam
me facturum sperans, quibus Galilæi factum nullo nomine probari potuit:
quod tamen in hac disputatione ita præstabo, ut abstinendum mihi ab iis
verbis perpetuo duxerim, quæ exasperati magis atque iracundi animi, quam
scientiæ, indicia sunt. Hunc ego respondendi modum aliis, si qui volent,
facile concedam.
Agite igitur, quando ille etiam per
internuncios atque interpretes rem agi iubet, ut propterea non ipse per se, sed
per Consulem Academiæ Marium sui secreta animi omnibus exposuerit, liceat
etiam nunc mihi, non quidem Consuli, sed tamen mathematicarum disciplinarum
studioso, ea quæ ex Horatio Grassio Magistro meo de nuperrimis eiusdem
Galilæi inventis audierim, non uni tantum Academiæ, sed reliquis
etiam omnibus qui latine norunt, exponere. Neque hic miretur Marius, Consule se
prætermisso, cum Galilæo rem transigi. Primum, enim, Galilæus
ipse, in litteris ad amicos Romam datis, satis aperte disputationem illam
ingenii sui fœtum fuisse profitetur; deinde, cum idem Marius peringenue
fateatur, non sua se inventa, sed quæ Galilæo veluti dictante
excepisset, summa fide protulisse, patietur, arbitror, non inique, cum
Dictatore potius me de iisdem, quam cum Consule, interim disputare.”
In tutto questo restante del proemio io
noto primamente, come il Sarsi pretende d'aver fatto cosa grata a molti colla
sua impugnazione: e questo forse può essergli accaduto con alcuni che
non abbiano per avventura letta la scrittura del signor Mario, ma se ne sieno
stati all'informazion sua; la quale venendo fatta privatamente e (come si dice)
a quattr'occhi, quanto e quanto sarà ella stata lontana dalle cose
scritte, poi che in questa publica e stampata ei non s'astiene d'apportar in
campo moltissime cose come scritte dal signor Mario, le quali non furon mai né
nella sua scrittura né pur nella nostra imaginazione? Soggiunge poi, volersi
astenere da quelle parole che danno indizio più tosto d'animo innasprito
ed adirato, che di scienza: il che quanto egli abbia osservato, vedremo nel
progresso. Ma per ora noto la sua confessione, d'essere internamente innasprito
ed in collera, perché quando ei non fusse tale, il trattar di questo volersi
astenere sarebbe stato non dirò a sproposito, ma superfluo, perché dove
non è abito o disposizione, l'astinenza non ha luogo.
A quello ch'egli scrive appresso, di
voler come terza persona riferir quelle cose ch'egli ha intese dal P. Orazio
Grassi, suo precettore, intorno agli ultimi miei trovati, io assolutamente non
credo tal cosa, e tengo per fermo che il detto Padre non abbia mai né dette né
pensate né vedute scritte dal Sarsi tali fantasie, troppo lontane per ogni
rispetto dalle dottrine che si apprendono nel Collegio dove il P. Grassi
è professore, come spero di far chiaramente conoscere. E già,
senza punto allontanarmi di qui, chi sarebbe quello che, avendo pur qualche
notizia della prudenza di quei Padri, si potesse indurre a credere che alcuno
di essi avesse scritto e publicato, ch'io in lettere private, scritte a Roma ad
amici, apertamente mi fussi fatto autore della scrittura del signor Mario? cosa
che non è vera; e quando vera fusse stata, il publicarla non poteva non
dar qualche indizio d'aver piacere di sparger qualche seme onde tra stretti
amici potesse nascer alcun'ombra di diffidenza. E quali termini sono il
prendersi libertà di stampar gli altrui detti privati? Ma è bene
che V. S. Illustrissima sia informata della verità di questo fatto.
Per tutto il tempo che si vide la
cometa, io mi ritrovai in letto indisposto, dove, sendo frequentemente visitato
da amici, cadde più volte ragionamento delle comete, onde m'occorse dire
alcuno de' miei pensieri, che rendevano piena di dubbi la dottrina datane sin
qui. Tra gli altri amici vi fu più volte il signor Mario, e significommi
un giorno aver pensiero di parlar nell'Academia delle comete, nel qual luogo,
quando così mi fusse piaciuto, egli avrebbe portate, tra le cose ch'egli
aveva raccolte da altri autori e quelle che da per sé aveva immaginate, anco
quelle che aveva intese da me, già ch'io non ero in istato di potere
scrivere: la qual cortese offerta io reputai a mia ventura, e non pur
l'accettai, ma ne lo ringraziai e me gli confessai obligato. In tanto e di Roma
e d'altri luoghi, da altri amici e padroni che forse non sapevano della mia
indisposizione, mi veniva con instanza pur domandato se in tal materia avevo
alcuna cosa da dire: a' quali io rispondevo, non aver altro che qualche
dubitazione, la quale anco non potevo, rispetto all'infermità, mettere
in carta; ma che bene speravo che potesse essere che in breve vedessero tali
miei pensieri e dubbi inseriti in un discorso d'un gentiluomo amico mio, il
quale per onorarmi aveva preso fatica di raccorgli ed inserirgli in una sua
scrittura. Questo è quanto è uscito da me, il che è anco
in più luoghi stato scritto dal medesimo signor Mario; sì che non
occorreva che il Sarsi, con aggiungere a vero, introducesse mie lettere, né
mettesse il signor Mario a sì piccola parte della sua scrittura (nella
quale egli ve l'ha molto maggior di me), che lo spacciasse per copista. Or, poi
che così gli è piaciuto, e così segua; ed intanto il
signor Mario, in ricompensa dell'onor fattomi, accetti la difesa della sua scrittura.
E ritornando al trattato, rilegga V. S.
Illustrissima l'infrascritte parole: “Dolet igitur, primo, se in Disputatione
nostra male habitum, cum de tubo optico ageremus nullum cometæ
incrementum afferente, ex quo deduceremus eundem a nobis quam longissime distare.
Ait enim, multo ante palam affirmasse se, hoc argumentum nullius momenti esse.
Sed affirmarit licet: nunquid eius illico ad Magistrum meum pronunciata
referrent venti? Licet enim summorum virorum dicta plerunque fama divulget,
huius tamen dicti (quid faciat?) ne syllaba quidem ad nos pervenit. Et quanquam
dissimulavit, novit id tamen multorum etiam testimonio, novit benevolentissimum
in se Magistri mei animum, et qua privatis in sermonibus, qua publicis in
disputationibus, effusum plane in laudes ipsius. Illud certe negare non potest,
neminem ab illo unquam proprio nomine compellatum, neque se verbis ullis
speciatim designatum. Si qua tamen ipsius animum pulsaret dubitatio, meminisse
etiam poterat, perhonorifice olim se hoc in Romano Collegio ab eiusdem Mathematicis
acceptum, et cum de Mediceis sideribus tuboque optico, illo audiente et (qua
fuit modestia) ad laudes suas erubescente, publice est disputatum, et cum
postea ab alio, eodem loco atque frequentia, de iis quæ aquis insident
disserente, perpetuo Galilæus acroamate celebratus est. Quid ergo
causæ fuerit nescimus, cur ei, contra, adeo viluerit huius Romani
Collegii dignitas, ut eiusdem Magistros et logicæ imperitos diceret, et
nostras de cometis positiones futilibus ac falsis innixas rationibus, non
timide pronunciaret.”
Sopra i quali particolari scritti io
primieramente dico di non m'esser mai lamentato d'essere stato maltrattato nel Discorso
del P. Grassi, nel quale son sicuro che Sua Reverenza non applicò
mai il pensiero alla persona mia per offendermi; e quando pure, dato e non
concesso, io avessi avuta opinione che il P. Grassi nel tassar quelli che
facevan poca stima dell'argomento preso dal poco ricrescer la cometa, avesse
voluto comprender me ancora, non però creda il Sarsi che questo mi fusse
stato causa di disgusto e di querimonia. Sarebbe forse ciò accaduto
quando la mia opinion fusse stata falsa, e per tale scoperta e publicata; ma
sendo il detto mio verissimo, e falso l'altro, la moltitudine de'
contradittori, e massime di tanto valore quanto è il P. Grassi, poteva
più tosto accrescermi il gusto che il dolore, atteso che più
diletta il restar vittorioso di prode e numeroso essercito, che di pochi e
debili inimici. E perché degli avvisi che da molte parti d'Europa andavano
(come scrive il Sarsi) al suo Maestro, alcuni nel passar di qua lasciavano
ancora a noi sentire come generalmente tutti i più celebri astronomi
facevano gran fondamento sopra cotale argomento, né mancavano anco ne' nostri
contorni e nella città stessa uomini della medesima opinione, io al
primo motto, che di ciò intesi, molto chiaramente mi lasciai intendere
che stimavo questo argomento vanissimo, di che molti si burlavano, e tanto
più, quando in favor loro apparve l'autorevole attestazione e
confermazione del matematico del Collegio Romano: il che non negherò che
mi fusse cagione d'un poco di travaglio, atteso che trovandomi posto in
necessità di difendere il mio detto da tanti altri contradittori, i
quali, per esser stati fatti forti da un tanto aiuto, più imperiosamente
mi si levavano contro, non vedevo modo di poter contradire a quelli senza
comprendervi anco il P. Grassi. Fu adunque non mia elezzione, ma accidente
necessario, ben che fortuito, che indirizzò la mia impugnazione anco in
quella parte dov'io meno avrei voluto. Ma che io pretendessi mai (come
soggiunge il Sarsi) che tal mio parere dovesse esser repentinamente portato da'
venti sino a Roma, come suole accadere delle sentenze degli uomini celebri e
grandi, eccede veramente d'assai i termini della mia ambizione. Bene è
vero che la lettura della Libra m'ha fatto pur anco alquanto
maravigliare, che tal mio detto non penetrasse a gli orecchi del Sarsi. E non
è egli degno di meraviglia, che cose le quali io già mai non
dissi, né pur pensai, delle quali gran numero è registrato nel suo Discorso,
gli sieno state riportate, e che d'altre dette da me mille volte non gliene
sia pur giunta una sillaba? Ma forse i venti, che conducono le nuvole, le
chimere e i mostri che in essi tumultuariamente si vanno figurando, non
ànno poi forza di portar le cose sode e pesanti.
Dalle parole che seguono mi par
comprendere che il Sarsi m'attribuisca a gran mancamento il non aver con
altrettanta cortesia contracambiata l'onorevolezza fattami da' Padri del
Collegio in lezzioni publiche fatte sopra i miei scoprimenti celesti e sopra i
miei pensieri delle cose che stanno su l'acqua. E qual cosa doveva io fare? Mi
risponde il Sarsi: Laudare e approvar il Discorso del P. Grassi. Ma,
signor Sarsi, già che le cose tra voi e me s'ànno a bilanciare e,
come si dice, trattar mercantilmente, io vi dimando, se quei Reverendi Padri
stimarono per vere le cose mie, o pur l'ebber per false. Se le conobbero vere e
come tali le lodarono, con troppo grand'usura ridomandereste ora il prestato,
quando voleste che io avessi con pari lode a essaltar le cose conosciute da me
per false. Ma se le reputaron vane e pur l'essaltarono, posso ben ringraziarli
del buono affetto; ma assai più grato mi sarebbe stato che m'avessero
levato d'errore e mostratami la verità, stimando io assai più
l'utile delle vere correzzioni, che la pompa delle vane ostentazioni: e
perché l'istesso credo di tutti i buoni filosofi, però né per l'uno né
per l'altro capo mi sentivo in obligo. Mi direte forse ch'io dovevo tacere. A
questo rispondo, primamente, che troppo strettamente ci eravamo posti in
obligo, il signor Mario ed io, avanti la publicazion della scrittura del P.
Grassi, di lasciar vedere i nostri pensieri; sì che il tacere poi
sarebbe stato un tirarsi addosso un disprezzo e quasi derision generale. Ma
più soggiungo, che mi sarei anco sforzato, e forse l'avrei impetrato,
che il signor Guiducci non publicasse il suo Discorso, quando in
esso fusse stato cosa pregiudiciale alla degnità di quel famosissimo
Collegio o d'alcun suo professore; ma quando l'opinioni impugnate da noi sono
state tutte d'altri prima che del matematico professore del Collegio, non veggo
perché il solo avergli Sua Reverenza prestato l'assenso avesse a metter noi in
obligo di dissimulare ed ascondere il vero per favoreggiare e mantenere vivo
uno errore. La nota, dunque, di poco intendente di logica cade sopra Ticone
ed altri che ànno commesso l'equivoco in quell'argomento; il quale
equivoco si è da noi scoperto non per notare o biasimare alcuno, ma solo
per cavare altrui d'errore e per manifestare il vero: e tale azzione non so che
mai possa esser ragionevolmente biasimata. Non ha, dunque, il Sarsi causa di
dire che sia appresso di me avvilita la degnità del Collegio Romano. Ma
bene, all'incontro, quando la voce del Sarsi uscisse di quel Collegio, avrei io
occasion di dubitare che la dottrina e la reputazion mia, non solo di presente
ma forse in ogni tempo, sia stata in assai vile stima, poi che in questa Libra
niuno de' miei pensieri viene approvato, né ci si legge altro che contradizzioni
accuse e biasimi, ed oltre a quel ch'è scritto (se si deve prestar
credenza al grido) uno aperto vanto di poter annichilar tutte le cose mie. Ma
sì come io non credo questo, né che alcuno di questi pensieri abbia
stanza in quel Collegio, così mi vo immaginando che il Sarsi abbia dalla
sua filosofia il poter egualmente lodare e biasimare, confermare e ributtar, le
medesime dottrine, secondo che la benevolenza o la stizza lo traporta: e fammi
in questo luogo sovvenir d'un lettor di filosofia a mio tempo nello Studio di
Padova, il quale essendo, come talvolta accade, in collera con un suo
concorrente, disse che quando quello non avesse mutato modi, avria sotto mano
mandato a spiar l'opinioni tenute da lui nelle sue lezzioni, e che in sua
vendetta avrebbe sempre sostenute le contrarie.
Or legga V. S. Illustrissima: “Sed ne
tempus querelis frustra teramus, principio, illud non video, quam iure Magistro
meo obiiciat ac veluti vitio vertat, quod nimirum in Tychonis verba iurasse
eiusdemque vana machinamenta omni ex parte secutus videatur. Quanquam enim hoc
plane falsum est, cum, præter argumentandi modos ac rationes quibus
cometæ locus inquireretur, nihil aliud in Disputatione nostra reperiat in
quo Tychonem, ut expressa verba testantur, sectatus sit; interna vero ipsius
animi sensa, astrologus licet Lynceus, ne optico quidem suo telescopio
introspexerit; age tamen, detur, Tychoni illum adhæsisse. Quantum tandem
istud est crimen? Quem potius sequeretur? Ptolemæum? cuius sectatorum
iugulis Mars, propior iam factus, gladio exerto imminet? Copernicum? at qui
pius est revocabit omnes ab illo potius, et damnatam nuper hypothesim damnabit
pariter ac reiiciet. Unus igitur ex omnibus Tycho
supererat, quem nobis ignotas inter astrorum vias ducem adscisceremus. Cur igitur
Magistro meo ipse succenseat, qui illum non aspernatur? Frustra hic Senecam
invocat Galilæus, frustra hic luget nostri temporis calamitatem, quod
vera ac certa mundanarum partium dispositio non teneatur, frustra sæculi
huius deplorat infortunium, si nil habeat quo hanc ipsam ætatem, hoc
saltem nomine eius suffragio miseram, fortunet magis”.
Da quanto il Sarsi scrive in questo
luogo, mi par di comprendere ch'ei non abbia con debita attenzione letto non
solo il Discorso del signor Mario, ma né anco quello del P. Grassi, poi
che e dell'uno e dell'altro adduce proposizioni che in quelli non si ritrovano.
Ben è vero che per aprirsi la strada a poter riuscire a toccarmi non so
che di Copernico, egli avrebbe avuto bisogno che le vi fussero state scritte;
onde, in difetto, l'ha volute supplir del suo.
E prima, non si trova nella scrittura
del signor Mario buttato, come si dice, in occhio, né attribuito a mancamento
al P. Grassi l'aver giurato fedeltà a Ticone e seguitate in tutto e per
tutto le sue vane machinazioni. Ecco i luoghi citati dal Sarsi. Alla fac. 18:
“Appresso verrò al professor di matematica del Collegio Romano, il quale
in una sua scrittura ultimamente publicata pare che sottoscriva ad ogni detto
d'esso Ticone, aggiungendovi anco qualche nuova ragione a confermazion
dell'istesso parere”. L'altro luogo a fac. 38: “Il matematico del Collegio
Romano ha parimente per quest'ultima cometa ricevuto la medesima ipotesi; e a
così affermare, oltre a quel poco che n'è scritto dall'Autore,
che consuona colla posizion di Ticone, m'induce ancora il vedere in tutto il
rimanente dell'opera quanto ei concordi coll'altre ticoniche immaginazioni”. Or
vegga V. S. Illustrissima se qui s'attribuisce cosa veruna a vizio e
mancamento. Di più, è ben chiarissimo che non si trattando in
tutta l'opera d'altro che de gli accidenti attenenti alle comete, de' quali
Ticone ha scritto sì gran volume, il dire che il matematico del Collegio
concorda coll'altre immaginazioni di Ticone, non s'estende ad altre posizioni
ch'a quelle ch'appartengono alle comete; sì che il chiamar ora in
paragon di Ticone, Tolomeo e Copernico, i quali non trattaron mai d'ipotesi
attenenti a comete, non veggo che ci abbia luogo opportuno.
Quello poi che dice il Sarsi, che nella
scrittura del suo Maestro non vi si trova altro, in che egli abbia seguito
Ticone, fuor che le dimostrazioni per ritrovare il luogo della cometa, sia
detto con sua pace, non è vero; anzi nessuna cosa vi è meno, che
simile dimostrazione. Tolga Iddio che il P. Grassi avesse in ciò imitato
Ticone, né si fusse accorto, quanto nel modo d'investigar la distanza della
cometa per l'osservazioni fatte in due luoghi differenti in Terra, si mostri
bisognoso della notizia de' primi elementi delle matematiche. Ed acciocché V.
S. Illustrissima vegga ch'io non parlo così senza fondamento, ripigli la
dimostrazion ch'egli comincia alla fac. 123 del trattato della cometa del 1577,
ch'è nell'ultima parte de' suoi Proginnasmi
nella quale volendo egli provare
com'ella non fusse inferiore alla Luna per la conferenza dell'osservazioni
fatte da sé in Uraniburg e da Tadeo Agecio in Praga,
prima, tirata la subtesa AB all'arco dell'orbe terrestre che media tra i detti
due luoghi, e traguardando dal punto A la stella fissa posta in D, suppone
l'angolo DAB esser retto; il che è molto lontano dal possibile, perché,
sendo la linea AB corda d'un arco minor di gradi 6 (come Ticon medesimo
afferma) bisogna, acciò che il detto angolo sia retto, che la fissa D
sia lontana dal zenit di A meno di gradi 3; cosa ch'è tanto falsa,
quanto che la sua minima distanza è più di gradi 48, essendo, per
detto dell'istesso Ticone, la declinazion della fissa D, ch'è l'Aquila o
vogliamo dire l'Avvoltoio, di gradi 7.52 verso borea, e la latitudine di
Uraniburg gradi 55.54. In oltre egli scrive, la medesima stella fissa da i due
luoghi A e B vedersi nel medesimo luogo dell'ottava sfera, perché la Terra
tutta, non che la piccola parte AB, non ha sensibil proporzione
coll'immensità d'essa ottava sfera. Ma perdonimi Ticone: la grandezza e
piccolezza della Terra non ha che fare in questo caso, perché il vedersi da
ogni sua parte la medesima stella nell'istesso luogo deriva dall'essere ella
realmente nell'ottava sfera, e non da altro; in quel modo a punto che i
caratteri che sono sopra questo foglio, già mai rispetto al medesimo
foglio non muteranno apparenza di sito, per qualunque grandissima mutazion di
luogo che faccia l'occhio di V. S. Illustrissima che gli riguarda: ma ben uno
oggetto posto tra l'occhio e la carta, al movimento della testa varierà
l'apparente sito rispetto a' caratteri, sì che il medesimo carattere ora
se gli vedrà dalla destra, ora dalla sinistra, ora più alto, ed
ora più basso; ed in cotal guisa mutano apparente luogo i pianeti
nell'orbe stellato, veduti da differenti parti della Terra, perché da quello
sono lontanissimi; e quello che in questo caso opera la piccolezza della Terra,
è che, facendo i più lontani da noi minor varietà d'aspetto,
ed i più vicini maggiore, finalmente per uno lontanissimo la grandezza
della Terra non basti a far tal varietà sensibile. Quello poi che
soggiunge accadere conforme alle leggi de gli archi e delle corde, vegga V. S.
Illustrissima quant'ei sia da tali leggi lontano, anzi pure da' primi elementi
di geometria. Egli dice, le due rette AD, BD esser perpendicolari alla AB: il
che è impossibile, perché la sola retta che viene dal vertice è
perpendicolare sopra la tangente e le sue parallele, e queste non vengono
altramente dal vertice, né l'AB è tangente o ad essa parallela. In
oltre, ei le domanda parallele, e appresso dice che le si vanno a congiungere
nel centro: dove, oltre alla contradizzione dell'esser parallele e concorrenti,
vi è che, prolungate, passano lontanissime dal centro. E finalmente
conclude, che venendo dal centro alla circonferenza sopra i termini dell'AB,
elle sono perpendicolari: il che è tanto impossibile, quanto che delle
linee tirate dal centro a tutti i punti della corda AB, sola quella che cade
nel punto di mezo gli è perpendicolare, e quelle che cascano ne gli
estremi termini sono più di tutte l'altre inclinate ed oblique. Vegga
dunque V. S. Illustrissima a quali e quante essorbitanze avrebbe il Sarsi fatto
prestar l'assenso dal suo Maestro, quando vero fusse ciò ch'in questo
proposito ha scritto, cioè che quello abbia seguitate le ragioni e modi
di dimostrar di Ticone nel ricercar il luogo della cometa. Vegga di più
il medesimo Sarsi quant'io meglio di lui, senza adoperar astrologia né
telescopio, abbia penetrato, non dirò i sensi interni dell'animo suo,
perché per ispiar questi io non ho né occhi né anco orecchi, ma i sensi della
sua scrittura, i quali son pur tanto chiari e manifesti, che bisogno non ci
è de gli occhi lincei, gentilmente introdotti dal Sarsi, credo per
ischerzare un poco sopra la nostra Academia. E perché e V. S. Illustrissima ed
altri principi e signori grandi son meco a parte nello scherzo, io, per la
dottrina di sopra insegnatami dal Sarsi, non curando molto i suoi motti, me la
passerò sotto l'ombra loro, o, per meglio dire, illustrerò
l'ombra mia col loro splendore.
Ma tornando al proposito, vegga
com'egli di nuovo vuol pure ch'io abbia reputato gran mancamento nel P. Grassi
l'aver egli aderito alla dottrina di Ticone, e risentitamente domanda: Chi ei
doveva seguitare? forse Tolomeo, la cui dottrina dalle nuove osservazioni in
Marte è scoperta per falsa? forse il Copernico, dal quale più
presto si deve rivocar ognuno, mercé dell'ipotesi ultimamente dannata? Dove io
noto più cose e prima, replico ch'è falsissimo ch'io abbia mai
biasimato il seguitar Ticone, ancor che con ragione avessi potuto
farlo, come pur finalmente dovrà restar manifesto a i suoi aderenti per
l'Antiticone del signor cavalier Chiaramonte; sì che quanto qui
scrive il Sarsi, è molto lontano dal proposito; e molto più fuor
del caso s'introducono Tolomeo e Copernico, de' quali non si trova che
scrivessero mai parola attenente a distanze, grandezze, movimenti e teoriche di
comete, delle quali sole, e non d'altro, si è trattato, e con
altrettanta occasione vi si potevano accoppiare Sofocle, e Bartolo, o
Livio. Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel
filosofare sia necessario appoggiarsi all'opinioni di qualche celebre autore,
sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d'un altro,
ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la
filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade e l'Orlando
furioso, libri ne' quali la meno importante cosa è che quello
che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà
così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che
continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si
può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i
caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua
matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche,
senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza
questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur
anco, come al Sarsi pare, che l'intelletto nostro debba farsi mancipio
dell'intelletto d'un altr'uomo (lascio stare ch'egli, facendo così
tutti, e se stesso ancora, copiatori, loderà in sé quello che ha
biasimato nel signor Mario), e che nelle contemplazioni de' moti celesti si
debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ragione ei s'elegga Ticone,
anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de' quali due abbiamo i
sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine;
cosa ch'io non veggo che Ticone abbia fatta, se già al Sarsi non basta
l'aver negati gli altri due e promessone un altro, se ben poi non esseguito. Né
meno dell'aver convinto gli altri due di falsità, vorrei che alcuno lo
riconoscesse da Ticone: perché, quanto a quello di Tolomeo, né Ticone né altri
astronomi né il Copernico stesso potevano apertamente convincerlo, avvenga che
la principal ragione, presa da i movimenti di Marte e di Venere, aveva sempre
il senso in contrario; al quale dimostrandosi il disco di Venere nelle due
congiunzioni e separazioni dal Sole pochissimo differente in grandezza da se
stesso, e quel di Marte perigeo a pena 3 o 4 volte maggiore che
quando è apogeo, già mai non si sarebbe persuaso dimostrarsi
veramente quello 40 e questo 60 volte maggiore nell'uno che nell'altro stato,
come bisognava che fusse quando le conversioni loro fussero state intorno al
Sole, secondo il sistema Copernicano; tuttavia ciò esser vero e
manifesto al senso, ho dimostrato io, e fattolo con perfetto telescopio toccar
con mano a chiunque l'ha voluto vedere. Quanto poi all'ipotesi
Copernicana, quando per beneficio di noi cattolici da più sovrana
sapienza non fussimo stati tolti d'errore ed illuminata la nostra
cecità, non credo che tal grazia e beneficio si fusse potuto ottenere
dalle ragioni ed esperienze poste da Ticone. Essendo, dunque, sicuramente falsi
li due sistemi, e nullo quello di Ticone, non dovrebbe il Sarsi riprendermi se
con Seneca desidero la vera costituzion dell'universo. E ben che la
domanda sia grande e da me molto bramata, non però tra ramarichi e
lagrime deploro, come scrive il Sarsi, la miseria e calamità di questo
secolo, né pur si trova minimo vestigio di tali lamenti in tutta la scrittura
del signor Mario; ma il Sarsi, bisognoso d'adombrare e dar appoggio a qualche
suo pensiero ch'ei desiderava di spiegare, lo va da se stesso preparando, e
somministrandosi quegli attacchi che da altri non gli sono stati porti. E
quando pur io deplorassi questo nostro infortunio, io non veggo quanto
acconciamente possa dire il Sarsi, indarno essere sparse le mie querele, non
avendo io poi modo né facoltà di tor via tal miseria, perché a me pare
che appunto per questo avrei causa di querelarmi, ed all'incontro le querimonie
allora non ci avrebbon luogo, quando io potessi tor via l'infortunio.
Ma legga ormai V. S. Illustrissima. “Et
quoniam hoc loco atque hoc ad disputationem ingressu confutanda ea mihi
sunt quæ minoris ponderis videntur, illud ab homine perhumano, qualem
illum omnes norunt, expectassem profecto nunquam, ut, vel ipso Catone severior,
lepores quosdam ac sales, apposite a nobis inter dicendum usurpatos, fastidiose
adeo aversaretur, ut irrideret potius, ac diceret naturam poëticis non
delectari. At ego, proh, quantum ab hac opinione distabam! naturam poëtriam ad
hanc usque diem existimavi. Illa certe vix unquam poma fructusque ullos parit,
quorum flores, veluti ludibunda, non præmittat. Galilæum vero quis
unquam adeo durum existimasset, ut a severioribus negotiis festiva aliqua eorum
condimenta longe ableganda censeret? Hoc enim Stoici potius est, quam
Academici. Attamen iure is quidem nos arguat, si gravissimas quæstiones
iocis ac salibus eludere, potius quam explicare, tentaremus; at vero, rationum
inter gravissimarum pondera, lepide aliquando ac salse iocari quis vetat? Vetat
enimvero Academicus. Non paremus. Et si illi nostra hæc urbanitas non
sapit? Plures habemus, non minus eruditos, quos delectat. Neque enim hic fuit
sensus virorum, et genere et doctrina clarissimorum, qui nostræ
disputationi interfuere, quibus sapienter omnino factum visum est, ut cometes,
triste infaustumque vulgo portentum, placido aliquo verborum lenimento
tractaretur, ac prope mitigaretur. Sed hæc levia sunt, inquis. Ita est;
ac proinde leviter diluenda.”
Da quanto qui è scritto in poche
parole sbrigandomi, dico che né il signor Mario né io siamo così
austeri, che gli scherzi e le soavità poetiche ci abbiano a far nausea:
di che ci sieno testimoni l'altre vaghezze interserite molto leggiadramente dal
P. Grassi nella sua scrittura, delle quali il signor Mario non ha pur mosso
parola per tassarle; anzi con gran gusto si son letti i natali, la cuna, le
abitazioni, i funerali della cometa, e l'essersi accesa per far lume
all'abboccamento e cena del Sole e di Mercurio; né pur ci ha dato fastidio che
i lumi fussero accesi 20 giorni dopo cena, né meno il sapere che dov'è
il Sole, le candele son superflue ed inutili, e ch'egli non cena, ma desina
solamente, cioè mangia di giorno, e non di notte, la quale stagione gli
è del tutto ignota: tutte queste cose senza veruno scrupolo si sono
trapassate, perché, dette in cotal guisa, non ci ànno lasciato nulla da
desiderare nella verità del concetto sotto cotali scherzi contenuto, il
quale, per esser per sé noto e manifesto, non avea bisogno d'altra più
profonda dimostrazione. Ma che in una questione massima e difficilissima, qual
è il volermi persuadere trovarsi realmente, e fuor di burle, in natura
un particolare orbe celeste per le comete, mentre che Ticone non si può
sviluppar nell'esplicazion della difformità del moto apparente di essa
cometa, la mente mia debba quietarsi e restar appagata d'un fioretto poetico,
al quale non succede poi frutto veruno, questo è quello che il signor
Mario rifiuta, e con ragione e con verità dice che la natura non si
diletta di poesie: proposizion verissima, ben che il Sarsi mostri di non la
credere, e finga di non conoscer o la natura o la poesia, e di non sapere che
alla poesia sono in maniera necessarie le favole e finzioni, che senza quelle
non può essere; le quali bugie son poi tanto abborrite dalla natura, che
non meno impossibil cosa è il ritrovarvene pur una, che il trovar
tenebre nella luce. Ma tempo è ormai che vegniamo a cose di momento
maggiore; però legga V. S. Illustrissima quel che segue.
“Venio nunc ad graviora.
Tribus potissimum argumentis cometæ locum indagandum censuit Magister
meus: primum quidem, per parallaxis observationes; deinde, ex incessu eiusdem
ac motu; denique, ex iis quæ tubo optico in illo observarentur. Conatur
Galilæus singulis abrogare fidem, eaque suis momentis privare. Cum enim
ostendissemus, cometam, ex variis diversorum locorum observationibus, parvam
admodum passum esse aspectus diversitatem, ac propterea supra Lunam statuendum,
ait ille, argumentum ex parallaxi desumptum nihil habere ponderis, nisi prius
statuatur, sint ne illa quæ observantur vera unoque loco consistentia, an
vero in speciem apparentia ac vaga. Recte is
quidem; sed non erat his opus. Quid enim, si statutum iam id haberetur? Certe,
cum certamen nobis præsertim esset cum Peripateticis, quorum sententia
quamplurimos etiam nunc sectatores recenset, frustra ex apparentium numero
cometas exclusissemus, cum nullius nostrum animum pulsaret hæc dubitatio.
Sane
Galilæus ipse, dum adversus Aristotelem disputat, non acriori ac
validiori utitur argumento, quam ex parallaxi desumpto. Cur igitur, simili
atque eadem prorsus in caussa, nobis eodem uti libere non liceret?”
Per conoscer quanto sia il momento
delle cose qui scritte, basterà restringere in brevità quello che
dice il signor Mario e questo che gli viene opposto. Scrisse il signor Mario in
generale: “Quelli che per via della paralasse voglion determinar circa 'l luogo
della cometa, ànno bisogno di stabilir prima, lei esser cosa fissa e
reale, e non un'apparenza vaga, atteso che la ragion della paralasse conclude
ben negli oggetti reali, ma non negli apparenti”, com'egli essemplifica in
molti particolari; aggiunge poi, la mancanza di paralasse rendere incompatibili
le due proposizioni d'Aristotile, che sono, che la cometa sia un incendio,
ch'è cosa tanto reale, e sia in aria molto vicina alla Terra. Qui si
leva su il Sarsi, e dice: “Tutto sta bene, ma è fuor del caso nostro,
perché noi disputiamo contro Aristotile, e vana sarebbe stata la fatica in
provar che la cometa non fusse una apparenza, poi che noi convegniamo con lui
in tenerla cosa reale, e come di cosa reale il nostro argomento, preso dalla
paralasse, conclude; anzi (soggiunge egli) l'avversario stesso non si serve
d'argomento più valido contro Aristotile; e se ei se ne serve, perché
nell'istessa causa non ce ne possiamo liberamente servir noi ancora?” Or qui io
non so quel che il Sarsi pretenda, né in qual cosa ei pensa d'impugnare il signor
Mario, poi che ambedue dicono le medesime cose, cioè che la ragione
della paralasse non vale nelle pure apparenze, ma val ben ne gli oggetti reali,
ed in conseguenza val contro Aristotile, mentr'ei vuole che la cometa sia cosa
reale. Qui, se si debbe dire il vero con pace del Sarsi, non si può dir
altro se non ch'egli, co 'l palliare il detto del signor Mario, ha voluto
abbarbagliar la vista al lettore, sì che gli resti concetto che il
signor Mario abbia parlato a sproposito; perché a voler che l'obbiezzioni del
Sarsi avessero vigore, bisognerebbe che, dove il signor Mario, parlando in
generale a tutto il mondo, dice: “A chi vuol che l'argomento della paralasse
militi nella cometa, convien che provi prima, quella esser cosa reale”,
bisognerebbe, dico, che avesse detto: “Se il P. Grassi vuole che l'argomento
della paralasse militi contro Aristotile, che tiene la cometa esser cosa reale,
e non apparente, bisogna che prima provi che la cometa sia cosa reale, e non
apparente”; e così il detto del signor Mario sarebbe veramente, quale il
Sarsi lo vorrebbe far apparire, un grandissimo sproposito. Ma il signor Mario
non ha mai né scritte né pensate queste sciocchezze.
“Sed confutandæ etiam fuerint
Anaxagoræ, Pythagoræorum atque Hippocratis opiniones. Nemo tamen ex iis, cometam vanum omni ex parte oculorum
ludibrium affirmarat. Anaxagoras enim stellarum verissimarum congeriem esse
dixit; cum Aeschylo Hippocrates nihil a Pythagoræis dissentit:
Aristoteles profecto, cum eorundem Pythagoræorum sententiam exposuisset,
qua dicerent cometam unum esse errantium siderum, tardissim ead nos accedens ac
citissime fugiens, subdit: "Similiter autem his et qui sub Hippocrate Chio
et discipulo eius Aeschylo enunciaverunt; sed comam non ex se ipso aiunt
habere, sed errantem, propter locum, aliquando accipere, refracto nostro visu
ab humore attracto ab ipso ad Solem." Galilæus vero, in ipso
suæ disputationis exordio, dum eorumdem placita recenset, asserit dixisse
illos, cometam stellam quandam fuisse, quæ, Terris aliquando propior
facta, quosdam ab eadem ad se vapores extraheret, e quibus sibi, non caput, sed
comam decenter aptaret. Minus igitur, ut hoc obiter dicam, ad rem facit, dum
postea ex his iisdem locis probat, Pythagoræos etiam existimasse cometam
ex refractione luminis extitisse; illi enim nihil in cometis vanum,
præter barbam, existimarunt. Intelligit ergo, nulli horum visum
unquam fuisse, cometam, si de eiusdem capite loquamur, inane quiddam ac mere
apparens dicendum. Quare, cum hac in re, ad hoc usque tempus, convenirent
omnes, quid erat causæ, cur facem hanc lucidissimam larvis illis ac
fictis colorum ludibriis spoliaremus, ab eaque crimen illud averteremus, quod
ei nullus hominum, quorum habenda foret ratio, obiecisset? Cardanus enim ac
Telesius, ex quibus aliquid ad hanc rem desumpsisse videtur Galilæus,
sterilem atque infelicem philosophiam nacti, nulla ab ea prole beati, libros
posteris, non liberos, reliquerunt. Nobis igitur ac Tychoni satis sit, apud eos
non perperam disputasse, apud quos nunquam vani ac fallacis spectri cometes
incurrit suspicionem; hoc est, ipso Galilæo teste, apud omnium, quotquot
adhuc fuerunt, philosophorum Academias. Quod si quis modo inventus est, qui
hæc phænomena inter mere apparentia reponenda diserte docuerit,
ostendam huic ego suo loco, ni fallor, quam longe cometæ ab iride, areis
et coronis, moribus ac motibus distent, quibusque argumentis conficiatur,
cometem, si comam excluseris, non ad Solis imperium nutumque, quod apparentibus
omnibus commune est, agi, sed liberum moveri protinus ac circumferri quo sua
illum natura impulerit traxeritque.”
Qui volendo anco in universale mostrar,
la dubitazion promossa dal signor Mario esser vana e superflua, dice, niuno
autore antico o moderno, degno d'esser avuto in considerazione, aver mai
stimato la cometa potere esser una semplice apparenza, e che per ciò al
suo Maestro, il quale solo con questi disputava e di questi soli aspirava alla
vittoria, niun mestier faceva di rimuoverla dal numero de' puri simulacri. Al
che io rispondendo, dico primieramente che il Sarsi ancora con simil ragione
poteva lasciare stare il signor Mario e me, poi che siam fuori del numero di
quegli antichi e moderni contro i quali il suo Maestro disputava, ed abbiamo
avuta intenzione di parlar solamente con quelli (sieno antichi o moderni) che
cercano con ogni studio d'investigar qualche verità in natura, lasciando
in tutto e per tutto ne' lor panni quegli che solo per ostentazione in
strepitose contese aspirano ad esser con pomposo applauso popolare giudicati
non ritrovatori di cose vere, ma solamente superiori a gli altri; né doveva
mettersi con tanta ansietà per atterrar cosa che né a sé né al suo
Maestro era di pregiudicio. Doveva secondariamente considerare, che molto
più è scusabile uno a chi in alcuna professione non cade in mente
qualche particolare attenente a quella, e massime quando né anco a mille altri,
che abbiano professato il medesimo, è sovvenuto, che quegli a cui venga
in mente, e presti l'assenso a cosa che sia vana ed inutile in quell'affare;
ond'ei poteva e doveva più tosto confessare che al suo Maestro, com'anco
a nessun de' suoi antecessori, non era passato per la mente il concetto che la
cometa potesse essere una apparenza, che sforzarsi per dichiarar vana la
considerazion sovvenuta a noi: perché quello, oltre che passava senza niuna
offesa del suo Maestro, dava indizio d'una ingenua libertà, e questo,
non potendo seguire senza offesa della mia reputazione (quando gli fusse
sortito l'intento), dà più tosto segno d'animo alterato da qualche
passione. Il signor Mario, con isperanza di far cosa grata e profittevole agli
studiosi del vero, propose con ogni modestia, che per l'avvenire fusse bene
considerare l'essenza della cometa, e s'ella potesse esser cosa non reale, ma
solo apparente, e non biasimò il P. Grassi né altri, che per l'addietro
non l'avesser fatto. Il Sarsi si leva su, e con mente alterata cerca di
provare, la dubitazione essere stata fuor di proposito, ed esser di più
manifestamente falsa; tuttavia per trovarsi, come si dice, in utrumque
paratus, in ogni evento ch'ella apparisse pur degna di
qualche considerazione, per ispogliarmi di quella lode che arrecar mi potesse,
la predica per cosa vecchia del Cardano e del Telesio, ma
disprezzata dal suo Maestro come fantasia di filosofi deboli e di niun seguito;
ed in tanto dissimula, e non sente con quanta poca pietà egli spoglia e
denuda coloro di tutta la reputazione, per ricoprire un piccolissimo neo di
quella del suo Maestro. Se voi, Sarsi, vi fate scolare di quei venerandi Padri
nella natural filosofia, non vi fate già nella morale, perché non vi
sarà creduto. Quello che abbiano scritto il Cardano e 'l Telesio, io non
l'ho veduto, ma per altri riscontri, che vedremo appresso, posso facilmente
conghietturare che il Sarsi non abbia ben penetrato il senso loro. In tanto non
posso mancare, per avvertimento suo e per difesa di quelli, di mostrar quanto
improbabilmente ei conclude la lor poca scienza della filosofia dal piccol
numero de' suoi seguaci. Forse crede il Sarsi, che de' buoni filosofi se ne
trovino le squadre intere dentro ogni ricinto di mura? Io, signor Sarsi, credo
che volino come l'aquile, e non come gli storni. È ben vero che quelle,
perché son rare, poco si veggono e meno si sentono, e questi, che volano a
stormi, dovunque si posano, empiendo il ciel di strida e di rumori, metton
sozzopra il mondo. Ma pur fussero i veri filosofi come l'aquile, e non
più tosto come la fenice. Signor Sarsi, infinita è la turba de
gli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che
sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola
cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; un solo Dio
è quello che la sa tutta. Sì che, per dir quel ch'io voglio
inferire, trattando della scienza che per via di dimostrazione e di discorso
umano si può da gli uomini conseguire, io tengo per fermo che
quanto più essa participerà di perfezzione, tanto minor numero di
conclusioni prometterà d'insegnare, tanto minor numero ne
dimostrerà, ed in conseguenza tanto meno alletterà, e tanto
minore sarà il numero de' suoi seguaci: ma, per l'opposito, la
magnificenza de' titoli, la grandezza e numerosità delle promesse,
attraendo la natural curiosità de gli uomini e tenendogli perpetuamente
ravvolti in fallacie e chimere, senza mai far loro gustar l'acutezza d'una sola
dimostrazione, onde il gusto risvegliato abbia a conoscer l'insipidezza de'
suoi cibi consueti, ne terrà numero infinito occupato; e gran ventura
sarà d'alcuno che, scorto da straordinario lume naturale, si saprà
torre da i tenebrosi e confusi laberinti ne i quali si sarebbe coll'universale
andato sempre aggirando e tuttavia più avviluppando. Il giudicar dunque
dell'opinioni d'alcuno in materia di filosofia dal numero de i seguaci, lo
tengo poco sicuro. Ma ben ch'io stimi, piccolissimo poter esser il numero de i
seguaci della miglior filosofia, non però concludo, pel converso, quelle
opinioni e dottrine esser necessariamente perfette, le quali ànno pochi
seguaci; imperocché io intendo molto bene, potersi da alcuno tenere opinioni
tanto erronee, che da tutti gli altri restino abbandonate. Ora, da qual de' due
fonti derivi la scarsità de' seguaci de' due autori nominati dal Sarsi
per infecondi e derelitti, io non lo so, né ho fatto studio tale nell'opere
loro, che mi potesse bastar per giudicarle.
Ma tornando alla materia, dico che
troppo tardi mi par che il Sarsi voglia persuaderci che il suo Maestro, non
perché non gli cadesse in mente, ma perché disprezzò come cosa vanissima
il concetto che la cometa potess'essere un puro simulacro, e che in questi non
milita l'argomento della paralasse, non ne fece menzione: tarda, dico, è
cotale scusa, perché quand'egli scrisse nel suo Problema: “Statuo,
rem quamcunque inter firmamentum et Terram constitutam, si diversis e locis
spectetur, diversis etiam firmamenti partibus responsuram”, chiaramente si
dimostrò, non gli esser venuto in mente l'iride e l'alone, i parelii ed
altre reflessioni, che a tal legge non soggiacciono, le quali ei doveva
nominare ed eccettuare, e massime ch'egli stesso, lasciando Aristotile, inclina
all'opinione del Kepplero, che la cometa possa essere una
reflessione. Ma seguendo più avanti, mi par di vedere che il Sarsi
faccia gran differenza dal capo della cometa alla sua barba o chioma, e che
quanto alla chioma possa esser veramente ch'ella sia un'illusione della nostra
vista e una apparenza, e che tale l'abbiano stimata ancora quei Pittagorici
nominati da Aristotile; ma quanto al capo stima che sia necessariamente cosa
reale, e che niuno l'abbia mai creduto altrimenti. Or qui vorrei io una bene
specificata distinzione tra quello che il Sarsi intende per reale e quello
ch'egli stima apparente, e qual cosa sia quella che fa esser reale quello
ch'è reale, e apparente quello ch'è apparente: perché, s'egli chiama
il capo reale per esser in una sostanza e materia reale, io dico che anco la
chioma è tale; sì che chi levasse via quei vapori ne' quali si fa
la reflession della vista nostra al Sole, sarebbe tolta parimente la chioma,
come al tor via delle nuvole si toglie l'iride e l'alone: e s'ei domanda la
chioma finta perché senza la reflession della vista al Sole ella non sarebbe,
io dico che anco del capo seguirebbe l'istesso; sì che tanto la chioma
quanto il capo non son altro che reflession di raggi in una materia, qualunqu'ella
si sia; e che in quanto reflessioni sono pure apparenze, in quanto alla materia
son cosa reale. E se il Sarsi ammette che alla mutazion di luogo del
riguardante faccia o possa far mutazion di luogo la generazion della chioma
nella materia, io dico che del capo ancora può nel medesimo modo seguir
l'istesso; e non credo che quei filosofi antichi stimassero altrimenti, perché,
se, verbigrazia, avesser creduto il capo esser realmente una stella per se
stessa, lucida e consistente, e solo la chioma apparente, avrebber detto che
quando per l'obliquità della sfera non si fa la refrazzion della nostra
vista al Sole, non si vede più la chioma, ma sì ben la stella,
ch'è capo della cometa; il che non dissero, ma dissero che in tutto non
si vedeva cometa: segno evidente, la generazion d'ambedue esser l'istessa. Ma
detto o non detto che ciò sia da gli antichi, vien messo in
considerazione adesso dal signor Mario con assai sensate ragioni di dubitare,
le quali devono esser ponderate, come pure fa ancora l'istesso Sarsi; e noi a
suo luogo anderemo considerando quanto egli ne scrive.
Intanto segua V. S. Illustrissima di
leggere: “Eadem prorsus ratione respondendum mihi est ad ea quæ argumento
ex motu desumpto obiiciuntur. Nos enim ex eo, quod loca cometæ singulis
diebus respondentia in plano, ad modum horologii, descripta in una recta linea
reperirentur, motum illum in circulo maximo fuisse necessario inferebamus:
obiicit autem Galilæus, "non deduci id necessario; quia, si incessus
cometæ revera in linea recta fuisset, sic etiam loca ipsius, ad modum
horologii descripta, lineam rectam constituissent; non tamen fuisset motus hic
in circulo maximo". Sed quamvis verissimum sit, motum etiam per lineam
rectam repræsentari debuisse rectum; cum tamen adversus eos lis esset, qui
vel de cometæ motu circulari nihil ambigerent, vel quibus rectus hic
motus nunquam venisset in mentem, hoc est contra Anaxagoram, Pythagoræos,
Hippocratem et Aristotelem, atque illud tantum quæreretur, an cometes,
qui in orbem agi credebatur, maiores an potius minores lustraret orbes; non
inepte, sed prorsus necessario, ex motu in linea recta apparente inferebatur
circulus ex motu descriptus maximus fuisse: nemo enim adhuc motum hunc rectum
et perpendicularem invexerat. Quamvis enim Keplerus ante Galilæum, in
appendicula de motu cometarum, per lineas rectas eundem motum explicare
contendat, ille tamen nihilominus vidit, in quales sese difficultates indueret:
quare neque ad Terram perpendicularem esse voluit motum hunc, sed transversum;
neque æqualem, sed in principio ac fine remissiorem, celerrimum in medio;
eumque præterea fulciendum Terræ ipsius motu circulari existimavit,
ut omnia cometarum phænomena explicaret; quæ nobis catholicis nulla
ratione permittuntur. Ego igitur opinionem illam, quam pie ac sancte tueri non
liceret, pro nulla habendam duxeram. Quod si postea, paucis mutatis, motum hunc
rectum cometis tribuendum putavit Galilæus, id quam non recte
præstiterit inferius singillatim mihi ostendendum erit. Intelligat
interim, nihil nos contra logicæ præcepta peccasse, dum ex motu in
linea recta apparente orbis maximi partem eodem descriptam fuisse deduximus.
Quid enim opus fuerat motum illum rectum et perpendicularem excludere, quem in
cometis nusquam reperiri constabat?”
Aveva il signor Guiducci, con
quell'onestissimo fine d'agevolar la strada agli studiosi del vero, messo in
considerazione l'equivoco che prendevano quegli che, dall'apparir la cometa
mossa per linea retta, argumentavano il movimento suo esser per cerchio massimo,
avvertendogli che, se bene era vero che il moto per cerchio massimo sempre
appariva retto, non era però necessariamente vero il converso,
cioè che il moto che apparisse retto fusse per cerchio massimo, come
venivano ad aver supposto quegli che dall'apparente moto retto inferivano, la
cometa muoversi per cerchio massimo: tra i quali era stato il P. Grassi, il
quale, forse quietandosi nell'autorità di Ticone, che prima aveva
equivocato, trapassò quello che forse non avrebbe passato quando non
avesse avuto tal precursore; il che rende assai scusabile appresso di me il
piccolo errore del Padre, il quale credo anco che dell'avvertimento del signor
Mario abbia fatto capitale e tenutogliene buon grado. Vien ora il Sarsi, e
continuando nel suo già impresso affetto, s'ingegna di far apparir
l'avvertimento innavvertenza e poca considerazione, credendo in cotal guisa
salvar il suo Maestro: ma a me pare che ne segua contrario effetto (quando
però il Padre prestasse il suo assenso alle scuse e difese del Sarsi), e
che per ischivare un error solo, incorrerebbe in molti.
E prima, seguitando il Sarsi di reputar
vano e superfluo l'avvertir quelle cose che né esso né altri ha avvertite, dice
che, disputando il suo Maestro con Aristotile e con Pittagorici, che mai non avevano
introdotto per le comete movimento retto, fuor del caso sarebbe stato ch'avesse
tentato di rimuoverlo. Ma se noi ben considereremo, questa scusa non solleva
punto il Padre: perché non avendo mai li medesimi avversari introdotto per le
comete il moto per cerchi minori, altrettanto resta superfluo il dimostrar
ch'elle si muovono per cerchi massimi. Bisogna dunque al Sarsi, o trovar che
quegli antichi abbiano scritto, le comete muoversi per cerchi minori, o
confessare che il suo Maestro sia del pari stato superfluo nel considerare il
moto per cerchio massimo, come sarebbe stato nel considerare il retto.
Anzi (e sia per la seconda instanza),
stando pur nella regola del Sarsi, assai maggior mancamento è stato il
lasciar senza considerazione il moto retto, poi che pur v'era il Kepplero che
attribuito l'aveva alle comete, ed il medesimo Sarsi lo nomina. Né mi pare che
la scusa ch'egli adduce sia del tutto sofficiente, cioè che per tirarsi
tale opinion del Kepplero in conseguenza la mobilità della Terra, proposizione
la quale piamente e santamente non si può tenere, egli per ciò la
reputava per niente; perché questo doveva più tosto essergli stimolo a
distruggerla e manifestarla per impossibile: e forse non è mal fatto il
dimostrar anco con ragioni naturali, quando ciò si possa, la
falsità di quelle proposizioni che son dichiarate repugnanti alle
Scritture Sacre.
Terzo, resta ancor manchevole la scusa
del Sarsi, perché non solamente il moto veramente retto apparisce per linea
retta, ma qualunque altro, tuttavolta che sia fatto nel medesimo piano nel
quale è l'occhio del riguardante; il che fu pure accennato dal signor
Mario: sì che bisognerà al Sarsi trovar modo di persuaderci che
né anco alcuno altro movimento, fuor del circolare, sia mai caduto in mente ad
alcuno potersi assegnare alle comete; il che non so quanto acconciamente gli
potesse succedere; perché, quando niuno altro l'avesse detto, l'ha pure egli
stesso scritto pochi versi di sotto, quando, per difesa della digression dal
Sole di più di 90 gradi, ei dà luogo al moto non circolare, ed
ammette quello per linea ovata, anzi pur, bisognando, per qualsivoglia linea
irregolare ancora. È dunque necessario, o che l'istesso movimento sia or
circolare or ovale or del tutto irregolare, secondo il bisogno del Sarsi, o
ch'ei confessi la difesa pel suo Maestro esser difettosa.
Quarto, ma che sarà quando io
ammetta, il moto della cometa esser, non solo per commune opinione, ma
veramente e necessariamente, circolare? Stimerà forse il Sarsi, esser
perciò dal suo Maestro o da altri, dall'apparir quello per retta linea,
concludentemente dimostrato esser per cerchio massimo? So che il Sarsi ha sin
ora creduto di sì, e si è ingannato, ed io lo trarrei d'errore,
quando credessi di non gli dispiacere; e per ciò fare l'interrogherei,
quali nella sfera ei domanda cerchi massimi. So che mi risponderebbe, quelli
che passando per lo centro di quella (ch'è anco il centro della Terra),
la dividono in due parti uguali. Io gli soggiungerei: “Adunque i cerchi
descritti da Venere, da Mercurio e da' pianeti Medicei non sono altrimenti
cerchi massimi, anzi piccolissimi, avendo questi per lor centro Giove, e quelli
il Sole; tuttavia se s'osserverà quali si mostrino i movimenti loro, gli
troveremo apparir per linee rette; il che avviene per esser l'occhio nostro nel
medesino piano nel quale son anco i cerchi descritti dalle nominate stelle.”
Concludiamo per tanto che dall'apparirci un moto retto altro non si può
concludere salvo che l'esser fatto, non per la circonferenza d'un cerchio massimo
più che per quella d'un minore, ma solamente esser fatto nel piano che
passa per l'occhio, cioè nel piano d'un cerchio massimo; e che in se
stesso quel moto può esser fatto per linea circolare, ed anco per qual
si voglia altra quanto si voglia irregolare, ché sempre apparirà retto;
e che però, non essendo le due proposizioni già da noi essaminate
convertibili, il prender l'una per l'altra è un equivocare, ch'è
poi peccare in logica.
Se io credessi che il Sarsi non fusse
per volermene male, vorrei che noi gli conferissimo un'altra simil fallacia, la
quale veggo ch'è da grandissimi uomini trapassata, e forse l'istesso
Sarsi non vi ha fatto reflessione; ma non vorrei fargli dispiacere col
mostrargli di non l'aver io ancora, con tanti altri più perspicaci di
me, trascorsa. Ma sia come si voglia, la voglio conferire a V. S.
Illustrissima. È stato con arguta osservazion notato, che
l'estremità della coda, il capo delle comete ed il centro del disco del
Sole si scorgono sempre secondo la medesima linea retta; dal che si è
preso gagliarda conghiettura, detta coda essere un distesa refrazzione del lume
solare, diametralmente opposta al Sole; ned è, per quanto io sappia, sin
qui caduto in considerazione ad alcuno, come il mostrarcisi il Sole e tutto il
tratto della cometa in linea retta non concluda che necessariamente la linea
retta tirata per l'estremità della coda e pel capo della cometa vada,
prolungata, a terminar nel Sole. Per apparir tre o più termini in linea
retta, basta che sieno collocati nel medesimo piano che l'occhio: e
così, per essempio, Marte o la Luna talora si vederanno in mezo
direttamente tra due stelle fisse, ma non perciò la linea retta che
congiungesse le due stelle passerebbe per Marte o per la Luna. Dall'apparir,
dunque, la coda della cometa direttamente opposta al Sole, altro non si
può necessariamente concludere, che l'esser nel medesimo piano
coll'occhio.
Or sia, nel quinto luogo, notata certa,
dirò così, incostanza nelle parole verso il fine delle lette da
V. S. Illustrissima e da me essaminate; dove il Sarsi si prende assunto di
voler più a basso mostrare quanto malamente io, cioè il signor
Mario, abbia attribuito alla cometa il moto retto, e poi, tre versi più
a basso, dice non esser bisogno alcuno d'escluder questo moto retto, il qual
era certo e manifesto già mai non ritrovarsi nelle comete. Ma se
l'impossibilità di questo moto è certa e manifesta, a che
proposito mettersi a volerla escludere? ed in qual modo è ella certa e
manifesta, se, per detto del Sarsi, nessuno l'ha pur mai non solamente confutata,
ma né anco considerata? Al Kepplero solo, dic'egli, è tal moto venuto in
considerazione. Ma il Kepplero non lo confuta, anzi l'introduce per possibile e
vero. Parmi che 'l Sarsi, sentendosi di non poter far altro, cerchi
d'avviluppare il lettore: ma io cercherò di disfare i viluppi.
“Sed dum illud præterea hoc loco
nobis obiicit: "Si cometes circa Solem ageretur, cum integro quadrante ab
eodem Sole recesserit, futurum aliquando ut ad Terram usque descenderet",
non venit illi in mentem fortasse, non uno modo circa Solem cometam agi
potuisse. Quid enim, si circulus, quo vehebatur, eccentricus Soli fuisset, et
maiori sui parte aut supra Solem existente, aut ad septentrionem vergente?
Quid, si motus circularis non fuisset, sed ellipticus, et quidem summa imaque
parte compressus, longe vero exporrectus in latera? Quid, si ne ellipticus
quidem, sed omnino irregularis, cum præsertim, ex ipsius Galilæi
systemate, nullo plane impedimento cometis, quocunque liberet, moveri licuerit?
Ut sane propterea timendum non esset, ne cometarum lucem Tellus aut Tartarus e
propinquo visurus umquam foret.”
Qui, primieramente, se io ammetto
l'accusa che mi dà il Sarsi di poco considerato, mentre non mi siano
venuti in mente i diversi moti ch'attribuir si possono alla cometa, non so
com'egli potrà scolpare dalla medesima nota il suo Maestro, il quale non
considerò il potersi ella muover di moto retto; e s'egli scusa il suo
Maestro col dire che tal considerazione sarebbe stata superflua, non sendo
stato da niun altro autore introdotto tal movimento, non veggo di meritar
d'essere accusato io, ma sì ben nell'istesso modo debbo essere scusato,
non si trovando autor nessuno ch'abbia introdotti questi moti stranieri ch'ora
nomina il Sarsi. In oltre, signor Sarsi, toccava al vostro Maestro, e non a me,
a pensare a questi movimenti per li quali si potesse render convenevol ragione
delle digressioni così grandi della cometa; e se alcuno ve n'è
accommodato a tal bisogno, doveva nominarlo e quel solo accettare, e non lasciarlo
sotto silenzio e introdurre con Ticone il semplice circolare intorno al Sole,
inettissimo a salvar cotale apparenza, e voler poi che non esso ma noi avessimo
commesso fallo, in non indovinare ch'ei potesse internamente aver dato ricetto
a pensieri diversissimi da quello ch'aveva scritto. Di più, il signor
Mario non ha mai detto che non sia in natura modo alcuno di salvar la
digressione d'una quarta (anzi se tal digressione è stata, ben chiara
cosa è che ci è anco il modo com'ella è stata); ma ha
detto: “Nell'ipotesi ricevuta dal Padre non si può far tal digressione
senza che la cometa tocchi la Terra, e anco la penetri.” Vana, dunque, è
sin qui la scusa del Sarsi. Ma fors'ei pretende ch'ogni leggiera scusa si debba
ammettere per lo suo Maestro, ma che per me ogni più gagliarda resti
invalida; e se questo è, io volentieri mi quieto, e liberamente gliel
concedo.
E vengo, nel secondo luogo, a produrre
altra scusa per me (vestito della persona del signor Mario); e con
ingenuità confessando, non m'esser venuti in mente i movimenti per
eccentrici o per linee ovali o per altre irregolari, dico ciò essere
accaduto perch'io non soglio dar orecchio a' concetti che non ànno che
fare in quel proposito di che si tratta. E che vuol fare il Sarsi del moto
intorno al Sole in una figura ovale, per far digredir la cometa una quarta?
cred'egli forse che, coll'allungar per un verso e stringer per l'altro tal
figura, gli possa succedere l'intento? certo no, quando anco ei l'allungasse in
infinito. E la medesima impossibilità cade nell'eccentrico che sia per
la minor parte sotto il Sole. E per intelligenza del Sarsi, V. S. Illustrissima
potrà una volta, incontrandolo, proporgli due tali linee rette
AB, CD, delle quali la CD sia
perpendicolare all'AB, e dirgli che supponendo la retta DC esser quella che va
dall'occhio al Sole, quella per la quale si ha da vedere la cometa digredita 90
gradi, bisogna che di necessità sia la DA o vero DB, essendo
communemente conceduto, il moto apparente della cometa esser nel piano d'un
cerchio massimo: lo preghi poi, che per nostro ammaestramento egli descriva
l'eccentrico o l'ovato nominati da lui, per li quali movendosi la cometa possa
abbassarsi tanto ch'ella venga veduta per la linea ADB, perché io confesso di
non lo saper fare. E sin qui vengono esclusi due de' proposti modi: ci resta
l'altro eccentrico col centro declinante a destra o a sinistra della linea DC,
e la linea irregolare. Quanto all'eccentrico, è vero che non è
del tutto impossibile a disegnarsi in carta in maniera che causi la cercata
digressione; ma dico bene al Sarsi che s'ei si metterà a delinear il
Sole cogli orbi di Mercurio e di Venere attorno, e di più la Terra
circondata dall'orbe della Luna, come di necessità convien fare l'uno e
l'altro, e poi si porrà a volervi ingarbare un tale eccentrico per la
cometa, credo certo che se gli rappresenteranno tali essorbitanze e
mostruosità, che quando bene con tale scusa ei potesse sollevare il suo
Maestro, si spaventerebbe a farlo. Quanto poi alle linee irregolari, non
è dubbio nessuno che non solamente questa, ma qualsivoglia altra
apparenza si può salvare: ma voglio avvertire il Sarsi che l'introdur
tal linea non pur non gioverebbe alla causa del suo Maestro, ma più
gravemente gli pregiudicherebbe, e questo non solamente perch'ei non l'ha
nominata mai, anzi accettò la linea circolare regolarissima, per
così dire, sopra ogn'altra, ma perché maggior leggerezza sarebbe stata
il proporla; il che potrebbe intendere il Sarsi medesimo, tuttavolta ch'ei considerasse
che cosa importi linea irregolare. Chiamansi linee regolari quelle che, avendo
la loro descrizzione una, ferma e determinata, si possono definire, e di loro
dimostrare gli accidenti e proprietà: e così la spirale è
regolare, e si definisce nascer da due moti uniformi, l'un retto e l'altro
circolare; così l'ellittica, nascendo dalla sezzion del cono e del
cilindro, etc. Ma le linee irregolari son quelle che, non avendo determinazion
veruna, sono infinite e casuali, e perciò indefinibili, né di esse si
può, in conseguenza, dimostrar proprietà alcuna, né in somma
saperne nulla. Sì che il voler dire “Il tale accidente accade mercé di
una linea irregolare” è il medesimo che dire “Io non so perché ei
s'accaggia”; e l'introduzzione di tal linea non è punto migliore delle
simpatie, antipatie, proprietà occulte, influenze ed altri termini usati
da alcuni filosofi per maschera della vera risposta, che sarebbe “Io non lo
so”, risposta tanto più tollerabile dell'altre, quant'una candida
sincerità è più bella d'un'ingannevol doppiezza. Fu dunque
molto più avveduto il P. Grassi a non propor cotali linee irregolari
come bastanti a soddisfare al quesito, che il suo scolare a nominarle.
È ben vero, s'io devo
liberamente dire il mio parere, che io credo che il Sarsi medesimo abbia benissimo
ed internamente compresa l'inefficacia delle sue risposte, e che poco
fondamento ci abbia fatto sopra; il che conghietturo io dall'essersene con gran
brevità spedito, ancor che il punto fusse principalissimo nella materia
che si tratta, e le difficoltà promosse dal signor Mario gravissime: ed
egli di se medesimo mi è buon testimonio mentre, alla fac. 16, parlando
di certo argomento usato dal suo Maestro, scrive: “Cæterum, quanti hoc
argumentum apud nos esset, satis arbitror ex eo poterat intelligi, quod paucis
adeo ac plane ieiune propositum fuerit, cum prius reliqua duo longe accuratius
ac fusius fuissent explicata.” E con qual brevità e quanto sobriamente
egli abbia tocco questo, veggasi, oltre all'altre cose, dal non aver pur fatte
le figure degli eccentrici e dell'ellissi introdotte per salvare il tutto; dove
che più a basso incontreremo un mar di disegni inseriti in un lungo
discorso, per riprovar poi una esperienza che in ultimo non reca pure un minimo
ristoro alla principale intenzione che si ha in quel luogo. Ma, senz'andar
più lontano, entri pur V. S. Illustrissima in un oceano di distinzioni,
sillogismi ed altri termini logicali, e troverà esser fatta dal Sarsi
stima grandissima di cosa che, liberamente parlando, io stimo assai meno della
lana caprina.
“Sed quando Magistro meo logicæ
imperitiam Galilæus obiecit, patiatur experiri nos, quam exacte eiusdem
ipse facultatis leges servaverit: neque hoc multis; uno enim aut altero exemplo
contenti erimus.
Dixeramus, stellas tubo inspectas minimum,
ad sensum, incrementum suscepisse. "Sed cum stellæ, inquit ille,
quamplurimæ, quæ perspicacissimos quosque oculos fugiunt, per tubum
conspiciantur, non insensibile, sed infinitum potius, incrementum ab illo
accepisse dicendæ erunt; nihil enim atque aliquid infinito plane distant
intervallo." Ex eo igitur, quod aliquid videatur cum prius non videretur,
infert Galilæus obiecti incrementum infinitum, incrementum, inquam,
apparens saltem, quantitatis. At ego, neque infinitum, neque incrementum quidem
ullum, inferri posse existimo. Et primo quidem, quamquam verum sit, iter hoc
quod est videri, et hoc quod est non videri, distantiam esse infinitam, una
saltem ex parte, atque hæc duo proportionem illam habere quam nihil atque
aliquid, hoc est proportionem prorsus nullam; cum tamen id quod non erat, esse
incipit, crescere aut augeri non dicitur, quod augmentum omne aliquid semper
ante supponat, neque mundum, cum primum a Deo creatus est, infinite auctum
dicimus, cum nihil antea præfuisset: est enim augeri, fieri aliquid
maius, cum prius esset minus. Quare ex eo, quod aliquid prius non videretur,
videatur autem postea, inferri non potest, ne in ratione quidem visibilis,
augmentum infinitum. Sed hoc interim nihil moror; vocetur augmentum transitus
de non esse ad esse: ulterius pergo. Ipse tamen, cum ex eo quod stellæ,
antea non visæ, per tubum inspectæ fuerint, intulit a tubo illas
infinitum incrementum accepisse, meminisse debuerat, affirmasse se alibi tubum
eundem in eadem proportione augere omnia. Si ergo stellas, quas nudis oculis
videmus, auget in certa ac determinata proportione, puta in centupla, illas
etiam minimas, quæ oculos fugiunt, cum in aspectum profert, in eadem
proportione augebit: non igitur infinitum erit illarum incrementum, hoc enim
nullam admittit proportionem.
Secundo, ad hoc, ut inter visibile et
non visibile intercedat augmentum infinitum in apparenti quantitate, id enim
significat vox incrementi ab illo usurpata, necesse est ostendere inter
quantitatem visam et non visam distantiam esse infinitam in ratione quanti;
alioquin nunquam inferetur hoc augmentum infinitum. Si quis enim ita
argumentetur: "Cum quid transit de non visibili ad visibile, augetur
infinite; sed stellæ transeunt de non visibili ad visibile; ergo augentur
infinite", distinguenda erit maior: augentur infinite in ratione
visibilis, esto; augentur in ratione quanti, negatur. Sic enim etiam consequens
eadem distinctione solvetur: augentur in ratione visibilis, non autem in
ratione quanti. Ex quibus apparet, terminum incrementi non eodem modo sumi in
maiori propositione atque in consequentia; in illa siquidem pro incremento
visibilitatis accipitur, in hac vero pro augmento quantitatis: hoc autem quam
logicæ legibus consentaneum sit, videat Galilæus.
Tertio, aio ne ullum quidem, augmentum
inde inferri posse. Logicorum enim lex est, quotiescumque effectus aliquis a
pluribus causis haberi potest, male ex effectu ipso unam tantum illarum
inferri: verbi gratia, cum calor haberi possit ab igne, a motu, a Sole,
aliisque causis, male quis inferet, Hic calor est, ergo ab igne. Cum ergo hoc,
quod est videri aliquid cum prius non videretur, a multis etiam causis pendere
possit, non poterit ex illa visibilitate una tantum illarum causarum deduci.
Posse autem hunc effectum a pluribus causis haberi, apertissimum esse arbitror:
manente enim, primum, obiecto ipso immutato, si vel potentia visiva augeatur in
se ipsa, vel impedimentum aliquod auferatur, si adsit, vel instrumento aliquo,
qualia sunt specilla, eadem potentia fortior evadat, vel certe, immutata
potentia, obiectum ipsum aut illuminetur clarius aut propius accedat ad visum
aut eius denique moles excrescat; unum ex his satis erit ad eumdem effectum
producendum. Cum ergo infertur, ex eo quod stellæ videantur, cum prius
laterent, infinitum illas augmentum accepisse, ad logicorum normam id minus
recte colligitur, quod aliæ causæ omissæ sint ex quibus idem
effectus haberi poterat. Sane nihil est quod tubo hoc incrementum tribuat
Galilæus; si enim vel clausos tantum oculos semel aperiat, augeri omnia
infinite æque vere pronunciabit, cum prius non viderentur, modo videantur.
Quod si dicat, sibi de iis tantum loquendum fuisse, quæ a tubo haberi
possent, cum solum hic de tubo ageretur, potuisse proinde se alias causas
omittere; respondeo, ne id quidem ad rectam argumentationem satis esse: tubus
enim ipse non uno tantum modo ea, quæ sine illo non videntur, in
conspectum profert; primo quidem, obiecta sub maiori angulo ad oculum ferendo,
ex quo fit ut maiora videantur; secundo, radios ac species in unum cogendo, ex
quo fit ut efficacius agant: horum autem alterum satis est ad hoc, ut videantur
ea quæ prius aspectum fugiebant. Non licuit ergo ex hoc effectu alteram
tantum illarum causarum inferre.
Quarto, ne id quidem logicorum legibus
congruit, stellas, si per tubum non augentur, ab eodem, singulari sane eiusdem
prærogativa instrumenti, illuminari. Ex quibus videtur Galilæus
duobus his membris adæquate specillorum effecta partiri, quasi diceret:
Specillum vel stellas auget, vel easdem illuminat; non auget, ergo illuminat.
Lex tamen alia logicorum est, in divisione membra omnia dividentia includi
debere: sed in hac Galilæi divisione neque omnia specilli effecta
includuntur, neque ea quæ numerantur eius propria sunt; illuminatio enim,
ut ipse quidem existimat, tubi effectus esse non potest; et specierum aut
radiorum coactio, quæ proprie a specillis habetur, ab eodem omittitur:
vitiosa igitur fuit eiusdem divisio. Nec plura hic addo: pauca autem hæc,
quæ uno ferme loco forte inter legendum offendi, adnotare volui, aliis
interim omissis, ut intelligat, disputationem suam ea culpa non vacare, quam
ipse in aliis repræhendit.
Sed quid (libet enim hoc loco rem
Galilæo adhuc inauditam non omittere), quid, inquam, si quam ipse
prærogativam tubo suo tribuere non audet, illam ego eidem tribuendam esse
ostendero? Tubus, inquit, vel obiecta auget, vel certe, occulta quadam atque
inaudita vi, eadem scilicet illuminat. Ita est: tubus luminosa omnia magis
illuminat. Hoc si ostendero, næ ego magnam me apud Galilæum
initurum gratiam spero; dum tubum, cuius amplificatione merito gloriatur, hac
etiam inaudita prærogativa donavero. Age igitur, tubo eodem ideo augeri
dicimus obiecta, quia hæc ab eo ad oculum feruntur maiori angulo, quam
cum sine tubo conspiciuntur; quæcumque autem sub maiori angulo
conspiciuntur, ea maiora videntur, ex opticis: sed tubus idem luminosorum
species et dispersos radios dum cogit et ad unum fere punctum colligit, conum
visivum, seu piramidem luminosam qua obiecta lucida spectantur, longe
lucidiorem efficit, et proinde luminosa obiecta splendidiore piramide ad oculum
vehit: ergo pari ratione dicetur tubus stellas illuminare, sicuti easdem augere
dicitur. Quemadmodum enim angulus maior vel minor, sub quo res conspicitur, rem
maiorem minoremve ostendit, ita piramis magis minusve luminosa, per quam corpus
luminosum aspicitur, idem obiectum lucidum magis aut minus monstrabit. Fieri
autem lucidiorem piramidem opticam ex radiorum coactione, satis manifeste et
experientia et ratio ipsa ostendunt. Hæc siquidem docet, lumen idem, quo
minori compræhenditur spatio, eo magis illuminare locum in quo est; at
radii in unum coacti lumen idem minori spatio claudunt; ergo et hoc idem magis
illuminant. Experientia vero idem probabitur, si lentem vitream Soli exponamus;
videbimus enim in radiis ad unum punctum coactis, non solum ligna comburi et
plumbum liquescere, sed oculos eo lumine, utpote clarissimo, pene
excæcari. Quare assero, tam vere dici stellas tubo illuminari, quam
easdem eodem tubo augeri. Bene igitur est ac perbeate tubo huic nostro, quando
stellas ipsas ac Solem, clarissima lumina, illustrare etiam clarius per me iam
potest. ”
Qui, come vede V. S. Illustrissima, in
contracambio dell'equivoco nel quale il P. Grassi era, come il signor Guiducci
avverte, incorso, seguendo l'orme di Ticone e d'altri, vuole il Sarsi mostrare,
me aver altrettanto, o più, errato in logica; mentre che per mostrare,
l'augumento del telescopio esser nelle stelle fisse quale negli altri oggetti,
e non insensibile o nullo, come aveva scritto il Padre, si argumentò in
cotal forma: “Molte stelle del tutto invisibili a qualsivoglia vista libera si
rendon visibilissime col telescopio; adunque tale augumento si doverebbe
più tosto chiamare infinito che nullo.” Qui insorge il Sarsi, e con
lunghissime contese fa forza di dichiararmi pessimo logico, per aver chiamato
tale ingrandimento infinito: alle quali tutte, perché ormai sento grandissima
nausea da quelle altercazioni nelle quali io altresì nella mia
fanciullezza, mentr'ero ancor sotto il pedante, con diletto m'ingolfavo,
risponderò breve e semplicemente, parermi che il Sarsi apertamente si
mostri quale egli tenta di mostrar me, cioè poco intendente di logica,
mentr'ei piglia per assoluto quello ch'è detto in relazione. Mai non si
è detto, l'accrescimento nelle stelle fisse esser infinito; ma avendo
scritto il Padre, quello esser nullo, ed il signor Mario avvertitolo,
ciò non esser vero, poi che moltissime stelle di totalmente invisibili
si rendono visibilissime, soggiunse, tale accrescimento doversi più
tosto chiamare infinito che nullo. E chi è così semplice che non
intenda che chiamandosi il guadagno di mille, sopra cento di capitale, grande,
e non nullo, il medesimo sopra diece, grandissimo, e non nullo, e' non intenda,
dico, che l'acquisto di mille sopra il niente più tosto si deva chiamare
infinito che nullo? Ma quando il signor Mario ha parlato dell'accrescimento
assoluto, sa pur il Sarsi, ed in molti luoghi l'ha scritto, ch'egli ha detto,
esser come di tutti gli altri oggetti veduti coll'istesso strumento; sì
che quando in questo luogo ei vuol tassar il signor Mario di poca memoria,
dicendo ch'ei si doveva pur ricordare d'avere altra volta detto che il medesimo
strumento accresceva tutti gli oggetti nella medesima proporzione, l'accusa
è vana. Anzi, quando anco senz'altra relazione il signor Mario l'avesse
chiamato infinito, non avrei creduto che si fusse per trovar alcuno così
cavilloso, che vi si fusse attaccato, essendo un modo di parlare tutto il
giorno usitato il porre il termine d'infinito in luogo del grandissimo. Largo
campo avrà il Sarsi di mostrarsi maggior logico di tutti gli scrittori
del mondo, ne i quali io l'assicuro ch'ei troverà la parola infinito presa
delle diece volte le nove in vece di grande o grandissimo. Ma
più, signor Sarsi, se il Savio si leverà contro di voi e
dirà: “Stultorum infinitus est numerus”, qual partito sarà il
vostro? vorrete voi forse ingaggiarla seco, e sostener la sua proposizione
esser falsa, provando, anco coll'autorità dell'istessa Scrittura, che il
mondo non è eterno, e che, essendo stato creato in tempo, non possono
essere né essere stati uomini infiniti, e che, non regnando la stoltizia se non
tra gli uomini, non può accadere che quel detto sia mai vero, quando ben
tutti gli uomini presenti e passati ed anco, dirò, i futuri fussero
sciocchi, essendo impossibile che gl'individui umani, quando anco la durazion
del mondo fusse per essere eterna, sieno già mai infiniti?
Ma ritornando alla materia, che diremo
dell'altra fallacia con tanta sottigliezza scoperta dal Sarsi, nel chiamar noi
accrescimento quello d'un oggetto che d'invisibile si fa, col telescopio,
visibile? il quale, dic'egli, non si può chiamare accrescimento, perché
l'accrescimento suppone prima qualche quantità, e l'accrescersi non
è altro che di minore farsi maggiore. A questo veramente io non saprei
che altro dirmi, per iscusa del signor Mario, se non ch'egli se n'andò
alla buona, come si dice; e credendo che la facoltà del telescopio colla
quale ei ci rappresenta quelli oggetti i quali senz'esso non iscorgevamo, fusse
la medesima che quella colla quale anco i veduti avanti ci rappresenta maggiori
assai, e sentendo che questa communemente si chiamava uno accrescimento della
specie o dell'oggetto visibile, si lasciò traportare a chiamare quella
ancora nell'istesso modo; la quale, come ora ci insegna il Sarsi, si doveva chiamar
non accrescimento, ma transito dal non essere all'essere. Sì che quando,
verbigrazia, l'occhiale ci fa da una gran lontananza legger quella scrittura
della quale senz'esso noi non veggiamo se non i caratteri maiuscoli, per parlar
logicamente si deve dire che l'occhiale ingrandisce le maiuscole, ma quanto
alle minuscole fa lor far transito dal non essere all'essere. Ma se non si
può senza errore usar la parola accrescimento dove non si
supponga prima alcuna cosa in atto, che debba riceverlo, forse che la parola transito
o trapasso non verrà troppo più veridicamente usurpata
dal Sarsi dove non sieno due termini, cioè quello donde si parte e
l'altro dove si trapassa. Ma chi sa che il signor Mario non avesse ed abbia
opinione che degli oggetti, ancor che lontanissimi, le specie pure arrivino a
noi, ma sotto angoli così acuti che restino al senso nostro
impercettibili e come nulle, ancor ch'elle veramente sieno qualche cosa
(perché, s'io devo dire il mio parere, stimo che quando veramente elle fusser
niente, non basterebbon tutti gli occhiali del mondo a farle diventar qualche
cosa); sì che le specie altresì delle stelle invisibili sieno,
non meno che quelle delle visibili, diffuse per l'universo, e che in
conseguenza si possa anco di quelle, con buona grazia del Sarsi e senza error
di logica, predicar l'accrescimento? Ma perché vo io mettendo in dubbio cosa
della quale io ho necessaria e sensata prova? Quel fulgore ascitizio delle
stelle non è realmente intorno alle stelle, ma è nel nostro occhio;
sì che dalla stella vien la sola sua specie, nuda e terminatissima.
Sappiamo di sicuro ch'una nubilosa non è altro che uno aggregato di
molte stelle minute, invisibili a noi; con tutto ciò non ci resta
invisibile quel campo che da loro è occupato; ma si dimostra in aspetto
d'una piazzetta biancheggiante, la qual deriva dal congiungimento de' fulgori
di che ciascheduna stellina s'inghirlanda: ma perché questi irraggiamenti non
sono se non nell'occhio nostro, è necessario che ciascheduna specie di
esse stelline sia realmente e distintamente nell'occhio. Di qui si cava
un'altra dottrina, cioè che le nubilose, ed anco tutta la Via Lattea, in
cielo non son niente, ma sono una pura affezzione dell'occhio nostro; sì
che per quelli che fussero di vista così acuta che potesser distinguer
quelle minutissime stelle, le nubilose e la Via Lattea non sarebbono in cielo.
Queste, come conclusioni non dette da altri sin ora, credo che non sarebbono
ammesse dal Sarsi, e ch'egli pur vorrebbe che il signor Mario avesse peccato
nel chiamare accrescimento quello che appresso di lui si deve dir transito dal
non essere all'essere. Ma sia come si voglia; io ho licenza dal signor Mario
(per non ingaggiar nuove liti) di conceder tutta la vittoria al Sarsi di questo
duello, e di quello ancora che segue appresso, dove il Sarsi si contenta che la
scoperta delle fisse invisibili si possa chiamare accrescimento infinito in
ragion di visibile, ma non già in ragion di quanto: tutto questo se gli
conceda, pur che ei conceda a noi che e le invisibili e le visibili, crescano
pure in ragion di quel che piace al Sarsi, crescono finalmente in modo che
rendon totalmente falso il detto del suo Maestro, che scrisse ch'elle non
crescevano punto in veruna maniera; sopra il qual detto era fondato il terzo
delle ragioni, colle quali egli aveva intrapreso a provar la primaria
intenzione del suo trattato, cioè il luogo della cometa.
Ma che risponderem noi ad un altro
errore, pure in logica, che il Sarsi ci attribuisce? Sentiamolo, e poi
prenderemo quel partito che ci parrà più opportuno. Non contento
il Sarsi d'aver mostrato come il più volte già nominato
scoprimento delle fisse invisibili non si deve chiamare accrescimento infinito,
passa a provar che il dire ch'ei proceda dal telescopio è grave errore
in logica, le cui leggi vogliono che quando un effetto può derivare da
più cause, malamente da quello se n'inferisca una sola: e che il vedersi
quello che prima non si vedeva sia un degli effetti che posson depender da
più cause, oltre a quella del telescopio, chiaramente lo mostra il Sarsi
nominandole ad una ad una; le quali tutte era necessario rimuovere, e mostrar
com'elle non erano a parte nell'atto del farci vedere col telescopio le stelle
invisibili. Sì che il signor Mario, per fuggir l'imputazione del Sarsi,
doveva mostrare che l'accostarsi il telescopio all'occhio non era, prima, uno
accrescere in se stessa e per se stessa la virtù visiva (che pur
è una causa per la quale, senz'altro aiuto, si può veder quel che
prima non si poteva); secondo, doveva mostrar che la medesima applicazione non
era un tor via le nuvole, gli alberi, i tetti o altri impedimenti di mezo;
terzo, ch'ei non era un servirsi d'un paio d'occhiali da naso ordinarii (e vo,
come V. S. Illustrissima vede, numerando le cause poste dal medesimo Sarsi, senz'alterar
nulla); quarto, che questo non è un illuminar l'oggetto più
chiaramente; quinto, che questo non è un far venir le stelle in Terra o
salir noi in cielo, onde l'intervallo traposto si diminuisca; sesto, ch'ei non
è un farle rigonfiare, onde, ingrandite, divengano più visibili;
settimo, che questo non è finalmente un aprir gli occhi chiusi: azzioni
tutte, ciascheduna delle quali (ed in particolar l'ultima) è bastante a
farci vedere quel che prima non vedevamo. Signor Sarsi, io non so che dirvi, se
non che voi discorrete benissimo; solo dispiacemi che queste imputazioni
cascano tutte addosso al vostro Maestro, senza toccar punto il signor Mario o
me. Io vi domando se alcune di queste cause, da voi prodotte come potenti a
farci veder quello che senza lor non si vederebbe, come, verbigrazia,
l'avvicinarlo, l'interpor vapori o cristalli etc., vi dimando, dico, se alcuna
di queste cause può produr l'effetto dell'ingrandir gli oggetti
visibili, sì come lo produce il telescopio ancora. Io credo pure che voi
risponderete di sì. Ed io vi soggiungerò che questo è un
aperto accusare di cattivo logico il vostro Maestro, il quale, parlando in
generale a tutto il mondo, riconobbe l'ingrandimento della Luna e di tutti gli
altri oggetti dal solo telescopio, senza l'esclusion di niuna dell'altre cause,
come per vostra opinione sarebbe stato in obligo di fare; il quale obligo non
cade poi punto nel signor Mario, avvenga che, parlando solo col vostro Maestro,
e non più a tutto il mondo, e volendo mostrar falso quello ch'egli aveva
pronunziato dell'effetto di tale strumento, lo considerò (né era in
obligo di considerarlo altrimenti) nel modo che l'aveva considerato il suo
avversario. Anzi la vostra nota di cattivo logico cade tanto più
gravemente sopra il vostro Maestro, quanto ch'egli in altra occasione
importantissima trasgredì la legge: dico nell'inferir dall'apparenza del
moto retto la circolazione per cerchio massimo, potendo esser del medesimo
effetto causa il movimento realmente retto e qualunque altro moto fatto nell'istesso
piano dove fusse l'occhio, delle quali tre cagioni potevano con gran ragione
dubitare anco gli uomini molto sensati; anzi l'istesso vostro Maestro, per
vostro detto, non ricusò d'accettare il moto per linea ovale o anco
irregolare. Ma il dubitare se alcuna delle vostre sette cause poste di sopra
potesse aver luogo nell'apparizion delle stelle invisibili, mentre che col
telescopio si rimirano, se io devo parlar liberamente, non credo che potesse
cadere in mente se non a persone costituite nel sommo ed altissimo grado di
semplicità.
Nella quale schiera io non però
intendo, Illustrissimo Signore, di porre il Sarsi; perché, se ben egli è
quello che si è lasciato traportare a far questa passata, tuttavia si
vede ch'ei non ha parlato, come si dice, ex corde; poi che in
ultimo quasi quasi si accommoda a concedere che, non si trattando d'altro che
del telescopio, si potessero lasciar da banda l'altre cause: tuttavia, perché
il conceder poi questo apertamente, si tirava in conseguenza la nullità
della sua già fatta accusa e del concetto, per quella impresso forse in
alcuno de' lettori, d'esser io cattivo logico, per ovviare a tutto questo
soggiunge che né anco tal cosa basta ad una retta argumentazione: e la ragion
è, perché il telescopio non in un modo solo fa veder quel che non si
vedeva, ma in due: il primo è col portar gli oggetti a gli occhi sotto
angolo maggiore, per lo che maggiori appariscono; l'altro, con l'unire i raggi
e le specie, onde più efficacemente operano; e perché l'uno di questi
basta per far apparire quel che non si scorgeva, non si deve da questo effetto
inferire una sola di quelle cause. Queste sono le sue precise parole, delle
quali io non direi di saper penetrar l'intimo senso, avvenga che egli stia
troppo su 'l generale, dove mi par che fusse stato di mestieri dichiararsi
più specificatamente, potendo la sua proposizione esser intesa in
più modi; de i quali quello ch'è per avventura il primo a
rappresentarsi alla mente, contiene in sé una manifesta contradizzione. Imperocché
il portar gli oggetti sotto maggior angolo, onde maggiori appariscano, si
rappresenta effetto contrario al ristringer insieme i raggi e le specie;
perché, essendo i raggi quelli che conducono le specie, par che non ben si
capisca come, nel condurle, si ristringano insieme ed in un tempo formino
angolo maggiore; imperò che, concorrendo insieme linee a formare un
angolo, par che, nel ristringersi, l'angolo debba più tosto inacutirsi
che farsi maggiore. E se pure il Sarsi aveva in fantasia qualch'altro modo per
lo quale potessero i raggi, coll'unirsi, formare angolo maggiore (il che io non
niego poter per avventura ritrovarsi), doveva dichiararlo e distinguerlo
dall'altro, per non lasciare il lettore tra i dubbi e gli equivoci. Ma posto
per ora che sieno tali due modi d'operare nell'uso del telescopio, io vorrei
sapere se ei lavora sempre con ambedue insieme, o pur talvolta coll'uno ed
altra volta coll'altro separatamente, sì che quando ei si serve
dell'ingrandimento dell'angolo, lasci stare il ristringimento de' raggi, e quando
ristringe i raggi, ritenga l'angolo nella sua primiera quantità. S'egli
opera sempre con ambedue questi mezi, gran semplicità è quella
del Sarsi mentre accusa il signor Mario per non avere accettato e nominato
l'uno ed escluso l'altro; ma s'egli opera con un solo, pure ha errato il Sarsi
a non lo nominare, escludendo l'altro, e mostrar che quando noi guardiamo,
verbigrazia, la Luna, che ricresce assaissimo, ei lavora coll'ingrandimento
dell'angolo, ma quando si guardano le stelle, non s'ingrandisce l'angolo, ma
solamente s'uniscono i raggi. Io, per quanto posso con verità deporre,
nelle infinite o, per meglio dire, moltissime volte che ho guardato con tale
strumento, non ho mai conosciuta diversità alcuna nel suo operare, e
però credo ch'egli operi sempre nell'istessa maniera, e credo che il
Sarsi creda l'istesso; e come questo sia, bisogna che le due operazioni,
dell'ingrandir l'angolo e ristringer i raggi, concorrano sempre insieme: la
qual cosa rende poi in tutto e per tutto fuori del caso l'opposizione del
Sarsi; perch'è ben vero che quando da un effetto il quale può
depender da più cause separatamente, altri ne inferisce una particolare,
commette errore; ma quando le cause sieno tra di loro inseparabili, sì
che necessariamente concorrano sempre tutte, se ne può ad arbitrio
inferir qual più ne piace, perché qualunque volta sia presente
l'effetto, necessariamente vi è anco quella causa. E così, per
darne un essempio, chi dicesse “Il tale ha acceso il fuoco, adunque si è
servito dello specchio ustorio”, errerebbe, potendo derivar l'accendimento dal
batter un ferro, dall'esca e fucile, dalla confricazion di due legni, e da
altre cause; ma chi dicesse “Io ho sentito batter il fuoco al vicino”, e
soggiungesse “Adunque egli ha della pietra focaia”, senza ragione sarebbe
ripreso da chi gli opponesse che, concorrendo a tale operazione, oltre alla
pietra, il fucile, l'esca e 'l solfanello ancora, non si poteva con buona
logica inferir la pietra risolutamente. E così, se l'ingrandimento
dell'angolo e l'union de' raggi concorron sempre nell'operazioni del
telescopio, delle quali una è il far veder l'invisibile, perché da
questo effetto non si può inferire quale delle due cause più ne
piace? Io credo di penetrare in parte la mente del Sarsi, il quale, s'io non
m'inganno, vorrebbe che il lettore credesse quello ch'egli stesso assolutamente
non crede, cioè ch'il veder le stelle, che prima erano invisibili,
derivasse non dall'ingrandimento dell'angolo, ma dall'unione de' raggi;
sì che, non perché la specie di quelle divenisse maggiore, ma perché i
raggi fussero fortificati, si facesser visibili; ma non si è voluto
apertamente scoprire, perché troppo gli sono addosso l'altre ragioni del signor
Mario taciute da esso, ed in particolare quella del vedersi gl'intervalli tra
stella e stella ampliati colla medesima proporzione che gli oggetti
quaggiù bassi; i quali intervalli non dovrian ricrescer punto se niente
ricrescessono le stelle, essendo loro così distanti da noi come quelle.
Ma per finirla, io son certo che quando il Sarsi volesse venire a dichiararsi
com'egli intenda queste due operazioni del telescopio, dico del ristringere i
raggi e dell'ingrandir il loro angolo, e' manifesterebbe che non solamente si
fanno sempre ambedue insieme, sì che già mai non accaggia unire i
raggi senza ingrandir l'angolo, ma ch'elle sono una cosa medesima; e quando
egli avesse altra opinione, bisogna ch'ei mostri che 'l telescopio alcune volte
unisca i raggi senza ingrandir l'angolo, e che ciò faccia egli a punto
quando si guardano le stelle fisse; cosa ch'egli non mostrerà in eterno,
perch'è una vanissima chimera o, per dirla più chiara, una
falsità.
Io non credeva, Signor mio
Illustrissimo, dover consumar tante parole in queste leggerezze; ma già
che si è fatto il più, facciasi ancora il meno. E quanto
all'altra censura di trasgression dalle leggi logicali, mentre nella division
degli effetti del telescopio il signor Mario ne pose uno che non vi è, e
ne trapassò uno che vi si doveva porre, quando disse “Il telescopio
rende visibili le stelle o coll'ingrandir la loro specie o coll'illuminarle”,
in vece di dire “coll'ingrandirle o coll'unir le specie e i raggi”, come
vorrebbe il Sarsi che si dovesse dire; io rispondo che il signor Mario non ebbe
mai intenzion di far divisione di quello ch'è una cosa sola, quale egli,
ed io ancora, stimiamo esser l'operazione del telescopio nel rappresentarci gli
oggetti: e quando ei disse “Se il telescopio non ci rende visibili le stelle
coll'ingrandirle, bisogna che con qualche inaudita maniera le illumini”, non introdusse
l'illuminazione come effetto creduto, ma come manifesto impossibile lo
contrappose all'altro, acciò la di lui verità restasse più
certa; e questo è un modo di parlare usitatissimo, come quando si
dicesse “Se gli inimici non ànno scalata la rocca, bisogna che vi sian
piovuti dal cielo”. Se il Sarsi adesso crede di poter con lode impugnare questi
modi di parlare, se gli apre un'altra porta, oltre a quella di sopra
dell'infinito, da trionfare in duello di logica sopra tutti gli scrittori del
mondo; ma avvertisca, nel voler mostrarsi gran logico, di non apparer maggior
sofista. Mi par di veder V. S. Illustrissima sogghignare; ma che vuol ella? Il
Sarsi era entrato in umore di scrivere in contradizzione alla scrittura del
signor Mario: gli è stato forza attaccarsi, come noi sogliamo dire, alle
funi del cielo. Io per me non solamente lo scuso, ma lo lodo, e parmi ch'egli
abbia fatto l'impossibile. Ma tornando alla materia, già è
manifesto che il signor Mario non ha posto l'illuminare com'effetto creduto del
telescopio. Ma che più? l'istesso Sarsi confessa ch'ei l'ha messo come
impossibile. Non è adunque membro della divisione, anzi, come ho detto,
non ci è né meno divisione. Circa poi all'unione delle specie e de'
raggi, ricordata dal Sarsi come membro trapassato dal signor Mario nella
divisione, sarebbe bene che il Sarsi specificasse come questa è una
seconda operazion diversa dall'altra, perché noi sin qui l'abbiamo intesa per
una stessa cosa; e quando saremo assicurati ch'elle sieno due differenti e
diverse operazioni, allora intenderemo d'avere errato; ma l'error non
sarà di logica nel mal dividere, ma di prospettiva nel non aver ben
penetrati tutti gli effetti dello strumento.
Quanto alla chiusa, dove il Sarsi dice
di non voler per adesso stare a registrare altri errori che questi pochi
incontrati così casualmente in un luogo solo, lasciando da banda gli
altri, io, prima, ringrazio il Sarsi del pietoso affetto verso di noi; poi mi
rallegro col signor Mario, il quale può star sicuro di non aver commesso
in tutto il trattato un minimo mancamento in logica; perché, se bene par che il
Sarsi accenni che ve ne sieno moltissimi altri, tuttavia crederò almeno
che questi, notati e manifestati da lui, sieno stati eletti per li maggiori; il
momento de i quali lascio ora che sia da lei giudicato, ed in conseguenza la
qualità degli altri.
Vengo finalmente a considerar l'ultima
parte, nella quale il Sarsi, per farmi un segnalato favore, vuol nobilitare il
telescopio con una ammirabil condizione e facoltà d'illuminar gli oggetti
che per esso rimiriamo, non meno ch'ei ce gl'ingrandisca. Ma prima ch'io passi
più avanti, voglio rendergli grazie del suo cortese affetto, perché
dubito che l'effetto sia per obligarmi assai poco dopo che avremo considerata
la forza della dimostrazione portata per prova del suo intento: della quale,
perché mi par che l'autore nello spiegarla si vada, non so perché, ravvolgendo
e più volte replicando le medesime proposizioni, cercherò di
trarne la sostanza, la qual mi par che sia questa.
Il telescopio rappresenta gli oggetti
maggiori, perché gli porta sotto maggiore angolo che quando son veduti senza lo
strumento. Il medesimo, ristringendo quasi a un punto le specie de' corpi
luminosi ed i raggi sparsi, rende il cono visivo, o vogliamo dire la piramide
luminosa, per la quale si veggono gli oggetti, di gran lunga più lucida;
e però gli oggetti splendidi di pari ci si rappresentano ingranditi e di
maggior luce illustrati. Che poi la piramide ottica si renda più lucida
per lo ristringimento de i raggi, lo prova con ragione e con esperienza.
Imperò che la ragione ci insegna che il lume raccolto in minore spazio
lo debba illuminar più; e l'esperienza ci mostra che posta una lente
cristallina al Sole, nel punto del concorso de' raggi non solo s'abbrucia il legno,
ma si liquefà il piombo e si accieca la vista: perloché di nuovo
conclude, che con altrettanta verità si può dire che il
telescopio illumina le stelle, con quanta si dice ch'ei le accresce.
In ricompensa della cortesia e del
buono animo che 'l Sarsi ha avuto d'essaltare e maggiormente nobilitare questo
ammirabile strumento, io non gli posso dar altro, per ora, che un totale
assenso a tutte le proposizioni ed esperienze sopradette. Ma mi duol bene oltre
modo che l'essere esse vere gli è di maggior pregiudicio che se fusser
false; poi che la principal conclusione che per esse doveva essere dimostrata
è falsissima, né credo che ci sia verso di poter sostenere che
gravemente non pecchi in logica quegli che da proposizioni vere deduce una
conclusion falsa. È vero che il telescopio ingrandisce gli oggetti col
portargli sotto maggior angolo; verissima è la prova che n'arrecano i
prospettivi; non è men vero che i raggi della piramide luminosa
maggiormente uniti la rendono più lucida, ed in conseguenza gli oggetti
per essa veduti; vera è la ragione che n'assegna il Sarsi, cioè
perché il medesimo lume, ridotto in minore spazio, l'illumina più; e
finalmente verissima è l'esperienza della lente, che coll'unione de'
raggi solari abbrucia ed accieca: ma è poi falsissimo che gli oggetti
luminosi ci si rappresentino col telescopio più lucidi che senza, anzi
è vero che li veggiamo assai più oscuri; e se il Sarsi nel
riguardar, verbigrazia, la Luna col telescopio, avesse una volta aperto
l'altr'occhio, e con esso libero riguardato pur l'istessa Luna, avrebbe potuto
fare il paragone senza niuna fatica tra lo splendor della gran Luna vista con
lo strumento, e quello della piccola, vista coll'occhio libero; il che
osservato, avrebbe sicuramente scritto, la luce della veduta liberamente
mostrarsi di gran lunga maggiore che quella dell'altra. Chiarissima è
adunque la falsità della conclusione: resta ora che mostriamo la
fallacia nel dedurla da premesse vere. E qui mi pare che al Sarsi sia accaduto
quello che accaderebbe ad un mercante che, nel riveder sopra i suoi libri lo
stato suo, leggesse solamente le facce dell'avere, e che così si
persuadesse di star bene ed esser ricco; la qual conclusione sarebbe vera
quando all'incontro non vi fussero le facce del dare. È vero, signor
Sarsi, che la lente, cioè il vetro convesso, unisce i raggi, e
perciò moltiplica il lume e favorisce la vostra conclusione; ma dove
lasciate voi il vetro concavo, che nel telescopio è la contrafaccia
della lente, e la più importante, perch'è quello appresso del
quale si tiene l'occhio, e per lo quale passano gli ultimi raggi, ed è
finalmente l'ultimo bilancio e saldo delle partite? Se la lente convessa unisce
i raggi, non sapete voi che il vetro concavo gli dilata e forma il cono
inverso? Se voi aveste provato a ricevere i raggi passati per ambedue i vetri
del telescopio, come avete osservato quelli che si rifrangono in una lente
sola, avreste veduto che dove questi s'uniscono in un punto, quelli si vanno
più e più dilatando in infinito, o, per dir meglio, per ispazio
grandissimo: la quale esperienza molto chiaramente si vede nel ricever sopra
una carta l'immagine del Sole, come quando si disegnano le sue macchie; “sopra
la qual carta, secondo ch'ella più e più si discosta
dall'estremità del telescopio, maggiore e maggior cerchio vi viene
stampato dal cono de' raggi, e quanto si fa tal cerchio maggiore, tanto
è men luminoso in comparazione del resto del foglio tocco da' raggi
liberi del Sole. E quando questa ed ogn'altra esperienza vi fusse stata
occulta, mi resta pur tuttavia duro a credere che voi non abbiate alcuna volta
sentito dir questo, ch'è verissimo, cioè che i vetri concavi,
quanto più mostrano l'oggetto grande, tanto più lo mostrano
oscuro. Come dunque mandate voi di pari nel telescopio l'illuminar coll'ingrandire?
Signor Sarsi, rimanetevi dal voler cercar d'essaltar questo strumento con
queste vostre nuove facoltà sì ammirande, se non volete porlo in
ultimo dispregio appresso quelli che sin qui l'ànno avuto in poca stima.
Ed avvertite che io in questo conto vi ho passata come cosa vera una partita
ch'è falsa, cioè che la luce ingagliardita mediante l'union de'
raggi, renda l'oggetto veduto più luminoso. Sarebbe vero questo, quando
tal luce andasse a trovar l'oggetto; ma ella vien verso l'occhio, il che produce
poi contrario effetto: imperò che, oltre all'offender la vista, rende il
mezo più luminoso, ed il mezo più luminoso fa apparir (come credo
che voi sappiate) gli oggetti più oscuri; ché per questa sola cagione le
stelle più risplendenti si mostrano quanto più l'aria della notte
divien tenebrosa, e nello schiarirsi l'aria si mostrano più fosche.
Queste cose, come vede V. S. Illustrissima, son tanto manifeste, che non mi
lasciano credere che al Sarsi possano essere state incognite, ma ch'egli
più tosto per mostrar la vivezza del suo ingegno si sia messo a
dimostrare un paradosso, che perch'egli così internamente credesse. Ed
in questa opinione mi conferma l'ultima sua conclusione, dove, per mostrar
(cred'io) ch'egli ha parlato per ischerzo, serra con quelle parole: “Affermo
dunque, con tanta verità dirsi che il telescopio illumina le stelle, con
quanta si dice che il medesimo le ingrandisce”. V. S. Illustrissima sa poi che
ed egli ed il suo Maestro ànno sempre detto, e dicono ancora, ch'ei non
l'ingrandisce punto; la qual conclusione si sforza il Sarsi di sostenere
ancora, come vedremo, nelle cose che seguono qui appresso.
Legga dunque V. S. Illustrissima: “Ad
tertium argumentum propero, quod iisdem mihi verbis hoc loco referendum
arbitror; ut nimirum omnes intelligant, quid illud tandem fuerit, quo se
vehementer adeo offensum profitetur Galilæus. Sic enim se habet:
"Illud, tertio loco, hoc idem persuadet: quod cometa, tubo optico
inspectus, vix ullum passus est incrementum; longa tamen experientia compertum
est atque opticis rationibus comprobatum, quæcunque hoc instrumento
conspiciuntur, maiora videri quam nudis oculis inspecta compareant, ea tamen
lege, ut minus ac minus sentiant ex illo incrementum, quo magis ab oculo remota
fuerint; ex quo fit ut stellæ fixæ, a nobis omnium
remotissimæ, nullam sensibilem ab illo recipiant magnitudinem. Cum ergo
parum admodum augeri visus sit cometa, multo a nobis remotior quam Luna
dicendus erit, cum hæc tubo inspecta longe maior appareat. Scio hoc
argumentum parvi apud aliquos fuisse momenti: sed hi fortasse parum
opticæ principia perpendunt, ex quibus necesse est huic eidem maximam
inesse vim ad hoc quod agimus persuadendum." Hic ego præmittere,
primum, habeo, quorsum huiusmodi argumentum Disputationi nostræ intextum
fuerit: non enim velim maiori id apud alios in pretio haberi, quam apud nos;
neque ii sumus qui emptoribus fucum faciamus, sed tanti merces nostras vendimus
quanti valent.
Cum igitur ad Magistrum meum ex multis
Europæ partibus illustrium astronomorum observationes perferrentur, nemo
illorum tunc fuit, qui illud etiam postremo loco non adderet, cometam a se
longiori specillo observatum vix ullum incrementum suscepisse, ex qua
observatione deducerent, illum saltem supra Lunam statuendum; cumque hoc etiam,
ut cætera, variis hominum inter frequentium cœtus sermonibus
agitaretur, non defuere qui palam ac libere assererent, nullam huic argumento
fidem habendam, tubum hunc larvas oculis ingerere ac variis animum deludere
imaginibus, quare, sicuti ne ea quidem quæ cominus aspicimus sincera ac
sine ludificationibus ostendit, ita illum multo minus ea quæ longe a
nobis remota sunt, non nisi larvata atque deformia monstraturum. Ut ergo et
amicorum observationibus aliquid dedisse videremur, ac simul eorum inscitiam,
quibus instrumentum hoc nullo erat in precio, publice redargueremus, hoc
argumentum tertio loco apponendum, ac postrema ea verba, quibus offensum se
dicit Galilæus, addenda, existimavimus, de homine bene potius nos hinc
meritos, quam male, sperantes, dum tubum hunc, quamvis non fœtum, alumnum
certe ipsius, ab invidorum calumniis tueremur. Cæterum, quanti hoc
argumentum apud nos esset, satis arbitror ex eo poterat intelligi, quod paucis
adeo ac plane ieiune propositum fuerit, cum prius reliqua duo longe accuratius
ac fusius fuissent explicata. Neque Galilæum hæc ipsa latuerunt, si
quod res est fateri velit. Cum enim rescissemus, eo illum argumento graviter
commotum, quod existimaret se unum iis verbis peti, curavit Magister meus illi
per amicos significari, nihil unquam minus se cogitasse, quam ut eum verbo vel
scripto læderet; cumque iis, a quibus hæc acceperat, Galilæus
pacatum iam atque eorum dictis acquiescentem animum ostendisset, maluit tamen
postea, quantum in se fuit, amicum quam dictum perdere.”
Intorno alle cose qui scritte mi si fa
da considerar, nel primo luogo, qual possa esser la cagione per la quale il
Sarsi abbia scritto ch'io grandemente mi sia lamentato del P. Grassi, avvenga
che nel trattato del signor Mario non vi è pur ombra di mie querele, né
io già mai con alcuno, né anco con me stesso, mi son doluto, né meno ho
conosciuto d'aver cagion di dolermi; e gran semplicità mi parrebbe di
chi si dolesse che uomini di gran nome fusser contrari alle sue opinioni,
quantunque volta egli avesse modi facili ed evidenti da poterle dimostrar vere,
quali son sicuro d'aver io: tal che a me non si rappresenta altra cagione, se
non che 'l Sarsi sotto questa finzione ha voluto ascondere, non so già
perché, suoi interni motivi che l'ànno spinto a volerla pigliar meco;
del che ho ben sentito qualche fastidio, perché più volentieri avrei
impiegato questo tempo in qualch'altro studio più di mio gusto. Che il
P. Grassi non avesse intenzione d'offender me nel tassar di poco intelligenti
quelli che disprezzavano l'argomento preso dal poco ingrandimento della cometa
per lo telescopio, lo voglio creder al Sarsi; ma se io per me stesso m'ero
già dichiarato essere in quel numero, ben mi doveva esser tollerato
ch'io producessi mie ragioni e difendessi la causa mia, e tanto più quanto
ella era giusta e vera. Voglio ancora ammettere al Sarsi che 'l suo Maestro con
buona intenzione si mettesse a sostenere quell'opinione, credendo di conservare
ed accrescere la reputazione ed il pregio del telescopio contro alle calunnie
di quelli che lo predicavano per fraudolente e per ingannator della vista,
e così cercavano di spogliarlo de' suoi ammirabili pregi: ma in
questo fatto, quanto l'intenzion del Padre mi par lodevole e buona, tanto
l'elezzione e la qualità delle difese mi si rappresenta cattiva e
dannosa, mentr'ei vuole contro all'imposture de' maligni fare scudo agli
effetti veri del telescopio coll'attribuirgliene de' manifestamente falsi.
Questo non mi par buon luogo topico per persuader la nobiltà di tale
strumento. Per tanto piaccia al Sarsi di scusarmi se io non vengo, con quella
larghezza che forse gli par che convenisse, a chiamarmi e confessarmi obligato
per li nuovi pregi ed onori arrecati a questo strumento. E con qual ragione
pretend'egli che in me si debba accrescer l'obligo e l'affezzione verso di loro
per li vani e falsi attributi, mentr'eglino, perché io col dir cose vere gli
traggo d'errore, mi pronunzian la perdita della loro amicizia?
Segue appresso, e, non so quanto
opportunamente, s'induce a chiamare il telescopio mio allievo, ma a scoprire
insieme come non è altrimenti mio figliuolo. Che fate, signor Sarsi?
Mentre voi sete su 'l maneggio d'interessarmi in oblighi grandi per li
beneficii fatti a questo ch'io reputavo mio figliuolo, mi venite dicendo che
non è altro ch'un allievo? Che rettorica è la vostra? Avrei
più tosto creduto che in tale occasione voi aveste avuto a cercar di
farmelo creder figliuolo, quando ben voi foste stato sicuro che non fusse. Qual
parte io abbia nel ritrovamento di questo strumento, e s'io lo possa
ragionevolmente nominar mio parto, l'ho gran tempo fa manifestato nel mio Avviso
Sidereo, scrivendo come in Vinezia, dove allora mi ritrovavo, giunsero
nuove che al signor conte Maurizio era stato presentato da un
Olandese un occhiale, col quale le cose lontane si vedevano così
perfettamente come se fussero state molto vicine; né più fu aggiunto. Su
questa relazione io tornai a Padova, dove allora stanziavo, e mi posi a pensar
sopra tal problema, e la prima notte dopo il mio ritorno lo ritrovai, ed il
giorno seguente fabbricai lo strumento, e ne diedi conto a Vinezia a i medesimi
amici co' quali il giorno precedente ero stato a ragionamento sopra questa
materia. M'applicai poi subito a fabbricarne un altro più perfetto, il
quale sei giorni dopo condussi a Vinezia, dove con gran meraviglia fu veduto
quasi da tutti i principali gentiluomini di quella republica, ma con mia
grandissima fatica, per più d'un mese continuo. Finalmente,
per consiglio d'alcun mio affezzionato padrone, lo presentai al Principe in
pieno Collegio, dal quale quanto ei fusse stimato e ricevuto con ammirazione,
testificano le lettere ducali, che ancora sono appresso di me, contenenti la
magnificenza di quel Serenissimo Principe in ricondurmi, per ricompensa della
presentata invenzione, e confermarmi in vita nella mia lettura nello Studio di
Padova, con dupplicato stipendio di quello che avevo per addietro, ch'era poi
più che triplicato di quello di qualsivoglia altro mio antecessore.
Questi atti, signor Sarsi, non son seguiti in un bosco o in un diserto: son
seguiti in Vinezia, dove se voi allora foste stato, non m'avreste spacciato
così per semplice balio: ma vive ancora, per la Dio grazia, la maggior
parte di quei signori, benissimo consapevoli del tutto, da' quali potrete esser
meglio informato.
Ma forse alcuno mi potrebbe dire, che
di non piccolo aiuto è al ritrovamento e risoluzion d'alcun problema
l'esser prima in qualche modo reso consapevole della verità della
conclusione, e sicuro di non cercar l'impossibile, e che perciò l'avviso
e la certezza che l'occhiale era di già stato fatto mi fusse d'aiuto
tale, che per avventura senza quello non l'avrei ritrovato. A questo io
rispondo distinguendo, e dico che l'aiuto recatomi dall'avviso svegliò
la volontà ad applicarvi il pensiero, che senza quello può esser
ch'io mai non v'avessi pensato; ma che, oltre a questo, tale avviso possa
agevolar l'invenzione, io non lo credo: e dico di più, che il ritrovar
la risoluzion d'un problema segnato e nominato, è opera di maggiore
ingegno assai che 'l ritrovarne uno non pensato né nominato, perché in questo
può aver grandissima parte il caso, ma quello è tutto opera del
discorso. E già noi siamo certi che l'Olandese, primo inventor del
telescopio, era un semplice maestro d'occhiali ordinari, il quale casualmente,
maneggiando vetri di più sorti, si abbatté a guardare nell'istesso tempo
per due, l'uno convesso e l'altro concavo, posti in diverse lontananze
dall'occhio, ed in questo modo vide ed osservò l'effetto che ne seguiva,
e ritrovò lo strumento: ma io, mosso dall'avviso detto, ritrovai il
medesimo per via di discorso; e perché il discorso fu anco assai facile, io lo
voglio manifestare a V. S. Illustrissima, acciò, raccontandolo dove ne
cadesse il proposito, ella possa render, colla sua facilità, più
creduli quelli che, col Sarsi, volessero diminuirmi quella lode, qualunqu'ella
si sia, che mi si perviene.
Fu dunque tale il mio discorso. Questo
artificio o costa d'un vetro solo, o di più d'uno. D'un solo non
può essere, perché la sua figura o è convessa, cioè
più grossa nel mezo che verso gli estremi, o è concava,
cioè più sottile nel mezo, o è compresa tra superficie
parallele: ma questa non altera punto gli oggetti visibili col crescergli o
diminuirgli; la concava gli diminuisce, e la convessa gli accresce bene, ma gli
mostra assai indistinti ed abbagliati; adunque un vetro solo non basta per
produr l'effetto. Passando poi a due, e sapendo che 'l vetro di superficie
parallele non altera niente, come si è detto, conclusi che l'effetto non
poteva né anco seguir dall'accoppiamento di questo con alcuno degli altri due.
Onde mi ristrinsi a volere esperimentare quello che facesse la composizion
degli altri due, cioè del convesso e del concavo, e vidi come questa mi
dava l'intento: e tale fu il progresso del mio ritrovamento, nel quale di niuno
aiuto mi fu la concepita opinione della verità della conclusione. Ma se
il Sarsi o altri stimano che la certezza della conclusione arrechi grand'aiuto
al ritrovare il modo del ridurla all'effetto, leggano l'istorie, ché
ritroveranno essere stata fatta da Archita una colomba che volava, da Archimede
uno specchio che ardeva in grandissime distanze ed altre macchine ammirabili,
da altri essere stati accesi lumi perpetui, e cento altre conclusioni stupende;
intorno alle quali discorrendo, potranno, con poca fatica e loro grandissimo
onore ed utile, ritrovarne la costruzzione, o almeno, quando ciò lor non
succeda, ne caveranno un altro beneficio, che sarà il chiarirsi meglio,
che l'agevolezze che si promettevano da quella precognizione della
verità dell'effetto, era assai meno di quel che credevano.
Ma ritorno a quel che segue scrivendo
il Sarsi, dove destreggiando, per non si ridurre a dire che l'argomento preso
dal minimo ingrandimento degli oggetti remotissimi non val nulla,
perch'è falso, dice che di quello non n'ànno mai fatta molta
stima; il che manifesta egli dall'averlo il suo Maestro scritto con assai
brevità, dove che gli altri due argomenti si veggono distesi ed
amplificati senza risparmio di parole. Al che io rispondo che non dalla
moltitudine, ma dall'efficacia delle parole si deve argumentar la stima che
altri fa delle cose dette: e, come ogn'un sa, vi sono delle dimostrazioni che
per lor natura non possono esser senza lunghezza spiegate, ed altre nelle quali
la lunghezza sarebbe del tutto superflua e tediosa; e qui, se si deve aver
riguardo alle parole, l'argomento è portato con quante bastavano alla
sua spiegatura chiara e perfetta. Ma, oltre a questo, lo scrivere lo stesso P.
Grassi esser in tal argomento, come necessariamente si raccoglie da' principii
ottici, forza grandissima per provar l'intento, ci dà pur troppo chiaro
indizio della stima ch'egli almeno ha voluto mostrar di farne: la qual voglio
ben credere al Sarsi che internamente sia stata pochissima, ed a questo mi
persuade non la brevità dello spiegarlo, ma altra assai più forte
conghiettura; e questa è, che mentre il Padre fa sembiante di dimostrare
il luogo della cometa dover essere lontanissimo, avvenga che nel ricevere dal
telescopio insensibile augumento ella imita puntualmente le lontanissime stelle
fisse, quando poi accanto accanto ei passa a più specifica limitazione
d'esso luogo, ei la colloca sotto ad oggetti che ricevono dal medesimo
telescopio grandissimo accrescimento; dico sotto il Sole, che pur ricresce in
superficie quelle medesime centinaia e migliaia di volte, che il medesimo Padre
ed il Sarsi stesso sanno. Ma il Sarsi non ha penetrato l'artificio grande del
suo Maestro, col quale nell'istesso tempo ha voluto cortesemente applaudere a
gli amici suoi né ha voluto amareggiar loro il gusto che sentivano per
l'invenzion del nuovo argomento, ed a' più intendenti e meno
appassionati ha in tanto voluto, come si dice, sotto mano mostrarsi accorto ed
intelligente, imitando quel generosissimo atto di quel gran signore, che
gettò il flussi a monte per non interrompere il giubilo nel quale vedeva
galleggiare il giovinetto principe suo avversario, per la vittoria d'un gran
resto promessagli dal cinquantacinque già scoperto e gittato in tavola.
Ma il signor Mario, con maniera un poco più severa, ha voluto a carte
spiegate dire il suo concetto e mostrar la falsità e nullità di
quell'argomento, regolandosi da altro fine, ch'è stato di voler
più tosto medicare i difetti e tor via gli errori con qualche passione
degl'infermi, che fomentargli e fargli maggiori per non gli disgustare.
A quello che il Sarsi scrive in ultimo,
che il suo Maestro non avesse avuto pensiero di offender me nel tassar quelli
che si burlavan dell'argomento, non occorre ch'io replichi altro, perché
già ho detto che lo credo e che mai non ho creduto in contrario. Ma
voglio che il Sarsi creda che né io ancora, nel dimostrar falso l'argomento,
non ho avuta intenzion d'offender il suo Maestro, ma ben di giovare a chiunque
era in quello errore; né so bene intendere con quale occasione m'abbia in
questo luogo a toccare col motto del volere, per non perdere un bel detto,
perdere un amico: né so vedere quale arguzia sia nel dir “Questo argumento non
è vero” sì che debba esser preso per detto arguto.
Or segua V. S. Illustrissima il
leggere: “Sed rem ipsam nunc enucleatius discutiamus. Aio, nihil in hoc
argumento a veritate alienum reperiri. Nam asserimus, primum, obiecta tubo
optico visa, quo propinquiora fuerint, eo augeri magis, minus vero quo
remotiora. Nihil verius. Galilæus negat. Quid, si fateatur? Quæro
enim ex illo, cum tubum illum suum et quidem optimum in manus acceperit, si
forte rem intra cubiculi aut aulæ spatia inclusam intueri voluerit, an
non is longissime producendus sit? Ita est, ait. Si vero rem longe dissitam e
fenestra eodem instrumento spectare libuerit, contrahendum illico dicet, atque
ab immani illa longitudine breviorem redigendum in formam. Quod si productionis
huius contractionisque caussam quæsiero, ad naturam utique instrumenti
recurrendum erit; cuius ea conditio est, ut ad propinquiora intuenda, ex
opticæ principiis, produci, ad remotiora vero spectanda contrahi,
postulet. Cum ergo ex productione et contractione tubi, ut ait ipse, necessario
oriatur maius minusve obiectorum incrementum, licebit iam mihi ex his
argumentum huiusmodi conficere: Quæcumque non aliter quam productiore
tubo spectari postulant, necessario augentur magis, et quæcumque non
aliter quam contractiore tubo spectari postulant, necessario augentur minus;
sed propinqua omnia non aliter quam productiore tubo, longe vero remota non
aliter quam contractiore tubo, spectari postulant: ergo propinqua omnia
necessario augentur magis, longe vero remota necessario augentur minus. In quo
argumento si maior minorque propositio vera comprobetur, nec negabitur,
arbitror, quod ex illis necessario consequitur. Primam vero propositionem ipse
ultro admittit: altera etiam certissima est; et quidem in iis quæ citra
dimidium milliare spectantur, nulla apud illum probatione indiget; quod si ea
quæ ulterius deinde excurrunt, eadem spectari solent tubi longitudine, id
fit non quia revera magis semper ac magis contrahendus ille non sit, sed quia
maior isthæc contractio adeo exiguis includitur terminis, ut non multum
intersit si omittatur, ac proinde ut plurimum negligatur. Si tamen rei naturam
spectemus atque ex rigore geometrico loquendum sit, semper maior hæc
contractio requiretur: eadem plane ratione ac si quis diceret, visibile
quodcumque quo magis ab oculo removetur, minori semper ac minori spectari
angulo, quæ propositio verissima est; nihilominus, cum res oculo obiecta
ad certam pervenerit distantiam, in qua angulum visivum efficiat valde exiguum,
quamvis postea multo adhuc intervallo fiat remotior, non minuitur sensibiliter
idem angulus; et tamen demonstrari potest, illum semper minorem ac minorem
futurum. Ita, quamvis ultra maximam quandam distantiam obiectorum vix varientur
anguli incidentiæ specierum ad tubi specilla (perinde enim tunc est, ac
si omnes radii perpendiculariter inciderent), et consequenter neque varianda
sensibiliter sit instrumenti longitudo, verissima tamen adhuc censenda est ea
propositio quæ asserit, naturam specilli eam esse, ut, quo remotiora
fuerint obiecta, eo magis ad ea spectanda contrahi postulet, et propterea minus
eadem augeat quam propinqua; et si severe, ut aiebam, loquendum sit, affirmo
stellas breviori specillo spectandas quam Lunam.”
Qui, com'ella vede, si apparecchia il
Sarsi con mirabil franchezza a volere in virtù d'acuti sillogismi mantenere,
niuna cosa esser più vera della più volte profferita
proposizione, cioè che gli oggetti veduti col telescopio tanto ricrescon
più quanto son più vicini, e tanto meno quanto son più
lontani; ed è tanta la sua confidenza, che quasi si promette ch'io sia
per confessarla, ben che di presente io la neghi. Ma io fo un augurio e
pronostico molto differente, e credo ch'egli si sia, nel tesser questa tela,
per ritrovare in maniera inviluppato, più di quello ch'ei pensa ora che
egli è su l'ordirla, che in ultimo da per se stesso sia per confessarsi
convinto; convinto, dico, a chi con qualche attenzione considererà le
cose nelle quali egli anderà a terminare, che facilmente saranno le
medesime ad unguem che le scritte dal signor Mario, ma
orpellate in maniera e così spezzatamente intarsiate tra varii ornamenti
e rabeschi di parole, o vero riportate in iscorcio in qualche angolo, che forse
alla prima scorsa possano, a chi meno fissamente le consideri, parer
qualch'altra cosa da quello che realmente sono in pianta.
In tanto, per non lo tor d'animo, gli
soggiungo, che come questo ch'ei tenta sia vero, non solo l'argomento che in
questa proposizione s'appoggia, del quale il suo Maestro e gli altri astronomi
amici suoi si son serviti per ritrovare il luogo della cometa, è il
più ingegnoso e concludente d'ogn'altro, ma di più dico che
questo effetto del telescopio avanza in eccellenza di gran lunga tutti gli
altri, mediante le gran conseguenze ch'ei si tira dietro; e resto estremamente
meravigliato, né so restar capace come possa esser, che, conoscendolo vero,
abbia il Sarsi poco fa detto di sé e del suo Maestro d'averne fatto assai
minore stima che degli altri due, presi l'uno dal moto circolare e l'altro
dalla piccolezza della paralasse, li quali, sia detto con pace loro, non son
degni d'esser servidori di questo. Signore, se questa cosa è vera, ecco
spianata al Sarsi la strada ad invenzioni ammirande, tentate da moltissimi né
mai trovate da alcuno; ecco non solo misurata in una sola stazione qualsivoglia
lontananza in Terra, ma senza errore alcuno stabilite le distanze de' corpi
celesti. Perché, osservato che sia una volta sola che, verbigrazia, un cerchio
lontano un miglio ci si dimostri, veduto col telescopio, di diametro trenta
volte maggiore che coll'occhio libero, subito che vedremo l'altezza d'una torre
ricrescer, per essempio, diece volte, saremo sicuri quella esser lontana tre
miglia; e ricrescendo il diametro della Luna come dir tre volte più di
quel che ce lo mostra l'occhio libero, potremo dire, quella esser lontana dieci
miglia, ed il Sole quindici, se il suo diametro ricrescerà due volte
solamente; o pure, se con qualche telescopio eccellente noi vedessimo la Luna
ricrescere in diametro, verbigrazia, dieci volte, la qual è lontana più
di cento mila miglia, come bene scrive il P. Grassi, la palla della cupola
dalla distanza di un miglio ricrescerà in diametro più d'un
milion di volte. Or io, per aiutare quanto posso un'impresa così
stupenda, anderò promovendo alcuni dubbietti che mi nascono nel
progresso del Sarsi, i quali V. S. Illustrissima, se così le
piacerà, potrà con qualche occasione mostrar a lui, acciò,
col torgli via, possa tanto più perfettamente stabilire il tutto.
Volendo dunque il Sarsi persuadermi che
le stelle fisse non ricevono sensibile accrescimento dal telescopio, comincia
dagli oggetti che sono in camera, e mi domanda se per vedergli col telescopio,
e' mi bisogna allungarlo assaissimo; ed io gli rispondo che sì: passa a
gli oggetti fuori della finestra in gran lontananza, e mi dice che per veder
questi bisogna scorciar assai lo strumento; ed io l'affermo, e gli concedo,
appresso, ciò derivar, com'esso scrive, dalla natura dello strumento,
che per veder gli oggetti vicinissimi richiede assai maggior lunghezza di
canna, e minor per li più lontani; ed oltre a ciò confesso che la
canna più lunga mostra gli oggetti maggiori che la più breve; e
finalmente gli concedo per ora tutto il sillogismo, la cui conclusione è
che in universale gli oggetti vicini s'accrescon più, e i molto lontani
meno, cioè (adattandola a i nominati particolari) che le stelle fisse,
che sono oggetti lontani, ricrescon meno che le cose poste in camera o dentro
al palazzo, tra i quali termini mi pare che il Sarsi comprenda le cose ch'ei
chiama vicine, non avendo nominatamente discostato in maggior lontananza il
termine loro. Ma il detto sin qui non mi par che soddisfaccia a gran lunga al
bisogno del Sarsi. Imperocché domando io adesso a lui, s'ei ripone la Luna
nella classe degli oggetti vicini, o pure in quella de' lontani. Se la mette
tra i lontani, di lei si concluderà il medesimo che delle stelle fisse,
cioè il poco ingrandirsi (ch'è poi di diretto contrario
all'intenzion del suo Maestro, il quale, per costituir la cometa sopra la Luna,
ha bisogno che la Luna sia di quegli oggetti che assai s'ingrandiscono; e
però anco scrisse ch'ella in effetto assaissimo ricresceva, e pochissimo
la cometa); ma s'egli la mette tra i vicini, che son quelli che ricrescono
assai, io gli risponderò ch'ei non doveva da principio ristringere i termini
delle cose vicine dentro alle mura della casa, ma doveva ampliargli almeno sino
al ciel della Luna. Or sieno ampliati sin là, e torni il Sarsi alle sue
prime interrogazioni, e mi dimandi se per veder col telescopio gli oggetti
vicini, cioè che non sono oltre all'orbe della Luna, e' mi bisogna
allungar assaissimo il telescopio. Io gli risponderò di no; ed ecco
spezzato l'arco, e finito il saettar de' sillogismi.
Per tanto, se noi torneremo a
considerar meglio questo argomento, lo troveremo esser difettoso, ed esser
preso come assoluto quello che non si può intendere senza relazione,
o vero come terminato quello ch'è indeterminato, ed in somma
essere stata fatta una divisione diminuta (che si chiamano errori in logica),
mentre il Sarsi, senza assegnar termine e confine tra la vicinanza e
lontananza, ha divisi gli oggetti visibili in lontani ed in vicini, errando in
quel medesimo modo ch'errerebbe quel che dicesse: “Le cose del mondo o son
grandi o son piccole”, nella qual proposizione non è verità né
falsità, e così anco non è nel dire: “Gli oggetti o son
vicini o son lontani”; dalla quale indeterminazione nasce che le medesime cose
si potranno chiamar vicinissime e lontanissime, grandissime e piccolissime, e
le più vicine lontane, e le più lontane vicine, e le più
grandi piccole, e le più piccole grandi, e si potrà dire: “Questa
è una collinetta piccolissima”, e “Questo è un grandissimo
diamante”; quel corriero chiama brevissimo il viaggio da Roma a Napoli, mentre
che quella gentildonna si duole che la chiesa è troppo lontana dalla
casa sua. Doveva dunque, s'io non m'inganno, per fuggir questi equivochi, fare
il Sarsi la sua divisione almeno in tre membri, dicendo: “Degli oggetti
visibili altri son vicini, altri lontani, ed altri posti in mediocre distanza”,
la qual restava come confine tra i vicini ed i lontani; né anco qui si doveva
fermare, ma di più doveva soggiungere una precisa determinazione alla
distanza d'esso confine, dicendo, verbigrazia: “Io chiamo distanza mediocre
quella d'una lega; grande, quella ch'è più d'una lega; piccola,
quella ch'è meno”: né so ben capire perch'egli non l'abbia fatto, se non
che forse scorgeva più il suo conto e più se lo prometteva dal
potere accortamente prestigiare con equivochi tra le persone semplici, che dal
saldamente concludere tra i più intelligenti; ed è veramente un
gran vantaggio aver la carta dipinta da tutte due le bande, e poter, per
essempio, dire: “Le stelle fisse, perché son lontane, ricrescon pochissimo; ma
la Luna, assai, perch'è vicina”, ed altra volta, quando venisse il
bisogno, dire: “Gli oggetti di camera, essendo vicini, crescono assaissimo; ma
la Luna, poco, perch'è lontanissima.” E questo sia il primo dubbio.
Secondo, già il P. Grassi pose
in un sol capo la cagione del ricrescere or più ed or meno gli oggetti
veduti col telescopio, e questo fu la minore o la maggior lontananza d'essi
oggetti, né pur toccò una sillaba dell'allungare o abbreviare lo
strumento; e di questo, dice ora il Sarsi, nessuna cosa esser più vera:
tuttavia, quando ei si ristringe al dimostrarlo, non gli basta più la
breve e gran lontananza dell'oggetto, ma gli bisogna aggiungervi la maggiore e
la minor lunghezza del telescopio, e construire il sillogismo in cotal forma:
“La vicinanza dell'oggetto è causa d'allungare il telescopio; ma tal
allungamento è causa di ricrescimento maggiore; adunque la vicinanza
dell'oggetto è causa di ricrescimento maggiore.” Qui mi pare che il
Sarsi, in cambio di sollevare il suo Maestro, l'aggravi maggiormente, facendolo
equivocare dal per accidens al per se; in quel modo ch'errerebbe
quegli che volesse metter l'avarizia tra le regole de sanitate tuenda, e
dicesse: “L'avarizia è causa di viver sobriamente, la
sobrietà è causa di sanità, adunque l'avarizia mantien
sano”: dove l'avarizia è un'occasione, o vero un'assai remota causa per
accidens alla sanità, la quale segue fuor della primaria intenzion
dell'avaro, in quanto avaro, il fine del qual è il risparmio solamente.
E questo ch'io dico è tanto vero, quanto con altrettanta conseguenza io
proverò, l'avarizia esser causa di malattia, perché l'avaro, per
risparmiare il suo, va frequentemente a i conviti degli amici e de' parenti, e
la frequenza de' conviti causa diverse malattie; adunque l'avarizia è
causa d'ammalarsi: da i quali discorsi si scorge finalmente che l'avarizia,
come avarizia, non ha che far niente colla sanità, come anco la
propinquità dell'oggetto col suo maggior ricrescimento; e la causa per
la quale nel rimirar gli oggetti propinqui s'allunga lo strumento, è per
rimuover la confusione nella quale esso oggetto ci si dimostra adombrato, la
qual si toglie coll'allungamento; ma perché poi all'allungamento ne conséguita
un maggior ricrescimento, ma fuor della primaria intenzione, che fu di
chiarificare, e non d'ingrandir, l'oggetto, quindi è che la
propinquità non si può chiamare altro che un'occasione, o vero
una remotissima causa per accidens, del maggior ricrescimento.
Terzo, se è vero che quella, e
non altra, si debba propriamente stimar causa, la qual posta segue sempre
l'effetto, e rimossa si rimuove; solo l'allungamento del telescopio si
potrà dir causa del maggior ricrescimento: avvenga che, sia pur
l'oggetto in qualsivoglia lontananza, ad ogni minimo allungamento ne séguita
manifesto ingrandimento; ma all'incontro, tuttavolta che lo strumento si
riterrà nella medesima lunghezza, avvicinisi pur quanto si voglia
l'oggetto, quando anco dalla lontananza di cento mila passi si riducesse a
quella di cinquanta solamente, non però il ricrescimento sopra
l'apparenza dell'occhio libero si farà punto maggiore in questo sito che
in quello. Ma bene è vero, che avvicinandolo a piccolissime distanze,
come di quattro passi, di due, d'uno, d'un mezo, la specie dell'oggetto
più e più sempre s'intorbida ed offusca, sì che, per
vederlo distinto e chiaro, convien più e più allungar il
telescopio, al qual allungamento ne conséguita poi il maggior e maggior
ricrescimento: ed avvenga che tal ricrescimento dependa solo dall'allungamento,
e non dall'avvicinamento, da quello, e non da questo, si deve regolare; e perché
nelle lontananze oltre a mezo miglio non fa di mestieri, per veder gli oggetti
chiari e distinti, di muover punto lo strumento, niuna mutazione cade ne' loro
ingrandimenti, ma tutti si fanno colla medesima proporzione; sì che se
la superficie, verbigrazia, d'una palla, veduta col telescopio, in distanza di
mezo miglio ricresce mille volte, mille volte ancora, e niente meno,
ricrescerà il disco della Luna, tanto ricrescerà quel di Giove, e
finalmente tanto quel d'una stella fissa. Né accade qui che il Sarsi la voglia
star a sminuzzolare e rivedere a tutto rigor di geometria, perché, quando ei
l'avrà tirata e ridotta in atomi e presosi anco tutti i vantaggi, il
guadagno suo non arriverà a quello di colui che con diligenza s'andava
informando per qual porta della città s'usciva per andar per la
più breve in India; ed in fine gli converrà confessare (come anco
in parte pare ch'ei faccia nel fine del periodo letto da V. S. Illustrissima)
che trattando con ogni severità il telescopio, si debba tener manco d'un
capello più corto nel riguardar le stelle fisse, che nel mirar la Luna.
Ma da tutta questa severità che ne risulterà poi in ultimo, che
sia di sollevamento al Sarsi? Nulla assolutamente; perché non ne
raccorrà altro se non che, ricrescendo, verbigrazia, la Luna mille
volte, le stelle fisse ricrescano novecento novantanove; mentre che per difesa
sua e del suo Maestro bisognerebbe ch'elle non crescessero né anco due volte,
perché il ricrescimento del doppio non è cosa impercettibile, ed eglino
dicono le fisse non ricrescer sensibilmente.
Io so che il Sarsi ha intese benissimo
queste cose, anco nella lettura del signor Mario; ma vuol, per quanto ei
può, mantener vivo il suo Maestro a quint'essenza di sillogismi
sottilissimamente distillati (e siami lecito dir così, perché di qui a
poco ei chiamerà troppo minute alcune cose del signor Mario, che sono
assai più corpulente di queste sue). Ma per finire ormai i miei dubbi,
m'accade dir qualche cosa intorno all'essempio portato dal Sarsi, preso da gli
oggetti veduti naturalmente: de' quali dice che quanto più s'allontanano
dall'occhio, sempre si veggono sotto minor angolo; nientedimeno, quando si
è arrivato a certa distanza, nella quale l'angolo si faccia assai
piccolo, per molto poi che si allontani più l'oggetto, l'angolo
però non si diminuisce sensibilmente; tuttavia, dic'egli, si può
dimostrare ch'ei si fa minore. Ma se il senso di questo essempio è quale
mi si rappresenta, e qual anco convien che sia se ha da quadrar bene al
concetto essemplificato, io son di parere molto diverso da questo del Sarsi.
Imperocché a me pare ch'in sostanza ei voglia che l'angolo visuale,
nell'allontanarsi l'oggetto, si vada ben continuamente diminuendo, ma sempre
successivamente con minor proporzione, sì che oltre a una gran lontananza,
per molto che l'oggetto si discosti ancora, poco più si diminuisca
l'angolo: ma io son di contrario parere, e dico che la diminuzione dell'angolo
si va facendo sempre con maggior proporzion, quanto più l'oggetto
s'allontana. E per più facilmente dichiararmi, noto primieramente, che
il voler determinar le grandezze apparenti degli oggetti visibili colle
quantità degli angoli sotto i quali quelle ci si rappresentano, è
ben fatto nel trattar di parti di alcuna circonferenza di cerchio nel centro
del quale sia collocato l'occhio; ma trattandosi di tutti gli altri oggetti,
è errore: imperocché l'apparenti grandezze, non dagli angoli visuali, ma
dalle corde degli archi suttesi a detti angoli si deono determinare; e queste
tali apparenti quantità si vanno sempre diminuendo puntualissimamente
con proporzion contraria di quella delle lontananze; sì che il diametro,
verbigrazia, d'un cerchio, veduto in distanza di cento braccia, mi si
rappresenta giusto la metà di quello che m'apparrebbe dalla distanza di
braccia cinquanta, e veduto in distanza di mille braccia mi parrà doppio
che se sarà lontano dumila, e così sempre in tutte le lontananze;
né mai accaderà ch'egli per qualsivoglia grandissima distanza
m'apparisca così piccolo, ch'ei non mi paia ancora la metà da dupplicata
lontananza. Ma se noi pur vorremo determinar l'apparenti grandezze dalla
quantità degli angoli, come fa il Sarsi, il fatto seguirà ancora
più disfavorevole per lui; perché tali angoli non diminuiranno
già colla proporzione colla quale le lontananze crescono, ma con minore.
Ma quel che contraria al detto del Sarsi è che, paragonati gli angoli
fra di loro, con maggior proporzione si vanno diminuendo nelle maggiori
distanze che nelle minori; sì che, se, verbigrazia, l'angolo d'un oggetto
posto in distanza di cinquanta braccia, all'angolo del medesimo oggetto posto
in distanza di braccia cento, è, per essempio, come cento a sessanta,
l'angolo del medesimo oggetto in distanza di mille all'angolo in distanza di
dumila sarà, verbigrazia, come cento a cinquant'otto, e quello in
distanza di quattromila a quello in distanza d'ottomila sarà come cento
a cinquantacinque, e quel della distanza di
Legga ora V. S. Illustrissima: “Sed
dicet is, hoc non esse, saltem, eodem uti instrumento, ac proinde, si de eodem
loquamur specillo, falsam esse positionem illam: quamquam enim eadem sint
vitra, idem etiam tubus, si tamen hic idem modo productior, modo vero fuerit
contractior, non idem semper erit instrumentum. Apage hæc tam minuta. Si
quis igitur cum amico colloquens leni sono verba formaverit, ut scilicet e
propinquo exaudiatur; mox alium conspicatus e longinquo, contentissima illum
voce inclamarit; alio atque alio illum uti gutture atque ore dixeris, quod hæc
vocis instrumenta illic contrahi, hic dilatari atque extendi necesse sit? Nos
vero cum tubicines æs illud recurvum ac replicatum adducta reductaque
dextra ad graviorem quidem sonum producentes, ad acutiorem vero contrahentes,
intuemur, num propterea alia atque alia uti tuba existimamus?”
Qui, com'ella vede, il Sarsi introduce
me, come ormai convinto dalla forza de' suoi sillogismi, a ricorrere per mio
scampo a qualunque debolissimo attacco, ed a dire, quando pur vero sia che le
stelle fisse non ricevano accrescimento come gli oggetti vicini, che questo
“saltem” non è servirsi del medesimo strumento, poi che negli oggetti
propinqui si deve allungare; e mi soggiunge, con un Apage, ch'io
ricorro a cose troppo minute. Ma, signor Sarsi, io non ho bisogno di ricorrere
al “saltem” ed alle minuzie. Necessità ne avete avuta voi sin qui, e
più l'averete nel progresso. Voi avete avuto bisogno di dire che
“saltem” nelle sottilissime idee geometriche le fisse richieggono abbreviazione
del telescopio più che la Luna, dal che poi ne seguiva, come di sopra ho
notato, che ricrescendo la Luna mille volte, le fisse ricrescerebbono novecento
novantanove, mentre che per mantenimento del vostro detto avevate di bisogno
ch'elle non ricrescessero né anco una meza volta. Questo, signor Sarsi,
è un ridursi al “saltem”, e un far come quella serpe che, lacerata e
pesta, non le sendo rimasti più spiriti fuor che nell'estremità
della coda, quella va pur tuttavia divincolando, per dare a credere a'
viandanti d'essere ancor sana e gagliarda. Ed il dire che il telescopio
allungato è un altro strumento da quel ch'era avanti, è, nel
proposito di che si parla, cosa essenzialissima, e tanto vera quanto verissima;
né il Sarsi avrebbe stimato altrimenti, se nel darne giudicio non avesse equivocato
dalla materia alla forma o figura, che dir la vogliamo: il che si può
facilmente dichiarare anco senza uscir del suo medesimo essempio.
Io domando al Sarsi, onde avvenga che
le canne dell'organo non suonan tutte all'unisono, ma altre rendono il tuono
più grave ed altre meno? Dirà egli forse, ciò derivare
perch'elle sieno di materie diverse? certo no, essendo tutte di piombo: ma
suonano diverse note perché sono di diverse grandezze, e quanto alla materia,
ella non ha parte alcuna nella forma del suono: perché si faran canne, altre di
legno, altre di stagno, altre di piombo, altre d'argento ed altre di carta, e
soneran tutte l'unisono; il che avverrà quando le loro lunghezze e
larghezze sieno eguali: ed all'incontro coll'istessa materia in numero,
cioè colle medesime quattro libre di piombo, figurandolo or in maggiore
or in minor vaso, ne formerò diverse note: sì che, per quanto
appartiene al produr suono, diversi sono gli strumenti che ànno diversa
grandezza, e non quelli che ànno diversa materia. Ora, se disfacendo una
canna se ne rigetterà del medesimo piombo un'altra più lunga, ed
in conseguenza di tuono più grave, sarà il Sarsi renitente a dir
che questa sia una canna diversa dalla prima? voglio creder di no. Ma se altri
trovasse modo di formar la seconda più lunga senza disfar la prima, non
sarebbe l'istesso? certo sì. Ma il modo sarà col farla di due
pezzi e ch'uno entri nell'altro, perché così si potrà allungare e
scorciare, ed in somma farla all'arbitrio nostro divenir canne diverse, per
quello che si ricerca al formar diverse note; e tale è la struttura del
trombone. Le corde dell'arpe, ben che sieno tutte della medesima materia,
rendon suoni differenti, perché sono di diverse lunghezze: ma quel che fanno
molte di queste, lo fa una sola nel liuto, mentre che col tasteggiare si cava
il suono ora da tutta ora da una parte, ch'è l'istesso che allungarla e
scorciarla, ed in somma trasmutarla, per quanto appartiene alla produzzion del
suono, in corde differenti: e l'istesso si può dire della canna della
gola, la qual, col variar lunghezza e larghezza, accommodandosi a formar varie
voci, può senza errore dirsi ch'ella diventi canne diverse. Così,
e non altrimenti (perché il maggiore o minor ricrescimento non consiste nella
materia del telescopio, ma nella figura, sì che il più lungo
mostra maggiore), quando, ritenendo l'istessa materia, si muterà
l'intervallo tra vetro e vetro, si verranno a costituire strumenti diversi.
Or sentiamo l'altro sillogismo che
forma il Sarsi: “Sed videat Galilæus, quam non contentiose agam: aliud
sit instrumentum tubus nunc productior, nunc contractior; iterum, paucis
mutatis, idem argumentum conficiam. Quæcumque diverso instrumento
spectari postulant, diversum etiam ex instrumento capiunt incrementum; sed
propinqua et remota diverso instrumento spectari postulant; diversum igitur
propinqua et remota ex instrumento capient incrementum. Maior iterum ac minor ipsius est; eiusdem sit et
consequentia necesse est. Quibus rebus expositis, satis docuisse videor, nihil
nos hactenus a veritate, neque a Galilæo quidem, alienum pronunciasse,
cum diximus, hoc instrumento minus remota augeri quam propinqua, cum, natura
etiam sua, ad illa spectanda contrahi, ad hæc vero produci, postulet:
dici tamen non inepte poterit, idem quidem esse instrumentum, diverso tamen
modo usurpatum.”
Il quale argomento io concedo tutto, ma
non veggo ch'ei concluda niente in disfavor del signor Mario, né in favor della
causa del Sarsi; al quale di niun profitto è che gli oggetti vicinissimi
veduti con un telescopio lungo ricrescono più che i lontani veduti con
un corto, ch'è la conclusion del sillogismo, ma molto diversa
dall'obligo intrapreso dal Sarsi. Il qual è di provar due punti
principali: l'uno è che gli oggetti sino alla Luna, e non quei soli che
sono nella camera, ricrescano assaissimo; ma le stelle fisse, non poco manco,
ma insensibilmente, vedute queste e quelli coll'istesso strumento: l'altro, che
la diversità di tali ricrescimenti proceda dalla diversità delle
lontananze d'essi oggetti, e che a quelle proporzionatamente risponda: le quali
cose egli non proverà mai in eterno, perché son false. Ma della
nullità del presente sillogismo, per quanto appartiene alla materia di
che si tratta, siacene testimonio che io su le sue medesime pedate procederò
a dimostrar concludentemente il contrario. Gli oggetti che ricercano d'esser
riguardati col medesimo strumento, ricevono da quello il medesimo
ricrescimento; ma tutti gli oggetti, da un quarto di miglio in là sino
alla lontananza di mille milioni, ricercano d'esser riguardati col medesimo
strumento; adunque tutti questi ricevono il medesimo ricrescimento. Non
concluda per tanto il Sarsi di non avere scritto cosa aliena né dal vero né da
me; perché di me almanco l'assicuro ch'egli sin qui ha concluso cosa contraria
all'intenzion mia.
Nell'ultima chiusa di questo periodo,
dov'egli dice che il telescopio or lungo or corto si può chiamar il
medesimo strumento, ma diversamente usurpato, vi è, s'io non m'inganno,
un poco di equivoco; anzi parmi che il negozio proceda tutto all'opposito,
cioè che lo strumento sia diverso, e l'usurpamento o vero applicazione
sia la medesima a capello. Chiamasi il medesimo strumento esser diversamente
usurpato, quando, senza punto alterarlo, si applica ad usi differenti: e
così l'àncora fu la medesima, ma diversamente usurpata dal piloto
per dar fondo, e da Orlando per prender balene. Ma nel caso nostro accade tutto
l'opposito: imperocché l'uso del telescopio è sempre il medesimo, perché
sempre s'applica a riguardar oggetti visibili; ma lo strumento è ben
diversificato, mutandosi in esso cosa essenzialissima, qual è
l'intervallo da vetro a vetro. È adunque manifesto l'equivoco del Sarsi.
Ma seguitiamo più avanti: “At
dicet: verissima hæc quidem esse, si summo geometriæ, iure res
agatur; quod tamen in re nostra locum non habet, et cum saltem ad Lunam et
stellas intuendas nullo longitudinis discrimine specillum adhiberi soleat,
nihil hic etiam ponderis habituram esse maiorem minoremve distantiam ad maius
minusve obiecti incrementum inferendum; quare si stellæ minus augeri
videantur quam Luna, ex alio deducendam huius phœnomeni rationem, non ex
obiecti remotione. Ita sit; et nisi aliunde
etiam habeat tubus hic, stellas minus augere quam Lunam, minus fortasse
ponderis argumento insit. Dum tamen illud præterea huic instrumento
tribuitur, ut luminosa omnia larga illa radiatione, qua veluti coronantur,
expoliet, ex quo fit ut, licet stellæ idem fortasse re ipsa capiant ex
illo incrementum quod Luna, minus tamen augeri videantur (cum diversum plane
sit id, quod tubo conspicitur, ab eo quod nudis prius oculis videbatur: hi
siquidem nudi et stellam et circumfusum fulgorem spectabant; tubo vero
adhibito, solum stellæ corpusculum intuendum obiicitur), verissimum etiam
est, iis omnibus quæ ad opticam spectant consideratis, stellas hoc
instrumento, quoad aspectum saltem, minus accipere incrementi quam Lunam, immo
etiam aliquando, si oculis credas, nulla ratione augeri, ac, si Deo placet,
etiam minui: quod nec ipse Galilæus negat. Mirari proinde desinat, quod
stellas insensibiliter per tubum augeri dixerimus: neque enim hic huius
aspectus causam quærebamus, sed aspectum ipsum.”
Qui noti primieramente V. S.
Illustrissima come la mia predizzione, fatta di sopra al numero 14, comincia a
verificarsi. Là animosamente s'esibì il Sarsi a mantener, niuna
cosa esser più vera del ricrescer gli oggetti veduti col telescopio
tanto più quanto più son vicini, e tanto meno quanto più
lontani: onde le stelle fisse, come lontanissime, non ricrescesser sensibilmente;
ma la Luna, assaissimo, come vicina. Or qui mi pare che si cominci a vedere una
gran ritirata ed una confession manifesta: prima, che la diversità delle
lontananze degli oggetti non sia più la vera causa de' diversi
ingrandimenti, ma che bisogni ricorrere all'allungamento e scorciamento del
telescopio; cosa non detta, né pure accennata, né forse pensata, da loro avanti
l'avvertimento del signor Mario: secondo, che né anco questo abbia luogo nel
presente caso, atteso che niuna mutazione si faccia nello strumento, sì
che, cessando questo rifugio ancora, l'argomento che sopra ciò si
fondava resti invalido totalmente. Veggo, nel terzo luogo, ricorrere a cagioni
lontanissime dalle portate da principio per vere e sole, e dire che il poco
ricrescimento apparente nelle fisse non dependa più né da gran
lontananza d'esse né da brevità di strumento, ma che è
un'illusione dell'occhio nostro, il quale libero vede le stelle con un
grandissimo irraggiamento non reale e che però ci sembrano grandi, ma
collo strumento si vede il nudo corpo della stella, il quale, ben che
ringrandito come tutti gli altri oggetti, non però par tale, paragonato
colle medesime stelle vedute liberamente, in relazion delle quali
l'accrescimento par piccolissimo: dal che ei conclude che almeno quanto
all'apparenza le stelle fisse pur mostrano di ricrescer pochissimo, perloché io
non mi devo maravigliare ch'eglino ciò abbiano detto, poi ch'ei non
ricercavano la causa di tale aspetto, ma solamente l'aspetto istesso. Ma,
signor Sarsi, perdonatemi: voi, mentre cercate di rimuovermi la meraviglia, non
pur non me la levate, ma con altre nuove cagioni me la moltiplicate assai.
E prima, io non poco mi meraviglio nel
vedervi portar questo precedente discorso con maniera dottrinale, quasi che voi
lo vogliate insegnare a me, mentre l'avete di parola in parola imparato voi dal
signor Mario; e di più soggiungete ch'io non nego queste cose, credo con
intenzione che nel lettore resti concetto ch'io medesimo avessi in mano la
risoluzione della difficoltà, ma che io non l'avessi saputa conoscere né
prevalermene. Meravigliomi, secondariamente, che voi diciate che il vostro
Maestro non andò ricercando la cagione dell'insensibil ricrescimento
delle stelle fisse, ma solo l'istesso effetto dell'insensibilmente ricrescere,
ancor ch'egli più d'una volta replichi esser di ciò la cagione
l'immensa lontananza. Ma quello che, nel terzo luogo, m'accresce la meraviglia
a cento doppi è che voi non v'accorgiate che, quando ciò vero
fusse, voi figurereste, a gran torto, il vostro Maestro privo ancora di quella
communissima logica naturale, in virtù della quale ogni persona, per
idiota ch'ella sia, discorre e conclude direttamente le sue intenzioni. E per
farvi toccar con mano la verità di quanto io dico, rimovete la considerazion
della causa ed introducete il solo effetto (già che voi affermate che il
vostro Maestro non ricercò la causa, ma il solo effetto), e poi
discorrendo dite: “Le stelle fisse ricrescono insensibilmente; ma la cometa
essa ancora ricresce insensibilmente”; adunque, signor Sarsi, che ne
concluderete? Rispondete: “Nulla”, se volete rispondere manco male che sia
possibile: perché se voi pretenderete di poterne inferire una conseguenza, ed
io pretenderò con altrettanta connessione poterne inferir mille; e se vi
parrà di poter dire: “Adunque la cometa è lontanissima, perché
anco le fisse sono lontanissime”, ed io con non minor ragione dirò:
“Adunque la cometa è incorruttibile, perché le fisse sono
incorruttibili”, ed appresso dirò: “Adunque la cometa scintilla, perché
le fisse scintillano”, e con non minor ragione potrò dire: “Adunque la
cometa risplende di propria luce, perché così fanno le fisse”: e s'io
farò di queste conseguenze, voi vi riderete di me come d'un logico senza
dramma di logica, ed avrete mille ragioni, e poi cortesemente m'avvertirete
ch'io da quelle premesse non posso inferir altro per la cometa se non quei
particolari accidenti che ànno necessaria, anzi necessariissima
connessione coll'insensibil ricrescimento delle stelle fisse; e perché questo
ricrescimento non depende né ha connession veruna coll'incorruttibilità,
né colla scintillazione, né coll'esser lucido da per sé, però niuna di
queste conclusioni si può concludere della cometa: e chi di là
vorrà inferir, la cometa esser lontanissima, bisogna che di
necessità abbia prima ben bene stabilito, l'insensibil ricrescimento
delle stelle dependere, come da causa necessarissima, dalla gran lontananza,
perché altrimenti non si sarebbe potuto servir del suo converso, cioè
che quegli oggetti che insensibilmente ricrescono, sieno di necessità
lontanissimi. Or vedete quali errori in logica voi immeritamente addossate al
vostro Maestro: dico immeritamente, perché son vostri, e non suoi.
Or legga V. S. Illustrissima sin al
fine di questo primo essame: “At videat hoc loco Galilæus, quam non
insipienter ex his atque aliis in Sidereo Nuncio ab illo traditis inferamus,
cometam supra Lunam statuendum. Ait ipse, cælestia inter lumina alia
quidem nativa ac propria fulgere luce, quo in numero Solem ac stellas quas fixas
dicimus collocat; alia vero, nullo a natura splendore donata, lumen omne a Sole
mutuari, qualia sex reliqui planetæ haberi solent. Observavit
præterea, stellas maxime inane illud lucis non suæ coronamentum
adamasse, ac veluti comam alere consuevisse; planetas vero, Lunam
præsertim, Iovem atque Saturnum, nullo fere huiusmodi fulgore vestiri;
Martem tamen, Venerem atque Mercurium, quamvis nullo et ipsi generis splendore
sint præditi, e Solis propinquitate tantum haurire luminis, ut, stellis
quodammodo pares, earumdem et scintillationem et circumfusos radios imitentur.
Cum ergo cometa, vel Galilæo auctore, lumen non a natura inditum habeat,
sed Soli acceptum referat, nosque illum tanquam temporarium planetam
existimaremus, cum cæteris non postremæ notæ viris, de eo
etiam similiter philosophandum erat atque de Luna cæterisque errantibus:
quorum cum ea sit conditio, ut, quo minus a Sole distant, eo splendeant
ardentius, fulgoreque maiore vestiti (quod inde consequitur) tubo inspecti
minus augeri videantur, dum cometa ex hoc eodem instrumento idem fere quod
Mercurius caperet incrementum, an non valde probabiliter inferre inde potuimus,
cometam eumdem non plus admodum circumfusi illius luminis admisisse quam
Mercurium, nec proinde longiori multo a Sole dissitum intervallo; contra vero,
cum minus augeretur quam Luna, maiori circumfusum lumine, ac Soli viciniorem
statuendum? Ex quibus iure dixisse nos intelligit, cum parum admodum augeri
visus sit cometa, multo a nobis remotiorem quam Lunam dicendum esse. Et sane, cum
nobis ex parallaxi observata, ex cursu etiam cometæ decoro ac plane
sidereo, satis iam de eius loco constaret; cum præterea eumdem tubus pari
pene incremento ac Mercurium afficeret, contrarium certe nulla ratione
suaderet; licuit hinc etiam non minimam momenti ac ponderis appendiculam in
nostram derivare sententiam. Quamquam enim sciremus ex multis posse ista
pendere, ex ea tamen ipsa quam lucidum hoc corpus in omnibus suis
phœnomenis cum reliquis cælestibus corporibus servaret analogiam,
satis magnum a tubo nos accepisse beneficium tunc putavimus, quod sententiam
nostram, aliorum iam argumentorum pondere firmatam, suo etiam suffragio ipse
vehementius confirmaret.
Quod autem reliquum est argumento
additum, ea videlicet verba: "Scio hoc argumentum apud aliquos parvi
fuisse momenti, etc." diserte ingenueque supra memoravimus, quorsum
hæc addita fuerint; adversus eos nimirum qui, huic instrumento fidem
elevantes, opticarum disciplinarum plane ignari, fallax illud ac nulla dignum
fide prædicarent. Intelligit igitur, ni fallor, Galilæus, quam
immerito nostram de tubo sententiam oppugnarit, quam veritati, immo et suis
etiam placitis, nulla in re adversam agnoscit: agnoscere etiam ante poterat, si
pacato magis illam animo aspexisset. Qui igitur nobis in mentem veniret unquam,
fore aliquando, ut minus hæc illi grata acciderent, quæ prorsus
ipsius esse censeremus? Sed quando hæc pro nostra sententia satis esse
arbitror, ad ipsius Galilæi placita expendenda gradum faciamus.”
Qui primieramente, com'ella vede,
aviamo un argomento rappezzato, come si dice, su 'l vecchio, di diversi
fragmenti di proposizioni, per provar pure, il luogo della cometa essere stato
tra la Luna ed il Sole: il qual discorso il signor Mario ed io gli possiamo,
senza pregiudicio alcuno, conceder tutto, non avendo noi mai affermato cosa
veruna attenente al sito della cometa, né negato ch'ella possa essere sopra la
Luna, ma solamente si è detto che le dimostrazioni portate sin qui dagli
autori non mancano di dubitazioni; per le quali rimuovere di niuno aiuto
è che ora il Sarsi venga con altra nuova dimostrazione, quando bene ella
fusse necessaria e concludente, a provar la conclusione esser vera, avvenga che
anco intorno a conclusioni vere si può falsamente argumentare e
commetter paralogismi e fallacie. Tuttavia, per lo desiderio ch'io tengo che le
cose recondite vengano in luce e si guadagnino conclusioni vere, anderò
movendo alcune considerazioni intorno ad esso discorso: e per più chiara
intelligenza lo ristringerò prima nella maggior brevità ch'io possa.
Dic'egli dunque, aver dal mio Nunzio
Sidereo, le stelle fisse, come quelle che risplendono di propria
luce, irraggiarsi molto di quel fulgore non reale, ma solo apparente; ma i
pianeti, come privi di luce propria, non far così, e massime la Luna,
Giove e Saturno, ma dimostrarsi quasi nudi di tale splendore; ma Venere,
Mercurio e Marte, benché privi di luce propria, irraggiarsi nondimeno assai per
la vicinità del Sole, dal quale più vivamente vengon tocchi. Dice
di più, che la cometa, di mio parere, riceve il suo lume dal Sole, e poi
soggiunge, sé, con altri autori di nome, aver reputata la cometa come un
pianeta per a tempo, e che però di lei si possa filosofare come degli
altri pianeti; de' quali essendo che i più vicini al Sole più
s'irraggiano, ed in conseguenza meno ricrescono veduti col telescopio, ed
avvenga che la cometa ricresceva poco più di Mercurio ed assai meno che
la Luna, molto ragionevolmente si poteva concluder, lei esser non molto
più lontana dal Sole che Mercurio, ma assai più vicina a quello
che la Luna. Questo è il discorso, il quale calza così bene, e
così aggiustatamente s'assesta, al bisogno del Sarsi, come se la
conclusione fusse fatta prima de' principii e de' mezi, sì che non
quella da questi, ma questi da quella dependessero, e fussero non dalla
larghezza della natura, ma dalla puntualità di sottilissima arte stati
preparati per lei. Ma veggiamo quanto siano concludenti.
E prima, che io abbia scritto nel Nunzio
Sidereo che Giove e Saturno non s'irraggino quasi niente, ma che Marte,
Venere e Mercurio si coronino grandemente de' raggi, è del tutto falso;
perché la Luna solamente ho sequestrata dal resto di tutte le stelle, tanto
fisse quanto erranti.
Secondariamente, non so se per far che
la cometa sia un quasi pianeta, e che, come tale, se gli convengano le
proprietà degli altri pianeti, basti che il Sarsi, il suo Maestro ed
altri autori l'abbiano stimata e nominata per tale: che se la stima e la voce
loro avesser possanza di porre in essere le cose da essi stimate e nominate, io
gli supplicherei a farmi grazia di stimar e nominar oro molti ferramenti vecchi
che mi ritrovo avere in casa. Ma lasciando i nomi da parte, qual condizione
induce questi tali a reputar la cometa quasi un pianeta per a tempo? forse il
risplendere come i pianeti? ma qual nuvola, qual fumo, qual legno, qual
muraglia, qual montagna, tocca dal Sole, non risplende altrettanto? Non ha
veduto il Sarsi nel Nunzio Sidereo dimostrato, lo stesso globo terrestre
risplender più che la Luna? Ma che dico io del risplender la cometa come
un pianeta? Io, in quanto a me, non ho per impossibile che la sua luce possa
esser tanto debole, e la sua sostanza tanto tenue e rara, che quando alcuno se
gli potesse avvicinare assai, la perdesse del tutto di vista; come accade
d'alcuni fuochi ch'escono dalla Terra, i quali solamente di notte e da lontano
si veggono, ma da vicino si perdono; in quel modo che le nuvole
lontane si veggono terminatissime, che poi da presso mostrano un poco di
adombramento di nebbia talmente interminato, che altri quasi, nell'entrarvi
dentro, non distingue il suo termine, né lo sa separar dall'aria sua contigua.
E quelle proiezzioni de' raggi solari tra le rotture delle nuvole, tanto simili
alle comete, quando mai son elle vedute, se non da quelli che da loro son lontani?
Convien forse la cometa co' pianeti per ragion di moto? E qual cosa separata
dalla parte elementare, ch'ubidisce allo stato terrestre, non si
moverà al moto diurno col resto dell'universo? Ma se si parla dell'altro
moto traversale, questo non ha che far col movimento de' pianeti, non essendo
né per quel verso, né regolato, né forse pur circolare. Ma, lasciati gli
accidenti, crederà forse alcuno, la sostanza o materia della cometa aver
convenienza con quella de' pianeti? Questa si può credere esser solidissima,
ché così ne persuade in particolare e quasi sensatamente la Luna, ed in
universale la figura terminatissima ed immutabile di tutti i pianeti; dove, per
l'opposito, quella della cometa in pochi giorni si può credere che si
dissolva; e la sua figura, non circolarmente terminata, ma confusa ed
indistinta, ci dà segno, la sua sostanza esser cosa più tenue e
più rara che la nebbia o il fumo: sì che in somma ella si possa
più tosto chiamare un pianeta dipinto, che reale.
Terzo, io non so quanto perfettamente
ei possa aver paragonato l'irraggiamento ed il ricrescimento della cometa con
quel di Mercurio, il quale, avvenga che rarissime volte dia occasion d'essere
osservato, in tutto il tempo che apparve la cometa, sicuramente non la dette
egli mai, né poté esser veduto, ritrovandosi sempre assai vicino al Sole;
sì che io credo di poter senza scrupolo creder, che il Sarsi non facesse
altrimenti questo paragone, difficile anco per altro e mal sicuro a potersi
fare, ma ch'e' lo dica, perché, quando così fussi, servirebbe meglio
alla sua causa. E del non essere egli venuto a questa esperienza me ne
dà anco indizio questo, che nel riferir l'osservazioni fatte in Mercurio
e nella Luna, colle quali paragona quelle della cometa, mi par ch'ei si
confonda alquanto: atteso che, per voler concludere, la cometa esser più
lontana dal Sole che Mercurio, aveva bisogno dire ch'ella s'irraggiava meno di
lui, e veduta col telescopio ricresceva più di lui; tuttavia gli
è venuto scritto a rovescio, cioè ch'ella non s'irraggiava assai
più di Mercurio, e ch'ella riceveva quasi il medesimo ricrescimento,
ch'è quanto a dire ch'ella s'irraggiava più, e ricresceva manco,
di Mercurio: paragonandola poi colla Luna, scrive l'istesso (ben ch'egli dica
di scrivere il contrario), cioè ch'ella ricresceva meno che la Luna, e
s'irraggiava più: tuttavia poi, nel concludere, dalla identità di
premesse ne deduce contrarie conclusioni, cioè che la cometa è
più vicina al Sole che la Luna, ma più remota che Mercurio.
E finalmente, professando il Sarsi
d'esser molto esatto logico, non so perché nella division de' corpi luminosi
che s'irraggiano più o meno, e che in conseguenza, veduti col
telescopio, ricevono ingrandimento minore o maggiore, ei non abbia registrati i
nostri lumi elementari; avvenga che le candele, le fiaccole ardenti vedute in
qualche distanza, e qualunque sassetto, legnuzzo o altro piccolo corpicello,
insin le foglie dell'erbe e le stille della rugiada percosse dal Sole,
risplendono, e da certe vedute s'irraggiano al pari di qualunque più
folgorante stella, e viste col telescopio osservano nell'ingrandimento
l'istesso tenore che le stelle: perloché cessa del tutto quell'aiuto di costa
ch'altri si era promesso dal telescopio, per condur la cometa in cielo e
rimuoverla dalla sfera elementare. Cessi pertanto ancora il Sarsi
dal pensiero di poter sollevare il suo Maestro, e sia certo che per voler
sostenere un errore è forza di commetterne cento, e, quel ch'è
peggio, restar in ultimo a piedi. Vorrei anco pregarlo ch'ei cessasse di
replicar, com'egli pur fa nel fine di questa parte, che queste sue sieno mie
dottrine, perch'io né scrissi mai tali cose, né le dissi, né le pensai. E tanto
basti intorno al primo essame.
Ora passiamo al secondo: “Quamvis ad
hanc usque diem nemo cometam omni ex parte inania inter spectra numerandum
dixerit, ex quo fieret ut necesse non haberemus illum ab hoc inanitatis crimine
liberare, quia tamen Galilæus aliam inire viam explicandi cometæ
satius sapientiusque duxit, par est in novo hoc illius invento diligentius
expendendo commorari.
Duo sunt quæ ille excogitavit:
alterum substantiam, alterum vero motum cometæ spectat. Quod ad prius
attinet, ait lumen hoc ex eorum genere esse, quæ, per alterius luminis
refractionem ostentata verius quam facta, umbræ potius luminosorum
corporum quam luminosa corpora dicenda videntur; qualia sunt irides,
coronæ, parelia, aliaque hoc genus multa. Quod vero spectat ad posterius,
affirmat, motum cometarum rectum semper fuisse ac Terræ superficiei
perpendicularem: quibus in medium prolatis, aliorum facile sententias se
labefacturum existimavit. Nos, quantum hisce opinionibus tribuendum sit, paucis
in præsentia ac sine ullo verborum fuco (quando satis sibi ornata est,
vel nuda, veritas) videamus: et quamquam perdifficile est duo hæc dicta
complecti singillatim, cum adeo inter se connexa sint ut alterum ab altero
pendere ac mutuam sibi adiumenti vicem rependere videantur, curabimus tamen ne
quid iacturæ lectoribus hinc existat.
Quare contra primum Galilæi
dictum affirmo, cometam inane lucis figmentum, spectantium oculis illudens, non
fuisse: quod nullo alio egere argumento apud eum existimo, qui vel semel
cometam ipsum tum nudis oculis tum optico tubo inspexerit. Satis enim vel ex
ipso aspectu sese huius natura luminis prodebat, ut ex verissimorum collatione
luminum iudicare facile quivis posset, fictumne esset an verum quod cerneret.
Sane Tycho, dum Thaddæi Hagecii observationes examinat, hæc ex
eiusdem epistola profert: "Corpus cometæ iis diebus magnitudine
Iovis ac Veneris stellam adæquasse, et luce nitida ac splendore eximio
eoque eleganti et venusto præditum fuisse, et puriorem eius substantiam
apparuisse quam ut pure elementaribus materiis quadraret, sed potius
cælestibus illis corporibus analogam extitisse." Quibus postea
hæc Tycho subdit: "Atque in hoc sane rectissime sensit
Thaddæus, et vel inde etiam non obscure concludere potuisset, minime
elementarem fuisse hunc cometam."”
Di sopra il Sarsi s'andò
figurando arbitrariamente i principii ed i mezi accommodati alle conclusioni
ch'egli intendeva di dimostrare; adesso mi par ch'ei si vada figurando
conclusioni, per oppugnarle come pensieri del signor Mario e miei, molto
diverse, o almeno molto diversamente prese, da quello che nel Discorso del
signor Mario son portate. Imperocché, che la cometa sia senz'altro un simulacro
vano ed una semplice apparenza, non è mai risolutamente stato affermato,
ma solo messo in dubbio e promosso alla considerazion de' filosofi con quelle
ragioni e conghietture che par che possano persuadere che così possa
essere. Ecco le parole del signor Mario in questo proposito: “Io non dico
risolutamente che la cometa si faccia in tal modo, ma dico bene che, come di
questo, così son dubbio degli altri modi assegnati dagli altri autori; i
quali se pretenderanno d'indubitatamente stabilir lor parere, saranno in obligo
di mostrar questa e tutte l'altre posizioni vane e fallaci.” Con simil
diversità porta il Sarsi che noi con risolutezza abbiamo affermato, il
moto della cometa dover necessariamente esser retto e perpendicolare alla
superficie terrestre: cosa che non si è proposta in cotal forma, ma solo
s'è messo in considerazione come questo più semplicemente, e
più conforme all'apparenze, soddisfaceva alle mutazioni osservate in
essa cometa; e tal pensiero vien tanto temperatamente proposto dal signor
Mario, che nell'ultimo dice queste parole: “Però a noi conviene
contentarci di quel poco che possiamo conghietturar così tra l'ombre.”
Ma il Sarsi ha voluto rappresentar queste opinioni tanto più fermamente
esser da me state credute, quanto egli si è immaginato di poterle con
più efficaci mezi annichilare; il che se gli sarà venuto fatto,
io gliene terrò obligo, perché per l'avvenire avrò a pensare a
una opinion di manco, qualunque volta mi venga in pensiero di filosofar sopra tal
materia. In tanto, perché mi pare che pur ancora resti qualche poco di vivo
nelle conghietture del signor Mario, anderò facendo alcuna
considerazione intorno al momento delle opposizioni del Sarsi.
Il quale, venendo con gran risolutezza
ad oppugnar la prima conclusione, dice che a chi avesse pur una sola volta
rimirata la cometa, di nissun altro argomento gli sarebbe stato di mestieri per
conoscer la natura di cotal lume; il quale, paragonato cogli altri lumi
verissimi, pur troppo apertamente mostrava sé esser vero, e non finto. Sì
che, come vede V. S. Illustrissima, il Sarsi confida tanto nel senso della
vista, che stima impossibil cosa restar ingannato, tuttavolta che si possa far
parallelo tra un oggetto finto ed un reale. Io confesso di non aver la
facoltà distintiva tanto perfetta, ma d'esser come quella scimia che
crede fermamente veder nello specchio un'altra bertuccia, né prima conosce il
suo errore, che quattro o sei volte non sia corsa dietro allo specchio per prenderla:
tanto se le rappresenta quel simulacro vivo e vero. E supposto che
quegli che il Sarsi vede nello specchio non sieno uomini veri e reali, ma vani
simulacri, come quelli che ci veggiamo noi altri, grande curiosità avrei
di sapere, quali sieno quelle visuali differenze per le quali tanto
speditamente distingue il vero dal finto. Io, quanto a me, mi sono mille volte
ritrovato in qualche stanza a finestre serrate, e per qualche piccol foro
veduto un poco di reflession di Sole fatta da un altro muro opposto, e
giudicatola, quanto alla vista, una stella non men lucida della Canicola e di
Venere. E caminando in campagna contro al Sole, in quante migliaia di
pagliuzze, di sassetti, un poco lisci o bagnati, si vedrà la reflession
del Sole in aspetto di stelle splendentissime? Sputi solamente in terra il
Sarsi, ché senz'altro, dal luogo dove va la reflession del raggio solare,
vedrà l'aspetto d'una stella naturalissima. In oltre, qual corpo posto
in gran lontananza, venendo tocco dal Sole, non apparirà una stella,
massime se sarà tanto alto che si possa veder di notte, come si veggon
l'altre stelle? E chi distinguerebbe la Luna, veduta di giorno, da una nuvola
tocca dal Sole, se non fusse la diversità della figura e dell'apparente
grandezza? Niuno sicuramente. E finalmente, se la semplice apparenza deve
determinar dell'essenza, bisogna che il Sarsi conceda che i Soli, le Lune e le
stelle, vedute nell'acqua ferma e negli specchi, sien veri Soli, vere Lune e
vere stelle. Cangi pure il Sarsi, quanto a questa parte, opinione, né creda col
citare autorità di Ticone, di Taddeo Agecio o d'altri molti, di
megliorar la condizion sua, se non in quanto l'avere avuto uomini tali per
compagni rende più scusabile il suo errore.
Segua V. S. Illustrissima di leggere.
“Quia tamen toto eo tempore quo noster hic fulsit, Galilæus, ut audio,
lecto affixus ex morbo decubuit, neque ei unquam fortasse per valetudinem
licuit corpus illud pellucidum oculis intueri, aliis propterea cum illo agendum
esse duximus argumentis. Ait igitur ipse, vaporem sæpe fumidum ex aliqua
Terræ parte in altum supra Lunam etiam ac Solem attolli, et simul atque
extra umbrosum Terræ conum progressus Solis lumen aspexerit, ex illius
veluti luce concipere et cometam parere; motum autem sive ascensum vaporis huiusmodi,
non vagum incertumque, sed rectum nullamque deflectentem in partem, existere. Sic ille: at nos harum positionum pondus ad nostram
trutinam referamus.
Principio, materiam hanc fumidam et vaporosam per eos forte dies
ascendisse constat e Terra, cum, vehementissimis boreæ flatibus toto late
cælo dominantibus, dispergi facile ac disiici potuisset; ut mirum
profecto sit, impune adeo tenuissimis levissimisque corpusculis licuisse inter
sævientis aquilonis iras constantissimo gressu, qua cœperant via, in
altum ferri, cum ne gravissima quidem pondera tunc aëri semel commissa eiusdem
vim atque impetum superare possent. Ego vero adeo pugnare inter se existimo duo
hæc, vaporem levissimum ascendere, et recta ascendere, ut inter
instabiles saltem aëris huius vicissitudines fieri id posse vix credam. Illud
etiam adde, auctore Galilæo, ne a sublimioribus quidem illis planetarum
regionibus abesse concretiones ac rarefactiones huiusmodi corporum fumidorum,
ac proinde nec motus illos vagos incertosque, quibus eadem ferri necesse est.”
Che vapori fumidi da qualche parte
della Terra sormontino sopra la Luna, ed anco sopra il Sole, e che usciti fuori
del cono dell'ombra terrestre sieno dal raggio solare ingravidati e quindi
partoriscano la cometa, non è mai stato scritto dal signor Mario né
detto da me, ben che il Sarsi me l'attribuisca. Quello che ha scritto il signor
Mario è, che non ha per impossibile che tal volta possano elevarsi dalla
Terra essalazioni ed altre cose tali, ma tanto più sottili del consueto,
che ascendano anco sopra la Luna, e possano esser materia per formar la cometa;
e che talora si facciano sublimazioni fuor del consueto della materia de'
crepuscoli, l'essemplifica per quella boreale aurora; ma non dice già
che quella sia in numero la medesima materia delle comete, la qual è
necessario che sia assai più rara e sottile che i vapori crepuscolini e
che quella materia della detta aurora boreale, atteso che la cometa risplende
meno assai dell'aurora; sì che se la cometa si distendesse, verbigrazia,
lungo l'oriente nel candor dell'alba, mentre il Sole non fusse lontano
dall'orizonte più di sei o vero otto gradi, ella senza dubbio non si
discernerebbe, per esser manco lucida del campo suo ambiente. E coll'istessa,
non risolutezza, ma probabilità si è attribuito il moto retto in
su alla medesima materia. E questo sia detto non per ritirarci, per paura che
ci facciano l'oppugnazioni del Sarsi, ma solo perché si vegga che noi non ci
allontaniamo dal nostro costume, ch'è di non affermar per certe se non
le cose che noi sappiamo indubitatamente, ché così c'insegna la nostra
filosofia e le nostre matematiche. Or, posto che noi abbiamo detto come
c'impone il Sarsi, sentiamo ed essaminiamo le sue opposizioni.
È la sua prima instanza fondata
sopra l'impossibilità del salir vapori per linea retta verso il cielo
mentre impetuoso aquilone di traverso spinge l'aria e ciò che per entro
lei si ritrova; e tale si sentì egli per molti giorni appresso
all'apparir della cometa. L'instanza veramente è ingegnosa; ma le vien
tolto assai di forza da alcuni avvisi sicuri, per li quali s'ebbe che in quei
giorni né in Persia né in China fu perturbazione alcuna di venti; ed io
crederò che d'una di quelle regioni si elevasse la materia della cometa,
se il Sarsi non mi prova ch'ella si movesse non di là, ma di Roma,
dov'egli sentì l'impeto boreale. Ma quando ben anco il vapore si fusse
partito d'Italia, chi sa ch'ei non si mettesse in viaggio avanti i giorni
ventosi, de i quali ne fusser passati poi molti avanti il suo arrivo all'orbe
cometario, lontano dalla Terra, per relazion del Maestro del Sarsi,
Séguiti ora V. S. Illustrissima. “Sed
demus, licuisse per ventos halitibus hisce cœptum semel cursum tenere,
eoque contendere ubi Solis radios et directos excipere ac repercussos remittere
ad nos possent. Cur ibi demum, cum se totis totum plane excipiunt Phœbum,
parte sui tantum minima eumdem nobis ostendunt? Sane, vel ipso Galilæo
teste, cum per æstivos dies non absimilis vapor, ad septemtrionem forte
solito altius provectus, Soli se spectandum obiecerit, tunc enimvero,
clarissimo perfusus lumine, candidissimum omni se ex parte exhibet, atque, ut
eius verbis utar, borealem nobis, nocturnis etiam in tenebris, auroram refert;
nec mutuati splendoris adeo se avarum præbet, ut, cum toto hauserit Solem
sinu, vix una illum e rimula ad nos relabi patiatur. Vidi egomet, non per
æstivum tantum tempus, sed Ianuario mense, quatuor post Solis occasum
horis, quod admirabilius est, vertici fere imminentem, candido ac fulgenti
habitu, nubeculam adeo raram, ut ne minimas quidem stellas velaret; at illa
etiam, quæ a Sole acceperat lucis dona, largo apertoque sinu
liberalissime undique profundebat. Nubes denique omnes (si quam tamen
illæ cum cometarum materia affinitatem servant), si densæ adeo
fuerint atque opacæ ut Solis radios libere non transmittant, ea saltem
parte qua Solem respiciunt, eumdem ad nos reciproca liberalitate reflectunt; at
si raræ ac tenues sint, easque facile lux omni ex parte pervadat, nulla
se parte tenebricosas ostendunt, sed clarissimo undique perfusas lumine
spectandas offerunt. Si igitur cometa non ex alia elucet materia quam ex
vaporibus huiusmodi fumidis, non in unum veluti globum coactis, sed, ut ipse
ait, satis amplum cæli spatium occupantibus omnique ex parte Solis luce
fulgentibus, quid tandem causæ est, cur ex angusto tantum brevique
orbiculo spectantibus semper affulgeat, neque reliquæ vaporis eiusdem
partes, pari a Sole lumine illustratæ, unquam compareant? Neque facile id
iridis exemplo solvitur, in cuius productione idem contingit, ut videlicet ex
una tantum nubis parte ad oculum relabatur, cum tamen in toto spatio a Sole
illustrato eadem colorum diversitas eiusdem lumine procreetur. Illa enim, et si
qua alia huiusmodi sunt, roridam potius humentemque requirunt materiam et iam
in aquam abeuntem; hæc siquidem materia tunc solum cum in aquam solvitur,
lævium ac politorum corporum perspicuorumque naturam imitata, ea tantum
ex parte qua anguli reflexionum refractionumque, ad id requisiti, fiunt, lumen
remittit, ut experimur in speculis, aquis ac pilis cristallinis. Si qui vero
halitus rariores ac sicciores extiterint, hi neque lævem habent
superficiem, ut specula, neque multam radiorum refractionem efficiunt. Cum
igitur ad reflexiones corporis lævitas, ad refractiones vero cum
perspicuo densitas, requiratur (quæ omnia nunquam in meteorologicis
impressionibus habentur, nisi cum earum materia aquæ multum habuerit, ut
non Aristoteles modo, sed opticæ etiam magistri omnes docuerunt, ac ratio
ipsa efficacius persuadet), hinc necessario sequitur, huiusmodi halitus
graviores natura sua futuros, ac proinde minus aptos qui supra Lunam etiam ac
Solem ascendant, cum vel Galilæus ipse fateatur, tenues valde ac leves
esse eos debere, qui eo usque evolant. Non ergo ex vapore illo fumido ac raro,
et nullius revera ponderis, revibrari ad nos poterit fulgidum illud lucis
simulacrum; vapor vero aqueus, ut pote gravis, in altum ferri nulla ratione
poterit.”
Parmi d'aver per lunghe esperienze
osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che
quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia
discorrerne; e che, all'incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed
intese renda più lento ed irresoluto al sentenziare circa qualche novità.
Nacque già in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura
d'uno ingegno perspicacissimo e d'una curiosità straordinaria; e per suo
trastullo allevandosi diversi uccelli, gustava molto del lor canto, e con
grandissima meraviglia andava osservando con che bell'artificio, colla
stess'aria con la quale respiravano, ad arbitrio loro formavano canti diversi,
e tutti soavissimi. Accadde che una notte vicino a casa sua sentì un
delicato suono, né potendosi immaginar che fusse altro che qualche uccelletto,
si mosse per prenderlo; e venuto nella strada, trovò un pastorello, che
soffiando in certo legno forato e movendo le dita sopra il legno, ora serrando
ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne traeva quelle diverse voci, simili a
quelle d'un uccello, ma con maniera diversissima. Stupefatto e mosso dalla sua
natural curiosità, donò al pastore un vitello per aver quel
zufolo; e ritiratosi in se stesso, e conoscendo che se non s'abbatteva a passar
colui, egli non avrebbe mai imparato che ci erano in natura due modi da formar
voci e canti soavi, volle allontanarsi da casa, stimando di potere incontrar
qualche altra avventura. Ed occorse il giorno seguente, che passando presso a
un piccol tugurio, sentì risonarvi dentro una simil voce; e per
certificarsi se era un zufolo o pure un merlo, entrò dentro, e
trovò un fanciullo che andava con un archetto, ch'ei teneva nella man
destra, segando alcuni nervi tesi sopra certo legno concavo, e con la sinistra
sosteneva lo strumento e vi andava sopra movendo le dita, e senz'altro fiato ne
traeva voci diverse e molto soavi. Or qual fusse il suo stupore, giudichilo chi
participa dell'ingegno e della curiosità che aveva colui; il qual,
vedendosi sopraggiunto da due nuovi modi di formar la voce ed il canto tanto
inopinati, cominciò a creder ch'altri ancora ve ne potessero essere in
natura. Ma qual fu la sua meraviglia, quando entrando in certo tempio si mise a
guardar dietro alla porta per veder chi aveva sonato, e s'accorse che il suono
era uscito dagli arpioni e dalle bandelle nell'aprir la porta? Un'altra volta,
spinto dalla curiosità, entrò in un'osteria, e credendo d'aver a
veder uno che coll'archetto toccasse leggiermente le corde d'un violino, vide
uno che fregando il polpastrello d'un dito sopra l'orlo d'un bicchiero, ne cavava
soavissimo suono. Ma quando poi gli venne osservato che le vespe, le zanzare e
i mosconi, non, come i suoi primi uccelli, col respirare formavano voci
interrotte, ma col velocissimo batter dell'ali rendevano un suono perpetuo,
quanto crebbe in esso lo stupore, tanto si scemò l'opinione ch'egli
aveva circa il sapere come si generi il suono; né tutte l'esperienze già
vedute sarebbono state bastanti a fargli comprendere o credere che i grilli,
già che non volavano, potessero, non col fiato, ma collo scuoter l'ali,
cacciar sibili così dolci e sonori. Ma quando ei si credeva non potere
esser quasi possibile che vi fussero altre maniere di formar voci, dopo
l'avere, oltre a i modi narrati, osservato ancora tanti organi, trombe,
pifferi, strumenti da corde, di tante e tante sorte, e sino a quella linguetta
di ferro che, sospesa fra i denti, si serve con modo strano della cavità
della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono;
quando, dico, ei credeva d'aver veduto il tutto, trovossi più che mai
rinvolto nell'ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e
che né per serrarle la bocca né per fermarle l'ali poteva né pur diminuire il
suo altissimo stridore, né le vedeva muovere squamme né altra parte, e che
finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini
dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle,
si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che,
spingendo l'ago più a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la
vita, sì che né anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle:
onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si
generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che
teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti ed inopinabili.
Io potrei con altri molti essempi
spiegar la ricchezza della natura nel produr suoi effetti con maniere
inescogitabili da noi, quando il senso e l'esperienza non lo ci mostrasse, la
quale anco talvolta non basta a supplire alla nostra incapacità; onde se
io non saperò precisamente determinar la maniera della produzzion della
cometa, non mi dovrà esser negata la scusa, e tanto più quant'io
non mi son mai arrogato di poter ciò fare, conoscendo potere essere
ch'ella si faccia in alcun modo lontano da ogni nostra immaginazione; e la
difficoltà dell'intendere come si formi il canto della cicala,
mentr'ella ci canta in mano, scusa di soverchio il non sapere come in tanta
lontananza si generi la cometa. Fermandomi dunque su la prima intenzione del
signor Mario e mia, ch'è di promuover quelle dubitazioni che ci è
paruto che rendano incerte l'opinioni avute sin qui, e di proporre alcuna
considerazione di nuovo, acciò sia essaminata e considerato se vi sia
cosa che possa in alcun modo arrecar qualche lume ed agevolar la strada al
ritrovamento del vero, anderò seguitando di considerar l'opposizioni
fatteci dal Sarsi, per le quali i nostri pensieri gli sono paruti improbabili.
Procedendo egli adunque avanti e
concedendoci che, quando pur non fusse conteso a i vapori, o altra materia atta
al formar la cometa, il sollevarsi da Terra ed ascendere in parti altissime,
dove direttamente potesse ricevere i raggi solari e reflettergli a noi, muove
difficoltà in qual modo, venendo illuminata tutta, da una sola sua
particella venga poi fatta a noi la reflessione, e non faccia come quei vapori
che ci rappresentano quella intempestiva aurora boreale, i quali, sì
come tutti s'illuminano, tutti ancora luminosi ci si dimostrano; ed appresso soggiunge,
aver veduto verso la meza notte cosa più meravigliosa, cioè una
nuvoletta verso il vertice, la quale, sì come tutta era illuminata,
così da ogni sua parte liberalissimamente ci rimandava lo splendore; e
le nuvole tutte (segu'egli), se saranno dense ed opache, ci rendono il lume del
Sole da tutta quella parte che da esso vengono vedute; ma se saranno rare,
sì che il lume le penetri, ci si mostrano tutte lucide, ed in niuna
parte tenebrose; se dunque la cometa non si forma in altra materia che in simili
vapori fumidi largamente distesi, come dice il signor Mario, e non raccolti in
figura sferica, essendo da ogni lor parte tocchi dal Sole, per qual cagione da
un sol piccolo globetto, e non dal resto, benché egualmente illuminato, ci vien
fatta la reflessione? Ancor che le soluzioni di queste instanze sieno a pien
distese nel Discorso del signor Mario, nientedimeno l'anderò qui
replicando e disponendole a' luoghi loro, coll'aggiunta di qualch'altra
considerazione, secondo che l'opposizioni di passo in passo mi faranno
sovvenire.
E prima, non dovrebbe aver
difficoltà veruna il Sarsi nel conceder che da un luogo particolare
solamente di tutta la materia sublimata per la cometa si possa far la
reflessione del lume del Sole alla vista d'un particolare, benché tutta sia
egualmente illuminata; avvenga che noi ne abbiamo mille simili esperienze in
favore, per una che paia essere in contrario, e facilmente di quelle prodotte
dal Sarsi come contrarianti a tal posizione ne troveremo la maggior parte esser
favorevoli. Già non è dubbio, che di qualsivoglia specchio piano
esposto al Sole tutta la superficie è da quello illuminata; il simile
è di qualsivoglia stagno, lago, fiume, mare, ed in somma d'ogni
superficie tersa e liscia, di qualunque corpo ella si sia: nulladimeno
all'occhio d'un particolare non si fa la reflession del raggio solare se non da
un luogo particolare d'essa superficie, il qual luogo si va mutando alla
mutazion dell'occhio riguardante. L'esterna superficie di sottili ma per grande
spazio distese nuvole, è tutta egualmente illuminata dal Sole; tuttavia
l'alone ed i parelii non si mostrano ad un occhio particolare se non in un
luogo solo, e questo parimente al movimento dell'occhio va mutando sito in essa
nuvola.
Dice il Sarsi: “Quella sottil materia
sublimata che rende talvolta quella boreale aurora, si vede pur, qual ella
è in fatto, illuminata tutta”. Ma io domando al Sarsi, onde egli abbia
questa certezza. Ed egli non mi può rispondere altro, se non che ei non
vede parte alcuna che non sia illuminata, sì com'ei vede il resto della
superficie degli specchi, dell'acque, de' marmi, oltr'a quella particella che
ci rende la reflession viva del raggio solare. Sì, ma io l'avvertisco
che quando la materia fusse in colore simile al resto dell'ambiente, o vero fusse
trasparente, ei non distinguerebbe altro che quel solo splendido raggio
reflesso, come accade talvolta che la superficie del mare non si distingue
dall'aria, e pur si vede l'immagine reflessa del Sole; e così, posto un
sottil vetro in qualche lontananza, ci potrà mostrar di sé quella sola
particella in cui si fa la reflessione di qualche lume, rimanendo il resto
invisibile per la sua trasparenza. Questo del Sarsi è simil all'error di
coloro che dicono che nessun delinquente deve mai confidarsi che il suo delitto
sia per restare occulto, né s'accorgono dell'incompatibilità ch'è
tra 'l restar occulto e l'essere scoperto, e che senz'altro chi volesse tener
due registri, uno de' delitti che restano occulti, e l'altro di quelli che si
manifestano, in quel degli occulti non ci verrebbe mai registrato e notato cosa
veruna. Vengo dunque a dir, che senza repugnanza alcuna posso credere che la
materia di quella boreale aurora si distenda in ispazio grandissimo e sia tutta
egualmente illuminata dal Sole; ma perché a me non si scopre e fa visibile se
non quella parte onde vien all'occhio mio la refrazzione, restando tutto il
rimanente invisibile, però mi par di vedere il tutto. Ma che più?
De' vapori crepuscolini, che circondano tutta la Terra, non è egli
sempre egualmente illuminato uno emisferio da' raggi solari? Certo sì;
tuttavia quella parte che direttamente s'interpone tra 'l Sole e noi, ci si
mostra più luminosa assai delle parti più lontane: e questa, come
l'altre ancora, è una pura apparenza ed illusion dell'occhio nostro,
avvenga che, siamo noi in qualsivoglia luogo, sempre veggiamo il corpo solare
come centro d'un cerchio luminoso, ma che di grado in grado va perdendo di
splendore secondo ch'è più remoto da esso centro a destra o a
sinistra; ma ad altri più verso borea quella parte che a me è
più chiara apparisce più fosca, e più lucida quella che a
me si rappresentava più oscura; sì che noi possiamo dire d'avere
un perpetuo e grande alone intorno al Sole, figurato nella convessa superficie
che termina la sfera vaporosa, il quale alone, nel modo stesso dell'altro che
talora si forma in una sottil nuvola, si va mutando di luogo secondo la
mutazion del riguardante. Quanto alla nuvoletta che 'l Sarsi afferma aver
veduta tutta lucida nella profonda notte, lo potrei parimente interrogare, qual
certezza egli abbia ch'ella non fusse maggior di quella ch'ei vedeva, e massime
dicendo egli ch'ella era in modo trasparente, che non celava le stelle fisse,
ancor che minime perloché, niuno indizio gli poteva rimanere onde potesse
assicurarsi, quella non distendersi invisibilmente, come trasparentissima,
molto e molto oltre a' termini della parte lucida veduta: e però resta
dubbio se essa ancora fusse una dell'apparenze, la quale alla mutazion di luogo
dell'occhio, come l'altre, s'andasse mutando. Oltre che non repugna ch'ella
potesse apparir luminosa tutta, ed esser nondimeno una illusione, il che
accaderebbe quand'ella non fusse maggior di quello spazio che viene occupato
dall'immagine del Sole, in quel modo che se, vedendo il simulacro del Sole
occupar, verbigrazia, in uno specchio tanto spazio quant'è un'ugna, noi
tagliassimo via il rimanente, ché non ha dubbio alcuno che questo piccolo
specchietto potrà apparirci lucido tutto. Ma di più ancora, quando
lo specchietto fusse minore del simulacro, allora non solamente si potrebbe
vedere illuminato tutto, ma il simulacro in lui non ad ogni movimento
dell'occhio apparirebbe esso ancora muoversi, com'ei fa nello specchio grande;
anzi, per essere egli incapace di tutta l'immagine del Sole, seguirebbe che,
movendosi l'occhio, vederebbe la reflession fatta or da una ed or da un'altra
parte del disco solare; e così l'immagine parrebbe immobile, sin che
venendo l'occhio verso la parte dove non si dirizza la reflessione, ella del
tutto si perderebbe. Assaissimo, dunque, importa il considerar la grandezza e
qualità della superficie nella quale si fa la reflessione; perché,
secondo che la superficie sarà men tersa, l'immagine del medesimo
oggetto vi si rappresenterà maggiore e maggiore, sì che talvolta,
avanti che l'immagine trapassi tutto lo specchio, molto spazio converrà
che cammini l'occhio, ed essa immagine apparirà fissa, se ben realmente
sarà mobile.
E per meglio dichiararmi in un punto
importantissimo e che forse, non dirò al Sarsi, ma a qualunqu'altro
sopraggiungerà pensier nuovo, si figuri V. S. Illustrissima d'esser
lungo la marina in tempo ch'ella sia tranquillissima, ed il Sole già
declinante verso l'occaso: vederà nella superficie del mare ch'è
intorno al verticale che passa per lo disco solare, il reflesso del Sole
lucidissimo, ma non allargato per molto spazio; anzi, se, come ho detto,
l'acqua sarà quietissima, vederà la pura immagine del disco
solare, terminata come in uno specchio. Cominci poi un leggier venticello a
increspare la superficie dell'acqua: comincerà nell'istesso tempo a
veder V. S. Illustrissima il simulacro del Sole rompersi in molte parti, ma
allargarsi e diffondersi in maggiore spazio; e benché, mentre ella fosse
vicina, potrebbe distinguer l'un dall'altro de i pezzi del simulacro rotto,
tuttavia da maggior lontananza non vederebbe tal separazione, sì per
l'angustia degl'intervalli tra pezzo e pezzo, sì pel gran fulgor delle
parti splendenti, che insieme s'anderebbono mescolando e facendo l'istesso che
molti fuochi tra sé vicini, che di lontano appariscono un solo. Cresca in onde
maggiori e maggiori l'increspamento: sempre per intervalli più e
più larghi si distenderà la moltitudine degli specchi, da' quali,
secondo le diverse inclinazioni dell'onde, si refletterà verso l'occhio
l'immagine del Sole spezzata. Ma recandosi in distanze maggiori e maggiori, e
per poter meglio scoprire il mare montando sopra colline o altre eminenze, un
solo e continuato parrà il campo lucido: ed io mi sono incontrato a
veder da una montagna altissima e lontana dal mar di Livorno sessanta miglia,
in tempo sereno ma ventoso, un'ora in circa avanti il tramontar del Sole, una
striscia lucidissima diffusa a destra ed a sinistra del Sole, la quale in
lunghezza occupava molte decine e forse anco qualche centinaio di miglia, la
quale però era una medesima reflessione, come l'altre, della luce del
Sole. Ora s'immagini il Sarsi che della superficie del mare, ritenendo il
medesimo increspamento, se ne fusse rimosso verso gli estremi gran parte, e
lasciatone solamente verso il mezo, cioè incontro al Sole, una lunghezza
di due o tre miglia: questa sicuramente si sarebbe veduta tutta illuminata, ed
anco non mobile ad ogni mutazion che il riguardante avesse fatto a questa o a
quella mano, se non dopo essersi mosso forse per qualche miglio, ché allora
comincerebbe a perdersi la parte sinistra del simulacro, s'egli caminasse alla
destra, e l'imagine splendida si verrebbe restringendo, sin che, fatta
sottilissima, del tutto svanirebbe. Ma non perciò resta che il simulacro
non sia mobile al moto del riguardante, anzi, pur vedendolo tutto, tutto lo
vederemmo ancor muovere, attalché il suo mezo risponderebbe sempre alla
drittura del Sole, il quale ad altri ed altri che nel medesimo momento lo
rimirano, risponde ad altri e ad altri punti dell'orizonte.
Io non voglio tacere a V. S.
Illustrissima in questo luogo quello che mi è sovvenuto per la soluzion
d'un problema marinaresco. Conoscono talora i marinari esperti il vento che da
qualche parte del mare dopo non molto intervallo è per sopragiunger
loro, e di questo dicono esser argomento sicuro il veder l'aria, verso quella
parte, più chiara di quel che per consueto dovrebbe essere. Or pensi V.
S. Illustrissima se ciò potesse derivare dall'esser di già in
quella parte il vento in campo, e commosse l'onde, dalle quali nascendo, come
da specchi moltiplicati a molti doppi e diffusi per grande spazio, la
reflession del Sole assai maggiore che se 'l mare vi fusse in bonaccia, possa
da questa nuova luce esser maggiormente illuminata quella parte dell'aria
vaporosa per la quale tal reflession si diffonde, la qual, come sublime, renda
ancora qualche reflesso di lume agli occhi de' marinari, a' quali, per esser
bassi, non poteva venir la primaria reflession di quella parte di mare di
già increspato da' venti e lontana per avventura, da loro, venti o
trenta o più miglia; e che questo sia il lor vedere o prevedere il vento
da lontano.
Ma seguitando il nostro primo concetto,
dico che non in tutte le materie, o vogliamo dire in tutte le superficie,
stampano i raggi solari l'immagine del Sole della medesima grandezza; ma in
alcune (e queste sono le piane e lisce come uno specchio) ci si mostra il disco
solare terminato ed eguale al vero, nelle convesse pur lisce ci apparisce minore,
e nelle concave talor minore, talor maggiore, ed anco talvolta eguale, secondo
le diverse distanze tra lo specchio e l'oggetto e l'occhio. Ma se la superficie
sarà non eguale, ma sinuosa e piena d'eminenze e cavità, e come
se dicessimo composta di gran moltitudine di piccoli specchietti locati in
varie inclinazioni, in mille e mille modi esposte all'occhio, allora l'istessa
immagine del Sole da mille e mille parti, ed in mille e mille pezzi divisa,
verrà all'occhio nostro, i quali per grande ispazio s'allargheranno,
stampando in essa superficie un ampio aggregato di moltissime piazzette lucide,
la frequenza delle quali farà che da lontano apparirà un sol
campo sparso di luce continuata, più gagliarda e viva nel mezo che verso
gli estremi, dov'ella va languendo, e finalmente sfumando svanisce, quando per
l'obliquità dell'occhio ad essa superficie i raggi visivi non trovano
più onde reflettersi verso il Sole. Questo gran simulacro è esso
ancora mobile al movimento dell'occhio, pur che oltre a i suoi termini si vada
continuando la superficie dove si fanno le reflessioni: ma se la
quantità della materia occuperà piccolo spazio, e minore assai di
quello del simulacro intero, potrà accadere che, restando la materia
fissa e movendosi l'occhio, ella continui ad apparer lucida, sin che pervenuto
l'occhio a quel termine dal quale, per l'obliquità de' raggi incidenti
sopra essa materia, le reflessioni non si dirizzano più verso il Sole,
la luce svanisce e si perde. Ora io dico al Sarsi che quando ei vede una nuvola
sospesa in aria, terminata e tutta lucida, la quale resta ancor tale benché
l'occhio per qualche spazio si vada mutando di luogo, non perciò si
tenga sicuro, quella illuminazione esser cosa più reale di quella
dell'alone, de' parelii, dell'iride e della reflession nella superficie del
mare; perché io gli dico che la sua consistenza ed apparente stabilità
può dependere dalla piccolezza della nuvola, la quale non è
capace di ricevere tutta la grandezza del simulacro del Sole; il qual simulacro,
rispetto alla posizion delle parti della superficie di essa nuvola,
s'allargherebbe, quando non gli mancasse la materia, per ispazio molte e molte
volte maggiore della nuvola, ed allora quando si vedesse intero e che oltre di
lui avanzasse altro campo di nubi, dico che al movimento dell'occhio esso
ancora così intero s'anderebbe movendo. Argomento necessario ci sia di
ciò il veder noi spessissime volte, nel nascere o nel tramontar del
Sole, molte nuvolette sospese vicino all'orizonte, delle quali quelle che son
vicine all'incontro del Sole si mostrano splendentissime e quasi di finissimo
oro, dell'altre laterali le men remote dal mezo lucide esse ancora più
delle più lontane, le quali di grado in grado ci si vanno dimostrando
men chiare, sì che finalmente delle molto remote lo splendore è
quasi nullo: dico nullo a noi, ma a chi fusse in tal sito che queste restassero
interposte tra l'occhio suo e 'l luogo dell'occaso del Sole, lucidissime se gli
mostrerebbono, ed oscure le nostre più risplendenti. Intenda dunque il
Sarsi, che quando le nubi non fussero spezzate, ma una lunghissima distesa e
continuata, accaderebbe che a ciaschedun riguardante la parte sua di mezo
apparisse lucidissima, e le laterali di grado in grado, secondo la lontananza
dal suo mezo, men chiare, sì che dove a me comparisce il colmo dello
splendore, ad altri è il fine ed ultimo termine.
Ma qui potrebbe dir alcuno che,
già che quel pezzo di nube riman fisso, ed il lume in esso non si vede
andar movendo alla mutazione di luogo del riguardante, questo basta a far che
la paralasse operi nel determinar della sua altezza, e che però, potendo
accader l'istesso della cometa, l'uso della paralasse resti atto al bisogno di
chi cerchi dimostrare il suo luogo. A questo si risponde che ciò sarebbe
vero quando si fusse prima dimostrato che la cometa fusse non un intero
simulacro del Sole, ma un pezzo solamente, sì che la materia in cui si
forma la cometa fusse non solamente illuminata tutta, ma che 'l simulacro del
Sole eccedesse dalle bande, in modo ch'ei fusse bastante ad illuminar campo
assai maggiore, quando vi fusse materia disposta alla reflession del lume; il
che non solamente non s'è dimostrato, ma si può molto
ragionevolmente creder l'opposito, cioè che la cometa sia un simulacro
intero, e non mutilato e tronco, ché così ne persuade la sua figura
regolata e con bella simmetria disegnata. E di qui si può trar facile ed
accommodata risposta all'instanza che fa il Sarsi, mentre mi domanda come possa
essere che, figurandosi, per detto del signor Mario, la cometa in una materia
distesa per grande spazio in alto, ella non s'illumini tutta, ma ci rimandi
solo da un piccolo cerchietto la reflessione, senza che l'altre parti, pur
viste dal Sole, compariscano già mai. Imperò che io farò
la medesima interrogazione ad esso o al suo Maestro, il quale non volendo che
la cometa sia un incendio, ma inclinando a credere (s'io non erro) ch'almeno la
sua coda sia una refrazzione de' raggi solari, io gli domanderò s'ei
credono che la materia nella quale si fa tal refrazzione sia tagliata appunto
alla misura d'essa chioma, o pur che di qua e di là e d'ogn'intorno ve
n'avanzi; e se ve n'avanza (come credo che sarà risposto), perché non si
vede, essendo tocca dal Sole? Qui non si può dire che la refrazzione si
faccia nella sostanza dell'etere, la quale, come diafanissima, non è
potente a ciò dare, né meno in altra materia, la quale, quando fusse
atta a rifrangere, sarebbe ancor atta a reflettere i raggi solari. In oltre, io
non so con qual ragione chiami ora un piccolo cerchietto il capo della cometa,
il quale con sottili calcoli il suo Maestro ha ritrovato contenere
Segue il Sarsi, ed ad imitazion di
colui che per un pezzo ebbe opinion che 'l suono non si potesse produrre se non
in un modo solo, dice non esser possibile che la cometa si generi per
reflessione in quei vapori fumidi, e che l'essempio dell'iride non agevola la
difficoltà, se ben essa veramente è una illusion della vista:
imperocché la procreazion dell'iride e d'altre simili cose ricercano una
materia umida e che già si vada risolvendo in acqua, la quale allora
solamente, imitando la natura de' corpi lisci e tersi, reflette il lume da
quella parte dove si fanno gli angoli della reflessione e della refrazzione,
che a tale effetto si ricercano, come accade negli specchi, nell'acqua e nelle
palle di cristallo; ma in altri rari e secchi, non avendo la superficie liscia
come gli specchi, non si fa molta refrazzione: ricercandosi, dunque, per questi
effetti una materia acquosa, ed in conseguenza grave assai ed inabile a salir
sopra la Luna ed il Sole, dove non possono salire (anco per mio parere) se non
essalazioni leggerissime, adunque la cometa non può esser prodotta da
tali vapori fumidi. Risposta sofficiente a tutto questo discorso sarebbe il
dire come il signor Mario non si è mai ristretto a dir qual sia la
materia precisa nella quale si forma la cometa, né s'ella sia umida né fumosa
né secca né liscia, e so ch'egli non si arrossirà a dire di non la sapere;
ma vedendo come in vapori, in nuvole rare e non acquose, ed in quelle che
già si risolvono in minute gocciole, nell'acque stagnanti, negli specchi
ed altre materie, si figurano per reflessi e refrazzioni molto varie illusioni
di simulacri diversi, ha stimato di non essere impossibile che in natura sia
ancora una materia proporzionata a renderci un altro simulacro diverso dagli
altri, e che questo sia la cometa. Tal risposta, dico, è adeguatissima
all'instanza, quando anco ciascuna parte d'essa instanza fusse vera: tuttavia
il desiderio (com'altre volte ho detto) d'agevolar, per quanto m'è
conceduto, la strada all'investigazion di qualche vero, m'induce a far alcuna
considerazione sopra certi particolari contenuti in esso discorso.
E prima, è vero che in uno
effluvio di minutissime stille d'acqua si fa l'illusion dell'iride, ma non
credo già che, pel converso, simile illusione non possa farsi senza tale
effluvio. Il prisma triangolare cristallino, appressato a gli occhi, ci
rappresenta tutti gli oggetti tinti de' colori dell'iride; molte volte si vede
l'iride in nubi asciutte, e senza che pioggia veruna discenda in terra. Non si
veggono le medesime illusioni di colori diversi nelle piume di molti uccelli,
mentre il Sole in varie maniere le ferisce? Ma che più? Direi al Sarsi
cosa forse nuova, se cosa nuova se gli potesse dire. Prenda egli qualsivoglia
materia, o sia pietra o sia legno o sia metallo, e tenendola al Sole,
attentissimamente la rimiri, ch'egli vi vederà tutti i colori compartiti
in minutissime particelle; e s'ei si servirà, per riguardargli, d'un
telescopio accommodato per veder gli oggetti vicinissimi, assai più
distintamente vederà quant'io dico, senza verun bisogno che quei corpi
si risolvano in rugiada o in vapori umidi. In oltre, quelle nuvolette che ne' crepuscoli
si mostrano lucidissime, e ci fanno una reflession del lume del Sole tanto viva
che quasi ci abbaglia, sono delle più rare asciutte e sterili che sieno
in aria, e quelle che sono umide, quanto più son pregne d'acqua, tanto
più si dimostrano oscure. L'alone e i parelii si fanno senza piogge e
senza umido nelle più rare ed asciutte nuvole, o più tosto
caligini, che sieno in aria.
Secondo, è vero che le
superficie terse e ben lisce, come quelle degli specchi, ci rendono una
gagliarda reflession del lume del Sole, e tale ch'appena la possiamo rimirar
senza offesa; ma è anco vero che da superficie non tanto terse si fa la
reflessione, ma men potente, secondo che la pulitezza sarà minore. Vegga
ora V. S. Illustrissima, se lo splendore della cometa è di quegli
ch'abbagliano la vista, o pur di quegli che per la lor debolezza non offendon
punto; e da questo giudichi, se per produrlo sia necessaria una superficie
somigliante a quella d'uno specchio, o pure basti un'assai men tersa. Io vorrei
mostrar al Sarsi un modo di rappresentare una reflession simile assai alla
cometa. Prenda V. S. Illustrissima una boccia di vetro ben netta, ed avendo una
candela accesa, non molto lontana dal vaso, vederà nella sua superficie
un'immagine piccolina d'esso lume, molto chiara e terminata: presa poi colla
punta del dito una minima quantità di qualsivoglia materia che abbia un
poco di untuosità, sì che s'attacchi al vetro, vada, quanto
più sottilmente può, ungendo in quella parte dove si vede
l'immagine del lume, sì che la superficie venga ad appannarsi un poco;
subito vederà la detta immagine offuscarsi: volga poi il vaso, sì
che l'immagine esca dell'untuosità e si fermi al contatto di essa, e poi
dia una fregata sola per diritto col dito sopra detta parte untuosa; ché subito
vederà derivare un raggio dritto ad imitazion della chioma della cometa,
e questo raggio taglierà in traverso ed ad angoli retti il fregamento
ch'ella averà fatto col dito, sì che s'ella tornerà a
fregar per un altro verso, il detto raggio si dirizzerà in altra parte:
e questo avviene perché, avendo noi la pelle de' polpastrelli delle dita non
liscia, ma segnata d'alcune linee tortuose ad uso del tatto per sentir le
minime differenze delle cose tangibili, nel muovere il dito sopra detta
superficie untuosa, lascia alcuni solchi sottilissimi, ne i colmi de' quali si
fanno le reflessioni del lume, ch'essendo molte ed ordinatamente disposte,
rappresentano poi una striscia lucida; in capo della quale se si farà,
col muovere il vaso, venir quella prima immagine fatta nella parte non unta, si
vederà il capo della chioma più lucido, e la chioma poi alquanto
meno risplendente: ed il medesimo effetto si vederà, se in vece d'ungere
il vetro s'appannerà coll'alitarvi sopra. Io prego V. S. Illustrissima
che se mai le venisse accennato questo scherzo al Sarsi, se gli protesti per me
largamente e specificatamente, ch'io non intendo perciò affermar che in
cielo vi sia una gran caraffa e chi col dito la vada ungendo, e così si
faccia la cometa; ma ch'io arreco questo caso e che altri ne potrei arrecare e
che forse molti altri ce ne sono in natura, inescogitabili a noi, come
argomenti della sua ricchezza in modi differenti tra di loro per produrre i
suoi effetti.
Terzo, che la reflessione e refrazzione
non si possa far da materie ed impressioni meteorologiche se non
quando contengono in sé molt'acqua, perché allora solamente sono di superficie
lisce e terse, condizioni necessarie per produr tal effetto, dico non esser
talmente vero, che non possa esser anco altrimenti. E quanto alla
necessità della pulitezza, io dico che anco senza quella si farà
la reflession dell'immagine unita e distinta: dico così, perché la rotta
e confusa si fa da tutte le superficie, quanto si voglia scabrose ed ineguali;
che però quell'immagine d'un panno colorato che distintissima si scorge
in uno specchio oppostogli, confusa e rotta si vede nel muro, dal quale certo
adombramento del color di esso panno ci vien solamente ripercosso. Ma se V. S.
Illustrissima piglierà una pietra o una riga di legno, non tanto liscia
che ci renda direttamente l'immagini, e quella s'esporrà obliquamente
all'occhio, come se volesse conoscer s'ella è piana e diritta,
vederà distintamente sopra d'essa l'immagini de gli oggetti che fossero
accostati all'altro capo della riga, così distinte che tenendovi un
libro scritto, potrà commodamente leggerlo. Ma di più, s'ella si
costituirà coll'occhio vicino all'estremità di qualche muraglia
diritta ed assai lunga, prima vederà un perpetuo corso d'essalazioni
verso il cielo, e massime quando il parete sia percosso dal Sole, per le quali
tutti gli oggetti opposti appariscono tremare; dipoi, se farà che alcun
dall'altro capo del muro se le vada pian piano accostando, vederà,
quando le sarà assai vicino, uscirgli incontro l'immagine sua reflessa
da quei vapori ascendenti, non punto umidi né gravi, anzi aridissimi e
leggieri. Ma che più? Non è ancor giunto al Sarsi il rumore che
si fa, in particolare da Ticone, delle refrazzioni che si fanno
nell'essalazioni e vapori che circondano la Terra, ancor che l'aria sia
serenissima, asciuttissima e lontanissima dalle piogge e da ogni
umidità? Né mi citi, com'egli fa, l'autorità d'Aristotile e di
tutti i maestri di perspettiva; perch'egli non farà altro che
dichiararmi più cauto osservatore di loro, cosa, per mio credere,
diametralmente contraria alla sua intenzione. E tanto basti in risposta al
primo argomento del Sarsi: e vegniamo al secondo.
“Quod si forte quis nihilominus
affirmare audeat, nihil prohibere quominus vapor aqueus ac densus vi aliqua
altius provehatur ab eoque refractio hæc atque reflexio cometæ
proveniat (nullum enim aliud huic effugium patere videtur, cum longa experientia
compertum sit, quo rariora corpora fuerint magisque perspicua, minus ea
illuminari, saltem quoad aspectum, magis vero quo densiora et cum plus
opacitatis habuerint; cum ergo cometa ingenti adeo luce fulgeret, ut stellas
etiam primæ magnitudinis ac planetas ipsos splendore superaret, densior
eius materia atque aliqua ex parte opacior dicenda erit: trabem enim eodem
tempore, quod eius summa esset raritas, albicantem potius quam splendentem,
nullisque radiis micantem, vidimus); verum, si densus adeo fuit vapor hic fumidus,
ut lumen tam illustre atque ingens ad nos retorqueret, atque, ut Galilæo
placet, si satis amplam cæli partem occupavit, qui tandem factum est ut
stellæ, quæ per hunc subiectum vaporem intermicabant, nullam
insolitam paterentur refractionem, neque minores maioresve quam antea
comparerent? Certe, cum eodem tempore stellarum cometam undique
circumsistentium distantias inter se quam exactissime metiremur, nihil illas a
Tychonicis distantiis discrepare invenimus; variari tamen stellarum
magnitudines earumque distantias inter se ex interpositione vaporum huiusmodi,
et experientia nos docuit, et Vitello et Halazen scriptis consignarunt. Aut
igitur dicendum est, vapores hosce tenues adeo ac raros fuisse, ut astrorum
lumini nihil officerent (qui tamen cometæ per refractionem luminis
producendo minus apti probati iam sunt), vel, quod longe verius sit, fuisse
nullos.”
Molte cose son da considerarsi in
questo argomento, le quali mi pare che lo snervano assai.
E prima, né il signor Mario né io
abbiamo mai ardito di dire, che vapori aquei e densi sieno stati attratti in
alto a produr la cometa; onde tutta l'instanza che sopra l'impossibilità
di questa posizione s'appoggia, cade e svanisce.
Secondo, che i corpi meno e meno
s'illuminino, quanto all'apparenza, secondo ch'ei sono più rari e
perspicui, e più e più quanto più densi, come dice il
Sarsi aver per lunghe esperienze osservato, l'ho per falsissimo; e questo mi
persuade un'esperienza sola, ch'è il vedere egualmente illuminata una
nuvola come s'ella fusse una montagna di marmi, e pur la materia della nuvola
è alquanto più rara e perspicua di quella delle montagne: onde io
non veggo qual necessità abbia il Sarsi di far la materia della cometa
più densa e più opaca di quella de' pianeti (che così mi
par ch'ei dica, se bene ho capita la construzzion delle sue parole), e tanto
più, quanto io non ho per chiaro ch'ella fusse più splendida
delle stelle della prima grandezza e de' pianeti. Ma quando ben ella fusse
stata tale, a che proposito introdur questa tanta densità di materia, se
noi veggiamo i vapori crepuscolini risplendere assai più delle stelle e
di lei? Oltre a quelle nuvolette d'oro, lucide cento volte più.
Terzo, che posto che un fumido e denso
vapore fusse stato quello in cui la cometa si produsse, ei ne dovesse seguir
notabile discrepanza negli intervalli presi da stella a stella, come ch'ei
dovessero, per causa della refrazzione per entro esso vapore, discordar da'
misurati da Ticone, e che, per l'opposito, niuna diversità vi fusse da
loro osservata nel misurargli con ogni somma esattezza; io, se devo dire il
vero, ci scorgo due cose le quali grandemente mi dispiacciono. L'una è,
ch'io non veggo modo di poter prestar fede al detto del Sarsi senza negarla a
quel del suo Maestro: atteso che l'uno dice d'aver loro con somma esattezza
misurate le distanze tra le stelle, e l'altro ingenuamente si scusa di non
avere avuto il commodo di far tali osservazioni coll'esquisitezza che sarebbe
stata di bisogno, per mancamento di strumenti grandi ed esatti come quelli di Ticone;
per lo che si contenta anco che altri non faccia gran capitale delle sue
instrumentali osservazioni. L'altra è, ch'io non trovo via di poter dire
a V. S. Illustrissima con quella modestia e riservo ch'io desidero, com'io
dubito che il signor Sarsi non intenda perfettamente che cosa sieno queste
refrazzioni, e come e quando elle si facciano e producano loro effetti.
Però ella, che lo saperà fare colla sua infinita gentilezza, gli
dica una volta, come i raggi che nel venir dall'oggetto all'occhio segano ad
angoli retti la superficie di quel diafano in cui si deve far la refrazzione,
non si rifrangono altrimenti, onde la refrazzione non è nulla: e
però le stelle verso il vertice, come quelle che mandano a noi i raggi
loro perpendicolari alla superficie sferica de i vapor che circondano la Terra,
non patiscono refrazzione; ma le medesime, secondo che più e
più declinano verso l'orizonte, ed in conseguenza più e
più obliquamente segano co' raggi loro la detta superficie, più e
più gli rifrangono, e con fallacia maggiore ci mostrano il sito loro.
L'avvertisca poi, che per essere il termine di questa materia non molto alto,
onde la sfera vaporosa non è molto maggiore del globo terrestre, nella
cui superficie siamo noi, l'incidenza de' raggi che vengono da' punti vicini
all'orizonte è molto obliqua: la qual obliquità si farebbe sempre
minore, quanto più la superficie de' vapori si sublimasse in alto;
sì che, quando ella s'elevasse tanto che nella sua lontananza
comprendesse molti semidiametri della Terra, i raggi che da qualsivoglia punto
del cielo venissero a noi, pochissimo obliquamente potrebbon segar la detta
superficie, ma sarebbon come se tendessero al centro della sfera, ch'è
quanto a dire che fussero perpendicolari alla sua superficie. Ora, perché il
Sarsi colloca la cometa alta assai più che la Luna, ne' vapori che in
tanta altezza fussero distesi, niuna sensibile refrazzione far si dovrebbe, ed
in conseguenza niuna sensibile apparenza di diversità di sito nelle
stelle fisse. Non occorre dunque che 'l Sarsi assottigli altrimenti cotali
vapori per iscusar la mancanza di refrazzione, e molto meno che per tal
rispetto gli rimuova del tutto. In questo medesimo errore sono incorsi alcuni,
mentre si sono persuasi di poter mostrare, la sostanza celeste non differir
dalla prossima elementare, né potersi dare quella moltiplicità d'orbi,
avvenga che, quando ciò fusse, gran diversità caderebbe negli
apparenti luoghi delle stelle mediante le refrazzioni fatte in tanti diafani
differenti: il qual discorso è vano, perché la grandezza di essi orbi,
quando ben tutti fussero diafani tra loro diversissimi, non permetterebbe
alcuna refrazzione agli occhi nostri, come riposti nell'istesso centro di essi
orbi.
Or passiamo al terzo argomento.
“Asserit præterea Galilæus, cometæ materiam non differre a
materia illorum corpusculorum quæ circa Solem certa conversione moventur,
ac vulgo solares maculæ nominantur. Non abnuo; quin illud etiam addo, eo
tempore quo visus est cometa nullam per mensem integrum in Sole maculam
inspectam, perque raro postea in eodem sordes huiusmodi observatas; ut non
immerito poëtarum aliquis hinc arripere occasionem ludendi possit, per eos
forte dies Solem solito diligentius os lucidissimum aqua proluisse, cuius per
cælum dispersis loturæ reliquiis cometam ipse conformaverit,
miratusque sit postea clarius multo sordes suas fulgere quam stellas. Sed quid ego etiam nunc poëticas consector nugas? Ad me
redeo. Sit ergo eadem cometæ et solarium, ut ita loquar, variolarum
materia: cum igitur hæc, cometam paritura, recto ac perpendiculari sursum
semper feratur motu, quid illud postea est quod eam circa Solem in orbem
agit, cogitque perpetuo, dum Solis vultum maculis illis deturpat, eamdem in
partem per lineas eclipticæ parallelas circumvolvi? Si enim levium natura
est sursum tantummodo ferri, quid ergo vapor unus atque idem modo recta sursum
agitur, modo in orbem certis adeo legibus rotatur? Ac si forte quis dixerit,
hunc quidem vi sua summa semper rectissimo cursu petere, at, ubi propius ad
Solem accesserit, eius nutibus obsequentem eo moveri, quo regia domini virtus
annuerit, mirabor profecto, dum reliqua corpora, eadem materia constantia,
avide adeo Solem complectuntur, unum cometam, proximum Soli natum, illud votis
omnibus optasse, ut a Sole abesset quam longissime, maluisseque gelidos inter
Triones obscuro loco extingui, quam, cum posset, Solis inter radios Soli ipsi,
obiectu corporis sui, tenebras offundere. Sed hæc physica potius sunt quam
mathematica.”
Séguita il Sarsi, come altra volta di
sopra notai, d'andarsi formando conclusioni di suo arbitrio ed attribuirle al
signor Mario ed a me, per confutarle ed in questa guisa farci autori d'opinioni
assurde e false. Il signor Mario per essemplificare come non è
impossibile che materie tenui e sottili si sollevino assai da Terra, disse di
quella boreale aurora; ma il Sarsi volse ch'egli intendesse anco, questa
medesima esser la materia della cometa. Quindi a poco, non contento di questo,
avendo egli stesso opinione che la reflession del lume non si potesse fare in altre
impressioni meteorologiche fuor che nell'umide ed acquose, attribuì al
signor Mario ed a me che noi fussimo quelli che affermassimo che vapori acquosi
e gravi salissero in cielo a formar la cometa. Ora vuol che noi abbiamo
affermato, la materia della cometa esser la medesima che quella delle macchie
solari, nominate solamente dal signor Mario per dichiarar com'egli stima che
per entro la sostanza celeste si possano muovere, generare e dissolvere alcune
materie, ma non mai per affermar, di queste prodursi la cometa. Di qui
comprenda meglio V. S. Illustrissima come la protestazion, ch'io feci di sopra,
del non dire che la cometa si figurasse in un grandissimo caraffone unto, non
fu ridicola né fuor di proposito.
Io non ho mai affermato, la cometa e le
macchie solari esser dell'istessa materia; ma mi fo intender ben ora, che
quando io non temessi d'incontrar più gagliarde opposizioni che le
prodotte in questo luogo dal Sarsi, io non mi spaventerei punto ad affermarlo
ed a poterlo anco sostenere. Egli mette una gran repugnanza nel potere essere
ch'una materia sottile vada rettamente verso il corpo solare, e che, quivi
giunta, sia poi portata in giro: ma perché non perdona egli questo assunto al
signor Mario, ed ad Aristotile sì ed a tutta la sua setta, i quali fanno
ascendere il fuoco rettamente sino all'orbe lunare, e quivi poi cangiare il suo
moto retto in circolare? E come fa il Sarsi a sostenere per impossibil cosa,
che un legno caschi da alto perpendicolarmente in un fiume rapido, e che giunto
nell'acqua cominci subito ad esser portato in giro intorno all'orbe terrestre?
Più valida sarebbe veramente l'altra instanza mossa da lui, cioè
com'esser possa che, bramando tutte l'altre materie consorti della cometa
d'andare avidamente ad abbracciare il Sole, ella sola l'abbia fuggito,
ritirandosi verso settentrione. Questa difficoltà, com'io dico,
stringerebbe, se egli medesimo non l'avesse poco di sopra sciolta, quando, nel
far che Apollo si lavi il viso e poi getti via la lavatura, della quale si
generi la cometa, e non ci avesse dichiarato di tenere opinione che la materia
delle macchie si parta dal Sole e non vi concorra.
Sentiamo ora il quarto argomento.
“Venio nunc ad opticas rationes, quibus longe probatur efficacius,
cometam nunquam vanum spectrum fuisse, neque larvatum unquam nocturnas inter
tenebras ambulasse; sed uno se omnibus loco unum eumdemque, vultu quo semper
fuit, spectandum præbuisse. Quæcunque enim ea sunt quæ per
refractionem luminis appareant verius quam sint, ut iris, corona aliaque
huiusmodi, ea semper lege producuntur, ut luminosum corpus, ex cuius existunt
lumine, quocunque illud sese converterit, sequaci obsequentique motu
consequantur.
Ita iris IHL, quæ, Sole existente
in horizonte A, verticem sui semicirculi habet in H, si Sol intelligatur
elevari ex A usque ad D [v. figura 4], descendet ipsa ex opposita parte, et
verticem sui arcus H ad horizontem inclinabit; et quo altius Sol elevabitur, eo
magis iridis vertex H deprimetur: ex quo patet, eamdem semper in partem iridem
moveri, in quam Sol ipse fertur.
Idem observari potest in areis, coronis
et pareliis: hæc siquidem omnia, cum luminosum, a quo fiunt, certo
intervallo coronent, ad illius etiam motum in eamdem semper partem feruntur.
Idem etiam apertissime deprehenditur in imagine luminosa quam Sol, ad occasum
flectens, in superficie maris ac fluminum formare solet: hæc enim, quo
magis a nobis Sol removetur, eo etiam abscedit magis, donec, illo occumbente,
evanescat. Sit enim superficies maris visa BI,
insensibiliter a plana superficie differens;
sit oculus in litore positus in A, Sol primum in F; ducantur ad D radii FD, DA,
facientes angulos ADB, FDE incidentiæ et reflexionis æquales in D;
videbitur ergo lumen Solis in D. Descendat iam idem Sol ad G, atque, eadem
ratione qua prius, ducantur a Sole G atque ab oculo A duæ lineæ,
facientes cum recta BE angulos incidentiæ et reflexionis æquales:
hæ coincident in puncto E, et non alio, ut est manifestum; lumen ergo
Solis apparebit in E: et propter eamdem causam, Sole magis adhuc depresso in H,
lumen apparebit in I. Contrarium vero accidit quotiescumque idem lumen a Sole
oriente in aquis producitur: tunc enim sicuti Sol magis ad verticem nostrum
accedit, ita et lumen spectanti fit propius: prius enim, verbi gratia,
apparebit in I, secundo in E, tertio in D. Ex quibus quilibet intelligat, in
eam semper partem isthæc apparentia moveri, in quam luminosa ipsa, a
quibus producuntur, feruntur. Cum ergo ex Solis lumine cometa sine controversia
producatur, Solis etiam motum sequi debuit; quod si non præstitit, inter
apparentia lumina numerandus non erit. Aio igitur, in cometa nihil unquam tale
observatum fuisse. Cum enim primo quo visus est die, hoc est 29 Novembris, Sol
in gradu Sagittarii
Qual sia stato il momento de' passati
tre argomenti, si è veduto sin qui; il quale credo che anco l'istesso
Sarsi non abbia reputato molto, per esser discorsi fisici, onde egli stesso
nomina e stima i seguenti, presi dalle dimostrazioni ottiche, di gran lunga
più concludenti e più efficaci de' passati: indizio manifesto di
non aver avuto l'intera sua soddisfazzione in quei progressi naturali. Ma
avvertisca bene al caso suo, e consideri che per uno che voglia persuader cosa,
se non falsa, almeno assai dubbiosa, di gran vantaggio è il potersi
servire d'argomenti probabili, di conghietture, d'essempi, di verisimili ed
anco di sofismi, fortificandosi appresso e ben trincerandosi con testi chiari,
con autorità d'altri filosofi, di naturalisti, di rettorici e
d'istorici: ma quel ridursi alla severità di geometriche dimostrazioni
è troppo pericoloso cimento per chi non le sa ben maneggiare;
imperocché, sì come ex parte rei non si dà mezo tra il
vero e 'l falso, così nelle dimostrazioni necessarie o indubitabilmente
si conclude o inescusabilmente si paralogiza, senza lasciarsi campo di poter
con limitazioni, con distinzioni, con istorcimenti di parole o con altre
girandole sostenersi più in piede, ma è forza in brevi parole ed
al primo assalto restare o Cesare o niente. Questa geometrica strettezza
farà ch'io con brevità e con minor tedio di V. S. Illustrissima
mi potrò dalle seguenti prove distrigare; le quali io chiamerò
ottiche o geometriche più per secondare il Sarsi, che perché io ci
ritrovi dentro, dalle figure in poi, molta prospettiva o geometria.
È, come V. S. Illustrissima
vede, l'intenzion del Sarsi, in questo quarto argomento, di concludere che la
cometa non sia del genere de' simulacri solamente apparenti, cagionati da
reflessione e da refrazzione de' raggi solari, per la relazione ch'ella osserva
e ritiene verso il Sole, diversa da quella ch'osservano e ritengon quelle che
noi sappiamo certo esser pure apparenze, quali sono l'iride, l'alone, i
parelii, le reflessioni del mare: le quali tutte, dic'egli, al movimento del
Sole si vanno esse ancora movendo, con tenor tale che la mutazion loro è
sempre verso la medesima parte che quella del Sole; ma nella cometa è
accaduto il contrario; adunque ella non è un'illusione. Qui, ancorché
assai competente risposta fusse il dire che non si vede necessità veruna
per la quale la cometa debba seguitar lo stile dell'iride o dell'alone o
dell'altre nominate illusioni, poi che ella è differente dall'iride, dall'alone
e dall'altre; tuttavia io voglio conceder qualche cosa di più
dell'obbligo, purché il Sarsi nel resto non voglia aver più privilegio
di me, sì che alcun modo d'argomentare che per lui dovesse esser
concludente, per me poi avesse da esser reputato inutile. Per tanto io domando
al Sarsi, s'ei reputa l'argomento preso dalla contrarietà dello stile
osservato dalla cometa e da i puri simulacri, in contrariar quella, ed in
secondar questi, il moto del Sole, sia necessariamente concludente o no? S'ei
risponde di no, già tutto il suo progresso è vano, né io
più vi aggiungo parola: ma se ei risponde di sì, giusta cosa
sarà che altrettanto vaglia per me, per concluder che la cometa sia
un'illusione, il dimostrar io ch'ella osservi lo stile d'alcun vano simulacro,
in quel che appartiene al secondare o contrariare al moto del Sole. Ma per
trovare tal simulacro non occorre né anco che io mi parta da uno prodotto
dall'istesso Sarsi per opportunissimo a manifestamente farci conoscere, il
progresso della cometa esser contrario a quello d'esso simulacro; il quale
però a me pare non contrario, ma il medesimo a capello. Prenda dunque V.
S. Illustrissima la sua terza figura, nella quale ei fa parallelo della cometa
con la reflession del Sole fatta nella superficie del mare; dove, quando il
Sole sia in H, il suo simulacro vien veduto dall'occhio A secondo la linea AI;
e quando il Sole sarà in G, si vedrà il simulacro per la linea
AE; ed essendo in F, il simulacro apparirà nella linea AD. Resta ora che
veggiamo, mentre che il Sole ci apparisce essersi mosso in cielo per l'arco
HGF, per qual verso ci apparisca essersi mosso parimente il suo simulacro
rispetto al cielo, dove il Sarsi osservò il moto della cometa e del
Sole: per lo che bisogna continuar l'arco FGHLMN
e prolungar le linee AI, AE, AD in L,
M, N, e poi dire: Quando il Sol era in H, il suo simulacro si vedeva per la
linea AI, che in cielo risponde nel punto L; e quando il Sole venne in G, il
suo simulacro si vedeva per la linea AE, ed appariva in M; e finalmente, giunto
il Sole in F, il suo simulacro apparse in N. Adunque, movendosi il Sole da H
verso F, il suo simulacro apparisce muoversi da L in N: ma questo, signor
Sarsi, è apparir muoversi al contrario del Sole, e non pel medesimo
verso, come avete creduto o più tosto voluto dare a creder voi.
Io, Illustrissimo Signore, dico
così, perché non mi posso persuadere com'egli avesse avuto a equivocare
in cosa tanto manifesta. Oltre che si vede anco, che nel dichiararsi usa certe
maniere di dire assai improprie e non consuete, solo per accommodare al suo
bisogno quello ch'accommodar non vi si può, perché non è nulla:
verbigrazia, ei vede che passando il Sole da H in G, e da G in F, la sua
immagine viene da I in E, e da E in D, il qual progresso IED è un vero e
realissimo avvicinarsi e muoversi verso l'occhio A; e perché il bisogno del
Sarsi è di poter dir che l'immagine ed il Sole si muovano pel medesimo
verso, ei si risolve liberamente a dire che 'l moto del Sole per l'arco HGF sia
un avvicinarsi al punto A, e che l'andar verso il vertice sia il medesimo che
andar verso il centro. È, di più, forza ch'ei dissimuli di non
s'accorgere d'un altro più grave assurdo, che gli verrebbe addosso
quand'ei volesse sostenere che il simulacro secondasse il movimento dell'oggetto
reale; perché, quando questo fusse, bisognerebbe di necessità che
parimente, pel converso, l'oggetto secondasse il simulacro; dal che vegga V. S.
Illustrissima quel che ne seguirebbe. Tirisi dal termine del diametro O la
linea retta OR, cadente fuor del cerchio e colla BO contenente qualsivoglia
angolo, e si prolunghino sino ad essa le DF, EG, IH ne i punti R, Q, P:
è manifesto che quando l'oggetto reale si fusse mosso per la linea PQR,
il simulacro sarebbe venuto per la IED, e perché questo è uno avvicinarsi
e muoversi verso l'occhio A, e quel che fa il simulacro lo fa ancora (per detto
del Sarsi) l'oggetto, adunque l'oggetto, movendosi dal termine P in R, si
è venuto avvicinando al punto A; ma egli si è discostato; ecco,
dunque, l'assurdo manifesto. Notisi di più, che quanto il Sarsi va
considerando in questo luogo accader tra l'oggetto reale e la sua immagine,
è preso come se la materia in cui si deve formare il simulacro resti
sempre immobile, e solo si muova l'oggetto; ché quando s'intendesse muoversi
detta materia ancora, altre ed altre conseguenze ne seguirebbono circa
l'apparenze del simulacro: e però da quel che aggiunge il Sarsi, del non
esser ritornata indietro la cometa al ritorno del Sole, non se ne
inferirà mai nulla, se prima non si determina dello stato o del
movimento della materia in cui la cometa si produsse.
Passo al quinto argomento.
“Præterea, si de apparentium simulacrorum numero cometa fuit, debuit ad
certum ac determinatum angulum spectari; quod in iride, area, corona aliisque
huiusmodi accidit: meminisse autem hoc loco debet Galilæus, se affirmasse
satis amplum cæli spatium huiusmodi vaporibus occupatum: quod si ita est,
aio circularem vel circuli segmentum apparere cometam debuisse. Sic enim
argumentari libet. Quæcumque sub uno certo ac determinato angulo
conspiciuntur, ibi videntur ubi certus ille ac determinatus angulus
constituitur; sed pluribus in locis, in circulari linea positis, determinatus
hic et certus cometæ angulus constituitur; ergo pluribus in locis, in
linea circulari dispositis, cometa videbitur. Maior certissima est, neque
ullius probationis indigens. Minorem sic probo.
Sit Sol infra horizontem in I, locus
vaporis fumidi circa A, cometa vero ipse se se, verbi gratia, spectandum
ostendat in A, posito oculo in D; occupet autem vapor idem et alias partes
circa A constitutas, quod Galilæus ultro concedit. Intelligatur iam ducta
linea recta per centrum Solis I et per centrum visus D; ex punctis vero I et D
ad locum cometæ A concurrant radii IA, DA, constituentes triangulum IAD:
erit ergo angulus IAD ille certus et determinatus sub quo ad nos cometæ
species remittitur. Concipiamus iam circa axem IDH triangulum IAD moveri; tunc
vertex illius A describet segmentum circuli, in quo semper radii Solis, IA
directus et AD reflexus, angulum eundem IAD efficient: cum autem in hac
verticis A circumductione multæ ab illo circumfusi vaporis partes
attingantur, in iis omnibus fiet determinatus ille ac certus angulus, ad quem
cometa necessario consequitur: in toto ergo circuli segmento BAC, quod vaporem
attingit, cometa comparebit; eadem prorsus ratione, qua in roridis nubibus
irides et coronas fieri contingit aut circulares aut circulorum segmenta. Cum
ergo nihil tale in cometa observatum fuerit, non erit proinde in apparentium
simulacrorum numero collocandus, cum nulla in re hic illis se similem
præbeat.”
Séguita, anzi pur cresce, in me la
meraviglia nata dal veder quanto frequentemente il Sarsi vada dissimulando di
vedere le cose ch'egli ha dinanzi agli occhi, con speranza forse che la sua
dissimulazione abbia negli altri a partorire non una simulata, ma una vera
cecità. Ei vuole nel presente suo argomento provar che quando la cometa
fusse una nuda apparenza, ella dovrebbe dimostrarsi in figura di cerchio o di
parte di cerchio, perché così avviene dell'iride, dell'alone, della
corona e dell'altre varie immagini: il che non so com'ei possa affermare,
sendosi cento volte ricordata la reflession nel mare dell'immagine solare, e
quelle proiezzioni dall'aperture delle nuvole, le quali compariscono strisce
dritte e similissime alla cometa. Ma forse ei si persuade che senz'altre
avvertenze la dimostrazione ottica, ch'ei n'arreca, concluda nella cometa
necessariamente la sua intenzione; del che però io grandemente dubito, e
parmi, s'io non m'inganno, che 'l suo progresso sia mutilo, e che gli manchi
una parte principalissima del dato (che sarebbe gran difetto in logica); e
questa è la disposizion locale, in relazione all'occhio, della
superficie di quella materia nella quale si ha a far la reflessione, la qual
disposizione non vien messa in considerazion dal Sarsi: di che non saperei
addur più modesta scusa, che il non l'avere egli avvertito; ché quando
ei l'avesse conosciuto, ma dissimulato per mantenere il lettore nell'ignoranza,
mi parrebbe mancamento assai più grave. La considerazion poi di cotal
disposizione opera il tutto: imperocché la dimostrazion del Sarsi non
concluderà mai, se non quando la superficie del vapore intorno al punto
A della sua figura sarà opposta all'occhio D direttamente, sì che
l'asse IDH caschi perpendicolarmente sopra il piano nel quale essa superficie
si distendesse; perché allora, nel girare il triangolo IDA intorno all'asse IH,
il punto A anderebbe terminando continuamente in essa superficie e
descrivendovi una circonferenza di cerchio: ché quando la superficie detta
fusse esposta all'occhio obliquamente, l'angolo A non la toccherebbe se non in
un sol punto, e nel girar del triangolo il medesimo angolo A o penetrerebbe
oltre ad essa superficie, o non v'arriverebbe. Ed in somma, a voler che la
cometa apparisse circolare, bisognerebbe che la superficie dov'ella si genera
fusse piana ed esposta direttamente alla linea che passa per li centri
dell'occhio e del Sole; la qual costituzione non può mai accadere se non
nella diametrale opposizione o vero nella linear congiunzione de' vapori e del
Sole: e però l'iride si vede sempre opposta, l'alone o la corona sempre
congiunti al Sole, onde appariscono circolari; ma delle comete non so che se ne
sien mai vedute né in opposizione né in congiunzione al Sole. Se al Sarsi,
nello scrivere la sua dimostrazione, fusse una volta passato per la fantasia di
chiamar quella materia ch'ei si figura intorno al punto A, non vapori, ma acqua
del mare, ei si sarebbe accorto che 'l suo argomento avrebbe nel modo stesso e
coll'istesse parole concluso che la reflessione nel mare di necessità si
deve distender per linea circolare; dal che poi mercé del senso, che mostra il
contrario, avrebbe scoperta la fallacia del suo sillogismo.
Or sentiamo l'argomento sesto. “Sed
placet ex ipsius etiam Galilæi verbis hoc idem confirmare. Ait enim ipse,
quod etiam fortasse verissimum est, spectra huiusmodi et vana simulacra eam in
parallaxi legem servare, quam servat luminosum illud corpus a quo proveniunt;
ita, si qua illorum Lunæ effecta fuerint, hæc parem cum Luna
parallaxim pati; quæ vero a Sole fiunt, eamdem cum Sole aspectus
diversitatem sortiri. Præterea, dum adversus Aristotelem disputat et argumentum
ex parallaxi ductum assumit, hæc habet: "Denique cometam ignem esse,
ac sublunarem asserere, omnino impossibile est; cum obstet parallaxis
exiguitas, tot insignium astronomorum solertissima inquisitione
observata." Ex quibus ita rem conficio. Auctore Galilæo,
quæcumque mere apparentia a Sole producuntur, illam eamdem patiuntur
parallaxim quam patitur Sol; sed cometa non passus est eamdem parallaxim quam
Sol patitur: ergo cometa non est apparens quid a Sole productum. Si quis autem
de minori huius argumenti propositione ambigat, Tychonis observationes cum
observationibus aliorum conferat, dum agunt de cometa anni 1577: ipse certe
Tycho ex suis observationibus illud tandem deducit, demonstratam nimirum
distantiam cometæ a centro Terræ die 13 Novembris fuisse
semidiametrorum eiusdem Terræ 211 tantum, cum Sol ab eodem centro ponatur
distare semidiametris saltem 1150, Luna vero semidiametris 60. De hoc vero
nostro, si quis eas observationes inter se contulerit quas in Disputatione ab
uno ex Patribus habita edidit in lucem Magister meus, satis illi inde constabit
huius propositionis veritas; nam fere semper longe maiorem cometæ
parallaxim inveniet, quam Solis. Neque observationes huiusmodi Galilæo
suspectæ esse nunc possunt, cum easdem summorum astronomorum opera
exquisitissime ad astronomiæ calculos castigatas testatus sit.”
Che il signor Mario ed io abbiamo mai
scritto o detto che i simulacri prodotti dal Sole ritengano la medesima
paralasse che quello (come il Sarsi in questo luogo afferma per fondamento del
suo sillogismo), è del tutto falso; anzi il signor Mario, dopo aver
nominati e considerati molti di tali simulacri, soggiugne così: “E
avvenga che de' sopranominati simulacri in alcuni la paralasse sia nulla, ed in
altri operi molto diversamente da quello ch'ella fa negli oggetti reali.” Non
si trova nella scrittura del signor Mario ch'egli affermi, la paralasse esser
l'istessa che quella del Sole o della Luna, se non nell'alone; negli altri, ed
anco nell'istessa iride, vien posta diversa. Falsa dunque è la prima
proposizion del sillogismo. Or veggiamo quanto sia vera la seconda e quanto
concludente, posto anco che la paralasse di tutti i simulacri vani dovesse
essere eguale a quella del Sole.
Vuole il Sarsi, e coll'autorità
di Ticone e con quella del suo Maestro, provare (e così è in
obligo di fare) che la paralasse osservata nelle comete sia maggiore di quella
del Sole: ma si astiene poi di produrre l'osservazioni particolari di Ticone e
di molti altri astronomi di nome, fatte circa la paralasse della cometa; e
ciò fa egli perché il lettore non vegga come quelle sono tra di loro
differentissime. E qualunque elle si sieno, o sono giuste, o sono errate: se
giuste, sì che a loro si debba prestare intera fede, bisogna
necessariamente concludere, o che la medesima cometa fusse nell'istesso tempo e
sotto il Sole e sopra ed anco nel firmamento, o vero che, per non essere ella
un oggetto fisso e reale, ma vago e vano, non soggiace alle leggi dei fissi e
reali: ma se tali osservazioni sono errate, mancano d'autorità, né per
esse si può determinar cosa veruna; e l'istesso Ticone tra tante
diversità andò eleggendo, come se fussero più certe,
quelle che più servivano alla sua determinazione fatta innanzi, di voler
assegnar luogo alla cometa tra il Sole e Venere. Quanto poi all'altre
osservazioni prodotte dal suo Maestro, sono tanto fra sé differenti, ch'egli
medesimo le determina inette a potere stabilire il luogo della cometa, dicendo
quelle esser state fatte con istrumenti non esatti e senza la necessaria
considerazion dell'ore e della refrazzione e d'altre circostanze; per lo che
egli stesso non obliga altrui a prestargli molta fede, ma si riduce ad una sola
osservazione, la quale, non ricercando strumento alcuno, ma potendo colla
semplice vista farsi esattissimamente, egli l'antepone a tutte l'altre: e
questa fu la puntual congiunzione del capo della cometa con una stella fissa,
la qual congiunzione fu vista nel medesimo tempo da luoghi tra di sé molto
distanti. Ma, signor Sarsi, se così è seguito, questo è
del tutto contrario al bisogno vostro, poi che di qui si raccoglie, la
paralasse essere stata nulla, mentre che voi producete questa autorità
per confermar la vostra proposizione, che dice tal paralasse esser maggiore che
quella del Sole. Or vedete come gli stessi autori chiamati da voi testificano
contro alla causa vostra.
A quello poi che voi dite, che noi
stessi abbiamo confessato, l'osservazioni degli astronomi grandi essere state
fatte esattissimamente, vi rispondo che se voi meglio considererete il dove e
'l quando sono state chiamate tali, comprenderete che esatte si potevano dire
quando elle fussero state anco assai più differenti tra loro di quello
che state sono. Furon chiamate esatte e sufficienti a confutar l'opinione di
Aristotile, mentr'egli voleva che la cometa fusse oggetto reale e vicinissimo
alla Terra. E non sapete che il vostro Maestro stesso dimostra che il solo
intervallo tra Roma ed Anversa in un oggetto reale che fusse anco sopra la
suprema region dell'aria, può cagionar paralasse maggiore di 50, di 60,
di 100 ed anco di 140 gradi? E se questo è, non si potranno elleno
chiamar osservazioni esatte e potenti quelle che, essendo tutte minori d'un
grado solo, differiscono tra di loro di pochi minuti?
Or legga V. S. Illustrissima l'ultimo
argumento. “Denique neque illud omittendum, quod vel unum, homini veritatis
potius investigandæ quam altercandi cupido, satis id quod agimus
persuadere possit. Experimur enim quotidie, ea omnia quibus certa ac stabilis
species non est, sed vana colorum ac lucis imagine hominum illudunt oculis,
angustissimis vitæ spatiis finiri, brevissimo etiam temporis intervallo
varias sese in formas mutare; modo extingui, modo iterum accendi; nunc
pallescere, nunc ardentiori luce micare; partes illorum nunc interrumpi, nunc iterum
coalescere; nunquam denique eadem diu specie apparere: quæ omnia si cum
cometæ stabili motu aspectuque conferantur, ostendent quanta demum inter
illum atque huiusmodi vanas imagines morum ac naturæ discordia sit. Quare
si nihil plane reperias in quo se illis cometa similem probet, cur non potius
nullam cum iisdem naturæ affinitatem aut cognationem habere dixeris?
Dixerunt enimvero philosophorum antiquissimi atque optimi, dixerunt recentiorum
eruditissimi; unus nunc Galilæus illis repugnat; at Galilæo, nisi
fallor, repugnare veritas videtur.”
Il qual argomento egli stima tanto, che
gli par ch'esso solo possa esser bastante a persuader l'intento suo: tuttavia
io non ci scorgo efficacia che mi persuada, mentr'io considero che, nel produr
questi vani simulacri, v'interviene il Sole com'efficiente, e le nuvole e
vapori o altre cose come materia; e perché l'efficiente è perpetuo,
quando non mancasse dalla materia, e l'iride e l'alone ed i parelii e tutte
l'altre apparenze sarebbono perpetue; la breve, dunque, o lunga durazione dalla
stabilità e posizion della materia si deve attendere. Or qual ragione ci
dissuade, poter esser sopra le regioni elementari alcuna materia di più
lunga durazione delle nubi, della caligine, della pioggia cadente in minute
stille, o d'altre materie elementari, sì che la reflessione o refrazzion
del Sole fatta in quelle ci si mostri più lungamente dell'iride, de'
parelii, dell'alone? Ma senza partirsi da' nostri elementi, l'aurora,
ch'è una refrazzion de' raggi solari nella region vaporosa, e le
reflessioni nella superficie del mare non son elleno apparenze perpetue,
sì che se il riguardante, il Sole, i vapori e la superficie del mare
stessero sempre nella medesima disposizione, perpetuamente si vederebbe
l'aurora e la striscia splendida nell'acqua? In oltre, dalla minore o maggior
durazione poco concludentemente s'inferisce un'essenzial differenza; anzi delle
comete stesse, senza cercar altre materie, se ne son vedute alcune durare 90 e
più giorni, ed altre dissolversi il quarto ed anco il terzo. E perché si
è osservato, le più diuturne mostrarsi, anco nel lor primo
apparire, assai maggiori dell'altre, chi sa che non ve ne sieno, ed anco
frequentemente, di quelle che durino non solamente pochi giorni, ma anco non
molte ore, ma che per la lor piccolezza non vengano facilmente osservate? E per
concluderla, che nel luogo dove si formano le comete vi sia materia atta nata a
conservarsi più della nuvola e della caligine elementare, l'istesse
comete ce n'assicurano, producendosi di materia o in materia non celeste ed
eterna, né anco che necessariamente in brevissimi tempi si dissolva, sì
che il dubbio resta ancora, se quello che si produce in detta materia sia una
pura e semplice reflession di lume, ed in conseguenza uno apparente simulacro,
o pure se sia altra cosa fissa e reale. E per tanto niuna cosa conclude
l'argomento del signor Sarsi, né concluderà, s'egli prima non dimostra
che la materia cometaria non sia atta a reflettere o rifrangere il lume solare,
perché, quanto all'esser atta a durar molti giorni, la durazion delle medesime
comete ce ne rende più che certi.
Or passiamo alla seconda questione di
questo secondo essame. “Venio nunc ad motum: quem rectum fuisse Galilæus
asserit, ego tamen diserte nego. Ea primum ratio hoc mihi persuadet ut faciam,
quam ipse solvere vel nescire se vel non audere, ingenue profitetur: illa enim
ratio adeo aperta est, adeoque ad hunc motum dissuadendum efficax, ut, cum
forte id maxime vellet, dissimulare tamen eam non potuerit. "Si enim"
(verba eius sunt) "solus hic motus cometæ tribuatur, explicari non
potest, qui factum sit ut non ad verticem solum magis ac magis accesserit, sed
ulterius ad polum usque pervenerit: quare vel præclarum hoc inventum
abiiciendum, quod sane haud sciam, vel motus alius addendus, quod non
ausim." Ubi mirandum sane est, hominem apertum ac minime meticulosum
repentino adeo timore corripi, ut conceptum sermonem proferre non audeat. Ego
vero non is sum, qui divinare norim. ”
E qui, prima ch'io proceda più
avanti, non posso far ch'io non mi risenta alquanto col Sarsi della non punto
meritata imputazione ch'egli m'attribuisce di dissimulatore, essendo cotal nota
lontanissima dalla profession mia, la qual è di liberamente confessare,
come sempre ho fatto, di ritrovarmi abbagliato e quasi del tutto cieco nel
penetrare i secreti di natura, ma ben d'esser desiderosissimo di conseguir
qualche piccola cognizione d'alcuno di essi, alla quale intenzione niun'altra
cosa è più contraria che la finzione o dissimulazione. Il signor
Mario nella sua scrittura mai non ha finto cosa alcuna, né ha avuto di mestieri
di fingerla, poi che, quanto egli di nuovo ha proposto, l'ha portato sempre
dubitativamente e conghietturalmente, né ha cercato di fare ad altri tener per
certo e sicuro quello ch'egli ed io per dubbio, ed al più per probabile,
abbiamo arrecato ed esposto alla considerazion de' più intelligenti di
noi, per trarne, co 'l loro aiuto, o la confermazione di alcuna conclusion
vera, o la totale esclusion delle false. Ma se la scrittura del signor Mario
è schietta e sincera, ben altrettanto è piena di simulazioni la
vostra, signor Lottario; poi che, per farvi strada alle oppugnazioni, delle 10
volte le 9 fingete di non intendere quel che ha scritto il signor Mario, e
dandogli sensi molto lontani dall'intenzion di quello, e spesso aggiungendovi o
levandone, preparate ad arbitrio vostro la materia, onde il lettore, prestando
fede a quanto voi producete poi in contrario, resti in concetto che noi abbiamo
scritte gran semplicità, e che voi acutamente l'avete scoperte e
ributtate: il che sin qui si è da me osservato, e nel restante
s'osserverà non meno.
Ma venendo al fatto, qual cagione vi
muove a scrivere che noi abbiamo sommamente voluto, ma non potuto dissimulare
che movendosi la cometa di semplice moto retto, fusse necessario ch'ella
andasse sempre verso il vertice, né da quello declinasse già mai? Chi ha
fatto avvertito voi di tal conseguenza, altri che l'istesso signor Mario che la
scrive? la quale al sicuro a voi avrebbe egli potuto dissimulare, e voi, per
vostra benignità, avereste dissimulata la sua dissimulazione. Ma che
più? Voi stesso due soli versi di sopra scrivete che io ingenuamente ho
confessato di non sapere o non ardir di sciorre cotal ragione da me prodotta,
ed accanto accanto soggiungete ch'io massimamente avrei voluto dissimularla: e
qual contradizzion è questa, che uno ingenuamente porti e scriva e
stampi una proposizione, e sia il primo a portarla e scriverla e stamparla, e
che voi poi diciate, lui aver grandemente desiderato di dissimularla ed
asconderla? Veramente, signor Lottario, voi siete molto bisognoso che nel
lettore sia una gran semplicità ed una piccola avvertenza.
Or veggiamo se in questo detto, dove
nulla si trova di nostra simulazione, ve ne fusse per sorte di quella del Sarsi.
E certo in poche parole ve n'è più d'una. E prima, per aprirsi il
campo a dichiararmi per tanto ignorante geometra che non abbia capito quelle
conseguenze che per lor dimostrazione non ricercano maggiore scienza che di
alcune poche e tritissime proposizioni del primo libro degli Elementi, egli mi
fa dir quello che già mai non s'è detto né scritto; e mentre noi
diciamo, che se la cometa si movesse di moto retto, ci apparirebbe muoversi
verso il vertice e zenit, esso vuole che noi abbiamo detto ch'ella, movendosi,
dovesse arrivare al vertice e zenit. Qui bisogna che il Sarsi confessi, o di
non avere inteso quel che vuol dir muoversi verso un luogo, o
d'aver voluto con finzione e simulazione attribuirci una falsità. Il
primo non credo che possa essere, perché così verrebbe anco a stimare
che il dir navigare verso il polo e tirar una pietra verso il cielo importasse
che la nave arrivasse al polo e la pietra in cielo: adunque resta ch'egli,
dissimulando d'intender il vero scritto da noi, ci attribuisca il falso per
poter poi attribuirci le non meritate note. Di più, non sinceramente
riferisce egli le presenti parole del signor Mario anco in un altro
particolare; poi che dove quello dice, che o bisogna rimuovere il moto retto
attribuito alla cometa, o vero, ritenendolo, aggiungere qualche altra cagione
dell'apparente deviazione, il Sarsi di suo arbitrio muta le parole “qualche
altra cagione” in “qualch'altro moto”, per poter poi, fuor d'ogni mia
intenzione, tirarmi nel moto della Terra, e qui scriver varie girandole e
vanità. Conclude finalmente il Sarsi, non esser di quelli che sanno
indovinare; e pure assai frequentemente si getta al voler penetrare gl'interni
sensi altrui.
Or segua V. S. Illustrissima. “Quæro
igitur, an motus hic alius, quo belle explicare omnia posset nec eum proferre
audet, vapori huic cometico tribuendus sit, an alii cuipiam, ad cuius postea
motum moveri, in speciem tantum, videatur cometa. Non primum, arbitror; hoc
enim esset motum illum rectum et perpendicularem destruere: siquidem, si vapor
ex Terra, æquatori, verbi gratia, subiecta, motu perpendiculari sursum
ascendat, et motu alio idem ipse in septentrionem feratur, motus hic secundus
necessario priorem destruet. Quod si nihilominus ad septentrionem moveri,
saltem in speciem, videatur, ad alterius alicuius corporis motum id consequi
dicendum erit. Certe dum Galilæus ait, eum motum qui addendus esset,
causam tantummodo futurum apparentis deviationis cometæ, satis aperte
innuit, motum hunc in alio quam in vapore cometico ponendum esse, cum illum
apparenter solum ad septentrionem moveri velit. Quod si ita est, non video
cuiusnam corporis hic futurus sit motus. Cum enim nulli Galilæo sint
cælestes Ptolemæi orbes, nihilque, ex eiusdem Galilæi
systemate, in cælo solidi inveniatur, non igitur ad motum eorum orbium,
quos nusquam reperiri existimat, cometam moveri putabit.
Sed audio hic mihi nescio quem tacite
ac timide in aurem insusurrantem Terræ motum. Apage dissonum veritati ac
piis auribus asperum verbum. Næ, tu caute id submissa insusurrasti voce.
Sed si ita res se haberet, conclamata esset Galilæi opinio, quæ non
alii quam huic falso inniteretur fundamento. Si enim Terra non moveatur, motus
hic rectus cum observationibus cometæ non congruit; sed Terram certum
est, apud Catholicos, non moveri; erit ergo æque certum, motum hunc
rectum cum observationibus cometicis minime concordare, ac propterea ineptum ad
rem nostram iudicandum. Neque id ego unquam Galilæo in mentem venisse
existimo, quem pium semper ac religiosum novi.”
Qui, com'ella vede, si va il Sarsi
affaticando per mostrar, niun altro moto che si attribuisca o all'istessa
cometa o ad altro corpo mondano, poter esser atto a mantenere il movimento per
linea retta introdotto dal signor Mario ed a supplire insieme all'apparente
deviazion dal vertice: il qual discorso è tutto superfluo e vano, atteso
che né il signor Mario né io abbiamo mai scritto, la cagion di tal deviazione
depender da qualch'altro moto, né di Terra né di cieli né d'altro corpo. Il
Sarsi di suo capriccio l'ha introdotto; egli stesso si risponda, né pretenda
d'obligar altri a sostener quello che non ha detto, né scritto, né forse
pensato, ancor per confessione dell'istesso Sarsi, il quale apertamente afferma
di non creder che mai mi sia caduto in mente d'introdurre il movimento della
Terra per salvar tal deviazione, avendomi egli conosciuto sempre per persona
pia e religiosa. Ma s'è così, a che proposito l'avete voi
nominato, ed a qual fine cercato di mostrarlo inetto a cotal bisogno? Ma
è bene che passiamo avanti.
Segua, dunque, V. S. Illustrissima di
leggere. “Verum, ni fallor, non quilibet cometæ motus Galilæum
torsit, coëgitque aliquid aliud præterea excogitare quod proferre vel
nesciat vel non audeat; sed is tantum, quo ultra nostrum verticem, seu zenith,
propius ad polum accessit. Si igitur ultra verticem cometa progressus non
fuisset, nil erat quod de hoc alio motu cogitaret. Hoc enim ipsemet verbis
illis innuere videtur, quibus ait, "si nullus alius ponatur motus quam
rectus ac perpendicularis, tunc ad nostrum tantum verticem recta cometam
ascensurum, non tamen progressurum ulterius". Demus igitur, nullum unquam
cometam verticem nostrum prætergressum: aio tamen, ne sic quidem eius
cursum explicari posse motu hoc recto.
Sit enim Terræ globus ABC, locus
ex quo vapor ascendit sit B, oculus vero spectantis in A, visusque sit primum
cometa, verbi gratia, in E, et locus eidem respondens in cælo sit G;
intelligatur moveri cometa sursum in linea BO per partes æquales EF, FM,
MO: affirmo, quantumvis vapor ille per lineam DO ascendat, etiam in omni
æternitate nunquam ad verticem nostrum, ne apparenter quidem,
perventurum. Ducatur enim linea AR ipsi BO parallela: nunquam tantus erit
cometæ motus apparens, quantus est arcus GR, et nunquam radius visualis
coincidet cum linea AR. Cum enim semper radius visivus concurrere debeat cum
recta BO, in qua apparet cometa, cumque radius AR sit lineæ BO
parallelus, non poterit cum illa unquam concurrere, ex definitione
parallelarum: ergo nunquam radius per quem cometa videtur, poterit ad R
pervenire; et, consequenter, motus apparens cometæ non solum non
perveniet ad nostrum verticem S, sed neque ad punctum R, quod longissime adhuc
a vertice distat. Apparebit enim primo in G, secundo in F, tertio in I, deinde
in L, etc.; sed nunquam perveniet ad R.”
Torna il Sarsi, come V. S.
Illustrissima vede, ad alterar la scrittura del signor Mario, volendo pure
ch'egli abbia scritto, che il moto perpendicolare alla Terra dovesse condur
finalmente la cometa al punto verticale; il che non si trova nel suo libro, ma
sì bene che tal moto sarebbe verso il vertice: e ciò fa, per mio
parere, il Sarsi per pigliare occasione di portarci questa geometrica
dimostrazione, fabbricata sopra fondamenti non più profondi della sola
intelligenza della diffinizione delle linee parallele; dalla quale azzione
alcuno potrebbe dedurre forse una conseguenza non molto insigne pel Sarsi.
Imperocché o egli stima questa sua conclusione e dimostrazione per cosa
ingegnosa e da persone non vulgari, o vero per una cosuccia da essere anco
ritrovata da' fanciulli: s'egli la stima per cosa puerile, poteva ben esser
sicuro che né il signor Mario ned io siamo costituiti in sì infelice
stato di cognizione, che per mancamento di cotal notizia avessimo ad incorrere
in errore; ma se ei l'ha per cosa sottile e di momento, io non saperei come non
far giudicio ch'ei fusse povero affatto e bisognoso di ritornar sotto la
disciplina del Maestro. È vero, dunque, che il moto perpendicolare alla
superficie terrestre non arriva mai al vertice (eccetto però che quello
che si parte dall'istesso luogo del riguardante, il che forse il Sarsi non ha
osservato), ma è anco vero che noi non abbiamo detto mai ch'ei v'arrivi.
“Præterea, quoniam, ut
Galilæus ipse fatetur, cometæ motus in principio velocior visus
est, et paulatim postea remitti, videndum est, in qua proportione hæc
motus remissio procedere debeat in hac linea recta. Certe, si Galilæi
figuram expendamus, quando cometa fuerit in E, apparebit in G; cum vero, paria
percurrens spatia EF, FM, MO, motum suum apparentem in punctis F, I, L
ostendet, videbitur motus eius decrescere decrementis maximis; nam arcus FI vix
est medietas ipsius GF, et IL ipsius FI, atque ita de reliquis: debuit ergo
cometæ motus apparens in eadem proportione decrescere. Sciendum autem
est, motum cometæ observatum non in hac proportione decrevisse, immo
primis diebus adeo exiguum ipsius decrementum fuisse, ut non facile
animadverteretur. Cum enim in suo exordio tres circiter gradus quotidie
percurreret, diebus iam 20 elapsis vix quicquam de illa priori contentione
remisisse visus est. Immo, si in iudicium advocentur cometæ duo Tychonici
annorum 1577 et 1585, ex ipsorum motibus apertissime colligemus, quam longe
abfuerint ab immani hoc decremento. Si quis iam ex me quærat, quantus
tandem futurus sit cometæ motus per lineam hanc rectam ascendentis,
respondeo: si cometa tunc primum appareat, cum vapor ex quo producitur non
longe abest a Luna, quod valde probabile est, et præterea ponamus locum,
ex quo in Terræ globo fumus ille ascendit, distare a nobis gradibus 60,
respondeo, inquam, apparentem cometæ motum toto durationis suæ
tempore non absoluturum gradum unum et minuta 31.
Sit enim Terræ globus ABC,
Lunæ concavum GFH, distans a centro D Terræ semidiametris 33, ex
Ptolemæo; Tycho enim duplam fere ponit distantiam, quod magis e re mea
foret; sitque A locus ex quo spectatur cometa, B vero locus ex quo vapor
ascendit. Dico, cum visus fuerit cometa in E, futurum angulum DEA gradus 1,
minuta 31; ac proinde, si ducatur AF parallela ipsi DE, erit etiam angulus FAE
gradus 1, minuta 31, cum sit alternus ipsi DAE inter easdem parallelas;
duæ ergo lineæ AE, AF intercipient in firmamento arcum gradus 1,
minuta 31. Sed ad lineam AF, parallelam ipsi DE, nunquam perveniet cometa, ut
probavimus superius: ergo nunquam absolvet motum gradum 1, minuta 31. Quod
autem angulus DEA futurus sit in concavo Lunæ gradus 1, minuta 31,
probatur. Quia, cum cognitus sit, ex suppositione, angulus EDA graduum
Io credetti dalla precedente
dimostrazion del Sarsi, ch'ei potesse essere ch'egli avesse veduto, e forse
inteso, il primo libro degli Elementi della geometria; ma quello ch'egli scrive
qui mi mette in gran dubbio s'egli abbia prattica veruna sopra le cose
matematiche, poi che dalla figura delineata di sua fantasia da se medesimo, ei
vuol ritrarre qual sia la proporzion della diminuzion dell'apparente
velocità del moto attribuito dal signor Mario alla cometa: dove, prima,
egli dimostra di non avere osservato che in tutti i libri de' matematici niun
riguardo si ha già mai delle figure, tutta volta che vi è la
scrittura che parla; e che in astronomia, in particolare, si tratterebbe poco
meno che dell'impossibile a voler mantenere nelle figure le proporzioni che
realmente hanno tra di loro i moti, le distanze e le grandezze degli orbi
celesti, le quali proporzioni senza verun pregiudicio della dottrina si
alterano sì fattamente, che quel cerchio o quell'angolo che dovrebbe
esser mille volte maggiore d'un altro, non si fa né anco due o ver tre. Si veda
anco il secondo errore del Sarsi, ch'è ch'ei s'immagina che 'l medesimo
movimento debba apparir fatto colle stesse apparenti inegualità da tutti
i luoghi ond'ei venga osservato ed in tutte le distanze o altezze dove il
mobile si ritrovi: tuttavia la verità è, che segnati nel moto
retto perpendicolarmente ascendente molti spazii eguali, i movimenti apparenti,
verbigrazia, di quattro parti vicine a Terra importeranno mutazioni in cielo
tra di sé molto più disuguali che quelli di quattro altre parti assai
lontane; sì che finalmente in gran lontananza la disugualità che
nelle parti basse era grandissima, nell'altre resterà insensibile.
Così parimente in altra proporzione appariranno fatti i medesimi
ritardamenti se il riguardante sarà vicino al principio della linea del
moto, che s'egli ne sarà lontano. Tuttavia il Sarsi, perché nella figura
[v. figura a pag.70] trova che gli archi GF, FI, IL, che sono i moti
apparenti, decrescono grandemente ed assai più che non si scorse nel
movimento della cometa, si è persuaso che simil moto in conto niuno
possa a quella adattarsi; né ha avvertito come cotali decrementi possano
apparir meno e meno disuguali, secondo che l'altezza del mobile sarà
posta maggiore. Egli pur sa che nelle figure né si osserva, né importa nulla il
non osservar, le debite proporzioni; della qual notizia egli medesimo ce ne
rende certi nella sua seguente figura, [v. figura a pag.72] nella quale
prova l'angolo DEA esser solamente un grado e mezo, se bene in disegno è
più di gradi 15, ed il semidiametro del concavo lunare DE appena
è triplo del semidiametro terrestre DB, il qual tuttavia egli nomina 33
volte maggiore; sì che questo solo era bastante a fargli conoscere
quanto grande sia la semplicità di chi volesse raccor la mente d'un
geometra dal misurar colle seste le sue figure. Concludendo dunque dico, signor
Lottario, che può star benissimo in un istesso moto retto ed uniforme
un'apparente diminuzione e grande e mezana e piccola e minima ed insensibile
ancora; e se voi vorrete provare che niuna di queste corrisponda al moto della
cometa, bisognerà che facciate altra fattura che misurar le dipinture; e
v'assicuro che scrivendo voi cose tali, non v'acquisterete l'applauso d'altri,
che di chi, non intendendo né il signor Mario né voi, ripon la vittoria nel
più loquace e ch'è l'ultimo a parlare.
Ma sentiamo, Illustrissimo Signore,
quello che in ultimo il Sarsi produce. Esso, per mio credere, vuol da questo
ch'ei soggiunge, ch'è la piccolezza del moto apparente, provare, il
già più volte nominato moto retto non competere in verun modo
alla cometa (e dico di creder così, e non d'esserne sicuro, poi che
l'istesso autore, doppo sue dimostrazioni e calcoli, non raccoglie conclusione
alcuna): e per ciò fare egli suppone, la cometa nel suo primo apparire
esser stata lontana dalla superficie della Terra 32 semidiametri terrestri, e
che il riguardante sia situato 60 gradi lontano dal punto della superficie
della Terra che perpendicolarmente risponde sotto alla linea del moto d'essa
cometa; e fatte tali due supposizioni, dimostra la quantità del moto
apparente potere appena arrivare in cielo a un grado e mezzo; e qui finisce,
senza applicare il detto a proposito alcuno o raccorne altra conclusione. Ma già
che il Sarsi non l'ha fatto, ne raccorrò io due delle conclusioni: la
prima sarà quella che l'istesso Sarsi vorrebbe che il semplice lettore
n'inferisse da per se stesso, e l'altra quella che per vera conseguenza, e non
per inavvertenza di persone semplici, si raccoglie. Ecco la prima: “Dunque, o
lettore, nel cui orecchio ancora risuona quello che di sopra è stato
scritto, cioè che il moto apparente della nostra cometa valicò in
cielo molte e molte decine di gradi, fa' tu ora concetto e tieni per sicuro che
il moto retto del signor Mario in veruna maniera se gli assesta, per lo quale a
gran fatica si può valicare un sol grado e mezo.” E questa è la
conseguenza de' semplici. Ma chi averà fior di logica naturale,
congiungendo le premesse del Sarsi colla conclusione da quelle dependente,
formerà cotal sillogismo: “Posto che la cometa nel suo apparire fusse
stata alta 32 semidiametri terrestri, e che il riguardante fusse gradi 60
lontano dalla linea del suo moto, la quantità del suo moto apparente non
poteva eccedere un grado e mezo; ma egli eccedette molte decine di gradi;
(venga ora la conseguenza vera) adunque nel tempo delle prime osservazioni la
nostra cometa non era in altezza da Terra di 32 semidiametri, e l'osservator
lontano 60 gradi dalla linea del moto di quella.” Il che liberamente si conceda
al Sarsi, essendo una conclusione che distrugge i suoi medesimi assunti: ben
che per un altro rispetto ancora il suo sillogismo resti imperfetto, né punto
vaglia contro al signor Mario, il qual già apertamente ha scritto che un
semplice moto retto non può bastare a soddisfare all'apparente mutazion
della cometa, ma vi bisogna aggiunger qualch'altra cagione della sua
deviazione; la qual condizione, tralasciata dal Sarsi, snerva del tutto ogni
sua illazione.
Ma noto, di più, un altro non
piccolo errore in logica in questo suo discorso. Vuole il Sarsi, dalla gran
mutazion di luogo che fece la cometa provar che 'l moto retto del signor Mario
non gli poteva competere, perché la mutazione che segue a cotal moto è
piccola: e perché la verità è che a questo moto retto ne possono
seguir mutazioni piccole, mediocri ed anco grandissime, secondo che il mobile
sarà più alto o più basso, ed il riguardante più
lontano o meno dalla linea d'esso moto, il Sarsi, senza domandar all'avversario
in qual altezza e in qual lontananza ei ponga il mobile e 'l riguardante,
ripone l'uno e l'altro in luoghi accommodati al suo bisogno e sconci per quel
dell'avversario, e dice: “Pongasi che la cometa nel principio fusse alta 32
semidiametri, e l'osservatore lontano 60 gradi.” Ma, signor Lottario mio, se
l'avversario dirà ch'ella non era tanto lontana a molte migliaia di
miglia, e l'osservatore parimente assai più vicino, che farete voi del
vostro sillogismo? che ne concluderete? niente. Bisognava che noi, e non voi,
avessimo attribuito alla cometa ed all'osservatore cotali distanze, ed allora
ci avreste colle nostre proprie armi trafitti; o se pur volevate trafiggerci
colle vostre, dovevate prima necessariamente provare, tali essere state in
fatto le lontananze (il che non avete fatto), e non arbitrariamente fingervele,
ed elegger delle più pregiudiciali alla causa dell'avversario. Questo
particolare solo mi fa inclinare un poco a credere che possa esser vero quello
che sin qui non ho creduto già mai, cioè che possiate essere
stato scolare di quello di chi voi vi fate, avvenga ch'egli ancora caschi, s'io
non m'inganno, nell'istessa fallacia, mentre vuol dimostrar falsa l'opinion
d'Aristotile e d'altri ch'ànno stimato la cometa esser cosa elementare e
dentro alla regione elementare aver sua residenza: a i quali egli oppone, come
grandissimo inconveniente, la smisurata mole ch'ella dovrebbe avere, e quanto
incredibil cosa sarebbe che dalla Terra potesse esserle somministrato pabulo e
nutrimento; per dimostrarla poi una smisuratissima machina, la costituisce,
senza licenza degli avversari, nella più sublime parte della sfera
elementare, cioè nell'istessa concavità dell'orbe lunare, e di
quivi, dall'apparirci ella quale la veggiamo, va calcolando la sua mole dover
esser poco manco di cinquecento milioni di miglia cubiche (e noti il lettore
che lo spazio d'un sol miglio cubo è tanto grande, che capirebbe
più d'un milion di navi, che forse tante non se ne trovano al mondo),
machina veramente troppo sconcia e disonesta, e di troppo grande spesa al
genere umano, che di quaggiù le avesse a mandar la pietanza per cibarsi
e nutrirsi. Ma Aristotile e i suoi aderenti risponderanno: “Padre mio, noi
diciamo che la cometa è elementare, e che può esser ch'ella sia
lontana dalla terra 50 o
Or sentiamo quel che segue: e legga V.
S. Illustrissima questo quarto argomento. “Iam vero quamvis Terra
non moveatur, neque tutum homini pio sit id asserere, si quis tamen scire ex me
cupiat, an per motum Terræ possit hic cometæ cursus per rectam
lineam explicari, respondeo: si nullus alius in Terra motus concipiatur
præter eum quem Copernicus excogitavit, ne sic quidem motu hoc recto salvari
cometæ phænomena. Quamvis enim per motum Copernici annuum Sol, ex
ipsius sententia, videatur ab æquatore modo in austrum modo in
septentrionem flectere (quem tamen ipse immobilem existimat), quilibet tamen
horum motuum integro semestri completur, et brevi illo spatio dierum 40, quo
ferme cometa comparuit, parum admodum Sol moveri visus est, hoc est per gradus
tres, neque multo maior, ex hoc Terræ motu, videri potuit cometæ
apparens deviatio; cui etiam si addatur totus ille motus qui ex incessu illo
recto apparenter oriretur, nunquam motum cometæ observatum
exæquabit.”
Qui egli vuol mostrare che né anco
ponendosi il moto della Terra, quale dal Copernico fu assegnato, si potrebbe
esplicare e sostenere questo moto per linea retta e quella deviazion dal vertice;
perché, se bene al moto della Terra ne conséguita l'apparente declinazione del
Sole ora verso austro ora verso borea, tuttavia nello spazio di 140 giorni, ne
i quali si osservò la cometa, tal declinazione non
importò più di gradi 3, né molto maggior di tanto poteva apparir
quella della cometa; sì che, congiunta questa con quel solo grado e mezo
che poteva importar l'altra dependente dal proprio moto retto, tuttavia noi
rimagniamo assai lontani da quel moto grandissimo che in lei si vide. Qui, non
avendo noi affermato né detto che di tal deviazione apparente ne sia cagione
movimento alcuno di qualch'altro corpo, e men di tutti del corpo terrestre, il
quale l'istesso Sarsi confessa di sapere che noi reputiamo falso, chiaramente
apparisce ch'egli l'ha introdotto di suo capriccio per farsi adito a crescere
il suo volume; per lo che niuno obligo cade in noi di risposta per mantenimento
di quello che non abbiamo prodotto. Non però voglio restar di dire,
ch'io fortemente dubito che il Sarsi non abbia ancora formatasi perfetta idea
de' moti attribuiti alla Terra, né delle varie e moltiplici apparenze che da
quelli negli altri corpi mondani scorger si dovrebbono; già che io veggo
ch'egli senza niuna differenza di positura, o sotto o fuori dell'eclittica, o
dentro o fuori dell'orbe magno, o di meridionale o settentrionale, o di vicino
o lontano da essa Terra, stima che qual deviazione apparisce nel corpo solare,
collocato nel centro di essa eclittica, debba ancor la medesima, o pochissimo
differente, scorgersi in ogn'altro visibile oggetto, in qualsivoglia luogo del
mondo collocato; cosa ch'è remotissima dal vero, e non repugna che,
mediante la differente postura, quella mutazione che nel Sole apparisce tre
gradi, in altro oggetto possa apparire 10, 20, 30. Ed in conclusione, se il
movimento attribuito alla Terra, il quale io, come persona pia e cattolica,
reputo falsissimo e nullo, s'accommoda al render ragione di tante e sì
diverse apparenze le quali s'osservano ne' corpi celesti; io non m'assicurerò
ch'egli, così falso, non possa anco ingannevolmente rispondere
all'apparenze delle comete, se il Sarsi non discende a più distinte
considerazioni di quelle che sin qui ha prodotte.
Legga ora V. S. Illustrissima il quinto
argomento. “Atque hæc quidem, si omnium, quotquot adhuc
fuerunt, cometarum motus æque certus ac regularis fuisset: at si alios
etiam in quæstionem vocemus, quorum motus longe diversus ab his fuit,
multo clarius ex illis constabit, possit ne cometis motus hic rectus
præscribi. Adi igitur Cardanum; hæc apud illum, ex Pontano, leges:
"Cometes tenui capite comaque admodum brevi a nobis conspectus est, qui
mox, miræ magnitudinis factus, ab ortu in septentrionem cœpit
deflectere, nunc citato motu nunc remisso; et quoad Mars Saturnusque regrederentur,
ipse aversus, coma progrediente, ferebatur, donec ad Arctos pervenit; unde, cum
primum Saturnus et Mars recto cursu pergere cœperunt, in occasum iter
flexit tanta celeritate, ut die uno 30 gradus emensus sit; atque ubi ad Arietem
et Taurum commeavit, videri desiit." Præterea apud eumdem, ex
Regiomontano, hæc habes: "Idibus Ianuariis anno Domini 1475 visus
est nobis cometa sub Libra cum stellis Virginis, cuius caput tardi erat motus
donec propinquum esset Spicæ; nunc incedebat per crura Bootis versus eius
sinistram, a qua discedendo, die uno naturali, portionem circuli magni graduum
40 descripsit, ubi, cum esset in medio Cancri, maxime distabat ab orbe signorum
gradibus 67; et tunc per duos polos zodiaci et æquinoctialis ibat, usque
ad intermedia pedum Cephæi, deinde per pectus Cassiopeiæ super
Andromedæ ventrem; post, gradiendo per longitudinem Piscis
septentrionalis, ubi valde remittebatur motus eius, propinquabat zodiaco,
etc." Quare in principio ac fine tardissimi fuit motus, in medio vero celerrimi,
quod motui isti per lineam rectam apertissime repugnat; hic enim semper in
principio velocior est, postea sensim remittitur; cui tamen adhuc apertius
obstat prior cometa Pontani, in principio tardus, in fine velocissimus. Audi
illum in Meteoris ita concinentem:
Nam memini quondam, Icario de sidere
lapsum
squalentem præferre comam,
tardoque meatu
flectere sub gelidum boreæ
penetrabilis orbem;
hinc rursum præferre caput,
cursuque secundo
vertere in occasum, ac laxis insistere
habenis;
donec Agenorei sensit fera cornua
Tauri.
In his duobus porro cometis difficilius
multo motus ille rectus explicari potest; cum hi, brevissimo temporis spatio,
integrum semicirculum maximum motu suo percurrerint, cui motui explicando
perexiguo futurus est adiumento quicumque Terræ motus. Neque hoc loco
catalogum cometarum variorumque illorum motuum texere mei est instituti: si
quis vero eos adeat qui de his egerunt, multa inveniet quæ cum motu hoc
recto stare nulla ratione possunt. Satis igitur superque de cometæ
substantia ac motu dictum.”
Qui col produrre il Sarsi altre varie
mutazioni fatte in altre comete e descritte da altri autori, pensa pur di
confermare il suo detto. Ma quello che ho scritto di sopra risponde ancora a
questo, né altro ci bisogna, se prima, lasciando il Sarsi le troppo larghe
generalità, non viene alle particolari considerazioni de' particolari
stati d'esse comete, quanto all'essere alte, basse, australi o boreali, ed
apparse ne' tempi de' solstizi o degli equinozzi; condizioni tralasciate da
esso, e necessarissime in cotali decisioni, com'egli stesso potrà
conoscere qualunque volta con maggiore attenzione si ridurrà a questa
speculazione.
Passo ora all'ultima questione del
presente esame: “Reliqua nunc est cometæ coma seu barba, vel, si mavis,
cauda, quæ sua illa curvitate non parum astronomis negotii facessit: in
qua tamen explicanda triumphare plane sibi videtur Galilæus. Verum illud
primum hoc loco ei suggerere habeo, nihil esse quod novum hunc modum comarum
explicandarum sibi adscribat; nihil ipsum sua hac in disputatione protulisse,
quod Keplerus multo ante non viderit, et scriptis planissime consignarit: nam
dum rationes inquirit, cur cometarum caudæ curvæ aliquando
videantur, ait id non ex parallaxi oriri, quod alio etiam loco probat, neque ex
refractione, multa in hanc sententiam afferens; ubi tandem ait, hoc
phænomenon inter naturæ arcana relinquendum. Hoc igitur
præmissum volui, quandoquidem ipse ait, se vidisse neminem qui hac de re
scripserit, præter Tychonem. Hoc uno inter se differunt Keplerus et
Galilæus, quod hic iis rationibus assentitur, quas non tanti ponderis
ille existimavit, ac propterea sub iudice litem relinquendam statuit.”
Troppo veramente si dimostra il Sarsi
desideroso di spogliarmi, anzi del tutto denudarmi, d'ogni ben che lieve
ornamento di gloria: e qui, non contento di scoprire, la ragion prodotta per
mia dal signor Mario, onde avvenga che la chioma della cometa talora ci
apparisca piegarsi in arco, esser falsa e non concludente, aggiunge, in quella
non esser da me arrecato niente di nuovo, ma il tutto molto innanzi essere
stato scritto e publicato, e poi come falso rifiutato, da Giovanni Kepplero;
tal che nell'animo del lettore, qualunque volta egli si fermasse sopra la
relazion del Sarsi, io resterei in concetto non solo d'involator delle cose
altrui, ma di ladruccio dappoco, che andasse raggranellando sino alle cose
rifiutate. Ma chi sa che anco forse la piccolezza del furto non mi renda
più colpevole, nel concetto del Sarsi, che s'io con maggiore animo mi
fussi applicato a prede maggiori? e se per avventura io, in cambio di
rubacchiar qualche cosarella, mi fussi con maggior generosità messo alla
cerca di libri non così noti in queste nostre parti, ed incontratone
alcuno di qualche bravo autore avessi tentato di sopprimere il suo nome ed
attribuire a me tutta l'opera intera, forse cotal impresa gli saria paruta
altrettanto eroica e grande, quanto l'altra pusillanima ed abietta. Ma io non
son di tanto cuore, e liberamente confesso la mia codardia. Ma s'io son
poveretto e d'ardire e di forze, sono almanco da bene, né voglio, signor
Lottario, immeritamente restar con questo fregio su 'l viso, ma voglio
liberamente scrivere e palesare il vostro mancamento, e non penetrando io da
quale affetto possa esser nato, lascerò che voi stesso lo specifichiate
poi nella vostra scusa.
Volse già Ticone assegnar la
causa di cotale apparente curvità, riducendola ad alcune proposizioni
dimostrate da Vitellione; ma il signor Mario mostrò che quello non aveva
comprese le cose scritte da quell'autore, le quali sono remotissime
dal servire al proposito di tal piegatura. Soggiunse l'istesso signor Mario
quella che a sé ed a me era paruta la vera causa e dimostrativa ragione: si
leva su il Sarsi, e volendo confutarla, e di più, manifestarla cosa del
Kepplero, cade con Ticone nell'istessa fossa, e si dichiara non avere inteso
niente di quello che scrivono il Kepplero ed il signor Mario, o almeno
dissimula l'intender l'uno e l'altro, e vuole che ambedue scrivano l'istessa
cosa, mentre scrivono cose differentissime. Il Kepplero vuol render ragione
della curvità come ch'essa chioma sia realmente, e non in apparenza
solamente, curva; il signor Mario la suppone realmente diritta, e cerca la
causa della piegatura apparente. Il Kepplero la riduce ad una diversità
di refrazzioni de' raggi stessi solari, fatte nell'istessa materia celeste in
cui si forma l'istessa chioma, la qual materia, in quella parte solamente che
serve alla produzzion della chioma, in altri ed altri gradi di vicinità
all'istessa stella sia più e più densa, sì che, facendo
altre ed altre refrazzioni, dal composto finalmente di tutte ne risulti una
total refrazzione distesa non direttamente, ma in arco; il signor Mario
introduce una refrazzione fatta non da' raggi del Sole, ma dalla spezie
dell'istessa cometa, non nella materia celeste aderente al capo di quella, ma
nella sfera vaporosa che circonda la Terra: sì che l'efficiente, la
materia, il luogo ed il modo di queste produzzioni sono diversissimi, né
ànno altra communicanza tra di loro questi due autori, che questa sola
parola refrazzione. Ecco le parole precise del Kepplero: “Non
refractio potest esse causa inflexionis huius, ni nescio quod monstri
confingamus, materiam ætheream certis gradibus propinquitatis ad hoc
sydus magis magisque crassam, nec nisi ex una sola parte in quam caudam
vergit.” Ah, signor Lottario, è possibile che voi vi siate lasciato
trasportar tant'oltre dal desiderio d'oscurare il mio nome, qual egli si sia in
materia di scienze, che non solo non abbiate avuto riguardo alla reputazion
mia, ma né anco a quella di tanti amici vostri? a' quali con fallacie e
simulazioni avete cercato di far credere la vostra dottrina ferma e sincera e
con tal mezo avete fatto acquisto del loro applauso e delle lor lodi, che adesso,
se mai accaderà ch'essi veggano questa mia scrittura e per essa
comprendano quante volte ed in quante maniere voi gli avete voluti trattar da
troppo semplici, ei si terranno scherniti da voi, e la stima e la grazia vostra
negli animi loro muterà stato e condizione. Differentissima è
dunque la ragione prodotta e rifiutata poi dal Kepplero; il quale, come persona
conosciuta da me sempre per non men libera e sincera che intelligente e dotta,
son sicuro che ei confesserebbe, il nostro detto essere in tutto diverso dal
suo, e che come il suo meritò il rifiuto, questo merita l'assenso,
perché è vero e dimostrativo, ben che il Sarsi s'ingegni di confutarlo.
Ma sentiamo la forza delle sue
confutazioni. “Sed videamus iam, an ex refractione, quod
Galilæus asserit, huius caudæ curvitas oriri potuerit. Neque enim
eas leges illa servasse videtur, quas eidem ipse præscribit; ut nimirum
quoties ad horizontem inclinaretur eidemque fere incederet parallela ac plures
verticales intersecaret, tunc solum curvaretur, ubi vero ad verticem nostrum
spectaret, illico dirigeretur: nam vix tribus quatuorve diebus suam illam
primam curvitatem servavit, idque sive horizonti proxima sive ab eodem remota;
postea vero declinare quidem visa est ab ea linea quæ per cometæ
caput a Sole recta duceretur, sed nullam curvitatem præ se tulit, cum
tamen sæpissime ductus illæ caudæ ad horizontem inclinatus
compareret. At si ita se res haberet ut Galilæus asserit, longe rectior
videri debuisset in ipso exortu, quam cum altius elevaretur. Sæpissime
enim ita ab horizonte ascendit, ut tota in eodem fere verticali existeret; in
ascensu vero ipso fiebat ad horizontem inclinatior, et plures verticales
intersecabat; ut ex globo ipso cognoscere quivis potest, si observet, exempli
gratia, in globo aliquo cælesti locum cometæ et ductum caudæ
respondentem diei 20 Decembris. Transibat enim tunc coma inter duas postremas
stellas caudæ Ursæ Maioris, ipsum vero cometæ caput distabat
ab Arcturo gradibus 25, minutis
Troppo inefficace maniera di confutare
una dimostrazion di prospettiva necessariamente concludente è questa del
Sarsi, mentr'egli vuole che altri la posponga a sue relazioni, le quali possono
essere alterate e francamente accommodate al suo bisogno; e perdonimi il Sarsi
se io ho tal sospetto, poi ch'egli stesso dà tanto frequentemente
occasione di sospender la credenza delle cose ch'ei produce. E qual fede si
deve prestare alle relazioni d'uno circa cose già passate e che niente
di loro più si ritrova né vede, mentre il medesimo, parlando di cose
permanenti, presenti, publiche e stampate, non s'astiene di riferirne delle
dieci le nove alterate diversificate ed in somma trasformate in senso
contrario? Io torno a dire che la dimostrazione scritta dal signor Mario
è pura, geometrica, perfetta e necessaria; questa doveva il Sarsi
procurar prima d'intendere perfettamente, e poi, non gli parendo concludente,
mostrar la sua fallacia o nella falsità degli assunti o nel progresso
della dimostrazione: del che egli non ha fatto niente o pochissimo. La nostra
dimostrazione prova che l'oggetto veduto, essendo disteso per linea retta e
costituito fuori della sfera vaporosa, vicino ed inclinato all'orizonte,
necessariamente si dimostra incurvato all'occhio posto lontano dal centro di
essa sfera vaporosa; ma se quello sarà eretto all'orizonte o molto sopra
quello elevato, del tutto diritto o insensibilmente incurvato ci si
rappresenterà. La presente cometa per quei primi giorni che si vide
bassa ed inclinata, si vide anco incurvata; fatta poi sublime, restò
diritta, e tale si mantenne, perché sempre s'andò dimostrando in grande
elevazione: la cometa del 77, la qual io continuamente vidi, perché sempre si
mantenne bassa e molto inclinata, sempre si vide incurvata notabilmente: altre
minori, che io ho viste altissime, sempre sono state dirittissime: sì
che l'effetto si troverà conformarsi colla conclusione dimostrata,
qualunque volta d'esso si abbiano veridiche relazioni. Ma sentiamo quanto il
Sarsi oppone alla nostra dimostrazione, e di quanto momento siano le sue
instanze.
“Præterea non video,
qui fieri possit ut adeo secure asseveret Galilæus, vaporosam regionem
ipsi Terræ sphærice circumfundi; cum tamen ipse huiusmodi vapores
altius alicubi elevari quam alibi, constantissime doceat, dum suam de motu
recto sententiam astruere nititur. Immo vero cometas ipsos non aliunde quam ex
his ipsis vaporibus, Terræ umbrosum conum prætergressis, formatos
dictitat. Quid ergo, si hic, vapor a Terræ superficie tribus absit
passuum millibus, ibi vero ultra mille leucas protendatur, an sic etiam
sphæræ figuram servabit vaporosa isthæc regio? Certe qui ad
hanc diem sphæræ rudimenta tradiderunt, ii mediam aëris partem,
quæ maxime vaporibus constat (si quam tamen illa certam figuram servat),
sphæroidalem potius seu ovalem esse, quam rotundam, docent, cum in iis
partibus, quæ polis subiectæ sunt, vapores minus a Sole solvantur,
eleventurque proinde altius, quam in iis quæ æquinoctiali circulo
et torridæ zonæ subiacent, ubi a calore finitimi Solis facillime
dissolvuntur. Si ergo vaporosa hæc regio sphærica non est, nec
æquis ubique intervallis a Terra removetur, neque æqualem in
omnibus partibus crassitiem et densitatem servat, caudæ curvitas ex
eiusdem regionis rotunditate, quæ nusquam est, existere nunquam poterit.
Atque hæc de Galilæi
sententia, in iis quæ cometam immediate spectant, dicta sint. Plura enim
dici vetat ipsemet, qui, in bene longa disputatione, quid sentiret paucis
admodum atque involutis verbis exposuit, nobisque plura in illum afferendi
locum præclusit. Qui enim refelleremus quæ ipse nec protulit, neque
nos divinare potuimus? Ad reliqua nunc accedamus.”
Alla dimostrazione, come V. S.
Illustrissima vede, viene opposto dal Sarsi l'essere ella fabbricata sopra un
fondamento falso, cioè che la superficie della region vaporosa sia
sferica, la quale egli in diverse maniere prova essere altrimenti. E prima,
egli dice che noi stessi constantissimamente affermiamo, tali vapori elevarsi
più in un luogo che in un altro. Ma tal proposizione non si trova
altrimenti nel libro del signor Mario: v'è ben, che in alcun tempo
è accaduto che alcuni vapori si innalzino più del consueto, ma
ciò di rado e per brevissimo tempo; onde, per tal rispetto, il dire che
la figura della region vaporosa non sia rotonda, è detto arbitrario del
Sarsi. Il qual soggiunge, appresso, l'altra falsità, cioè che noi
abbiam detto che la cometa si formi di quelli stessi vapori che, sormontando il
cono dell'ombra, formano quella boreale aurora; cosa che non si trova nel libro
del signor Mario. Aggiunge nel terzo luogo e dice: “Se cotal vapore in un luogo
s'elevasse tre miglia, ed in un altro mille leghe, domin'se anco in questo modo
riterrebbe la figura sferica?” Signor no, signor Sarsi, e chi dicesse tal cosa
sarebbe, per mio avviso, un gran balordo; ma io non trovo niuno che l'abbia mai
né detta, né, credo, pur sognata. Nominate voi l'autore. A quello ch'ei mette
nel quarto luogo, cioè che quelli che insegnano i primi abbozzamenti
della sfera, insegnano la figura di tal region vaporosa esser più tosto
ovale che rotonda, rispondo che il Sarsi non si meravigli s'egli ha saputa
questa cosa, ed io no; perché la verità è che io non ho imparato
astronomia da questi maestri delle prime bozze, ma da Tolomeo, il quale non mi
sovviene che scriva questa conclusione. Ma finalmente, quando fosse vero e
certo, cotal figura essere ovale, e non rotonda, che ne cavereste, signor
Lottario? niente altro se non che la chioma della cometa non fusse piegata in
arco di cerchio, ma di linea ovale; la qual cosa, senza un minimo pregiudicio
della nostra intenzione e del nostro metodo per dimostrar la causa di tale
apparente curvatura, io vi posso concedere, ma non già quello che ne
vorreste dedur voi, mentre concludete così: “Se dunque questa region
vaporosa non è sferica, né per tutto egualmente lontana dalla Terra, né
in tutte le parti egualmente grossa (proposizione replicata tre volte con
diverse parole, per ispaventare i sempliciotti), la curvità della chioma
non può derivar da cotal rotondità, la quale non è al
mondo”. Non ne segue, dico, in buona logica questa conclusione, ma il
più che ne possa seguire è che tal curvità non è
parte di cerchio, ma di linea ovale e questo sarebbe il vostro infelice e
miserabil guadagno, quando voi poteste aver per sicurissimo, la region vaporosa
essere ovata, e non isferica. Se poi in fatto tal piegatura sia in figura
d'arco di cerchio, o d'ellisse, o di linea parabolica, o iperbolica, o spirale,
o altre, non credo ch'alcuno possa in verun modo determinare, essendo le
differenze di cotali inclinazioni, in un arco di due o tre gradi al più,
del tutto impercettibili.
Mi restano da considerare l'ultime
parole, dalle quali vo raccogliendo misticamente varie conseguenze e vani sensi
interni del Sarsi. E prima, assai apertamente si comprende ch'egli si messe
intorno alla scrittura del signor Mario non con animo indifferente circa il
notarla o lodarla, ma con ferma risoluzione di tassarla ed impugnarla (come
notai anco da principio); che però si scusa di non le aver fatto
più numerose opposizioni, dicendo: “E come potev'io confutare le cose
ch'ei non ha profferite e ch'io non ho potute indovinare?”, se ben la
verità è tutta all'opposito, cioè ch'ei non ha impugnato
altre cose, per lo più, che le non profferite dal signor Mario e ch'egli
s'è messo per indovinarle. Dice insieme, che il signor Mario ha scritto
con parole oscure ed inviluppate, e che in una ben lunga disputazione non si
comprende qual sia stato il suo senso. A questo gli rispondo che il signor
Mario ha avuta diversa intenzione da quella del Maestro del Sarsi. Questo, come
si raccoglie dal principio della scrittura del Sarsi, scrisse al vulgo, e per
insegnargli con suoi responsi quello che per se stesso non avrebbe potuto
penetrare; ma il signor Mario scrisse a i più dotti di noi, e non per
insegnare, ma per imparare, e però sempre dubitativamente propose, e non
mai magistralmente determinò, ma si rimise alle determinazioni de'
più intelligenti: e se la nostra scrittura pareva così oscura al Sarsi,
doveva, prima che censurarla, farsela dichiarare, e non mettersi a contradire a
quello ch'ei non intendeva, con pericolo di restarne a bocca rotta. Ma s'io
devo dir liberamente il mio parere, non credo veramente che il Sarsi trapassi
senza impugnare la maggior parte delle cose scritte dal signor Mario perch'ei
non l'abbia benissimo capite, ma sì bene perché, per l'opposito, elle
sien troppo apertamente chiare e vere, e ch'egli abbia stimato miglior
consiglio il dire di non l'intendere, che contro a suo gusto prestar loro
applauso e lode.
Vengo ora al terzo essame, dove il
Sarsi in quattro proposizioni, spezzatamente cavate di più di 100 che ne
sono nel Discorso del signor Mario, si sforza di farci apparire poco
intelligenti: l'altre tutte, assai più principali di queste, le chiude
egli sotto silenzio, e queste, o con aggiungervi o con levarne o con torcerle
in altro senso da quello in che son profferite, le va accommodando al suo
dente.
Vegga ora V. S. Illustrissima.
“Antequam ad nonnullas Galilæi propositiones accuratius expendendas, quod
nunc molior, accedam, illud testatum omnibus velim, nihil hic minus velle me
quam pro Aristotelis placitis decertare: sint ne vera an falsa magni illius
viri dicta, nil moror in præsentia; illud unum interim ago, ut ostendam,
admotas a Galilæo machinas minus firmas ac validas fuisse, ictus irritos
cecidisse, atque, ut apertissime dicam, præcipuas propositiones quibus,
veluti fundamentis, universa disputationis ipsius moles innititur, nonnullam
fortasse veritatis speciem præseferre, illas vero si quis diligentius
introspexerit, falsas, ut arbitror, deprehensurum.
Dum igitur is Aristotelis sententiam
refutare conatur, illud inter cætera habet, ad cæli lunaris motum
circumferri aërem non posse; ex quo postea consequitur, neque per hunc motum
accendi, quod inde deducebat Aristoteles. "Cum enim, inquit
Galilæus, cælestibus corporibus figura perfectissima debeatur,
dicendum erit, concavam huius cæli superficiem sphæricam esse ac
politam, nullamque admittere asperitatem: politis autem lævibusque
corporibus neque aër neque ignis adhærescit; quare hæc neque ad
motum illorum movebuntur." Quæ omnia probat argumento ab experientia
ducto. "Si enim, inquit, circa suum centrum circumagatur vas aliquod
hemisphæricum, politum ac nullius asperitatis, inclusus aër ad eius motum
non movebitur; quod persuadet accensa candela internæ superficiei vasis
proxime admota, cuius flamma nullam in partem ad vasis motum se se convertet;
at si aër ad motum vasis raperetur, secum etiam flammam illam traheret."
Hactenus Galilæus. In his porro quædam reperias quæ tamquam
certa assumuntur, et certa non sunt; alia vero quæ etiam pro certis
habentur, et falsa comprobantur.
Primum enim, dictum illud quo asserit,
concavo lunari sphæricam et politam figuram deberi, si quis negarit, qua
via quave ratione contrarium evincet? Nam si lævitas atque rotunditas
cælestibus corporibus debetur, ideo debetur maxime, ne eorumdem motus
impediatur. Si enim superficies secundum quas sese contingunt orbes illi,
asperitatem aliquam admitterent, asperitas hæc procul dubio remoraretur
eorum motum. Præterea, extima summi cæli superficies ideo
rotunditatem requirit, ex Aristotele, ne si forte angulis constet, ad eius
motum vacuum existat. Hæc autem omnia nullam prorsus vim habent in re
nostra. Si enim concava hæc lunaris cæli superficies nec rotunda
nec lævis sit, sed aspera et tuberosa, nihil absurdi consequitur, cum
eius motui obsistere non possit corpus illi proximum, sive aër sive ignis sit,
neque vacuum ullum sequatur, succedente semper uno corpore in alterius locum.
Præterea, si hæc asperitas admittatur, longe melius servatur
corporum omnium mobilium nexus: sic enim ad motum cæli moventur superiora
elementa, ex quorum motu multa gigni, multa destrui, quotidie videmus. Veram,
dum Galilæus nobilissimis corporibus rotundam flguram deberi asserit,
numquid homines, cælo longe nobiliores, idcirco teretes atque rotundos
optabit? Quos tamen quadratos, ex sapientum oraculis, malumus. Dixerim igitur potius,
eam cuique figuram tribuendam, quæ ad eiusdem finem consequendum sit
aptissima. Ex quo non immerito aliquis sic inferat: Cum ergo Lunæ
concavum inferiora hæc sublimioribus illis orbibus nectere quodammodo ac
colligare debeat, asperum potius ac tenax, quam politum ac læve,
fabricandum fuit.”
Qui, senza passar più oltre, si
ritrovano le solite arti del Sarsi. E prima, non si trova nella scrittura del
signor Mario che noi abbiamo detto mai che a i corpi lisci e puliti né l'aria
né il fuoco aderiscano e s'attacchino: il Sarsi ci impone questo falso di suo
capriccio, per farsi strada a poter dir, poco di sotto, di certa piastra di
vetro. Di più, finge il Sarsi di non s'accorgere che il dir noi che 'l
concavo della Luna sia di superficie perfettissimamente sferica tersa e pulita,
non è perché tale sia la nostra opinione, ma perché così vuole
Aristotile ed i suoi seguaci, contro al quale noi argomentiamo ad hominem:
e fingendo di trovar nel libro del signor Mario quello che non v'è,
simula di non vedere quello che più volte e molto apertamente v'è
scritto, cioè che noi non ammettiamo quella sin qui ricevuta
moltiplicità d'orbi solidi, ma che stimiamo diffondersi per gl'immensi
campi dell'universo una sottilissima sostanza eterea, per la quale i corpi
solidi mondani vadano con lor proprii movimenti vagando. Ma che dico? pur ora
mi sovviene ch'egli aveva ciò veduto e notato di sopra, a car. 34,
dov'egli scrive: “Cum enim nulli Galilæo sint cælestes
Ptolemæi orbes, nihilque, ex eiusdem Galilæi systemate, in
cœlo solidi inveniatur.” Qui, signor Sarsi, non potete voi mai nasconder
di non avere internamente compreso, che il dir noi che il concavo lunare
è perfettamente sferico e liscio, sia detto non perché tale lo crediamo,
ma perché tale lo stimò Aristotile, contro al quale ad hominem noi
disputiamo; perché se voi creduto aveste, ciò essere stato detto di
propria nostra sentenza, non ci avereste mai perdonata una tanta
contradizzione, di negare in tutto le distinzioni degli orbi e la
solidità, e poi ammettere l'una e l'altra: errore di molto maggior
considerazione, che tutte l'altre vostre note prese insieme. Vanissimo, dunque,
è tutto il restante del vostro progresso, dove voi v'andate ingegnando
di provare, il concavo lunare dover più tosto esser sinuoso ed aspro, che
liscio e terso: è, dico, vano, né m'obliga a veruna risposta. Tuttavia
voglio che (come dice il gran Poeta)
Tra noi per gentilezza si contenda,
e considerar quanta sia l'energia delle
vostre prove.
Voi dite, signor Sarsi: “Se alcuno
negasse che la concava superficie lunare sia liscia e tersa, in qual
modo o con qual ragione si proverebbe in contrario?” Soggiungete poi, come per
prova prodotta dall'avversario, un discorso fabbricato a vostro modo e di
facile discioglimento. Ma se l'avversario vi rispondesse, e dicesse: “Signor
Lottario, posto che gli orbi celesti sieno di materia solida e
distinta da quella che dentro al concavo lunare è contenuta, vi dico
asseverantemente, doversi di necessità dire, tal superficie concava esser
pulita e tersa più di qualsivoglia specchio: imperocché quando ella
fusse sinuosa, le refrazzioni delle specie visibili delle stelle, nel venire a
noi, farebbono continuamente un'infinità di stravaganze, come accade a
punto nel riguardar noi gli oggetti esterni per una finestra vetriata, nella
quale sieno vetri altri spianati e puliti, ed altri non lavorati; ché, o perché
gli oggetti si muovano, o perché noi moviamo la vista, le specie loro mentre
passano per li vetri ben lisci niuna alterazione ricevono, né quanto al sito né
quanto alla figura, ma nel passar per li vetri non lavorati non si può
dir quali e quanto stravaganti sieno le mutazioni; e così appunto quando
il concavo lunare fosse sinuoso, mirabil cosa sarebbe il veder con quante
trasformazioni di figure, di movimenti e di situazioni le stelle erranti e
fisse di momento in momento ci si mostrerebbono, secondo che or per una or per
un'altra parte del sottoposto orbe lunare passassero a noi le loro specie; ma
niuna cotal difformità si scorge; adunque il concavo è
tersissimo”; a questo che direte, signor Sarsi? Bisogna che v'affatichiate in
persuader che tal discorso non vi giunga nuovo, e che l'avete trapassato come
superfluo, e finalmente che non sia mio, ma d'altri, e già dismesso come
rancido e muffo, e ch'in ultimo l'atterriate. Sia, dunque, questa la mia
ragione per provare, il concavo lunare esser liscio, e non sinuoso. Sentiamo
ora quella che producete voi per prova del contrario, e ricordiamoci che noi
siamo in contesa degli elementi superiori, se sieno rapiti in giro dal moto
celeste o no (ché tal è il vostro titolo della conclusione che voi
impugnate, cioè: “Aër et exhalatio ad motum cæli moveri non
possunt”), e ch'io ho detto di no, perché il concavo lunare è liscio, e
questo ho provato per l'uniformità delle refrazzioni. Voi, provando il
contrario, scrivete così: “Se si pone il concavo sinuoso, molto meglio
si conserva la connession di tutti i corpi mobili, perché così al moto
del cielo si muovono gli elementi superiori”. Ma, signor Lottario, questo
è quell'errore che i logici chiamorno petizion di principio, mentre che
voi pigliate per conceduto quello ch'è in questione e ch'io di
già nego, cioè che gli elementi superiori si muovano. Noi abbiam
quattro conclusioni, due mie e due vostre. Le mie sono: “Il concavo è
liscio”, e questa è la prima; la seconda è: “Però gli
elementi non son rapiti”. Che il concavo sia liscio, lo provo per le
refrazzioni delle stelle, e concludo benissimo. Le vostre sono, prima: “Il concavo
è aspro”; seconda: “Però rapisce gli elementi”. Provate poi che
il concavo sia aspro perché così, al moto di quello, vengon rapiti gli
elementi, e lasciate l'avversario nel medesimo stato di prima, senza niun
vostro guadagno, il qual né più né meno persisterà in dire che il
concavo non è aspro né rapisce gli elementi. Bisognava dunque, per
isfuggire il circolo, che voi aveste provata l'una delle due conclusioni per
altro mezo. Né mi diciate, avere a bastanza provata l'inegualità di
superficie mentre dite che così meglio si collegano le cose inferiori
colle superiori, perché per connetterle basta il semplice toccamento, e voi
stesso più a basso ammettete l'istessa aderenza ed unione quando bene il
concavo sia liscio, e non aspro, tal che frivolissima resterebbe cotal prova. Né
di più forza sarebbe l'altra, quando per avventura voi pretendeste
d'aver provato il ratto degli elementi superiori perché per cotal moto si fanno
quaggiù le generazioni e le corruzzioni, e forse perché per esso viene
spinto a basso il fuoco e l'aria superiore, che son pur fantasie fondate
appunto in aria; e tardi ci riscalderemmo se avessimo aspettare l'espulsione
del fuoco verso la Terra e massime che voi stesso adesso adesso direte ch'ei fa
forza all'in su, e che però spinge, e, spingendo, aggrava in certo modo
e più saldamente aderisce alla celeste superficie: pensieri e discorsi
appunto fanciulleschi, che or vogliono ed or rifiutano le medesime cose,
secondo che la sua puerile inconstanza loro detta.
Ma sentiamo con quali altri mezi nel
seguente secondo argomento e' provi l'istessa conclusione. “Sed quid ego
adversus Galilæum argumenta aliunde conquiro, quando ea ipse mihi abunde
suppeditat? Nihil apud illum verius, quam Lunam non asperam modo esse, sed,
alterius Telluris in modum, Alpes suas, Olympum, Caucasum suum habere, in
valles deprimi, in campos latissimos extendi, Lunæ certe montes in Luna
desiderari non posse. An non cæleste corpus ac nobilissimum est Luna?
Numquid non longe nobilius quam cælum ipsum, quo veluti curru vehitur, quod
veluti domum inhabitat? Cur igitur Luna tornata non est, sed aspera ac
tuberosa? Stellæ ipsæ an non, Galilæo teste, figura varia
atque angulari constarit? Quid autem inter sublimes substantias nobilius? Addo
etiam, ne Solem quidem, si aspectui credas, hanc adeo nobilem figuram sortitum;
dum in illo faculæ quædam conspiciuntur reliquis longe partibus
clariores, quæ vel asperum, vel non æque undique lumine perfusum,
eumdem ostendunt. Quare si nihil hæc Galilæi ratio persuadet,
licetque in concavo lunari asperitatem admittere, nemo, arbitror, negabit, ad
eius motum ferri exhalationes atque aërem posse. Asperitatem autem hanc
admittendam non esse, non facile probabit Galilæus. Illud hoc loco
omittendum non est, quod in Epistola 3 ad Marcum Velserum ipse habet, hoc est, solares
maculas fumidos vapores esse, ad motum solaris corporis circumductos. Vel
igitur solare corpus politum est ac læve, et non poterit huiusmodi
vapores circumferre: vel asperum est et tuberosum, atque ita nobilissimum inter
cælestia corpora neque sphæricum est nec politum. Præterea,
in Epistola 2 ad eumdem Marcum ait: "Solem circa suum centrum ad ambientis
motum rotari; corpus autem ambiens ipso etiam aëre longe tenuius esse
debet." Quare, si corpus solare solidum ad motum circumfusi corporis
rarissimi et tenuissimi movetur, non video cur postea cælum ipsum solidum
motu suo secum rapere non possit corpus inclusum quamvis tenuissimum, quale est
sphæra elementaris.”
E prima che più avanti io
proceda, torno a replicare al Sarsi, che non son io che voglia che il cielo,
come corpo nobilissimo, abbia ancora figura nobilissima, qual è la
sferica perfetta, ma l'istesso Aristotile, contro al quale si argomenta dal
signor Mario ad hominem: ed io, quanto a me, non avendo mai lette
le croniche e le nobiltà particolari delle figure, non so quali di esse
sieno più o men nobili, più o men perfette; ma credo che tutte
sieno antiche e nobili a un modo, o, per dir meglio, che quanto a loro non
sieno né nobili e perfette, né ignobili ed imperfette, se non in quanto per
murare credo che le quadre sien più perfette che le sferiche, ma per
ruzzolare o condurre i carri stimo più perfette le tonde che le
triangolari. Ma tornando al Sarsi, egli dice che da me gli vengon
abbondantemente somministrati argomenti per provar l'asprezza della concava
superficie del cielo, perché io stesso voglio che la Luna e gli altri pianeti
(corpi pur essi ancor celesti ed assai più dell'istesso cielo nobili e
perfetti) sieno di superficie montuosa, aspra ed ineguale; e se
questo è, perché non si deve dire tale inegualità ritrovarsi
ancora nella figura celeste? Qui può l'istesso Sarsi metter per risposta
quello ch'ei risponderebbe ad uno che gli volesse provare che il mare dovrebbe
esser tutto pieno di lische e di squamme, perché tali sono le balene, i tonni e
gli altri pesci che l'abitano.
All'interrogazione, ch'egli mi fa, per
qual cagione la Luna non è liscia e tersa, io gli rispondo che la Luna e
gli altri pianeti tutti, che, essendo per se stessi tenebrosi, risplendono
solamente per l'illuminazione del Sole, fu necessario che fussero di superficie
scabrosa, perché, quando fussero di superficie liscia e tersa come uno
specchio, niuna reflession di lume arriverebbe a noi, essi ci resterebbono del
tutto invisibili, ed in conseguenza del tutto nulle resterebbon l'azzioni loro
verso la Terra e scambievolmente tra di loro, ed in somma, essendo ciascheduno
anco per se stesso come nulla, per gli altri sarebbon del tutto come se non
fussero al mondo. All'incontro poi, quasi altrettanto disordine seguirebbe
quando i cieli fussero d'una sostanza solida e terminata da una superficie non
perfettissimamente pulita e tersa: imperocché (come di sopra ho pur detto),
mediante le refrazzioni continuamente perturbate in cotal sinuosa superficie,
né i movimenti de i pianeti, né le lor figure, né le proiezzioni de' lor raggi
verso noi, ed in conseguenza gli aspetti loro, altrimenti che confusissimi e
disregolati non si ritroverebbono. Eccovi, signor Sarsi, un'efficace ragione in
risposta del vostro quesito; in premio della quale cancellate di grazia dalla
vostra scrittura quelle parole dove voi dite che io ho scritto in molti luoghi
che le stelle son di figure varie ed angolari, ché sapete bene in coscienza che
questa è una bugia e ch'io non ho mai scritta cotal proposizione; ed il più
che voi potete avere inteso o letto, è che le stelle fisse sono di lume
così vivo e folgorante, che il lor piccolo corpicello non si può
scorgere distinto e circolato tra così splendenti raggi.
Quanto poi a quello che il Sarsi scrive
nel fine, del Sole e delle fumosità che in esso si generano e dissolvono
e del suo ambiente, io non ho mai risolutamente parlato se questo al moto di
quello o pur quello al moto di questo si raggirino, perché non lo so, e
potrebbe essere anco che né l'ambiente né il corpo solare fusser rapiti, ma che
d'ambedue fusse egualmente naturale quella conversione, per la quale son ben
sicuro, perché lo veggo, ch'esse macchie si raggirano in quattro settimane in
circa. Ma quando di ciò s'avesse anco perfetta scienza, non veggo quale
utilità ne arrecasse alla presente contesa, dove solamente ad hominem
ed argumentando ex suppositione, e fatte anco supposizioni
sicuramente false, in materie diversissime dal Sole e suo ambiente, si cerca se
il concavo lunare, duro e liscio, che tale non è al mondo, girandosi
(che pur è un'altra falsità), rapisce seco il fuoco, che forse
anch'esso non v'è. Aggiungasi l'altra dissimilitudine grandissima, la
quale il Sarsi dice di non saper vedere, anzi la stima una identità, e che
egualmente e coll'istessa naturalezza e facilità possa esser ch'un corpo
fluido contenuto dentro la concavità d'un solido sferico, il quale si
volga in giro, venga da quello rapito, come se il contenuto fusse una sfera
solida e l'ambiente un liquido; ch'è quasi l'istesso che se altri
credesse, che sì come al moto del fiume vien portata e rapita la nave,
così al moto della nave dovesse esser rapita l'acqua di uno stagno, il
che è falsissimo: perché, prima, quanto all'esperienza, noi veggiamo la
nave, ed anco mille navi che riempissero tutto il fiume, esser mosse al moto di
quello, ma all'incontro il corso d'una nave spinta da qualsivoglia
velocità non vien seguito da una minima particella d'acqua: la ragion
poi di questo non dovrebbe esser molto recondita; imperocché non si può
far forza alla superficie della nave, che non si faccia similmente a tutta la
macchina, le cui parti, essendo solide, cioè saldamente attaccate
insieme, non si possono separare o distrarre, sì che alcune cedano
all'impeto dell'ambiente esterno, e l'altre no; il che non avvien così
dell'acqua o di altro fluido, le cui parti, non avendo in sé tenacità o
aderenza appena sensibile, facilissimamente si separano e distraggono,
sì che quel sol velo sottilissimo d'acqua che tocca il corpo della nave
vien per avventura forzato ad ubidire al moto di quella, ma l'altre parti
più remote, abbandonando le più propinque, e queste le contigue,
in piccolissima lontananza dalla superficie si liberano del tutto dalla sua
forza ed imperio. Aggiungesi a questo, che l'impeto e la mobilità
impressa, assai più lungamente e gagliardamente si conserva ne i corpi
solidi e gravi, che ne i fluidi e leggieri: e così veggiamo in un gran
peso pendente da una corda, per molte ore conservarsi l'impeto e moto
communicatogli una volta sola; ed all'incontro, sia quanto si voglia agitata
l'aria rinchiusa in una stanza, non prima cessa l'impeto di quel che la
commoveva, ch'ella totalmente si quieta, né ritien punto l'agitazione. Quando,
dunque, l'ambiente e movente è liquido, e fa forza in un contenuto solido,
corpulento e grave, va imprimendo la mobilità in un soggetto atto nato a
ritenerla e conservarla lungo tempo; per lo che il secondo impulso sopravenente
trova il moto impresso di già dal primo, il terzo impulso trova l'impeto
conferito dal primo e dal secondo, il quarto sopragiunge alle operazioni del
primo, secondo e terzo, e così di mano in mano, onde il moto nel mobile
vien non pur conservato, ma augumentato ancora: ma quando il mobile sia
liquido, sottile e leggiero ed in conseguenza impotente a conservare il
movimento impresso, e che tanto è quello che s'imprime quanto quello che
si perde, il volergli imprimer velocità è opera vana, qual
sarebbe il volere empier il crivello delle Belide, che tanto versa quanto vi si
rinfonde. Or eccovi, signor Lottario, mostrato somma diversità
ritrovarsi tra queste due operazioni, che a voi parevano una cosa medesima.
Passiamo ora al terzo argomento. “Sed
demus Galilæo, orbis huius interiorem superficiem tornatam ac lævem
esse: nego, lævibus corporibus aërem non adhærescere.
Lamina certe vitrea B aquæ
imposita, quamvis lævissima sit, non minus quam si foret alterius
asperioris materiæ natabit, adhærensque illi aër aquam AC, circa
vitrum per vim sese attollentem, continebit, ne diffluat et laminam obruat. Cur
igitur inde non abscedit aër, dum descendentis aquæ pondere e vitrea
lamina truditur, sed hæret illi mordicus, nec, nisi maiori vi pulsus,
loco cedit? Præterea, si quis, lapideam forte tabulam politissimam
nactus, corpus aliud grave æque politum eidem imposuerit, postea vero
subiectam tabulam huc illuc trahat, impositum æque corpus quo voluerit
trahet; et tamen si pondus quo corpus illud tabulæ innititur auferas, id
huic non adhærebit. Tota igitur ratio quæ ad tabulæ motum
corpus etiam impositum moveri cogit, ex illa compressione oritur, qua grave
illud tabulam subiectam premit. Iam, sicuti ex eo quod alterum horum corporum
ab altero premitur, ad eius motum hoc etiam moveri necesse est, ita assero,
concavum Lunæ quodammodo premi ab aëre sive exhalationibus inclusis, si
quando eas rarefieri contigerit, quod semper contingit: dum enim rarefiunt,
prioris loci angustiis contemptis, ampliori extenduntur spatio, atque ambientium
corporum, ac proinde cæli ipsius, partes omnes, si qua obstent
rarefactioni, quantum in ipsis est, premunt; ac propterea non mirum, si ex
compressione adhæsio aliqua consequatur, quæ duo hæc corpora
veluti connectat et colliget, ita ut ad eumdem postea motum utrumque moveatur.”
Continua il Sarsi in questa sua
fantasia, di voler pur ch'io abbia detto che l'aria non aderisca a i corpi
lisci e tersi: cosa che non si trova scritta né da me né dal signor Mario. In
oltre, io non ben capisco che cosa intenda egli per questa sua aderenza. S'egli
intende una copula che resista al separarsi del tutto e spiccarsi l'una
dall'altra superficie, sì che più non si tocchino, io dico tal
aderenza esservi, ed esservi, grandissima, sì che la superficie,
verbigrazia, dell'acqua non si staccherà da quella d'una falda di rame o
di altra materia se non con un'immensa violenza, né in questo caso importa se
tal superficie sia o non sia pulita e liscia, e basta solo un esquisito
contatto; il qual tien tanto saldamente uniti i corpi, che forse le parti de'
corpi solidi e duri non ànno altro glutine di questo, che le tenga
attaccate insieme: ma questa aderenza non serve punto al bisogno del Sarsi. Ma
s'egli intende una congiunzion tale, che le due superficie, dico quella del solido
e quella dell'umido, non possano, né anco strisciandosi insieme, muoversi l'una
contro all'altra, che sarebbe secondo il bisogno suo, dico cotale aderenza non
v'essere non solo tra un solido e un liquido, ma né anco tra due solidi: e
così vederemo in due marmi ben piani e lisci la prima aderenza esser
tanta, che alzandone uno, l'altro lo segue, ma la seconda esser così
debole, che se le superficie toccantisi non saranno ben bene equidistanti
all'orizonte, ma un sol capello inclinate, subito il marmo inferiore
sdrucciolerà verso la parte inclinata; ed in somma al muover l'una
superficie sopra l'altra non si troverà resistenza, ben che grandissima
si senta nel volerle staccare e separare. E così il toccamento
dell'acqua colla barca ben che facesse grandissima resistenza a chi volesse
staccare e separar l'una dall'altra superficie, nondimeno minima è la
resistenza che si sente nel muoversi l'una superficie sopra l'altra, fregandosi
insieme; e come di sopra ho detto ancora, la nave mossa velocissimamente non
conduce seco altro che quel velo d'acqua che la tocca, anzi forse di questo
ancora si va ella continuamente spogliando e rivestendone altro ed altro
successivamente: e so che il Sarsi mi concederà, che ponendosi in mare
una nave bagnata con vino o con inchiostro, ella non averà a pena
solcate l'onde per mezo miglio, che non gli resterà più vestigio
del primo licore che la circondava; il che si può creder con gran
ragione che accaggia parimente dell'acqua che la tocca, cioè che
continuamente si vada mutando: e senz'altro, il sevo con che ella si spalma,
ancor che assai tenacemente vi sia attaccato, pure in breve tempo vien portato
via dall'acqua che nel suo corso le va strisciando sopra; il che non avverrebbe
se l'acqua che tocca la nave restasse l'istessa continuamente senza mutarsi.
Quanto alla piastra di vetro che resta
a galla tra gli arginetti dell'acqua, io dico che detti arginetti non si
sostengono perché l'aderenza dell'aria colla piastra non lasci scorrer l'acqua
sopra la piastra; perché se questo fusse, dovrebbe seguir l'istesso quando si
ponesse nell'acqua la medesima falda alquanto umida, ché non è credibile
che l'aria aderisca meno a una superficie umida che a una asciutta; tuttavia
noi veggiamo che quando la piastra è umida, non si formano argini, ma
subito scorre l'acqua. Del sostenersi, dunque, detti argini altra ne è
la cagione che l'aderenza dell'aria alla superficie d'essa falda: e noi
veggiamo frequentissimamente gran pezzi d'acqua sostenersi in particolare sopra
le foglie de i cavoli e d'altre erbe ancora, in figure colme e rilevate, in
maggiore altezza assai che quella degli arginetti che circondano la falda
notante.
All'ultima prova, dov'ei vuole che il
premere o aggravare, senz'altra aderenza, sia mezo bastante a far ch'un corpo
segua l'altro, com'egli essemplifica di due tavole di pietra ben liscie poste
l'una sopra l'altra, delle quali la superiore e premente segue il moto
dell'inferiore che venga tirata verso qualche parte, io concedo l'esperienza,
ma non veggo ch'ella abbia che far nel caso nostro: prima, perché noi trattiamo
d'un corpo liquido e sottile, le cui parti non ànno tal connessione
insieme, che al moto d'una si debba muovere il tutto, come accade in un corpo
solido; secondariamente, il Sarsi troppo languidamente prova che 'l fuoco,
l'aria e l'essalazioni contenute dentro al concavo lunare facciano impeto e
gravino sopra la superficie d'esso concavo, mentr'egli introduce, come causa di
questa compressione, una continua rarefazzion d'esse sostanze, le quali
dilatandosi, e perciò ricercando sempre spazii maggiori, fanno forza
contro al loro contenente e così vengono in certo modo ad attaccarsegli,
sì che poi seguono il movimento suo. Languidissimo veramente è
cotal discorso, perché dove il Sarsi risolutamente afferma che le sostanze
contenute si vanno continuamente rarefacendo e dilatando, l'avversario con non
minor ragione (dico non minore, perché il Sarsi non ne adduce
niuna) dirà ch'elle si vanno continuamente condensando e ristringendo.
Ma dato anco ch'elle si vadano pur continuamente rarefacendo e che per tale
rarefazzione nasca l'attaccamento al concavo e finalmente il rapimento, si
può credere che cento e mille anni fa, quando la rarefazzione non era a
gran segno al termine d'oggidì (ché così bisogna in dottrina del
Sarsi), il rapimento non ci fusse, mancando la causa del farsi. Anzi niuna
ragione mi può ritenere ch'io non dica al Sarsi che questa sua
rarefazzione, che continuamente si va facendo, non è ancora giunta a
grado di far violenza e premer sopra il concavo della Luna, ma che ben potrebbe
giungervi tra due o tre anni; al qual tempo io concedo che la sfera degli
elementi superiori comincerà a muoversi, ma in tanto conceda esso a me
che sino al dì d'oggi non si sia mossa. Io non vorrei che il Sarsi, se
per avventura sentisse queste ed altre simili risposte veramente ridicole, si
mettesse a ridere, poi ch'egli è che ne dà occasione di produrle
tali col lasciarsi scappar dalla mente, e poi dalla penna, che alcune sostanze
materiali si vadano rarefacendo e dilatando in perpetuo. Ma io voglio aiutare
il medesimo Sarsi ed insegnarli un punto nella causa sua, dicendogli che questa
rarefazzione eterna e pressione contro al concavo della Luna è
superflua, tuttavolta ch'ei possa mostrar che l'aria vien rapita dal catino, sopra
il quale ella non preme e non grava punto, essendo egli posto nella medesima
region dell'aria.
“Sed videamus nunc quam verum sit
experimentum illud, cui maxime Galilæi sententia innititur. "Si
catinum, inquit, circa centrum axemque suum moveatur, aër inclusus minime
sequax, sed restitans, nulla sui parte circumagetur." Audieram iam olim a
nonnullis, qui Galilæo familiariter usi fuerant, idem illum affirmare
solitum de aqua eodem catino contenta; videlicet, ne illam quidem ad vasis
motum circumferri. Argumento erat, quia si consistenti in eo aquæ leve
aliquod corpus et natans, festucam scilicet aliquam aut calamum, imposuisses,
superficiei catini proximum, mox, cum vas ipsum circumduceretur, eodem calamus
semper loco perstabat. Ex quibus aliisque experimentis, scio aliquos ingenium
Galilæi commendasse plurimum, qui ex rebus levissimis, atque ob oculos
positis, facilitate mirabili in rerum difficillimarum cognitionem homines
manuduceret. Neque ego in universum hanc ei laudem imminutam volo: quod autem ad
rem præsentem attinet, utrumque experimentum (parcat mihi vera narranti
Galilæus) falsum omnino comperi.
Nempe ille semel aut iterum, credo, catinum
circumducebat; sic enim nullus percipitur aquæ motus: at si ulterius
movere pergat, tunc enimvero intelliget, moveatur ne aqua ad catini motum, an
vero resistat. Calamus enim aut palæ eidem aquæ impositæ, si
non multum a catini superficie abfuerint, citissime circumferentur, nec, licet
catinum quieverit, illæ moveri desinent, sed aquam cum insidentibus
corporibus, ex impetu concepto, per longum tempus, tardiori tamen semper
vertigine, circumagi comperies, Verum, ne quisquam incuriosæ nos ac
negligenter id expertos existimet, hemisphæricum vas I ex orichalco,
affabre torno excavatum, accepimus;
torno item curavimus duci axem CE catino ipsi iunctum, ita ut per eius centrum,
in modum sphærici axis, transiret, si produceretur; pedem autem
construximus firmum ac stabilem, ne facile vasis motu agitaretur, atque axem
per foramen E traductum, et fulcimento ima ex parte innixum, perpendiculariter
erectum statuimus: sic enim, manu axe in gyrum acto, catinum etiam eodem motu
ferri necesse erat. Verum non aqua solum ad vasis motum fertur, sed aër ipse,
ex quo maxime exemplum desumit Galilæus. Docet id flamma candelæ,
proxime superficiei vasis admota, quæ in eamdem partem, in quam vas
fertur, exigua sui corporis declinatione deflectit. Docet id longe clarius
serico filo tenuissimo suspensa e papyro lamella A, cuius latus alterum proximum
sit interiori vasis superficiei. Si enim tunc moveatur in unam partem catillum,
in eamdem quoque sese papyrus convertet; et si iterum in oppositam partem vas
reciproca revolutione volvatur, in eamdem cum adhærente aëre etiam
papyrum secum trahet.
Id porro a me non securius dici quam
verius, testes habeo nec paucos nec vulgares: Patres primum Romani Collegii
quamplurimos; ex aliis vero quotquot ex Magistro meo cognoscere id voluerunt;
voluerunt autem multi. Quos inter ille mihi silendus non est, cuius, non genere
magis quam eruditione singulari, clarissimum nomen sat mihi meisque rebus
luminis afferre ac dictis facere fidem possit; Virginium Cæsarinum
loquor, qui admiratus enimvero est, rem ad hanc diem inter multos
constantissime pro certa habitam, falsitatis unquam argui potuisse; et tamen
vidit factum, fieri quod posse negabant plerique.
Atque hæc quidem ab experientia
certa sunt; quæ tamen experientia si absit, doceat hæc quoque ratio
ipsa. Cum enim aër atque aqua de genere humidorum sint, quorum peculiare est
corporibus adhærescere, etiam politis et lævibus, fieri nunquam
poterit ut vasis superficiei non adhæreant: quod si hoc adhæsionis
vinculum admittatur, motum etiam eorumdem humidorum admitti necesse est. Primum
enim pars illa quæ vas contingit, ad vasis ductum movebitur, quippe
quæ adhæret vasi; deinde pars hæc mota aliam sibi
hærentem trahet; secunda hæc, tertiam: cumque motus hic fiat veluti
in spiram, non mirum si ad unam aut alteram catini circumductionem aquæ
motus non percipiatur, cum primæ huius spiralis partes valde
propinquæ sint ipsi superficiei vasis, ac proinde motus ad reliquas
interiores partes diffusus adhuc non sit, cum hæ aliquam patiantur
rarefactionem, et propterea non illico trahentis motum sequantur.
Neque miretur quisquam, in hisce
nostris experimentis exiguum adeo aëris motum esse, aquæ vero maximum.
Cum enim aër facilius et concrescat et rarescat quam aqua, ideo, quamquam ad
motum vasis aër eidem adhærens facillime moveatur, non tamen alium aërem
sibi proximum eadem facilitate trahit, cum hic a reliquis aëris consistentis
partibus maiori vi contineatur, et exigua sui vel concretione vel rarefactione
vim trahentis aëris eludere ad breve aliquod tempus possit. Si quis tamen apertius experiri cupiat, an corpus
sphæricum in orbem actum aërem secum trahat, hic globum A,
verbi gratia, suis innixum polis B et
C, manubrio D circumducat, appensa charta ex E filo tenuissimo, ita ut ipsum
fere globum contingat: dum enim sphæra in unam rotatur partem, in eamdem
charta F ab aëre commoto fertur, si præsertim globus satis amplus fuerit,
et celerrime circumductus.
Neque tamen ex eo, quod tum in catino
tum in sphæra parvum adeo aëris motum experiamur, recte quis inferat, in
concavo Lunæ eumdem motum fore perexiguum: ratio enim cur in sphæra
A et catino I circumductis non magnus aëris motus existat, ea inter
cæteras est, quia cum catinum et sphæra intra aërem posita sint
tota, dum eorum motu movendus est aër circumfusus, semper minus est id quod
movet quam quod movetur. Si enim, verbi gratia, ad motum sphæræ A
superficies ipsius BC movere debeat
sibi adhærentem aërem, circulo D expressum, cum hic maior sit quam
circulus BC, maius a minori movendum erit; atque idem accidet dum circulus D
trahere secum debet circulum E. At vero in concavo Lunæ, opposito plane
modo se res habet, curi semper maius sit id quod movet quam quod movetur. Si
enim sit Lunæ concavum circulus E, atque hic movere debeat circulum D, D
vero circulum BC, semper movens moto maius est, et propterea facilior motus.
Hoc autem quamquam apud me nullum plane
reliquerat dubitationi locum, libuit tamen modum aliquem excogitare, quo aërem
catino circumfusum, ab eo qui catino clauditur separarem, sperans haud dubium
fore, ut aër idem, qui segnius antea ferebatur quam aqua, pari postea
celeritate in gyrum ex catini circumductione raperetur. Quare laminam
perspicuam, ne aspectum impediret, e lapide Moscovitico, quem vulgo talcum
dicimus, orificio catini amplitudine parem, quam opportune catino ipsi postea
imponerem, paravi, in eiusdem parte media trium ferme digitorum foramine
relicto, quod tamen longe minus esse poterat;
filum deinde æreum EF accepi,
diametro catini aliquanto brevius, quod media parte I compressum ac perforatum,
traducto per foramen I filo IG, ex G suspendi ad libræ modum, adiecique
extremis E, F alas duas papyraceas; mox additis detractisque ex utraque parte
ponderibus, in æquilibrio filum æreum EF statui, ita ut fulcimentum
I sub catini centro consisteret, alæ vero quarta saltem digiti parte ab
eiusdem superficie distarent. Tunc vase circumacto animadverti, post alteram
evolutionem alas ac libram totam in gyrum moveri, et primo quidem lente, deinde
citatiori motu, qui tamen nondum motum aquæ æquabat: quare
superimposui laminam AB perspicuam, quam paraveram, ita ut aër catino contentus
a reliquo separaretur, vel solo foramine C eidem necteretur. Tunc enimvero ad
vasis motum ferri citius visa est libra F, ac brevi celeriter adeo agi cœpit,
ut catini ipsius motum, quamvis velocissimum, assequeretur: ut hinc videas,
quotiescumque movens moto maius fuerit, tunc longe faciliorem motum futurum;
imposito enim vasi operculo AB, tunc superficies interior catini et operculi
simul, ad cuius motum movendus est aër, maior est aëre proxime movendo; est
enim superficies illa continens, aër vero contentus.
Idem denique expertus sum, eventu pari,
in sphæra vitrea A, quantum fieri potuit, exactissima, summa tantum parte
C perforata ad laminam I inducendam. Eadem enim sphæra axi BD imposita,
axeque ipso circumacto, non sphæra solum A, sed et lamina I suspensa,
quamvis multum ab interiore superficie sphæræ distaret, celerrime
moveri visa est. Atque ita nulli aut industriæ aut labori parcendum duxi,
ut quamplurimis idem experimentis quam diligentissime comprobarem. Hæc
porro postrema experimenta videre iidem illi qui superius a me commemorati
sunt; ut necesse non habeam, eosdem iterum testari. Illud etiam adnotandum duxi,
æstivo nos tempore hæc omnia expertos fuisse, quo, ut calidior, ita
siccior aër existit, magisque proinde ad ignis naturam accedit; quem omnium
elementorum minime aptum adhæsioni existimat Galilæus. Ex quibus
omnibus illud saltem colligere licet, tum ad catini motum et aërem et aquam
moveri, tum lævibus etiam corporibus aërem adhærescere atque ad
eorum motum agi; quæ constanter adeo pernegavit Galilæus.”
Entra ora il Sarsi nel copiosissimo
apparato d'esperienze per confermare il suo detto e riprovare il nostro: le
quali, perché furon fatte alla presenza di V. S. Illustrissima, io me ne
rimetto a lei, come quello che più tosto devo aspettarne il suo giudicio
che interporvi il mio. Però, se le piacerà, potrà rilegger
quel che resta sino alla fine della proposizione; dov'io le anderò
solamente toccando alcuni particolari sopra varie cosette così alla
spezzata.
E prima, questo che il Sarsi cerca
d'attribuirmi nel primo ingresso delle sue esperienze, è falsissimo,
cioè ch'io abbia detto che l'acqua contenuta nel catino resti, non men
che l'aria, immobile al movimento in giro di esso vaso. Non però mi
meraviglio che l'abbia scritto, perché ad uno che continuamente va riferendo in
sensi contrari le cose scritte e stampate da altri, si può bene
ammettere ch'egli alteri quelle ch'ei dice d'aver solamente sentite dire; ma
non mi par già che resti del tutto dentro a' termini della buona creanza
il pubblicar colle stampe ciò ch'altri sente dire del prossimo, e tanto
più quando, o per non l'avere inteso bene o pur di propria elezzione, ei
si rapporta molto diverso da quello che fu detto, come di presente accade di
questo. Tocca a me, signor Sarsi, e non a voi o ad altri, lo stampar le cose
mie e farle pubbliche al mondo: e perché, quando (come pur talora accade)
alcuno nel corso del ragionar dicesse qualche vanità, deve esser chi
subito la registri e stampi, privandolo del beneficio del tempo e del potervi
pensar sopra meglio, e da per se stesso emendare il suo errore e mutare
opinione, ed in somma fare a suo talento del suo cervello e della sua penna?
Quello che può aver sentito dire il Sarsi, ma, per quanto veggo, non ben
capito, è certa esperienza ch'io mostrai ad alcuni letterati
costì in Roma, e forse fu in camera di V. S. Illustrissima stessa, parte
in dichiarazione e parte in confutazione d'un terzo moto attribuito dal
Copernico alla Terra. Pareva a molti cosa molto improbabile, e che perturbasse
tutto il sistema Copernicano, il terzo moto annuo ch'egli assegna al globo
terrestre intorno al proprio centro, al contrario di tutti gli altri movimenti
celesti, i quali col figurarsi fatti tutti, tanto quelli delli eccentrici
quanto quelli delli epicicli, ed il diurno e l'annuo d'essa Terra, nell'orbe
magno da ponente verso levante, questo solo dovesse nell'istessa Terra esser fatto
da oriente verso occidente, contro agli altri due propri e contro agli altri
tutti di tutti i pianeti. Io solevo levar questa difficoltà col mostrare
che tal accidente non solo non era improbabile, ma conforme alla natura e quasi
necessario; e che qualsivoglia corpo collocato e sostenuto liberamente in un
mezo tenue e liquido, se sarà portato per la circonferenza di un gran
cerchio, acquisterà spontaneamente una conversione in se medesimo, al
contrario dell'altro gran movimento: il qual effetto si vedeva pigliando noi in
mano un vaso pien di acqua e mettendo in esso una palla notante; perché,
stendendo noi il braccio e girando sopra i nostri piedi, subito veggiamo la
detta palla girare in se stessa al contrario e finir la sua conversione
nell'istesso tempo che noi finiamo la nostra: onde cessar doveva la meraviglia,
anzi meravigliarsi quando altrimenti accadesse, se essendo la Terra un corpo
pensile e sospeso in un mezo liquido e sottile, ed in esso portata per la
circonferenza d'un gran cerchio nello spazio d'un anno, ella non avesse di sua
natura e liberamente acquistata una conversione parimente annua in se medesima
al contrario dell'altra. E tanto dicevo per rimuover l'improbabilità
attribuita al sistema del Copernico: al che soggiungevo poi, che chi meglio
considerava, conosceva che falsamente veniva da esso Copernico attribuito un
terzo moto alla Terra, il quale non è altramente un muoversi, ma un non
si muovere ed una quiete; perch'è ben vero che a quello che tiene il
vaso apparisce muoversi, e rispetto a sé e rispetto al vaso, e girare in se
stessa la palla posta in acqua; ma la medesima palla paragonata colle mura
della stanza e colle cose esterne, non gira altrimenti né muta inclinazione, ma
qualunque suo punto che da principio riguardava verso un termine esterno
segnato nel muro o in altro luogo più lontano, sempre riguarda verso lo
stesso. E questo è quanto da me fu detto: cosa, come V. S. Illustrissima
vede, molto diversa dalla riferita dal Sarsi. Questa esperienza, e forse
qualch'altra, poté dare occasione a chi più volte si trovò
presente a nostri discorsi di dir di me quello che in questo luogo riferisce il
Sarsi, cioè che per certo mio natural talento solevo alcuna volta con
cose minime, facili e patenti, esplicarne altre assai difficili e recondite; la
qual lode il Sarsi non mi nega in tutto, ma, come si vede, in parte m'ammette:
la qual concessione io devo riconoscere dalla sua cortesia più che da
una interna e verace concessione, perché, per quanto io posso comprendere, egli
non è di quelli che così di leggiero si lascino persuadere dalle
mie facilità, poi ch'egli stesso, reputando che la scrittura del signor
Mario sia mia cosa, dice nel fine del precedente essame, quella esser stata
scritta con parole molto oscure, e tali ch'egli non ha potuto indovinare il
senso.
Già, come ho detto, quanto
all'esperienze me ne rimetto a V. S. Illustrissima, che le ha vedute, e solo,
incontro a tutte, ne replicherò una scritta di già dal signor
Mario nella sua lettera, dopo che averò fatto un poco di considerazione
sopra certa ragione che il Sarsi accoppia coll'esperienze: la qual ragione io
veramente pagherei gran cosa che fusse stata taciuta, per reputazion sua e del
suo Maestro ancora, quando vero fusse ch'egli fusse discepolo di chi egli si
fa. Oimè, signor Sarsi, e quali essorbitanze scrivete voi? Se non
v'è qualche grand'error di stampa, le vostre parole son queste: “Hinc
videas, quotiescunque movens moto maius fuerit, tunc longe faciliorem motum
futurum: imposito enim vasi operculo AB, tunc superficies interior catini et
operculi simul, ad cuius motum movendus est aër, maior est aëre proxime
movendo; est enim superficies illa continens, aër vero contentus”. Or
rispondetemi in grazia, signor Sarsi: questa superficie del catino e del suo
coperchio con chi la paragonate voi, colla superficie dell'aria contenuta o pur
coll'istessa aria, cioè col corpo aereo? Se colla superficie, è
falso che quella sia maggior di questa; anzi pur sono elleno egualissime, ché
così v'insegnerà l'assioma euclidiano, cioè che “Quæ
mutuo congruunt, sunt æqualia”. Ma se voi intendete di paragonar la
superficie contenente coll'istessa aria, come veramente suonan le vostre
parole, fate due errori troppo smisurati: prima, col paragonare insieme due
quantità di diversi generi, e però incomparabili, ché così
vuole una diffinizion d'Euclide: “Ratio est duarum magnitudinum eiusdem
generis”; e non sapete voi che chi dice “Questa superficie è maggior di
quel corpo” erra non men di quel che dicesse “La settimana è maggior d'una
torre” o “L'oro è più grave della nota cefautte”? L'altro errore
è, che quando mai si potesse far paragone tra una superficie ed un
solido, il negozio sarebbe tutto all'opposito di quello che scrivete voi,
perché non la superficie sarebbe maggior del solido, ma il solido più di
cento milioni di volte maggior di lei. Signor Sarsi, non vi lasciate persuadere
simili chimere, né anco la general proposizione che 'l contenente sia maggior
del contenuto, quando bene ambedue si prendessero di quantità
comparabili fra di loro; altrimenti bisognerà che voi crediate che,
d'una balla di lana, il guscio o invoglio sia maggior della lana che vi
è dentro, perché questa è contenuta e quello è il
contenente; e perché sono della medesima materia, bisognerà anco che il
sacco pesi più, essendo maggiore. Io fortemente dubito che voi abbiate
preso con qualche equivocazione un pronunciato che è verissimo quando
vien preso al suo diritto senso, il qual è che il contenente è
maggior del contenuto, tutta volta che per contenente si prenda il contenente
col contenuto insieme: e così un quadrato descritto intorno a un cerchio
è maggior di esso cerchio, pigliando tutto il quadrato; ma se voi
vorrete prender solo quello che avanza del quadrato, detrattone il cerchio,
questo non è altrimenti maggiore, ma minore assai d'esso cerchio, ancor
ch'ei lo circondi e racchiuda. Aimè, e non m'accorgo del fuggir
dell'ore? e vo logorando il mio tempo intorno a queste puerizie? Orsù,
contro a tutte l'esperienze del Sarsi potrà V. S. Illustrissima fare
accommodare il catino convertibile sopra il suo asse; e per certificarsi quello
che segua dell'aria contenutavi dentro, mentre quello velocemente va in giro,
pigli due candelette accese, ed una n'attacchi dentro all'istesso vaso, un dito
o due lontana dalla superficie, e l'altra ritenga in mano pur dentro al vaso,
in simil lontananza dalla medesima superficie; faccia poi con velocità
girar il vaso: ché se in alcun tempo l'aria anderà parimente con quello
in volta, senza alcun dubbio, movendosi il vaso l'aria contenuta e la candeletta
attaccata, tutto colla medesima velocità, la fiammella d'essa candela
non si piegherà punto, ma resterà come se il tutto fusse fermo
(ché così a punto avviene quando un corre con una lanterna, entrovi
racchiuso un lume acceso, il quale non si spegne, né pur si piega, avvenga che
l'aria ambiente va con la medesima prestezza; il qual effetto anco più
apertamente si vede nella nave che velocissimamente camini, nella quale i lumi
posti sotto coverta non fanno movimento alcuno, ma restano nel medesimo stato
che quando il navilio sta fermo); ma l'altra candeletta ferma darà segno
della circolazion dell'aria, che ferendo in lei la farà piegare: ma se
l'evento sarà al contrario, cioè se l'aria non seguirà il
moto del vaso, la candela ferma manterrà la sua fiammella diritta e
quieta, e l'altra, portata dall'impeto del vaso, urtando nell'aria quieta si
piegherà. Ora, nell'esperienze vedute da me è accaduto sempre che
la fiammella ferma è restata accesa e diritta, ma l'altra, attaccata al vaso,
si è sempre grandissimamente piegata e molte volte spenta: ed il
medesimo di sicuro vederà anco V. S. Illustrissima ed ogn'altro che
voglia farne prova. Giudichi ora quello che si deve dire che faccia l'aria.
Dall'esperienze del Sarsi il più
che se ne possa cavare è, ch'una sottilissima falda d'aria, alla
grossezza di un quarto di dito, contigua alla concavità del vaso, venga
portata in giro; e questa basta a mostrar tutti gli effetti scritti da lui, e
di questo ne può esser bastante cagione l'asprezza della superficie, o qualche
poco di cavità o prominenza più in un luogo ch'in un altro. Ma
finalmente, quando il concavo della Luna portasse seco un dito di
profondità dell'essalazioni contenute, che ne vuol fare il Sarsi? E non
creda che se il catino ne porta, verbigrazia, un mezo dito, che un vaso
maggiore ne abbia a portar più; perché io credo più tosto ch'ei
ne porterebbe manco: e così anco non credo che la somma velocità
colla quale detto concavo lunare passa tutto il cerchio, diciamo in 24 ore,
abbia a far più assai; anzi io mi voglio prendere ardir di dire, che mi
par quasi vedere per nebbia ch'ei non farebbe più, ma più tosto
manco, di quello che si faccia un catino che pure in ore 24 desse una
rivoluzione sola. Ma pongasi pure e concedasi al Sarsi che 'l concavo lunare rapisca
quanto si è detto dell'essalazion contenuta: che sarà poi? e che
ne seguirà in disfavor della principal causa che tratta il signor Mario?
sarà forse vero che per questo moto si abbia ad accender la materia
della cometa? o pur sarà vero ch'ella non si accenderà né
movendosi né non si movendo? Così cred'io: perché se il tutto sta fermo,
non s'ecciterà l'incendio, per lo quale Aristotile ricerca il moto; ma
se il tutto si muove, non vi sarà l'attrizione e lo stropicciamento,
senza il quale non si desta il calore, non che l'incendio. Or ecco, e dal Sarsi
e da me, fatto un gran dispendio di parole in cercar se la solida
concavità dell'orbe lunare, che non è al mondo, movendosi in
giro, la qual già mai non s'è mossa, rapisce seco l'elemento del
fuoco, che non sappiamo se vi sia, e per esso l'essalazioni, le quali
perciò s'accendano e dien fuoco alla materia della cometa, che non
sappiamo se sia in quel luogo e siamo certi che non è robba ch'abbruci.
E qui mi fa il Sarsi sovvenire del detto di quell'argutissimo Poeta:
Per la spada d'Orlando, che non
ànno
e forse non son anco per avere,
queste mazzate da ciechi si danno.
Ma è tempo che vegniamo alla
seconda proposizione; anzi pure, prima che vi passiamo, già che il Sarsi
replica nel fine di questa ch'io abbia constantemente negato che l'acqua si
muova al moto del vaso e che l'aria e gli altri corpi tenui aderiscano a' corpi
lisci, replichiamo noi ancora ch'ei non dice la verità, perché mai né il
signor Mario ned io abbiamo detta o scritta alcuna di queste cose, ma bene il
Sarsi, non trovando dove attaccarsi, si va fabbricando gli uncini da per se
stesso.
Passi ora V. S. Illustrissima alla
seconda proposizione. “Ait Aristoteles, motum causam esse caloris;
quam propositionem omnes ita explicant, non quasi motui tribuendus sit calor,
ut effectus proprius et per se (hic enim est acquisitio loci), sed quia, cum
per localem motum corpora atterantur, ex attritione autem calor excitetur,
mediate saltem motus caloris causa dicitur: neque est quod hac in re Aristotelem
reprehendat Galilæs, cum nihil ipse adhuc afferat ab eiusdem dictis
alienum. Dum vero ait præterea, non quamcumque attritionem satis esse ad
calorem producendum, sed illud etiam potissimum requiri, ut partes attritorum
corporum aliquæ per attritionem deperdantur; hic plane totus suus est,
nec quicquam ab alio mutuatur. Cur autem hæc partium consumptio ad
calorem producendum requiritur? An quod ad eumdem calorem concipiendum
rarescere corpora necesse sit, in omni vero rarefactione comminui eadem corpora
videantur ac minutissimæ quæque particulæ evolent? At
rarefieri corpora possunt, nulla facta partium separatione ac proinde neque
consumptione. An ideo hæc comminutio requiritur, ut prius particulæ
illæ, utpote calori concipiendo magis aptæ, calefiant, hæ
vero postea reliquo corpori calorem tribuant? Nequaquam: licet enim
particulæ illæ, quo minutiores fuerint, magis calori concipiendo
aptæ sint, ex quo fit ut sæpe ex attritione ferri excussus
pulvisculus in ignem abeat, illæ tamen, cum statim evolent aut decidant,
non poterunt reliquo corpori, cui non adhærent, calorem tribuere.”
Vuole il Sarsi nel primo ingresso di
questa disputa concordare il signor Mario ed Aristotile, e mostrar che ambedue
àn pronunziato l'istessa conclusione, mentre l'uno dice ch'il moto
è causa di calore, e l'altro, che non il moto, ma lo
stropicciamento gagliardo di due corpi duri; e perché la proposizione del
signor Mario è vera, né ha bisogno di chiose, il Sarsi interpreta
l'altra con dire, che se bene il moto, come moto, non è cagione del
caldo, ma l'attrizione, nulladimeno, non si facendo tale attrizione senza moto,
possiamo dire che almanco secondariamente il moto sia causa. Ma se tale fu la
sua intenzione, perché non disse Aristotile l'attrizione? io non so vedere
perché, potendo uno dir bene assolutamente con una semplicissinia e
propriissima parola, ei debba servirsi d'una impropria e bisognosa di
limitazioni ed in somma d'esser finalmente trasportata in un'altra molto
diversa. In oltre, posto che tale fusse il senso d'Aristotile, egli però
è differente da quello del signor Mario; perché ad Aristotile basta
qualunque confricazione di corpi, ben che tenui e sottili, e fino dell'aria
stessa; ma il signor Mario ricerca due corpi solidi, e stima che il volere
assottigliare e tritar l'aria sia maggior perdimento di tempo che quello di chi
vuole (com'è in proverbio) pestar l'acqua nel mortaio. Io non son fuor
d'opinione che possa esser che la proposizione sia verissima, presa anco nel
semplicissimo senso delle parole; e forse potrebbe esser ch'ella uscisse da
qualche buona scuola antica, ma che Aristotile, non avendo ben
penetrata la mente di quegli antichi che la profferirono, ne traesse poi un
sentimento falso: e forse non è questa sola proposizione vera in se
stessa, ma appresa in sentimento non vero nella filosofia peripatetica. Ma di
questo ne toccherò qualche cosa più a basso.
Ora seguitiamo il Sarsi, il quale
vuole, contro al detto del signor Mario, che senza verun consumamento de' corpi
che si stropicciano sin che si riscaldino, si possa eccitare il calore; il che
va provando prima con discorso, poi con esperienze. Ma quanto al discorso, io
posso sbrigarmi in una parola sola da tutte le sue instanze; poi che, facendo
egli alcune interrogazioni al signor Mario, egli stesso risponde per quello, e
poi confuta le risposte; tal che se io dirò che il signor Mario non
risponderà in quella guisa, bisogna che il Sarsi si quieti.
E veramente, quanto alla prima
risposta, io non credo che il signor Mario dicesse che, per riscaldarsi,
bisogni prima che i corpi si rarefacciano, e che rarefacendosi si sminuzzolino,
e che le parti più sottili volino via, come scrive il Sarsi: dalla qual
risposta mi par di comprendere ch'ei discordi dalla mente del signor Mario, e
che, convenendo in questa azzione considerare il corpo che ha da produrre il
calore e quello che l'ha da ricevere, il Sarsi stimi che il signor Mario
ricerchi la diminuzione e consumamento di parti nel corpo che ha da ricevere il
calore; ma io credo ch'ei voglia che quello che l'ha da produrre sia quello che
si diminuisce, sì che in somma non il ricevere, ma il conferir calore,
sia quel che fa la diminuzione nel conferente. Come poi si possano rarefare i
corpi senza alcuna separazion di parti, e come cammini questo negozio della
rarefazzione e condensazione, del quale mi par che con molta confidenza parli
il Sarsi, l'averei ben volentieri veduto più distintamente dichiarato,
essendo, appresso di me, una delle più recondite e difficili questioni
della natura.
È manifesto ancora che il signor
Mario non averebbe data la seconda risposta, cioè che tal consumamento
di parti sia necessario acciò che prima si riscaldino queste parti
più minute, come più atte per la lor sottigliezza a riscaldarsi,
e da esse poi venga riscaldato il resto del corpo; perché così la
diminuzione toccherebbe pure al corpo che ha da esser riscaldato, ed il signor
Mario la dà a quello che ha da riscaldare. Devesi però avvertire
che bene spesso accade, essere uno istesso corpo quello che produce il calore e
quello che lo riceve: e così martellandosi sopra un chiodo, le parti
sue, nel soffregarsi violentemente, eccitano il calore, e l'istesso chiodo
è quello che si riscalda. Ma quello che ho voluto sin qui dire è,
che il consumamento di parti depende dall'atto del produrre il calore, e non da
quello del riceverlo, come per avventura più distintamente mi
dichiarerò più di sotto. In tanto sentiamo l'esperienze onde il
Sarsi pensa d'aver palesato, potersi con l'attrizione produr calore senza
consumamento alcuno.
“Sed quando ab experientia
exempla petere libet, quid si, nulla partium deperditione, ex motu corpus
aliquod calefiat? Ego certe cum æris frustulum, onini prius extersa
rubigine ac situ, ne quis forte pulvisculus adhæreret, ad argentarii libram
perexiguam exactissimamque ponderibus minutissimis expendissem (cum etiam
quingentesimas duodecimas unius unciæ partes haberem), ac pondus
diligentissime observassem, validissimis mallei ictibus æs idem in
laminam extendi: id vero inter ictus et mallei verbera bis terque adeo
incaluit, ut manibus attrectari non posset. Cum igitur iam toties incaluisset,
experiri libuit eadem libra iisdemque ponderibus, num aliquod ponderis
dispendium iacturamque passum fuisset; et tamen iisdem plane momentis constare
comperi: incaluit igitur per attritionem æs illud, nullo partium suarum
detrimento; quod Galilæus negat. Audieram etiam aliquid simile librorum
compactoribus evenire, cum plicatas illas chartarum moles malleo diutissime ac
validissime tundunt: expertus enim est illorum non nemo, eodem postea illas
fuisse pondere quo fuerant prius, incalescere tamen easdem inter ictus maxime,
ac pene comburi. Quod si quis forte hoc loco asserat, deperdi quidem partes,
sed adeo minutas ut sub libræ, quamvis exiguæ, examen non cadant,
quæram ego ex illo, unde norit partes esse deperditas: neque enim video,
quonam alio id modo aptius ac diligentius inquiram. Deinde vero, si adeo exigua
est hæc partium iactura ut sensu percipi nequeat, cur tantum caloris
excitavit? Præterea, dum ferrum lima expolitur, calefit quidem, minus
tamen aut certe non plus quam cum malleo validissime tunditur; et tamen maior
longe partium deperditio ex limatura quam ex contusione existit.”
Che il Sarsi con isquisita bilancia non
abbia ritrovato diminuzion di peso in un pezzetto di rame battuto e riscaldato
più volte, glielo voglio credere; ma non già che per questo egli
non si sia diminuito, essendo che può benissimo accadere, quello esser
diminuito tanto poco, che a qualsivoglia bilancia resti cosa impercettibile. E
prima, io domando al Sarsi, se pesato un bottone d'argento, e poi doratolo e
tornato a pesarlo, ei crede che l'accrescimento fusse notabile e sensibile.
Bisogna dir di no, perché noi veggiamo l'oro ridursi a tanta sottigliezza, che
anco nell'aria quietissima si trattiene e lentissimamente cala a basso; e con
tali foglie può dorarsi alcun metallo. In oltre, questo medesimo bottone
verrà adoperato due o tre mesi, avanti che la doratura sia consumata; e
pur consumandosi finalmente, chiara cosa è che ogni giorno, anzi
ogn'ora, s'andava diminuendo. Di più, pigli una palla d'ambra, muschio
ed altre materie odorate: io dico che portandola addosso alcuno quindici
giorni, empirà d'odore mille stanze e mille strade, ed in somma ogni
luogo dov'egli capiterà, né questo si farà senza diminuzione di
quella materia, senza la quale indubitatamente non anderà l'odore; pure,
tornandosi in capo a tal tempo a ripesarla, non si troverà sensibil
diminuzione. Ecco, dunque, trovate al Sarsi diminuzioni insensibili di peso, fatte
per lo consumamento di mesi continui, ch'è altro tempo che un ottavo
d'ora, che dovette durare il suo martellare sopra il pezzetto di rame. E tanto
è più esquisita una bilancia da saggiatori, ch'una stadera
filosofica! Aggiungendo di più, che può molto bene essere che la
materia che, attenuata, produce il caldo, sia ancora assai più sottile
della sostanza odorifera, attento che questa si racchiude in vetri e metalli,
per li quali essa non traspira, ma non già quella del calore, che trapassa
per tutti i corpi.
Ma qui muove il Sarsi un'instanza, e
dice: “Se il cimento della bilancia non basta a mostrarci un così
piccolo consumamento, come potete voi averlo conosciuto?” L'obiezzione è
assai ingegnosa, ma non però tanto ch'un poco di logica naturale non avesse
avuto a mostrarne la soluzione: ed eccone il progresso. Dei corpi, signor
Sarsi, che si stropicciano insieme, alcuni sono che assolutamente e sicuramente
non si consumano punto, altri che grandemente e molto sensibilmente si
consumano, ed altri che si consumano bene, ma insensibilmente. Di quelli che
stropicciandosi non si consumano punto, quali sarebbon due specchi benissimo
lisci, il senso ci mostra che non si riscaldano; di quelli che si consumano
notabilmente, come un ferro nel limarsi, siamo sicuri che si riscaldano;
adunque di quelli che noi siamo dubbi se nel fregarsi si consumino o no, se
troveremo pel senso che si riscaldino, dobbiamo dire e credere che si consumino
ancora, e solo si potrà dire che non si consumino quelli che né anco si
riscaldano.
A quanto sin qui ho detto, voglio,
prima ch'io vada più avanti, aggiungere, per ammaestramento del Sarsi,
come il dire: “Questo corpo alla bilancia non è calato di peso, adunque
di lui non si è consumata parte alcuna” è discorso assai fallace,
potendo esser che se ne sia consumato e che il peso non solo non sia diminuito,
ma anco tal volta cresciuto; il che accaderà sempre che quello che si
consuma e rimuove, sia men grave in specie del mezo nel quale si pesa: e
così, per essempio, può accadere ch'un pezzo di legno, per avere
in sé molti nodi e per esser vicino alle radici, messo nell'acqua cali al fondo
e, verbigrazia, vi pesi quattr'once, e che limandone via, non del nocchioruto
né della radice, ma della parte più rara e che per se stessa è
men grave in ispecie dell'acqua, sì che in parte sosteneva tutta la
mole, può esser, dico, che il rimanente pesi più che prima nel
medesimo mezo; e così parimente può essere che nel limarsi o nel
fregarsi insieme due ferri o due sassi o due legni, si separi da loro qualche
particella di materia men grave dell'aria la quale, quando sola si rimovesse,
lascerebbe quel corpo più grave che prima. E che quanto io dico sia
detto con qualche probabilità, e non per una semplice fuga e ritirata,
lasciando la fatica all'avversario di riprovarla, faccia V. S. Illustrissima
diligente osservazione nel romper vetri o pietre o qualunque altre materie; ché
ella in ciascheduno spezzamento ne vederà uscire un fumo
manifestissimamente apparente, il quale per aria se ne ascende in alto: argomento
necessario dell'essere egli più leggieri di lei. Questo osservai io
prima nel vetro, mentre con una chiave o altro ferro l'andavo scantonando e
tondando, dove, oltre a i molti pezzetti che saltano via in diverse grandezze,
ma tutti cascano in terra, si vede un fumo sottile ascendente sempre; ed il
medesimo si vede accadere nel frangere in simil modo qualsivoglia pietra; e di
più, oltre a quello che ci manifesta la vista, l'odorato ci dà
argomento ed indizio molto chiaro che per avventura si partono, oltre al detto
fumo, altre parti più sottili, e perciò invisibili, sulfuree e
bituminose, le quali per tale odore che ci arrecano si fanno manifeste.
Or vegga il Sarsi quanto il suo
filosofare è superficiale e poco si profonda oltre alla scorza. Né si
persuada di poter venir con risposte di limitazioni, di distinzioni, di per
accidens, di per se, di mediate, di
primario, di secondario o d'altre chiacchiere, ch'io l'assicuro che in vece di
sostenere un errore ne commetterà cento più gravi, e
produrrà in campo sempre vanità maggiori: maggiori, dico, anco di
questa che mi resta da considerare nel fin della presente particola; dov'egli,
prima, si meraviglia come possa esser che, sendo quel che si consuma cosa
impercettibile alla bilancia, possa nondimeno produr tanto calore; dapoi
soggiunge che d'un ferro che si lima, gran parte se ne consuma, e assaissimo
maggiore che quando ei si batte col martello, nulladimeno non più si
scalda limando che battendolo. Vanissimo è questo discorso, mentre altri
vuole col peso misurare la quantità di cosa che non ha peso alcuno, anzi
è leggierissima e nell'aria velocemente sormonta; e quando pure quello
che si converte in materia calda, mentre si fa una gagliarda confricazione,
fusse parte dell'istesso corpo solido, non doverà alcuno maravigliarsi
che piccolissima quantità di quello possa rarefarsi ed istendersi in
ispazio grandissimo, s'ei considererà in quanta gran mole di materia
ardente e calda si risolve un piccol legno, della quale la fiamma visibile
è la minor parte, restando di gran lunga maggiore l'insensibile alla
vista, ma ben sensibile al tatto. Quanto poi all'altro punto, averebbe qualche
apparenza l'instanza, se il signor Mario avesse mai detto che tutto quel ferro
che si consuma, limando, doventasse materia calorifica, perché così
parrebbe ragionevol cosa che molto più scaldasse il ferro consumato
colla lima che il percosso col martello: ma non è la limatura quella che
scalda, ma altra sostanza incomparabilmente più sottile.
Ma seguitiamo innanzi. “Ego igitur multum
conferre arbitror, ad maiorem minoremve calefactionem corporum attritorum,
qualitates eorumdem, sint ne videlicet illa calidiora an frigidiora, remque
hanc ex multis aliis pendere, de quibus statuere adeo facile non sit. Nam si
ferulas duas, corpora levissima ac rarissima, mutua aut alterius ligni
confricatione attriveris, ignem brevi concipient: non idem in lignis aliis
accidit, durioribus ac densioribus, quamvis eadem diutius ac vehementius atteri
consumique contingat. Seneca certe, "Facilius, inquit, attritu calidorum
ignis existit"; ex quo fieri ait, ut æstate plurima fiant fulmina,
quia plurimum calidi est. Præterea, ferreus pulvis in flammam coniectus
exardescit, non vero quicumque alius pulvis e marmore. Quare si in aëre plurimum
exhalationum calidarum fuerit, eumdemque ex vehementi aliquo motu atteri
contigerit, non video cur calefieri atque etiam incendi non possit: tunc enim,
cum rarus sit ac siccus multumque admixtum calidi habeat, ad ignem concipiendum
aptissimus est.”
Qui, dove pare che il Sarsi si
apparecchi per produrre con dottrina più salda migliore esplicazione
delle difficoltà che si trattano, non veggo né che venga apportato molto
di nuovo, né di gran pregiudicio alle cose del signor Mario. Imperocché il dire
che molto conferisce al maggiore o minor riscaldamento de' corpi che si
stropicciano insieme, l'essere essi di qualità calda o fredda, e che
anco da molte altre cose non così ben manifeste depende questo negozio,
lo credo io pur troppo; ma non mi par già di farci acquisto veruno, per
esser, di questo che mi vien detto, la seconda parte troppo recondita, e la
prima troppo manifesta e notoria, atteso che in sostanza non mi dice altro se
non che più si scaldano quei corpi che son più caldi o più
disposti allo scaldarsi, e meno quelli che son più freddi. Così
parimente quello che segue appresso, che per la confricazione alcuni legni,
cioè i più leggieri e rari, s'accendano più facilmente che
altri più duri e densi, ancor che questi più gagliardamente e
più lungo tempo s'arruotino insieme, lo credo parimente, ma ciò
non veggo che faccia contro al signor Mario, che mai non ha detto in contrario;
e non è adesso ch'io sapevo che più presto s'infiammava un
pennecchio di stoppa in un fuoco ben che lentissimo, che un pezzo di ferro
nella fucina ben ardente.
A quello ch'ei soggiunge, e fortifica
col testimonio di Seneca, cioè che la state sia per aria maggior copia
d'essalazioni secche, e che perciò si facciano molti fulmini, io ci
presto l'assenso; ma dubito bene circa 'l modo dell'accendersi cotali
essalazioni insieme coll'aria, e se ciò avvenga per l'attrizione
cagionata per alcun movimento. Io reputerei vero quanto viene scritto dal
Sarsi, se prima egli m'avesse accertato, non essere in natura altri modi di
suscitar l'incendio fuori che questi due, cioè o col toccar la materia
combustibile con un fuoco già attualmente ardente, come quando con un
moccolo acceso s'accende una torcia, o vero con l'attrizion di due corpi non
ardenti: ma perché altri modi ci sono, come per la reflessione de' raggi solari
in uno specchio concavo, o per la refrazzion de' medesimi in una palla di
cristallo o d'acqua, ed anco s'è veduto talvolta infiammarsi per le
strade, mediante l'eccessivo caldo, le paglie ed altri corpi sottili, e questo
farsi senza alcuna commozione o agitazione, anzi solamente quando l'aria
è quietissima, e che per avventura s'ella fusse agitata e spirasse
vento, l'incendio non ne seguirebbe; perché, dico, ci sono questi altri modi,
perché non poss'io stimar che ve ne possa esser qualche altro diverso da
questi, per lo quale l'essalazioni per aria e tra le nubi si accendano? E
perché debbo io attribuire ciò ad un veemente movimento, se io veggo,
prima, che senza l'arrotamento de' corpi solidi, quali non si trovano tra le
nuvole, non si suscita l'incendio, ed oltre a ciò niuna commozione si
scorge in aria o nelle nuvole quando è maggior la frequenza de' lampi e
de' fulmini? Io stimo che il dir questo non abbia in sé più di
verità, che quando i medesimi filosofi attribuiscono il gran romor de'
tuoni allo stracciamento delle nuvole o all'urtarsi insieme l'una contro
l'altra; tuttavia nello splendor de' maggiori baleni, e quando si produce il
tuono, non si scorge nelle nuvole pure un minimo movimento o mutazion di
figura, il quale ad un tanto squarciamento doverebbe esser grandissimo. Lascio
stare che i medesimi filosofi, quando tratteranno poi del suono, vorranno nella
sua produzzione la percussione de' corpi duri, e diranno che perciò la
lana né la stoppa nel percuotersi non fanno strepito; ma poi, quando n'averanno
bisogno, la nebbia e le nuvole percuotendosi renderanno il massimo di tutti i
rumori. Trattabile e benigna filosofia, che così piacevolmente e con
tanta agevolezza si accommoda alle nostre voglie ed alle nostre
necessità!
Or passiamo avanti a essaminar
l'esperienze della freccia tirata coll'arco e della palla di piombo tirata
colle scaglie, infocate e strutte per aria, confermate coll'autorità
d'Aristotile, di molti gran poeti, d'altri filosofi ed istorici. “Quamvis autem
exemplum Aristotelis de sagitta, cuius ferrum motu incaluit, Galilæus
irrideat atque eludere tentet, non tamen id potest: neque enim Aristoteles unus
id asserit, sed innumeri pene magni nominis viri huiusmodi exempla (earum
procul dubio rerum, quas ipsi aut spectassent, aut a spectatoribus accepissent)
prodiderunt. Vult hic Galilæus, aliquos nunc proferam e plurimis qui hoc
non vere minus quam eleganter affirmant? Ordiar a poëtis, iis contentus quorum
auctoritas, quia rerum naturalium cognitione perbene instructi sunt, in rebus
gravissimis afferri ac magni fieri solet. Et sane Ovidius, non poëticæ
solum sed mathematicorum etiam ac philosophiæ peritus, non sagittas modo,
sed plumbeas glandes, fundis Balearicis excussas, in cursu sæpe exarsisse
testatur. In libris enim Metamorphoseon hæc habet:
Non secus exarsit, quam cum Balearica
plumbum
funda iacit: volat illud et incandescit
eundo,
et, quos non habuit, sub nubibus invenit ignes.
Paria his
habet Lucanus, ingenio doctrinaque clarissimus:
Inde faces et saxa volant, spatioque solutæ
aëris et calido liquefactæ pondere glandes.
Quid
Lucretius, non minor et ipse philosophus quam poëta? nonne pluribus in locis
idem testatur?
. . . . . . . . . . . . . . . . .
plumbea vero
glans etiam longo cursu volvenda
liquescit;
et alibi:
Non alia longe ratione, ac plumbea sæpe
fervida fit glans in cursu, cum multa rigoris
corpora demittens ignem concepit in auris.
Idem innuit Statius, dum ait:
. . . . arsuras cæli per inania
glandes.
Quid de Virgilio, poëtarum maximo? non
ne bis hoc ipsum disertissime affirmat? Dum enim
ludos Troianorum describit, de Aceste ita loquitur:
Namque volans liquidis in nubibus arsit arundo,
signavitque viam flammis, tenuesque recessit
consumpta in ventos;
alio vero
loco, de Mezentio sic:
Stridentem fundam, positis Mezentius armis,
ipse ter adducta circum caput egit habena,
et media adversi liquefacto tempora plumbo
diffidit, et multa porrectum extendit arena.
Posse vero corpus durius alterius mollioris attritione consumi, probat
aqua, diuturna distillatione durissimos etiam lapides excavans, atque
allisæ scopulis undæ, quæ eosdem comminuunt et mire
lævigant; ventorum etiam vi corrodi turrium ac domorum angulos experimur.
Si
quando igitur aër ipse concrescat magnoque impetu feratur, duriora etiam
atteret corpora, atque ipse ab iis vicissim atteretur. Sibilus certe, qui in
agitatione fundæ exauditur, addensati aëris argumentum est; quod fortasse
voluit Statius cum dixit, aërem fundæ gyris inclusum distringi:
. . . et flexæ Balearicus actor
habenæ,
qua suspensa trahens libraret vulnera
tortu,
inclusum quoties distringeret aëra
gyro.
Idem etiam probat grando, quæ quo
altiori e loco decidit, eo minutior ac rotundior cadit; idem pluviæ
guttæ, maiores cum ex humiliori loco, minores cum ex altiori cadunt, cum
in aëre et comminuantur et atterantur.”
Che io o 'l signor Mario ci siamo risi
e burlati dell'esperienza prodotta da Aristotile, è falsissimo, non
essendo nel libro del signor Mario pur minima parola di derisione, né scritto
altro se non che noi non crediamo ch'una freccia fredda, tirata coll'arco,
s'infuochi; anzi crediamo che, tirandola infocata, più presto si
raffredderebbe che tenendola ferma: e questo non è schernire, ma dir
semplicemente il suo concetto. A quello poi ch'ei soggiunge, non esserci
succeduto il convincer cotale esperienza, perché non Aristotile
solo, ma moltissimi altri grand'uomini ànno creduto e scritto il
medesimo, rispondo che se è vero che per convincere il detto d'Aristotile
bisogni far che quei molti altri non l'abbian creduto né scritto, né io né 'l
signor Mario né tutto il mondo insieme lo convinceranno già mai, perché
mai non si farà che quei che l'ànno scritto e creduto non
l'abbian creduto e scritto: ma dico bene, parermi cosa assai nuova che, di quel
che sta in fatto, altri voglia anteporre l'attestazioni d'uomini a ciò
che ne mostra l'esperienza. L'addur tanti testimoni, signor Sarsi, non serve a
niente, perché noi non abbiamo mai negato che molti abbiano scritto e creduto
tal cosa, ma sì bene abbiamo detto tal cosa esser falsa; e quanto
all'autorità, tanto opera la vostra sola quanto di cento insieme, nel
far che l'effetto sia vero o non vero. Voi contrastate coll'autorità di
molti poeti all'esperienze che noi produciamo. Io vi rispondo e
dico, che se quei poeti fussero presenti alle nostre esperienze, muterebbono
opinione, e senza veruna repugnanza direbbono d'avere scritto iperbolicamente o
confesserebbono d'essersi ingannati. Ma già che non è possibile
d'aver presenti i poeti, i quali dico che cederebbono alle nostre esperienze,
ma ben abbiamo alle mani arcieri e scagliatori, provate voi se, coll'addur loro
queste tante autorità, vi succede d'avvalorargli in guisa, che le frecce
ed i piombi tirati da loro s'abbrucino e liquefacciano per aria; e così
vi chiarirete quanta sia la forza dell'umane autorità sopra gli effetti
della natura, sorda ed inessorabile a i nostri vani desiderii. Voi
mi direte che non ci sono più gli Acesti e Mezenzii o lor simili
Paladini valenti: ed io mi contento che, non con un semplice arco a mano, ma
con un robustissimo arco d'acciaio d'un balestrone caricato con martinelli e
leve, che a piegarlo a mano non basterebbe la forza di trenta Mezenzii, voi
tiriate una freccia o dieci o cento; e se mai accade che, non dirò che
'l ferro d'alcuna s'infuochi o 'l suo fusto s'abbruci, ma che le sue penne
solamente rimangano abbronzate, io voglio aver perduta la lite, ed anco la
grazia vostra, da me grandemente stimata. Orsù, signor Sarsi, io non vi
voglio più tener sospeso: non m'abbiate per tanto ritroso che io non
voglia cedere all'autorità ed al testimonio di tanti poeti ammirabili, e
ch'io non voglia credere che tal volta sia accaduto l'abbruciamento delle
frecce e la fusione de' metalli; ma dico bene, di cotali meraviglie la causa
essere stata molto diversa da quella che i filosofi n'ànno voluta
addurre, mentre la riducono ad attrizzioni d'arie ed essalazioni e simili
chimere, che son tutte vanità. Volete voi saperne la vera ragione?
Sentite il Poeta a niun altro inferiore, nell'incontro di Ruggiero con
Mandricardo e nel fracassamento delle lor lance:
I tronchi sino al ciel ne sono ascesi;
scrive Turpin, verace in questo loco,
che due o tre giù ne tornaro
accesi,
ch'eran saliti alla sfera del foco.
E forse che il grand'Ariosto non leva
ogni causa di dubitar di cotal verità, mentr'ei la fortifica
coll'attestazione di Turpino? il quale ognun sa quanto sia veridico e quanto
bisogni credergli.
Ma lasciamo i poeti nella lor vera
sentenza, e torniamo a quelli che riducono la causa all'attrizion dell'aria: la
quale opinione io reputo falsa; e considero quello che producete voi, volendo
mostrare come i corpi durissimi per l'attrizione d'altri più molli
possano consumarsi, e dite, ciò apertamente scorgersi nell'acqua e nel
vento ancora, rodendo e consumando questo i cantoni delle saldissime torri, e
quella, con una continua distillazione e frequente picchiare, scavando i marmi
e i durissimi scogli. Tutto questo vi concedo io, perch'è verissimo; e
più v'aggiungo che non dubito punto che le frecce e le palle, non solo
di piombo, ma di pietra e di ferro ancora, cacciate fuor d'una artiglieria si
consumano, nel ferir l'aria con quella somma celerità, più che
gli scogli o le muraglie nelle percosse dell'acqua e del vento; e dico, che se
per fare una notabile corrosione o scortecciamento negli scogli e nelle torri
ci vuole il ferir di ducento o trecento anni dell'acqua e del vento, nel roder
le frecce e le palle d'artiglieria basterebbe ch'elle durassero ad andar per
aria due o tre mesi soli: ma il tempo di due o tre battute di polso solamente
non intendo già come possa fare effetto notabile. Oltre che mi restano
due altre difficoltà nell'applicar questa vostra, veramente ingegnosa,
considerazione al proposito vostro: l'una è, che noi parliamo di
liquefare e struggere per via di calore, e non di consumare per via di
percosse; l'altra è, che nel caso vostro voi avete bisogno che non il
corpo solido, ma il corpo molle e sottile, sia quello che si stritoli ed assottigli,
cioè l'aria, ch'è quella che s'ha poi ad accendere: ora
l'esperienze addotte da voi provano che i sassi, e non l'aria o l'acqua,
ricevon l'attrizione; e veramente io credo che l'aria e l'acqua, picchino pure
se sanno picchiare, non però si assottiglieranno mai più che
prima. Per tanto io concludo, poco aiuto e sollevamento per la causa vostra
derivar da queste cose, come anco da quel ch'aggiungete della gragnuola e delle
gocciole dell'acqua: delle quali io vi concedo che nel cader da alto si vadano
rappiccolendo; ve lo concedo, dico, non perch'io non creda che possa esser vero
anco tutto l'opposito di quel che dite voi, ma perché non veggo che né nell'uno
né nell'altro modo abbia che far col proposito di che si tratta. Che la
frombola poi co' suoi fischi e scoppi sia argomento d'aria condensata nella sua
agitazione, la lascerò esser quel che piace a voi; ma avvertite che
sarà una contradizzione a voi medesimo e un disastro alla vostra causa:
imperocché sin qui avete sempre detto che per l'agitazione e commozione
gagliarda si fa l'attrizione, rarefazzione e finalmente l'accendimento
nell'aria, ed ora, per render ragione del sibilo della scaglia, o vero per
trovare il senso delle parole assai offuscate di Stazio, volete la
condensazione; sì che quella medesima commozione che, per servire allo
struggere ed abbruciare, rarefà l'aria, per servizio de' frombolatori e
di Stazio la condensa. Ma passiamo a sentire i testimoni degl'istorici.
“Sed ne poëtarum testimonium, vel eo
ipso poëtæ nomine, suspectum alicui videatur (quamquam eosdem ex communi
saltem omnium sensu locutos scimus), ad alios venio magnæ etiam
auctoritatis ac fidei viros. Suidas igitur in Historicis, verbo peridinounteV hæc narrat: "Babylonii iniecta in fundas ova in orbem
circumagentes, rudis et venatorii victus non ignari, sed iis rationibus quas
solitudo postulat exercitati, etiam crudum ovum impetu illo coxerunt."
Hæc ille. Iam vero si quis tantarum causas rerum inquirat, audiat Senecam
philosophum, quando hic inter cæteros Galilæo probatur, de his
philosophice disputantem. Ille enim, ex sententia, primum, Posidonii, "In
ipso aëre, inquit, quidquid attenuatur, simul siccatur et calet"; ex sua
vero sententia, "Non est, inquit, assiduus spiritus cursus, sed quoties
fortius ipsa iactatione se accendit, fugiendi impetum capit." Sed longe
hæc apertius alibi, ubi fulminis causas inquirens, "Id evenit,
inquit, ubi in ignem extenuatus in nubibus aër vertitur, nec vires quibus longius
prosiliat invenit" (audiat iam quæ sequuntur Galilæus, sibique
dicta existimet): "non miraris, puto, si aëra aut motus extenuat, aut
extenuatio incendit; sic liquescit excussa glans funda, et attritu aëris velut
igne distillat." Nescio sane, an diserte magis aut clarius dici unquam id
posset. Sive igitur poëtarum optimis, sive philosophis credas, vides, quicumque
hac de re dubitas, atteri posse per motum aërem, atque ita incalescere, ut vel
plumbum eius calore liquescat. Nam quis hic existimet, viros virorum florem
eruditissimorum, cum de iis loquerentur quorum in re militari quotidianus erat
etiam tunc usus, egregie adeo atque impudenter mentiri voluisse? Equidem non is
sum, qui sapientibus hanc notam inuram.”
Io non posso non ritornare a
meravigliarmi, che pur il Sarsi voglia persistere a provarmi per via di
testimonii quello ch'io posso ad ogn'ora veder per via d'esperienze.
S'essaminano i testimonii nelle cose dubbie, passate e non permanenti, e non in
quelle che sono in fatto e presenti; e così è necessario che il
giudice cerchi per via di testimonii sapere se è vero che ier notte
Pietro ferisse Giovanni, e non se Giovanni sia ferito, potendo vederlo tuttavia
e farne il visu reperto. Ma più dico che anco
nelle conclusioni delle quali non si potesse venire in cognizione se non per
via di discorso, poca più stima farei dell'attestazioni di
molti che di quella di pochi, essendo sicuro che il numero di quelli che nelle
cose difficili discorron bene, è minore assai che di quei che discorron
male. Se il discorrere circa un problema difficile fusse come il portar pesi,
dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io
acconsentirei che i molti discorsi facesser più che un solo; ma il
discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval barbero
solo correrà più che cento frisoni. Però quando il Sarsi
vien con tanta moltitudine d'autori, non mi par che fortifichi punto la sua
conclusione, anzi che nobiliti la causa del signor Mario e mia, mostrando che
noi abbiamo discorso meglio che molti uomini di gran credito. Se il Sarsi vuole
ch'io creda a Suida che i Babilonii cocesser l'uova col girarle
velocemente nella fionda, io lo crederò; ma dirò bene, la cagione
di tal effetto esser lontanissima da quella che gli viene attribuita, e per
trovar la vera io discorrerò così: “Se a noi non succede un
effetto che ad altri altra volta è riuscito, è necessario che noi
nel nostro operare manchiamo di quello che fu causa della riuscita d'esso
effetto, e che non mancando a noi altro che una cosa sola, questa sola cosa sia
la vera causa: ora, a noi non mancano uova, né fionde, né uomini robusti che le
girino, e pur non si cuocono, anzi, se fusser calde, si raffreddano più
presto; e perché non ci manca altro che l'esser di Babilonia, adunque l'esser
Babiloni è causa dell'indurirsi l'uova, e non l'attrizion dell'aria”,
ch'è quello ch'io volevo provare. È possibile che il Sarsi nel
correr la posta non abbia osservato quanta freschezza gli apporti alla faccia
quella continua mutazion d'aria? e se pur l'ha sentito, vorrà egli
creder più le cose di dumila anni fa, succedute in Babilonia e riferite
da altri, che le presenti e ch'egli in se stesso prova? Io prego V. S.
Illustrissima a farli una volta veder di meza state ghiacciare il vino per via
d'una veloce agitazione, senza la quale egli non ghiaccerebbe altrimenti. Quali
poi possano esser le ragioni che Seneca ed altri arrecano di questo effetto,
ch'è falso, lo lascio giudicare a lei.
All'invito che mi fa il Sarsi ad
ascoltare attentamente quello che conclude Seneca, e ch'egli poi mi domanda se
si poteva dir cosa più chiaramente e più sottilmente, io gli
presto tutto il mio assenso, e confermo che non si poteva né più
sottilmente né più apertamente dire una bugia. Ma non vorrei già
ch'ei mi mettesse, com'ei cerca di fare, per termine di buona creanza in
necessità di credere quel ch'io reputo falso, sì che negandolo io
venga quasi a dar una mentita a uomini che sono il fior de' letterati e, quel
ch'è più pericoloso, a soldati valorosi; perch'io penso ch'eglino
credesser di dire il vero, e così la lor bugia non è disonorata:
e mentre il Sarsi dice, non volere esser di quelli che facciano un tal affronto
ad uomini sapienti, di contradire e non credere a i lor detti, ed io dico, non
voler esser di quelli così sconoscenti ed ingrati verso la natura e Dio,
che avendomi dato sensi e discorso, io voglia pospor sì gran doni alle
fallacie d'un uomo, ed alla cieca e balordamente creder ciò ch'io sento
dire, e far serva la libertà del mio intelletto a chi può
così bene errare come me.
“Sed quid adversus hæc
afferre possit Galilæus, non dissimulabo: dicat enim fortasse, nullam
unquam fuisse fundarum aut arcuum vim tantam, quæ sclopeti aut muralis
tormenti impulsum æquare potuerit; quod si plumbeæ glandes hisce tormentis
excussæ non liquescunt, addito etiam pulveris incendio, quo vel uno
liquescere deberent, iure suspicari nos posse, poëtarum fuisse commenta illa
liquefacti plumbi atque exustarum exempla sagittarum. Sed si hæc facile
obiiciat Galilæus, non æque tamen facile eadem probarit. Quin
potius scio, explosas maioribus bombardis plumbeas pilas in aëre liquescere
aliquando. Certe Homerus Turtura, ut nuperrimus ita diligentissimus rerum
Gallicarum scriptor, ait, ingentem aliquando tormentariorum globorum vim inutilem
mœnibus diruendis fuisse, quod, cum illi exigui prius forent atque ex
ferro, superinducto plumbo maiores effecti fuissent: "cum enim, inquit, in
muros exploderentur, plumbo in aëre liquescente, solus interior globulus ex
ferro, instar nuclei, abiecto cortice, murum pertingebat." Præterea,
audivi ipse ex iis qui viderant, probatissimæ fidei viris, cum dicerent,
globulum plumbeum rotundum sclopeto explosum, cum brachio forte alterius
inhæsisset, ex eodem postea extractum fuisse non rotundum, sed oblongum
et vere glandis figuram referentem: quod quotidianis etiam exemplis
comprobatur, dum irrito sæpe ictu glandes plumbeæ sclopetis
excussæ, inter hostium vestes implicitæ, figura non amplius qua
fuerant, sed compressæ ac laciniosæ atque etiam frustatim comminutæ
reperiuntur. Quod argomento est, illas, ex calore concepto rariores effectas,
invalido percussisse ictu.”
Continua pure il Sarsi nel cominciato
stile, di voler provar coll'altrui relazioni quello che sta in fatto e che
ogn'ora si può vedere per l'esperienza; e come per autorizar gli antichi
arcieri e frombolatori ha trovato uomini per altro insigni, così, per
render credibile il medesimo effetto di liquefarsi le moderne palle d'archibuso
e d'artiglieria, ha ritrovato un moderno istorico non men degno di fede né di
minore autorità di qualunque altro antico. Ma perché non punto deroga di
fede né di dignità all'istorico l'arrecare d'un effetto naturale vero
una ragione non vera, essendo che all'istorico appartiene il solo effetto, ma
la ragione è officio del filosofo; però, credendo io al signor
Omero Tortora che le palle d'artiglieria, per essere state incamiciate di
piombo, facesser poco effetto nel batter la muraglia nemica, piglierò
ardire di negargli la ragione ch'egli, ricevendola dalla commune filosofia,
n'adduce; con isperanza che l'istesso istorico, sì come sin qui ha
creduto quello che ha trovato scritto da tanti altri uomini grandi,
l'autorità de' quali è stata bastante ad acquistar fede ad ogni
lor detto, così, sentendo le mie ragioni, sia per cangiare opinione, o
almeno per venire in pensiero di voler vedere coll'esperienza qual sia la
verità. Credo dunque al signor Tortora, che le palle di ferro covertate
di piombo nella batteria di Corbel facesser poco effetto, e che di loro si
ritrovasser l'anime di ferro spogliate di piombo; e questo è tutto
quello ch'appartiene all'istorico: ma non credo già l'altra parte
filosofica, cioè che il piombo si liquefacesse, e che perciò si
trovasser nude le palle di ferro; ma credo che giungendo con quello estremo impeto
che dal cannone veniva cacciata la palla sopra la muraglia, la coverta di
piombo in quella parte che rimaneva compressa tra 'l muro esterno e l'interior
palla di ferro si ammaccasse e sbranasse, e che l'istesso o poco meno facesse
anco l'altra parte del piombo opposta, schiacciandosi sopra il ferro, e che
tutto il piombo, dilaniato e trasfigurato, saltasse in diverse bande, il quale
poi, imbrattato da calcinacci e perciò simile ad altri fragmenti della
ruina, malagevolmente si ritrovasse, e forse anco per avventura non fusse con
quella diligenza ricercato, che richiederebbe la curiosità di chi
volesse venire in cognizione s'ei si fusse strutto o pur dilacerato; e
così servendo il piombo quasi come riparo e guanciale alla palla di
ferro, onde ella minor percossa dava e riceveva, con ingrata ricompensa ne
restava egli in guisa dilacerato e guasto, che né il cadavero ancora si
ritrovava tra i morti. E perché io intendo che il signor Omero si ritrova
costì in Roma, se mai accadesse che s'incontrasse con V. S.
Illustrissima, la prego a leggergli questo poco che ho scritto e quel resto che
scriverò appresso in questo proposito; imperocché grandissima stima
farei del guadagnarmi l'assenso di persona meritamente pregiata assai
all'età nostra.
Dico dunque, che se noi considereremo
in quanto tempo va la palla dal cannone alla muraglia, e quello che dentro a
tal tempo deve operare per far la fusione del piombo, gran meraviglia
sarà ch'altri voglia persistere in opinione che pur tal effetto segua.
Il tempo è assai meno d'una battuta di polso, dentro al quale si ha da
fare l'attrizione dell'aria, si ha poi d'accendere, ed in ultimo si deve
liquefare il piombo; ma se noi metteremo la medesima palla di piombo nel mezo
d'una fornace ardente, ei non si struggerà né anco in venti battute:
resterà ora al Sarsi di persuader altrui, che l'aria attrita e accesa
sia uno ardore incomparabilmente maggiore di quel d'una fornace. Di più,
ci mostra l'esperienza come una palla di cera tirata coll'archibuso passa una
tavola, ch'è argomento ch'ella non si strugga per aria: bisognerà
dunque che il medesimo Sarsi renda ragione, perché si liquefaccia il piombo, ma
non la cera. Di più, se il piombo si liquefà, sicuramente,
arrivando sopra un corsaletto, poca botta potrà fare; onde gran meraviglia
mi resta che questi moschettieri non abbiano ancor pensato di far le palle di
ferro, acciò non così facilmente si struggano; ma tirano pur con
palle di piombo, alle quali poche piastre di ferro sono che resistano, ed in
quelle che reggono si trova una ben profonda ammaccatura e la palla
schiacciata, ma non già liquefatta. Negli uccelli ammazzati con le
migliaruole si ritrovano i grani di piombo dell'istessa figura per l'appunto:
toccherà al Sarsi a render ragione come si liquefacciano i pezzi di
piombo di quindici o venti libre l'uno, ma non quelli che ne va trentamila alla
libra. Che tutto il giorno si trovino tra i vestimenti de' nemici le palle
diversificate di figura, crederò che alcune si sieno schiacciate
nell'armadura, e tali rimaste tra i panni; altre possono avere urtato per
iscancìo in una celata e perciò allungatesi, e, giungendo
stracche ne' panni di un altro, restatevi senza offenderlo: ed in somma possono
in una scaramuccia accadere mille accidenti, dico senza liquefazione; la quale
quando fusse, bisognerebbe che il piombo, disperdendosi in più minute
stille che non fa l'acqua (come sa il Sarsi), da luoghi altissimi, e
però con gran velocità, cadendo, si perdesse del tutto, sì
che niente d'esso si ritrovasse. Lascio star di dire che la freccia e la palla
accompagnate dall'aria ardente doverebbono, la notte in particolare, mostrar
nel lor viaggio una strada risplendente, come quella d'un razo, giusto nella
maniera che scrive Virgilio della freccia di Aceste, che segnò il suo
cammino colle fiamme; tuttavia tal effetto non si vede se non poeticamente, ben
che gli altri accidenti notturni, come di baleni, di stelle discorrenti, per
gran lume si facciano molto cospicuamente vedere.
“At id quotidie accidere non videmus.
Nempe, neque auctores a nobis citati affirmarunt, quoties Balearicus
fundibularius plumbum funda proiiceret, solitum illud ex motu liquescere, sed
tantum accidisse id non semel, atque ideo insolitam rem pene miraculo fuisse:
nos etiam supra diximus, ad ignem ex attritu aëris excitandum multam
exhalationum copiam in eodem aëre requiri, quod calidiora facilius ignescant.
Sic enim videmus in cœmeteriis per æstatem accidere non raro, ut ad
alicuius hominis adventum aut ad lenissimi favonii eventilationem agitatus aër
ille, siccis et calidis halitibus infectus, in flammam statim abeat.
Quænam porro hic corporum duriorum attritio reperitur? Et tamen ex motu
atque attritione levissima aër ille ignescit. Atque hoc voluit Aristoteles, cum
dixit: "Cum autem fertur et movetur hoc modo, quacumque contigerit bene
temperata existens, sæpe ignitur": quo textu satis aperte
significat, hæc non contingere nisi in iis circumstantiis quas superius
enumeravimus. Quare, si quando is aëris status fuerit ut huiusmodi
exhalationibus abunde ferveat, aio plumbeos orbes, fundis etiam validissime
excussos, suo motu aërem accensuros, atque ab eodem incenso incendendos
vicissim fore; non esse proinde, cur Galilæus ad experimenta confugiat,
cum non nostro hæc arbitratu, sed casu, evenire asseramus; perdifficile
autem est casum, cum volueris, accersere. Quod si quis forte dixerit, glandes
tormentis bellicis explosas, non ex attritu aëris, sed ex igne vehementissimo
quo excutiuntur, accendi; quamquam haud ita facile mihi persuadeam, ingentem
plumbi vim ab eo igne liquescere quem brevissimo temporis momento vix
attigerit, satis hoc loco habeo ostendisse, nullum ab his exemplis
Galilæo patere effugium ad poëtarum et philosophorum testimonia
evadenda.”
Questo liquefarsi le palle di piombo,
che quattro versi di sopra disse il Sarsi che si conferma con esempli
cotidiani, adesso dice accader così di rado, che, come cosa insolita,
vien reputato quasi un miracolo. Or questa gran ritirata ci assicura pur di
vantaggio ch'ei si conosce molto bisognoso di schermi e di fughe; il qual
bisogno va egli confermando colla propria inconstanza, di voler or questa cosa
ed or quella: ora dice che per accender l'aria basta l'agitazione d'un piccol
venticello, ed anco il solo arrivo d'un uomo vivo sopra un cimiterio di morti;
altra volta (come ha detto di sopra, e replica nel fine di questa proposizione)
vorrà un moto veemente, una copia grande d'essalazioni, una grande
attenuazione di materia, e se altra cosa è che conferisca a questa
fattura; ed a quest'ultimo riquisito sottoscrivo più che a tutti gli
altri, sicurissimo che non solo questi accendimenti, ma qualunque altro
più meraviglioso e recondito effetto di natura segue quando vi son quei
requisiti che si convengono. Vorrei ben sapere a che proposito mi domandi il
Sarsi, dopo aver detto delle fiamme che sopra i cimiteri s'accendono per lo
semplice arrivo d'un uomo o per un lento venticello, mi domandi, dico, dove sia
qui l'attrizion de' corpi duri? Io ho ben detto che l'attrizion potente ad
eccitare il fuoco è sola quella che vien fatta da' corpi solidi; ora non
so qual logica insegni al Sarsi a ritrar da questo detto ch'io voglia che,
qualunque si sia l'accendimento, non si possa cagionar da altro che da cotale
attrizione. Replico dunque al Sarsi che l'incendio si può suscitare in
molti modi, tra i quali uno è l'attrizione e stropicciamento gagliardo
di due corpi duri; e perché tale attrizione non si può far da' corpi
sottili e fluidi, però dico che le comete e baleni, le saette, le stelle
discorrenti, ed ora aggiugniamoci le fiamme de' cimiteri, non s'accendono per
attrizione né d'aria né di venti né d'esalazioni, anzi che ciascheduno di
questi abbruciamenti si fa il più delle volte nelle maggiori
tranquillità d'aria e quando il vento è del tutto fermo. Voi
forse mi direte: “Qual dunque è la causa di queste incensioni?” Vi
risponderò, per non entrare in nuove liti, che non la so, ma che so bene
che né l'acqua né l'aria si tritano né si accendono né s'abbruciano già
mai, non essendo materie né tritabili né combustibili: e se dando fuoco ad un
sol fil di paglia, a un capello di stoppa, non resta l'abbruciamento sin che
tutta la stoppa e tutta la paglia, se ben fusse cento milioni di carra, non
è abbruciata; anzi, se dato fuoco ad un piccol legno abbrucerebbe tutta
la casa e la città intera e tutte le legna del mondo che fusser contigue
alle prime ardenti, se non si corresse prestamente a i ripari, chi riterrebbe
mai che l'aria, così sottile e di parti tutte aderenti senza
separazione, quando se n'accendesse una particella, non ardesse anco il tutto?
Riducesi finalmente il Sarsi a dire con
Aristotile che se mai accaderà che l'aria sia abondantemente ripiena di
tali essalazioni ben temperate, e con altri riquisiti detti, allora si
liquefanno le palle di piombo, e non solamente quelle dell'artiglierie e degli
archibusi, ma le tirate colle fionde ancora. Dunque tale bisogna che fusse lo
stato dell'aria al tempo che i Babilonii cocevan l'uova; tale fu, con gran
ventura degli assediati, mentre si batteva la città di Corbel; ed allora
che tale si ritrova, si può allegramente andar contro all'archibusate:
ma perché l'affrontare una tal costituzione è cosa di ventura e che non
accade così spesso, però dice il Sarsi che non si deve ricorrere
all'esperienze, attento che questi miracoli non si fanno ad arbitrio nostro, ma
del caso, ch'è poi difficilissimo a incontrarsi. Tanto che, signor
Sarsi, quando bene l'esperienze fatte mille e mille volte, in tutte le stagioni
dell'anno ed in qualsivoglia luogo, non riscontrassero mai co 'l detto di quei
poeti filosofi ed istorici, questo non importa niente, ma dobbiamo credere alle
lor parole, e non a gli occhi nostri. Ma se io vi troverò una
costituzion d'aria con tutti quei requisiti che voi dite che si ricercano, e
che ad ogni modo non ci cuocano l'uova né si struggano le palle di piombo, che
direte voi allora, signor Sarsi? Ma aimè! io fo troppo grande oblazione,
e sempre vi rimarrà la ritirata con dire che vi manca qualche requisito
necessario. Troppo avvedutamente vi recaste voi in un posto sicuro, quando
diceste esser di bisogno per l'effetto un moto violento, gran copia
d'essalazioni, una materia bene attenuata et “si quid aliud ad idem conducit”:
quel “si quid aliud” è quel che mi sbigottisce, ed è per voi
un'ancora sacra, un asilo, una franchigia troppo sicura. Io avevo fatto conto
di sospender la causa e soprassedere sin che venisse qualche cometa,
immaginandomi che in quel tempo della sua durazione Aristotile e voi foste per
concedermi che l'aria, sì come si trovava ben disposta per
l'abbruciamento di quella, così si ritrovasse anco per la liquefazzione
del piombo e per cuocer l'uova, parendomi che voi aveste per ambedue gli
effetti ricercato la medesima disposizione; ed allora volevo che noi mettessimo
mano alle fionde, all'uova, agli archi, ai moschetti ed all'artiglierie, e ci
chiarissimo in fatto della verità di questo negozio; anzi pure che,
senz'aspettar comete, il tempo dovrebbe essere opportuno di meza state, e
quando l'aria lampeggia e fulmina, venendo a tutti questi ardori assegnata
l'istessa causa: ma dubito che quando ben voi non vedeste in cotali tempi
liquefarsi le palle, né pur cuocersi l'uova, non però cedereste, ma
direste mancarci quel “si quid aliud ad idem conducens”. Se voi mi direte che
cosa sia questo “si quid aliud”, io mi sforzerò di provederlo; quanto
che no, lascerò correr la sentenza, la qual credo senz'altro che
sarà contro di voi, se non in tutto e per tutto, almanco in questa
parte, che mentre che noi andiamo ricercando la causa naturale d'un effetto,
voi vi riducete a voler ch'io m'appaghi d'una ch'è tanto rara, che voi
stesso la nominate finalmente e la riponete tra i miracoli. Ora, sì come
né per girar di fionde né per tirar d'archi né d'archibusi né d'artiglierie noi
non veggiamo mai farsi gli effetti più volte nominati, o pur, se
già mai è accaduto un tale accidente, è stato così
di rado che dobbiamo tenerlo come miracolo, e come tale più tosto
crederlo all'altrui relazione che cercar di vederlo per prova; perché, dico,
stanti queste cose così, non vi dovete voi contentar di conceder che
veramente per uno ordinario le comete non si accendono per un'attrizione
d'aria, e contentarvi ancora di passar come cosa di miracolo se pur alcuno vi
concederà che taluna si sia, una volta in mill'anni, accesa per quella
attrizione ben corredata di tutte quelle circostanze che voi ricercate?
Quanto all'instanza che il Sarsi si
promuove e risolve, cioè che alcuno forse potrebbe dire che non per
attrizion d'aria, ma pel fuoco veemente che le caccia, si struggono le palle
d'archibuso e d'artiglieria; io, primieramente, non sarò di quelli che
oppongano in cotal guisa, perché dico ch'elle non si struggono né in quello né
in modo veruno: quanto poi alla risposta dell'instanza, non so perché il Sarsi
non abbia arrecata quella ch'è propriissima e chiara, dicendo che le
palle e le frecce cacciate colla fionda e coll'arco, dove non è fuoco,
mostrano la nullità dell'instanza apertamente. Questa pare a me che
fusse risposta assai più diretta che la portata dal Sarsi, cioè
che 'l tempo nel quale la palla va col fuoco, gli par troppo breve per
liquefare un gran pezzo di piombo: il che è vero, ma vero è
ancora che assai più breve è l'altro tempo ch'ella spende nel suo
viaggio, per liquefarlo con l'attrizion dell'aria.
All'ultima conclusione ch'ei ne
raccoglie, non so che rispondere, perché non intendo punto ciò ch'ei si
voglia dire mentr'ei dice, bastargli aver mostrato ch'io, per questi essempi,
non ho ritirata alcuna per isfuggire i testimonii de' poeti e de' filosofi; i
quali testimonii essendo scritti e stampati in mille libri, io non ho mai
cercato di sfuggirli, e ben mi parrebbe privo di discorso affatto chi tentasse
una tale impresa. Ho ben detto che l'attestazioni son false, e tali mi par che
siano tuttavia.
“Sed obiicit præterea: Quamvis
admittatur, ex motu accendi exhalationes aliquando posse, nescire tamen se
intelligere, qui fiat ut statim atque ignem conceperint, non consumantur,
sicuti in fulminibus, stellis cadentibus aliisque huiusmodi fieri quotidie
videmus. Ego vero satis id intelligi posse existimo, si quis, ex iis quos
hominum ars atque industria invenit ignibus, similiter de sublimioribus illis a
natura succensis philosophetur. Duplicis enim naturæ nostri hi sunt:
sicci alii ac rari nulloque hærentes glutine, qui, ut ignem conceperint, claro
largoque fulgore, subito incremento, at caduco brevique incendio, nullis pene
reliquiis, conflagrare solent; alii tenaciori materia compacti ac piceo liquore
conflati, in longum tempus duraturi, flamma diuturniore nocturnas nobis
tenebras illustrant. Quidni igitur in supremis illis regionibus simile aliquid
contingat? Vel enim materia levis adeo rara et sicca est, ut nullo humidi
vinculo colligetur; atque hæc subito celerique fulgore, in suo veluti
exortu interitura, succenditur: vel certe viscida est et glutinosa; quæ,
si quo casu accendatur, non ad interitum illico properet, sed suo plane succo
diutius vivat, ac longiore ætate, suspicientibus undique mortalibus, ex
alto resplendeat. Satis igitur hinc apparet, qui possit fieri ut ignes in summo
aëre succensi non illico extinguantur aliquando, sed diutius ardeant: apparet
etiam, aërem succendi posse, si ea præsertim adsint quæ calori ex
attritu excitando plurimum conferunt, vehemens videlicet motus, exhalationum
copia, materiæ attenuatio, et si quid aliud ad idem conducit. ”
Legga or V. S. Illustrissima quel che
resta fino al fine di questa proposizione; nel qual proposito poco mi resta che
dire, avendone detto assai di sopra. Per tanto metterò solo in
considerazione, come il Sarsi, per mantenere che l'incendio della cometa possa
durare mesi e mesi, ancor che gli altri che si fanno in aria, come baleni,
fulmini, stelle discorrenti e simili, sieno momentanei, assegna due sorti di
materie combustibili: altre leggieri, rare, secche e senz'alcun collegamento
d'umidità; altre viscose, glutinose, e in consequenza con qualche
umidità collegate: delle prime vuol che si facciano gli abbruciamenti
momentanei; delle seconde, gl'incendii diuturni, quali sono le comete. Ma qui
mi si rappresenta una assai manifesta repugnanza e contradizzione: perché, se
così fusse, dovrebbono i baleni e i fulmini, come quelli che si fanno di
materia rara e leggiera, farsi nelle parti altissime, e le comete, come accese
in materia più glutinosa, corpulenta, ed in consequenza più
grave, nelle parti più basse; tuttavia accade il contrario, perché i
baleni ed i fulmini non si fanno alti da terra né anco un terzo di miglio,
sì come ci assicura il piccolo intervallo di tempo che resta tra il
veder noi il baleno e 'l sentire il tuono, quando ci tuona sopra il vertice; ma
che le comete sieno indubitabilmente senza comparazione più alte, quando
altro non ce lo manifestasse a bastanza, l'abbiamo dal lor movimento diurno da
oriente in occidente, simile a quello delle stelle. E tanto basti aver
considerato intorno a queste esperienze.
Restami ora che, conforme alla promessa
fatta di sopra a V. S. Illustrissima, io dica certo mio pensiero intorno alla
proposizione “Il moto è causa di calore”, mostrando in qual modo mi par
ch'ella possa esser vera. Ma prima mi fa di bisogno fare alcuna considerazione
sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual dubito grandemente
che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre vien
creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente
risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci.
Per tanto io dico che ben sento tirarmi
dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea,
a concepire insieme ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella
figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella
è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta
ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o
molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma
ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o
ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali
condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero
scorta, forse il discorso o l'immaginazione per se stessa non v'arriverebbe
già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori,
etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro
che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo,
sì che rimosso l'animale, sieno levate ed annichilate tutte queste
qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo
imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali
accidenti, volessimo credere ch'esse ancora fussero veramente e realmente da
quelli diverse.
Io credo che con qualche essempio
più chiaramente spiegherò il mio concetto. Io vo movendo una mano
ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all'azzione che
vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l'uno e
l'altro soggetto, ch'è di quei primi accidenti, cioè moto e
toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata: ma il corpo animato, che
riceve tali operazioni, sente diverse affezzioni secondo che in diverse parti
vien tocco; e venendo toccato, verbigrazia, sotto le piante de' piedi, sopra le
ginocchia o sotto l'ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un'altra
affezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico:
la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano; e parmi
che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al
toccamento, avere in sé un'altra facoltà diversa da queste, cioè
il solleticare, sì che il solletico fusse un accidente che risedesse in
lei. Un poco di carta o una penna, leggiermente fregata sopra qualsivoglia
parte del corpo nostro, fa, quanto a sé, per tutto la medesima operazione,
ch'è muoversi e toccare; ma in noi, toccando tra gli occhi, il naso, e
sotto le narici, eccita una titillazione quasi intollerabile, ed in altra parte
a pena si fa sentire. Or quella titillazione è tutta di noi, e non della
penna, e rimosso il corpo animato e sensitivo, ella non è più altro
che un puro nome. Ora, di simile e non maggiore essistenza credo io che possano
esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come
sapori, odori, colori ed altre.
Un corpo solido, e, come si dice, assai
materiale, mosso ed applicato a qualsivoglia parte della mia persona, produce
in me quella sensazione che noi diciamo tatto, la quale, se bene occupa tutto
il corpo, tuttavia pare che principalmente risegga nelle palme delle mani, e
più ne i polpastrelli delle dita, co' quali noi sentiamo piccolissime
differenze d'aspro, liscio, molle e duro, che con altre parti del corpo non
così bene le distinguiamo; e di queste sensazioni altre ci sono
più grate, altre meno, secondo la diversità delle figure de i
corpi tangibili, lisce o scabrose, acute o ottuse, dure o cedenti: e questo
senso, come più materiale de gli altri e ch'è fatto dalla
solidità della materia, par che abbia riguardo all'elemento della terra.
E perché di questi corpi alcuni si vanno continuamente risolvendo in particelle
minime, delle quali altre, come più gravi dell'aria, scendono al basso,
ed altre, più leggieri, salgono ad alto; di qui forse nascono due altri
sensi, mentre quelle vanno a ferire due parti del corpo nostro assai più
sensitive della nostra pelle, che non sente l'incursioni di materie tanto
sottili tenui e cedenti: e quei minimi che scendono, ricevuti sopra la parte
superiore della lingua, penetrando, mescolati colla sua umidità, la sua
sostanza, arrecano i sapori, soavi o ingrati, secondo la diversità de'
toccamenti delle diverse figure d'essi minimi, e secondo che sono pochi o
molti, più o men veloci; gli altri, che accendono, entrando per le
narici, vanno a ferire in alcune mammillule che sono lo strumento dell'odorato,
e quivi parimente son ricevuti i lor toccamenti e passaggi con nostro gusto o
noia, secondo che le lor figure son queste o quelle, ed i lor movimenti, lenti
o veloci, ed essi minimi, pochi o molti. E ben si veggono providamente
disposti, quanto al sito, la lingua e i canali del naso: quella, distesa di
sotto per ricevere l'incursioni che scendono; e questi, accommodati per quelle
che salgono: e forse all'eccitar i sapori si accommodano con certa analogia i
fluidi che per aria discendono, ed a gli odori gl'ignei che ascendono. Resta
poi l'elemento dell'aria per li suoni: i quali indifferentemente vengono a noi
dalle parti basse e dall'alte e dalle laterali, essendo noi costituiti
nell'aria, il cui movimento in se stessa, cioè nella propria regione,
è egualmente disposto per tutti i versi; e la situazion dell'orecchio
è accommodata, il più che sia possibile, a tutte le positure di
luogo; ed i suoni allora son fatti, e sentiti in noi, quando (senz'altre
qualità sonore o transonore) un frequente tremor dell'aria, in
minutissime onde increspata, muove certa cartilagine di certo timpano
ch'è nel nostro orecchio. Le maniere poi esterne, potenti a far questo
increspamento nell'aria, sono moltissime; le quali forse si riducono in gran
parte al tremore di qualche corpo che urtando nell'aria l'increspa, e per essa
con gran velocità si distendono l'onde, dalla frequenza delle quali
nasce l'acutezza del suono, e la gravità dalla rarità. Ma che ne'
corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga
altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo
credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le
figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni,
li quali fuor dell'animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a
punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse
l'ascelle e la pelle intorno al naso. E come a i quattro sensi considerati
ànno relazione i quattro elementi, così credo che per la vista,
senso sopra tutti gli altri eminentissimo, abbia relazione la luce, ma con
quella proporzione d'eccellenza qual è tra 'l finito e l'infinito, tra
'l temporaneo e l'instantaneo, tra 'l quanto e l'indivisibile, tra la luce e le
tenebre. Di questa sensazione e delle cose attenenti a lei io non pretendo
d'intenderne se non pochissimo, e quel pochissimo per ispiegarlo, o per dir
meglio per adombrarlo in carte, non mi basterebbe molto tempo, e però lo
pongo in silenzio.
E tornando al primo mio proposito in
questo luogo, avendo già veduto come molte affezzioni, che sono reputate
qualità risedenti ne' soggetti esterni, non ànno veramente altra
essistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi, dico che inclino
assai a credere che il calore sia di questo genere, e che quelle materie che in
noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo con nome
generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in
tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali,
incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e
che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio per la nostra sostanza e sentito
da noi, sia l'affezzione che noi chiamiamo caldo, grato o molesto
secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d'essi minimi che ci
vanno pungendo e penetrando, sì che grata sia quella penetrazione per la
quale si agevola la nostra necessaria insensibil traspirazione, molesta quella
per la quale si fa troppo gran divisione e risoluzione nella nostra sostanza:
sì che in somma l'operazion del fuoco per la parte sua non sia altro
che, movendosi, penetrare colla sua massima sottilità tutti i corpi,
dissolvendogli più presto o più tardi secondo la moltitudine e
velocità degl'ignicoli e la densità o rarità della materia
d'essi corpi; de' quali corpi molti ve ne sono de' quali, nel lor disfacimento,
la maggior parte trapassa in altri minimi ignei, e va seguitando la risoluzione
fin che incontra materie risolubili. Ma che oltre alla figura, moltitudine,
moto, penetrazione e toccamento, sia nel fuoco altra qualità, e che
questa sia caldo, io non lo credo altrimenti; e stimo che questo sia talmente
nostro, che, rimosso il corpo animato e sensitivo, il calore non resti altro
che un semplice vocabolo. Ed essendo che questa affezzione si produce in noi
nel passaggio e toccamento de' minimi ignei per la nostra sostanza, è
manifesto che quando quelli stessero fermi, la loro operazion resterebbe nulla:
e così veggiamo una quantità di fuoco, ritenuto nelle
porosità ed anfratti di un sasso calcinato, non ci riscaldare, ben che
lo tegniamo in mano, perch'ei resta in quiete; ma messo il sasso nell'acqua,
dov'egli per la di lei gravità ha maggior propensione di muoversi che
non aveva nell'aria, ed aperti di più i meati dall'acqua, il che non
faceva l'aria, scappando i minimi ignei ed incontrando la nostra mano, la
penetrano, e noi sentiamo il caldo.
Perché, dunque, ad eccitare il caldo
non basta la presenza de gl'ignicoli, ma ci vuol il lor movimento ancora,
quindi pare a me che non fusse se non con gran ragione detto, il moto esser causa
di calore. Questo è quel movimento per lo quale s'abbruciano le frecce e
gli altri legni e si liquefà il piombo e gli altri metalli, mentre i
minimi del fuoco, mossi o per se stessi con velocità, o, non bastando la
propria forza, cacciati da impetuoso vento de' mantici, penetrano tutti i
corpi, e di quelli alcuni risolvono in altri minimi ignei volanti, altri in
minutissima polvere, ed altri liquefanno e rendono fluidi come acqua. Ma presa
questa proposizione nel sentimento commune, sì che mossa una pietra, o
un ferro, o legno, ei s'abbia a riscaldare, l'ho ben per una solenne
vanità. Ora, la confricazione e stropicciamento di due corpi duri, o col
risolverne parte in minimi sottilissimi e volanti, o coll'aprir l'uscita a
gl'ignicoli contenuti, gli riduce finalmente in moto, nel quale incontrando i
nostri corpi e per essi penetrando e scorrendo, e sentendo l'anima sensitiva
nel lor passaggio i toccamenti, sente quell'affezzione grata o molesta, che noi
poi abbiamo nominata caldo, bruciore o scottamento. E
forse mentre l'assottigliamento e attrizione resta e si contiene dentro a i
minimi quanti, il moto loro è temporaneo, e la lor operazione calorifica
solamente; che poi arrivando all'ultima ed altissima risoluzione in atomi
realmente indivisibili, si crea la luce, di moto o vogliamo dire espansione e
diffusione instantanea, e potente per la sua, non so s'io debba dire
sottilità, rarità, immaterialità, o pure altra condizion
diversa da tutte queste ed innominata, potente, dico, ad ingombrare spazii
immensi.
Io non vorrei, Illustrissimo Signore,
inavvertentemente ingolfarmi in un oceano infinito, onde io non potessi poi
ridurmi in porto; né vorrei, mentre procuro di rimuovere una dubitazione, dar
causa al nascerne cento, sì come temo che anco in parte possa essere
occorso per questo poco che mi sono scostato da riva: però voglio
riserbarmi ad altra occasion più opportuna.
“Dum Galilæus de fulgore illo
agit, qui, luminosis corporibus circumfusus, eminus spectantibus ab ipso
luminoso corpore non distinguitur, ait primo, illum in oculi superficie per
refractionem radiorum in insidente humore fieri, non autem circa astrum aut
flammam revera consistere; addit secundo, aërem illuminari non posse; tertio
vero, corpora luminosa si per tubum conspiciantur, larga illa radiatione
spoliari. Porro ad harum propositionum veritatem investigandam, illud quod
secundo loco positum est, primo est a nobis expendendum, hoc est an illuminari
aër possit: ex hoc enim reliqua pendere videntur.
Qua in quæstione supponendum,
primum, ex opticis ac physicis est, lumen non videri nisi terminatum; terminari
autem non posse, nisi corpore aliquo opaco; perspicuum enim, qua perspicuum
est, lucem non terminat, sed liberum eidem transitum præbet: secundum,
aërem purum ac sincerum maxime perspicuum esse, minusque proinde aptum ad lumen
terminandum; aërem vero impurum, multisque vaporibus admixtum, et lucem
terminare et remittere ad oculum posse. Et quidem huius secundæ
suppositionis prima pars ab omnibus, atque a Galilæo ipso, ultro
conceditur: pars autem altera multis probatur experimentis.
Aurora enim in Solis exortu, atque in
occasu crepuscula, satis indicant, impurum aërem illuminari posse; idem
testantur coronæ, aræ, parelia, aliaque huiusmodi quæ ex aëre
crassiori fiunt. Fateri hoc etiam videtur Galilæus in Nuncio Sidereo,
ubi circa Lunam vaporosum quemdam orbem ei qui Terræ circumfunditur
non absimilem, statuit, quem a Sole illuminari asserit; quod de Ioviali etiam
orbe videtur affirmare. Præterea, si quis Lunam post alicuius domus
tectum adhuc latitantem, cum proxime emersura est, observet, maximam aëris
partem eiusdem Lunæ lumine illustratam, quasi lunarem auroram, prius
intuebitur; fulgorem autem hunc magis ac magis crescere comperiet, quo propior
exortui Luna fuerit. Ridiculum autem esset affirmare auroram, crepuscula,
aliosque huiusmodi splendores, in insidente oculis humore per refractionem
gigni. Quid enim? dum Lunam ac Solem, altius provectos, brevi inclusos gyro
intueor, siccioribus ne oculis sum, quam cum eosdem postea, horizonti proximos,
in orbem ampliorem extensos aspicio? Satis igitur ex his patet, aërem impurum
ac mixtum illuminari posse; quod etiam ratione pervincitur. Cum enim lumen
terminetur ab eo quod aliquam habet opacitatem; aër autem per vapores
concretior atque opacior fiat; hac saltem parte, qua opacus est, lumen
reflectere poterit.
Quibus ita explicatis, ad
quæstionem propositam redeo: in qua, dum auctores nec pauci nec mali
asserunt, partem aëris luminosis corporibus in speciem circumfusi pariter
illuminari, non de sincero nullisque admixto vaporibus locuti existimandi sunt,
sed de eo aëre qui, densioribus halitibus opacatus, lumen stellarum sistere ac
cohibere possit, ne ultra progrediatur. Nam dum aiunt, Solem ac Lunam ampliori
sese forma prope horizontem spectandos offerre quam cum altiores fuerint, id ex
aëre vaporoso interiecto oriri affirmant: ex quibus patet, illos non de aëre
puro loqui, sed de infecto ac proinde opaciori. Quare statuendum est, non
abiiciendam esse (quod Galilæus iubet) opinionem illam quæ asserit,
aërem illuminari a stellis posse; cum tot experimentis verissima comprobetur,
si de aëre impuriori intelligatur. Quod si illuminari aër potest, poterit etiam
pars aliqua luminosi illius coronamenti, quo sidera vestiuntur, in aërem
illuminatum referri. Quamvis non negem (id quod primo loco propositum fuerat),
radiosam illam coronam longis distinctam radiis, quæ ad quemcumque oculi
motum movetur, oculi affectionem esse, ex quo fit ut iidem radii modo plures
modo pauciores, nunc breviores nunc productiores, fiant, prout oculus ipse
movetur; adhuc tamen non probavit Galilæus, nullam partem illius luminis,
quod nos a vera flamma non distinguimus, ex aëre illuminato existere, qua
postea ne per specillum quidem luminosa spoliari possint.
Neque obstat experimentum ab eodem
Galilæo allatum. "Si manum, inquit, inter lumen atque oculum
collocatam ita moveris, ac si lumen occultare velles, fulgor ille circumfusus
nunquam tegetur, quoad ipsum verum lumen non absconderis; sed radii ipsi manum
inter atque oculum nihilominus comparebunt; at ubi partem veri luminis aliquam
texeris, eorumdem radiorum partem oppositam evanescere comperies; nam si
luminis partem superiorem celaveris, radii inferiores apparere desinent."
Hæc Galilæus: quæ omnia verissima experior, dum radios ipsos
tantum considero, radios, inquam, illos quos, ex eorum motu pene perpetuo ac
luminis diversitate, satis superque a reliquo vero lumine distinguo: at dum
reliquum lumen, quod ipse verum existimo, celare tento, ea prorsus ex parte qua
manum interpono, si non omnino abscondo, minuo saltem atque infusco. Infusco,
inquam; neque enim ex qualibet manus interpositione celari obiecta possunt, ne
videantur.
Si quis enim, ut dicebam, attente
animadvertat, dum veram candelæ a nobis remotæ flammam tegere manus
obiectu nitimur, etiamsi summam pyramidis accensæ partem revera manus
texerit, adhuc tamen eamdem illam inter manum atque oculum conspicimus,
videturque interpositus digitus ea flamma comburi ac duas veluti in partes
secari; ea plane ratione quam digitus A ostendit. Qui autem fieri possit, ut ex
hac digiti interpositione aspectus flammæ non impediatur, sic ostendo.
Cum oculi pupilla indivisibilis non sit, sed plures possit in partes dividi,
poterit una illius pars tegi, reliquis non tectis; quamvis ergo, parte aliqua
pupillæ obtecta, ad illam species obiecti luminis non perveniant, si
tamen reliquæ apertæ remaneant et ad illas eædem species
pertingere possint, lumen adhuc videbitur.
Sit enim, verbi gratia, lumen BC, oculi
pupilla FA, corpus opacum interpositum sit D, quod quidem speciem puncti C
pervenire ad F non permittat, nullo tamen sit impedimento quin ex C alter
radius CA perveniat ad partem pupillæ A. Per radium ergo CA videbitur
apex luminis C; non videbitur autem adeo fulgens, ut tunc quando totam pupillam
sua imagine explebat: idem autem apex C non prius videri desinet, quam corpus D
totam pupillam tegat, prohibeatque ne ullis radiis apex C ad illam feratur.
Quod si corpus D multo minus fuerit quam oculi pupilla, verbi gratia filum
aliquod crassum, parumque ab eadem pupilla abfuerit, lumine interim longe
posito; quomodocunque inter oculum et lumen idem filum extendatur, nullam
luminis partem impediet, neque fili eiusdem pars inter oculum et flammam
constituta comparebit, ac si prorsus combusta fuisset: quod ex eadem causa
oritur. Neque enim filum illud, cum minus sit quam pupilla, si ab eadem non
longe distet, impedire potest quominus omnes flammæ partes, aliquibus
saltem radiis, ad potentiam ferantur: quare per eos saltem flamma videbitur.
Ad tertium denique dictum, quo ait,
sidera hoc splendore accidentario spoliari, cum tubo optico conspiciuntur;
multa hic etiam sunt, quæ non facile solvantur. Nam si tubus opticus sidera adscititio hoc fulgore spoliaret, non
deberet hic fulgor per tubum conspici: at conspicitur tamen. Et quidem inter
fixas stellas nulla est adeo exigua, quæ splendore isto, etiam non suo, a
tubo exui patiatur; quod Galilæus ipse fateri videtur, dum a Cane aliisque
stellis fulgorem illum numquam omnino auferri posse affirmat: semper enim,
etiam per tubum, scintillantes hosce radios in illis intuemur. Sed quid dico a
stellis? Planetæ etiam aliqui adeo fulgoris huius tenaces sunt, ut
nunquam sibi illum eripi patiantur; Mars videlicet, Venus atque Mercurius,
quorum lumen nisi coloratis vitris, specillo aptatis, retuderis, nunquam nudi
comparebunt. Et sane non video, si eadem radiorum illorum causa in superficie
oculi remanet, hoc est humor ille pupillæ perpetuo insidens, cur postea,
si lumen astri, per specilli vitra refractum, in eumdem humorem incidat,
refringi iterum, quanquam diverso fortasse modo, eosdemque luminis ductus
producere, non debeat. Iam vero si illud admittatur, quod admitti necesse est,
ut supra probavimus, aërem etiam illuminari, atque ex hoc fieri posse ut sidus
maius appareat quam revera sit; non poterit Galilæus negare, ex hoc
saltem capite, circumfusum etiam fulgorem videri per tubum, ac proinde etiam
augeri debere: fatetur quippe omnia illa per tubum videri atque ab eodem
augeri, quæ ultra ipsum posita sunt; cum igitur hic etiam splendor ultra
specillum sit, per illud conspici augerique debebit. Quod si nihilominus in
stellis hoc incrementum non percipitur, aliunde petenda erit huius aspectus causa,
non ex eo quod radiatio hæc fiat inter specillum et oculum, hoc est in
superficie humida oculi. Hoc enim, si non de radiis illis vagis ac distinctis,
sed de stabili et continuo amplioris luminis coronamento loquamur, ex aëre
illuminato existere posse, Solis ac Lunæ exemplis, prope horizontem
ampliori orbe quam in vertice apparentium, comprobatur: si vero de radiis ipsis
intelligatur, cum hi etiam per specillum conspiciantur in stellis, non poterit
hoc minimum earumdem stellarum incrementum in radiorum illorum abiectionem
referri, cum non abiiciantur.”
Passi ora V. S. Illustrissima alla
terza proposizione, la quale legga e rilegga tutta con attenzione: dico con
attenzione, acciò tanto più manifestamente si conosca poi, quanto
artificiosamente vada pure il Sarsi continuando suo stile di voler,
coll'alterare levare ed aggiungere e più col divertire il discorso e
meschiarlo con cose aliene dal proposito, offuscar la mente del lettore,
sì che in ultimo, tra le cose da sé confusamente apprese, gli possa
restar qualche opinione che il signor Mario non abbia così stabilita la
sua dottrina, che altri non v'abbia potuto trovar che opporre.
Essendo stata opinione di molti ch'una
fiammella ardente apparisca assai maggiore in certa distanza perch'ella
accenda, ed in conseguenza renda egualmente splendida, buona parte dell'aria
sua circonvicina, onde poi da lontano e l'aria accesa e la vera fiammella
appariscano un lume solo; il signor Mario, confutando questo, disse che l'aria
non s'accendeva né s'illuminava, e che l'irraggiamento, per cui si faceva
l'ingrandimento, non era intorno alla fiammella, ma nella superficie
dell'occhio nostro. Il Sarsi, volendo trovar che opporre a cotal vera dottrina,
in vece di render grazie al signor Mario d'avergli insegnato quello che di sicuro
gli era sino allora stato ignoto, si fa innanzi, e si pone a voler provare come
contro al detto del signor Mario, l'aria s'illumina: nella quale impresa egli,
per mio parere, erra in molte maniere.
E prima, dove il signor Mario,
redarguendo il detto di quei filosofi, disse che l'aria non s'accendeva né
s'illuminava, il Sarsi mette sotto silenzio quella parte dell'accendersi, e
solo tratta dell'illuminarsi: onde il signor Mario con ragion può dire
al Sarsi d'aver parlato d'una cosa, ed esso aver preso ad impugnarne un'altra;
aver parlato, dico, dell'aria circonvicina alla fiammella e dell'illuminazione
che le può venire dal suo accendersi, e quello aver parlato
dell'illuminazione che senza incendio viene sopra l'aria vaporosa, posta in
qualsivoglia distanza dall'oggetto illuminante. Inoltre, egli medesimo sul
primo ingresso dice che i corpi diafani non s'illuminano, tra i quali mette nel
primo luogo l'aria, e poi soggiunge che, mescolata con vapori grossi e potenti
a reflettere il lume, ella ben s'illumina. Adunque, signor Sarsi, sono i vapori
grossi, e non l'aria, quelli che s'illuminano. Voi mi fate sovvenir di quello
che diceva che il grano gli faceva venir capogiroli e stornimenti di testa,
quando però v'era mescolato del loglio. Ma è il loglio, in buon'ora,
e non il grano, quello ch'offende. Voi volete insegnarci che nell'aria vaporosa
s'illumina l'aurora, che mill'altri ed il signor Mario stesso l'ha in sei
luoghi scritto innanzi a voi. Ma che più? voi medesimo in questo
medesimo luogo dite che io l'ammetto insino intorno alla Luna ed a Giove;
adunque tutte le prove ed esperienze di aurora, d'aloni, di parelii e di Luna
ascosta dopo qualche parete sono superflue, non avendo noi già mai
dubitato, non che negato, che i vapori diffusi per aria, le nuvole e la
caligine s'illuminano. Ma che volete voi, signor Sarsi, far poi di cotale
illuminazione? dir forse (come in effetto dite) che per essa appariscano i
primarii oggetti illuminanti maggiori? e come non v'accorgete voi che, quando
ciò fusse vero, bisognerebbe che il Sole e la Luna si mostrassero grandi
quanto tutta l'aurora e gli aloni interi, imperò che cotanta è
l'aria vaporosa che del lume loro è fatta partecipe? Voi dunque, signor
Sarsi, perché avete trovato scritto (dico così, perché voi stesso citate
i filosofi e gli autori d'ottica per confermare ed autorizare cotali
proposizioni) che la region vaporosa s'illumina, ed oltre a ciò che il
Sole e la Luna vicini all'orizonte appariscono, mediante tal regione vaporosa,
maggiori che inalzati verso il mezo cielo, vi siete persuaso che da cotale
illuminazione dependa il loro apparente ingrandimento. È vera l'una e
l'altra proposizione, cioè che l'aria vaporosa s'illumina, e che il Sole
e la Luna presso all'orizonte, mercé della region vaporosa, appariscono maggiori;
ma è falso il connesso delle due proposizioni, cioè che la
maggioranza dependa dall'esser tal regione illuminata, e voi vi sete molto
ingannato, e toglietevi da così erronea opinione; imperocché non pel
lume de' vapori, ma per la figura sferica dell'esterna loro superficie, e per
la lontananza maggiore di quella dall'occhio nostro quando gli oggetti son
più verso l'orizonte, appariscono essi oggetti maggiori della lor
commune apparente grandezza, e non i luminosi solamente, ma qualunque altro
posto fuor di tal regione. Traponete tra l'occhio vostro e qualsivoglia oggetto
una lente convessa cristallina in varie lontananze: vedrete che quando essa
lente sarà vicino all'occhio, poco si accrescerà la specie
dell'oggetto veduto; ma discostandola, vedrete successivamente andar quella
ingrandendosi. E perché la region vaporosa termina in una superficie sferica,
non molto elevata sopra il convesso della Terra, le linee rette che tirate
dall'occhio nostro arrivano alla detta superficie, sono disuguali, e minima di
tutte la perpendicolare verso il vertice, e dell'altre di mano in mano maggior
sono le più inclinate verso l'orizonte che verso il zenit. Quindi anco
(e sia detto per transito) si può facilmente raccorre la causa
dell'apparente figura ovata del Sole e della Luna presso all'orizonte,
considerando la gran lontananza dell'occhio nostro dal centro della Terra,
ch'è lo stesso che quello della sfera vaporosa; della quale apparenza,
come credo che sappiate, ne sono stati scritti, come di problema molto astruso,
interi trattati, ancor che tutto il misterio non ricerchi maggior
profondità di dottrina che l'intender per qual ragione un cerchio veduto
in maestà ci paia rotondo, ma guardato in iscorcio ci apparisca ovato.
Ma ritornando alla materia nostra, io
non so con che proposito dica il signor Sarsi, esser cosa ridicolosa il dire
che l'alba e i crepuscoli ed altri simili splendori si generino nell'umore
sparso sopra l'occhio, e molto più ridicoloso se alcuno dicesse che
guardando noi verso il vertice, avessimo gli occhi più secchi che
guardando l'orizonte, e che però la Luna e 'l Sole ci paresser minori in
quel luogo che in questo: non so, dico, a che fine sieno introdotte queste
sciocchezze, non si trovando chi già mai l'abbia dette. Ma mentre il
Sarsi ci figura per troppo semplici, veggiamo se forse cotal nota più ad
esso che a noi s'accommodi. Qui si tratta di quello irraggiamento avventizio
per lo quale le stelle ed altri lumi inghirlandandosi appariscono assai
maggiori che se fussero visti i loro piccoli corpicelli spogliati di tali
raggi, tra i quali, perché sono poco men lucidi della prima e vera fiammella,
resta esso corpicello indistinto, in modo che ed esso e l'irraggiamento si
mostra come un sol oggetto grande e risplendente. A parte di questo irraggiamento
ed ingrandimento vuole il Sarsi mettere il lume che per refrazzione si produce
nell'aria vaporosa, e vuole che per questo il Sole e la Luna si mostrino
maggiori verso l'orizonte che elevati in alto, e, quel ch'è peggio,
vuole che l'istesso abbiano creduto molti altri filosofi: il che è
falso, né ànno sì altamente errato. E che questo sia grandissimo
errore, lo doveva molto speditamente mostrare al Sarsi la grandissima
distinzione che si vede tra le luci del Sole e della Luna e l'altro splendore
circunfuso, dentro al quale incomparabilmente più lucido e meglio
determinato questo e quel luminare si discerne: il che non accade
dell'irraggiamento delle stelle, tra 'l quale il corpicello della stella resta
da pari splendore ingombrato ed indistinto.
Ma sento il Sarsi che risponde e dice,
che quel Sole e Luna grandi non sono i corpi reali nudi e schietti, ma uno
aggregato e composto del piccol corpo reale e dell'irraggiamento che
l'inghirlanda e racchiude in mezo con luce non minore della primaria, onde ne risulta
il gran disco apparente tutto egualmente splendido. Ma se questo è,
signor Sarsi, perché non si mostra la Luna così grande nel mezo del
cielo ancora? vi manca forse l'aria vaporosa atta ad illuminarsi? Io non so
quello che voi foste per rispondere, né me lo potrei immaginare, perché non si
potendo contra a un vero venir con altro che con fallacie e chimere, le quali,
come voi sapete, sono infinite, io non potrei indovinar la vostra eletta. Ma
per troncarle tutte in una volta e cavar voi ed altri, se vi fussero, d'errore,
basti, a farvi toccar con mano che la gran Luna che voi vedete nell'orizonte
è la schietta e nuda, e non aggrandita per altra luce avventizia e
circunfusa, basti, dico, il vedere le sue macchie sparse per tutto il suo disco
sino all'estrema circonferenza nella guisa a capello che si mostra nel mezo del
cielo; ché se fusse come avete creduto voi, le macchie nella Luna bassa e
grande si doverebbon veder raccolte tutte nella parte di mezo, lasciando la
ghirlanda intorno lucida e senza macchie. Adunque, non per isplendore aggiunto,
ma per uno ingrandimento di tutta la specie nel refrangersi nella remota
superficie vaporosa, si mostrano il Sole e la Luna maggiori bassi che alti.
Or vedete, signor Sarsi, quanto
è facil cosa l'atterrare il falso e sotenere il vero. Questa pur troppo
grand'evidenza della falsità di molte proposizioni che si leggono nel
vostro libro, non mi lascia interamente credere che voi non l'abbiate compresa;
e vo pensando che possa essere che, conoscendovi voi internamente dalla
realtà delle ragioni convinto, vi riduciate per ultimo partito a far
prova se l'avversario, col creder vere quelle cose che voi stesso conoscete
false, si ritirasse e cedesse; e che perciò voi arditamente le portiate
avanti, imitando quel giocatore che, vedendosi d'aver a carte scoperte perduto
l'invito, tenta con altro soprinvito maggiore di far credere all'avversario
gran punto quello che piccolissimo vede egli stesso, onde, cacciato dal timore,
ceda e se ne vada. E perché io veggo che voi vi siete alquanto intrigato tra
questi lumi primarii, refratti e reflessi ne' vapori o nell'occhio, comportate
voi, come scolare, ch'io, come professore e maestro vecchio, vi sviluppi ancora
un poco meglio.
Per tanto sappiate che dal Sole, dalla
Luna e dalle stelle, corpi tutti risplendenti e costituiti fuori e molto
lontani dalla superficie della region vaporosa, esce splendore che
perpetuamente illumina la metà di tal regione; e di questo emisferio
illuminato l'estremità occidentale ci arreca la mattina l'aurora, e la
parte opposta ci lascia la sera il crepuscolo: ma niuna di queste illuminazioni
accresce o scema o in modo alcuno altera l'apparente grandezza del Sole, Luna e
stelle, che perpetuamente si ritrovano nel centro o vogliamo dir nel polo di
questo emisferio vaporoso da loro illuminato; del quale le parti direttamente
traposte tra l'occhio nostro e 'l Sole o la Luna ci si mostrano più
splendide dell'altre che di grado in grado da queste parti di mezo più
si discostano, lo splendor delle quali va di mano in mano languendo; e questo
è quel lume che dà segno dell'appressamento della Luna allo
scoprirsi, mentre dopo qualche tetto o parete ci si nasconde. Una simile
illuminazione si fanno intorno intorno anco le fiammelle poste dentro alla
sfera vaporosa; ma questa è tanto debile e languida, che se di notte
asconderemo un lume dopo qualche parete e poi ci anderemo movendo per
iscoprirlo, difficilmente scorgeremo splendore alcuno circunfuso o vedremo
altra luce sin che si scuopra la fiamma principale; e questo debolissimo lume
nulla assolutamente accresce la visibile specie di essa fiammella. Ci è
un'altra illuminazione, fatta per refrazzione nella superficie umida
dell'occhio, per la quale l'oggetto reale ci si mostra circondato da un cerchio
luminoso, ma inferiore assai di splendore alla primaria luce; e questo si
mostra allargarsi per maggiore o minore spazio, non solamente secondo la
maggiore o minor copia d'umore, ma secondo la cattiva o buona disposizion
dell'occhio: il che ho io in me stesso osservato, che per certa affezzione
cominciai a vedere intorno alla fiamma della candela uno alone luminoso e di
diametro di più d'un braccio, e tale che mi celava tutti gli oggetti
posti di là da esso; scemando poi l'indisposizione, scemava la grandezza
e la densità di questo alone, ma però me ne resta ancora molto
più di quello che veggono gli occhi perfetti: e questo alone non
s'asconde per l'interposizion della mano o d'altro corpo opaco tra la candela e
l'occhio, ma resta sempre tra la mano e l'occhio, sin che non si occulta il
lume stesso della candela. Per questo lume parimente non s'ingrandisce la
specie della fiammella, del cui splendore egli è assai men chiaro. Ci
è un terzo splendore vivacissimo e chiaro quasi al par dell'istesso lume
principale, il qual si produce per reflessione de' raggi primarii fatta
nell'umidità de gli orli ed estremità delle palpebre, la qual
reflessione si distende sopra 'l convesso della pupilla: della qual produzzione
abbiamo argomento sicuro dal mutar noi la positura della testa; imperò che
secondo che noi la inclineremo, alzeremo, o vero terremo dirittamente opposta
all'oggetto luminoso, lo vederemo irraggiato nella parte superiore solamente, o
nell'inferiore solamente, o in ambedue; ma dalla destra o dalla sinistra
già mai non vederemo comparirgli raggi, perché le reflessioni fatte
verso gli angoli dell'occhio non possono arrivar sopra la pupilla, sotto
l'orizonte della quale, mediante la piegatura delle palpebre su la sfera
dell'occhio, esse parti angolari si ritrovano; e se altri, calcando colle dita
sopra le palpebre, allargherà l'occhio e discosterà gli orli di
quelle dalla pupilla, non vedrà raggi né sopra né sotto, avvenga che le
reflessioni fatte in essi orli non vanno sopra la pupilla. Questo solo
è quello irraggiamento per lo quale i piccoli lumi ci appariscono grandi
e raggianti, e nel quale la real fiammella resta ingombrata ed indistinta.
L'altre illuminazioni non ànno, signor Sarsi, che far nulla, nulla pænitus,
nell'ingrandimento, perché sono tanto inferiori di luce al lume primario,
che ben sarebbe cieco affatto chi non vedesse il termine confine e distinzione
tra l'uno e l'altro; oltre che (come di sopra ho detto) il disco del Sole e
quel della Luna, quando per tale illuminazione s'ingrandissero, dovrebbono
mostrarsi grandi quanto gl'immensi cerchi delle loro aurore. Però quando
voi dite che non negate, quella corona raggiante esser affezzion dell'occhio,
ma che non perciò ho io ancora provato che qualche parte non dependa
dall'aria circunfusa illuminata, toglietevi dal troppo miseramente mendicar
sussidii così scarsi. Che volete che faccia quel debolissimo lume
mescolato con quei fulgentissimi raggi reflessi dalle palpebre? aggiunge quel
che farebbe il lume d'una torcia a quel del Sole meridiano. Di questo lume
sparso per l'aria vaporosa io ve ne voglio conceder non solamente quella
piccola parte che voi domandate, ma quanto abbraccia tutta l'aurora e 'l
crepuscolo e tutto l'emisferio vaporoso; e di questo voglio che il corpo
luminoso né per telescopio né per altro mezo possa già mai essere
spogliato; e voglio ancora, per vostra compitissima soddisfazzione, ch'ei venga
dal telescopio ingrandito come tutti gli altri oggetti, sì che non pure
adegui tutta l'aurora, ma mille volte maggiore spazio, se mille volte tanto si
potesse comprendere coll'occhiale; ma niuna di queste cose solleva punto né voi
né 'l vostro Maestro, che avreste bisogno, per mantenimento della vostra
principal conclusione (ch'è che le stelle fisse, per esser lontanissime,
non ricevono accrescimento veruno dal telescopio), avreste bisogno, dico, che
la stella ed il suo irraggiamento fusse una cosa medesima, o almeno che
l'irraggiamento fusse realmente intorno alla stella; ma né quello né questo
è vero, ma bene è egli nell'occhio, e le stelle ricevono
accrescimento tanto quanto ogn'altro oggetto veduto col medesimo strumento,
come puntualissimamente scrisse e dimostrò il signor Mario.
Questi altri vostri diverticoli, d'arie
vaporose illuminate e di Soli e Lune alte e basse, son, come si dice,
pannicelli caldi, e un voler fuggir la scuola e cercar di deviare il lettore
dal primo proposito. E fra l'altre vostre molte diversioni, questa che fate in
mostrar con assai lungo discorso come per l'interposizion del dito non
s'impedisca la vista della fiammella, e quel che dite del filo sottile e del
corpo interposto minor della pupilla, son tutte cose vere, ma, per mio avviso,
nulla attenenti al proposito che si tratta: il che veggo che internamente avete
conosciuto voi medesimo ancora, atteso che, quando era il tempo dell'applicazione
di queste cose alla materia e di chiuder la conclusione, voi fate punto, e
lasciandoci sospesi passate ad altro proposito, e cercate, pur per via di
discorso, provar cosa di cui cento esperienze chiarissime sono in contrario; e
ben che voi veggiate, guardando col telescopio, la stella di Saturno
terminatissima e di figura diversissima dall'altre, il disco di Giove e quel di
Marte, e massime quando è vicino a Terra, perfettamente rotondi e
terminati, Venere a suoi tempi corniculata ed esattissimamente delineata, i
globetti delle stelle fisse, e massime delle maggiori, molto ben distinti, e
finalmente mille fiammelle di candele, poste in gran distanza, così ben
dintornate come da vicino, dove, senza il telescopio, l'occhio libero niuna di
cotali figure distingue, ma tutte le vede ingombrate da raggi stranieri e tutte
sotto una stessa figura radiante, con tutto ciò pur volete che 'l
telescopio non le mostri senza raggi, persuaso da certi vostri discorsi, de i
quali io non sarei in obligo di scoprir le fallacie, avendo per me l'esperienza
in contrario; tuttavia, per vostra utilità, le accennerò
così brevemente.
E per venir con ogni maggior chiarezza
al mio intento, io vi domando, signor Sarsi, onde avvenga che Venere si
circonda sì fattamente di questi raggi ascitizii e stranieri, che tra
essi perde in modo la sua real figura, ch'essendo stata dalla creazion del
mondo in qua mille e mille volte cornicolata, mai da vivente alcuno non
è stata osservata né veduta tale, ma sempre è apparsa d'una
stessa figura, se non dapoi ch'io primieramente col telescopio scopersi le sue
mutazioni? il che non accade della Luna, la quale coll'occhio libero mostra le
sue diversità di figure, senza notabile alterazione che dependa
dall'irraggiamento avventizio. Non rispondete, ciò accadere mediante la
gran lontananza di Venere e la vicinanza della Luna; perché io vi dirò
che quello che accade a Venere, accade ancora alle fiammelle delle candele, le
quali, in distanza di cento braccia solamente, confondono la lor figura tra i
raggi e la perdono non men di Venere. Se volete risponder bene, bisogna che
diciate, ciò derivare dalla piccolezza del corpo di Venere in relazione
all'apparente grandezza di quel della Luna, e che vi figuriate, la lunghezza di
quei raggi che si producono nell'occhio esser, verbigrazia, per quattro
diametri di Venere, che non saranno poi la decima parte del diametro della
Luna: ora figuratevi la piccolissima falce di Venere, inghirlandata di una
chioma che se le sparga e distenda intorno intorno in distanza di quattro suoi
diametri, ed insieme la grandissima falce della Luna con una chioma non
più lunga della decima parte del suo diametro; non doverà esservi
difficile a intendere come la forma di Venere del tutto si perderà tra
la sua capellatura, ma non già quella della Luna, la quale pochissimo
s'altererà: ed accade in questo quello a punto che accaderebbe in
vestire una formica di pelle d'agnello, di cui la configurazione delle
piccoline membra in tutto e per tutto si perderebbe tra la lunghezza de i peli,
sì che l'istessa apparenza farebbe che se fusse un bioccolo di lana;
nulla dimeno l'agnello, per la sua grandezza, assai distinte mostra le membra
sue sotto la pecorile spoglia. Ma dirò, di più, che ricevendo il
capillizio splendido, che risiede nell'occhio, la limitazion del suo
spargimento dalla costituzion dell'occhio stesso più che dalla grandezza
dell'oggetto luminoso (e così veggiamo stringendo le palpebre, sì
che appariscano surger dall'oggetto luminoso raggi molto lunghi, non si veggono
maggiori quei che vengono dalla Luna, che quei di Venere o d'una torcia o d'una
fiaccola), figuratevi una determinata grandezza d'una capellatura; nel mezo
della quale se voi intenderete essere un piccolissimo corpo luminoso,
perderà la sua figura, coronato di troppo lunghi crini; ma ponendovi un
corpo maggiore e maggiore, finalmente potrà il simulacro reale occupar
tanto nell'occhio, che poco o niente gli avanzi intorno del capillizio; e
così l'immagine, verbigrazia, della Luna potrà esser che ingombri
nell'occhio spazio maggiore della commune irradiazione. Stante queste cose,
intendete il disco reale, per essempio, di Giove occupar sopra la nostra luce
un cerchietto, il cui diametro sia la ventesima parte dello spargimento della
chioma raggiante, onde in sì gran piazza resta indistinto il
piccolissimo cerchietto reale: viene il telescopio, e m'aggrandisce la specie
di Giove in diametro venti volte; ma già non ingrandisce
l'irraggiamento, che non passa per li vetri: adunque io vedrò Giove non
più come una piccolissima stella radiante, ma come una Luna rotonda, ben
grande e terminata. E se la stella sarà assai più piccola di
Giove, ma di splendore molto fiero e vivo, qual è, per essempio, il
Cane, il cui diametro non è la decima parte di quel di Giove, nulla di
meno la sua irradiazione è poco minor di quella di Giove, il telescopio,
accrescendo la stella ma non la chioma, fa che, dove prima il piccolissimo
disco tra sì ampio fulgore era impercettibile, già fatto in
superficie 400 e più volte maggiore, si può distinguere ed assai
ben figurare. Con tal fondamento andate discorrendo, ché potrete disbrigarvi
per voi stesso da tutti gl'intoppi.
E rispondendo alle vostre instanze,
quando dal signor Mario e da me è stato detto che 'l telescopio spoglia
le stelle di quel coronamento risplendente, ciò è stato
profferito non con intenzione d'avere a stare a sindicato di persone
così puntuali come siete voi, che, non avendo altro dove attaccarvi, vi
conducete sino a dannar con lunghi discorsi chi prende il termine usitatissimo
d'infinito per grandissimo. Quando noi abbiamo detto che il telescopio spoglia
le stelle di quello irraggiamento, abbiamo voluto dire ch'egli opera intorno a
loro in modo che ci fa vedere i lor corpi terminati e figurati come se fussero
nudi e senza quello ostacolo che all'occhio semplice asconde la lor figura.
È egli vero, signor Sarsi, che Saturno, Giove, Venere e Marte all'occhio
libero non mostrano tra di loro una minima differenza di figura, e non molto di
grandezza seco medesimi in diversi tempi? e che coll'occhiale si veggono,
Saturno come appare nella presente figura,
e Giove e Marte in quel modo sempre, e
Venere in tutte queste forme diverse? e, quel ch'è più
meraviglioso, con simile diversità di grandezza? sì che
cornicolata mostra il suo disco 40 volte maggiore che rotonda, e Marte 60 volte
quando è perigeo che quando è apogeo, ancor che all' occhio
libero non si mostri più che 4 o 5? Bisogna che rispondiate di
sì, perché queste son cose sensate ed eterne, sì che non si
può sperare di poter per via di sillogismi dare ad intendere che la cosa
passò altrimenti. Or, l'operare col telescopio intorno a queste stelle
in modo che quell'irraggiamento, che perturbava l'occhio libero ed impediva
l'esatta sensazione, la qual opera è cosa massima e d'ammirabili e
grandissime consegnenze, è quello che noi abbiam voluto significare nel
dire spogliar le stelle dell'irraggiamento, che son parole
solamente di niun momento, di niuna conseguenza: le quali se a voi, che siete
ancora scolare, danno fastidio, potrete mutarle a vostro beneplacito, come
cambiaste già quello nostro accrescimento nel vostro transito dal non
essere all'essere.
A quello che voi dite, parervi pur
ragionevole che, sì come l'oggetto lucido, venendo per lo mezo libero,
produce nell'occhio l'irraggiamento, egli debba ancor far l'istesso quando
viene passando per li cristalli del telescopio; rispondo concedendovelo
liberamente, e dicovi che accade a punto l'istesso de gli oggetti veduti col
telescopio che de' veduti senza: e sì come il disco di Giove, per
essempio, veduto coll'occhio libero rimane per la sua piccolezza perduto
nell'ampiezza del suo irraggiamento, ma non già quello della Luna, che
colla sua gran piazza occupa sopra la nostra pupilla spazio maggiore del cerchio
raggiante, per lo che ella si vede rasa, e non crinita; così, facendomi
il telescopio arrivar sopra l'occhio il disco di Giove sei cento e mille volte
maggiore della specie sua semplice, fa ch'egli colla sua ampiezza ingombri
tutta la capellatura de' raggi, e comparisca simile ad una Luna piena: ma il
disco piccolissimo del Cane, ben che mille volte ingrandito dal telescopio, non
però adegua ancora la piazza radiosa, sì che ci apparisca tosato
del tutto; nientedimeno, per essere i raggi verso l'estremità alquanto
men forti e tra loro divisi, resta egli visibile, e tra la discontinuazion de'
raggi si vede assai commodamente la continuazion del globetto della stella, il
quale con uno strumento che più e più l'accrescesse, più e
più sempre distinto e meno irraggiato ci si mostrerebbe. Sì che
la cosa, signor Sarsi, sta così, e questo effetto ci venne chiamato uno
spogliar Giove del suo capillizio: le quali parole se non vi piacciono,
già vi si è dato licenza che le mutiate ad arbitrio vostro, ed io
vi do parola d'usar per l'avvenire la vostra correzzione; ma non v'affaticate
in voler mutar la cosa, perché non farete niente.
E già che voi in questo fine
replicate che pure è necessario conceder che l'aria circunfusa
s'illumini, e che perciò la stella apparisca maggiore; ed io torno a
replicarvi che i vapori circunfusi s'illuminano, ma non perciò il corpo
luminoso s'accresce punto, essendo che il lume de' vapori è
incomparabilmente minore della primaria luce: per lo che il corpo lucido, se
è grande, resta nudo, e se è piccolo, rimane, col suo
irraggiamento fatto nell'occhio, terminatissimo e distintissimo tra 'l
debolissimo lume dell'aria vaporosa. E vi replico ancora, poi che voi medesimo
me ne porgete replicata occasione, che totalmente deponghiate quella falsa
opinione che 'l Sole e la Luna presso all'orizonte si mostrino maggiori per una
ghirlanda d'aria illuminata che s'aggiunga al lor disco, perché questa è
una grandissima semplicità, come di sopra ho detto e provato. E per non
lasciar cosa intentata per cavarvi d'errore e far che voi restiate capace di
questo negozio, alle vostre ultime parole, dove voi dite che vedendosi pur pel
telescopio essi raggi luminosi intorno alle stelle, non si potrà ridurre
il minimo ricrescimento di quelle nella perdita di questi, essendo che non si
perdono; vi rispondo che l'accrescimento è grandissimo, come in tutti
gli altri oggetti, e che il vostro errore sta (come sempre si è detto)
nel paragonar voi la stella insieme con tutto il suo irraggiamento, visto
coll'occhio libero, col corpo solo della stella veduto, collo strumento,
distinto dalla sua piazza radiosa, della quale egli talvolta compar maggiore e
tal volta eguale, secondo la grandezza della stella vera e la moltiplicazion
del telescopio; e quando comparisce minor di esso irraggiamento, tuttavia si
scorge il suo disco, come ho detto, tra l'estremità della capellatura.
Ed una accommodatissima riprova dell'accrescimento grande, come in tutti gli
altri oggetti, è il pigliar Giove coll'occhiale avanti giorno, e andarlo
seguitando sino al nascer del Sole e più oltre ancora; dove si vede il
suo disco, pel telescopio, sempre grande nell'istesso modo: ma quel che si vede
coll'occhio libero, crescendo il candor dell'aurora si va sempre diminuendo,
sì che vicino al nascer del Sole quel Giove che nelle tenebre superava
d'assai ogni stella della prima grandezza, si riduce ad apparir minore di
quelle della quinta e della sesta, e finalmente, ridottosi quasi ad un punto
indivisibile, nascendo il Sole, si perde del tutto: nulla dimeno, sparito all'occhio
libero, si séguita egli pur di vederlo tutto il giorno grande e ben circolato;
ed io ho uno strumento che me lo mostra, quando è vicino alla Terra,
eguale alla Luna veduta liberamente. Non è dunque cotal ricrescimento
minimo o nullo, ma grande, come di tutti gli altri oggetti.
Io vi voglio, signor Sarsi, pigliare
alla stracca, se non potrò prendervi correndo. Volete voi una nuova
dimostrazione, per prova che gli oggetti in tutte le distanze crescono nella
medesima proporzione? Sentitela. Io vi domando se, posti quattro, sei o dieci
oggetti visibili in varie lontananze, ma in guisa però che tutti si
veggano nella medesima linea retta, sì che il più vicino occupi
tutti gli altri, vi domando, dico, se tenendo l'occhio nel medesimo luogo e
riguardando i medesimi oggetti co 'l telescopio, voi gli vedrete pur posti in
linea retta o no, sì che il vicino non vi asconda più gli altri,
ma ve gli lasci vedere? Credo pur che voi risponderete ch'ei vi compariranno
per linea retta, essendo realmente per linea retta disposti. Ora, stante
questo, immaginatevi quattro, sei o dieci bacchette diritte, tra di lor
paralelle, poste in distanze disuguali dall'occhio, ed esse di lunghezze pur
disuguali, e le più lontane maggiori, e di mano in mano le più
vicine minori, in modo che gli estremi termini loro si veggano posti in due
linee rette, una a destra e l'altra a sinistra; pigliate poi il telescopio, e
riguardatele con esso: già, per la concession fatta, i medesimi termini,
tanto i destri quanto i sinistri, si vedranno pure in due linee rette come
prima, ma aperte in maggiore angolo. E come ciò sia, signor Sarsi, questo,
appresso i geometri, si domanda ricrescer tutte quelle linee secondo la
medesima proporzione, e non ricrescer più le vicine che le lontane.
Cedete dunque, e tacete.
“Sed videamus, quam recte ex
Peripatetica disciplina atque ex experimentis sibi arma contra Aristotelem
fabricet Galilæus. "Præterea, inquit, cometam flammam non
fuisse, ex ipsa experientia et Peripateticorum dicto deducimus, quo affirmant,
nullum corpus lucidum esse perspicuum; experientia vero docet, flammam vel minimam
unius candelæ impedimento esse quominus obiecta ultra ipsam posita
conspiciantur: si ergo cometam flammam fuisse quis dixerit, dicendum eidem
erit, stellas ultra illam positas ab ea celari debuisse: et tamen per
cometæ caudam lucidissime intermicantes easdem stellas vidimus."
Hæc ille: in quibus mirari satis non possum, hominem, magni alioqui
nominis atque experimentorum amantissimum, ea diserte adeo asseverasse,
quæ obviis ubique experimentis redargui facile possent.
Quamvis enim Peripateticorum dictum, si
recte intelligatur, verissimum sit (omne enim corpus, ad hoc ut illuminetur
vel, potius, illuminatum appareat, excurrentem ulterius lucem quasi sistere ac
reprehendere debet; perspicuum autem, utpote eidem luci pervium, eam terminare
non potest: ex quo dicendum est, corpus quodcumque eo clarius illuminandum, quo
plus opaci minusque habuerit perspicui), nullus tamen est qui neget, reperiri
corpora partim perspicua partim opaca, quæ partem lucis aliquam
terminent, qua lucida appareant, aliquam vero libere transire permittant;
qualia sunt nubes rariores, aqua, vitrum et huiusmodi multa, quæ et lumen
in superficie terminant, et ad aliam partem idem transmittunt. Quare nihil est,
cur ex hoc dicto quidquam momenti suis experimentis Galilæus adiectum
putet.
Experimenta porro ipsa falsa
deprehenduntur. Affirmo igitur, candelæ flammam obiecta ultra se posita
ex oculis non auferre, et perspicuam esse.
Huic, primum, dicto adstipulantur
Sacræ Litteræ, cum de Anania, Azaria ac Misaele in fornacem, Regis
iussu, coniectis agunt. Sic enim Regem ipsum loquentem inducunt: "Ecce ego
video quatuor viros solutos et ambulantes in medio ignis, et nihil corruptionis
in eis est; et species quarti similis filio Dei." Ac ne quis existimet id
pro miraculo habendum, idem probatur iterum ex eo, quia in candelæ flamma
medio loco consistens videtur ellychnium, seu nigricans seu candens.
Præterea, cum strues aliqua ingens lignorum incenditur, medias inter
flammas semiusta ligna et carbones accensos libere prospectamus, cum tamen
sæpe maxima flammarum vis oculum inter atque eadem ligna media consistat.
Flamma igitur perspicua est.
Secundo, quodcumque opacum, inter
oculum et obiectum positum, eiusdem obiecti aspectum impedit, sive magno sive
parvo ab eodem distet intervallo; ita, verbi gratia, lignum aliquod, sive rem
quampiam attingat sive ab illa multum removeatur (si tamen inter illam atque
oculum substiterit), eam videri non permittet: quod in flamma non accidit,
hæc enim quascumque res ultra se positas, si non longe distent, sed
easdem e proximo vehementer illuminet, semper videri patietur; quod quilibet
experiri facile potest, si legendum aliquid ultra lumen collocaverit, unius
tantum digiti intervallo, tunc enim characteres illos a flamma obtectos facile
perleget: flamma, ergo, perspicua est et luminosa: quod Galilæus negat,
eiusque oppositum tanquam principium, contra Aristotelem disputaturus, assumit.
Quod si quis quærat, cur obiecta
ultra flammam posita, si saltem ab eadem longe semota fuerint, non
conspiciantur, hanc ego huius rei causam assigno: quia nimirum obiectum movens
potentiam vehementius, impedit ne videantur obiecta reliqua, ad eamdem
potentiam movendam minus apta; obiecta autem quælibet eo vehementius,
cæteris paribus, potentiam movent, quo sunt lucidiora; quia igitur obiecta,
longe ultra flammam posita, multo minus illuminantur quam flamma ipsa, ideo
hæc potentiam veluti totam explet obruitque, nec obiecta alia videri
permittit. Et propterea, quo obiecta eadem eidem flammæ fiunt propiora,
quia tanto magis illuminantur, eo etiam magis apta sunt movere potentiam, ac
proinde tunc conspiciuntur; maiori siquidem illustrata lumine, cum flamma pene
ipsa contendunt. Quare si aut flamma obtusiori splendeat lumine, aut obiectum
ultra illam positum luminosum ex se sit, aut ab alio vehementer illuminatum,
nunquam illius aspectum interposita flamma impediet, quamvis longissime
obiectum illud a flamma distet.
Hoc etiam quibusdam experimentis
confirmare placet. Incendatur distillatum vinum, quod aquam vitis vulgo
appellant: eius enim flamma, cum non admodum clara sit, liberam rerum
imaginibus ad oculum viam relinquet, ut etiam minutissimos quosque characteres
perlegi patiatur. Idem accidit in flamma ex incenso sulphure excitata,
quæ, colorata licet sit et crassa, vix tamen quidquam impedimenti eisdem
rerum imaginibus affert.
Secundo, sit licet flamma clarissimo ac
micanti lumine, si tamen alterius candelæ lumen ultra illam collocatum
longe etiam semoveris, inter vicinioris flammæ lumen remotiorem flammam
intermicantem cernes. Cum ergo stellæ corpora sint luminosa et quavis
flamma longe clariora, nil mirum si non potuit earundem aspectus ab interposita
cometæ flamma impediri: ac proinde nihil detrimenti ex hoc Galilæi
argumento patitur Aristotelis opinio.
Tertio, non luminosa solum illa
quæ propria fulgent luce, ab interposita flamma velari non possunt, sed
ne alia quidem corpora opaca, si tamen ab alio lumine illustrentur. Ita
interdiu si quid aspexeris a Sole illuminatum, nullius interpositu flammæ
impediri eius aspectus poterit.
Constat igitur satis superque, flammas
perspicuas esse, atque hoc etiam non obstare quominus cometa flamma esse
potuerit.”
È tempo, Illustrissimo Signore,
di venir a capo di questi pur troppo lunghi discorsi: però passiamo a
questa quarta ed ultima proposizione. Qui, com'ella vede, dice il Sarsi non
potersi a bastanza stupire che io, avendo qualche nome d'avveduto osservatore
ed applicato assai all'esperienze, mi sia ridotto ad affermar constantemente
quelle cose che si possono agevolissimamente confutare con esperimenti
manifesti ed apparecchiati per tutto; de' quali poi n'apporta molti, ond'egli
apparisca altrettanto veridico e diligente sperimentatore, quant'io mal accorto
e mendace. Dirò prima brevemente quello che persuase il signor Mario a
scrivere, e me a prestargli assenso, che quando la cometa fusse una fiamma,
dovesse asconderci le stelle; poi anderò considerando l'esempio e
ragioni del Sarsi, lasciando in ultimo a V. S. Illustrissima il giudicar qual
di noi sia più difettoso e mal avveduto nel suo esperimentare e
discorrere.
Considerando noi, il trasparire d'un
corpo non esser altro che un lasciar vedere gli oggetti posti oltre di sé, ci
persuademmo che quant'esso corpo trasparente fusse men visibile, tanto potesse
meglio trasparere; onde l'aria trasparentissima è del tutto invisibile,
l'acqua limpida ed i cristalli ben tersi, traposti tra oggetti visibili, poco
per se stessi si scorgono: dal che ci pareva che assai a proposito si potesse
all'incontro inferire, i corpi quanto più per se stessi fusser visibili,
dover esser tanto meno trasparenti; e perché tra i corpi visibili per se
stessi, le fiamme per avventura parevano non esser degli infimi, però
giudicammo quelle dovere esser poco trasparenti: l'autorità poi di
Aristotile e de' Peripatetici, aggiunta a questo discorso, ci confermò
nell'opinione. Circa la qual autorità mi par da notare come il Sarsi le
vuol dare altra interpretazione da quella che apertamente suonan le parole; e
dice che intesa bene è verissima, e che il senso è che i corpi,
acciò che si possano illuminare, non devon esser trasparenti; e non, che
i corpi lucidi non son trasparenti. Ma se il Sarsi la piglia in quel senso,
perché così gli par la proposizion vera, adunque bisogna ch'ei lasci
l'altro perché in quello gli paia falsa (perché quanto alle parole, meglio si
adattano a questo che a quello): tuttavia egli medesimo poco di sotto non pure
afferma, ma con più esperienze conferma, i corpi luminosi impedir la
vista delle cose poste oltre di loro, dove scrive: “Nam hæc etiam rerum
ultra ipsa positarum aspectum impediunt”, e quel che segue. Ma tornando al
primo discorso, dico che oltre all'autorità de' Peripatetici ci
confermò ancora più il veder finalmente per esperienza un vetro
infocato impedirci assai la vista degli oggetti, che freddo distintamente ci
lascia scorgere, e l'istesso far la fiammella d'una candela, e massime colla
sua superior parte, più lucida dell'inferiore ch'è intorno al
lucignolo, la qual è più tosto fumo non bene infiammato che vera
fiamma. Di più, avendo noi osservato, la grossezza del corpo, ben che
per se stesso non molto opaco, importar tanto, che, verbigrazia, una nebbia, la
quale in profondità di venti o trenta braccia non ci leva la vista d'un
tronco, moltiplicata all'altezza di 200 o 300 ci toglie del tutto anco la vista
del Sole stesso, pensammo non esser lontano dal ragionevole il creder che la
non trasparenza ed opacità d'una fiamma non potesse mai essere
così poca, che ingrossata in profondità di centinaia e centinaia
di braccia non ci dovesse impedir l'aspetto delle minute stelle. Concludemmo
per tanto, la profondità della chioma della cometa (che pur bisogna che
sia non dirò col Sarsi e suo Maestro
È ben vero che oltre alla detta,
molt'altre esperienze adduce il Sarsi: tra le quali, e per riverenza e per
religiosa pietà e per esser ella di suprema autorità, debbo
primieramente far considerazione sopra quella che il medesimo Sarsi ripone nel
primo luogo, pigliandola dalle Sacre Lettere. Dove, insieme co 'l signor Mario,
noto le parole della Scrittura precedenti alle citate dal Sarsi, le quali mi
par che dicano che avanti che il re vedesse l'angelo e i tre fanciulli camminar
per la fornace, le fiamme fussero state rimosse; ché tanto mi par che importino
le parole del Sacro Testo, che son queste: “Angelus autem Domini descendit cum
Azaria et sociis eius, et excussit flammam ignis de fornace, et fecit medium
fornacis quasi ventum roris flantem.” È noto, che dicendo la Scrittura
“flammam ignis”, par che voglia far distinzione tra la fiamma e 'l fuoco; e
quando poi più a basso si legge che il re vede caminar le quattro
persone, si fa menzione del fuoco, e non della fiamma: “Ecce ego video quatuor
viros solutos et ambulantes in medio ignis.” Ma perché io potrei grandemente
ingannarmi nel penetrare il vero sentimento di materie che di troppo
grand'intervallo trapassano la debolezza del mio ingegno, lasciando cotali
determinazioni alla prudenza de' maestri in divinità, anderò
semplicemente discorrendo tra queste inferiori dottrine, con protesto d'esser
sempre apparecchiato ad ogni decreto de' superiori, non ostante qualsivoglia
dimostrazione ed esperimento che paresse essere in contrario.
E ritornando all'esperienze del Sarsi,
per le quali ei ci fa vedere trasparir per varie fiamme diversi oggetti, dico
che posso liberamente concedergli, tutto questo esser vero, ma di nessuno
sollevamento alla sua causa: per lo stabilimento della quale non basta che la
fiamma interposta sia profonda un dito, e che gli oggetti altrettanto vicini
gli sieno, né molto più lontano il riguardante, o vero che gli oggetti
sieno dentro alle stesse fiamme ed anco nella parte bassa, pochissimo lucida;
ma ha di bisogno (altrimenti resterà a piè) di farci toccar con
mano ch'una fiamma, ancor che profonda centinaia e centinaia di braccia e
lontanissima dal riguardante e da gli oggetti visibili, non però ce
n'impedisca la veduta; ch'è quanto se dicessimo, che gli faccia di
mestier provare che la fiamma arrechi assai meno impedimento che se fusse altrettanta
nebbia, la qual nebbia è tale, che trapostane non solo alla grossezza
d'un dito, ma di quattro e sei braccia, non arreca impedimento veruno, ma in
profondità di 100 o 200 asconde l'istesso Sole, non che le stelle. E
finalmente, io non mi posso contener di rivolgermi un poco al medesimo Sarsi,
che si stupisce del mio inescusabil mancamento nell'uso dell'esperienze. Voi
dunque, signor Sarsi, mi tassate per cattivo sperimentatore, mentre
nell'istesso maneggio errate quanto più gravemente errar si possa? Voi
avete bisogno di mostrarci che la fiamma interposta non basta, contro alla
nostra asserzione, ad occultarci le stelle, e per convincerci con esperienze
dite che provando noi a riguardar uomini, tizzoni, carboni, scritture e candele
posti oltre alle fiamme, sensatamente gli vederemo: né mai v'è venuto in
pensiero di dirci che noi proviamo a guardar le stelle? e perché, in buon'ora,
non ci avete voi detto alla bella prima: Interponete una fiamma tra l'occhio e
qualche stella, ché voi né più né meno la vederete? Mancano forse le
stelle in cielo? e questo è esser destro ed avveduto sperimentatore? Io
vi domando se la fiamma della cometa è come le nostre, o d'altra natura.
Se d'altra natura, l'esperienze fatte nelle nostre non ànno forza di
concludere in quella: se è come le nostre, potevate immediatamente farci
veder le stelle per le nostre, lasciando stare i tizzoni, funghi e l'altre
cose; e quando dite che dopo la fiammella d'una candela si scorgono i
caratteri, potevate dire che si scorge una stella. Signor Sarsi, chi volesse
trattarla con voi, come si dice, mercantilmente, cioè con una bilancia
sottilissima e giustissima, direbbe che voi foste in obligo di fare accendere
una fiamma lontanissima e grandissima quanto la cometa e farci per essa veder
le stelle, atteso che e la grandezza della fiamma e la lontananza dell'occhio
da quella importano assaissimo in questo fatto e se ne deve tener gran conto:
ma io, per farvi ogni agevolezza e vantaggio, mi voglio contentare d'assai
meno, e voglio prepararvi mezi accommodatissimi per vostro bisogno. E prima,
perché l'essere la fiamma vicina all'occhio importa assai per vedere gli
oggetti meglio, in vece di porla remota quanto la cometa, mi contento d'una
distanza di cento braccia solamente: in oltre, perché la profondità e
grossezza del mezo similmente importa assaissimo, in vece della grossezza della
cometa, ch'è, come sapete, tante centinaia di braccia, mi basta quella
di dieci solamente: in oltre, perché l'esser l'oggetto, che si ha da vedere, lucido
arreca parimente vantaggio grandissimo, come voi medesimo affermate, mi
contento che tale oggetto sia una stella di quelle che si vider per la chioma
della nostra cometa, le quali stelle, per vostro detto in questo luogo, sono di
gran lunga più chiare di qualsivoglia fiamma: e poi, se con tutti questi
tanto per la causa vostra vantaggiosi apparecchi voi fate vedere per la
trasparenza di cotal fiamma la stella, voglio confessarmi per convinto e
predicar voi pel più cauto e sottile sperimentatore del mondo; ma non vi
succedendo, non ricerco altro da voi se non che col silenzio ponghiate fine
alle dispute, come spero che siate per fare: perché se mai v'accaderà di
veder questa mia scrittura, la qual rimane nell'arbitrio di questo Signore, a
chi scrivo, di mostrarla a chi più gli piacerà, vederete come
deve fare chi si piglia per impresa di volere essaminar gli altrui
componimenti, ch'è non lasciar cosa veruna senza considerarla, e non
(come avete fatto voi) andar a guisa della gallina cieca dando or qua or
là tanto del becco in terra, che s'incontri in qualche grano di miglio
da morderlo e roderlo.
E per finir questa parte, non potete
negar d'aver voi medesimo compreso e confessato che dalle fiamme interposte
qualche sensibile impedimento anco per l'occhio vostro ne deriva; imperò
che se niente assolutamente d'offuscamento arrecassero, senz'altri avvertimenti
e cautele, d'esser gli oggetti più o men lontani dalla fiamma,
più o men lucidi, ed esse fiamme nate più da zolfo o d'acquavite
che da paglia o da cera, avreste risolutamente detto: “Sia la fiamma e
l'oggetto qualunque si voglia, nessuno impedimento ne nasce, ma si vede come
per l'aria libera e pura”: ed oltre a questo, poco più a basso parlando
delle cose che non risplendono per se stesse, come le fiamme, ma sono illuminate
da altri, dite che queste ancora impediscono la vista degli oggetti, dove la
particola ancora mostra che voi concedete qualche impedimento nelle
fiamme. Ma che più? se elle non punto impedissero, a chi mai sarebbe
caduto in pensiero di dire ch'elle non sieno trasparenti? Ci è dunque,
anco per voi stesso, qualche sensibil offuscazioncella (dico per voi stesso,
perché per noi e gli altri l'impedimento è assai grande), e le vostre
esperienze son fatte intorno a fiammelle così piccole, che
risolutissimamente l'impedimento d'altrettanta nebbia sarebbe stato del tutto
insensibile; adunque le vostre fiamme impediscono più che altrettanta
nebbia: ma tanta nebbia quanta è la profondità della cometa, vela
e totalmente toglie la vista del Sole; adunque, quando la cometa fusse una
fiamma, dovrebbe esser bastante ad asconderci il Sole, non che le stelle: le
quali ella non asconde; adunque non è una fiamma.
E perché quanto per sostenere un falso
sono scarsi tutti i partiti, tanto per istabilimento del vero soprabondano i
contrari veri, io voglio accennare a V. S. Illustrissima certo particolare per
lo quale mi par che si confermi, l'opinion d'Aristotile esser falsa. Avvenga
che natura di tutte le fiamme conosciute da noi è di dirizzarsi all'in
su, restando il lor principio e capo nella parte inferiore, se la barba della
cometa fusse una fiamma ed il suo capo fusse la materia ond'ella traesse
origine, bisognerebbe che la chioma direttamente si dirizzasse verso il cielo;
dal che ne seguirebbe una delle due cose, cioè o che la chioma si
vedesse sempre a guisa di ghirlanda intorno al capo (il che sarebbe quando il
luogo della cometa fusse altissimo), o vero (e questo accaderebbe quand'ella
fusse poco lontana da terra) bisognerebbe che, nel nascere, prima nascesse
l'estremità della barba, ed in ultimo il capo, ed alzandosi verso il
mezo del cielo, quanto più il capo fusse vicino al nostro zenit, tanto
la barba dovrebbe apparire più breve, e nel vertice stesso dovrebbe
apparir nulla o circondante il capo intorno intorno, e finalmente nell'andar
verso l'occaso la barba dovrebbe parere rivolta al contrario, sì che il
capo si vedesse inclinare all'occidente prima di lei; altramente, quando la barba
andasse avanti come nel nascere, converrebbe che la fiamma, contro alla sua
naturale inclinazione e contro a quello che faceva quand'era nelle parti
orientali, risguardasse all'ingiù. Ma tali accidenti non si veggono
nella cometa e suo movimento; adunque non è una fiamma.
“Illud etiam omitti non debet, eodem,
quo Aristotelem urget, argumento Galilæum premi. Sic enim ille:
"Flammæ perspicuæ non sunt; cometæ autem coma perspicua
est; ergo flamma non est." At ego adversus Galilæum sic: Luminosa
perspicua non sunt; cometæ coma perspicua est; ergo luminosa non est.
Esse autem perspicuam indicant stellæ, eius interpositu nulla ex parte
celatæ. Præterea, comam hanc luminosam esse asserit idem
Galilæus, dum illam ex illuminato vapore existere contendit; vapor enim
illuminatus corpus est luminosum. Neque dicat, loqui se de luminosis nativo ac
proprio lumine fulgentibus, non autem de iis quæ lumen aliunde accipiunt.
Nam hæc etiam rerum ultra ipsa positarum aspectum impediunt: si enim pila
aliqua vitrea, aut amphora, vino aut re alia quacumque plena fuerit, et lumini
exponatur, iis tantum partibus ex quibus lumen non reflectit nec illuminata
comparet, vinum ostendet; ea vero parte qua lumen ad oculum remittit, nil nisi
lucidum quid et candens spectandum offeret. Idem in aquis etiam a Sole
illuminatis accidit, in quibus pars illa qua Sol ad oculum reflectitur, nihil
ultra se positum videri patitur; reliquæ vero partes lapillos atque
herbas in fundo subsidentes ostendunt. Quare illuminatorum etiam corporum erit,
ulteriora obiecta velare ne videantur; atque hæc etiam luminosa dici
poterunt. Si ergo hæc apud Galilæum nullam admittunt
perspicuitatem, per cometæ barbam, vel luminosam vel illuminatam, stellas
videre non possumus: at potuimus tamen: ergo et illuminata fuit cometæ
barba, et perspicua.
Hæc ego omnia eo libentius
affero, quod ea facile quivis intelligat, cum non ex illis linearum atque
angulorum tricis pendeant, ex quibus non omnes æque facile se expedire
norunt; hic enim si quis oculos habeat, ingenii etiam huic abunde erit.”
Qui, com'ella vede, vuol il Sarsi
ritorcere il mio medesimo argomento contro di me; ma quanto felicemente questo
gli succeda, anderemo brevemente essaminando. E prima, noto com'egli, per
effettuar questa sua intenzione, incorre in qualche contradizzione a se
medesimo, e, quello di che più mi meraviglio, senza necessità. Di
sopra, perché così compliva alla sua causa, fece ogni sforzo di provar
come le fiamme sono trasparenti, sì che per esse si possono veder le
stelle; qui, per convincermi colle mie armi, avendo egli bisogno che i corpi
luminosi non sieno trasparenti, si mette a provare così essere con molte
esperienze; onde pare che e' voglia che i corpi luminosi sieno e non sieno
trasparenti secondo che ricerca il bisogno suo: ed in questo inconveniente
cad'egli senza necessità alcuna, atteso che, senza dar pur ombra di
contradizzione col mostrar di voler ora quello che poco fa aveva negato,
bastava ch'ei dicesse (senza porsi egli stesso a dimostrarlo) che noi medesimi
avevamo affermato generalmente, i corpi luminosi non esser trasparenti: né
aveva occasione di temer ch'io fossi per venire a distinzioni di luminosi per
sé o per altri, imperò che io ho sempre creduto che tal ricorso non
serva se non per quelli che da principio non si son saputi ben dichiarare; e se
il signor Mario avesse fatto differenza tra questi corpi e quelli, si sarebbe
dichiarato a tempo, e non avrebbe aspettato che l'avversario l'avesse avuto a
fare accorto del suo mancamento. Dico dunque ch'è verissimo che qualunque
illuminazione, o propria o esterna, impedisce la trasparenza del corpo
luminoso; ma non bisogna, signor Sarsi, che voi intendiate che dicendo noi
così, vogliamo inferire che per ogni minima luce il corpo che la riceve
debba divenir così opaco com'è una muraglia, ma che secondo la
maggiore o minor lucidità perda più o meno della trasparenza: e
così veggiamo nel principio dell'aurora, secondo che la region vaporosa
comincia a participare un pochetto di lume, perdersi le minori stelle; dapoi,
crescendo lo splendore, perdersi anco le maggiori; e finalmente, nella massima
illuminazione, celarsi quasi la Luna stessa. In oltre, quando per qualche
rottura di nuvole noi veggiamo scendere sino in Terra quei lunghissimi raggi di
Sole, se voi porrete ben cura, vedrete notabil differenza circa lo scorgere le
parti d'un monte opposto: imperò che quelle che sono oltre a i raggi
luminosi si scorgono più offuscate dell'altre laterali, che non vengono
da essi raggi traversate. E così parimente, scendendo un raggio di Sole
per qualche finestrella in una stanza ombrosa, come tal or si vede per qualche
vetro rotto in alcuna chiesa, tutti gli oggetti opposti, in quella parte dove
il raggio gli traversa, si veggono meno distintamente, mentre però il
riguardante sia in luogo onde ei vegga il raggio luminoso distinto, il che non
avviene da tutti i siti indifferentemente. Ora, stanti queste cose vere, dico
(e così si è sempre detto) potere esser che la materia della
cometa sia assai più sottil dell'aria vaporosa, e meno atta ad illuminarsi,
ché così ne persuade il vederla noi sparir nell'aurora e nel crepuscolo,
trovandosi il Sole ancora assai sotto l'orizonte; sì che, quanto alla
lucidità, non ci è ragione perch'ella debba asconderci le stelle
più della region vaporosa. Quanto poi alla profondità, prima, la
region vaporosa è grossa molte miglia; dipoi, noi non siamo in
necessità di por la barba della cometa di smisurata profondità,
non avendo determinato né quanto sia il diametro del capo, né s'egli è rotondo,
né quanta sia la lontananza. Con tutto ciò, quando anco altri volesse
porla profonda 8 o
“Illud præterea a Galilæo
Aristoteli obiicitur, male illum ex cometis prædicere, annum fore non
admodum pluvium, sed siccum potius, ventorum etiam ingentem vim ac Terræ
motus portendi. Cum enim, inquit, cometæ nihil aliud Aristoteli sint nisi
ignes, huiusmodi exhalationum veluti eluones voracissimi, si nullas reliquias
ab iisdem relinquendas dixeris, longe sapientius pronunciaris. Sed ego longe
aliter sentiendum existimo. Nam si qua in urbe per fora ac vias magnam frumenti
vim dispersam negligenter haberi, aut si forte vilissima quæque capita ac
plebeculæ sordes opipare semper epulari videas; an non inde tantam rei
frumentariæ ac totius annonæ facultatem sapienter arguas, ut nulla
ibidem in longum tempus metuenda sit inopia? Ita plane dicendum. Atqui halituum
sedes angustis ut plurimum terminis, ac veluti in horreo frumentum, includitur;
neque ad illas plagas, quibus vorax flamma dominatur, facile producitur, nisi
quando eorumdem ingens copia inferioribus sedibus capi non potest, aut forte
iidem, sicciores ac rariores effecti, omnem aqueam exuerint qualitatem. Quare
non inepte Aristoteles ex cometis, hoc est ex huiusmodi exhalationibus ad ignem
usque, adeo non parce sed affluenter, productis, intulit, inferiora hæc
omnia iisdem maxime abundare. Neque hinc sequitur, ab eo igne nullas eorumdem
halituum reliquias relinquendas: is enim ea tantum absumit, quæ supra non
capaces inferioris sedis angustias ad ignis plagam elevantur; qui postea ignis
non in alienas regiones irrumpit, sed suo semper fixus in regno ea sibi vindicat
quæ propius ad illum accesserint aut, quasi ab humidioribus
impressionibus transfuga, ad illum defecerint: et propterea potuit Aristoteles
hinc etiam ventos, sicciorem anni temperiem, aliaque huiusmodi
prænunciare. De nostro certe cometa si quis tale aliquid
prædixisset, potuisset ab eventu ipso id egregie confirmare; nam et annus
siccior solito extitit, insolentes ventorum vehementesque flatus experti sumus,
Terræ motibus magna Italiæ pars concussa, idque alicubi non parvo
urbium atque oppidorum damno. Quid igitur? an non sapienter ut, alia multa,
hæc etiam Aristoteles enunciavit?”
L'essempio in virtù del quale
crede il Sarsi di poter difendere Aristotile e mostrar l'obiezzione del signor
Mario invalida, a me par che non molto s'assesti al caso essemplificato. Che il
veder per le strade e per le piazze copia di biade arguisca esser di quelle
maggiore abbondanza che quando non se ne veggono, ha molto ben del ragionevole,
imperò che è in potere ed in arbitrio de i padroni l'esporle ed
il celarle, e, di più, il farne mostra non le consuma o diminuisce
punto; i quali due particolari non ànno luogo nel caso della cometa. E
per avventura essempio più proporzionato sarebbe se alcuno dicesse in
cotal modo: che l'isola Cuba abbondi di cinnamomi e cannelle, ce ne sia
grand'argomento il sapere che gl'isolani fanno fuoco di quelle continuamente.
Il discorso è concludente, perché, essendo in arbitrio loro l'arderle o
no, quando ne avesser penuria l'userebbon per condimento solamente, come noi.
Ma quando venisse avviso che i mesi passati per certo accidente si fusse
attaccato fuoco nella gran selva de' cinnamomi, e che gl'isolani non furono
potenti ad estinguer le fiamme, ritrovandosi in questo tempo assai lontani dal
luogo, sì ch'ella irreparabilmente arse; se alcun mercante da tale
accidente insolito volesse a i nostri aromatarii pronosticare una straordinaria
abbondanza, poi che, dove per l'ordinario se ne abbruciano a fascetti, questa
volta si è fatto a boscaglie intere; io credo ch'ei verrebbe reputato
persona molto semplice: e quello che vedendo dalle fiamme divorar le biade
mature della sua possessione, si rallegrasse e si promettesse d'essere per
empire assai più del solito i suoi granai, poi che ve n'è da
abbruciare a moggia, credo che sarebbe tenuto stolto affatto. La materia di che
si fa la cometa o è della medesima di che si producono i venti, o
è diversa: se è diversa, non si può dalla copia di quella
arguire abbondanza di questa, più che se alcuno dal veder molt'uva si
promettesse gran ricolta d'olio; se è dell'istessa, attaccato che vi sia
il fuoco, arderà tutta.
“Quid porro ex his omnibus inferri non
immerito possit, non ex me, sed ex Galilæo ipso, audiendum censeo. Ille
enim, cum sua hæc experimenta exposuisset, addidit: "Hæc
nostra sunt experimenta, nostræ hæ conclusiones, ex nostris
principiis nostrisque opticis rationibus deductæ. Si falsa experimenta,
si vitiosæ fuerint rationes, infirma ac debilia futura etiam sunt
dictorum nostrorum fundamenta." His ego nihil ultra addendum existimo.
Atque hæc illa sunt, quæ
mihi in hac disputatione, ob meam erga Præceptorem observantiam, dicenda
proposui: quibus ostendi certe conatus sum primum, iustam a Galilæo
(atque hic princeps fuit scribendi scopus) querelarum materiam Præceptori
meo, a quo ille perhonorifice semper est habitus, oblatam fuisse; deinde,
licuisse nobis, in edita illa Disputatione, per parallaxis ac motus cometici
observationes eiusdem cometæ a Terra distantiam metiri, atque ex tubo
optico, parvum admodum cometæ incrementum afferente, aliquid etiam
momenti rebus nostris accedere potuisse; præterea, non æque eidem
Galilæo licuisse, cometam e verorum luminum numero excludere, ac severas
adeo motus rectissimi leges eidem præscribere; ad hæc, constare ex
his, aërem ad cæli motum moveri, atteri, calefieri atque incendi posse,
ex motu per attritionem calorem excitari, nulla licet pars attriti corporis deperdatur,
aërem illuminari posse, quotiescunque crassioribus vaporibus admiscetur,
flammas lucidas simul esse atque perspicuas, quæ Galilæus ita se
habere negavit; falsa denique deprehensa experimenta illa, quibus fere unis
eiusdem placita nitebantur. Hæc autem innuere potius quam fusius
explicare volui, cum neque plura exigi viderentur, ut pateret omnibus, neque
ulli in Disputatione nostra a nobis iniuriam illatam, neque nos infirmis
rationibus ductos eam, quam proposuimus, sententiam cæteris omnibus
prætulisse.”
Qui, com'ella vede, il Sarsi fa due
cose: la prima contiene implicitamente il giudicio che altri deve fare della
debolezza de' fondamenti della nostra dottrina, appoggiandosi ella sopra
esperienze false e ragioni manchevoli, com'egli pretende d'aver dimostrato;
aggiunge poi, nel secondo luogo, un catalogo e racconto delle conclusioni
contenute nel Discorso del signor Mario e da sé impugnate e confutate.
In risposta alla prima parte, io, ad imitazion del Sarsi, liberamente rimetto
il giudicio da farsi circa la saldezza della nostra dottrina in quelli che
attentamente avranno ponderate le ragioni e l'esperienze dell'una e l'altra
parte; sperando che la causa mia sia per esser favoreggiata non poco dall'aver
io di punto in punto essaminato e risposto ad ogni ragione ed esperienza
prodotta dal Sarsi, dov'egli ha trapassata la maggior parte e la più
concludente di quelle del signor Mario. Le quali tutte io avevo fatto pensiero
(ed era in contracambio del catalogo del Sarsi) di registrar nominatamente in questo
luogo; ma postomi all'impresa, mi è mancato e l'animo e le forze,
vedendo che mi saria stato bisogno trascriver di nuovo poco meno che l'intero
trattato del signor Mario. Però, per minor tedio di V. S. Illustrissima
e mio, ho risoluto più tosto di rimetterla ad un'altra lettura di quello
stesso trattato.
IL FINE